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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di APRILE 2015

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aggiornamento al 30.04.2015

aggiornamento al 22.04.2015

aggiornamento al 09.04.2015

aggiornamento al 03.04.2015

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 30.04.2015

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NOVITA' NEL SITO

Inserito il nuovo bottone: dossier ATTI AMMINISTRATIVI: ACCESSO ESPOSTO e/o PERMESSO DI COSTRUIRE e/o ATTI DI P.G. (Polizia Giudiziaria).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Malattia in caso di visite, terapie e prestazioni specialistiche  - Ovvero quando le circolari vengono cassate dal Giudice (CGIL-FP di Bergamo, nota 23.04.2015).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 del 28.04.2015, "Modalità di aggiornamento dei dati relativi a reti e infrastrutture sotterranee, ai sensi dell’art. 42, comma 3, della l.r. 7/2012 così come modificato dall’art. 19, comma 1, della l.r. 19/2014 e disapplicazione della d.g.r. 21.11.2007, n. 5900 «Determinazioni in merito alle specifiche tecniche per il rilievo e la mappatura georeferenziata delle reti tecnologiche»" (deliberazione G.R. 24.04.2015 n. 3461).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Dipendenti pubblici iscritti agli albi - Contributo annuale iscrizione a carico della P.A. (Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, circolare 22.04.2015 n. 49).
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Riferimenti menzionati:
- Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 16.04.2015 n. 7776
- Consiglio di Stato, Sez. I, parere parere 15.03.2011 n. 1081

INCARICHI PROGETTUALIOggetto: chiarimenti sulle prestazioni occasionali  - nota MEF n. 4594/2015 (Cassa Italiana di Previdenza ed Assistenza dei Geometri Liberi Professionisti, nota 09.04.2015 n. 20511 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Legge 11.11.2014, n. 164 di conversione con modificazioni del D.L. 12.09.2014, n. 133 - art. 17, comma 1, lett. c), punto 3) - Ulteriori comunicazioni (Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, nota 05.03.2015 n. 2565 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: S. Calvetti, È davvero ammissibile il rinnovo “espresso” dei contratti pubblici? (Urbanistica e appalti n. 10/2014).
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Il rinnovo “espresso” dei contratti pubblici rimane un tema di grande attualità. La decisione in rassegna offre lo spunto per una riflessione dalla portata più generale circa l'effettiva sussistenza nel nostro ordinamento della possibilità di rinnovo “espresso” dei contratti pubblici. Possibilità che invero è stata posta in discussione dalla stessa giurisprudenza.
Non mancano infatti decisioni del Consiglio di Stato che addirittura considerano illegittime le clausole, dei bandi e dei capitolati, che espressamente prevedono (rectius: prevedevano) la possibilità del rinnovo. Fermo in ogni caso, e pacifico, il divieto di rinnovo “tacito”.

EDILIZIA PRIVATA: G. Manfredi, L’autotutela in edilizia (Urbanistica e appalti n. 10/2014).
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Il TAR Sardegna riprende un orientamento abbastanza diffuso nella giurisprudenza amministrativa recente, affermando che l’interesse che giustifica l’annullamento d’ufficio dei permessi di costruire corrisponde all’interesse al rispetto della disciplina urbanistica.
Questo orientamento è però da respingere, perché non è coerente con il disposto dell’art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990.

EDILIZIA PRIVATA: E. Boscolo, Motivazione dell’autorizzazione paesaggistica e attuazione del giudicato (Urbanistica e appalti n. 8-9/2014).
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In queste sentenze la VI Sezione del Consiglio di Stato delinea la griglia logica a cui deve conformarsi la motivazione delle autorizzazioni paesaggistiche e detta importanti principi in tema di esecuzione della sentenza di annullamento per carenza di motivazione: per un verso, viene confermato che lo ius superveniens vincola l’amministrazione in sede di riesercizio del potere, per altro verso, si conferma che –pur a fronte della rilevanza non meramente formale della motivazione– l’accoglimento del vizio di carenza di motivazione lascia integra la possibilità di riemanazione di nuove autorizzazioni sulla base dei segmenti conoscitivo-decisori del procedimento non censurati dalla sentenza di annullamento.

EDILIZIA PRIVATA: S. Amorosino, Autorizzazioni paesaggistiche: obbligo di parere motivato e costruttivo. Il D.L. 83/2014 modifica l’art. 146 del Codice (Urbanistica e appalti n. 7/2014).
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In assenza di piani paesaggistici regionali adeguati al modello dettato dall’art. 143 del Codice dei beni culturali e del paesaggio e in presenza di vincoli paesaggistici quasi sempre “nudi”, perché privi di una specifica disciplina delle aree vincolate, le amministrazioni di tutela preposte al rilascio delle autorizzazioni, ed in particolare le Soprintendenze, il cui parere è vincolante, hanno un potere discrezionale eccessivamente ampio.
Di conseguenza tale potere deve essere bilanciato dall’obbligo di motivare in modo analitico e specifico le decisioni adottate nei singoli casi, al fine di consentire al giudice amministrativo di verificarne la logicità, ragionevolezza e proporzionalità.
Inoltre le amministrazioni preposte alla tutela, in ossequio ai principi di collaborazione tra amministrazioni e di leale interlocuzione con i cittadini (correttezza procedimentale), nel caso di valutazioni negative hanno il dovere di formulare specifiche indicazioni volte a rendere il progetto di intervento assentibile (cd. dissenso costruttivo).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATABonus mobili, detrazioni per ristrutturazioni, mutui... Ecco i nuovi chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate.
Arrivano i nuovi chiarimenti su detrazioni fiscali, spese sanitarie, interessi passivi e tanto altro.
Tutti i dubbi e le incertezze in tema di bonus ristrutturazioni sono stati raccolti in una sola Circolare contenente i chiarimenti che l'Agenzia delle Entrate ha fornito sulle varie questioni interpretative in materia di Irpef prospettate dai Caf e da altri soggetti.

La circolare 24.04.2015 n. 17/E dell’Agenzia delle Entrate affronta e chiarisce varie questioni interpretative riguardanti le detrazioni fiscali, gli oneri deducibili, i redditi da lavoro dipendente e le imposte indirette, in merito a:
- spese sanitarie
- spese di istruzione
- recupero del patrimonio edilizio
- detraibilità interessi di mutuo e trasferimento all’estero
- detrazione per l’acquisto di mobili e successione
- credito d’imposta riacquisto prima casa
- altre questioni
Ordinante del bonifico diverso dal beneficiario della detrazione
L’Agenzia delle Entrate ha chiarito che è possibile usufruire regolarmente del bonus fiscale anche se l’ordinante del bonifico è diverso dal beneficiario. In tal caso è necessario che dal bonifico emerga in modo chiaro chi è il soggetto che usufruisce della detrazione, con l’esplicita indicazione del codice fiscale.
Nuove detrazioni su immobili che hanno già goduto del beneficio
Chi ha usufruito già della detrazione fiscale per un intervento di ristrutturazione edilizia può nuovamente accedere al beneficio se intraprende dei nuovi lavori di riqualificazione.
Per avere diritto alla detrazione completa sullo stesso immobile, ossia ancora una volta con il limite di spesa pari a 96.000 euro, la nuova ristrutturazione deve configurarsi come un intervento autonomo e non la prosecuzione di quello per cui si è già usufruito del bonus. L’autonomia dell’intervento emerge, oltre che da elementi di fatto (titolo abilitativo, collaudo dell’opera e dichiarazione di fine lavori), anche dall’autonoma certificazione dei lavori.
In caso di prosecuzione di una precedente ristrutturazione, il limite di spesa per i nuovi lavori non sarà più pari a 96.000 euro, ma si dovranno detrarre le somme già spese.
Beneficiario che lascia in eredità l’immobile
Infine è stato affrontato il caso di trasferimento mortis causa della titolarità dell'immobile sul quale sono stati realizzati interventi di recupero edilizio negli anni precedenti.
In caso di trasferimento dell’immobile, su cui sono già stati effettuati gli interventi di ristrutturazione per cui si sta usufruendo della detrazione fiscale, l’erede ha diritto al rimborso delle rate rimanenti, a condizione che abbia “detenzione materiale e diretta del bene”, ossia la disponibilità immediata del bene per tutta la durata del rimborso. Pertanto, se l’erede concede l’immobile in comodato o in locazione perderà il diritto a percepire la detrazione fiscale rimanente.
Per continuare ad usufruire del bonus fiscale non è invece rilevante che l’immobile sia destinato ad abitazione principale dell’erede.
Bonus mobili ed eredità dell’immobile
Diversamente da quanto accade per le detrazioni sulle ristrutturazioni, l’erede non ha diritto a subentrare al bonus mobili.
Nonostante la detrazione del 50% sull’acquisto di mobili e grandi elettrodomestici nel limite di 10 mila euro presupponga la fruizione della detrazione sugli interventi di recupero del patrimonio edilizio, si tratta di 2 agevolazioni differenti e regolate da norme diverse, che per gli arredi non prevedono il trasferimento mortis causa del bonus (29.04.2015 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROSicurezza nei cantieri stradali: arriva il manuale operativo.
Facendo Strada” è il nuovo manuale operativo che Friuli Venezia Giulia Strade S.p.A. ha realizzato per la gestione e la manutenzione delle strade, allo scopo di migliorare le condizioni di sicurezza dei propri dipendenti durante lo svolgimento dell'attività lavorativa.
Il manuale contiene le modalità operative, con riferimento agli specifici interventi, da adottare per tutto il personale che opera lungo le strade, al fine di migliorare le condizioni di sicurezza per i lavoratori (D.Lgs. 81/2008).
La pubblicazione contiene:
- indicazioni generali sui cantieri
- procedure operative ordinarie (vengono individuate le caratteristiche delle diverse attrezzature utilizzate e i Dispositivi di protezione individuale, DPI, da adottare prima, durante e dopo l'attività)
- procedure per i lavori in galleria
- indicazioni sul servizio di sorveglianza H24
- procedure di emergenza
Inoltre sono presenti 4 allegati relativi a :
 -organizzazione della sicurezza
- riferimenti normativi e bibliografici
- mezzi e attrezzature
- modulistica da adottare (29.04.2015 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATADetrazione 65% e schermature solari, la guida Federlegno.
Il vademecum di Federlegno elenca le tipologie di schermature solari che beneficiano dell’ecobonus 65%.
La Legge di Stabilità 2015 (Legge 190/2014) ha prorogato l'agevolazione del 65% a tutto il 2015 e l’ha estesa anche all’acquisto e alla posa in opera di schermature solari.
FederlegnoArredo ha pubblicato una breve guida che spiega come individuare correttamente la tipologia di prodotti che possono essere installati per usufruire dell'ecobonus del 65%.
Il documento contiene utili suggerimenti per consumatori, rivenditori e operatori del settore per la corretta applicazione della normativa e su come procedere passo passo per ottenere il beneficio.
Vengono definiti tutti i prodotti che possono rientrare nel bonus, come ad esempio i vari tipi di tendaggio e anche le zanzariere. Non sono detraibili, invece, quelle schermature aggettanti poste con orientamento a nord e che non sono conformi alle finalità della norma (ad esempio soluzioni fisse che non garantirebbero al sistema schermo-intercapedine-serramento il contributo energetico delle stagioni invernali). Sono escluse anche le tende decorative.
In particolare, gli argomenti trattati sono:
- introduzione e valore della normativa
- definizione di schermatura solare e suo campo di applicazione
- beneficiari della misura fiscale e procedure amministrative
- suggerimenti
- FAQ (29.04.2015 - link a www.acca.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI SERVIZI: Ammissibilità dell'affidamento di contratti pubblici ad associazioni.
I princìpi desumibili dalla disciplina comunitaria impongono di interpretare in senso estensivo l'elencazione dei soggetti a cui possono essere affidati contratti pubblici, recata dall'art. 34, c. 1, del D.Lgs. 163/2006.
Deve, quindi, ritenersi ammissibile la partecipazione alle relative gare di soggetti che -indipendentemente dalla propria veste giuridica e a prescindere dallo scopo di lucro- possiedano i requisiti richiesti dal bando di gara per l'esecuzione del contratto.

Il Comune ha indetto una procedura aperta per l'affidamento, con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, della gestione di un rifugio alpino, indicando espressamente, nella lex specialis di gara, la tipologia dei soggetti ammessi a parteciparvi
[1].
Poiché l'Ente ha disposto l'aggiudicazione provvisoria a favore di un'associazione culturale di promozione sociale, ma si è poi avveduto che tale veste giuridica non risulta tra quelle indicate nella previsione del bando di gara, esso chiede di conoscere se, in via di autotutela, possa provvedere, prima di dichiarare l'aggiudicazione definitiva, ad escludere l'associazione in questione dalla procedura concorsuale, «per carenza dei requisiti espressamente previsti dal bando approvato e dalla norma di riferimento art. 34 del D.Lgs 163/2006».
L'art. 34, comma 1
[2], del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, dispone che sono ammessi a partecipare alle procedure di affidamento dei contratti pubblici i soggetti ivi elencati (il cui novero risulta più ampio rispetto alla previsione comunale), salvo i limiti espressamente indicati.
La formulazione testuale della norma di legge (che contiene l'inciso «i seguenti soggetti») ha favorito il formarsi di un orientamento giurisprudenziale restrittivo, volto ad escludere dalle gare alcune figure, in quanto non espressamente contemplate dalla disposizione, ancorché esse fossero qualificabili come operatori economici, ai sensi delle direttive europee (ad es. enti pubblici non economici, fondazioni, enti no profit, imprese sociali, associazioni, ecc.).
La giurisprudenza più recente ha, però, mutato posizione, ritenendo che l'elencazione contenuta nell'art. 34 del D.Lgs. 163/2006 non possa considerarsi tassativa, atteso che:
- la disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici prevede che «I termini 'imprenditore', 'fornitore' e 'prestatore di servizi' designano una persona fisica o giuridica o un ente pubblico o un raggruppamento di tali persone e/o enti che offra sul mercato, rispettivamente, la realizzazione di lavori e/o opere, prodotti o servizi», specificando che «Il termine 'operatore economico' comprende l'imprenditore, il fornitore e il prestatore di servizi»
[3];
- il D.Lgs. 163/2006, conformemente alle predette previsioni, fornisce analoghe nozioni di imprenditore, fornitore e prestatore di servizi e riconduce anch'esso tali soggetti al concetto di 'operatore economico'
[4].
La lettura ermeneutica estensiva, secondo cui il soggetto abilitato a partecipare alle gare pubbliche è l''operatore economico' che offre sul mercato lavori, forniture o servizi, secondo un principio di libertà di forme, risulta coerente con l'indirizzo assunto dalla giurisprudenza comunitaria, la quale sancisce che:
- per 'impresa', pur in mancanza di una sua definizione nel Trattato, va inteso qualsiasi soggetto che eserciti attività economica, a prescindere dal suo stato giuridico e dalle sue modalità di finanziamento
[5];
- costituisce attività economica qualsiasi attività che consiste nell'offrire beni o servizi su un determinato mercato
[6];
- l'assenza di fine di lucro non esclude che un soggetto giuridico che esercita un'attività economica possa essere considerato impresa
[7];
- la nozione di 'operatore economico', contenuta nelle direttive sugli appalti (nozione che comprende ogni «persona fisica o giuridica o un ente pubblico o un raggruppamento di tali persone e/o enti che offra sul mercato, rispettivamente, la realizzazione di lavori/opere, prodotti o servizi»), va interpretata nel senso di consentire la partecipazione alle gare anche a soggetti che:
- non perseguono un preminente scopo di lucro,
- non dispongono della struttura organizzativa di un'impresa,
- non assicurano una presenza regolare sul mercato
[8].
Il giudice sovranazionale afferma, in sintesi, che «sia dalla normativa comunitaria sia dalla giurisprudenza della Corte risulta che è ammesso a presentare un'offerta o a candidarsi qualsiasi soggetto o ente che, considerati i requisiti indicati in un bando di gara, si reputi idoneo a garantire l'esecuzione di detto appalto, in modo diretto oppure facendo ricorso al subappalto, indipendentemente dal fatto di essere un soggetto di diritto privato o di diritto pubblico e di essere attivo sul mercato in modo sistematico oppure soltanto occasionale, o, ancora, dal fatto di essere sovvenzionato tramite fondi pubblici o meno»
[9].
I giudici comunitari sostengono, dunque, il principio della massima apertura delle gare pubbliche (favor partecipationis)
[10], il quale prevale su qualsiasi disposizione nazionale che precluda la partecipazione a soggetti privi di specifiche forme.
Rileva, infatti, la Corte di giustizia che «secondo una giurisprudenza consolidata, il giudice nazionale è tenuto a dare a una disposizione di diritto interno, avvalendosi per intero del margine di discrezionalità consentitogli dal suo ordinamento nazionale, un'interpretazione ed un'applicazione conformi alle prescrizioni del diritto comunitario. Se una siffatta applicazione conforme non è possibile, il giudice nazionale ha l'obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che quest'ultimo conferisce ai singoli, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno»
[11].
All'impostazione tracciata dalla giurisprudenza comunitaria aderisce il Consiglio di Stato
[12], il quale sostiene che l'elencazione recata dall'art. 34 del D.Lgs. 163/2006 non può ritenersi tassativa ed afferma che:
- è legittima la partecipazione di una fondazione ad una gara per l'aggiudicazione di un contratto pubblico, considerata la rispondenza di tale soggetto giuridico alla nozione di 'operatore economico' e restando irrilevante l'assenza dello scopo di lucro, posto che la definizione comunitaria di 'impresa' non si fonda su presupposti soggettivi, quali la pubblicità dell'ente o l'assenza di lucro, ma su elementi oggettivi, quali l'offerta di beni o servizi da scambiare con altri soggetti;
- non si può escludere che anche soggetti economici senza scopo di lucro, quali le fondazioni, siano in grado di soddisfare i necessari requisiti ed essere qualificati come 'imprenditori', 'fornitori' o 'prestatori di servizi' ai sensi delle disposizioni vigenti in materia, purché si tratti di soggetti che possono esercitare anche attività d'impresa, qualora funzionale ai loro scopi, e sempre che tale possibilità trovi riscontro nella disciplina statutaria del singolo soggetto giuridico
[13];
- il regime fiscale di favore di cui gode una fondazione non incide sulla dinamica concorrenziale, perché esso assiste anche altri soggetti, quali le cooperative, senza che si possa sostenere che esse siano escluse dagli appalti pubblici, o le Onlus
[14], che possono essere ammesse alle gare pubbliche quali 'imprese sociali' [15].
Anche l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp)
[16] condivide le suesposte considerazioni, ai fini dell'interpretazione estensiva dell'art. 34 del D.Lgs. 163/2006.
Tra i diversi interventi dell'Avcp sull'argomento
[17] si richiama, soprattutto, la determinazione n. 7 del 21.10.2010, volta a chiarire dubbi interpretativi circa la disciplina dettata dall'art. 34 del D.Lgs. 163/2006 e, in special modo, la possibilità di ammettere, alle gare per l'aggiudicazione dei contratti pubblici, soggetti giuridici diversi da quelli ivi elencati, con la quale vengono fornite, alle stazioni appaltanti, indicazioni applicative di carattere generale, anche alla luce della recente giurisprudenza comunitaria in materia.
Conclusivamente, si ritiene di poter affermare che la disposizione della lex specialis adottata dal Comune debba essere interpretata conformemente ai princìpi sanciti dal giudice comunitario e da quello nazionale: pertanto, non sembrano ricorrere gli estremi per poter disporre l'esclusione dalla gara dell'associazione aggiudicataria.
---------------
[1] «Sono ammessi a partecipare alla gara, i concorrenti aventi i requisiti previsti dal capitolato approvato:
- imprese individuali;
- società commerciali;
- cooperative o consorzi;
- raggruppamento d'imprese ai sensi e con le modalità di cui al D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 art. 37.».
[2] «1. Sono ammessi a partecipare alle procedure di affidamento dei contratti pubblici i seguenti soggetti, salvo i limiti espressamente indicati:
a) gli imprenditori individuali, anche artigiani, le società commerciali, le società cooperative;
b) i consorzi fra società cooperative di produzione e lavoro costituiti a norma della legge 25.06.1909, n. 422, e del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14.12.1947, n. 1577, e successive modificazioni, e i consorzi tra imprese artigiane di cui alla legge 08.08.1985, n. 443;
c) i consorzi stabili, costituiti anche in forma di società consortili ai sensi dell'articolo 2615-ter del codice civile, tra imprenditori individuali, anche artigiani, società commerciali, società cooperative di produzione e lavoro, secondo le disposizioni di cui all'articolo 36;
d) i raggruppamenti temporanei di concorrenti, costituiti dai soggetti di cui alle lettere a), b) e c), i quali, prima della presentazione dell'offerta, abbiano conferito mandato collettivo speciale con rappresentanza ad uno di essi, qualificato mandatario, il quale esprime l'offerta in nome e per conto proprio e dei mandanti; si applicano al riguardo le disposizioni dell'articolo 37;
e) i consorzi ordinari di concorrenti di cui all'articolo 2602 del codice civile, costituiti tra i soggetti di cui alle lettere a), b) e c) del presente comma, anche in forma di società ai sensi dell'articolo 2615-ter del codice civile; si applicano al riguardo le disposizioni dell'articolo 37;
e-bis) le aggregazioni tra le imprese aderenti al contratto di rete ai sensi dell'articolo 3, comma 4-ter, del decreto-legge 10.02.2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.04.2009, n. 33; si applicano le disposizioni dell'articolo 37;
f) i soggetti che abbiano stipulato il contratto di gruppo europeo di interesse economico (GEIE) ai sensi del decreto legislativo 23.07.1991, n. 240; si applicano al riguardo le disposizioni dell'articolo 37;
f-bis) operatori economici, ai sensi dell'articolo 3, comma 22, stabiliti in altri Stati membri, costituiti conformemente alla legislazione vigente nei rispettivi Paesi».
[3] V. art. 1, comma 8, della direttiva 2004/18/CE.
[4] L'art. 3 del D.Lgs. 163/2006 dispone, infatti, che «I termini 'imprenditore', 'fornitore' e 'prestatore di servizi' designano una persona fisica, o una persona giuridica, o un ente senza personalità giuridica, ivi compreso il gruppo europeo di interesse economico (GEIE) costituito ai sensi del decreto legislativo 23.07.1991, n. 240, che offra sul mercato, rispettivamente, la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti, la prestazione di servizi» (comma 19) e che «Il termine 'operatore economico' comprende l'imprenditore, il fornitore e il prestatore di servizi o un raggruppamento o consorzio di essi» (comma 22).
[5] Corte di giustizia - Grande Sez., sent. 01.07.2008, causa C-49/07 e richiami ivi contenuti.
[6] Corte di giustizia - Sez. II, sent. 10.01.2006, causa C-222/04.
[7] Corte di giustizia - Sez. III, sent. 29.11.2007, causa C-119/06.
[8] Corte di giustizia - Sez. IV, sentt. 18.12.2007, causa C-357/06 e 23.12.2009, causa C-305-08.
[9] Corte di giustizia - Sez. IV, sent. 23.12.2009, causa C-305/08, cit..
[10] La Corte di giustizia afferma, infatti, che «uno degli obiettivi della normativa comunitaria in materia di appalti pubblici è costituito dall'apertura alla concorrenza nella misura più ampia possibile» (Sez. IV, sent. 13 dicembre 2007, causa C-337/06 e, in senso conforme, sent. 19 maggio 2009, causa C-538/07) e che tale apertura «è prevista non soltanto con riguardo all'interesse comunitario alla libera circolazione dei prodotti e dei servizi, bensì anche nell'interesse stesso dell'amministrazione aggiudicatrice considerata, la quale disporrà così di un'ampia scelta circa l'offerta più vantaggiosa e più rispondente ai bisogni della collettività pubblica interessata» (Sez. IV, sent. 23 dicembre 2009, causa C-305/08, cit.).
[11] Corte di giustizia - Sez. IV, sent. 18.12.2007, causa C-357/06, cit..
[12] V., in particolare, stante l'affinità della fattispecie al caso in trattazione, Sez. VI, sent. 16.06.2009, n. 3897, che ha ritenuto legittima l'aggiudicazione di una fornitura ad un'ATI, composta da un soggetto (fondazione) non contemplato tra quelli indicati nell'art. 34 del D.Lgs. 163/2006.
[13] Al riguardo, il TAR Lazio - Sez. III, sent. 14.01.2015, n. 539, precisa che «L'unico limite all'ammissibilità delle offerte di soggetti pubblici non imprenditori può semmai derivare, eventualmente, da clausole statutarie auto-limitative ovvero dallo statuto giuridico proprio di quel tipo di ente (sia esso pubblico o privato) sulla base delle normativa nazionale di riferimento: sarà cioè necessario effettuare, caso per caso, un esame approfondito dello statuto di tali persone giuridiche al fine di valutare gli scopi istituzionali per cui sono state costituite».
Si segnala che lo statuto dell'associazione cui il quesito fa riferimento annovera, tra gli scopi che essa si prefigge di perseguire, quello di «gestire rifugi alpini ed escursionistici» (art. 4) e prevede che, per raggiungere i propri scopi, l'associazione si giova di mezzi finanziari derivanti anche dalla predetta gestione (art. 5).
[14] Il Consiglio di Stato - Sez. VI, sent. 25.01.2008, n. 185, afferma la legittimità dell'aggiudicazione di un appalto di servizi a favore di una Onlus, per aver questa presentato l'offerta economicamente più vantaggiosa per l'amministrazione, «in quanto soggetto esente da Iva e quindi, tale da non far ricadere sull'amministrazione, consumatore finale, la predetta imposta».
[15] V. Consiglio di Stato - Sez. V, sent. 25.02.2009, n. 1128.
[16] Le cui funzioni sono attualmente esercitate dall'Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC).
[17] Deliberazione 18.04.2007, n. 119; pareri 23.04.2008, n. 127, 27.05.2010, n. 101 e 20.10.2011, n. AG 28/2011
(22.04.2015 - link a www.regione.fvg.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONEA decorrere dall’entrata in vigore (19.08.2014) degli artt. 13 e 13-bis del d.l. n. 90/2014, non è possibile riconoscere alcun incentivo per la redazione di atti di pianificazione, in virtù sia dell’abrogazione dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, sia dell’assenza di tale attività tra quelle incentivate dalla nuova disciplina dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006;
Per le attività affidate e compiute prima dell’entrata in vigore di tale norma, il riconoscimento dell’incentivo è possibile solo se la redazione degli atti di pianificazione risulti strettamente e direttamente connessa alla progettazione di opere pubbliche. L’ente, pertanto, valuterà se la fattispecie concreta risponde al criterio fissato nella deliberazione 15.04.2014 n. 7 della Sezione delle autonomie per dar corso all’erogazione dell’incentivo, nonché ai principi enunciati nella delibera della Sezione delle autonomie n. 11 in data 24.03.2015.
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A decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i Comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, devono fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno, incaricato di attività tecniche nell’ambito unicamente del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi e un accordo integrativo decentrato, da recepire nel predetto regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione.

Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale.

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Il Sindaco del Comune di Mogliano Veneto (TV), ai sensi dell'articolo 7, comma 8, della Legge 131/2003, formula a questa Sezione una richiesta di parere in merito alla corresponsione degli incentivi di progettazione spettanti per la redazione dell’attività pianificatoria afferente al Piano di Assetto del Territorio (P.A.T.) svolta e liquidata (ma non ancora pagata) prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 90/2014 convertito nella L. 114/2014.
Il Sindaco dà atto di conoscere sia il parere
di cui alla deliberazione 15.04.2014 n. 7 della Sezione Autonomie di questa Corte, sia il recente parere 19.09.2014 n. 183 della Sezione Emilia Romagna.
La richiesta di parere ha ad oggetto due diversi quesiti.
In primo luogo il Sindaco espone che alcuni dipendenti, incaricati della redazione del PAT, ai sensi dell’art. 92, c. 6, del D.Lgs. 163/2006 avendo terminato l’incarico con l’approvazione del Piano, avvenuta con delibera consiliare del 23/01/2014, chiedono l’erogazione del compenso sulla base del principio dell’affidamento e dell’irretroattività.
Il secondo quesito concerne la problematica inerente l’entrata in vigore del D.L. 90/2014, convertito nella legge 114/2014 ed, in particolare, l’art. 13 con cui vengono abrogati i commi 5 e 6 dell’art. 92 D.Lgs. 163/2006.
Più specificamente il Sindaco richiama a tale riguardo la Corte dei Conti dell’Emilia Romagna che, con
parere 19.09.2014 n. 183...ad un certo punto, riferendosi all’entrata in vigore della legge di conversione del predetto Decreto Legge, testualmente afferma che “per effetto di questa innovazione normativa: a) la disciplina del regime dell’incentivazione è ora espressamente da ricondurre alla sola realizzazione di opere pubbliche e non anche ad attività di pianificazione territoriale“ facendo quasi intendere che solo da quel momento, e cioè dall’entrata in vigore della legge 11.08.2014 n. 114, sarebbe valso il principio per cui non si possono riconoscere incentivi di progettazione ad atti di mera pianificazione non collegati alla realizzazione di opere pubbliche, facendo salvi gli incarichi precedentemente affidati e conclusi”.
...
Pertanto, come precisato nel documento d’indirizzo sopra richiamato, possono rientrare nella funzione consultiva della Corte dei Conti le sole “questioni volte ad ottenere un esame da un punto di vista astratto e su temi di carattere generale”, dovendo quindi ritenersi inammissibili le richieste concernenti valutazioni su casi o atti gestionali specifici o mediante indicazioni puntuali sul versante gestionale.
Quanto al carattere generale ed astratto del quesito prospettato, questa Sezione ritiene di dover richiamare unicamente i principi normativi che vengono in considerazione nel caso in esame, ai quali gli organi dell'Ente, al fine di assumere specifiche decisioni in relazione a particolari situazioni, possono riferirsi, rientrando la scelta delle modalità concrete con le quali applicare la normativa in materia, nell'ambito dell’esercizio della discrezionalità amministrativa dell'amministrazione comunale.
Alla luce di tali principi
il primo dei due quesiti in cui si articola il parere deve essere ritenuto inammissibile poiché difetta il prescritto carattere di generalità ed astrattezza. Esso ha ad oggetto atti gestionali puntuali ed, in particolare nel caso di specie, atti già adottati dall’amministrazione peraltro non strettamente collegati alla realizzazione di un’opera pubblica.
Pertanto,
l’esame di tale quesito non risulta consentito per non incorrere nel coinvolgimento diretto di questa Sezione nell’amministrazione attiva di competenza dell’Ente interessato, non rientrante nei canoni dalla funzione consultiva demandata alla Corte dei conti la quale presuppone la non riconducibilità dei pareri richiesti ad ipotesi concrete (vedasi, in proposito, le deliberazioni 27.04.2004 e n. 5/AUT/2006 del 10.04.2006 della Sezione delle Autonomie), o per evitare di incorrere addirittura, in un controllo di legittimità successivo non consentito dalla legge.
2. In relazione
al secondo quesito, ad avviso di questa Sezione, esso deve viceversa ritenersi ammissibile in quanto avente ad oggetto una questione inerente la successione di norme di legge ed, in particolare modo, una problematica di diritto intertemporale. In particolare, esso, da un lato, soddisfa i necessari requisiti di generalità ed astrattezza e, dall’altro, rientra nelle materie di contabilità pubblica secondo le indicazioni scaturenti dalla citata deliberazione delle Sezioni Riunite della Corte dei conti n. 54/CONTR/2010.
Ha avuto infatti modo di evidenziare la Corte come siano riconducibili alla “contabilità pubblica” oltre ai quesiti afferenti al nucleo originario della materia (disciplina dei bilanci e relativi equilibri, acquisizione delle entrate, organizzazione finanziaria-contabile, disciplina del patrimonio, gestione delle spese, indebitamento, rendicontazione e relativi controlli) anche le questioni che prospettano problemi finalizzati all’individuazione di limiti e divieti strumentali al raggiungimento di specifici obiettivi di contenimento della spesa.
In particolare, la deliberazione da ultimo citata, conferma l’ambito entro il quale ricondurre la nozione di “contabilità pubblica”, senza tuttavia escludere, ma, anzi, riconoscendo espressamente, che ulteriori quesiti possono essere conosciuti dalle Sezioni regionali se e in quanto “connessi alle modalità di utilizzo delle risorse pubbliche, nel quadro di specifici obiettivi di contenimento della spesa sanciti dai principi di coordinamento della finanza pubblica –espressione della potestà legislativa concorrente di cui all’art. 117, comma 3, della Costituzione– contenuti nelle leggi finanziarie, in grado di ripercuotersi direttamente sulla sana gestione finanziaria dell’Ente e sui pertinenti equilibri di bilancio”.
Resta fermo, comunque, che i quesiti posti devono riflettere questioni interpretative strumentali al raggiungimento degli specifici obiettivi di cui si è detto.
In particolare, la richiesta mira a conseguire chiarimenti in merito all'abrogazione dei commi 5 e 6 dell’ art. 92 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (codice dei contratti pubblici), a seguito dell’entrata in vigore dell’ art. 13 della l. 11.08.2014, n. 144, di conversione del d.l. 24.06.2014, n. 90. Nel caso di specie la richiesta di parere ha ad oggetto la corretta individuazione dei profili di carattere intertemporale al fine della legittima modalità di erogazione dei c.d. incentivi di pianificazione.
In questa sede giova evidenziare che la questione del rapporto tra la pianificazione comunque denominata e l’attività di pianificazione contemplata nell’articolo 92, comma 6, ha trovato, approfondimento nella
deliberazione 15.04.2014 n. 7 di orientamento resa dalla Sezione delle Autonomie, la quale, dopo aver ricostruito le diverse e contrastanti posizioni interpretative delle varie Sezioni regionali, ha preliminarmente affermato che le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 del citato art. 92 “…..esprimono, in modo evidente, il favor legis per l’affidamento a professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in prestazioni d’opera professionale e, pertanto, ove non ricorrano i presupposti previsti dalle norme vigenti per l’affidamento all’esterno degli stessi, le amministrazioni devono fare ricorso a personale dipendente, al quale applicheranno le regole generali previste per il pubblico impiego; il cui sistema retributivo è basato sui due principi cardine di onnicomprensività della retribuzione, sancito dall’art. 24, comma 3, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, nonché di definizione contrattuale delle componenti economiche, fissato dal successivo art. 45, comma 1. Principi alla luce dei quali nulla è dovuto oltre il trattamento economico fondamentale ed accessorio, stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio….” Nel prosieguo, la Sezione delle Autonomie ha poi ritenuto che il legislatore “……con le disposizioni in esame, ha voluto riconoscere agli Uffici tecnici delle amministrazioni aggiudicatrici un compenso ulteriore e speciale, derogando agli anzidetti principi. In effetti, le previsioni contenute nell’art. 92 ai commi 5 e 6, appaiono evidentemente relative a due distinte ipotesi di incentivazione ed a due distinte deroghe ai ricordati principi, in quanto, in un caso, la deroga riguarda la redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, da ripartire per ogni singola opera o lavoro tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione e nell’altro caso la deroga riguarda la redazione di un atto di pianificazione comunque denominato, da ripartire fra i dipendenti dell’amministrazione che lo abbiano, in concreto, redatto, entrambe riferite alla progettazione di opere pubbliche. La norma deve essere considerata, dunque, norma di stretta interpretazione, non suscettibile di applicazione in via analogica, alla luce del divieto posto dall’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, e neppure appare possibile una lettura della definizione in essa contenuta che attribuisca alla volontà del legislatore quanto dallo stesso non esplicitato (lex minus dixit quam voluit)”.
In relazione a quanto sopra richiamato, i giudici della nomofilachia hanno conclusivamente ritenuto che ai “
…...fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, la corretta interpretazione delle disposizioni in esame considera determinante, non tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico, che deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale”, che costituisce il presupposto per l’erogazione dell’incentivo. “Pertanto, ove tale presupposto manchi, non è possibile giustificare la deroga ai principi cardine in materia di pubblico impiego di onnicomprensività e di definizione contrattuale delle componenti del trattamento economico, alla luce dei quali, nulla è dovuto oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabiliti dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio….”.
Un siffatto principio, di natura assolutamente cogente, regola tutte le fattispecie disciplinate dalla norma in questione.
3. La questione oggetto del quesito prende le mosse dall’avvenuta abrogazione dei commi 5 e 6 dell’articolo 92 del codice dei contratti pubblici, in materia di incentivi per la progettazione, disposta dall’art. 13 del decreto legge 90/2014: con l’art. 13-bis, introdotto in sede di conversione, è stata prevista l’istituzione, a carico delle stazioni appaltanti e per le finalità descritte, di un fondo per la progettazione e l’innovazione, destinato alle risorse umane e strumentali necessarie per tali finalità. In particolare, in base alle suddette disposizioni, le amministrazioni pubbliche destineranno a un fondo per la progettazione e l’innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro, secondo modalità determinate da un regolamento adottato dall’amministrazione. Sempre tale regolamento dovrà definire i criteri di riparto di tali somme, ferme restando le ripartizioni direttamente disposte dall’atto normativo.
Considerato, peraltro, che l’incarico è stato affidato prima della entrata in vigore del d.l. n. 90/2014, convertito dalla l. n. 114/2014, ne deriva la necessità, per la soluzione del quesito in esame, di analizzare la disciplina previgente.
Va da sé che,
a decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i Comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, dovranno fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno, incaricato di attività tecniche nell’ambito unicamente del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis) e un accordo integrativo decentrato, da recepire nel predetto regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma 7-ter).
Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo periodo) (cfr. anche sul punto, parere 24.07.2014 n. 403 di questa Sezione, a cui si rinvia per la lettura).
Per converso, per il periodo fino all’entrata in vigore della L. 11.08.2014, n. 114, n. 90, si pone il problema di chiarire se essa trovi applicazione con riferimento alle sole attività successive o anche a quelle precedenti, ma non remunerate all’atto dell’entrata in vigore del decreto.
Una volta affermato il principio secondo cui la disciplina dell’incentivazione è espressamente da ricondurre alla sola realizzazione di opere pubbliche e non anche ad attività di pianificazione territoriale, merita segnalare, ai fini della soluzione del secondo dei quesiti proposti, che la Corte dei conti, Sezione delle Autonomie si è espressa sul punto con deliberazione 24.03.2015 n. 11: e ciò in relazione in particolare al quesito, posto dalla remittente Sezione Liguria, “se l’obbligo di non superare l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo, di cui al comma 7-ter dell’articolo 93, sia applicabile solo per il pagamento degli incentivi riferiti alle attività tecnico professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma dopo il 19.08.2014 (data di entrata in vigore della legge di conversione n. 114/2014)”.
Al riguardo, la Corte ha sottolineato che
la nuova disciplina, in ossequio all’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, preliminari al codice civile, non ha effetto retroattivo, né può considerarsi intervenuta quale norma di interpretazione autentica della precedente, e, pertanto, dispone solo per il futuro: di talché “l’obbligo di non superare nella corresponsione di incentivi al singolo dipendente, nel corso dell’anno, l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo, è applicabile al pagamento degli incentivi dovuti per attività tecnico-professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma a far data dall’entrata in vigore della legge di conversione del d.l. 24.06.2014, n. 90”.
I giudici della nomofilachia hanno ulteriormente precisato sulla questione intertemporale che la soluzione si deve collocare nell’alveo dell’irretroattività della norma e del criterio del tempus regit actum, in guisa che la linea di demarcazione fra la vecchia e la nuova regolamentazione della materia incentivante, non sarebbe, da ricercarsi nel momento in cui l’attività incentivata viene compiuta (tesi sostenuta dalla Sezione Liguria e dalla Sezione Emilia Romagna sulla scorta dell’approdo ermeneutico della deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG della Sezione delle autonomie) e neppure nel momento in cui la prestazione resa viene remunerata (tesi della Sezione Lombardia), bensì nel momento in cui l’opera o il lavoro sono approvati ed inseriti nei documenti di programmazione vigenti nell’esercizio di riferimento: in ciò aderendo alla ricostruzione ermeneutica operata dalla Sezione Basilicata nel parere 12.02.2015 n. 3, che, individuando nel momento dell’approvazione dell’opera il riferimento temporale per la scelta della disciplina da applicare al caso di specie, prescinde dal momento in cui le prestazioni incentivate siano state in concreto poste in essere. Momento che, sulla scorta della giurisprudenza prevalente si ritiene debba, invece, costituire riferimento imprescindibile per legittimare la corresponsione dell’incentivo e fissarne, in maniera intangibile, la misura.
Tale principio di diritto è, altresì, esteso per i giudici della nomofilachia, a tutte la altre questioni concernenti questioni intertemporali della normativa. Pertanto, ove tali presupposti non siano presenti, non si può derogare al principio, fondamentale in materia di pubblico impiego, di onnicomprensività del trattamento economico riconosciuto al dipendente per le prestazioni rientranti nei propri doveri di ufficio.
Alla luce di quanto esposto, si può conclusivamente affermare che:
-
a decorrere dall’entrata in vigore (19.08.2014) degli artt. 13 e 13-bis del d.l. n. 90/2014, non è possibile riconoscere alcun incentivo per la redazione di atti di pianificazione, in virtù sia dell’abrogazione dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, sia dell’assenza di tale attività tra quelle incentivate dalla nuova disciplina dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006;
-
per le attività affidate e compiute prima dell’entrata in vigore di tale norma, il riconoscimento dell’incentivo è possibile solo se la redazione degli atti di pianificazione risulti strettamente e direttamente connessa alla progettazione di opere pubbliche. L’ente, pertanto, valuterà se la fattispecie concreta risponde al criterio fissato nella
deliberazione 15.04.2014 n. 7 della Sezione delle autonomie per dar corso all’erogazione dell’incentivo (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 05.03.2015 n. 12), nonché ai principi enunciati nella delibera della Sezione delle autonomie n. 11 in data 24.03.2015 e più sopra specificamente riportati (Corte dei Conti, Sez. controllo veneto, parere 14.04.2015 n. 211).

INCENTIVO PROGETTAZIONEL’obbligo di non superare nella corresponsione di incentivi al singolo dipendente, nel corso dell’anno, l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo, è applicabile al pagamento degli incentivi dovuti per attività tecnico-professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma a far data dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge 24.06.2014 n. 90.
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La richiesta di parere è intesa a conoscere la corretta applicazione del riparto del fondo per la progettazione e l’innovazione ex articolo 93, comma 7-ter, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, a seguito delle riformulazione operata dall’articolo 13-bis del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, recante “Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari", convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114.
In particolare, nel parere si evidenzia che:
- il decreto-legge n. 90 del 2014, all'articolo 13, ha abrogato i commi 5 e 6 dell'articolo 92 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo n. 163 del 2006;
- la nuova disciplina della materia è ora contenuta nell'articolo 93, commi 7-bis e 7-ter del decreto legislativo n. 163 del 2006. Il citato comma 7-ter così dispone: "L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.";
- la Corte dei conti, Sezione di controllo per l'Emilia-Romagna, nel parere 19.09.2014 n. 183
intervenendo sul disposto del precitato articolo 93, comma 7-ter, ha affermato che: "l'art. 93, comma 7-ter, ultimo periodo, del codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, come inserito dall'art. 13-bis "Fondi per la progettazione e l'innovazione" della legge di conversione 11.08.2014, n. 114 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90 -disposizione non applicabile retroattivamente, non essendo norma di interpretazione autentica- ha espunto dall'ordinamento il comma 5 (al quale il CCNL dell'Area II faceva richiamo) e il comma 6 dell'articolo 92 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163; in base a tale nuova disciplina il riparto del fondo per la progettazione non trova più applicazione per il personale con qualifica dirigenziale.";
- il parere 19.09.2014 n. 183 contiene la precisazione che la nuova disciplina non può trovare applicazione retroattiva e che il personale con qualifica dirigenziale è escluso dal riparto del fondo incentivante a decorrere dall'entrata in vigore delle modifiche legislative di cui sopra, vale a dire dal 19.08.2014;
- mentre è, quindi, chiaro che le nuove regole trovano applicazione per tutti i lavori e le opere avviate a partire dal 19.08.2014, sussistono invece dubbi per gli incentivi riferiti a lavori e opere portate a compimento prima di tale data, ma che l'amministrazione non ha ancora provveduto a liquidare;
- la questione dell'applicabilità delle modifiche normative rispetto ad attività già compiute, ma per le quali non è stato ancora corrisposto il compenso, si era già posta in passato a seguito dell'entrata in vigore della legge 17.05.1999, n. 144, che aveva modificato la percentuale dell'incentivo per la progettazione. La Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, nella deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG, aveva richiamato il principio espresso dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro nella sentenza n. 13384 del 19.07.2004.
Secondo i giudici della Suprema Corte, il diritto all'incentivo di cui trattasi "costituisce un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva che inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va individuato l'obbligo per l'Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere concreta l'erogazione del compenso. In sostanza dal compimento dell'attività nasce il diritto al compenso, intangibile dalle disposizioni riduttive, che non hanno alcuna, efficacia retroattiva”;
- nella pronunzia la Sezione delle Autonomie aveva, quindi, sancito un principio di competenza affermando che ciò che rileva ai fini della nascita del diritto è "il compimento effettivo dell'attività dovendosi, anzi, tener conto, per questo specifico aspetto, che per le prestazioni di durata, cioè quelle che non si esauriscono in una puntuale attività, ma si svolgono lungo un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione temporale di attività compiuta.";
- sulla base dei sopra richiamati principi, le modifiche normative intervenute non dovrebbero quindi incidere sulla liquidazione dell'incentivo per le attività compiute fino al 19.08.2014. Poiché, peraltro, a differenza di quanto avvenuto in passato, la nuova disciplina incide non sulla percentuale ma sulla quantificazione del fondo, destinandone solo una parte per la progettazione, dubbi applicativi sorgono con riguardo ai lavori e alle opere iniziate prima del 19.08.2014 e portate a compimento successivamente a tale data. Si avrebbero, in tal caso, attività incentivate portate a compimento in frazioni temporali diverse che ad avviso del Comune, dovrebbero però fare tutte riferimento alle risorse del fondo come quantificato secondo la disciplina vigente all'inizio dell'opera o del lavoro;
- sussistono altresì dubbi applicativi per quanto attiene il capoverso che recita: "Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo.";
Il Comune chiede, quindi, di sapere:
1) se l'Amministrazione, in ossequio al principio della non retroattività della legge e al principio di competenza, possa in oggi liquidare secondo la precedente disciplina gli incentivi riferiti a lavori e opere portate a compimento, compresa la fase del collaudo, prima della data del 19.08.2014;
2) quali debbano essere le modalità di liquidazione dell'incentivo nel caso di lavori e opere iniziate prima del 19.08.2014 e portate a compimento successivamente a tale data;
3) se per il personale con qualifica dirigenziale l'esclusione dal pagamento dell'incentivo operi a decorrere dal 19.08.2014 solo con riferimento a lavori ed opere successive a tale data oppure anche dalla liquidazione degli incentivi riferiti a lavori ed opere portati a compimento prima del 19.08.2014;
4) se la disposizione che impone di non superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo sia applicabile solo per il pagamento degli incentivi riferiti a lavori e opere avviati dopo il 19.08.2014, oppure si tratti di norma immediatamente operante su tutte le liquidazioni effettuate dopo il 19.08.2014, anche se riferite a lavori e opere portate a compimento prima di tale data.
...
La richiesta di parere concerne distintamente quattro quesiti relativi all’applicazione dell’articolo 93 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (codice dei contratti pubblici), come integrato e modificato dagli articoli 13 e 13-bis della legge 11.08.2014, n. 144, di conversione del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, che hanno abrogato i commi 5 e 6 del citato articolo 92 e aggiunto i commi da 7-bis a 7-quinquies all’articolo 93.
Il Collegio ha dato risposta ai primi tre quesiti con il parere 16.12.2014 n. 73, mentre ha affrontato la problematica relativa al quarto quesito nella deliberazione 22.12.2014 n. 75. Nell’occasione, sulla base delle motivazioni ivi esplicitate, si è concluso nel senso che
l’obbligo di non superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo sia applicabile solo per il pagamento degli incentivi riferiti alle attività tecnico professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma dopo il 19.08.2014 (data di entrata in vigore della legge di conversione n. 114 del 2014).
Diverso avviso ha espresso, invece, la Sezione regionale di controllo per la Lombardia con il
parere 13.11.2014 n. 300 su identica questione posta dal Presidente della provincia di Mantova (“se il limite degli incentivi che possono essere corrisposti nel corso dell’anno al singolo dipendente, pari al 50% del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo, operi anche con riferimento a prestazioni, sia concluse che in corso, rese anteriormente alla vigenza delle norme sopravvenute ma non liquidate”).
La Sezione di controllo per la Lombardia, a differenza della soluzione interpretativa data agli altri quesiti oggetto dell’istanza di parere sfociata nel
parere 13.11.2014 n. 300 (perfettamente aderente all’orientamento palesato dalla Sezione delle Autonomie nella deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG, condiviso da questa Sezione nel parere 16.12.2014 n. 73), ha concluso affermando che, nel caso di specie, “la norma effettua un chiaro riferimento al momento della corresponsione e non condiziona la possibilità di erogare l’incentivo, ma si limita a determinare (per relationem rispetto al trattamento economico fruito) l’ammontare massimo. L’ente, rimanendo per il resto libero nell’esercizio della propria attività discrezionale, nel periodo transitorio dovrà fare riferimento, quanto ai presupposti e ai beneficiari dell’incentivo, alla previgente disciplina mentre, per quel che concerne l’ammontare complessivo delle risorse destinabili al singolo beneficiario, al limite inderogabile fissato dalla norma con riferimento al trattamento economico spettante al momento dell’erogazione”.
La scrivente Sezione, pertanto, con la richiamata deliberazione 22.12.2014 n. 75, in presenza del contrasto interpretativo insorto, ha sottoposto al Presidente della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge n. 174 del 2012, convertito dalla legge n. 213 del 2012, la rimessione della seguente questione: “se l’obbligo di non superare l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo, di cui al comma 7-ter dell’articolo 93, sia applicabile solo per il pagamento degli incentivi riferiti alle attività tecnico professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma dopo il 19.08.2014 (data di entrata in vigore della legge di conversione n. 114 del 2014)”.
La Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, con deliberazione 24.03.2015 n. 11, pronunciandosi sulla richiamata questione di massima, ha condiviso l’orientamento assunto da questa Sezione esprimendo il seguente principio di diritto: “
l’obbligo di non superare nella corresponsione di incentivi al singolo dipendente, nel corso dell’anno, l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo, è applicabile al pagamento degli incentivi dovuti per attività tecnico-professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma a far data dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge 24.06.2014, n. 90” (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 14.04.2015 n. 35).

PUBBLICO IMPIEGO: Sul doppio lavoro (non autorizzato dall'ente di appartenenza) dei pubblici dipendenti.
Il dipendente pubblico indebitamente percepente i compensi per l’attività esterna non autorizzata, risponde di “responsabilità erariale” per la semplice omissione del versamento in favore dell’Amministrazione di appartenenza delle relative somme.
Con l’atto di citazione all’esame, la Procura regionale ha contestato alla convenuta -dipendente a tempo pieno, con qualifica di collaboratore professionale sanitario-infermiere professionale dell’Azienda ospedaliera San Gerardo di Monza- di aver svolto attività lavorativa libero professionale non autorizzata presso strutture private, allegandosi che, a seguito di tale condotta, la medesima avrebbe cagionato un danno all’ente di appartenenza per violazione del principio di esclusività del rapporto di lavoro pubblico e sarebbe stata obbligata al pagamento della “sanzione” ex articolo 53, comma 7, del decreto legislativo n. 165 del 2001, disponente l’obbligo del versamento dei compensi percepiti, accertati in euro 23.330,00 per le prestazioni non autorizzate in conto entrata del bilancio dell’Azienda ospedaliera.
La domanda della Procura merita accoglimento.
In proposito, giova precisare che all’articolo 53, comma 7, del decreto legislativo n. 165 del 2001 è stato di recente aggiunto il comma 7-bis, significativamente chiarente la valenza sostanzialmente “sanzionatoria” della disposizione medesima.
Recitano le norme in argomento, nell’aggiornato testo (rif.: articolo 1, comma 42, lett. c) e d) della legge n. 190 del 2012:
- articolo 53, comma 7: “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto d’interessi. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più grave sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”;
- articolo 53, comma 7-bis: “L’omissione del versamento da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
Dal disposto della norma, risulta evidente che al comma 7-bis debba essere riconosciuto, oltre ad un contenuto processuale -nella parte in cui attribuisce alla cognizione della Corte dei conti i giudizi della specie– altresì un contenuto sostanziale, di valenza chiarificatrice, laddove si è statuito che il dipendente pubblico indebitamente percepente i compensi per l’attività esterna non autorizzata, risponde di “responsabilità erariale” per la semplice omissione del versamento in favore dell’Amministrazione di appartenenza delle relative somme.
Emerge con chiarezza il fondamento “repressivo-preventivo” della norma, in quanto tendente a scoraggiare una condotta antigiuridica ampiamente diffusa, mediante la “sanzione” della sostanziale disutilità -in ragione della previsione della spogliazione dei relativi proventi– della prestazione non autorizzata, integrata dall’obbligo della destinazione dei compensi indebitamente percepiti all’Amministrazione d’appartenenza e ciò a prescindere, quindi, da eventuali ed effettivi nocumenti arrecati, con tale condotta antigiuridica, all’interesse patrimoniale della P.A..
In detta prospettiva, quindi, deve affermarsi che trova pieno accoglimento la domanda di condanna della convenuta ex articolo 53, comma 7 e 7-bis , del decreto legislativo n. 165 del 2001, proposta dalla Procura regionale.
Nel merito, appare fuor di dubbio che la dipendente abbia occultato alla propria Amministrazione lo svolgimento dell’attività libero professionale prestata presso strutture private nel periodo 2002-2003 e che fosse pienamente consapevole della necessità di una previa autorizzazione per lo svolgimento di attività esterne, trattandosi di nozioni basilari di status verosimilmente note e conosciute all’atto del sottoscrizione del contratto di lavoro a tempo pieno con l’azienda pubblica.
Ne discende che, risultando incontestati -anche per la rinuncia dell’interessata all’esercizio di ogni diritto di difesa- i fatti materiali alla base dell’atto di citazione della Procura regionale, la convenuta deve essere condannata al versamento dei compensi -indebitamente percepiti per lo svolgimento delle precitate attività libero professionali non autorizzate- in conto dell’entrata del bilancio dell’Azienda ospedaliera di appartenenza, per essere destinati ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.
Il tutto, come da quantificazione attuata dalla Procura regionale, pari ad euro 23.330,00 oltre a rivalutazione monetaria ed interessi; non sussistendo né rinvenendosi, segnatamente in fattispecie caratterizzata dal dolo dell’agente, i presupposti per alcuna riduzione dell’addebito (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 09.04.2015 n. 52).

PUBBLICO IMPIEGO: Se la quota annuale di iscrizione all'ordine professionale del pubblico dipendente dell'UTC spetti allo stesso oppure all'ente di appartenenza.
Il quesito che prima di ogni altro occorre porsi per ciascuna professionalità è se l’iscrizione all’albo costituisca o meno requisito necessario per lo svolgimento dell’attività professionale del dipendente.
L’art. 2229 primo comma del codice civile dispone in proposito che “La legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi”. L’iscrizione all’Albo professionale non solo consente dunque in tali casi l’esercizio della professione, ma ha carattere di accertamento costitutivo in quanto lo status professionale si acquista non per effetto del semplice possesso dei requisiti necessari, né con la semplice domanda, ma proprio con l’effettuazione dell’iscrizione.
Salvi i casi di espressa indicazione di legge, dunque, l’iscrizione si pone come facoltativa e dunque non sorgono dubbi sul fatto che l’onere di pagamento della relativa tassa annuale sia da considerarsi ad esclusivo carico del professionista, anche se dipendente pubblico.

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Per quanto poi riguarda l’ipotesi di ingegnere o architetto, ai sensi dell’art. 5 del R.D. n. 2537/1925 (Regolamento per le professioni d'ingegnere e di architetto modificato dalla legge 109/1994), per svolgere la professione di ingegnere o architetto “...è necessario avere superato l’esame di stato...”, mentre lo specifico requisito dell’iscrizione all’albo era richiesto dalla legge n. 1395/1923, art. 4, II comma, solo per i liberi professionisti (“Le pubbliche amministrazioni, quando debbano valersi dell'opera di Ingegneri o di Architetti esercenti la professione libera, affideranno gli incarichi agli iscritti nell'Albo”),
risultando l’iscrizione all’Albo dunque requisito indispensabile solo quando la PA “debba valersi dell'opera di ingegneri o architetti esercenti la professione libera”, ed implicitamente escludendosi tale obbligatorietà nei casi di opera svolta da propri dipendenti.
La distinzione tra abilitazione all’esercizio della professione, che si consegue mediante il superamento dell’esame di stato, ed iscrizione all’albo professionale, necessaria per lo svolgimento di determinati incarichi da parte dei professionisti abilitati, ha invero nel tempo perduto rilevanza da quando l’art. 1 della legge n. 897/1938, ha imposto l’iscrizione all’albo quale requisito-base per lo svolgimento di alcune professioni, tra cui quelle di ingegnere o architetto; valgono dunque a tale proposito le considerazioni già svolte con riferimento agli avvocati (in senso conforme, anche Friuli Venezia Giulia, 29.04.2008 n. 74).
La differenziazione tra professionisti abilitati e professionisti iscritti all’Albo è peraltro stata invece recentemente ripresa dal legislatore all’art. 90, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006 (cd. Codice dei contratti pubblici) in cui, in relazione all’attività di progettazione interna ed esterna di opere pubbliche, si dispone che solo con riguardo ai liberi professionisti che ricevono incarichi dalle PA l’attività debba essere espletata “da professionisti iscritti negli appositi albi”, mentre -con riferimento ai dipendenti da PA– è sufficiente che i progetti siano firmati da soggetti semplicemente “abilitati all'esercizio della professione”.
In tale ultima ipotesi, dunque, trattandosi di iscrizione solo facoltativa, come già sopra argomentato, nessun obbligo di rimborso potrà configurarsi a carico delle PA locali cui i professionisti siano legati da rapporto di lavoro per quanto attiene alle quote annuali d’iscrizione agli Albi professionali.
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Riassumendo:
nell’ipotesi in cui l’iscrizione all’Albo si ponga per il dipendente pubblico come facoltativa, nulla quaestio nel sostenere che l’iscrizione medesima, costituendo scelta individuale, non possa che ricadere sul professionista;
nel caso in cui invece un dipendente risulti obbligatoriamente iscritto ad un Albo quale ineludibile requisito per svolgere la propria attività, si ritiene comunque che debba essere cura del soggetto assunto nella compagine dell’ente pubblico per svolgere quella determinata professione farsi carico degli adempimenti necessari per assicurare nel tempo la sussistenza del requisito che ha costituito (o è divenuto in seguito) condicio sine qua non della sua assunzione o dello svolgimento della relativa professione
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Può dunque concludersi che, risultando ad esclusivo carico del dipendente l’incombenza relativa al pagamento del contributo annuale d’iscrizione all’Albo, l’eventuale rimborso da parte del Comune nei confronti del privato si tradurrebbe in un onere finanziario ingiustificato, privo di fondamento normativo e perciò tale da integrare possibile danno al patrimonio dell’Ente stesso
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Il Comune di Ceglie Messapica (BR), con nota del Sindaco del 29.08.2008, chiede di conoscere il parere di questa Sezione in ordine all’obbligo (o meno) per il Comune di procedere al pagamento del contributo per l’iscrizione agli Albi Professionali per alcuni dipendenti assunti a tempo indeterminato con titolo di ingegnere, architetto, assistente sociale, avvocato, nonché sulla possibilità, se del caso, di recuperare dai dipendenti stessi somme già erogate ed imputate in bilancio a tale titolo a far data dagli anni 1998-1999.
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Ad avviso di questa Sezione,
trattandosi di lavoratori appartenenti ad ambiti diversi, il quesito che prima di ogni altro occorre porsi per ciascuna professionalità è se l’iscrizione all’albo costituisca o meno requisito necessario per lo svolgimento dell’attività professionale del dipendente.
L’art. 2229 primo comma del codice civile dispone in proposito che “La legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi”. L’iscrizione all’Albo professionale non solo consente dunque in tali casi l’esercizio della professione, ma ha carattere di accertamento costitutivo in quanto lo status professionale si acquista non per effetto del semplice possesso dei requisiti necessari, né con la semplice domanda, ma proprio con l’effettuazione dell’iscrizione.
Salvi i casi di espressa indicazione di legge, dunque, l’iscrizione si pone come facoltativa e dunque non sorgono dubbi sul fatto che l’onere di pagamento della relativa tassa annuale sia da considerarsi ad esclusivo carico del professionista, anche se dipendente pubblico.

La questione si pone in termini apparentemente più problematici nel caso di pubblici dipendenti per i quali il pagamento annuale del contributo d’iscrizione all’Albo di appartenenza sia requisito necessario per lo svolgimento proprio delle funzioni espletate presso/a favore dell’Ente di appartenenza. Occorre dunque distinguere diverse ipotesi:
nel caso in cui -come nell’ipotesi della professione di avvocato- non il mero titolo conseguente al superamento dell’esame di stato, ma proprio l’iscrizione all’Albo sia richiesta quale presupposto per l’assunzione a pubblico impiego -cioè per l’accesso al posto  è onere del dipendente far sì che sia mantenuto, per tutta la durata del rapporto di lavoro intercorrente con il soggetto pubblico, il requisito in base al quale tale rapporto ebbe inizio, anche quando ciò riguardi il pagamento di una tassa annuale, configurandosi in tale ipotesi l’iscrizione all’Albo come requisito di natura strettamente personale richiesto sin dalla partecipazione alle prove concorsuali bandite dall’Ente, quale condicio sine qua non per l’assunzione e lo svolgimento del rapporto lavorativo;
lo stesso è a dirsi nel caso in cui l’iscrizione all’Albo divenga obbligatoria per lo svolgimento della funzione nel corso del rapporto lavorativo già iniziato, configurandosi in tal caso come requisito necessario non per l’instaurazione, ma per la valida prosecuzione del rapporto stesso.
In questi termini si pone la fattispecie in cui il dipendente sia obbligatoriamente iscritto ad un Albo esclusivo del pubblico impiego (qual è il caso degli avvocati comunali), in cui l’iscrizione all’albo costituisce uno dei presupposti richiesti per l’assunzione nonché per lo svolgimento del rapporto, trattandosi di requisito indispensabile per l’espletamento dell’attività giudiziaria propria dell’avvocato (in senso conforme, Sez. Piemonte, 29.03.2007 n. 2).
Questa Sezione è a conoscenza della recente pronuncia della Corte di Cassazione (Sez. lavoro, 20.02.2007 n. 3928) giunta all’esito della vertenza instaurata da un avvocato dipendente di un ente pubblico il quale aveva chiesto al Tribunale di Torino di dichiarare che il pagamento della quota annuale di iscrizione all’elenco speciale annesso all’albo degli avvocati costituisse spesa sostenuta nell’interesse del datore di lavoro, e come tale dovesse dallo stesso essere sostenuta.
La Suprema Corte ha sostanzialmente confermato la ratio decidendi del giudice di prime cure, che aveva accolto la domanda del dipendente ritenendo che siano nell’interesse del privato le spese relative agli studi universitari ed all’acquisizione dell’abilitazione all’esercizio della professione forense, mentre quelle relative al mantenimento dei requisiti per l’espletamento della professione siano a carico del datore essendo lo svolgimento della stessa effettuato nell’interesse esclusivo del datore di lavoro.
Invero, questa Sezione non può che dissentire dalle esposte considerazioni, ritenendo al contrario che il versamento delle somme di cui l’avvocato chiede il rimborso sia stato effettuato nell’interesse dello stesso lavoratore, poiché in mancanza dell’annuale versamento (cui consegue la cancellazione) egli non sarebbe più posto in condizione di svolgere l’attività professionale dedotta nel contratto di lavoro con l’ente pubblico.
In termini apparentemente diversi –ma con conseguenze non dissimili- si pone il caso degli assistenti sociali (cfr. anche sezione Puglia parere 11.04.2007 n. 5). Se infatti, normalmente, i contratti collettivi del comparto Regioni e Autonomie Locali si limitano a prevedere eventuali indennità di posizione o di risultato per attività con contenuti di alta professionalità, quali quelle correlate all’iscrizione ad Albi professionali, nulla precisando in più, talvolta tale ulteriore requisito –l’iscrizione, appunto– è espressamente richiesto da puntuali norme di legge per categorie di dipendenti assoggettate, oltre che al CCNL indicato, anche a prescrizioni specifiche relative alla singola categoria professionale; è quanto avviene per gli assistenti sociali con la legge 23.03.1993 n. 84 (Art. 2 Requisiti per l'esercizio della professione:. “Per esercitare la professione di assistente sociale è necessario essere in possesso del diploma universitario …, avere conseguito l'abilitazione mediante l'esame di Stato ed essere iscritti all'albo professionale istituito ai sensi dell'articolo 3 della presente legge”. A maggior ragione in tali casi, ad avviso di questa Sezione, la Pubblica Amministrazione resta estranea al rapporto che s’instaura tra il proprio dipendente ed il relativo ordine professionale.
Valgono dunque con maggior forza le considerazioni svolte secondo cui
il versamento delle quote annuali costituisce adempimento del dipendente, in quanto rispondente ad un proprio esclusivo interesse alla prosecuzione di un valido rapporto di lavoro.
Per quanto poi riguarda l’ipotesi di ingegnere o architetto, ai sensi dell’art. 5 del R.D. n. 2537/1925 (Regolamento per le professioni d'ingegnere e di architetto modificato dalla legge 109/1994), per svolgere la professione di ingegnere o architetto “...è necessario avere superato l’esame di stato...”, mentre lo specifico requisito dell’iscrizione all’albo era richiesto dalla legge n. 1395/1923, art. 4, II comma, solo per i liberi professionisti (“Le pubbliche amministrazioni, quando debbano valersi dell'opera di Ingegneri o di Architetti esercenti la professione libera, affideranno gli incarichi agli iscritti nell'Albo”),
risultando l’iscrizione all’Albo dunque requisito indispensabile solo quando la PA “debba valersi dell'opera di ingegneri o architetti esercenti la professione libera”, ed implicitamente escludendosi tale obbligatorietà nei casi di opera svolta da propri dipendenti.
La distinzione tra abilitazione all’esercizio della professione, che si consegue mediante il superamento dell’esame di stato, ed iscrizione all’albo professionale, necessaria per lo svolgimento di determinati incarichi da parte dei professionisti abilitati, ha invero nel tempo perduto rilevanza da quando l’art. 1 della legge n. 897/1938, ha imposto l’iscrizione all’albo quale requisito-base per lo svolgimento di alcune professioni, tra cui quelle di ingegnere o architetto; valgono dunque a tale proposito le considerazioni già svolte con riferimento agli avvocati (in senso conforme, anche Friuli Venezia Giulia, 29.04.2008 n. 74).
La differenziazione tra professionisti abilitati e professionisti iscritti all’Albo è peraltro stata invece recentemente ripresa dal legislatore all’art. 90, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006 (cd. Codice dei contratti pubblici) in cui, in relazione all’attività di progettazione interna ed esterna di opere pubbliche, si dispone che solo con riguardo ai liberi professionisti che ricevono incarichi dalle PA l’attività debba essere espletata “da professionisti iscritti negli appositi albi”, mentre -con riferimento ai dipendenti da PA– è sufficiente che i progetti siano firmati da soggetti semplicemente “abilitati all'esercizio della professione”.
In tale ultima ipotesi, dunque, trattandosi di iscrizione solo facoltativa, come già sopra argomentato, nessun obbligo di rimborso potrà configurarsi a carico delle PA locali cui i professionisti siano legati da rapporto di lavoro per quanto attiene alle quote annuali d’iscrizione agli Albi professionali.
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Riassumendo,
nell’ipotesi in cui l’iscrizione all’Albo si ponga per il dipendente pubblico come facoltativa, nulla quaestio nel sostenere che l’iscrizione medesima, costituendo scelta individuale, non possa che ricadere sul professionista; nel caso in cui invece un dipendente risulti obbligatoriamente iscritto ad un Albo quale ineludibile requisito per svolgere la propria attività, si ritiene comunque che debba essere cura del soggetto assunto nella compagine dell’ente pubblico per svolgere quella determinata professione farsi carico degli adempimenti necessari per assicurare nel tempo la sussistenza del requisito che ha costituito (o è divenuto in seguito) condicio sine qua non della sua assunzione o dello svolgimento della relativa professione (in senso conforme, Sezione Sardegna
parere 19.01.2007 n. 1).
Può dunque concludersi che, risultando ad esclusivo carico del dipendente l’incombenza relativa al pagamento del contributo annuale d’iscrizione all’Albo (come pure ogni altra attinente qualsiasi ulteriore onere di analoga natura, come nel caso di abilitazione dell’avvocato comunale per la difesa presso magistrature superiori), l’eventuale rimborso da parte del Comune nei confronti del privato si tradurrebbe in un onere finanziario ingiustificato, privo di fondamento normativo e perciò tale da integrare possibile danno al patrimonio dell’Ente stesso.
Numerosi sono gli indici normativi a suffragio dell’esposta tesi:
- il principio generale del contenimento della spesa pubblica per il personale, diretta ed indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica, espresso all’art. 1 comma 1, lett. b), del decreto legislativo n. 165 del 30.03.2001;
- il principio in base al quale l’attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi ed, alle condizioni previste, mediante contratti individuali (art. 2, comma 3, dello stesso decreto);
- il principio per cui la concessione di qualunque sovvenzione, contributo, sussidio o ausilio finanziario e l’attribuzione di vantaggi economici sono subordinate a predeterminazione e pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti dei criteri e modalità cui le stesse devono attenersi (art. 12 legge n. 241/1990 come modificata dalla legge n. 15/2005).
Il generale orientamento legislativo espresso anche dalle più recenti finanziarie nel senso dell’obbligatorietà del contenimento della spesa pubblica (tra gli altri, cfr. art. 1, comma 557, legge n. 296/2006, finanziaria per il 2007; art. 2 commi 615-626 legge n. 244/2007, finanziaria per il 2008) vale quale ulteriore conferma della tesi appena illustrata.
Ne consegue che,
con riferimento ad eventuali somme già erogate a titolo di contributo per il pagamento dell’iscrizione all’albo di propri dipendenti, l’amministrazione sarà tenuta al relativo recupero tenendo conto del fatto che, trattandosi di obbligazioni derivanti da rapporto di servizio, il termine di prescrizione è quello quinquennale (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 01.10.2008 n. 29).

GIURISPRUDENZA

APPALTI SERVIZI: La legittimità dell'affidamento in house del servizio va valutata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento dell'adozione del provvedimento.
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Sulle condizioni che devono sussistere nell'in house pluripartecipato.

La legittimità dell'affidamento in house del servizio va valutata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento dell'adozione del provvedimento. Nel caso di specie, all'epoca dell'affidamento, in altri termini, dovevano sussistere tutti i requisiti e presupposti legittimanti l'affidamento diretto. La modifica dello statuto intervenuta successivamente, quand'anche effettivamente dovesse configurare un'integrazione della forma di controllo consentita agli enti, non sarebbe in ogni caso valutabile ai fini di ritenere integrato il requisito mancante e superato il provvedimento originario, con conseguente venir meno dell'interesse al ricorso da parte della società ricorrente in primo grado.
A parte ogni considerazione sull'applicazione al giudizio di legittimità degli atti amministrativi della regola "tempus regit actum", attribuire rilevanza "sanante" all'atto sopravvenuto e, dunque, valutare la legittimità dell'affidamento in house del servizio sulla base della sopravvenienza in fatto, violerebbe non solo la richiamata regola, ma i principi che presiedono al corretto affidamento degli appalti. Vero è che l'affidamento in house non rappresenta l'eccezione rispetto alla regola della gara pubblica nel settore dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, nel caso in cui sussistono i presupposti legittimanti la scelta discrezionale dell'amministrazione. Tuttavia, mancando quei presupposti, la gara diviene il metodo ordinario di affidamento.
La concorrenza che ha, peraltro, fondamento costituzionale nell'art. 41 Cost., infatti, presuppone la più ampia apertura al mercato a tutti gli operatori economici del settore, in ossequio ai principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi. La procedimentalizzazione dell'attività di scelta del contraente non è dettata nell'esclusivo interesse dell'amministrazione, ma anche nell'interesse primario costituito dalla tutela degli operatori, del loro interesse ad accedere al mercato e a concorrere per il mercato. Il sistema di gestione dell'affidamento diretto, dunque, è di stretta interpretazione rispetto al sistema della gara, la cui praticabilità dipende dalla sussistenza dei presupposti indicati dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale, che devono sussistere al momento dell'affidamento.
Ne consegue che la tutela della concorrenza, eccezionalmente compressa nel regime di affidamento diretto, prevale rispetto ad ogni altra esigenza di tutela (per es., rispetto al principio della conservazione degli atti) laddove si accerti che non ricorrono le condizioni per la sua pretermissione.
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A proposito nell'in house pluripartecipato, le amministrazioni pubbliche in possesso di partecipazioni di minoranza possono esercitare il controllo analogo in modo congiunto con le altre, a condizione che siano soddisfatte tutte le seguenti condizioni:
a) gli organi decisionali dell'organismo controllato siano composti da rappresentanti di tutti i soci pubblici partecipanti, ovvero, siano formati tra soggetti che possono rappresentare più o tutti i soci pubblici partecipanti;
b) i soci pubblici siano in grado di esercitare congiuntamente un'influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative dell'organismo controllato;
c) l'organismo controllato non persegua interessi contrari a quelli di tutti i soci pubblici partecipanti.
Principi, questi, oggi codificati all'art. 12 della direttiva appalti 2014/24/UE che, sebbene non sia stata ancora recepita (essendo ancora in corso il termine relativo per l'incombente), appare di carattere sufficientemente dettagliato tale da presentare pochi dubbi per la sua concreta attuazione.
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Secondo la giurisprudenza comunitaria è necessario, nel caso di pluripartecipazione, che il singolo socio possa vantare una posizione più che simbolica, idonea, per quanto minoritaria, a garantirgli una possibilità effettiva di partecipazione alla gestione dell'organismo del quale è parte; sicché, una presenza puramente formale nella compagine partecipata o in un organo comune incaricato della direzione della stessa, non risulterebbe sufficiente.
La prassi conosce svariati meccanismi, fondati ora sulla nomina diretta e concorrente di singoli rappresentanti (uno per ogni socio) in seno al consiglio di amministrazione della società; ora sulla partecipazione mediata agli organi direttivi attraverso la nomina da parte dell'assemblea di consiglieri riservati ai soci di minoranza.
Valida alternativa è offerta dagli strumenti di carattere parasociale, che operano attraverso la predisposizione di organismi di controllo, costituiti dai rappresentanti di ciascun ente locale, muniti di penetranti poteri di verifica preventiva sulla gestione dell'attività.
Infine, il controllo deve essere esercitato non solo in forma propulsiva ma anche attraverso l'esercizio -in chiave preventiva- di poteri inibitori (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 27.04.2015 n. 2154 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Una stazione appaltante può chiarire nel corso del procedimento le previsioni della lex specialis, quando queste siano equivoche o comunque si prestino ad incertezze interpretative.
I chiarimenti dell'amministrazione, in una situazione di obiettiva incertezza, non costituiscono un'indebita modifica delle regole di gara ma una sorta di interpretazione autentica.
Applicando tale orientamento al caso di specie, ne consegue l'infondatezza della censura, attesa l'obiettiva incertezza derivante dagli errori ortografici presenti nella originaria formulazione della disposizione.
Pertanto, una stazione appaltante può chiarire nel corso del procedimento le previsioni della lex specialis, quando queste siano equivoche o comunque si prestino ad incertezze interpretative (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2015 n. 2097 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI Nelle gare pubbliche la verifica delle offerte sospette di anomalia ha natura globale e sintetica e quindi si risolve in un apprezzamento che non può essere "parcellizzato" su singoli profili, aspetti o voci, salvo che non emergano macroscopici vizi di travisamento dei dati acquisiti e/o di irragionevole e illogico apprezzamento dei medesimi. La valutazione globale e sintetica si traduce, a sua volta, in un giudizio complessivo sull'affidabilità dell'offerta, espressivo di squisita discrezionalità di natura tecnica che si sottrae al sindacato giurisdizionale salvi i casi di deviazione dai canoni di ragionevolezza o di logicità.
Nelle gare pubbliche, il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal Giudice Amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale.
Nelle gare pubbliche, in sede di verifica delle offerte anomale, l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a dimostrazione della non anomalia della propria offerta, rientra nella discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione o valutazioni abnormi o inficiate da evidenti errori di fatto, il Giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l’impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell’amministrazione.
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Nelle gare pubbliche il mancato rispetto dei minimi tabellari sul costo del lavoro o, in mancanza, dei valori indicati dalla contrattazione collettiva non determina l’automatica esclusione dalla gara, ma costituisce un indice di anomalia dell’offerta che deve essere poi verificato mediante un giudizio complessivo di remuneratività ed affidabilità che consente all’impresa di fornire le proprie giustificazioni di merito.

Occorre considerare, come sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato Sez. IV, 20.01.2015, n. 147), cui questo Collegio non ritiene di doversi discostare “Nelle gare pubbliche la verifica delle offerte sospette di anomalia ha natura globale e sintetica e quindi si risolve in un apprezzamento che non può essere "parcellizzato" su singoli profili, aspetti o voci, salvo che non emergano macroscopici vizi di travisamento dei dati acquisiti e/o di irragionevole e illogico apprezzamento dei medesimi. La valutazione globale e sintetica si traduce, a sua volta, in un giudizio complessivo sull'affidabilità dell'offerta, espressivo di squisita discrezionalità di natura tecnica che si sottrae al sindacato giurisdizionale salvi i casi di deviazione dai canoni di ragionevolezza o di logicità”; (Cons. Stato Sez. III, 13.03.2015, n. 1337) “Nelle gare pubbliche, il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal Giudice Amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale”; (Cons. Stato Sez. III, 13.03.2015, n. 1337) “Nelle gare pubbliche, in sede di verifica delle offerte anomale, l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a dimostrazione della non anomalia della propria offerta, rientra nella discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione o valutazioni abnormi o inficiate da evidenti errori di fatto, il Giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l’impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell’amministrazione”.
Nella fattispecie qui in esame non risulta che l’amministrazione abbia commesso macroscopici errori di valutazione in considerazione della motivazione del provvedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta della prima classificata. Peraltro, sinteticamente, è possibile osservare che:
- nelle gare pubbliche il mancato rispetto dei minimi tabellari sul costo del lavoro o, in mancanza, dei valori indicati dalla contrattazione collettiva non determina l’automatica esclusione dalla gara, ma costituisce un indice di anomalia dell’offerta che deve essere poi verificato mediante un giudizio complessivo di remuneratività ed affidabilità che consente all’impresa di fornire le proprie giustificazioni di merito (cfr. Cons. Stato Sez. V, 16.01.2015, n. 84; Cons. Stato Sez. V, 17.11.2014, n. 5633);
- l’indennità ex art. 108 CCNL era stata mal calcolata per mero errore materiale, come riconosciuto dalla stessa prima classificata;
- il ricalcolo della stazione appaltante è da intendersi come soccorso istruttorio, come tale ammissibile, anche in considerazione del valore parametrato ai termini di legge;
Pertanto, l’amministrazione ha complessivamente valutato congrua l’offerta della CLSTV senza commettere violazioni macroscopiche nel giudizio valutativo che, per contro, risulta essere stato approfonditamente sviluppato in contraddittorio con l’aggiudicataria (TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, sentenza 24.04.2015 n. 5979 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I rilevamenti tratti da Google Earth, non si prestano, di per sé considerati ed in assenza di ulteriori elementi, ad una valutazione obiettiva -ad una certa data- circa il presunto stato di fatto dei luoghi.
Il Collegio, in conformità all’orientamento espresso da questa Sezione, ritiene in primo luogo di sottolineare che i prefati rilevamenti, tratti da Google Earth, non si prestano, di per sé considerati ed in assenza di ulteriori elementi, ad una valutazione positiva al fine di comprovare il presupposto di fatto assunto a giustificativo del provvedimento impugnato (e cioè che ad una certa data -e, dunque, oltre il termine annuale normativamente stabilito ai fini dell’efficacia del titolo edilizio- i lavori non erano iniziati) e ciò, in particolare, tenuto conto:
della provenienza del suddetto rilevamento;
delle incertezze in merito alla risalenza delle immagini (come emerge dallo stesso sito –alla pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it per impostazione predefinita il software “visualizza le immagini di qualità migliore disponibili per una determinata località”, con la precisazione che “a volte potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide rispetto a quelle più recenti”);
della genericità delle informazioni relative ai metodi di esecuzione del rilevamento medesimo (a tale riguardo si osserva, peraltro, che le immagini depositate in giudizio non risultano essere tratte dalle versioni più evolute del software, predisposte per scopi commerciali).

... per l'annullamento:
a) dell’ordinanza n. 6 del 17.04.2014, prot. n. 606, con la quale l’amministrazione comunale di Arzano ha dichiarato la decadenza di S.S., P.S., C.S. dal permesso di costruire n. 5 del 18.01.2012, avente ad oggetto lavori di ampliamento volumetrico residenziale in sopraelevazione al terzo piano ed ampliamento di un balcone al secondo piano del fabbricato sito alla via ... n. 23;
b) dell’ordinanza n. 4 del 18.04.2014, con la quale l’amministrazione comunale ha ingiunto a S.S., P.S., C.S. la demolizione delle opere contestate;
...  
1. Il ricorso merita accoglimento.
2. Come esposto nella narrativa in fatto e come emerge dalla documentazione versata in atti, il provvedimento dichiarativo gravato –adottato a breve distanza di tempo dal provvedimento di revoca di precedente, analoga determinazione– reca a proprio fondamento le evidenze tratte da Google Earth, tali da comprovare, ad avviso dell’amministrazione, che alla data del 19.06.2013 (e, dunque, oltre il termine annuale normativamente stabilito ai fini dell’efficacia del titolo edilizio), i lavori non erano iniziati, risultando il lastrico solare di copertura del fabbricato de quo integro.
2.1. Il Collegio, in conformità all’orientamento espresso da questa Sezione (cfr. sentenza n. 6118 del 27.11.2014; sentenza n. 5331 del 22.11.2013), ritiene, in primo luogo di sottolineare che i prefati rilevamenti, tratti da Google Earth, non si prestano, di per sé considerati ed in assenza di ulteriori elementi, ad una valutazione positiva al fine di comprovare il presupposto di fatto assunto a giustificativo del provvedimento impugnato e ciò, in particolare, tenuto conto della provenienza del suddetto rilevamento, delle incertezze in merito alla risalenza delle immagini (come emerge dallo stesso sito –alla pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it– per impostazione predefinita il software “visualizza le immagini di qualità migliore disponibili per una determinata località”, con la precisazione che “a volte potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide rispetto a quelle più recenti”), della genericità delle informazioni relative ai metodi di esecuzione del rilevamento medesimo (a tale riguardo si osserva, peraltro, che le immagini depositate in giudizio non risultano essere tratte dalle versioni più evolute del software, predisposte per scopi commerciali).
2.2. Nel caso che ne occupa, peraltro, dalla documentazione prodotta dalla difesa di parte ricorrente emergono specifiche circostanze (prescrizioni contenute nel titolo edilizio (e, segnatamente, quella indicata al punto 10, lett. a); presentazione in data 10.09.2012 della comunicazione di inizio dei lavori; stipulazione in data 05.07.2012 del contratto di appalto avente ad oggetto la esecuzione dell’intervento assentito; nomina del direttore dei lavori; dichiarazione del direttore dei lavori e del titolare dell’impresa appaltatrice in merito al tempestivo inizio delle attività; fattura dell’impresa del 05.07.2012 e relativo assegno di pagamento del corrispettivo; richiesta del rilascio dell’autorizzazione sismica da parte del Genio Civile) che, congiuntamente considerate e associate all’operato complessivo dell’amministrazione avrebbero richiesto una più approfondita ponderazione al fine di verificare la sussistenza dell’effettiva volontà dei titolari del titolo edilizio a realizzare quanto progettato.
2.3. Né al fine di addivenire a diverse conclusioni può essere attribuito dirimente rilievo, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa dell’ente resistente, ai tempi di conclusione del procedimento di rilascio dell’autorizzazione sismica e ciò sia in quanto tale giustificativo si sostanzia in una inammissibile integrazione postuma della motivazione sia, soprattutto, alla luce delle comunicazioni intercorse tra gli interessati e l’amministrazione; il riferimento è, in particolare, alla nota inviata dagli interessati all’amministrazione comunale in data 10.09.2012 (all. 2 delle produzioni documentali di parte ricorrente), con la quale è stato espressamente attestato che i lavori avrebbero avuto “inizio solo al rilascio dell’autorizzazione sismica”, conformemente, peraltro, alle prescrizioni indicate nel permesso di costruire.
2.4. In tale quadro, infatti, l’operato dell’amministrazione non si ritiene conforme ai principi di correttezza e buona fede cui deve essere costantemente ispirato l'esercizio della funzione, ciò anche in considerazione della complessiva attività svolta, incluse le determinazioni assunte nell’esercizio del potere di autotutela decisoria.
3. Illegittimamente, dunque, l’amministrazione comunale ha adottato il provvedimento dichiarativo della decadenza del permesso di costruire gravato (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 24.04.2015 n. 2380 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla sanzione per ritardato versamento del contributo di costruzione rateizzato.
Ritiene il Collegio di aderire alla giurisprudenza prevalente, formatasi in tema di sanzioni per ritardato pagamento di singole quote del contributo per il rilascio della concessione edilizia.
Tale giurisprudenza, proprio in relazione alla invocata scorrettezza della p.a. nel non avere esercitato la facoltà di attivazione della garanzia alla scadenza della prima rata, o per avere omesso di escutere l’istituto bancario fideiussore, ha più volte ribadito che in assenza di inadempimenti imputabili all’Amministrazione idonei a configurare a suo carico una responsabilità “da contatto” oppure di natura precontrattuale, non può farsi riferimento all’art. 1227 c.c. essendo tale disposizione riferibile solo alle obbligazioni di carattere risarcitorio e non a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria, come nel caso in esame.
Pur in presenza di un contratto di garanzia cosiddetta autonoma, con il quale il garante si obbliga ad eseguire la prestazione oggetto della garanzia “a semplice richiesta” del creditore garantito, senza opporre eccezioni attinenti alla validità, all’efficacia ed alla vicenda del rapporto principale, anche in questa ipotesi il meccanismo dell’adempimento del garante “a prima richiesta” scatta a seguito dell’inadempimento dell’obbligazione principale, ancorché resti vietato al garante di chiedere la preventiva escussione del debitore principale.
D’altronde, neppure con riguardo al regime ordinario delle obbligazioni tra privati sarebbe pertinente il richiamo all’art. 1227 cod. civ.. Infatti, l’onere di diligenza che questa norma fa gravare sul creditore non si estende alla sollecitudine nell’agire a tutela del proprio credito onde evitare maggiori danni, i quali viceversa sono da imputare esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al tempestivo adempimento della sua obbligazione.
Inoltre, non è dato ravvisare nel sistema di cui agli artt. 1936 ss. cod. civ. alcun principio di preventiva doverosa escussione del fideiussore alla scadenza del termine fissato per l’adempimento dell’obbligazione garantita, che peraltro colliderebbe con le finalità dell’istituto, inteso a rafforzare la garanzia del credito in funzione di un interesse proprio e specifico del creditore.
In materia di obbligazioni “portable”, quali quelle pecuniarie, e con termine di adempimento che esonera dalla costituzione in mora del debitore, il creditore è soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità del fideiussore, senza che possa invece ritenersi tenuto ad escutere il coobbligato piuttosto che attendere il pagamento, ancorché tardivo, salva l’esistenza di apposita clausola in tal senso (che dovrebbe essere accettata dall’Amministrazione), nella specie non prevista. L’impostazione seguita dalla ricorrente, del resto, porterebbe, in caso di prestazione di garanzia, ad una generalizzata inapplicabilità dell’art. 42, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001.

... per l’annullamento del provvedimento in data 31.12.2010 prot. n. 26140, con il quale il Responsabile della 5^ Area -Edilizia Privata- Urbanistica del Comune di Uboldo ha richiesto ad Immobiliare ... Srl il pagamento dell’importo di € 48.923,78 a titolo di sanzione ex art. 42, comma 2, lett. c), DPR 380/2001.
...
I. Con ricorso depositato il 24.03.2011, la Immobiliare ... S.r.l. ha dedotto:
- di aver presentato, in data 29.12.2003, al Comune di Uboldo domanda di rilascio di permesso di costruite per la costruzione di un nuovo complesso residenziale, con richiesta di rateizzazione del contributo per il rilascio del permesso di costruire;
- che, con comunicazione in data 07.03.2005, il Comune di Uboldo aveva accordato la richiesta rateizzazione (con le seguenti modalità: € 13.160,87 da versare entro 30 giorni; € 17.547,83 da versare al tetto; € 13.160,87 da versare al termine dei lavori);
- che, in data 23.03.2005, aveva versato gli importi relativi alla prima rata e presentato polizza fideiussoria a garanzia degli obblighi ed oneri di cui alle concessioni edilizie;
- che il Comune di Uboldo, quindi, aveva rilasciato il permesso di costruire per la demolizione e nuova costruzione di complesso residenziale commerciale;
- che, solo in data 25.2.2010, aveva provveduto al versamento degli importi relativi alla seconda e terza rata dei contributi;
- che, quindi, con provvedimento in data 31.12.2010, il Comune di Uboldo aveva applicato la sanzione ex art. 42 DPR 380/2001 in misura pari al 40%, per un importo pari a € 48.923,78.
Tanto premesso, la ricorrente argomenta diffusamente i motivi per cui il provvedimento sanzionatorio sarebbe illegittimo, ragion per cui dovrebbe essere annullato.
I.1. Si è costituita in giudizio l’amministrazione intimata chiedendo il rigetto del ricorso.
I.2. Sul contraddittorio così istauratosi, la causa è stata discussa e decisa con sentenza definitiva all’odierna udienza. Di seguito le motivazioni.
II. E’ incontestato tra le parti che il pagamento della seconda e terza rata dei contributi è intervenuto in un momento successivo alle scadenze indicate dall’amministrazione comunale e quando erano oramai decorsi i termini di cui all’art. 42, comma 2, DPR 380/2001. La sanzione prevista da tale norma, tuttavia, a parere della ricorrente, non sarebbe applicabile per i motivi che seguono.
II.1. In particolare, considerato che il pagamento del debito alle scadenze pattuite era garantito da apposita polizza fideiussoria, a prima richiesta, rilasciata da primaria compagnia di assicurazione, il comportamento dell’amministrazione che, pur potendo facilmente ottenere il pagamento di quanto dovutogli con una semplice richiesta inviata al fideiussore, non si è attivata nell’immediatezza per poi applicare, a notevole distanza di tempo, la sanzione per il ritardato pagamento, finirebbe con il violare il dovere di correttezza di cui all’art. 1175 c.c..
II.2. In subordine, continua la ricorrente, il Comune di Uboldo non avrebbe potuto comunque applicare la sanzione nella misura massima del 40% (art. 42, comma 2, lett. c, DPR 380/2001), in quanto (così pare di capire) l’avvenuto rilascio della fideiussione produrrebbe effetti “riduttivi” dell’entità della sanzione. Nella specie, pur essendo nell’ipotesi in cui il ritardo del pagamento superiore a 240 giorni, la sanzione applicabile sarebbe quella di cui alla lett. a) dell’art. 42 DPR 380/2001.
III. Il ricorso non può essere accolto.
III.1. Occorre premettere, in punto di fatto, che la ricorrente, dopo aver pagato la prima rata del contributo (comunicando al Comune l’inizio dei lavori assentiti per il 16.05.2005), non ha segnalato al Comune la realizzazione del tetto della costruzione assentita (occorrenza che individuava il termine di esigibilità della seconda rata). Successivamente, pur essendo l’ultimazione delle opere avvenuta in data 04.03.2008 (con comunicazione al Comune in data 08.04.2008), la società ha provveduto al pagamento della II e III rata, solo in data 25.02.2010.
III.2. Ciò premesso, ritiene il Collegio di aderire alla giurisprudenza prevalente, formatasi in tema di sanzioni per ritardato pagamento di singole quote del contributo per il rilascio della concessione edilizia (cfr. ex multiis Consiglio di Stato, sez. VI, 27/11/2014 5884; sez. V, 09/12/2013 5880; sez. V, 28.09.2011, n. 5394, sez. IV, 01.04.2011, n. 2037 e 13.03.2008, n. 1084; sez. V, 16.07.2007, n. 4025, 11.11.2005, n. 6345 e 24.03.2005, n. 1250).
Tale giurisprudenza, proprio in relazione alla invocata scorrettezza della p.a. nel non avere esercitato la facoltà di attivazione della garanzia alla scadenza della prima rata, o per avere omesso di escutere l’istituto bancario fideiussore, ha più volte ribadito che in assenza di inadempimenti imputabili all’Amministrazione idonei a configurare a suo carico una responsabilità “da contatto” oppure di natura precontrattuale, non può farsi riferimento all’art. 1227 c.c. essendo tale disposizione riferibile solo alle obbligazioni di carattere risarcitorio e non a quelle (anche di contenuto pecuniario) di natura sanzionatoria, come nel caso in esame.
Pur in presenza di un contratto di garanzia cosiddetta autonoma, con il quale il garante si obbliga ad eseguire la prestazione oggetto della garanzia “a semplice richiesta” del creditore garantito, senza opporre eccezioni attinenti alla validità, all’efficacia ed alla vicenda del rapporto principale, anche in questa ipotesi il meccanismo dell’adempimento del garante “a prima richiesta” scatta a seguito dell’inadempimento dell’obbligazione principale, ancorché resti vietato al garante di chiedere la preventiva escussione del debitore principale (Cass. 18.11.1992 n. 12341, 03.11.1993 n. 10850, 17.05.2001 n. 6757).
D’altronde, neppure con riguardo al regime ordinario delle obbligazioni tra privati sarebbe pertinente il richiamo all’art. 1227 cod. civ.. Infatti, l’onere di diligenza che questa norma fa gravare sul creditore non si estende alla sollecitudine nell’agire a tutela del proprio credito onde evitare maggiori danni, i quali viceversa sono da imputare esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al tempestivo adempimento della sua obbligazione (v. Corte cost. n. 308 del 14.07.1999).
Inoltre, non è dato ravvisare nel sistema di cui agli artt. 1936 ss. cod. civ. alcun principio di preventiva doverosa escussione del fideiussore alla scadenza del termine fissato per l’adempimento dell’obbligazione garantita, che peraltro colliderebbe con le finalità dell’istituto, inteso a rafforzare la garanzia del credito in funzione di un interesse proprio e specifico del creditore.
In materia di obbligazioni “portable”, quali quelle pecuniarie, e con termine di adempimento che esonera dalla costituzione in mora del debitore, il creditore è soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità del fideiussore, senza che possa invece ritenersi tenuto ad escutere il coobbligato piuttosto che attendere il pagamento, ancorché tardivo, salva l’esistenza di apposita clausola in tal senso (che dovrebbe essere accettata dall’Amministrazione), nella specie non prevista. L’impostazione seguita dalla ricorrente, del resto, porterebbe, in caso di prestazione di garanzia, ad una generalizzata inapplicabilità dell’art. 42, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001.
III.3. Occorre precisare che il Collegio, nel dare continuità al riferito orientamento giurisprudenziale, è comunque consapevole di un indirizzo minoritario che ha talvolta affermato che l’amministrazione ha il dovere di non aggravare la posizione del debitore, ai sensi dell’art. 1227 cod. civ.: cfr. Cons. St., sez. I, parere n. 2366/2013; sez. IV, sent. n. 1357/2011 e sez. V, nn. 505/2003 e 32/2003).
III.4. In definitiva, non può condividersi l’asserzione fatta in sentenza relativa alla censurabilità del comportamento del Comune sotto il profilo della “ingiustificata inerzia” (la quale tra, l’altro, non sarebbe comunque predicabile con riferimento alla II rata, non avendo la ricorrente comunicato per tempo la realizzazione del “tetto” della nuova costruzione assentita).
Gli argomenti sopra svolti escludono anche che la previa prestazione di garanzia possa avere effetto “riduttivi”, sotto il profilo del quantum, della sanzione, autorizzando comportamenti ulteriormente dilatori dell’obbligato. E’ legittima, dunque, anche la misura di cui all’art. 42, comma 2, lett. c), DPR 380/2001 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.04.2015 n. 1005 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è consolidata nel ritenere che soltanto la realizzazione di una recinzione che presenti un elevato impatto urbanistico debba essere preceduta da provvedimento concessorio da parte dell’amministrazione comunale. Atto che non risulta necessario solo in presenza di una trasformazione che per l’utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni dell’intervento non comportino un’apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale. La distinzione tra esercizio dello jus aedificandi e dello jus excludendi alios va rintracciata quindi nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto.
Sotto questo profilo appare utile rammentare la decisione di Cons. Stato Sez. V, 26.10.1998, n. 1537, secondo la quale: “La concessione edilizia non è necessaria per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, (e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "jus excludendi alios"; occorre, invece, la concessione, quando la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica”.
Nello stesso senso la più recente Cons. St., Sez. V, 23.02.2012, n. 976: “Necessita di concessione edilizia la recinzione di un fondo rustico realizzata con installazioni permanenti, in quanto produce una significativa trasformazione urbanistica del territorio, a prescindere dalla realizzazione di volumetrie di qualunque natura” (cfr. in aggiunta, sez. VI, 23.05.2011, n. 3046; sez. IV, 30.06.2005, n. 3555 secondo cui <<la nozione di manutenzione ordinaria è di per sé incompatibile con la realizzazione di nuovi e consistenti manufatti, quand’anche vengano destinati ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti, fermo restando che si tratta comunque di attività edilizie in senso proprio, ossia di attività di trasformazione del territorio mediante un’attività antropica tesa alla formazione di un opus espressione di ius utendi più che di ius aedificandi; l’elemento ontologico qualificante dell’attività di manutenzione ordinaria fa sì che gli elementi da rinnovare, integrare e mantenere in efficienza possono anche risultare diversi da quelli oggetto di intervento, con il limite che il nuovo elemento non risulti né tipologicamente né funzionalmente diverso dal precedente, non potendosi dare origine ad un quid novi>>).
Uniforme appare anche la giurisprudenza della Suprema Corte (a far data da Cass. pen., 30.09.1988), secondo la quale: “La recinzione di un fondo rustico non necessita di concessione edilizia solo nel caso in cui la stessa venga attuata con opere non permanenti; il provvedimento autorizzativo è, invece, richiesto quando venga realizzata con materiale tipicamente edilizio tra cui rientra la zoccolatura in calcestruzzo”.

... per l'annullamento ordinanza prot. n. 510 del 17/02/2014 a firma del responsabile dell'ufficio tecnico del comune di Laurino, recante ingiunzione di demolizione/rimozione della recinzione consistente in 5 paletti in ferro collegati da tre file di catena metallica, realizzata sulla particella n. 903 del foglio 8 di proprietà del ricorrente; di ogni atto connesso.
...
5.- Il ricorso è fondato e merita accoglimento alla stregua delle considerazioni che seguono.
La giurisprudenza è consolidata nel ritenere che soltanto la realizzazione di una recinzione che presenti un elevato impatto urbanistico debba essere preceduta da provvedimento concessorio da parte dell’amministrazione comunale. Atto che non risulta necessario solo in presenza di una trasformazione che per l’utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni dell’intervento non comportino un’apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale. La distinzione tra esercizio dello jus aedificandi e dello jus excludendi alios va rintracciata quindi nella verifica concreta delle caratteristiche del manufatto.
Sotto questo profilo appare utile rammentare la decisione di Cons. Stato Sez. V, 26.10.1998, n. 1537, secondo la quale: “La concessione edilizia non è necessaria per modeste recinzioni di fondi rustici senza opere murarie, (e cioè per la mera recinzione con rete metallica sorretta da paletti di ferro o di legno senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la recinzione rientra solo tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "jus excludendi alios"; occorre, invece, la concessione, quando la recinzione è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica”.
Nello stesso senso la più recente Cons. St., Sez. V, 23.02.2012, n. 976: “Necessita di concessione edilizia la recinzione di un fondo rustico realizzata con installazioni permanenti, in quanto produce una significativa trasformazione urbanistica del territorio, a prescindere dalla realizzazione di volumetrie di qualunque natura” (cfr. in aggiunta, sez. VI, 23.05.2011, n. 3046; sez. IV, 30.06.2005, n. 3555 secondo cui <<la nozione di manutenzione ordinaria è di per sé incompatibile con la realizzazione di nuovi e consistenti manufatti, quand’anche vengano destinati ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti, fermo restando che si tratta comunque di attività edilizie in senso proprio, ossia di attività di trasformazione del territorio mediante un’attività antropica tesa alla formazione di un opus espressione di ius utendi più che di ius aedificandi; l’elemento ontologico qualificante dell’attività di manutenzione ordinaria fa sì che gli elementi da rinnovare, integrare e mantenere in efficienza possono anche risultare diversi da quelli oggetto di intervento, con il limite che il nuovo elemento non risulti né tipologicamente né funzionalmente diverso dal precedente, non potendosi dare origine ad un quid novi>>).
Uniforme appare anche la giurisprudenza della Suprema Corte (a far data da Cass. pen., 30.09.1988), secondo la quale: “La recinzione di un fondo rustico non necessita di concessione edilizia solo nel caso in cui la stessa venga attuata con opere non permanenti; il provvedimento autorizzativo è, invece, richiesto quando venga realizzata con materiale tipicamente edilizio tra cui rientra la zoccolatura in calcestruzzo” (cfr. in aggiunta Cass. pen., sez. III, 02.10.2010, n. 41518; sez. III, 13.12.2007).
Nella fattispecie, come risulta dall’atto impugnato “siamo in presenza di una recinzione, senza opere murarie, costituita da tre file di catena metallica sorrette da 05 paletti in ferro, rientrante nella categoria delle opere precarie…in zona classificata “B” – completamento dal vigente Programma di Fabbricazione, che non incide sull’assetto del territorio e priva di impatto ambientale” e cioè di un’opera che per l’utilizzo di materiale di scarso impatto visivo e per le dimensioni dell’intervento non comporta un’apprezzabile alterazione ambientale, estetica e funzionale.
Da qui l’accoglimento della prima censura, nonché della seconda censura, a mente delle cui indicazioni la modesta recinzione in questione, siccome caratterizzata dalla finalità di azionare lo ius excludendi omnes alios e non anche lo ius aedificandi, non poteva essere sanzionata con l’ingiunzione di demolizione, bensì con una sanzione pecuniaria ex art. 37 dpr n. 380/2001.
Può concludersi per l’accoglimento del ricorso, previa reiezione della terza ed ultima censura, relativa alla invocata motivazione in ordine al lasso di tempo intercorso tra la sua realizzazione ed il suo accertamento, per le considerazioni espresse da Cons. St. Sez. V 09.09.2013 n. 4470 (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 22.04.2015 n. 887 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, fondato sul tenore letterale dell’art. 16 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (“la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire” e “la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio...”), i contributi concessori devono essere stabiliti al momento del rilascio del permesso edilizio; a tale momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione della entità dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario della irretroattività delle determinazioni comunali a carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali e le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli oneri concessori ribadendosi l'integrale applicazione del principio “tempus regit actum” e, quindi, la irrilevanza ed ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto al momento del rilascio della concessione edilizia.
Di conseguenza, deve ritenersi che le delibere comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri concessori possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore.
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Deve ritenersi, sulla base del dato normativo e in conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato da cui non vi sono ragioni di discostarsi, che non solo la determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle tariffe vigenti ma che la stessa non possa essere richiesta che una tantum al momento del rilascio del permesso edilizio senza possibilità di esigersi pagamenti per annualità successive al rilascio del titolo.
E’ pertanto evidentemente illegittima la pretesa dell’Amministrazione intimata di addossare al titolare di un permesso edilizio rilasciato anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento posto che la determinazione degli oneri concessori al momento del rilascio era stata -a quanto risulta dagli atti di causa- correttamente determinata sulla base delle tabelle vigenti all’epoca.
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Per ragione di completezza, si precisa che, anche qualificando come conseguenza del potere di autotutela la richiesta di integrazione degli oneri, la pretesa risulterebbe illegittima in quanto esercitata patentemente in violazione dell’art. 21-nonies Legge 07.08.1990 n. 241 e ss.mm. posto che:
- non risulta chiaramente il vizio originario da rimuovere, limitandosi il Comune genericamente a richiamare le norme e le tabelle succedutesi nel tempo;
- non viene comparato in motivazione l’interesse pubblico con l’interesse del destinatario, tenendo conto dell'affidamento ingeneratosi nel privato;
- in particolare non viene data alcuna motivazione in relazione al tempo trascorso, circa quattro anni, tra la determinazione originaria e la successiva rideterminazione, tenendo conto che lo stesso art. 21-nonies della Legge n. 241/1990 prescrive che il potere di ritiro venga esercitato “entro un ragionevole termine”.

Il ricorso è fondato nel merito e va accolto.
Con la presente impugnativa il ricorrente si duole che il Comune di Castro abbia rideterminato retroattivamente l’importo del contributo concessorio, a distanza di (circa) quattro anni dal rilascio del permesso di costruire n. 24 del 15.06.2009, ultimata l’opera edilizia e saldati il pagamento degli oneri richiesti.
La doglianza merita di essere condivisa.
Osserva il Collegio che il provvedimento dirigenziale impugnato (prot. n. 2374 del 16.04.2013) -recante in oggetto: “Rideterminazione e recupero contributo di costruzione. Comunicazione e messa in mora”- accolla ex post al ricorrente, in ragione del titolo edilizio rilasciato (circa) quattro anni prima, ulteriori oneri concessori rinviando a quanto stabilito nella deliberazione 30.11.2012 n. 64 del Consiglio Comunale di Castro (e nella determinazione dirigenziale n. 282 del 31.12.2012).
In tale deliberazione, preso atto che è operante un meccanismo legislativo (cfr. art. 16 D.P.R. n. 380/2001, art. 2 L.R. n. 1/2007) di adeguamento automatico del contributo concessorio, il Consiglio Comunale di Castro ha invitato l’Ufficio competente a porre in essere tutte le necessarie attività tecnico-amministrative finalizzate al recupero della differenza tra il contributo concessorio riscosso e quello dovuto in relazione alle pratiche edilizie pervenute a far data del 01.01.2007.
In base a tale direttiva, il Responsabile del Settore Tecnico del Comune di Castro ha dunque richiesto il “conguaglio” (a seguito della rideterminazione in base a nuovi parametri stabiliti ex post) degli oneri concessori versati dal ricorrente in relazione al permesso di costruire n. 24 del 15.06.2009, in misura pari ad € 4.293,03 per l’aggiornamento del contributo di costruzione.
Il Tribunale, in seguito alla lettura dei provvedimenti contestati, ritiene di escludere che si sia di fronte all’esercizio di un potere di autotutela volto a correggere eventuali errori di determinazione o calcolo, peraltro nemmeno chiaramente evidenziati in atti, compiuti all’epoca del rilascio del permesso di costruire.
L’attività comunale appare invece orientata ad addossare al privato successivamente al rilascio del titolo edilizio costi supplementari derivanti dal meccanismo legale di adeguamento degli oneri concessori.
Tale meccanismo consente di aggiornare gli importi ricorrendo, con riferimento alla voce relativa agli oneri di urbanizzazione, “ai riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale” (cfr. art. 16, sesto comma, D.P.R. 06.06.2001 n. 380) o, in relazione alla voce relativa al costo di costruzione, facendo “riferimento ai costi massimi ammissibili per l'edilizia agevolata” su determinazione regionale, e in assenza di quest’ultima “in ragione dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione accertata dall'ISTAT” (Cfr.: art. 16, nono comma, D.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Il procedimento di revisione mira dunque ad adeguare l’importo degli oneri concessori a fenomeni di natura sostanzialmente inflattiva -legati all’aumento generalizzato dei costi di urbanizzazione o di costruzione- in maniera da far corrispondere a permessi edilizi rilasciati in epoche diverse un impegno economico sostanzialmente uniforme sui singoli istanti.
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, fondato sullo stesso tenore letterale dell’art. 16 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 (“la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire” e “la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio...”), i contributi concessori devono essere stabiliti al momento del rilascio del permesso edilizio; a tale momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione della entità dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario della irretroattività delle determinazioni comunali a carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali e le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli oneri concessori ribadendosi l'integrale applicazione del principio “tempus regit actum” e, quindi, la irrilevanza ed ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto al momento del rilascio della concessione edilizia (Cfr. ex multis: TAR Puglia Lecce, III Sezione, 15.01.2013 n. 49).
Di conseguenza, deve ritenersi che le delibere comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri concessori possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore.
Nel caso di specie, si deve poi osservare che la determinazione degli oneri non solo avviene sulla base di parametri posteriori al titolo edilizio -e quindi in via retroattiva- ma che altresì la stessa pretesa comunale appare fondata sulla convinzione errata che sia possibile esigere periodicamente la richiesta di integrazione del pagamento ogni volta che l’importo tariffario venga modificato, posto che tale rideterminazione appare nella specie ancorata alle tabelle approvate anche per gli anni successivi a quello di rilascio del titolo edilizio.
Deve invece ritenersi, sulla base del dato normativo e in conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato da cui non vi sono ragioni di discostarsi, che non solo la determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle tariffe vigenti ma che la stessa non possa essere richiesta che una tantum al momento del rilascio del permesso edilizio senza possibilità di esigersi pagamenti per annualità successive al rilascio del titolo (Cfr. ex multis: TAR Puglia Lecce, III Sezione, 15.01.2013 n. 49).
E’ pertanto evidentemente illegittima la pretesa dell’Amministrazione intimata di addossare al titolare di un permesso edilizio rilasciato anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento posto che la determinazione degli oneri concessori al momento del rilascio era stata -a quanto risulta dagli atti di causa- correttamente determinata sulla base delle tabelle vigenti all’epoca.
Per ragione di completezza, si precisa che, anche qualificando come conseguenza del potere di autotutela la richiesta di integrazione degli oneri, la pretesa risulterebbe illegittima in quanto esercitata patentemente in violazione dell’art. 21-nonies Legge 07.08.1990 n. 241 e ss.mm. posto che:
- non risulta chiaramente il vizio originario da rimuovere, limitandosi il Comune genericamente a richiamare le norme e le tabelle succedutesi nel tempo;
- non viene comparato in motivazione l’interesse pubblico con l’interesse del destinatario, tenendo conto dell'affidamento ingeneratosi nel privato;
- in particolare non viene data alcuna motivazione in relazione al tempo trascorso, circa quattro anni, tra la determinazione originaria e la successiva rideterminazione, tenendo conto che lo stesso art. 21-nonies della Legge n. 241/1990 prescrive che il potere di ritiro venga esercitato “entro un ragionevole termine”.
In conclusione, per le ragioni esposte, vista l’illegittimità dei provvedimenti impugnati, il ricorso deve essere accolto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 21.04.2015 n. 1302 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer pacifica giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, l’annullamento d'ufficio di una concessione edilizia non necessita di espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, perché di interesse generale al rispetto della disciplina urbanistica.
In modo corretto quindi è fatto richiamo all’esigenza di un corretto ripristino del governo del territorio.
Inoltre la preminenza dell'interesse generale sull'interesse del privato, in situazioni come quella in esame, caratterizzate dalla collocazione del manufatto nella fascia costiera dei 300 m. dal mare, in zona H dal PUC, di particolare pregio naturalistico–ambientale e di conservazione integrale, è in re ipsa: anche in considerazione del principio fondamentale della tutela del paesaggio di cui all’art. 9, secondo comma, Cost..

E’ infine infondato e va respinto anche il IV motivo, di violazione dell’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 e di insufficiente motivazione sull’interesse pubblico, a base dell’annullamento in autotutela della concessione edilizia del 2006.
L’appello deduce che, tenuto conto del lungo periodo di tempo trascorso dall’avvenuto rilascio del titolo edilizio, e del ragionevole e incolpevole affidamento del privato sulla regolarità della situazione, non si comprende perché l’affidamento del privato doveva considerarsi recessivo rispetto all’interesse pubblico.
Anche la statuizione del giudice di primo di cui alle pagine da 13 a 15 della sentenza resiste alle critiche che le sono state rivolte.
Occorre piuttosto considerare in primo luogo che, per pacifica giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (es. Cons. Stato, IV, 30.07.2012, n. 4300), l’annullamento d'ufficio di una concessione edilizia non necessita di espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, perché di interesse generale al rispetto della disciplina urbanistica.
In modo corretto quindi è fatto richiamo all’esigenza di un corretto ripristino del governo del territorio. Inoltre la preminenza dell'interesse generale sull'interesse del privato, in situazioni come quella in esame, caratterizzate dalla collocazione del manufatto nella fascia costiera dei 300 m. dal mare, in zona H dal PUC, di particolare pregio naturalistico–ambientale e di conservazione integrale, è in re ipsa: anche in considerazione del principio fondamentale della tutela del paesaggio di cui all’art. 9, secondo comma, Cost. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.04.2015 n. 1915 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Sull'illegittimità degli affidamenti di servizi ulteriori non contemplati dalla convenzione Consip.
Gli affidamenti di servizi ulteriori, non contemplati dalla convenzione Consip, così come tutte le estensioni dell'oggetto e della durata delle forniture acquisite mediante il ricorso al sistema centralizzato, sono illegittimi perché comportano la violazione delle direttive comunitarie e delle norme nazionali che dispongono l'obbligo della gara pubblica a garanzia della concorrenza, della par condicio tra i partecipanti, della correttezza e della trasparenza della condotta della s.a..
L'art. 57, c. 5, lett. a), del d.lgs. n. 163/2006, prevede che il ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara è possibile nella misura strettamente necessaria, quando l'estrema urgenza, risultante da eventi imprevedibili per le stazioni appaltanti, non è compatibile con i termini imposti dalle procedure aperte, ristrette o negoziate, di pubblicazione di un bando di gara e sempre che tali circostanze, invocate a giustificazione dell'estrema urgenza, non siano imputabili alle stazioni appaltanti.
Poiché l'urgenza di provvedere e l'imprevedibilità non devono essere addebitabili in alcun modo all'amministrazione per carenza di adeguata organizzazione o programmazione ovvero per sua inerzia o responsabilità, nel caso di specie, non sussisteva, quanto meno il presupposto della imprevedibilità, in quanto l'Azienda, in precedenti appalti, aveva sempre aggiudicato il servizio di gestione e manutenzione degli impianti elettrici dell'Ospedale garantendo la copertura 24 ore su 24 ore per tutto l'anno proprio in relazione alle attività di urgenza e di alta specializzazione ivi svolte, risultando quindi del tutto prevedibile che con la adesione alla convenzione non sarebbe stata adeguatamente garantita la sicurezza degli impianti elettrici e speciali dalle 21,00 alle 7 e nei giorni di sabato e festivi.
Del pari il servizio non previsto nella convenzione Consip non avrebbe potuto essere affidato ad una seconda impresa, a meno di gravi disfunzioni e inconvenienti, con l' effetto che l'amministrazione non avrebbe potuto aderire alla convenzione che non soddisfaceva interamente le sue esigenze, né poteva colmare la parziale inidoneità della convenzione affidando a trattativa privata servizi complementari, peraltro di peso economico e durata non indifferenti, dividendo artificiosamente il servizio in due tronconi di cui uno, adesivo alla convenzione Consip, mentre l'altro attribuito alla medesima ditta ai sensi dell'art. 57, c. 5, del codice dei contratti.
Pertanto, non sussisteva nessun obbligo di adesione alla convenzione Consip a norma dell'art. 15, c. 13, del d.l. 06.07.2012 n. 95, conv. nella l. 07.08.2012 n. 135, essendo tale obbligo di adesione, ipotizzabile, non certo astrattamente, ma solo per l'acquisto di servizi concretamente rispondenti alle esigenze della stazione appaltante non potendo diversamente ipotizzarsi un obbligo giuridico di adesione là dove sia carente la concreta esigenza o inadeguato il contenuto della convenzione (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 14.04.2015 n. 1908 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Non è sufficiente ad invalidare una procedura selettiva il mero sospetto di possibili manomissioni delle buste contenenti le offerte.
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Solo con l'aggiudicazione definitiva può dirsi sorto un affidamento meritevole di tutela e risarcibile a titolo di responsabilità precontrattuale.

Non è sufficiente ad invalidare una procedura selettiva il mero sospetto di possibili manomissioni delle buste contenenti le offerte, occorrendo suffragare la deduzione con elementi, anche di carattere indiziario, che possano avere effettivamente inciso sulla genuinità dell'offerta (sentenza Consiglio di Stato, Ad. plen. 03.02.2014, n. 8).
Questo principio è estensibile anche al concorso di idee, potendo essere declinato nel senso che occorre corroborare la censura di irregolarità della procedura mediante l'allegazione di specifiche circostanze in virtù delle quali l'attività valutativa della giuria possa essere stata in concreto influenzata o vi sia stato un errore nell'abbinamento a posteriori dei nominativi dei progettisti con i progetti.
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L'estensione alle procedure di affidamento di contratti pubblici dei principi e delle regole in materia di responsabilità precontrattuale comporta che l'amministrazione aggiudicatrice in tanto può ritenersi soggetta alle conseguenze derivanti dall'art. 1337 cod. civ., in quanto la gara sia giunta ad uno stadio tale da avere ingenerato nel concorrente la ragionevole aspettativa di conseguire l'aggiudicazione e dunque la stipulazione del contratto. In altri termini, occorre che quest'ultimo veda frustrato un affidamento consolidato in ordine alla favorevole conclusione della procedura di gara.
A quest'ultimo riguardo, secondo una giurisprudenza ormai consolidata di questo Consiglio di Stato, solo con l'aggiudicazione definitiva può dirsi sorto un affidamento meritevole di tutela e risarcibile a titolo di responsabilità precontrattuale. Sotto questo profilo, è comune l'affermazione secondo cui una volta emesso l'atto terminale della procedura selettiva di evidenza pubblica, il concorrente destinatario può in effetti vantare un affidamento tutelabile a titolo di responsabilità precontrattuale, poiché la sua offerta, individuata come la migliore dalla commissione di gara, è stata ritenuta tale anche dalla stazione appaltante, attraverso l'approvazione dell'aggiudicazione provvisoria (art. 12, c. 1, d.lgs. n. 163/2006).
In questa prospettiva diviene pertanto fondamentale il passaggio dall'aggiudicazione provvisoria a quella definitiva, giacché la prima, stante il suo carattere meramente interinale e non conclusivo di questo provvedimento, non è idonea a configurare alcun affidamento sull'esito positivo della procedura di gara.
Quindi, l'ipotesi tipica di responsabilità precontrattuale dell'amministrazione è quella in cui quest'ultima, dopo avere definitivamente aggiudicato una gara, decida di ritirarla in autotutela o comunque non addivenga alla stipula del contratto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.04.2015 n. 1864 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

URBANISTICACostituisce principio giurisprudenziale consolidato quello secondo cui le autorità preposte alla pianificazione urbanistica e territoriale godono di ampia discrezionalità. Ne consegue che le scelte compiute in sede di pianificazione attengono al merito e sono sindacabili dal giudice amministrativo solo in casi eccezionali, e precisamente quando emerga con evidenza che esse sono inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare.
Anche per quanto riguarda la motivazione -salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni- si esclude che sia necessario indicare in maniera puntuale le ragioni che sorreggono ogni singola scelta, essendo sufficiente la motivazione che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano come risultante dalla relazione di accompagnamento.
Ciò premesso si deve ancora osservare che le valutazioni che attengono alla necessità di subordinare, per un determinato ambito, la possibilità di edificazione all’approvazione di un piano attuativo concernono proprio una scelta urbanistica che può essere, quindi, sindacata dal giudice entro i ristretti limiti innanzi illustrati.
La giurisprudenza ritiene che la subordinazione dello sfruttamento edificatorio di un’area all’approvazione di un piano attuativo costituisca scelta irrazionale quando l’area interessata sia già completamente urbanizzata. In questi casi, infatti, la struttura urbana è già sufficientemente delineata ed attrezzata; e non sussistono dunque quelle esigenze di armonizzazione che possono essere soddisfatte solo attraverso la pianificazione di secondo livello.
Va però osservato che la stessa giurisprudenza ha individuato un’eccezione al principio appena illustrato. Si ritiene, invero, che la pianificazione attuativa possa ritenersi giustificata, nonostante l’area interessata sia inserita in un contesto già urbanizzato, quando l’intervento da realizzare sia di notevole entità e comporti, dunque, la necessità di un adeguamento dei servizi esistenti e, comunque, la necessità della sua armonizzazione con il contesto territoriale circostante

12. In proposito il Collegio osserva quanto segue.
13. Costituisce principio giurisprudenziale consolidato quello secondo cui le autorità preposte alla pianificazione urbanistica e territoriale godono di ampia discrezionalità. Ne consegue che le scelte compiute in sede di pianificazione attengono al merito e sono sindacabili dal giudice amministrativo solo in casi eccezionali, e precisamente quando emerga con evidenza che esse sono inficiate da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare (Consiglio di Stato, sez. I, 27.10.2014, n. 1184; TAR Umbria, sez. I, 16.01.2015, n. 25).
14. Anche per quanto riguarda la motivazione -salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni- si esclude che sia necessario indicare in maniera puntuale le ragioni che sorreggono ogni singola scelta, essendo sufficiente la motivazione che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano come risultante dalla relazione di accompagnamento (cfr. Consiglio di Stato, sez. I, sent. n. 1184 del 2014, cit.; id. sez. IV, 01.07.2014, n. 3294).
15. Ciò premesso si deve ancora osservare che le valutazioni che attengono alla necessità di subordinare, per un determinato ambito, la possibilità di edificazione all’approvazione di un piano attuativo concernono proprio una scelta urbanistica che può essere, quindi, sindacata dal giudice entro i ristretti limiti innanzi illustrati.
16. La giurisprudenza ritiene che la subordinazione dello sfruttamento edificatorio di un’area all’approvazione di un piano attuativo costituisca scelta irrazionale quando l’area interessata sia già completamente urbanizzata. In questi casi, infatti, la struttura urbana è già sufficientemente delineata ed attrezzata; e non sussistono dunque quelle esigenze di armonizzazione che possono essere soddisfatte solo attraverso la pianificazione di secondo livello (cfr. Consiglio di Stato, ad. plen., 06.10.1992, n. 12).
17. Va però osservato che la stessa giurisprudenza ha individuato un’eccezione al principio appena illustrato. Si ritiene, invero, che la pianificazione attuativa possa ritenersi giustificata, nonostante l’area interessata sia inserita in un contesto già urbanizzato, quando l’intervento da realizzare sia di notevole entità e comporti, dunque, la necessità di un adeguamento dei servizi esistenti e, comunque, la necessità della sua armonizzazione con il contesto territoriale circostante (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 17.07.2013, n. 3880; id. sez. IV, 15.05.2002, n. 2592; TAR Lombardia Milano, sez. II, 23.07.2014, n. 1991) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.03.2015 n. 795 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso agli atti amministrativi: limiti alla ostensibilità di esposti e denunce.
L'esposto alla PA dal quale trae origine un'attività amministrativa che si traduce, prima, in verifiche ispettive e, quindi, in verbali di accertamento di illeciti amministrativi non può essere fatto oggetto di accesso agli atti, non sussistendo il requisito della stretta connessione e del rapporto di strumentalità necessaria rispetto alla tutela delle proprie posizioni soggettive in giudizio, previsto dall’art. 24, comma 7, della Legge n. 241/1990 ed invocato dal richiedente a supporto di una richiesta ex artt. 22 e ss. L. n. 241/1990.
E’ quanto emerge dalla sentenza 20.03.2015 n. 321 del TAR Veneto, resa in applicazione di un orientamento già riscontrabile anche nella giurisprudenza di secondo grado (C.d.S. sez. VI, sent. n. 5779/2014).
Il GA mette in evidenza il ruolo svolto dall’esposto, che, non ha natura necessaria, bensì meramente sollecitatoria rispetto ad una funzione amministrativa già in capo alla PA e che la stessa deve comunque generalmente esercitare, indipendentemente da segnalazioni private, in attuazione del canone di buon andamento dell’attività amministrativa (art. 97 Cost.).
Gli esposti e le denunce provenienti da privati, quindi, non si pongono in rapporto di necessaria causalità rispetto allo svolgimento dell’attività di verifica ispettiva.
L’attività amministrativa da cui il privato può eventualmente ricevere effetti sfavorevoli della propria sfera giuridica e rispetto alla quale ha, dunque, diritto all’accesso è costituita unicamente dai verbali amministrativi di accertamento, nei quali si sostanziano le determinazioni della PA procedente, che non costituiscono la risultante automatica delle segnalazioni private, bensì il prodotto delle attività di verifica ispettiva posta in essere.
La pronuncia si pone in linea con precedente giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. VI, sent. n. 5779/2014), per la quale la compiuta conoscenza dei fatti e delle allegazioni contestati risulta assicurata dal verbale di accertamento.
Nessun collegamento causale esiste, dunque, tra l’esposto ed il verbale di accertamento, ma solo tra la verifica ispettiva attivata ed il provvedimento finale.
Né è dato riscontrare un rinvio espresso dal verbale di accertamento all’esposto di parte e, dunque, una eventuale motivazione per relationem dell’atto amministrativo, tale da giustificare una richiesta di accesso estesa all’atto privato.
A parere dello scrivente i principi enunciati nei casi di specie, nei quali l’atto finale della PA si traduce in un’ordinanza - ingiunzione per un illecito amministrativo, paiono legittimamente richiamabili in ogni ipotesi di esercizio di attività amministrativa in autotutela.
Va dato atto, tuttavia, della sussistenza di un orientamento giurisprudenziale apparentemente difforme (per tutte: Tar Brescia sez. II, sentenza 20.11.2014, n. 1251).
Tale sentenza afferma, infatti, che il privato che subisce un procedimento di controllo vanta un interesse qualificato a conoscere tutti i documenti utilizzati per l'esercizio del potere, inclusi, di regola, gli esposti e le denunce che hanno attivato l'azione dell'autorità, e che l'esposto, una volta pervenuto nella sfera di conoscenza dell'amministrazione, costituisce un documento che assume rilievo procedimentale come presupposto di un'attività ispettiva o di un intervento in autotutela, di conseguenza il denunciante perde il controllo sulla propria segnalazione che diventa un elemento nella disponibilità dell'amministrazione. Né, ritiene il Tar lombardo, la sua divulgazione può ritenersi preclusa da esigenze di tutela della riservatezza, giacché il predetto diritto non assume un'estensione tale trasformarlo in diritto all'anonimato.
Un elemento di congiunzione tra i due richiamati orientamenti, a giudizio di chi scrive, potrebbe essere individuato nel carattere che, nella vicenda concreta, assume effettivamente l’atto di parte da cui si origina l’attività ispettiva che è sfociata nell’adozione dell’atto in autotutela.
Tale carattere potrebbe indurre a favore della ostensibilità dell’esposto nei limiti in cui esso abbia costituito direttamente l’elemento fondante dello stesso provvedimento finale, o sia stato richiamato a supporto delle determinazioni assunte, o, ancora, nel caso in cui, il provvedimento adottato motivi per relationem, avuto riguardo all’esposto o alla denuncia privata. Diversamente, e quindi in senso contrario alla ostensibilità, nel caso in cui la valutazione amministrativa si basa solo ed esclusivamente sugli esiti della verifica ispettiva.
La tematica proposta è di particolare attualità e rilevanza anche alla luce dell’art. 1, comma 51, della Legge n. 190/2012, introduttiva dell’art. 54-bis (
[i]) del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, rubricato “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”.
Tale norma sottrae all’accesso la denuncia del pubblico dipendente che segnala, in sede amministrativa, al proprio superiore gerarchico la supposta consumazione di condotte illecite, di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro.
L’adesione all’uno o all’altro degli orientamenti -fatta salva la lettura proposta, volta a renderli in qualche modo compatibili- ne determina la natura, quale norma ricognitiva ed applicativa di un principio generale o, diversamente, derogatoria ed eccezionale.
_____________
[i] Art. 54-bis. (Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti). 1. Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all'autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, o all'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia. 2. Nell'ambito del procedimento disciplinare, l'identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell'addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato. 3. L'adozione di misure discriminatorie e' segnalata al Dipartimento della funzione pubblica, per i provvedimenti di competenza, dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell'amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere. 4. La denuncia e' sottratta all'accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni (link a www.altalex.com).

ATTI AMMINISTRATIVIIl diritto di accesso non è meramente strumentale alla proposizione di una azione giudiziale, ma ha carattere autonomo rispetto a essa, cosicché il giudice dell’accesso deve accertare solo l’esistenza dei presupposti che legittimano la richiesta di accesso e non anche la necessità di utilizzare gli atti richiesti in un altro giudizio, ad es. dinanzi al giudice civile, fermo restando però che la disciplina sull’accesso non può essere rivolta a tutelare l’interesse a eseguire un controllo generico e generalizzato sull’attività della P.A..
Detto altrimenti, la necessaria sussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui è chiesto l’accesso, alla quale fa riferimento l’art. 22/B) della l. n. 241/1990 non significa che l’accesso sia stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio della situazione sottostante. Esso assume invece una valenza autonoma, non dipendente dalla sorte del processo principale eventualmente instaurato e dalla stessa possibilità di instaurazione di tale processo. In questa prospettiva, il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza, sancito dall’art. 22/B) della l. n. 241/1990, non può che essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse.
La giurisprudenza ha aggiunto che la domanda di accesso ai documenti amministrativi non può essere palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo interesse conoscitivo del soggetto richiedente, il quale deve specificare il nesso che lega il documento richiesto alla propria posizione soggettiva, ritenuta meritevole di tutela; detta domanda deve, inoltre, indicare i presupposti di fatto idonei a rendere percettibile l'interesse specifico, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento “de quo”.

4.- L’appello è infondato e va respinto.
4.1.- In via preliminare e generale, come questa Sezione ha più volte osservato (si vedano le decisioni nn. 942/2011 e 3309/2010, e ivi richiami ulteriori), il diritto di accesso non è meramente strumentale alla proposizione di una azione giudiziale, ma ha carattere autonomo rispetto a essa, cosicché il giudice dell’accesso deve accertare solo l’esistenza dei presupposti che legittimano la richiesta di accesso e non anche la necessità di utilizzare gli atti richiesti in un altro giudizio, ad es. dinanzi al giudice civile, fermo restando però che la disciplina sull’accesso non può essere rivolta a tutelare l’interesse a eseguire un controllo generico e generalizzato sull’attività della P.A..
Detto altrimenti, la necessaria sussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento a cui è chiesto l’accesso, alla quale fa riferimento l’art. 22/B) della l. n. 241/1990 non significa che l’accesso sia stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio della situazione sottostante. Esso assume invece una valenza autonoma, non dipendente dalla sorte del processo principale eventualmente instaurato e dalla stessa possibilità di instaurazione di tale processo. In questa prospettiva, il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l’accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza, sancito dall’art. 22/B) della l. n. 241/1990, non può che essere inteso in senso ampio, posto che la documentazione richiesta deve essere, genericamente, mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante, e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse (Cons. St., V, 3309/10 e ivi rif.).
La giurisprudenza (Cons. St., V, nn. 5226 e 3309 del 2010) ha aggiunto che la domanda di accesso ai documenti amministrativi non può essere palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo interesse conoscitivo del soggetto richiedente, il quale deve specificare il nesso che lega il documento richiesto alla propria posizione soggettiva, ritenuta meritevole di tutela; detta domanda deve, inoltre, indicare i presupposti di fatto idonei a rendere percettibile l'interesse specifico, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento “de quo”.
4.2.- Guardando più da vicino al caso in esame, sulla base di quanto si è visto sopra (v. punti 1. e 2.):
- non è contestato che il camping Pompei sia situato nelle immediate vicinanze del camping Zeus;
- trovandosi nella stessa zona nella quale opera un altro esercizio del medesimo genere sussiste, in capo alla Di Somma, una posizione differenziata di interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente rilevante e tutelata, collegata ai documenti oggetto della richiesta di accesso, come prescritto dall’art. 22, comma 1, lett. B) della l. n. 241/1990, in relazione alla pretesa di verificare la regolarità delle autorizzazioni possedute dalla concorrente, avendo inoltre, la Di Somma, nella istanza di accesso, specificato in modo adeguato l’esistenza di un nesso strumentale tra domanda di accesso alla documentazione richiesta ed esigenza di difesa di propri interessi giuridici con riguardo ad “azioni di concorrenza sleale” che, come denuncia la Di Somma, il gerente del camping Zeus avrebbe attuato ai danni del camping Pompei (su legittimazione e interesse all’accesso a documentazione a tutela della posizione degli operatori economici “territorialmente vicini” o ricadenti “in zona limitrofa” o “nel medesimo bacino di utenza” v. Cons. St. , sez. IV, n. 1768 del 2012);
- non assume rilievo, ai fini della legittimità di un eventuale diniego, che l’appellata avrebbe potuto dolersi delle condotte poste in essere dal camping Zeus in sede giudiziale civile;
- non si fa questione di una istanza meramente esplorativa, né una richiesta preordinata a un controllo generalizzato sull’operato della P.A.. Al contrario, l’istanza della Di Somma è tutt’altro che generica e riguarda atti e documenti che il Comune è in grado di individuare in maniera agevole. Del resto, la Di Somma non potrebbe specificare in modo più dettagliato gli atti del cui accesso si tratta indicando il numero di protocollo o altri dati utili per una migliore individuazione delle autorizzazioni, non conoscendo gli estremi della documentazione richiesta (lo si ripete, facilmente individuabile).
A una diversa conclusione si sarebbe potuti giungere qualora la richiedente avesse inteso conoscere un numero indeterminato, o assai elevato, di pratiche amministrative. Ma nel caso in esame, come detto, l’istanza non implica alcuna elaborazione di dati da parte dell’Ente pubblico destinatario della richiesta. Né viene imposta alla P.A. un'attività complessa di ricerca e reperimento dei documenti che presuppone un'attività preparatoria di elaborazione di dati.
Il richiamo, poi, che l’appellante fa a Cons. St. , VI, n. 117/2011 (v. dal p. 6.3.) appare improprio atteso che nella controversia definita dalla sesta Sezione il diniego di accesso si imperniava in primo luogo sulla pretesa del richiedente di conoscere un numero indeterminato di pratiche amministrative (degli ultimi cinque anni), che la P.A. avrebbe dovuto individuare compiendo necessariamente una attività di elaborazione di dati. Nel caso in esame, invece, la documentazione richiesta è agevolmente individuabile e non implica una attività di elaborazione di dati da parte del Comune;
- correttamente il TAR ha giudicato sussistente un interesse all’accesso meritevole di tutela, considerando l’istanza non esorbitante rispetto alla finalità in essa dichiarata (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 22.06.2012 n. 3683 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 22.04.2015

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IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Deve ritenersi pacifico e radicato in giurisprudenza il principio secondo il quale la sussistenza del requisito della vicinitas tra la proprietà dell'istante e quella del controinteressato, supportata dalla produzione dell'atto di acquisto dell'area interessata, fanno sì che debba riconoscersi la sussistenza in capo al ricorrente dell'interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto l'accesso (nella specie, copia dei titoli abilitativi in forza dei quali sono stati effettuati dal confinante i lavori descritti nell’istanza di accesso), che l'art. 22, l. n. 241 del 1990, anche nel nuovo testo conseguente alle modifiche apportate dalla l. n. 15 del 2005, prevede quale presupposto per la legittimazione all'azione e l'accoglimento della relativa domanda.
Peraltro, se è indubbio che il frontista (il confinante, il vicino) ad un'area oggetto di interventi edilizi ha il diritto di accedere ai relativi provvedimenti abilitativi, ancora indubbio è che a suo carico non sussiste l'onere di indicare dettagliatamente i documenti che intende visionare, essendo sufficiente, ai fini della specificità dell'istanza di accesso, che con la domanda siano forniti elementi utili alla loro individuazione.
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Se è vero che la sussistenza dei requisiti per l'accesso agli atti amministrativi va accertata, in sede sia amministrativa che giurisdizionale, nella pienezza del contraddittorio con gli interessati cui i documenti si riferiscono, i quali perciò assumono nel processo la veste di controinteressati, deve, tuttavia, ritenersi che tale fattispecie non ricorra e che, quindi, tale principio non trovi applicazione nei casi, come quello "de quo", in cui la domanda di accesso riguardi atti che, per la loro diretta inerenza a provvedimenti amministrativi pubblici, non possono essere in alcun modo sottratti all'accesso.
D’altro canto già, sotto l’impero della Legge Urbanistica fondamentale n. 1142 del 1950, l’art. 31 c. 9, (nella parte in cui stabiliva che chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto), aveva riconosciuto una posizione qualificata e differenziata in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con la stessa.
Parallelamente oggi l’art. 20, c. 6, del T.U. n. 380 del 2001, come inteso dalla giurisprudenza vigente, assicura a qualsiasi soggetto interessato (termine da intendersi non come sinonimo di un’azione popolare ma, come sopra chiarito, con riferimento ai proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con la stessa) la possibilità di visionare gli atti del procedimento di rilascio di permesso di costruire, in ragione del controllo diffuso sull'attività edilizia, che il legislatore ha inteso garantire ed atteso che in subiecta materia non può essere affermata l'esistenza di un diritto alla riservatezza in capo ai contro interessati; postulato cui accede che, nel caso di specie, non trova applicazione la norma dell’art. 3 del d.P.R. n. 184 del 2006 (diversamente da quanto sembra argomentato dalla resistente Amministrazione).
Pertanto il ricorso in epigrafe merita accoglimento con riferimento alla richiesta di ostensione della copia dei titoli abilitativi in forza dei quali sono stati effettuati dal confinante i lavori descritti nell’istanza di accesso.
Al contrario, analoga statuizione non è consentita con riguardo all’esibizione degli atti di cui all’art. 27, c. 4, del T.U. n. 380 del 2001 in quanto detta norma si riferisce agli atti di p.g. con cui, ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, una volta rilevati casi di presunta violazione urbanistico edilizia, ne danno immediata comunicazione all’A.g.o. (nel caso in cui, ovviamente, integrino notitiae criminis) ed ai competenti organi regionali e comunali.
Altrimenti detto gli atti de quibus sono redatti dalla p.a. non nell’esercizio delle sue istituzionali funzioni amministrative ma nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria ad essa specificamente attribuite dall'ordinamento; si è dunque in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria che, come tali, sono sottoposti al segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p. e, per conseguenza, sottratti all'accesso ai sensi dell'art. 24 della l. n. 241/1990.
Segue a tanto che gli specifici atti di cui al par. III), punto 2) dell’istanza di accesso del ricorrente, ove integranti -come già detto- notitiae criminis acquisite dagli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria dipendenti comunali nell’esercizio delle funzioni di p.g. ad essi specificamente attribuite dall’Ordinamento, vanno esclusi dall’ordine di esibizione di cui al dispositivo della presente decisione.

... per l'annullamento silenzio formatosi in esito all’istanza di accesso agli atti presentata al comune di Pomezia in data 22.10.2014.
...
Considerato in diritto:
- che deve ritenersi pacifico e radicato in giurisprudenza il principio secondo il quale la sussistenza del requisito della vicinitas tra la proprietà dell'istante e quella del controinteressato, supportata dalla produzione dell'atto di acquisto dell'area interessata, fanno sì che debba riconoscersi la sussistenza in capo al ricorrente dell'interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto l'accesso (nella specie, copia dei titoli abilitativi in forza dei quali sono stati effettuati dal confinante i lavori descritti nell’istanza di accesso), che l'art. 22, l. n. 241 del 1990, anche nel nuovo testo conseguente alle modifiche apportate dalla l. n. 15 del 2005, prevede quale presupposto per la legittimazione all'azione e l'accoglimento della relativa domanda;
- che, peraltro, se è indubbio che il frontista (il confinante, il vicino) ad un'area oggetto di interventi edilizi ha il diritto di accedere ai relativi provvedimenti abilitativi, ancora indubbio è che a suo carico non sussiste l'onere di indicare dettagliatamente i documenti che intende visionare, essendo sufficiente, ai fini della specificità dell'istanza di accesso, che con la domanda siano forniti elementi utili alla loro individuazione (cfr., in tal senso, ex plurimis, Cons. St. Sez. V, 14.02.2012, n. 946);
- che, se è vero che la sussistenza dei requisiti per l'accesso agli atti amministrativi va accertata, in sede sia amministrativa che giurisdizionale, nella pienezza del contraddittorio con gli interessati cui i documenti si riferiscono, i quali perciò assumono nel processo la veste di controinteressati, deve, tuttavia, ritenersi che tale fattispecie non ricorra e che, quindi, tale principio non trovi applicazione nei casi, come quello "de quo", in cui la domanda di accesso riguardi atti che, per la loro diretta inerenza a provvedimenti amministrativi pubblici, non possono essere in alcun modo sottratti all'accesso.
D’altro canto già, sotto l’impero della Legge Urbanistica fondamentale n. 1142 del 1950, l’art. 31 c. 9, (nella parte in cui stabiliva che chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto), aveva riconosciuto una posizione qualificata e differenziata in favore dei proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con la stessa.
Parallelamente oggi l’art. 20, c. 6, del T.U. n. 380 del 2001, come inteso dalla giurisprudenza vigente, assicura a qualsiasi soggetto interessato (termine da intendersi non come sinonimo di un’azione popolare ma, come sopra chiarito, con riferimento ai proprietari di immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e a coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con la stessa) la possibilità di visionare gli atti del procedimento di rilascio di permesso di costruire, in ragione del controllo diffuso sull'attività edilizia, che il legislatore ha inteso garantire ed atteso che in subiecta materia non può essere affermata l'esistenza di un diritto alla riservatezza in capo ai contro interessati (cfr. Cons. St. n. 9158 del 2013); postulato cui accede che, nel caso di specie, non trova applicazione la norma dell’art. 3 del d.P.R. n. 184 del 2006 (diversamente da quanto sembra argomentato dalla resistente Amministrazione);
- che pertanto il ricorso in epigrafe merita accoglimento con riferimento alla richiesta di ostensione della copia dei titoli abilitativi in forza dei quali sono stati effettuati dal confinante i lavori descritti nell’istanza di accesso; mentre analoga statuizione non è consentita con riguardo all’esibizione degli atti di cui all’art. 27, c. 4, del T.U. n. 380 del 2001 in quanto detta norma si riferisce agli atti di p.g. con cui, ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, una volta rilevati casi di presunta violazione urbanistico edilizia, ne danno immediata comunicazione all’A.g.o. (nel caso in cui, ovviamente, integrino notitiae criminis) ed ai competenti organi regionali e comunali.
Altrimenti detto gli atti de quibus sono redatti dalla p.a. non nell’esercizio delle sue istituzionali funzioni amministrative ma nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria ad essa specificamente attribuite dall'ordinamento; si è dunque in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria che, come tali, sono sottoposti al segreto istruttorio ex art. 329 c.p.p. e, per conseguenza, sottratti all'accesso ai sensi dell'art. 24 della l. n. 241/1990 (C.d.S., Sez. VI, 09.12.2008, n. 6117; Tar LT, n. 17 del 2014).
Segue a tanto che gli specifici atti di cui al par. III), punto 2) dell’istanza di accesso del ricorrente, ove integranti -come già detto- notitiae criminis acquisite dagli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria dipendenti comunali nell’esercizio delle funzioni di p.g. ad essi specificamente attribuite dall’Ordinamento, vanno esclusi dall’ordine di esibizione di cui al dispositivo della presente decisione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 15.04.2015 n. 5613 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVII diritti di ricerca e visura possono essere richiesti soltanto per i documenti per i quali sia richiesta, dopo il loro esame, l'estrazione di copia (e non per la sola visione).
- com'è noto l'art. 25, comma 1, della legge 07.08.1990, n. 241 dispone testualmente che: "Il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla presente legge. L'esame dei documenti è gratuito. Il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura";
- la disposizione, pur non brillando sotto il profilo sintattico -posto l'inciso, in funzione della costruzione della frase ("Il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo,") avrebbe richiesto l'uso della preposizione articolata "dei" (diritti di ricerca e visura) e non già dell'articolo determinativo "i"- è affatto chiara nel sancire l'assoluta gratuità dell'esame dei documenti, e d'altro canto l'inciso "nonché i diritti di ricerca e visura" è contenuto nella suddetta proposizione, separata dall'altra, relativa all'esame dei documenti, da un segno d'interpunzione, un punto, che non consente di riferirne all'altra il contenuto;
- a cospetto di un tenore letterale siffatto e privo di ogni equivocità non è consentito, con una operazione ermeneutica che si risolve in effetti in una vera e propria integrazione eterotestuale, tale da legare alla prima proposizione ("L'esame dei documenti è gratuito") una porzione della seconda ("...nonché i diritti di ricerca e di visura"), sostenere che sia legittima la richiesta, anche per il solo esame della documentazione, dei c.d. diritti di ricerca e visura; e ciò sia in relazione alle regole generali dell'interpretazione di cui all'art. 12 delle disp. prel. cod. civ., dovendosi attribuire all'enunciato normativo anzitutto il senso "...fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse", e quindi potendo soccorrere l'intentio legis solo se e in quanto essa sia del tutto chiara e inequivoca e possa dunque convalidare l'interpretazione letterale, non anche quando, come nella specie, essa sia soltanto "supposta", e invero ricostruita in una chiave per così dire funzionalista che finisce per vanificare l'affermazione della gratuità dell'esame documentale, ponendo a carico del soggetto che esercita l'accesso un costo, quale che ne sia la modalità di determinazione;
- né può giovare il richiamo alla sentenza del giudice amministrativo lombardo (TAR Brescia, 25.06.2012, n. 1187) che si spinge alla determinazione di una misura forfetizzata dei diritti di ricerca e visura, e quindi oltre i limiti esterni della giurisdizione amministrativa;
- sotto altro profilo, peraltro, è evidente che l'Amministrazione deve comunque sostenere, quali costi generali, il cui finanziamento ricade sulla fiscalità generale, le spese relative alla predisposizione di uffici e personale dedicati, tra l'altro, al riscontro delle istanze di accesso, e non può pretendere di ripartirli pro-quota, nemmeno in forma forfetizzata, sui soggetti che esercitano l'accesso nella sola forma della visione, potendo, al limite esigere i diritti di ricerca e visura per i soli documenti di cui sia richiesta l'estrazione di copia;
- una diversa opzione ermeneutica, in contrasto con la chiara lettera della disposizione, con i principi generali sull'interpretazione, con l'esigenza di non rendere gravoso l'esercizio del diritto di accesso nella forma della visione, di cui la legge stabilisce l'assoluta gratuità, finirebbe per comprimere in modo del tutto irragionevole e senza alcuna base normativa il diritto di accesso e in definitiva lo stesso esercizio di difesa giurisdizionale cui l'accesso sia finalizzato, onde non sarebbe comunque sostenibile in una chiave costituzionalmente orientata.

- nel merito l'appello in epigrafe è fondato, onde, in riforma dell'ordinanza impugnata, deve essere accolta l'istanza, intesa a conseguire l'accesso nella forma della visione senza il pagamento dei diritti di ricerca e visura;
- com'è noto l'art. 25, comma 1, della legge 07.08.1990, n. 241 dispone testualmente che: "Il diritto di accesso si esercita mediante esame ed estrazione di copia dei documenti amministrativi, nei modi e con i limiti indicati dalla presente legge. L'esame dei documenti è gratuito. Il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo, nonché i diritti di ricerca e di visura";
- la disposizione, pur non brillando sotto il profilo sintattico -posto l'inciso, in funzione della costruzione della frase ("Il rilascio di copia è subordinato soltanto al rimborso del costo di riproduzione, salve le disposizioni vigenti in materia di bollo,") avrebbe richiesto l'uso della preposizione articolata "dei" (diritti di ricerca e visura) e non già dell'articolo determinativo "i"- è affatto chiara nel sancire l'assoluta gratuità dell'esame dei documenti, e d'altro canto l'inciso "nonché i diritti di ricerca e visura" è contenuto nella suddetta proposizione, separata dall'altra, relativa all'esame dei documenti, da un segno d'interpunzione, un punto, che non consente di riferirne all'altra il contenuto;
- a cospetto di un tenore letterale siffatto e privo di ogni equivocità non è consentito, con una operazione ermeneutica che si risolve in effetti in una vera e propria integrazione eterotestuale, tale da legare alla prima proposizione ("L'esame dei documenti è gratuito") una porzione della seconda ("...nonché i diritti di ricerca e di visura"), sostenere che sia legittima la richiesta, anche per il solo esame della documentazione, dei c.d. diritti di ricerca e visura; e ciò sia in relazione alle regole generali dell'interpretazione invocate dall'appellante di cui all'art. 12 delle disp. prel. cod. civ., dovendosi attribuire all'enunciato normativo anzitutto il senso "...fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse", e quindi potendo soccorrere l'intentio legis solo se e in quanto essa sia del tutto chiara e inequivoca e possa dunque convalidare l'interpretazione letterale, non anche quando, come nella specie, essa sia soltanto "supposta", e invero ricostruita in una chiave per così dire funzionalista che finisce per vanificare l'affermazione della gratuità dell'esame documentale, ponendo a carico del soggetto che esercita l'accesso un costo, quale che ne sia la modalità di determinazione;
- né può giovare il richiamo alla sentenza del giudice amministrativo lombardo (TAR Brescia, 25.06.2012, n. 1187), cui pure rinvia l'ordinanza appellata, che si spinge alla determinazione di una misura forfetizzata dei diritti di ricerca e visura, e quindi oltre i limiti esterni della giurisdizione amministrativa;
- sotto altro profilo, peraltro, è evidente che l'Amministrazione deve comunque sostenere, quali costi generali, il cui finanziamento ricade sulla fiscalità generale, le spese relative alla predisposizione di uffici e personale dedicati, tra l'altro, al riscontro delle istanze di accesso -e infatti non casualmente le note gravate provengono dall'Ufficio relazioni col pubblico del Comando territoriale regionale dell'Arma-, e non può pretendere di ripartirli pro-quota, nemmeno in forma forfetizzata, sui soggetti che esercitano l'accesso nella sola forma della visione, potendo, al limite esigere i diritti di ricerca e visura per i soli documenti di cui sia richiesta l'estrazione di copia;
- una diversa opzione ermeneutica, in contrasto con la chiara lettera della disposizione, con i principi generali sull'interpretazione, con l'esigenza di non rendere gravoso l'esercizio del diritto di accesso nella forma della visione, di cui la legge stabilisce l'assoluta gratuità, finirebbe per comprimere in modo del tutto irragionevole e senza alcuna base normativa il diritto di accesso e in definitiva lo stesso esercizio di difesa giurisdizionale cui l'accesso sia finalizzato, onde non sarebbe comunque sostenibile in una chiave costituzionalmente orientata;
- peraltro la circolare impugnata in via tuzioristica ed eventuale, a sua volta, non contiene alcuna chiara indicazione nel senso che i diritti di ricerca e visura siano dovuti anche nel caso del semplice esame documentale, e ove interpretabile nondimeno in tal senso risulta illegittima per le ragioni testé enunciate;
- in definitiva i diritti di ricerca e visura potranno essere richiesti soltanto per i documenti per i quali sia richiesta, dopo il loro esame, l'estrazione di copia (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 14.04.2015 n. 1900 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa mancata impugnazione del diniego nel termine di 30 gg. non consente la reiterabilità dell'istanza e la conseguente impugnazione del successivo diniego laddove a questo debba riconoscersi carattere meramente confermativo del primo.
In altre parole, il privato potrà reiterare l'istanza di accesso e pretendere riscontro alla stessa in presenza di fatti nuovi, sopravvenuti o meno, non rappresentati nell'originaria istanza.
Risulta pacifica in giurisprudenza la natura decadenziale del termine di trenta giorni per proporre impugnazione avverso il diniego di accesso e il silenzio sulle istanze di accesso, previsto oggi dall’art. 116 c.p.a. e, prima dell’entrata in vigore del codice, dall’art. 25 L. 241/1990, come modificato dalla L. 15/2005.
L’azione ad exhibendum si connota infatti quale giudizio a struttura impugnatoria che consente alla tutela giurisdizionale dell'accesso di assicurare la protezione dell'interesse giuridicamente rilevante e, al contempo, quell'esigenza di stabilità delle situazioni giuridiche e di certezza delle posizioni dei controinteressati che sono pertinenti ai rapporti amministrativi scaturenti dai principi di pubblicità e trasparenza dell'azione amministrativa.
D’altro canto la natura decadenziale del termine è coerente con il carattere accelerato del giudizio, che mal si concilierebbe con la proponibilità dell'azione nell'ordinario termine di prescrizione.
Dalla natura decadenziale del termine consegue che la mancata impugnazione del diniego nel predetto termine non consente la reiterabilità dell'istanza e la conseguente impugnazione del successivo diniego laddove a questo debba riconoscersi carattere meramente confermativo del primo.
In altre parole, il privato potrà reiterare l'istanza di accesso e pretendere riscontro alla stessa in presenza di fatti nuovi, sopravvenuti o meno, non rappresentati nell'originaria istanza.
Ma qualora non ricorrano tali elementi di novità e il privato si limiti a reiterare l'originaria istanza precedentemente respinta o, al più, a illustrare ulteriormente le sue ragioni, l'amministrazione ben potrà limitarsi a ribadire la propria precedente determinazione negativa, non potendosi immaginare, anche per ragioni di buon funzionamento dell'azione amministrativa in una cornice di reciproca correttezza dei rapporti tra privato e amministrazione, che l'amministrazione sia tenuta indefinitamente a prendere in esame la medesima istanza che il privato intenda ripetutamente sottoporle senza addurre alcun elemento di novità.
Ne consegue che la determinazione successivamente assunta dall'amministrazione, a meno che questa non proceda autonomamente a una nuova valutazione della situazione, assume carattere meramente confermativo del precedente diniego e non è perciò autonomamente impugnabile.

Deve premettersi che risulta pacifica in giurisprudenza (cfr. TAR Firenze sez. III 28.10.2013 n. 1475; TAR Lazio-Roma sez. III 23.10.2013 n. 9127; Cons. Stato sez. VI 04.10.2013 n. 4912; Cons. Stato sez. IV 26.09.2013 n. 4789; Ad. Plen. nn. 6 e 7 del 2006) la natura decadenziale del termine di trenta giorni per proporre impugnazione avverso il diniego di accesso e il silenzio sulle istanze di accesso, previsto oggi dall’art. 116 c.p.a. e, prima dell’entrata in vigore del codice, dall’art. 25 L. 241/1990, come modificato dalla L. 15/2005.
L’azione ad exhibendum si connota infatti quale giudizio a struttura impugnatoria che consente alla tutela giurisdizionale dell'accesso di assicurare la protezione dell'interesse giuridicamente rilevante e, al contempo, quell'esigenza di stabilità delle situazioni giuridiche e di certezza delle posizioni dei controinteressati che sono pertinenti ai rapporti amministrativi scaturenti dai principi di pubblicità e trasparenza dell'azione amministrativa. D’altro canto la natura decadenziale del termine è coerente con il carattere accelerato del giudizio, che mal si concilierebbe con la proponibilità dell'azione nell'ordinario termine di prescrizione.
Dalla natura decadenziale del termine consegue che la mancata impugnazione del diniego nel predetto termine non consente la reiterabilità dell'istanza e la conseguente impugnazione del successivo diniego laddove a questo debba riconoscersi carattere meramente confermativo del primo.
In altre parole, il privato potrà reiterare l'istanza di accesso e pretendere riscontro alla stessa in presenza di fatti nuovi, sopravvenuti o meno, non rappresentati nell'originaria istanza.
Ma qualora non ricorrano tali elementi di novità e il privato si limiti a reiterare l'originaria istanza precedentemente respinta o, al più, a illustrare ulteriormente le sue ragioni, l'amministrazione ben potrà limitarsi a ribadire la propria precedente determinazione negativa, non potendosi immaginare, anche per ragioni di buon funzionamento dell'azione amministrativa in una cornice di reciproca correttezza dei rapporti tra privato e amministrazione, che l'amministrazione sia tenuta indefinitamente a prendere in esame la medesima istanza che il privato intenda ripetutamente sottoporle senza addurre alcun elemento di novità.
Ne consegue che la determinazione successivamente assunta dall'amministrazione, a meno che questa non proceda autonomamente a una nuova valutazione della situazione, assume carattere meramente confermativo del precedente diniego e non è perciò autonomamente impugnabile (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 13.04.2015 n. 918 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISecondo quanto osservato dalla giurisprudenza, prima dell’avvento della l. n. 15 del 2005 che ha modificato la definizione di «controinteressato» nel procedimento di accesso, si «tendeva a considerare come controinteressati tutti i soggetti determinati cui -semplicemente- si riferissero i documenti richiesti in accesso».
La novella definizione appena riportata ha avuto un’indubbia portata innovativa, in quanto ha imposto di riconoscere la qualità di controinteressato non già a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano nominati o comunque coinvolti nel documento oggetto dell'istanza ostensiva, ma, appunto, solo a coloro che per effetto dell'ostensione vedrebbero pregiudicato il loro diritto alla riservatezza. Non basta, perciò, che taluno venga chiamato in qualche modo in causa dal documento in richiesta, ma occorre in capo a tale soggetto un quid pluris, vale a dire la titolarità di un diritto alla riservatezza sui dati racchiusi nello stesso documento.
La veste di controinteressato in tema di accesso è una proiezione, perciò, del valore della riservatezza, e non già della mera oggettiva riferibilità di un dato alla sfera di un certo soggetto.
Se ne desume che non tutti i dati riferibili ad un soggetto sono per ciò solo rilevanti ai fini in discorso, ma solo quelli rispetto ai quali sussista, per la loro inerenza alla personalità individuale, o per i pregiudizi che potrebbero discendere da una loro diffusione, una precisa e ben qualificata esigenza di riserbo».
In tal senso l’art. 3 del d.P.R. n. 184 del 2006 ha posto l’obbligo della p.a. di individuare i controinteressati e di notiziarli circa l’esistenza dell’istanza di accesso. Esso stabilisce, al primo comma, che «[…] Fermo quanto previsto dall'articolo 5, la pubblica amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, di cui all'articolo 22, comma 1, lettera c), della legge, è tenuta a dare comunicazione agli stessi, mediante invio di copia con raccomandata con avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano consentito tale forma di comunicazione. I soggetti controinteressati sono individuati tenuto anche conto del contenuto degli atti connessi, di cui all'articolo 7, comma 2».
Così inquadrato l’assetto normativo di riferimento, deve ritenersi che, in sede giurisdizionale, non può essere dichiarato inammissibile il ricorso per l’accesso per assenza di notifica al controinteressato non solo quando la stessa Amministrazione non abbia ritenuto di dover consentire la partecipazione di altri in sede procedimentale, ma anche quando essa, pur avendo individuato i «controinteressati» ai sensi dell’art. 22 della l. n. 241 del 1990, non ne abbia comunicate le generalità al soggetto che ha presentato l’istanza ostensiva al fine di consentirgli di individuare esattamente i destinatari della notificazione del ricorso.

2) Inammissibilità del ricorso per omessa notifica ai controinteressati: l’art. 22, comma 1, lett. c), della l. n. 241 del 1990 stabilisce che per «controinteressati» devono intendersi “tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza”.
Secondo quanto osservato dalla giurisprudenza, prima dell’avvento della l. n. 15 del 2005 che ha modificato la definizione di «controinteressato» nel procedimento di accesso, si «tendeva a considerare come controinteressati tutti i soggetti determinati cui -semplicemente- si riferissero i documenti richiesti in accesso» (C.d.S., V, 02.12.1998, n. 1725; VI, 08.07.1997, n. 1117; IV, 11.06.1997, n. 643; VI, 05.10.1995, n. 1085; VI, 20.05.1995, n. 506; VI, 06.02.1995, n. 71; IV, 15.09.1994, n. 713; IV, 07.03.1994, n. 216; A.P., n. 16 del 1999).
La novella definizione appena riportata ha avuto un’indubbia portata innovativa, in quanto ha imposto di riconoscere la qualità di controinteressato (cfr. sul punto C.d.S., VI, n. 3601 del 2007) non già a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano nominati o comunque coinvolti nel documento oggetto dell'istanza ostensiva, ma, appunto, solo a coloro che per effetto dell'ostensione vedrebbero pregiudicato il loro diritto alla riservatezza. Non basta, perciò, che taluno venga chiamato in qualche modo in causa dal documento in richiesta, ma occorre in capo a tale soggetto un quid pluris, vale a dire la titolarità di un diritto alla riservatezza sui dati racchiusi nello stesso documento.
La veste di controinteressato in tema di accesso è una proiezione, perciò, del valore della riservatezza, e non già della mera oggettiva riferibilità di un dato alla sfera di un certo soggetto.
Se ne desume che non tutti i dati riferibili ad un soggetto sono per ciò solo rilevanti ai fini in discorso, ma solo quelli rispetto ai quali sussista, per la loro inerenza alla personalità individuale, o per i pregiudizi che potrebbero discendere da una loro diffusione, una precisa e ben qualificata esigenza di riserbo» (Cons. St., VI, 27.05.2011, n. 3190; in termini anche TAR Lazio, Roma, 25.09.2012, n. 8104).
In tal senso l’art. 3 del d.P.R. n. 184 del 2006 ha posto l’obbligo della p.a. di individuare i controinteressati e di notiziarli circa l’esistenza dell’istanza di accesso. Esso stabilisce, al primo comma, che «[…] Fermo quanto previsto dall'articolo 5, la pubblica amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, di cui all'articolo 22, comma 1, lettera c), della legge, è tenuta a dare comunicazione agli stessi, mediante invio di copia con raccomandata con avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano consentito tale forma di comunicazione. I soggetti controinteressati sono individuati tenuto anche conto del contenuto degli atti connessi, di cui all'articolo 7, comma 2».
Così inquadrato l’assetto normativo di riferimento, deve ritenersi che, in sede giurisdizionale, non può essere dichiarato inammissibile il ricorso per l’accesso per assenza di notifica al controinteressato non solo quando la stessa Amministrazione non abbia ritenuto di dover consentire la partecipazione di altri in sede procedimentale, ma anche quando essa, pur avendo individuato i «controinteressati» ai sensi dell’art. 22 della l. n. 241 del 1990, non ne abbia comunicate le generalità al soggetto che ha presentato l’istanza ostensiva al fine di consentirgli di individuare esattamente i destinatari della notificazione del ricorso
” (TAR Sicilia, sez. 3, sent. 25/07/2014 n. 2041).
Anche tale eccezione va, pertanto, disattesa
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 09.04.2015 n. 572 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOOggetto: chiarimenti sulla circolare DPF n. 2 del 2015 - impatto dell'art. 1, comma 113, della legge di Stabilità 2015 (nota 16.04.2015 n. 24210 di prot.).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa costituzione del fondo per il salario accessorio nel 2015 (CGIL-FP di Bergamo, nota 09.04.2015).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

LAVORI PUBBLICI: A. Quaranta, Valutazione di impatto ambientale: linee guida per verificare l’assoggettabilità (21.04.2015 - tratto da www.ispoa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Guida, Accesso agli atti amministrativi: limiti alla ostensibilità di esposti e denunce alla base di atti in autotutela (02.04.2015 - link a www.diritto.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 17 del 21.04.2015, "Approvazione criteri, indirizzi e modalità procedimentali per l’elaborazione e l’approvazione dei piani di classificazione degli immobili, ai sensi dell’articolo 90 della l.r. 31/2008 e contestuale sostituzione della d.g.r. n. VIII/2546 del 17.05.2006" (deliberazione G.R. 17.04.2015 n. 3420).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 17 del 20.04.2015, "Approvazione delle linee guida per il riconoscimento della qualifica di fattoria sociale ai sensi dell’articolo 8-bis della legge regionale 05.12.2008, n. 31 «Testo unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale»" (deliberazione G.R. 10.04.2015 n. 3387).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 11.04.2015 n. 84 "Linee guida per la verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale dei progetti di competenza delle regioni e province autonome, previsto dall’articolo 15 del decreto-legge 24.06.2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 116" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 30.03.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 15 del 10.04.2015, "Legge europea regionale 2015. Disposizioni per l’adempimento degli obblighi della Regione Lombardia derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea" (L.R. 08.04.2015 n. 8).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 18.03.2015 n. 64 "Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28.04.2014, n. 67" (D.Lgs. 16.03.2015 n. 28).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 25.11.2014 n. 274 "Regolamento di organizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, degli uffici della diretta collaborazione del Ministro e dell’Organismo indipendente di valutazione della performance, a norma dell’articolo 16, comma 4, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.06.2014, n. 89" (D.P.C.M. 29.08.2014 n. 171).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

LAVORI PUBBLICIGare, illegittime clausole sul forfait per i progetti.
È illegittima la clausola del disciplinare di una gara di appalto pubblico che impone, a pena di esclusione, il versamento di una somma forfettaria per l'acquisizione degli elaborati progettuali posti a base di gara; la somma da richiedere deve essere correlata all'effettivo costo di duplicazione degli elaborati e non all'importo dell'affidamento; diversamente si viola il principio di massima partecipazione alle procedure di gara.

È quanto afferma l'Autorità nazionale anticorruzione con il parere di precontenzioso 12.03.2015 n. 31 reso pubblico in questi giorni riguardante la quantificazione delle somme che i concorrenti partecipanti a gara di appalto e di concessione devono corrispondere alle stazioni appaltanti per la duplicazione degli elaborati posti a base di gara, utili ai fini della presentazione delle offerte.
Si tratta spesso di somme di non poco valore, soprattutto quando si tratta di appalti integrati (progettazione esecutiva e costruzione) complessi e articolati con richiesta di migliorie progettuali da presentare in sede di gara. Nel caso esaminato dall'Autorità presieduta da Raffaele Cantone, il disciplinare di gara richiedeva espressamente ai concorrenti di produrre la ricevuta del versamento di 300 euro effettuato sul conto corrente del comune per il ritiro su supporto informatico degli elaborati del progetto definitivo posto a base di gara con indicazione della causale «Ritiro elaborati progetti definitivo», a pena di esclusione dalla gara.
Nello specifico l'amministrazione, con una apposita determina, aveva definito le tariffe in considerazione dei costi che l'ente sostiene per l'erogazione dei propri servizi, provvedendo ad una ripartizione dei diritti di segreteria, differenziata per settori di intervento e per importo, ma non in funzione dell'effettivo costo di riproduzione degli elaborati. Un concorrente eccepiva la congruità della somma e l'Anac al riguardo dà ragione al concorrente.
Le ragioni della decisione dell'Authority poggiano sulla considerazione che non si può prevedere un rimborso forfettario commisurato all'importo a base di gara e svincolato dall'effettivo costo di produzione degli elaborati progettuali, Così facendo infatti si determinerebbe una violazione del principio di massima partecipazione alle procedure di gara (articolo ItaliaOggi del 16.04.2015).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 – art. 29, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003 – contrattazione collettiva nazionale – esclusione del regime della responsabilità solidale negli appalti (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 17.04.2015 n. 9/2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: OGGETTO: Chiarimenti in materia di imposta di bollo assolta in modo virtuale ai sensi degli articoli 15 e 15-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26.10.1972, n. 642 (Agenzia delle Entrate, circolare 14.04.2015 n. 16/E).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Procedure semplificare per la bonifica dei punti vendita carburanti (ANCE di Bergamo, circolare 10.04.2015 n. 92).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Pagamento del diritto annuale di iscrizione al SISTRI, all’Albo Nazionale Gestori Ambientali e per le imprese che recuperano rifiuti in procedura semplificata (ANCE di Bergamo, circolare 10.04.2015 n. 90).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Modello Unico di Dichiarazione ambientale – scadenza del 30.04.2015. Modalità di pagamento dei diritti di segreteria (ANCE di Bergamo, circolare 10.04.2015 n. 89).

INCARICHI PROFESSIONALI - PROGETTUALI: Oggetto: regolarità contributiva degli iscritti ad Inarcassa (Inarcassa, nota 01.04.2015 n. 103 di prot.).

SICUREZZA LAVORO: OGGETTO: linee guida per il coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione dei lavori. Versione emendata (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 27.03.2015 n. 510).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Obbligatorietà della trasmissione telematica, con modello unico informatico catastale, per la presentazione degli atti di aggiornamento (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 24.03.2015 n. 508).

INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto: Emanazione della Determinazione dell'Anac n. 4/2015 "Linee guida per l'affidamento dei servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria". Principali contenuti (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 24.03.2015 n. 507).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Quesito in materia di prevenzione incendi - Assoggettabilità attività di gommista - Riscontro (Ministero dell'Interno - Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, nota 12.03.2015 n. 3043 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Ulteriori precisazioni e chiarimenti riguardanti la gestione delle procedure riguardanti il vincolo idrogeologico (Regione Lombardia, nota 20.02.2015 n. 66529 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Modifiche all'art. 44 della l.r. 31/2008 (vincolo idrogeologico e trasformazione d'uso del suolo) apportate con l.r. 19/2014. Comunicazione (Regione Lombardia, nota 11.08.2014 n. 63319 di prot.).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATAL’Iva agevolata per le manutenzioni in casa (articolo ItaliaOggi Sette del 20.04.2015).

VARIImpianto antenna TV, ecco la guida al dimensionamento nello speciale di BibLus-net.
Impianto antenna Tv, tutto quello che occorre sapere sul dimensionamento dell'antenna terrestre e satellitare nel nuovo speciale di BibLus-net. Scaricalo subito!
La televisione rappresenta una delle innovazioni più significative del 900, uno strumento che ha modificato cultura, usi e costumi di tutto il mondo.
Un mezzo di comunicazione di massa trasformatosi nel corso del tempo, dagli enormi scatoloni che trasmettevano immagini in bianco e nero ai modernissimi schermi OLED ad altissima definizione, sui quali vedere centinaia di canali con standard di altissima qualità, possibili grazie all’avvento del digitale.
L’avvento della televisione digitale ha cambiato completamente il modo di concepire l’impianto TV da parte delle famiglie: oggi tale impianto diventa un sistema integrato che oltre al compito principale di ricevere e distribuire i segnali TV a tutti i televisori di una casa, deve consentire l’interconnessione e l’interoperabilità di apparecchiature diverse quali decoder SAT e DTT, computer, tablet, smart-phone, console.
La progettazione di un impianto antenna TV adeguato diventa quindi un’operazione fondamentale e niente affatto semplice, specie nei condomini, ove vi è la necessità di trasportare il segnale attraverso un impianto centralizzato, al fine di contenere il numero di antenne satellitari e terrestri presenti sui balconi.
Portare in ogni abitazione un numero sufficiente di prese TV, sia satellitari che terrestri, è diventata quindi un’esigenza di prima necessità: oramai in ogni casa è presente almeno un decoder satellitare oltre a quello terrestre.
E molto spesso la richiesta tende ad aumentare all’interno della stessa abitazione.
Se prima era facile “splittare” un segnale analogico proveniente da un normale cavo di antenna coassiale (chiunque poteva cimentarsi nella realizzazione di una semplice “T”, infatti la perdita di segnale (rumore) provocata non era un grosso problema), oggi non è altrettanto semplice aumentare il numero di prese satellitari.
Diventa quindi necessario, soprattutto nei nuovi condomini o nelle ristrutturazioni di quelle esistenti o comunque nelle abitazioni con grandi utenze tv, progettare accuratamente l’impianto antenna TV, al fine di portare il segnale in maniera adeguata.
In linea generale, realizzare un impianto antenna TV che consenta di ricevere sia il segnale digitale terrestre che quello satellitare, evitando di incorrere in situazioni di degrado che rendano difficoltosa la ricezione del segnale e la successiva decodifica, è un’operazione che richiede una fase di progettazione molto attenta ed un’attività di esecuzione anch’essa scrupolosa.
Un impianto ben progettato e realizzato a regola d’arte è in grado di durare per un periodo di tempo mediamente lungo e può garantire una gestione ottimale del segnale nonostante il naturale invecchiamento delle apparecchiature coinvolte.
Con questa guida cerchiamo di fornire al lettore i concetti principali legati ad un impianto antenna TV, in maniera esemplificativa, offrendo un valido strumento di supporto per la scelta del tipo di impianto e per il suo dimensionamento.
Ricordiamo, inoltre, che ACCA ha sviluppato in collaborazione con SKY Impiantus-ANTENNA TV, il software per la progettazione dell’impianto TV digitale terrestre e satellitare, con tutte le soluzioni di ricezione e distribuzione del segnale radiotelevisivo digitale.
Il programma consente di progettare un impianto TV completo di tutti i suoi componenti: antenna, headend, parabola satellitare, LNB (Low Noise Block downconverter), divisori, amplificatori, multiswitch, prese e cavi.
In appendice a questa guida, proponiamo anche la relazione tecnica sul dimensionamento di un impianto DTT/SAT collettivo al servizio di un fabbricato condominiale con diverse abitazioni e utenze, generata con il programma Impiantus-ANTENNA TV (16.04.2015 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATACalcolo canna fumaria, ecco la guida al dimensionamento nello speciale di BibLus-net.
Calcolo canna fumaria, non sbagliare mai più il calcolo della canna fumaria per un camino, una stufa o una caldaia. Scarica subito lo speciale di BibLus-net.
La canna fumaria è l’elemento dell’impianto termico che ha la funzione di smaltire i prodotti della combustione del generatore di calore nell’atmosfera.
L’aria esterna viene aspirata per essere bruciata insieme al combustibile nella camera di combustione, creando una miscela di ossigeno e prodotti della combustione che deve essere espulsa attraverso il camino.
Affinché tale miscela possa procedere nei condotti che compongono il camino, è necessario che si inneschi una differenza di pressione tra l’ingresso e l’uscita della canna fumaria.
La miscela di gas all'interno della camera di combustione ha una densità inferiore a quella dell'aria esterna. Il rapporto tra le due densità è proporzionale alla temperatura di combustione (maggiore la temperatura rispetto all'aria comburente, minore sarà la densità).
Quindi, una maggiore differenza tra la temperatura interna ed esterna ed una maggiore altezza del camino determineranno un miglior tiraggio della canna fumaria.
Questo fenomeno naturale apparentemente semplice però non è così scontato in tutte le situazioni: i prodotti della combustione, nel loro percorso lungo la canna fumaria, incontrano resistenze per attrito lungo le pareti interne dei condotti, perdite di carico generate dal terminale della canna fumaria ed ostruzioni varie; inoltre spesso si presentano particolari correnti d’aria esterna che ostacolano la fuoriuscita dei fumi.
Risulta quindi fondamentale per il buon funzionamento di un qualsiasi impianto termico la corretta progettazione della canna fumaria.
In questo Speciale affrontiamo i criteri generali per il calcolo della canna fumaria per 3 tipologie di impianto:
- camino a legna
- caldaia a pellet
- caldaia a condensazione
In particolare, per ciascun tipo di impianto proponiamo:
i criteri generali di progettazione
un esempio pratico di progettazione (canale da fumo e camino, verifica dell'impianto fumario, dimensionamento canna fumaria camino legna)
Inoltre, in Appendice sono presenti:
un glossario contenente le definizioni dei termini più utilizzati
un esempio completo di relazione tecnica generata grazie all’utilizzo del software Impiantus-FUMO di ACCA
Ricordiamo che ACCA distribuisce Impiantus-FUMO, il nuovo software della famiglia Impiantus, che consente la progettazione guidata delle canne fumarie, in maniera semplice e professionale (09.04.2015 - link a www.acca.it).

CORTE DEI CONTI

INCARICHI PROFESSIONALISussiste l’obbligo in capo all’Amministrazione committente di esigere, anche in caso di incarichi di assistenza legale, un preventivo che consenta di quantificare l’onere complessivo che rimarrà a carico del bilancio dell’Ente, così da poter procedere alle necessarie scritturazioni contabili e ad apprestare la necessaria copertura finanziaria.
Nel caso in cui i predetti incarichi assumano connotazioni di rapporti contrattuali di durata, l’Ente dovrà periodicamente verificare il maturare di ulteriori spettanze, in maniera da poter tempestivamente rispettare il previsto procedimento per la corretta effettuazione di spese.
Qualora le previste disposizioni non siano state rispettate, l’Amministrazione dovrà verificare preliminarmente, sulla base della vigente normativa, l’effettiva spettanza di compensi in capo al professionista incaricato; quando ricorrano le condizioni previste all’art. 194, comma 1, lett. e), del TUEL, si potrà procedere al riconoscimento del debito fuori bilancio, sempre però nel limite dell’utilità e dell’arricchimento per l'Ente, che devono debitamente essere accertati e dimostrati, ed a condizione che detto debito scaturisca dall’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza dello stesso Ente.

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Con la nota di cui in epigrafe il Sindaco del Comune di Sant’Angelo Le Fratte ha formulato una «… richiesta di parere in materia di onorari da riconoscersi a favore di legale che ha prestato attività in favore dell'ente, in assenza di preventivo impegno di spesa e sottoscrizione di disciplinare e/o convenzione regolante in maniera precisa i rapporti tra ente e professionista anche sotto l'aspetto economico».
A tal uopo è stato, tra l’altro, precisato, che:
– «Gli incarichi professionali di cui trattasi risultano conferiti senza l'adozione di determina a contrarre e la stipula di una convenzione e soprattutto in assenza di predeterminazione dell'onorario spettante al professionista incaricato»;
– «… stante probabilmente l'impossibilità al momento del conferimento degli incarichi di acquisire un preventivo di massima che si avvicinasse il più possibile alla spesa definitiva, negli atti assunti all'epoca del conferimento degli incarichi è stato previsto l'obbligo del professionista a comunicare tempestivamente, ai fini dell'assunzione dell'eventuale ulteriore impegno di spesa, l'importo definitivo della parcella professionale, al fine di quantificare correttamente l'impegno di spesa necessario e predispone adeguata copertura finanziaria, considerando evidentemente variabili, connaturali al tipo di incarico in esame, che avrebbero potuto determinare incertezza sulla quantificazione dell'impegno finanziario».
Dopo aver esternato l’intenzione dell'Amministrazione di «…effettuare una rigorosa verifica dei presupposti normativi preordinati al valido e regolare riconoscimento del debito fuori bilancio», il Sindaco ha chiesto che fosse espresso parere «… circa la riconoscibilità del diritto del professionista ad ottenere il pagamento di compensi per l'attività espletata a favore dell'ente, accertato che, da un lato, l'obbligo di comunicazione tempestiva dell'incremento della parcella, prefissato in sede di conferimento dell'incarico, non è mai stato rispettato dal professionista incaricato, dall'altro, negli anni il Responsabile del procedimento ha omesso qualsivoglia attività di monitoraggio».
Il Sindaco ha, altresì, chiesto «… di conoscere in quale misura ed in base a quali parametri debba essere valutata l'attività espletata in favore dell'ente, ammesso che sia riconoscibile il diritto del professionista ad ulteriori compensi».
...
3. La richiesta di parere, per la parte ritenuta ammissibile, riguarda la individuazione dei presupposti normativi che presiedono al valido e regolare riconoscimento del debito fuori bilancio per onorari, scaturente dalla prestazione professionale fornita da un legale in assenza di un preventivo impegno di spesa e della sottoscrizione di un disciplinare e/o di una convenzione regolante il rapporto economico.
In mancanza di una esaustiva individuazione normativa delle caratteristiche dell’istituto, il punto 91 del Principio Contabile n. 2, approvato dall’Osservatorio per la finanza e la contabilità degli Enti locali il 18.11.2008,
definisce il debito fuori bilancio come «… un’obbligazione verso terzi per il pagamento di una determinata somma di denaro, assunta in violazione delle norme giuscontabili che regolano i procedimenti di spesa degli enti locali».
L’art. 191 del D.lgs. 18.08.2000, n. 267 (TUEL), dopo aver specificato che gli enti locali possono effettuare spese solo se sussiste l'impegno contabile registrato sul competente programma del bilancio di previsione e l'attestazione della copertura finanziaria, stabilisce che,
nel caso in cui vi sia stata l'acquisizione di beni e servizi in violazione degli obblighi individuati nei primi tre commi, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per la parte non riconoscibile ai sensi dell'articolo 194, comma 1, lettera e), tra il privato fornitore e l'amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura. La norma ha, peraltro, specificato che, per le esecuzioni reiterate o continuative, detto effetto si estende a coloro che hanno reso possibili le singole prestazioni.
L’art. 194 del TUEL detta la disciplina regolante il riconoscimento della legittimità dei debiti fuori bilancio, stabilendo che,
in occasione della deliberazione con cui l’Organo consiliare effettua la ricognizione sullo stato di attuazione dei programmi e verifica se permangono gli equilibri generali di bilancio (art. 193, secondo comma, del TUEL), o con la diversa periodicità prevista dai regolamenti di contabilità, gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio compresi nelle tipologie tassativamente indicate nelle lettere da a) ad e).
L’ultima ipotesi, contemplata dalla norma alla lett. e), prevede la fattispecie dell’acquisizione di beni e servizi in violazione degli obblighi di cui ai primi tre commi dell'articolo 191, che può essere oggetto di riconoscimento solo «…nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza».
Al punto 98 del Principio Contabile n. 2 è specificato che:
– «
… la sussistenza dell’utilità conseguita va valutata in relazione alla realizzazione dei vantaggi economici corrispondenti agli interessi istituzionali dell’ente. Sono comunque da qualificarsi utili e vantaggiose le spese specificatamente previste per legge»;
– «
L’arricchimento corrisponde alla diminuzione patrimoniale sofferta senza giusta causa dal soggetto privato e terzo che va indennizzato nei limiti dell’arricchimento ottenuto dall’ente».
Particolarmente conferente, per il caso di specie, si rivela la precisazione secondo la quale «
In occasione di contratti di prestazione d’opera intellettuale l’ente deve determinare compiutamente, anche in fasi successive temporalmente, l’ammontare del compenso (esempio gli incarichi per assistenza legale) al fine di evitare la maturazione di oneri a carico del bilancio non coperti dall’impegno di spesa inizialmente assunto. Il regolamento di contabilità dell’ente potrà disciplinare l’assunzione di ulteriore impegno, per spese eccedenti l’impegno originario, dovute a cause sopravvenute ed imprevedibili» (punto 108 princ. cont. n. 2).
Il punto 5.2, lett. g), principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria (Allegato n. 4/2 al D.Lgs. 118/2011) ha tra l’altro precisato che «
…gli impegni derivanti dal conferimento di incarico a legali esterni, la cui esigibilità non è determinabile, sono imputati all’esercizio in cui il contratto è firmato, in deroga al principio della competenza potenziata, al fine di garantire la copertura della spesa».
In sede di predisposizione del rendiconto, in occasione della verifica dei residui, «
…se l’obbligazione non è esigibile, si provvede alla cancellazione dell’impegno ed alla sua immediata re-imputazione all’esercizio in cui si prevede che sarà esigibile, anche sulla base delle indicazioni presenti nel contratto di incarico al legale. Al fine di evitare la formazione di debiti fuori bilancio, l’ente chiede ogni anno al legale di confermare o meno il preventivo di spesa sulla base della quale è stato assunto l’impegno e, di conseguenza, provvede ad assumere gli eventuali ulteriori impegni. Nell’esercizio in cui l’impegno è cancellato si iscrive, tra le spese, il fondo pluriennale vincolato al fine di consentire la copertura dell’impegno nell’esercizio in cui l’obbligazione è imputata».
4. Dai principi esposti
emerge l’obbligo, in capo all’Amministrazione committente di esigere, anche in caso di incarichi di assistenza legale, un preventivo che consenta di quantificare l’onere complessivo che rimarrà a carico del bilancio dell’Ente, così da poter procedere alle necessarie scritturazioni contabili e ad apprestare la necessaria copertura finanziaria.
Nel caso in cui i predetti incarichi assumano connotazioni di rapporti contrattuali di durata, l’Ente dovrà periodicamente verificare il maturare di ulteriori spettanze, in maniera da poter tempestivamente rispettare il previsto procedimento per la corretta effettuazione di spese.
Qualora le previste disposizioni non siano state rispettate, l’Amministrazione dovrà verificare preliminarmente, sulla base della vigente normativa, l’effettiva spettanza di compensi in capo al professionista incaricato; quando ricorrano le condizioni previste all’art. 194, comma 1, lett. e), del TUEL, si potrà procedere al riconoscimento del debito fuori bilancio, sempre però nel limite dell’utilità e dell’arricchimento per l'Ente, che devono debitamente essere accertati e dimostrati, ed a condizione che detto debito scaturisca dall’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza dello stesso Ente
(Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, parere 14.04.2015 n. 20).

INCARICHI PROFESSIONALICorte conti divisa sul conferimento degli incarichi di studio e consulenza.
Divieto assoluto per le province di conferire incarichi di studio e consulenze, anche se finanziati da risorse del Fondo sociale europeo. Anzi no: possibilità di conferire gli incarichi.

Che il caos regni sovrano nella riforma delle province ormai è un dato di fatto. Ad aumentarlo non aiutano certo i pareri delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, divise su tutto.
Nuova occasione di interpretazioni diametralmente opposte, dopo quelle relative alla possibilità di assumere mediante mobilità, è la portata della norma contenuta nell'articolo 1, comma 420, lettera g), della legge 190/2014, ai sensi del quale alle province delle regioni a statuto ordinario è fatto divieto di attribuire incarichi di studio e consulenza.
Per la sezione regionale di controllo dell'Emilia Romagna, parere 10.04.2015 n. 64, si tratta di un divieto assoluto. La sezione Emilia-Romagna mette il divieto previsto dalla citata lettera g) dell'articolo 1, comma 420, della legge di Stabilità 2014 con la sua precedente lettera b), ove si prevede il divieto «effettuare spese per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza».
Il parere nota che mentre per relazioni pubbliche e convegni sono vietate le «spese», ma non la fattispecie, allora è possibile per una provincia porre in essere relazioni pubbliche e manifestazioni se le connesse «spese» sono neutrali, perché finanziate dall'esterno, appunto con fondi europei. Cosa diversa è, invece, il divieto di incarichi di studio e consulenze. Secondo la sezione Emilia-Romagna «il legislatore non pone per le province un mero divieto di sostenere le relative spese, ma, più radicalmente, preclude l'attribuzione di detti incarichi».
Insomma, si tratterebbe di un divieto assoluto e rigoroso, delineato «in sintonia con quanto stabilito dal citato comma 420, per i rapporti di lavoro alle dipendenze delle province».
In totale e frontale contraddizione con le indicazioni della sezione Emilia Romagna si pone il parere 30.03.2015 n. 137 della sezione regionale di controllo per la Lombardia.
La Sezione Lombardia ritiene che i divieti contenuti nell'articolo 1, comma 420, della legge 190/2014, ivi compreso quello relativo a incarichi di studio e consulenza sono «preordinati non tanto (o non solo) al riordino delle Province (peraltro ancora in attesa di conoscere il quadro completo delle proprie funzioni) quanto piuttosto a conseguire risparmi di spesa nella dimensione del coordinamento della finanza pubblica», come confermerebbe il contenuto della circolare interministeriale 1/2015.
Di conseguenza, se lo scopo del comma 420, lettera g), è conseguire risparmi di spesa, secondo la sezione Lombardia «non vi sarebbe motivo di includere nel divieto anche le spese per studi e consulenze finanziati con fondi di provenienza comunitaria, secondo l'insegnamento».
In particolare, sottolinea il parere, se la provincia ha presentato progetti da finanziare precedentemente all'entrata in vigore della legge 190/2014 e tali progetti siano approvati: in questo caso, infatti, l'ente si è assunto «una serie di obblighi il cui mancato adempimento potrebbe esporre lo stesso, oltre che a responsabilità nei confronti degli eventuali partner, anche alla perdita dei finanziamenti conseguiti con un grave danno per le proprie finanze».
Il parere della sezione Lombardia, comunque, chiude con l'invito indiretto alle province a valutare l'opportunità di presentare progetti finanziati dalla Ue, mostrando qualche incrinatura nella teoria secondo la quale i finanziamenti europei consentirebbero comunque gli incarichi vietati per legge (articolo ItaliaOggi del 17.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Sulla condanna (per danno erariale) del Sindaco, della Giunta Comunale e del Segretario Comunale per aver affidato un incarico ex art. 110 TUEL in assenza di previa procedura comparativa e per l'assenza del titolo di studio della Laurea per lo svolgimento delle attività di Comandante della Polizia Locale, considerato dai giudici contabili un servizio amministrativo e non "tecnico".
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Il segretario comunale deve eccepire (e verbalizzare) l'eventuale illegittimità dell'adottanda deliberazione (di Giunta ovvero di Consiglio) durante la seduta, se non vuole incorrere nell'eventuale danno erariale, a nulla rilevando l'eventuale contestazione per iscritto a posteriori.
La costante giurisprudenza della Corte dei conti ha chiarito che, se da una parte il Giudice contabile non può sostituire le proprie valutazioni alle scelte di merito fatte dagli organi della pubblica amministrazione, la legge non ha precluso la verifica delle modalità con cui il potere discrezionale amministrativo viene concretamente esercitato: pertanto il Giudice contabile può e deve verificare in concreto se l’esercizio del potere discrezionale è avvenuto o meno nel rispetto dei limiti posti dall’ordinamento giuridico (quali, la razionalità, la logicità delle scelte, il risultato di economicità e di buona amministrazione, la congruità e proporzionalità tra mezzo e fine).
Ciò trova l’avallo della Corte di Cassazione, la quale ha reiteratamente affermato che il limite dell’insindacabilità va posto in correlazione con l’art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990, il quale stabilisce che l’esercizio dell’attività amministrativa deve ispirarsi ai criteri di economicità e di efficacia che costituiscono specificazione del principio sancito dall'art. 97, comma 1, della Costituzione e che hanno acquistato dignità normativa, assumendo rilevanza sul piano della legittimità dell'azione amministrativa. Ne deriva che la Corte dei conti può “verificare la ragionevolezza dei mezzi impiegati in relazione agli obiettivi perseguiti, dal momento che anche tale verifica è fondata su valutazioni di legittimità e non di mera opportunità”.
Accertata tale ragionevolezza, il Giudice contabile non può estendere il proprio sindacato alla concreta e specifica articolazione della scelta dell’amministratore pubblico, in quanto ciò, effettivamente, rientrerebbe nell’ambito di discrezionalità dichiarato insindacabile dal Legislatore e quindi nel merito delle scelte riservate all’Amministrazione.
In conclusione ciò che è insindacabile è soltanto la scelta tra più opzioni che siano tutte lecite, legittime, razionali e congrue, con indifferenza per il Giudice di quella adottata, essendo esse equivalenti sotto i profili citati.
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Sussiste altresì la specifica responsabilità per il segretario comunale nel cui mandato sono stati realizzati i presupposti fattuali e giuridici fondanti la responsabilità erariale che, a giudizio di questo Collegio, non risulta esclusa ma, piuttosto, confermata, soprattutto con riguardo alla sussistenza dell’elemento psicologico, dalla nota prot. n. 5453 del 06.04.2011 -indirizzata alla Giunta comunale ma di cui è rimasta indimostrata l’effettiva percezione, contestata dai destinatari– con la quale il Segretario., unitamente al Responsabile dell’Area finanziaria ed al responsabile dell’Area Affari generali, eccepiva l’irregolarità della nominata deliberazione giuntale.

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1. Preliminarmente deve ritenersi infondata l’eccezione della difesa secondo la quale la nomina de qua costituirebbe un atto di natura discrezionale e come tale non sindacabile da questo Collegio.
In ordine alla preclusione di cui all’art. 1 Legge n. 20 del 1994 (“insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali” degli organi operativi della pubblica amministrazione), la costante giurisprudenza della Corte dei conti ha chiarito che, se da una parte il Giudice contabile non può sostituire le proprie valutazioni alle scelte di merito fatte dagli organi della pubblica amministrazione, la legge non ha precluso la verifica delle modalità con cui il potere discrezionale amministrativo viene concretamente esercitato: pertanto il Giudice contabile può e deve verificare in concreto se l’esercizio del potere discrezionale è avvenuto o meno nel rispetto dei limiti posti dall’ordinamento giuridico (quali, la razionalità, la logicità delle scelte, il risultato di economicità e di buona amministrazione, la congruità e proporzionalità tra mezzo e fine).
Ciò trova l’avallo della Corte di Cassazione, la quale ha reiteratamente affermato che il limite dell’insindacabilità va posto in correlazione con l’art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990, il quale stabilisce che l’esercizio dell’attività amministrativa deve ispirarsi ai criteri di economicità e di efficacia che costituiscono specificazione del principio sancito dall'art. 97, comma 1, della Costituzione e che hanno acquistato dignità normativa, assumendo rilevanza sul piano della legittimità dell'azione amministrativa. Ne deriva che la Corte dei conti può “verificare la ragionevolezza dei mezzi impiegati in relazione agli obiettivi perseguiti, dal momento che anche tale verifica è fondata su valutazioni di legittimità e non di mera opportunità” (cfr., tra l’altro, Cass. SS.UU. n. 14488 del 2003, n. 7024 del 2006 e n. 18757 del 2008).
Accertata tale ragionevolezza, il Giudice contabile non può estendere il proprio sindacato alla concreta e specifica articolazione della scelta dell’amministratore pubblico, in quanto ciò, effettivamente, rientrerebbe nell’ambito di discrezionalità dichiarato insindacabile dal Legislatore e quindi nel merito delle scelte riservate all’Amministrazione (Cass. civ., Sez. I, 19.06.2002, n. 203; Cass. Civ., SSUU., 02.04.2007, n. 8097; Corte dei conti, Sez. Lazio, 04.05.2006, n. 1051; Corte dei conti, Sez. Lazio, 12.10.2006, n. 1971).
In conclusione ciò che è insindacabile è soltanto la scelta tra più opzioni che siano tutte lecite, legittime, razionali e congrue, con indifferenza per il Giudice di quella adottata, essendo esse equivalenti sotto i profili citati (ex multis, cfr. Corte dei conti, Sez. III, 02.11.2010 n. 750; Corte dei conti, Sez. Lombardia, 25.03.2009, n. 165).
Ciò osservato sul piano teorico, va rilevato in concreto che la Procura regionale, nella fattispecie oggetto di giudizio, ha contestato non tanto vizi inerenti all’esercizio di un potere discrezionale, quanto l’illegittimità e la conseguente illiceità dell’atto di conferimento di un incarico di Comandante del Corpo di Polizia locale del Comune di Gavardo nonché di Responsabile dell’Area Vigilanza dello stesso ente locale a soggetto privo dei requisiti di legge.
Per tali motivi, l'eccezione si appalesa infondata e va, pertanto, respinta.
  
2. Sotto un profilo più generale, la fattispecie all’esame di questa Sezione consiste in un’ipotesi di danno erariale perpetrato nei confronti del Comune di Gavardo da parte del Sindaco E.V., del Vice Sindaco S.B., degli assessori B.A., B.B., G.G., G.N., A.S., V.Z., e del Segretario comunale P.B., in relazione all’affidamento, disposto con deliberazioni di Giunta n. 237/2010 e n. 230/2011, al sig. R.C., dell’incarico di Responsabile dell’Area della vigilanza, nonché di Comandante del Corpo di Polizia locale e la conseguente corresponsione al predetto di emolumenti costituiti dal trattamento economico equivalente a quello previsto dall’allora vigente Contratto nazionale, corrispondenti alla categoria D, posizione economica D3, in aggiunta ad un’indennità ad personam, in assenza dei requisiti minimi per accedere a detto inquadramento economico.
Il danno è quantificato dalla Procura regionale in euro 81.992,57 oltre a rivalutazione monetaria, interessi legali e spese di giudizio pari agli oneri sostenuti dal Comune di Gavardo per l’intero trattamento retributivo del C. nei periodi compresi dal 01.01.2011 al 12.12.2011 e dal 22.12.2011 al 28.09.2012.
A fronte dell’istanza istruttoria presentata dalla difesa del V. e del Procuratore regionale, la Sezione ritiene la causa adeguatamente istruita grazie agli elementi conoscitivi già acquisiti, per cui le istanze volte ad ottenere ulteriori accertamenti istruttori devono essere respinte.
Nel merito la domanda è fondata e merita accoglimento, risultando provati tutti gli elementi richiesti per affermare la sussistenza della responsabilità amministrativa dei convenuti.
Ai fini del corretto inquadramento della vicenda, giova innanzitutto richiamare il riferimento normativo della fattispecie, rappresentato dall’art. 110, commi 1, 2 e 3 del TUEL, D.lgs. 267/2000 -nel testo precedente le modifiche apportate dal D.L. 24.06.2014, n. 90- che così dispone: "1. Lo statuto può prevedere che la copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, possa avvenire mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico o, eccezionalmente e con deliberazione motivata, di diritto privato, fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire”;
2. Il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, negli enti in cui è prevista la dirigenza, stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, contratti a tempo determinato per i dirigenti e le alte specializzazioni, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5 per cento del totale della dotazione organica della dirigenza e dell'area direttiva e comunque per almeno una unità. Negli altri enti, il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi stabilisce i limiti, i criteri e le modalità con cui possono essere stipulati, al di fuori della dotazione organica, solo in assenza di professionalità analoghe presenti all'interno dell'ente, contratti a tempo determinato di dirigenti, alte specializzazioni o funzionari dell'area direttiva, fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire. Tali contratti sono stipulati in misura complessivamente non superiore al 5 per cento della dotazione organica dell'ente arrotondando il prodotto all'unità superiore, o ad una unità negli enti con una dotazione organica inferiore alle 20 unità. (349)
3. I contratti di cui ai precedenti commi non possono avere durata superiore al mandato elettivo del sindaco o del presidente della provincia in carica. Il trattamento economico, equivalente a quello previsto dai vigenti contratti collettivi nazionali e decentrati per il personale degli enti locali, può essere integrato, con provvedimento motivato della giunta, da una indennità ad personam, commisurata alla specifica qualificazione professionale e culturale, anche in considerazione della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali. Il trattamento economico e l'eventuale indennità ad personam sono definiti in stretta correlazione con il bilancio
”.
Alla luce del riportato testo normativo, appare ora necessario esaminare le due distinte previsioni di cui al primo ed al secondo comma del citato art. 110.
Il diverso ambito di applicazione delle due ipotesi, oltre a risultare evidente dal dato letterale, riferendosi un caso alla copertura di posti di responsabile di area amministrativa “già in organico”, l’altro ai contratti a tempo determinato stipulati “al di fuori della dotazione organica”, è chiarito anche dalle SS.RR. di questa Corte che in sede di controllo (Del. nn. 12 e 13 del 2011) si sono pronunciate in ordine alla diretta applicabilità agli enti territoriali, limitatamente al conferimento degli incarichi dirigenziali a contratto previsti dall’art. 110, comma 1, TUEL, delle disposizioni contenute nell’art. 19, commi 6 e 6-bis, del d.lgs. 165/2011 ed hanno avuto modo di definire quella al comma 2 come “una fattispecie del tutto diversa da quella disciplinata dal comma precedente, in quanto volta a sopperire, ad esigenze gestionali straordinarie che, sole, determinano l’opportunità di affidare funzioni, anche dirigenziali, extra ordinem e quindi al di là delle previsioni della pianta organica dell’Ente locale”.
Chiarito ciò, il caso di specie -in cui la giunta comunale ha affidato a soggetto esterno l’incarico di Responsabile dell’Area Vigilanza nonché le funzioni di Comandante del Corpo di P.L –cat. D3- facendo esplicito riferimento, nella contestata delibera n. 237/2010, al comma 2 del citato art. 110- appare, invece, più correttamente riconducibile al comma 1 del medesimo articolo, riferendosi all’affidamento di un posto di funzioni già previsto in pianta organica, e dovendo, dunque, demandare allo statuto dell’ente la possibilità di coprire con contratti a tempo determinato i posti di responsabili dei servizi e degli uffici sia di qualifica dirigenziale che di alta specializzazione.
Né l’applicabilità al caso di specie della previsione di cui al comma 2 -sostenuta dall’Amministrazione comunale per fondare la legittimità del proprio operato sulle previsioni regolamentari piuttosto che su quelle statutarie e ripetutamente ribadita da tutte le difese dei convenuti- trova conforto da quanto statuito dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sezione di Brescia, con pronuncia n. 514/2011.
Il giudice amministrativo, infatti, chiamato a pronunciarsi, su ricorso del dipendente M., precedente Comandante della Polizia locale, circa la legittimità delle deliberazioni consiliari del 26/11/2010 n. 86, del 09/12/2010 n. 89, del 10/12/2010 n. 90, di modifica dello statuto comunale e della Deliberazione giuntale n. 237 del 15/12/2010, nonché del Decreto sindacale in data 03/01/2011 di attribuzione al sig. C. della responsabilità dell’area Vigilanza, ha, con tale pronuncia, dichiarato il proprio difetto di giurisdizione sostanzialmente fondando tale statuizione sull’assenza, nel caso posto al suo esame, dell’esercizio di poteri autoritativi e non avendo interesse -né rientrando tale profilo nei suoi poteri di cognizione– ad approfondire l’ulteriore questione se l’incarico al controinteressato C. fosse stato legittimamente conferito ex art. 110, comma 2, del D.Lgs. 267/2000, come indicato nella deliberazione contestata, ovvero fosse più propriamente riconducibile al comma 1 del richiamato articolo, afferendo in ogni caso tale questione a materia devoluta alla cognizione del giudice ordinario, competente a conoscere vicende caratterizzate dalla diretta estrinsecazione dei poteri gestionali nell'ambito del rapporto di lavoro.
La riconducibilità del caso di specie all’ipotesi disciplinata al comma 1 dell’art. 110, TUEL, è peraltro affermata -contraddittoriamente con le motivazioni della deliberazione n. 237/2010 e con le prospettazioni difensive opposte nell’odierno giudizio- nella stessa premessa del decreto sindacale n. 1/2011 di attribuzione delle funzioni di Responsabile dell’Area vigilanza al C..
In tale atto si afferma: “CONSIDERATO che per garantire la piena funzionalità delle varie articolazioni organizzative, qualificate come strutture dell’amministrazione comunale, risulta necessario procedere alla nomina dei responsabili delle strutture stesse; CONSIDERATO altresì che i responsabili possono essere individuati tra i funzionari, dipendenti in servizio presso il Comune o assunti con incarico esterno ai sensi dell’art. 110 del Decreto legislativo n. 267/2000; VISTO l’art. 110, comma 1, del d.lgs. 267/2000 che prevede la possibilità di copertura di posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione, mediante contratto a tempo determinato di diritto pubblico o eccezionalmente e con deliberazione motivata di diritto privato”; VERIFICATO che costante giurisprudenza consente al Sindaco di nominare i dirigenti con contratto a termine in applicazione dell’art. 110 del d.lgs. 267/2000 attraverso nomina di carattere eminentemente fiduciario…”.
Se, dunque, come risulta evidente per le esposte considerazioni, la fattispecie in esame rientra all’ambito di applicazione del comma 1 del’art. 110 TUEL, molteplici appaiono i profili di illegittimità che hanno caratterizzato la condotta dei convenuti, pur dovendosi, in linea di principio, evidenziare l’insufficienza di tali aspetti a fondare, essi soli, la responsabilità amministrativa dei convenuti.
Sotto un primo, formale, aspetto, il Collegio rileva che la Giunta comunale, con la Deliberazione n. 237 del 15.12.2010 -dopo aver preso atto della necessità di una previsione statutaria, della temporaneità dell’incarico e del possesso dei requisiti per l’accesso alla qualifica corrispondente al posto da ricoprire– ha provveduto ad affidare al sig. C.R. l’incarico di Responsabile dell’area Polizia locale nonché il comando del Corpo di P.L. – cat. D3, con contratto di diritto privato a tempo pieno e determinato prevedendo la successiva adozione di apposito atto sindacale, previa sottoscrizione di specifico contratto individuale, nonostante il nuovo testo statutario recante la modifica che attribuiva al Sindaco tale potere di nomina, entrasse in vigore solo successivamente, in data dal 21.02.2011.
Né, d’altro canto, la legittimità della predetta nomina poteva, come pure ha opposto la difesa di uno dei convenuti, trovare fondamento nell’art. 50, comma 10, del TUEL, a mente del quale “Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provinciali”.
Tale previsione, infatti, si limita ad un mero rinvio alla generale disciplina degli articoli 109 e 110 TUEL e non può valere a costituire autonoma fonte di attribuzione di poteri sindacali.
Ma, oltre tale profilo meramente formale -e prescindendo dalle ulteriori censure di legittimità riscontrate dall’attore pubblico e riferite alla mancata acquisizione dei pareri di regolarità tecnica e contabile, all’incompetenza della Giunta a procedere all’affidamento de quo e del Sindaco ad adottare gli atti di nomina ed a sottoscrivere i contratti di lavoro con il beneficiario, sig. C.- un più sostanziale aspetto merita di essere evidenziato.
E’ indubbio, infatti, che nell'individuazione dei soggetti cui conferire un incarico ai sensi dell’art. 110 TUEL, siano insuperabili i fondamentali canoni di legittimità, imparzialità e buon andamento, ai sensi dell'articolo 97 della Costituzione, in ragione dei quali, pur essendo insiti in tali procedure il carattere della discrezionalità ed un margine più o meno ampio di fiduciarietà, è indispensabile che le amministrazioni assumano la relativa determinazione con una trasparente ed oggettiva valutazione della professionalità del soggetto affidatario che non può basarsi su valutazioni meramente soggettive, ma deve essere ancorata quanto più possibile a circostanze oggettive .
L'esigenza di operare scelte discrezionali ancorate a parametri quanto più possibili oggettivi e riscontrabili evidenzia l'opportunità che le amministrazioni si dotino preventivamente di un sistema di criteri generali per l'affidamento, il mutamento e la revoca degli incarichi. Ciò al fine di consolidare anche in questo ambito la trasparenza e ridurre le possibilità di contenzioso.
Tale convincimento si fonda anche su costante giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenze n. 103 e 104 del 2007 e sentenza n. 161 del 2008) che ha espresso un chiaro orientamento volto ad escludere l’esistenza di una “dirigenza di fiducia” e dunque la possibilità di un’interpretazione della normativa vigente nel senso di ammettere la scelta discrezionale, senza limiti, dei soggetti esterni all’ente cui conferire gli incarichi, nonché la necessità di forme di pubblicità che assicurino la trasparenza, procedure comparative anche non concorsuali, richiedendo quindi una procedimentalizzazione dell’iter da seguire.
Con riferimento al caso di specie gli odierni convenuti, ciascuno secondo il ruolo ricoperto nell’adozione delle deliberazioni in argomento, hanno, invece, determinato il conferimento diretto dell’incarico ad personam al sig. C., senza avere preventivamente fissato i criteri per la selezione e valutazione dei curricula dei potenziali aspiranti né adottato misure di pubblicità ma effettuando tale scelta sulla base di una valutazione personale ampiamente discrezionale.
Sul punto, peraltro, appaiono contraddette per tabulas le argomentazioni difensive volte ad affermare che le deliberazioni contestate si limiterebbero a definire gli “indirizzi per l’assunzione a tempo determinato ex art. 110 del D.lgs. n. 267/2000 del Comandante del Corpo di Polizia Locale” e che, pertanto, la procedura seguita dal Comune sarebbe stata conforme a quanto previsto dagli artt. 18 e 89 del Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi comunali e che, trattandosi di una deliberazione di indirizzo, non sarebbero stati necessari pareri di regolarità tecnica e contabile.
Tali affermazioni sono palesemente smentite dal testo della deliberazione n. 237/2010 in cui espressamente si attribuisce l’incarico di Responsabile dell’Area vigilanza e le funzioni di Comandante del Corpo di polizia locale al sig. C.R..
Peraltro, l’adozione di tale scelta risulta in qualche modo già profilata in occasione del dibattito consiliare che ha preceduto la Deliberazione n. 86/2010 di modifica statutaria, durante il quale il consigliere T.S. “si sofferma sulla possibilità che il Comandante della polizia locale possa essere privo del requisito della laurea” e sul punto viene rassicurata dal Segretario comunale B. circa la conformità all’ordinamento di un eventuale deliberazione in tal senso.
Ma, anche a voler seguire l’impostazione difensiva, secondo cui l’avvenuto conferimento troverebbe disciplina nell’art. 110, comma 2, TUEL, altri profili di illegittimità si evidenzierebbero, in particolare l’assenza di professionalità analoghe all'interno dell'ente, requisito richiesto in modo cogente dal richiamato comma 2.
Nella vicenda all’esame, infatti, tale assenza non solo non è provata ma anzi, la generica motivazione in tal senso addotta risulta di per sé contraddittoria oltre che smentita dai fatti.
Il Collegio intende fare riferimento alla specifica argomentazione, riportata in premessa alla delibera n. 237/2010 e ribadita dalle difese dei convenuti, secondo cui la nomina del C. a Responsabile dell’Area vigilanza e Comandante del Corpo di P.l. avrebbe trovato ragione dopo che, avendo stabilito di assumere tramite mobilità il sig. L.C. –Istruttore direttivo presso l’area Vigilanza di categoria D1 a far data dal 16.12.2010- questi, con nota assunta a prot. comunale del 11.10.2010, aveva espresso volontà di revocare la mobilità già concessa. Ne sarebbero seguite altre procedure di mobilità nessuna delle quali andata a buon fine e da ciò la necessità di affidare l’incarico di Comandante al C..
In alcun caso, tuttavia dette procedure di mobilità, per vari motivi fallite, sembrano aver riguardato le funzioni di Responsabile dell’area vigilanza e di Comandante dello Polizia municipale del Comune di Gavardo, posto ricoperto, fino al 31.12.2010 dal dipendente comunale Funzionario, cat. D3, M.E..
Non trova riscontro, inoltre, nella documentazione versata in atti ed, in particolare, nelle relazioni sulle attività svolte dal Comando di Polizia Locale, relativa agli anni 2009 e 2010, l’emergenziale situazione di ordine pubblico riferita costantemente dalle difese dei convenuti a giustificazione delle scelte adottate.
Ne consegue che tali premesse non sono idonee a motivare congruamente né la necessità di affidamento esterno del posto di Responsabile dell’Area vigilanza e di Comandante della polizia locale né la scelta di assegnare le relative funzioni al C..
Peraltro, la riferita inidoneità del M. a ricoprire le funzioni di Comandante della Polizia locale, opposta come ulteriore argomentazione dalle difese per legittimare le scelte operate dai convenuti, non risulta affatto menzionata o documentata negli atti contestati, nei quali appare solo un laconico e tautologico riferimento all’assenza di professionalità analoghe all’interno dell’ente.
Anzi, con il decreto sindacale n. 1 del 03.01.2011 il M.E. è stato designato quale supplente del C. in qualsiasi caso di assenza o impedimento dello stesso, avendone i requisiti richiesti.
Appare dunque, in assenza di idonea motivazione, del tutto irragionevole, quasi al limite della contraddittorietà, la scelta operata dal Sindaco e dalla Giunta, con l’assistenza del Segretario comunale, di affidare ad un soggetto estraneo all’Amministrazione le funzioni di Comandante quando nell’organico dell’ente vi era un Funzionario cat. D3, munito di laurea che quelle funzioni aveva già ricoperto per diversi anni e che comunque, avendone i requisiti, è stato contestualmente chiamato, perché dichiarato idoneo, a ricoprire l’incarico di Vice Comandante e di supplente “in ogni caso di assenza o di impedimento” del titolare.
Anche le negative valutazioni riferite dalle difese circa l’operato del M. non risultano in alcun modo dimostrate, salvo un unico provvedimento di demansionamento adottato dallo stesso Comandante C. nei confronti del M. in data 23.02.2011 ed in seguito annullato dal Tribunale di Brescia, sez. lavoro (innanzi al quale il M. aveva chiesto tutela) con ordinanza del 02.08.2011 con cui il giudice del lavoro ha ordinato al Comune di Gavardo di reintegrare immediatamente il ricorrente (M.) nelle mansioni di Comandante della polizia locale o in mansioni equivalenti riferibili alla categoria D del CCNL per gli enti locali.
Né la delibera n. 237 si fa carico di motivare il mancato affidamento delle funzioni di Responsabile dell’Area vigilanza ad altro dipendente comunale - Istruttore Direttivo presente in organico, il sig. C., nominato anch’egli, con atto sindacale del 24.03.2011, Vice comandante–supplente, al posto del M., in caso di assenza o di impedimento del C..
Per quanto esposto, la scelta operata dai convenuti si appalesa, in assenza di idonea motivazione, irragionevole e non supportata da un percorso logico-comparativo che ponesse in evidenza, a giustificare l’eccezionalità dell’affidamento, le peculiari caratteristiche del destinatario rispetto all’incarico da ricoprire.
Altrettanto irragionevole si dimostra la scelta di affidamento sempre al sig. C. del nuovo incarico, per il periodo decorrente dal 22.12.2011 e fino alla scadenza del mandato del Sindaco (salvo revoca anticipata) deliberata con atto n. 230/2011 del Comune di Gavardo.
Una scelta che avrebbe dovuto essere eccezionale per l’Amministrazione trova invece le sue motivazioni, come riportate nelle premesse dell’atto, nella circostanza che il beneficiario avesse svolto il precedente incarico con “notevole professionalità e senso del dovere”; nella constatazione, generica ed indimostrata, che durante l’assenza del C. (dal 13.12.2011 al 22.12.2011) “l’attuale organico del Comando di polizia locale non consente di realizzare una gestione ottimale del servizio in rapporto ai carichi di lavoro ed ai programmi prefissati” e sulla base della considerazione “che in relazione alla positiva esperienza maturata nell’anno in corso con il sig. C.R., si è deciso di interpellarlo per verificare che siano risolte le motivazioni che l’hanno portato alle dimissioni”.
Con riguardo, poi, alle esigenze di affiancamento del nuovo Comandante assunto il 31.12.2011, riferite dalle difese dei convenuti, tali finalità, comunque non coerenti con la motivazione dell’atto di affidamento dell’incarico, la cui durata era prevista, salvo revoca, fino alla scadenza del mandato sindacale, non sembrano giustificare una protrazione dell’incarico esterno per ben nove mesi dalla nomina del nuovo Comandante con conseguente erogazione, da parte del Comune, di trattamento retributivo ulteriore a quello da erogare in favore del neo-assunto.
Infine, il Collegio rileva che, qualunque sia la fattispecie normativa cui ascrivere il caso in esame, un ulteriore profilo di illegittimità caratterizza la scelta effettuata dai convenuti.
Entrambe le ipotesi disciplinate ai commi 1 e 2 dell’art. 110 TUEL, infatti, prevedono un vincolo indefettibile a carico delle amministrazioni, le quali, nell’utilizzare il sistema certamente più elastico (e per questo considerato eccezionale) della stipulazione del contratto di diritto privato, sia per ricoprire posti già previsti in pianta organica, sia per incarichi ulteriori, non possono selezionare il dirigente o il soggetto di alta specializzazione o il funzionario dell'area direttiva se non nel rispetto dei requisiti richiesti "dalla qualifica da ricoprire".
L’incarico affidato al C., come dimostra il bando di concorso adottato dal Comune di Gavardo con decreto del 28.10.2011, è per l’assunzione di un funzionario (categoria di posizione giuridica D3) presso l’Area vigilanza a tempo pieno ed indeterminato, per il quale, in conformità al CCNL enti locali, il primo requisito richiesto è il diploma di laurea, requisito non posseduto dal C..
Sul punto appare del tutto incongruo il richiamo alla Deliberazione di questa Corte –Sez. regionale controllo Lombardia– n. 702 del 24.06.2010 nel punto in cui ammette, per il conferimento di incarichi dirigenziali temporanei, che “in relazione a specifiche attività proprie dell’organizzazione degli enti pubblici, soprattutto di dimensioni minori, l’attività di specifici settori in particolare, tecnici, può essere svolta da soggetti che seppur privi di titolo di studio universitario, siano in possesso del titolo di studio specificamente richiesto per l’esercizio di una particolare attività, nonché di idonea e documentata esperienza di settore”.
Infatti,
l’ambito di attività del Responsabile dell’area Vigilanza e del Comandante del Corpo di Polizia locale non può essere definito un “settore tecnico” e per esso non può essere idoneo alcun altro specifico titolo di studio se non il diploma di laurea, come, peraltro, espressamente previsto nel bando di concorso, con riferimento ai requisiti di partecipazione, e come facilmente evincibile dalle materie delle prove d’esame indicate nel medesimo bando.
D’altro canto,
l’attribuzione di quello specifico posto di funzioni, per il quale era previsto un funzionario di categoria giuridica D3, al C. ha comportato l’ulteriore censurabile conseguenza dell’inquadramento in una categoria professionale (categoria D) e della corresponsione della relativa retribuzione ad un soggetto privo del titolo di studio necessario ad accedere a tale categoria.
E tale effetto pregiudizievole non può, come sembra sostenere la difesa degli altri convenuti, essere imputato alla sola condotta del Sindaco V. ed agli atti da questi singolarmente adottati, in quanto entrambe le deliberazioni n. 237/2010 e n. 230/2011 contenevano, oltre all’affidamento dell’incarico, anche l’esplicito inquadramento del C. nella categoria giuridica D3.
Alla luce delle risultanze emergenti come sopra ricostruite,
il Collegio conclusivamente ritiene che l’assunzione del sig. R.C., a prescindere dalla illegittimità della stessa sotto il profilo formale, della carenza di titolo di studio universitario del beneficiario e dell’indimostrata assenza di professionalità analoghe all’interno dell’ente, sia comunque illecita e fonte di danno erariale, in relazione all’ammontare dei compensi erogati in favore del suddetto beneficiario.
  
3. Passando, dunque, dal piano dell’illegittimità a quello dell’illiceità, occorre ora valutare se le condotte finora descritte siano frutto di comportamenti gravemente colposi che hanno prodotto danno all’erario comunale.
In proposito,
si ritiene che il comportamento tenuto da tutti i convenuti nell’odierno giudizio sia particolarmente inescusabile e connotato da colpa grave, atteso che la vicenda aveva preso avvio già con la modifica statutaria ed ampia era stata, dunque, la possibilità di approfondimento e di riflessione circa la legittimità dell’adottanda deliberazione n. 237/2010, alla luce dell’inequivoca normativa di riferimento e della costante giurisprudenza della Corte costituzionale e di questa Corte formatasi in materia di conferimento di incarichi a soggetti estranei all’Amministrazione.
Risulta di immediata percezione, infatti, che
il carattere indubbiamente fiduciario delle nomine non può debordare nell’arbitrio ma deve comunque corrispondere a dei canoni (sindacabili in questa sede) di ragionevolezza e buona amministrazione.
Pertanto, anche ammettendo l’impossibilità, indimostrata nell’odierno giudizio, di far fronte al fabbisogno con professionalità interne, ipotizzate non idonee,
l’acquisizione dall’esterno di tali figure avrebbe dovuto ricadere in ogni caso su persona oggettivamente in grado di apportare un valore aggiunto all’ente locale per il possesso innanzitutto dei requisiti di base oltre che di una specifica preparazione, e comunque previa verifica delle professionalità disponibili, condotta anche a seguito di idonea pubblicità.
Nulla di tutto ciò, come si è visto, è avvenuto e, considerato che gli elementi di valutazione presi in considerazione dai convenuti sono consistiti unicamente nella pregressa esperienza lavorativa svolta dal C. nelle medesime funzioni, dalle quali era cessato nel 2001 per raggiunti limiti d’età,
il Collegio ritiene che i soggetti che hanno partecipato alla formazione delle delibere censurate siano incorsi in colpa grave per non avere applicato e rispettato, pur nella loro immediata e intrinseca evidenza, i criteri generali dell’azione amministrativa di ragionevolezza e di buona amministrazione.
Neppure si può sostenere che i convenuti non fossero a conoscenza dell’effettiva consistenza della pianta organica dell’ente, ai fini di valutare la congruità di una scelta che ricercasse altrove il soggetto cui attribuire le funzioni di responsabile di Area e di Comandante della Polizia locale, e del mancato possesso, da parte dell’incaricato, persona ben nota nell’ambito comunale, del titolo di studio adeguato sia a ricoprire dette funzioni, sia, sotto il solo profilo strettamente economico, all’inquadramento nella categoria giuridica D3 di cui, di fatto, è stato beneficiario.
In relazione alla sussistenza del danno e alla sua quantificazione, secondo la Procura il danno in fattispecie consiste nella retribuzione lorda, pari ad euro 81.9992,57 che il Comune di Gavardo ha corrisposto al C. per effetto del conferimento dei due incarichi di responsabile dell’Area Vigilanza.
Tale importo è stato addebitato a tutti i soggetti comunque coinvolti nelle procedure di assunzione e per la ripartizione delle relative quote ne sono stati ipotizzati i criteri, come sopra riportati.
Tutto ciò premesso, prima dell’individuazione della percentuale di responsabilità dei convenuti, il Collegio deve valutare la fondatezza dell’eccezione difensiva per cui dal danno erariale, come prospettato dalla Procura, dovrebbe essere detratta l’utilitas comunque conseguita dall’Amministrazione comunale, ipotizzata in via subordinata dai convenuti.
Sul punto la giurisprudenza di questa Corte è divisa tra un orientamento che esclude l’ammissibilità di una tale valutazione (ex multis, Sez. II n. 430 del 26.10.2010 che testualmente indica: “Al riguardo, va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che l’erogazione di compensi in favore di soggetti che abbiano svolto un’attività senza il possesso del prescritto titolo di studio costituisce danno a carico del bilancio dell’ente interessato, a nulla rilevando la circostanza che gli emolumenti percepiti abbiano corrisposto a prestazioni effettivamente svolte. Infatti, nei casi come quello in esame il possesso dei requisiti culturali e professionali si pone come necessaria premessa per l’utile svolgimento della relativa attività”) ed altro orientamento che, a determinate condizioni, ammette la legittima retribuzione delle attività lavorative comunque svolte (in particolare Sez. III, sentenza n. 151/2004 e Sez. Toscana, sentenza n. 251/2011).
Nel caso specifico,
considerato che trattasi di attività per il cui esercizio non è richiesto un titolo abilitante ovvero l’iscrizione in appositi albi od elenchi -circostanza che, ove ricorrente, renderebbe, per volontà legislativa, del tutto inidonea ogni attività prestata in assenza dei suddetti titoli- bensì il possesso del diploma di laurea e, rilevato che le stesse attività, fino al 2001 erano state svolte a vantaggio dell’Amministrazione dallo stesso C. che, seppur non munito di laurea, era stato chiamato a ricoprire tali funzioni a seguito di avanzamenti interni, ne deriva la ricorrenza dei presupposti per riconoscere l’utilità delle attività comunque svolte in esecuzione degli incarichi in esame, non potendo dubitarsi, trattandosi di circostanza non contestata dalle parti, che il C. abbia effettivamente svolto, nei periodi in cui ha rivestito la carica di Responsabile di Area Vigilanza del Comune di Gavardo e Comandante della Polizia locale, le funzioni derivanti dagli obblighi contrattuali, volti, quindi, a vantaggio del Comune di Gavardo e che detta utilità sia conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto causativo dell'addebito contestato, per cui è un vantaggio economicamente valutabile (cfr., in tal senso, Sez. Emilia Romagna 19.03.2002 n. 874 e 19.01.1998 n. 12; Sez. III appello 11.05.1998 n. 126; questa Sez. Lombardia 24.06.1998 n. 1000).
Tale utilità, si precisa tuttavia, non è idonea, come invece vorrebbero le difese dei convenuti, ad elidere integralmente il pregiudizio patrimoniale causato al Comune di Gavardo e consistito nell’affidamento di un incarico, la cui necessità risulta indimostrata, a soggetto estraneo all’Amministrazione, privo dei requisiti culturali richiesti per l’inquadramento riconosciutogli (posizione giuridica D3) ma retribuito con il corrispondente trattamento economico.
Ciò posto, operando una valutazione equitativa delle prestazioni svolte dal C. per l’Amministrazione danneggiata e tenuto conto dei vantaggi da questa conseguiti in conseguenza dell’incarico illegittimo, si ritiene equo determinare il danno nell’importo complessivo di euro 40.000,00 comprensivo di rivalutazione monetaria. Detto importo tiene conto delle retribuzioni che in ogni caso il Comune avrebbe dovuto erogare in favore del funzionario destinato a svolgere quelle mansioni.
  
4. Ferma restando la quantificazione generale del danno così rideterminata, la ricostruzione sin qui svolta induce a ritenere che, per quanto attiene al Sindaco V., preminente sia stato il suo ruolo di promotore dell’intera procedura, delegato dalla Giunta ad adottare gli atti relativi alla costituzione del rapporto di lavoro e concretamente attivatosi per la sottoscrizione, in nome dell’Amministrazione comunale, del contratto a tempo determinato con il C.; ad esso, pertanto, deve essere imputato il 40% del danno.
Per il vice sindaco S.B. ed i componenti della Giunta comunale di Gavardo B.A., B.B., G.G., A.S., V.Z., presenti alla votazione di entrambe le deliberazioni n. 237/2010 e n. 230/2011 e votanti, in senso favorevole, il Collegio, per le ampie motivazioni di cui sopra, ritiene che l’acritica ratifica delle decisioni portate all’attenzione degli organi collegiali abbia contribuito al verificarsi del pregiudizio accertato e debba essere sanzionata con l’addebito complessivo dell’ulteriore 42% del danno erariale contestato, da ripartirsi in parti uguali per ciascuno dei suddetti convenuti.
La condotta del N., caratterizzata, come dimostrato in atti, dalla partecipazione solo alla prima e non alla successiva deliberazione di affidamento dell’incarico, atteso che proprio la delibera n. 237/2010 ha rappresentato l’indefettibile e necessario presupposto della nomina del C. e della successiva sottoscrizione del contratto individuale con previsione della corrispettiva retribuzione che ha costituito, nei limiti sopra indicati, causa di danno erariale, merita comunque un addebito di responsabilità, seppure nella minore misura del 3% del danno causato.
Sussiste altresì la specifica responsabilità per il segretario comunale P.B. nel cui mandato sono stati realizzati i presupposti fattuali e giuridici fondanti la responsabilità erariale che, a giudizio di questo Collegio, non risulta esclusa ma, piuttosto, confermata, soprattutto con riguardo alla sussistenza dell’elemento psicologico, dalla nota prot. n. 5453 del 06.04.2011 -indirizzata alla Giunta comunale ma di cui è rimasta indimostrata l’effettiva percezione, contestata dai destinatari– con la quale il Segretario B., unitamente al Responsabile dell’Area finanziaria ed al responsabile dell’Area Affari generali, eccepiva l’irregolarità della nominata delibera n. 237/2010.
Al segretario B. deve, quindi, essere imputata una quota pari al 15% del danno riconosciuto.
Conclusivamente i convenuti E.V., P.B., B.A., B.B., G.G., G.N.0, A.S., V.Z., P.B. vanno condannati al pagamento della somma di euro 40.000,00, comprensiva di rivalutazione monetaria, secondo le percentuali precedentemente rideterminate, oltre ad interessi legali sull’importo così rivalutato dal deposito della sentenza al saldo e al pagamento delle spese del presente giudizio, come determinate in dispositivo, secondo le percentuali di danno a ciascun convenuto imputate (
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 01.04.2015 n. 48).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Se si escutono polizze fideiussorie le relative somme rientrano nel Patto di stabilità interno.
I precedenti del giudice contabile hanno evidenziato, in applicazione dei predetti principi, la rilevanza, ai fini del rispetto del Patto di stabilità, delle somme derivanti dall’escussione di polizze fideiussorie stipulate in attuazione di convenzioni urbanistiche.
L’ente infatti, escutendo la fideiussione, subentra ai privati nel completamento delle opere di urbanizzazione “in proprio” e, così facendo, imprime una connotazione pubblicistica alle somme a tal fine utilizzate, che peraltro entrano nel bilancio dell’ente e conseguentemente restano assoggettate alla relativa disciplina, anche in termini di rispetto degli specifici obiettivi vigenti in riferimento al patto di stabilità.

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Il Comune istante premette in fatto che:
a) a seguito di giudizio civile di primo grado ha escusso tre fideiussioni (per € 2.940.000,00) rilasciate a garanzia della realizzazione di un piano integrato d’intervento rimasto in parte non attuato (quanto alle opere pubbliche e di pubblico interesse ivi previste);
b) escussa la fideiussione, ha realizzato –negli anni 2010, 2011 e 2012 (per € 1.454.000,00)– i primi tre dei programmati cinque lotti di tali opere in sostituzione dei soggetti inadempienti, tramite forme pubbliche di selezione degli attuatori;
c) dal 2013 è sottoposto al Patto di Stabilità interno e, per evitare eventuali sanzioni connesse allo sforamento dei relativi parametri, ha sospeso l’esecuzione degli ulteriori lotti di opere pubbliche.
L’ente premette altresì che:
a) la società assicuratrice, garante nel rapporto fideiussorio, ha appellato la predetta sentenza di primo grado;
b) le società immobiliari realizzatrici dell’intervento, nel frattempo messe in liquidazione, hanno presentato nel novembre 2013 ricorso al TAR Lombardia, sez. Brescia, per la condanna dell’ente alla realizzazione delle opere non ancora eseguite ed al risarcimento dei danni connessi alla mancata vendita dei lotti, determinata, secondo i ricorrenti, dall’omessa realizzazione delle opere di urbanizzazione.
Ciò premesso, l'istante Sindaco –in considerazione del fatto che l’ente si trova nella “paradossale situazione” di non poter eseguire le opere per il rispetto del patto di stabilità, con la conseguente esposizione al rischio di dover risarcire i danni in sede giudiziale, ovvero di procedere alla realizzazione delle opere medesime, violando però, in virtù di ciò, il patto stesso– formula il quesito di seguito indicato, volto, nella sostanza, ad appurare se l’utilizzo delle somme derivanti dall’escussione delle fideiussioni possa essere escluso dal computo degli obiettivi del patto di stabilità.
...
1.- In via preliminare, la Sezione precisa che la funzione consultiva è diretta a fornire un ausilio all’Ente richiedente per le determinazioni che, in materia, lo stesso è tenuto ad assumere nell’esercizio delle proprie funzioni, restando ferma la discrezionalità dell’amministrazione in sede di esercizio delle proprie prerogative gestorie.
Tale parere, peraltro, è definito nel suo oggetto dalla concreta formulazione dell’istanza presentata dall’ente; tuttavia la pronuncia di questa Sezione si atterrà ad una disamina delle sole questioni generali ed astratte sottese ai quesiti posti dall’ente locale.
2.- Con il quesito prima riportato l’ente territoriale chiede, in definitiva, se, ai fini del rispetto del patto di stabilità, debbano essere considerate anche le somme derivanti dall’escussione di polizze fideiussorie emesse a garanzia della realizzazione di opere di urbanizzazione previste in un programma integrato di intervento, attesa, secondo la ricostruzione dell’ente locale, la natura sostanzialmente “privata” di tali somme.
2.1.- Al riguardo, basti rilevare che questa Sezione di controllo ha più volte messo in luce la natura cogente delle disposizioni costituenti il patto di stabilità interno. Gli articoli 30, 31 e 32 della legge n. 183 del 2011 (legge di stabilità per il 2012), come più volte modificati e integrati, da ultimo, per quanto di rilievo, dall’art. 1, comma 489, della legge n. 190 del 2014, disciplinano la materia, fra l’altro, per l’anno 2015 (per approfondimenti si rinvia alla Circolare MEF-RGS n. 6 del 18.02.2014, relativa al triennio 2014-2016).
Con riferimento alle voci di entrata e di spesa escludibili dal saldo finanziario valido ai fini della verifica del rispetto del patto, l’art. 31, commi 7 ss., della citata legge n. 183 del 2011, come successivamente modificato, ha confermato, nelle sue linee portanti, il previgente sistema di deroghe, con alcune variazioni. Importanza fondamentale assume in materia il comma 17, che abroga le disposizioni che individuano esclusioni di entrata o di spesa non previste espressamente dalla stessa legge di stabilità per il 2012.
Pertanto, per l’esercizio finanziario in corso, non sono consentite esclusioni di entrate o di spese diverse da quelle previste dalla legge.
Il predetto principio di tassatività è stato più volte oggetto di attenzione da parte di questa Corte, che ha sempre confermato la natura imperativa ed inderogabile delle relative disposizioni legislative (v. la deliberazione delle Sezioni Riunite della Corte dei conti n. 6 del 25.01.2011; le deliberazioni di questa Sezione n. 1026/2010/PAR, n. 54/2012/PAR, n. 375/2014/PAR).
Quanto esposto è confermato, da ultimo, dalla citata Circolare MEF-RGS n. 6 del 2014, che, per il triennio 2014-2016, riporta una dettagliata esplicitazione delle ipotesi di entrate e spese escludibili in forza delle vigenti disposizioni di legge.
2.2.- Al riguardo, si deve altresì rilevare che
i precedenti del giudice contabile hanno evidenziato, in applicazione dei predetti principi, la rilevanza, ai fini del rispetto del Patto di stabilità, delle somme derivanti dall’escussione di polizze fideiussorie stipulate in attuazione di convenzioni urbanistiche. L’ente infatti, escutendo la fideiussione, subentra ai privati nel completamento delle opere di urbanizzazione “in proprio” e, così facendo, imprime una connotazione pubblicistica alle somme a tal fine utilizzate, che peraltro entrano nel bilancio dell’ente e conseguentemente restano assoggettate alla relativa disciplina, anche in termini di rispetto degli specifici obiettivi vigenti in riferimento al patto di stabilità (v. Sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazione n. 128/2013/PAR; cfr. altresì questa Sezione, deliberazione n. 1044/2009/PAR).
3.- Di tali enunciati il Comune richiedente terrà dunque conto nella valutazione della fattispecie, ferma comunque restando la sua autonomia, nel rispetto dei limiti legislativi vigenti, nell’attività di spesa e di gestione del bilancio, nonché nell’individuazione degli eventuali margini di intervento collegati alla complessiva riduzione della spesa corrente (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 30.03.2015 n. 143).

ENTI LOCALI: I revisori locali vanno pagati. Diritto al compenso anche se ricoprono cariche elettive. La Corte conti Lombardia ha dato un'interpretazione restrittiva del dl 78/2010.
Sembra che il dl 78 del 2010 (misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e competitività economica), poi convertito nella legge 30.07.2010, n. 122, ci riservi continue sorprese. O per meglio dire, sembra che l'interpretazione di detta norma da parte di alcune sezioni regionali di controllo della Corte dei conti disorienti i «poveri» responsabili dei servizi finanziari degli enti locali messi in difficoltà di fronte a tali indirizzi.

Prima sull'applicazione del taglio del 10% dei compensi dovuti ai revisori che, come sostenuto da una recente nota della Fondazionale nazionale commercialisti, non doveva essere applicato in quanto non si possono certo includere detti emolumenti tra quelli derivanti da incarichi soggetti ai cosiddetti «tagli dei costi della politica».
Ora si presenta anche il caso affrontato dalla Corte conti della Lombardia che con una risposta al sindaco di Chiari, in provincia di Brescia (parere 06.02.2015 n. 38), ha definito il perimetro (in realtà lo aveva già fatto nel 2012 con le delibere 199/2010/Par e 257/2012/Par) sull'applicazione del comma 5 dell'art. 5 del richiamato dl 78/2010.
Nel merito la Corte puntualizza che la norma in esame letteralmente trova applicazione al titolare di cariche elettive che svolga «qualsiasi incarico conferito dalle pubbliche amministrazioni», compreso l'incarico di revisore presso un comune essendo anche inclusa la partecipazione a organi collegiali «di qualsiasi tipo», sostenendo che la ratio della norma è quella di escludere che detto titolare possa percepire ulteriori emolumenti, fatta salva l'unica possibilità di richiedere il rimborso delle spese sostenute, nonché eventuali gettoni di presenza per un massimo di 30 euro a seduta. Già lo scorso anno, a seguito delle delibere del 2012, era stata presentata dall'on. Marina Berlinghieri, un'interrogazione al ministero dell'economia e delle finanze ove si osservava che l'organo di revisione economico finanziaria di un ente locale:
a) non fa parte degli organi costituzionali, non svolge funzioni di governo e non è inquadrabile fra l'apparato amministrativo o politico del comune;
b) non è da comprendere fra gli «organi collegiali, anche di amministrazione» in quanto l'organo di revisione costituisce imprescindibili (in quanto organo obbligatorio e quindi non a incarico volontario) organi di revisione;
c) non può essere compreso tra gli organi di amministrazione e controllo in quanto, nella pubblica amministrazione, l'attività di controllo viene esercitata da organi facenti parte dell'amministrazione stessa e da organi di altro ente (per esempio, Tuel decreto legislativo n. 267 del 2000, articolo 147 per organi interni all'ente, articolo 148 per la Corte dei conti). Appare pertanto improprio includere l'organo di revisione tra «gli organi di indirizzo, direzione e controllo». La definizione del Tuel è quella di «organo di revisione economico-finanziaria» essendo investito di molteplici funzioni che comprendono la collaborazione, la vigilanza, l'attestazione dei risultati, il referto e le verifiche periodiche di cassa (articolo 236 Tuel). L'organo di revisione economico-finanziaria in definitiva non può essere considerato «organo di controllo», né interno, né esterno, dell'ente locale;
d) il revisore non è titolare di incarichi in quanto è «eletto» o «nominato», dal consiglio dell'ente per la durata di tre anni come indicato nel Tuel (e ora estratto a sorte dalle prefetture dagli elenchi formati a livello regionale) e non può essere considerato titolare di incarico in quanto il revisore assume l'obbligo della prestazione non nell'interesse esclusivo del committente (il comune o la provincia), ma bensì assume obblighi e responsabilità della revisione sulla sana e corretta gestione dell'ente nell'interesse pubblico;
e) la funzione esercitata e la specialità professionale richiesta per chi è chiamato a svolgere il ruolo di revisore dei conti fa ritenere, ragionevolmente, che il quinto comma dell'articolo 5 non sia applicabile ai revisori degli enti locali, dovendosi escludere che il legislatore abbia inteso sopprimere compensi che sono a tutti gli effetti dei compensi professionali regalati da una disciplina speciale, che la norma in questione non ha in alcun senso richiamato e/o modificato. Inoltre, il dm 20.05.2005 che dispone il trattamento economico dell'organo di revisione, nei limiti massimi fissati dallo stesso, non prevede la corresponsione di gettoni di presenza.
L'Ancrel condivide il contenuto dell'interrogazione e ritiene che al revisore di un ente locale, ancorché ricopra cariche elettive, siano dovuti i compensi per un'attività professionale che nulla a che a vedere con le limitazioni previste dal dl 78/2010 che miravano a contenere la spesa pubblica ove venissero «usate» le partecipazioni ad organi di pubblica amministrazione da parte di soggetti eletti per aumentare i propri compensi. Il ministero è invitato a chiarire con urgenza (articolo ItaliaOggi del 10.04.2015).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Assessori esterni, ok tacito. Ammissibili anche se lo statuto non li prevede. In mancanza di un divieto espresso la nomina va considerata legittima.
È possibile nominare degli assessori esterni alla giunta comunale a fronte dell'assenza di espressa previsione statutaria in tal senso, secondo le prescrizioni dell'articolo 47, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000?

L'art. 47, comma 4, del Testo unico sugli enti locali stabilisce che «nei comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti lo statuto può prevedere la nomina ad assessore di cittadini non facenti parte del consiglio ed in possesso dei requisiti di candidabilità, eleggibilità e compatibilità alla carica di consigliere».
Il Tribunale amministrativo regionale della Calabria–Reggio Calabria, con sentenza n. 105 del 14.02.2013, ha cassato la nomina di un assessore esterno alla luce della norma statutaria dell'ente interessato che, pur consentendo la nomina di eventuali assessori esterni al consiglio, stabilisce la preferenza della scelta tra i consiglieri in carica.
La fattispecie è sostanzialmente differente da quella prospettata nel caso in esame, in cui i consiglieri di minoranza lamentano l'assenza di una adeguata motivazione da parte del sindaco in ordine alla nomina dell'assessore esterno, in quanto il Tar, rilevando che la scelta dell'ente era motivata solo dalla necessità di assicurare la rappresentanza femminile, ha sostenuto che ciò ben poteva essere garantito nominando un interno, come di regola prescritto.
La nomina di un assessore esterno è stata infine ritenuta illegittima in assenza di ragioni concrete di inidoneità o incompatibilità politica alla funzione dell'unico consigliere donna che aspirava a tale carica e che aveva azionato il contenzioso.
Le motivazioni che hanno condotto all'annullamento della designazione dell'assessore esterno appaiono, pertanto, collegate all'espressa previsione statutaria che considera come regola prevalente la scelta di assessori interni al consiglio.
Riguardo alla situazione segnalata, invece, lo statuto disciplina la composizione ed il funzionamento della giunta e non prevede espressamente la facoltà di nomina di assessori esterni. Tale possibilità, tuttavia, si evincerebbe implicitamente dal contenuto di altro articolo dello statuto che stabilisce che «l'assessore esterno non può assumere la presidenza del consiglio comunale» e che «gli assessori esterni partecipano alle sedute consiliari e di commissione senza diritto di voto»
Quindi, in mancanza di un divieto espresso contenuto nello statuto, il riferimento agli assessori esterni di cui al medesimo statuto, legittimerebbe la loro presenza nella giunta del comune in questione.
Tuttavia, tali considerazioni non possono che costituire elementi di riflessione per l'ente, in quanto spetta al consiglio comunale, nella sua sovranità ed in quanto titolare della competenza a dettare le norme cui uniformarsi, procedere, ove ritenuto necessario, alle conseguenti modifiche statutarie.
In merito all'esigenza di motivare la scelta degli assessori, il Tar Campania–Napoli, con le sentenze n. 654 dell'08/02/2012 e n. 12668 del 07/06/2010, ha puntualizzato che gli artt. 46 e 47 del dlgs 18.08.2000 n. 267 riconoscono al sindaco un ampio potere discrezionale in ordine alla scelta dei componenti della giunta, potere che può estendersi anche all'individuazione di persone esterne al consiglio, senza che sussista uno specifico obbligo di motivazione, essendo questo previsto per la sola ipotesi di revoca (articolo ItaliaOggi del 17.04.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Numero legale fai da te. Il Tuel dà piena autonomia ai regolamenti. Il consiglio sopravvive anche se è impossibile procedere alla surroga.
Qual è il numero legale dei consiglieri comunali necessario per rendere valida una seduta, considerato che non risulta possibile procedere alla surroga di un consigliere dimissionario a causa della rinuncia degli ultimi consiglieri non eletti disponibili in lista?

L'art. 38, comma 2, del testo unico n. 267/2000 ha delegificato la disciplina del numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute, demandandola al regolamento sul funzionamento del consiglio comunale e ponendo come unico principio inderogabile la necessaria presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tal fine il sindaco.
Il problema prospettato, va pertanto risolto in base alle disposizioni statutarie e regolamentari adottate in materia dal comune.
Nel caso di specie, il regolamento richiede, per deliberare, l'intervento della metà più uno dei consiglieri assegnati al comune, senza computare il sindaco.
In merito, premesso che anche in base all'enunciato della sentenza del Consiglio di stato n. 640/2006 del 17.02.2006 il numero di consiglieri assegnati per legge all'ente si differenzia dal numero di consiglieri effettivamente in carica, occorre, dunque, fare riferimento al numero di nove consiglieri assegnati anche nell'impossibilità della surroga di uno dei componenti che comporta pertanto la presenza effettiva di otto consiglieri, oltre al sindaco.
Peraltro, la sopravvivenza dell'organo assembleare è consentita dalla legge (articolo 141, comma 1, lett. b) n. 4) del dlgs n. 267/2000), fino alla permanenza di metà dei componenti del consiglio (per impossibilità di surroga). Ciò appare compatibile con il disposto dell'articolo 38, comma 2 dello stesso dlgs n. 267/2000 il quale, rinviando alla previsione regolamentare, stabilisce la legittimità delle sedute con la presenza di almeno un terzo dei consiglieri assegnati.
Tuttavia, qualora, come nel caso in specie, il regolamento ponga una soglia più alta, è a tale limite che ci si deve attenere con gli arrotondamenti e gli aggiustamenti consentiti anche in base agli orientamenti giurisprudenziali.
In pregressi pareri il ministero dell'interno, richiamandosi ad orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, perveniva alla conclusione che «nei collegi dispari la metà dei consiglieri è costituita da quel numero che moltiplicato per due supera di una unità il numero totale dei consiglieri».
In merito, la giurisprudenza più recente (Cds n. 8823 del 22.10.2007, Tar Calabria –RC– n. 709 del 18.12.2013 e Tar Liguria n. 239 del 09.07.2014) afferma più correttamente che il principio elaborato ai fini del calcolo della maggioranza assoluta nei collegi formati da un numero dispari di membri implica pacificamente che la «metà più uno» sia data dal numero che, raddoppiato, supera il totale dei componenti almeno per un'unità.
In ogni caso, nelle more di un'opportuna integrazione del regolamento, per il profilo considerato può configurarsi l'applicabilità del criterio aritmetico, in quanto avente una valenza oggettiva ed ancorato a norme di diritto positivo (ad es. nel Tuel n. 267/2000 v. art. 47 co. 1; art. 71, co. 8 e art. 75, co. 8). In base al criterio aritmetico, l'arrotondamento della cifra decimale uguale o inferiore a 50 (ipotesi ricorrente nella fattispecie in esame) va effettuato per difetto.
Di conseguenza, nella fattispecie considerata, applicando il criterio aritmetico, il quorum strutturale per le adunanze, considerato che il calcolo deve essere effettuato su 9 consiglieri, escluso il sindaco, costituito dalla metà più uno dei consiglieri è uguale a cinque, senza computare il sindaco (articolo ItaliaOggi del 10.04.2015).

PATRIMONIO: Concessione in comodato d'uso di porzione d'immobile comunale ad altra pubblica amministrazione.
1) Sebbene il comodato costituisca una forma di utilizzo infruttifera e, quindi, non coerente con il principio di redditività dei beni immobili delle PP.AA., il più recente indirizzo della Corte dei conti afferma che non risulta precluso a priori, per l'ente locale, il ricorso a tale contratto, quale forma di sostegno/contribuzione nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
2) Dalla disciplina civilistica del comodato si evince, in via generale, che le spese necessarie per l'uso della cosa (ordinaria manutenzione) gravano sul comodatario, mentre quelle volte alla conservazione del bene (straordinaria manutenzione) spettano al comodante.
Va, tuttavia, rappresentato che una Sezione regionale della Corte dei conti, richiamando il principio di redditività dei beni pubblici, afferma la necessità che l'ente locale comodante sia perlomeno esentato dall'assunzione di qualunque onere di manutenzione, 'nessuno escluso'.

Il Comune chiede di conoscere se, atteso il principio della fruttuosità dei beni pubblici immobiliari, possa concedere in comodato d'uso (fatto, comunque, salvo l'addebito dei costi di funzionamento) una porzione d'immobile di sua proprietà all'Azienda per l'assistenza sanitaria, con vincolo di destinazione d'uso specifico di poliambulatorio per l'assistenza primaria, destinato, pertanto, all'erogazione diretta di un servizio a favore della comunità amministrata.
Occorre, anzitutto, evidenziare che -come afferma costante giurisprudenza
[1]- ai fini dell'individuazione dello strumento giuridico idoneo ad attribuire in godimento un bene pubblico a soggetti terzi, assume decisiva rilevanza la corretta qualificazione giuridica del bene stesso. Infatti, la natura demaniale o patrimoniale indisponibile del bene determina l'applicazione dello strumento pubblicistico della concessione, mentre la natura disponibile [2] del bene implica il ricorso a contratti di stampo privatistico (locazione, affitto di azienda, comodato) [3].
Ciò posto, appare opportuno ricordare che il principio della fruttuosità dei beni pubblici, sancito per lo Stato dall'art. 9 della legge 24.12.1993, n. 537 e per i comuni dall'art. 32, comma 8
[4], della legge 23.12.1994, n. 724, impone alle pubbliche amministrazioni di gestire il proprio patrimonio in modo da ottenere la massima redditività possibile.
Il Giudice contabile osserva che, a prescindere dall'individuazione dei rispettivi ambiti applicativi, le predette disposizioni «sono la chiara espressione della volontà del legislatore di rapportare i canoni locativi di tutti gli immobili pubblici ai valori di mercato; e ciò sia che si tratti, più propriamente, di immobili destinati ad uso abitativo (quali quelli disciplinati dall'art. 9, comma 3, della legge n. 537 del 1993), sia che si tratti di immobili appartenenti al patrimonio indisponibile (quali quelli regolati dall'art. 32, comma 8, della legge n. 724 del 1994), sia che si tratti [...] di immobili del patrimonio disponibile [...], relativamente ai quali -già prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni- il principio della redditività secondo valori di mercato discendeva dai principi di buona amministrazione cui sono astretti gli enti pubblici»
[5].
La Corte dei conti afferma, quindi, che le varie forme di gestione del patrimonio pubblico previste dall'ordinamento sono tutte finalizzate alla valorizzazione economica delle dotazioni immobiliari degli enti territoriali, vale a dire che esse «devono mirare all'incremento del valore economico delle dotazioni stesse, onde trarne una maggiore redditività finale»
[6].
Il Collegio rileva, peraltro, che «il Comune non deve perseguire, costantemente e necessariamente, un risultato soltanto economico in senso stretto nell'utilizzazione dei beni patrimoniali, ma, come ente a fini generali, deve anche curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della comunità amministrata
[7]» [8].
La Corte dei conti, dopo aver ribadito che, di norma, «l'atto di disposizione di un bene appartenente al patrimonio pubblico deve comunque tener conto dell'obbligo di assicurare una gestione 'economica' del bene stesso, in modo da aumentarne la produttività in termini di entrate finanziarie, obbligo che rappresenta una delle forme di attuazione da parte delle Pubbliche Amministrazioni del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità della gestione amministrativa costituisce il più significativo corollario (art. 1, Legge n. 241/1990 e s.i.m.)», precisa che «è il legislatore stesso che traccia i confini delle possibili eccezioni ai principi generali appena richiamati»
[9].
Al riguardo, la Corte dei conti richiama il già citato art. 32, comma 8, della L. 724/1994, ai sensi del quale i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono determinati in ragione delle loro caratteristiche e a valori non inferiori a quello di mercato, «fatti salvi gli scopi sociali»
[10], e l'art. 32, comma 1, della legge 07.12.2000, n. 383, che consente agli enti locali di concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, alle associazioni di promozione sociale ed alle organizzazioni di volontariato per lo svolgimento delle loro attività istituzionali.
Secondo la Corte dei conti, «Al di là delle citate eccezioni, espressamente previste dal legislatore, [...] qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al patrimonio comunale, non può prescindere dal rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità, che governano l'azione amministrativa, oltre che dal rispetto delle norme regolamentari dell'ente locale (il che concerne, anche e primariamente, la scelta del contraente cui concedere il bene in godimento)»
[11].
Va, tuttavia, rilevato che, dopo aver assunto una posizione assai rigorosa, nella considerazione che lo scopo primario del patrimonio disponibile è quello di produrre reddito, la Corte dei conti ha compiuto una serie di valutazioni che appaiono idonee a ritenere ammissibile -a determinate condizioni e anche a favore di soggetti di diritto privato- la concessione in comodato di beni pubblici.
La Corte ritiene, infatti, che, anche se il comodato, in quanto contratto gratuito, costituisce una forma di utilizzo infruttifera, e dunque non in linea con il principio della redditività dei beni patrimoniali disponibili, non risulta precluso a priori, per l'ente locale, ricorrere a tale negozio quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta «nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali»
[12].
Viene, altresì, rilevato che «il principio generale di redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni»
[13].
Il Collegio contabile osserva, poi, che all'interno dell'ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni immobili facenti parte del patrimonio disponibile dell'ente locale
[14] giacché, stante la loro natura, essi vengono assoggettati, in linea di principio, alla disciplina privatistica.
Tuttavia -chiarisce la Sezione- nell'esercizio della discrezionalità che gli compete in ordine alla gestione del proprio patrimonio, l'ente locale «deve non solo evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che l'utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l'ente locale medesimo»
[15].
«Dunque» -prosegue la Corte dei conti- «rientra nella sfera della discrezionalità dell'ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile, purché l'esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo»
[16].
La Corte dei conti chiarisce, poi, che «l'attribuzione del 'vantaggio economico'
[17] al destinatario del comodato si giustifica solo ed esclusivamente nella misura in cui le finalità perseguite dallo stesso rientrano tra quelle istituzionali del Comune» [18], a nulla rilevando la natura di tale destinatario, giacché «la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell'ente locale» [19].
Quanto al comodato a favore di altre pubbliche amministrazioni, una Sezione della Corte dei conti, esprimendosi sull'ammissibilità di concedere in uso beni comunali alla regione, al fine di garantire la permanenza in loco di alcuni uffici, osserva che la scelta non può considerarsi pregiudizievole per le finanze del comodante, considerato che la proprietà degli immobili rimane al comune, che la gestione dei beni viene temporaneamente trasferita da un'amministrazione locale all'altra e che l'operazione nel suo complesso sottende la tutela dell'interesse pubblico della comunità locale, avvantaggiata, nella fruizione del servizio erogato dagli uffici regionali, dal mantenimento di essi sul territorio
[20].
In altra e più recente occasione, la medesima Sezione regionale afferma la legittimità della stipulazione di un contratto di comodato per l'allocazione di una caserma (della Guardia di finanza), stante l'assenza di oneri a carico del comune, che rimane proprietario dell'immobile e il ricorrere dell'interesse pubblico, per ragioni di sicurezza, al mantenimento sul territorio di detto presidio
[21].
Per quanto attiene, più specificatamente, al caso di specie, occorre inoltre segnalare al Comune la necessità di verificare, con l'Azienda per l'assistenza sanitaria, che il poliambulatorio per l'assistenza primaria che verrebbe collocato nella porzione di immobile oggetto di comodato sia adibito esclusivamente a presidio pubblico, vale a dire che sia precluso, nei suoi locali, l'esercizio di attività libero-professionale, nella considerazione che detta attività si caratterizza per lo scopo di lucro
[22].
Stante quanto rappresentato, si osserva che la concessione in comodato dei beni immobili della P.A. risulta subordinata alla rigorosa osservanza delle condizioni previste dalla Corte dei conti.
Relativamente, poi, alla questione concernente gli oneri da porre a carico del comodatario -che l'Ente intenderebbe limitare ai 'costi di funzionamento'- occorre segnalare quanto segue.
L'art. 1803 del codice civile sancisce che il comodato «è essenzialmente gratuito» (secondo comma) ed il successivo art. 1804 dispone che «Il comodatario è tenuto a custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia» (primo comma, primo periodo).
L'art. 1808 del medesimo codice chiarisce, quindi, che «Il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per servirsi della cosa» (primo comma) e che «Egli però ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie e urgenti» (secondo comma).
Sulla scorta di tali previsioni si può, dunque, ritenere che, normalmente, le spese necessarie per l'uso della cosa (ordinaria manutenzione) gravino sul comodatario
[23], mentre quelle volte alla conservazione del bene (straordinaria manutenzione) spettino, invece, al comodante [24].
La Corte di cassazione precisa, infatti, che l'art. 1808 del codice civile distingue fra spese sostenute per il godimento della cosa e spese straordinarie, necessarie ed urgenti, affrontate per conservarla, osservando che «al comodatario non sono rimborsabili le spese straordinarie non necessarie ed urgenti, anche se comportano miglioramenti, né sotto il profilo dell'art. 1150 c.c. perché egli non è possessore, né sotto quello dell'art. 936 c.c. perché non è terzo anche quando agisce oltre i limiti del contratto, né infine sotto quello dell'art. 1595 c.c. in via di richiamo analogico, perché un'indennità per i miglioramenti è negata anche al locatario la cui posizione è molto simile a quella comodatario»
[25].
Ferme restando, in termini generali, la norma civilistica e l'interpretazione fornita dalla Corte di cassazione, si ritiene opportuno segnalare, comunque, una pronuncia della Corte dei conti che, trattando dell'ipotesi in cui comodante è un ente locale e richiamando, perciò, il già citato principio di redditività dei beni pubblici, ne ricava la necessità che l'ente medesimo sia quantomeno esentato da «qualunque onere di manutenzione, nessuno escluso»
[26].
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[1] Cfr. Corte di cassazione - Sez. III, sentenze 19.05.2000, n. 6482, 22.06.2004, n. 11608, 19.12.2005, n. 27931 e Sez. V, 31.08.2007, n. 18345; Consiglio di Stato - Sez. V, sentenze 16.05.2003, n. 1991 e 06.12.2007, n. 6265; Corte dei conti - Sez. reg.le contr. Sardegna, parere 07.03.2008, n. 4.
[2] I beni patrimoniali disponibili sono beni che appartengono all'ente pubblico uti privatorum: ciò significa che essi non hanno una destinazione o, comunque, un'utilità pubblica e, quindi, sono assoggettati, in linea di massima, alla disciplina privatistica.
[3] Si segnala, al riguardo, che la Corte dei conti, Sez. reg.le contr. Sardegna, parere n. 4/2008, ritiene che «l'Ente locale non goda di discrezionalità nel compiere la scelta tra i due strumenti di attribuzione in godimento a soggetti terzi (concessione amministrativa e locazione) del bene e che debba avere quale parametro di riferimento esclusivo la natura (demaniale, patrimoniale indisponibile o patrimoniale disponibile) del bene ed il regime giuridico cui conseguentemente è sottoposto».
[4] «A decorrere dal 01.01.1995 i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono, in deroga alle disposizioni di legge in vigore, determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato, fatti salvi gli scopi sociali».
[5] Corte dei conti - Sez. II giurisd. centrale d'appello, sentenza 22.04.2010, n. 149.
[6] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 05.10.2012, n. 716.
[7] Ai sensi dell'art. 13, comma 1, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 («Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze.») e dell'art. 16, comma 1, della legge regionale 09.01.2006, n. 1 («Il Comune è titolare di tutte le funzioni amministrative che riguardano i servizi alla persona, lo sviluppo economico e sociale e il governo del territorio comunale, salvo quelle attribuite espressamente dalla legge ad altri soggetti istituzionali.»).
[8] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012.
[9] Sez. reg.le contr. Puglia, parere 14.11.2013, n. 170.
[10] Tanto la Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012, quanto la Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013, chiariscono che la norma va letta in riferimento a quanto previsto dal comma 3 dello stesso articolo che, disciplinando i beni patrimoniali dello Stato, esclude dall'incremento dei canoni annui una serie di categorie di soggetti, tra cui le associazioni e le fondazioni con finalità culturali, sociali, sportive, assistenziali, religiose, senza fini di lucro, nonché le associazioni di promozione sociale, con determinati requisiti.
La Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012, la Sez. reg.le contr. Lombardia, parere 06.05.2014, n. 172 e la Sez. reg.le contr. Puglia, parere 15.12.2014, n. 216, affermano, poi, che la deroga alla regola della determinazione di canoni dei beni pubblici secondo logiche di mercato, prevista dalla disposizione in esame, «appare giustificata solo dall'assenza di scopo di lucro dell'attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni».
[11] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013 e, in termini, Sez. reg.le contr. Lombardia, parere n. 172/2014, che rileva come da un tanto consegua che «risulta rimessa esclusivamente alla discrezionalità ed al prudente apprezzamento dell'ente, che si assume la responsabilità della scelta, la verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo, che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento».
[12] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 24.04.2009, n. 33. In tale sede, il Collegio chiarisce che «Ciò potrà avvenire, però, solo a seguito di attenta valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco, rimessa esclusivamente alla discrezionalità e al prudente apprezzamento dell'ente, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento».
[13] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012.
[14] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri 17.06.2010, n. 672 e 13.06.2011, n. 349.
[15] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n. 349/2011.
[16] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n. 349/2011 e Sez. reg.le contr. Campania, parere 10.07.2013, n. 237.
[17] Si ricorda che l'art. 12 della legge 07.08.1990, n. 241, dispone che: «1. La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.
2. L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1.».
[18] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013.
[19] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010 e n. 349/2011 e Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013.
[20] Sez. reg.le contr. Puglia, parere 25.07.2008, n. 23.
[21] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 216/2014.
[22] Come si è già segnalato nella seconda parte della nota n. 10, alcune Sezioni regionali della Corte dei conti sostengono che la deroga alla regola della determinazione dei canoni dei beni pubblici secondo logiche di mercato, prevista dall'art. 32, comma 8, della L. 724/1994, laddove fa salvi gli scopi sociali, «appare giustificata solo dall'assenza di scopo di lucro dell'attività concretamente svolta dal soggetto destinatario di tali beni».
Occorre, infatti, ricordare che l'art. 36, comma 1, dell'Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, ai sensi dell'art. 8 del decreto legislativo 30.12.1992, n. 502, prevede che lo studio del medico di assistenza primaria «è considerato presidio del Servizio Sanitario Nazionale e concorre, quale bene strumentale e professionale del medico, al perseguimento degli obiettivi di salute del Servizio medesimo nei confronti del cittadino, mediante attività assistenziali convenzionate e non convenzionate retribuite», ma dispone, altresì, che «Lo studio del medico di medicina generale, ancorché destinato allo svolgimento di un pubblico servizio, è uno studio professionale privato.».
[23] Secondo una parte della dottrina (Fragali, Del comodato, in Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 1754-1812, Bologna-Roma, 1966, 309; Luminoso, Comodato, in EG, VII, Roma, 1988, 4), il comodatario non ha mai diritto al rimborso, neanche a titolo di arricchimento, nel caso di spese sostenute per la manutenzione ordinaria, la custodia e la conservazione.
[24] Tant'è che il comodatario ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie, necessarie ed urgenti per la conservazione della cosa, sostenute in luogo del comodante.
[25] Sez. II civile, sentenza 27.01.2012, n. 1216.
Per quanto appaia una posizione isolata, si segnala che una giurisprudenza di merito (Tribunale Bergamo, sentenza 20.11.2001) afferma che «ai sensi dell'articolo 1808, comma 1, del Codice civile, il comodante non ha l'obbligo di consegnare e mantenere la cosa in stato da servire all'uso convenuto con il comodatario, spettando a quest'ultimo sostenere tutte le spese necessarie per consentire detto uso, derivino esse da opere di manutenzione ordinaria o straordinaria. Pertanto, in un contratto di comodato che conceda il godimento gratuito del bene, la clausola per cui il comodatario assume l'obbligo di sostenere le opere di ordinaria e straordinaria manutenzione, limitandosi a rispettare il tipo legale, non può mai essere considerata come pattuizione volta ad introdurre un corrispettivo del godimento, ai fini della qualificazione del negozio come locazione anziché come comodato. In presenza di una tale clausola, rimane peraltro salvo, ai sensi del secondo comma, il diritto del comodatario al rimborso delle spese per opere di manutenzione straordinaria e urgenti, ove siano volte a conservare la cosa».
[26] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013, in cui si afferma che «risulterà, dunque, davvero difficile ravvisare detta condizione nel caso in cui l'accollo degli oneri gestionali da parte del soggetto destinatario del bene riguardi esclusivamente la manutenzione ordinaria, con esclusione di quella straordinaria».
Ancorché si tratti di disciplina normativa riferita ai soli beni immobili dello Stato, si vedano gli artt. 10, comma 1, e 11, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 13.09.2005, n. 296, i quali dispongono, rispettivamente, che «Sono legittimati a richiedere a titolo gratuito la concessione ovvero la locazione dei beni immobili di cui all'articolo 9, con gli oneri di ordinaria e straordinaria manutenzione a loro totale carico, i seguenti soggetti: [...]» e che «I beni immobili dello Stato di cui all'articolo 9 possono essere dati in concessione ovvero in locazione a canone agevolato per finalità di interesse pubblico connesse all'effettiva rilevanza degli scopi sociali perseguiti in funzione e nel rispetto delle esigenze primarie della collettività e in ragione dei princìpi fondamentali costituzionalmente garantiti, a fronte dell'assunzione dei relativi oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria, in favore dei seguenti soggetti: [...]»
(08.04.2015 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Nomina del RUP per gli affidamenti di beni e servizi.
La disciplina del RUP nel settore dei contratti pubblici è contenuta nell'art. 10, D.Lgs. n. 163/2006, e, specificamente per le forniture e i servizi, negli artt. 272 e 273 del D.P.R. n. 207/2010.
L'art. 10 del codice dei contratti pubblici prevede che il responsabile del procedimento sia un dipendente di ruolo o un dipendente in servizio, mentre l'art. 272, comma 4, del Regolamento attuativo richiede specificamente che il RUP sia un funzionario, anche di qualifica non dirigenziale.
Il comma 4 richiamato consente l'attribuzione dell'incarico di RUP a soggetti non muniti di qualifica dirigenziale, e quindi a funzionari muniti di funzioni dirigenziali (titolari di posizione organizzativa, nel sistema degli enti locali del FVG); peraltro, ai sensi di detta norma, come osservato dal Consiglio di Stato, sembra possibile l'attribuzione anche a dipendenti appartenenti alle categorie immediatamente inferiori a quella dirigenziale (e dunque che abbiano almeno il livello occupazionale di categoria D, avuto riguardo al sistema di classificazione del personale degli enti locali del FVG).

Il Comune chiede se sia possibile nominare responsabile unico di procedimento (RUP) personale di categoria C, ai fini dell'acquisizione del CIG per le gare relative a beni e servizi
[1]. Il Comune ha meno di 5.000 abitanti e non ha personale con qualifica dirigenziale o titolare di posizione organizzativa, ed è stata attribuita la responsabilità di tutti i servizi al Sindaco, ai sensi della L. n. 388/2000 [2].
Si ritiene, in via preliminare, di esprimere alcune considerazioni sulla disciplina generale del responsabile del procedimento contenuta nella L. n. 241/1990
[3] (artt. 4, 5 e 6), per poi concentrare l'attenzione su quella speciale, nel settore degli appalti pubblici, dettata dall'art. 10, D.Lgs. n. 163/2006 [4], e poi ulteriormente specificata, per le forniture e i servizi, dagli articoli 272 e 273 del regolamento attuativo approvato con D.P.R. n. 207/2010 [5].
L'art. 5, comma 1, L. n. 241/1990, dispone che 'il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o ad altro dipendente addetto all'unità la responsabilità dell'istruttoria e di ogni altro adempimento inerente il singolo procedimento, nonché, eventualmente, dell'adozione del provvedimento finale'
[6].
Specificamente, la competenza all'adozione del provvedimento finale discende dalla posizione giuridica e professionale di dirigente (nonché, negli enti locali privi di qualifica dirigenziale, di titolare di posizione organizzativa, incarico, questo, che comporta il conferimento di funzioni dirigenziali, ai sensi dell'art. 42 del CCRL del 07.12.2006), al quale, ai sensi dell'art. 107, comma 2, D.Lgs. n. 267/2000, è attribuita la competenza all'adozione di atti e provvedimenti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nell'ambito del suo potere di gestione finanziaria, tecnica e amministrativa.
Solo in capo a detti soggetti -muniti di qualifica dirigenziale o titolari di posizione organizzativa- sussiste la competenza ad emanare atti che impegnano la p.a. verso l'esterno.
Conferma di un tanto si ha dalla combinazione della previsione di cui all'art. 5, comma 1, L. n. 241/1990, richiamato, che prevede eventualmente l'adozione del provvedimento finale da parte del responsabile del procedimento, e della previsione di cui all'art. 6, comma 1, lett. e), della medesima legge, che prescrive che il responsabile del procedimento adotti il provvedimento finale 'ove ne abbia la competenza', ovvero, in caso contrario, impone la trasmissione degli atti all'organo competente per l'adozione.
In proposito, il Consiglio di Stato chiarisce che l'attribuzione delle funzioni di responsabile del procedimento implica l'assegnazione della responsabilità dell'istruttoria e di ogni altro adempimento inerente al procedimento, rimanendo 'solo eventuale' l'adozione del provvedimento finale con effetti esterni
[7], che, come detto sopra compete al dirigente (o titolare di posizione organizzativa munito di funzioni dirigenziali).
Venendo alla questione in esame, relativa al soggetto che può essere nominato RUP nel settore dei contratti pubblici, ai fini dell'acquisizione del CIG nelle procedure di affidamento di beni e servizi, in particolare se possa essere un appartenente alla categoria C, viene in considerazione la disciplina specifica in materia recata dal D.Lgs. n. 163/2006 e dal relativo regolamento attuativo, D.P.R. n. 207/2010.
Al riguardo, si precisa che le riflessioni che seguono sono improntate, in via collaborativa, a criteri prudenziali e di ragionevolezza, alla luce di alcuni spunti offerti dalla giurisprudenza e dalla dottrina, evidenziando, peraltro, come non sia allo stato possibile addivenire ad una interpretazione univoca delle norme statali in argomento.
L'art. 10, D.Lgs. n. 163/2006, prevede che il responsabile del procedimento: svolge tutti i compiti relativi alle procedure di affidamento previste dal Codice dei contratti pubblici, che non siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti (comma 2); deve possedere titolo di studio e competenza adeguati in relazione ai compiti per cui è nominato e, per le amministrazioni aggiudicatrici, deve essere un dipendente di ruolo, o anche un dipendente in servizio, in caso di accertata carenza di dipendenti di ruolo in possesso di professionalità adeguate (comma 5). Il medesimo art. 10 rinvia al regolamento di attuazione la determinazione dei requisiti di professionalità richiesti al responsabile del procedimento (comma 6).
L'art. 272 del Regolamento dispone che il RUP è nominato 'contestualmente alla decisione di procedere all'acquisizione' (comma 1) e che 'il responsabile del procedimento è un funzionario, anche di qualifica non dirigenziale, dell'amministrazione aggiudicatrice' (comma 4).
Con riguardo alla qualifica del RUP, si osserva il carattere specificativo del comma 4 dell'art. 272 del Regolamento rispetto alle prescrizioni del Codice dei contratti pubblici.
Infatti, mentre l'art. 10, D.Lgs. n. 163/2006, prevede che il responsabile del procedimento sia un dipendente di ruolo o un dipendente in servizio, il comma 4 dell'art. 272 del D.P.R. n. 207/2010 richiede specificamente che il RUP sia un 'funzionario, anche di qualifica non dirigenziale'.
Il tenore letterale del comma 4 in argomento è chiaro nel consentire l'attribuzione dell'incarico di RUP a soggetti non muniti di qualifica dirigenziale, e dunque a funzionari muniti di funzioni dirigenziali (titolari di posizione organizzativa, nel sistema degli enti locali del FVG)
[8], nonché, come osservato dal Consiglio di Stato, a dipendenti appartenenti alle categorie immediatamente inferiori a quella dirigenziale [9].
Quest'ultima ipotesi potrebbe, infatti, verificarsi qualora, come nel caso in esame, le unità organizzative per gli approvvigionamenti siano sprovviste sia di personale dirigenziale che incaricato di posizione organizzativa, per cui ad essere investiti del ruolo di RUP potrebbero essere i dipendenti delle qualifiche immediatamente inferiori a quella dirigenziale
[10], e dunque che abbiamo almeno il livello occupazionale di categoria D, avuto riguardo al sistema di classificazione del personale degli enti locali del FVG.
Si precisa, come già detto sopra con riferimento alla disciplina generale del responsabile del procedimento, che un RUP non munito di qualifica dirigenziale o di funzioni dirigenziali sarà legittimato a compiere unicamente atti privi di rilevanza esterna
[11].
La possibilità di nominare RUP dipendenti di categoria immediatamente inferiore a quella dirigenziale è stata espressa dal Consiglio di Stato con riferimento, invero, al settore delle opere pubbliche, nella vigenza della L. n. 109/1994
[12], che prevedeva che il RUP dovesse essere un tecnico con competenze professionali adeguate alle caratteristiche dell'intervento da svolgere [13]. Con riferimento alla questione della possibilità che il RUP potesse non essere un dirigente, il Consiglio di Stato ha espresso la posizione di apertura alle categorie immediatamente inferiori, nel quadro di un'impostazione che il Supremo Giudice amministrativo reputa valida non solo in materia di lavori pubblici, ma in termini generali per ogni tipo di procedimento amministrativo, ai sensi della L. n. 241/1990, e che appare del resto attuale alla luce della normativa vigente in materia [14].
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[1] Il Comune aderisce ad Unione, ai sensi della L.R. n. 1/2006, nell'ambito della quale opera il Servizio Centrale Unica di Committenza, cui spettano gli adempimenti relativi alle procedura di gara per la scelta del contraente, mentre l'acquisizione del CIG compete ai singoli comuni aderenti, così come la stipula del contratto, secondo quanto previsto dal Regolamento di organizzazione sul funzionamento della Centrale Unica di Committenza dell'Unione.
[2] L. 23.12.2000, n. 388, recante: 'Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato'. Vedi, in particolare, l'art. 53, comma 23, che consente ai Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti di attribuire ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi e il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale.
[3] L. 07.08.1990, n. 241, recante: 'Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi'. Questa legge ha introdotto la figura del RUP nell'ambito dell'azione amministrativa con una disciplina generale che l'art. 2, comma 3, D.Lgs. n. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici), richiama per tutti quegli aspetti non espressamente disciplinati dal Codice.
[4] D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, recante: 'Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE'.
[5] D.P.R. 05.10.2010, n. 207, recante: «Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, recante: 'Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE'»
[6] Il comma successivo stabilisce che, fino a quando non sia effettuata tale assegnazione, è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto all'ufficio stesso, che assume la veste di responsabile di tutti i procedimenti, a partire dal loro impulso fino alla loro conclusione.
[7] Consiglio di Stato, parere n. 304 del 03.03.2004.
[8] In questo senso, in dottrina, v. Aldo Gurrieri, Il Responsabile del procedimento negli appalti di beni e servizi (con particolare riferimento alle Aziende del S.S.N.), pubblicazione del 02.03.2009 su www.diritto.it. Per l'autore, di norma il ruolo di RUP dovrebbe essere affidato a dirigenti, ovvero, in assenza di dipendenti con qualifica dirigenziale, a funzionari titolari di posizione di elevata responsabilità (previste dai contratti collettivi di settore) muniti di funzioni dirigenziali.
[9] Consiglio di Stato, sez. I, parere 03.03.2004, n. 204.
[10] Cfr., in dottrina, Aldo Guerrieri, cit., secondo cui nei casi eccezionali in cui le strutture per l'approvvigionamento si trovano sprovviste sia di personale dirigenziale sia di personale con incarico di posizione organizzativa, il responsabile di struttura può dirigere la designazione del R.U.P. su qualunque dipendente in servizio, senza però poter prescindere dal tenere nel dovuto conto l'inquadramento professionale dei dipendenti e le relative sfere di competenza (risultanti oltre che dai contratti - individuale e collettivo - anche da atti di conferimento di incarichi e atti di delega).
[11] Cfr. Consiglio di Stato, n. 204/2004, cit., secondo cui lungi da potersi affermare che dai compiti propri del responsabile del procedimento debba trarsi la qualifica (necessariamente dirigenziale) del soggetto da nominare, è vero invece che quei compiti possono in concreto diversamente specificarsi in relazione alla qualifica (eventualmente dirigenziale) posseduta dal singolo responsabile del procedimento. Specificamente, i compiti del responsabile del procedimento non implicano che lo stesso debba compiere ogni singolo atto in cui il procedimento si articola, che a seconda delle specifiche competenze richieste, potrà essere affidato ad altri dipendenti addetti all'unità organizzativa o riservato, una volta debitamente istruito, al dirigente della stessa unità.
[12] Legge 11.02.1994, n. 109, recante 'La nuova legge quadro in materia di lavori pubblici', abrogata dal D.Lgs. 12.04.2006, n. 163. In attuazione della L. n. 109/1994 è stato emanato il D.P.R. 21.12.1999, n. 554, recante: 'Regolamento di attuazione della legge quadro 11.02.1994, n. 109, e successive modificazioni', abrogato dal D.P.R. 05.10.2010, n. 207.
[13] La questione è stata risolta espressamente, nel senso che il RUP non è necessariamente un dirigente, sia per le opere pubbliche che per le forniture e servizi, dal D.P.R. n. 207/2010 (rispettivamente, art. 9, comma 4, e art. 272, comma 4).
[14] Il Consiglio di Stato muove dall'art. 7 della L. n. 109/1994, secondo cui il soggetto che può essere nominato RUP deve essere un tecnico con competenze professionali adeguate alle caratteristiche dell'intervento da svolgere. Del pari, ai sensi dell'art. 7 del D.P.R. n. 554/1999, il responsabile del procedimento è un tecnico in possesso di titolo di studio adeguato alla natura dell'intervento da realizzare, abilitato all'esercizio della professione o, quando l'abilitazione non sia prevista dalle norme vigenti, è un funzionario con idonea professionalità, e con anzianità di servizio in ruolo non inferiore a cinque anni.
L'art. 10, D.Lgs. n. 163/2006, riferito sia ai lavori che alle forniture e servizi, riproduce l'art. 7, L. n. 109/1994, mentre il D.P.R. n. 207/2010 introduce, agli artt. 272 e 273, una disciplina specifica per le procedure di affidamento di servizi e forniture. In particolare le considerazioni espresse dal Consiglio di Stato con riferimento alla figura del RUP delineata dalla L. n. 109/1994, di un tecnico abilitato alla professione o di un funzionario con professionalità adeguata, ben sembrano attagliarsi alla disciplina vigente del RUP, di cui al D.Lgs. 163/2006 e al D.P.R. n. 207/2010, per cui questi deve avere competenza e professionalità adeguate e specificamente essere un funzionario per gli affidamenti relativi ai servizi e forniture
(08.04.2015 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI: Gli obblighi associativi per gli acquisti.
DOMANDA:
Quali sono gli obblighi associativi dei comuni non capoluogo di Provincia con popolazione inferiore a 10.000 abitanti in relazione all'acquisto di lavori, beni e servizi?
RISPOSTA:
Al fine di fornire una risposta esaustiva al parere richiesto, pare utile richiamare brevemente la normativa che disciplina gli istituti in esame.
In base al primo periodo del riformulato comma 3-bis dell'art. 33 del Codice, i Comuni non capoluogo di provincia procedono all'acquisizione di lavori, beni e servizi facendo ricorso a tre modelli organizzativi strutturati e ad uno più flessibile:
a) Unioni dei comuni costituite in base all'articolo 32 del decreto legislativo 15.08.2000, n. 267, ove esistenti (Comuni non capoluogo possono essere già parte dell'Unione o possono decidere di associarsi ad un'Unione già costituita);
b) soggetto aggregatore, inteso secondo la definizione desumibile dal comma 1 dell'art. 9 del d.l. n. 66/2014 conv. l. n. 89/2014, pertanto individuabile, allo stato attuale, nella Consip s.p.a. e nelle centrali di committenza regionali; in base a quanto previsto dal comma 2 dello stesso art. 9, il novero dei soggetti aggregatori può risultare ampliato in base alla progressiva iscrizione all'elenco speciale presso l'AUSA;
c) Province, ai sensi della legge 07.04.2014, n. 56; il comma 88 dell'art. 1 della stessa legge di riforma stabilisce infatti che la Provincia può, d'intesa con i Comuni, esercitare le funzioni di predisposizione dei documenti di gara, di stazione appaltante, di monitoraggio dei contratti di servizio e di organizzazione di concorsi e procedure selettive, assumendo pertanto il ruolo di Stazione Unica Appaltante (SUA);
d) apposito accordo consortile tra Comuni, avvalendosi dei competenti uffici anche delle Province.
Il d.l. 66/2014, stabilisce all'art. 9, commi 1 e 2, che la veste di soggetto aggregatore è riconosciuta, ipso iure, a Consip S.p.A. e ad una centrale di committenza per ciascuna regione, qualora costituita ai sensi dell'articolo 1, comma 455, della legge 27.12.2006, n. 296 ("le regioni possono costituire centrali di acquisto"). Tale natura, inoltre, può essere attribuita dall'A.N.A.C. anche ai soggetti diversi da quelli in precedenza citati che svolgono attività di centrale di committenza ai sensi dell'art. 33 d.lgs. 163/2006 (ossia alle centrali uniche di committenza già costituite sotto la vigenza del precedente art. 33, comma 3-bis), attraverso l'iscrizione all'elenco dei soggetti aggregatori. Conseguentemente, nella Determinazione n. 3 del 25.02.2015, l'ANAC specifica che la nozione di soggetto aggregatore presuppone, quanto a funzione, quella di centrale di committenza, ma "si tratta di centrale di committenza "qualificata" ed "abilitata" (ex lege o tramite preventiva valutazione dell'A.N.AC. e successiva iscrizione nell'apposito elenco) all'approvvigionamento di lavori, beni e servizi per conto dei soggetti che se ne avvalgono".
L'art. 9, comma 2, del cit. d.l. 66/2014 prevede che, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, da emanarsi entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, previa intesa con la Conferenza unificata, sono definiti i requisiti per l'iscrizione, tra cui il carattere di stabilità dell'attività di centralizzazione, nonché i valori di spesa ritenuti significativi per le acquisizioni di beni e di servizi con riferimento ad ambiti, anche territoriali, da ritenersi ottimali ai fini dell'aggregazione e della centralizzazione della domanda.
Il relativo d.p.c.m. è stato emanato in data 11.11.2014 e pubblicato sulla G.U. Serie Generale n. 15 del 20.01.2015.
L'art. 2, comma 1, del d.p.c.m. prevede che "Richiedono l'iscrizione all'elenco dei soggetti aggregatori, se in possesso dei requisiti di cui al successivo comma 2, i seguenti soggetti o i soggetti da loro costituiti che svolgano attività di centrale di committenza ai sensi dell'art. 33 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 con carattere di stabilità, mediante un'organizzazione dedicata allo svolgimento dell'attività di centrale di committenza, per il soddisfacimento di tutti i fabbisogni di beni e servizi dei relativi enti locali:
a) città metropolitane istituite ai sensi della legge 07.04.2014, n. 56 e del decreto legislativo 17.09.2010, n. 156 e le province
b) associazioni, unioni e consorzi di enti locali, ivi compresi gli accordi tra gli stessi comuni resi in forma di convenzione per la gestione delle attività ai sensi del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
".
Ai fini dell'iscrizione all'elenco dei soggetti aggregatori, i soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, devono nei tre anni solari precedenti la richiesta, avere pubblicato bandi e/o inviato lettera di invito per procedure finalizzate all'acquisizione di beni e servizi di importo a base di gara pari o superiore alla soglia comunitaria, il cui valore complessivo sia superiore a 200.000.000 euro nel triennio e comunque con un valore minimo di 50.000.000 euro per ciascun anno. In sede di prima attuazione del presente decreto, rileva ai fini del possesso del requisito il triennio 2011- 2012-2013.
Ai fini del possesso del requisito relativo al valore delle procedure, si tiene conto anche delle procedure avviate dai singoli enti locali facenti parte dell'associazione, unione, consorzio o accordi tra gli stessi comuni resi in forma di convenzione per la gestione delle attività.
I soggetti che intendono essere iscritti all'elenco dei soggetti aggregatori dovranno inviare, entro venerdì 17.04.2015, richiesta formale all'ANAC - Ufficio UMABS, con il file Excel corredato da tutte le informazioni richieste (cfr. Determinazione 2/2015 del 3 marzo u.s.).
Nella richiesta i candidati dovranno dichiarare:
- che essi o i soggetti da loro costituiti "svolgono attività di centrale di committenza ai sensi dell'art. 33 del DLGS 163/2006 con carattere di stabilità, mediante un'organizzazione dedicata allo svolgimento dell'attività di centrale di committenza, per il soddisfacimento di tutti i fabbisogni di beni e servizi dei relativi enti locali";
- che le informazioni fornite tramite file Excel corrispondono al vero;
- per le città metropolitane che esse "sono state istituite ai sensi della legge 07.04.2014 n. 56 e del D.Lgs. 17.09.2010 n. 156" e i riferimenti dell'atto istitutivo;
- per le associazioni, unioni e consorzi di enti locali, compresi gli accordi tra gli stessi comuni resi in forma di convezione per la gestione delle attività, che sono costituiti "ai sensi del D.Lgs. 18.08.2000 n. 267" e i riferimenti dell'atto costitutivo.
L'Autorità procede, sentita la Conferenza Unificata, all'iscrizione all'elenco dei soggetti aggregatori richiedenti secondo un ordine decrescente basato sul più alto valore complessivo delle procedure avviate, fino al raggiungimento del numero massimo complessivo dei soggetti aggregatori di cui all'art. 9, comma 5, del d.l. 66/2014 (trentacinque), comprensivo dei soggetti facenti parte dell'elenco ai sensi dell'art. 9, comma 1, del medesimo decreto (venti regioni + Consip).
Per i soggetti che non riuscissero, quest'anno, ad ottenere il riconoscimento di soggetto aggregatore, si evidenzia che l'ANAC entro il 30.09.2017 e, successivamente, ogni tre anni, procederà all'aggiornamento dell'elenco. A tal fine, i soggetti aggregatori già iscritti -con esclusione di Consip e dei soggetti aggregatori individuati dalle regioni di riferimento per i quali la stessa regione provvede a comunicare contestualmente eventuali modifiche- che intendano mantenere l'iscrizione all'elenco, ovvero i soggetti in possesso dei requisiti di cui all'art. 2 e non iscritti all'elenco, inviano, secondo le modalità operative di cui all'art. 3, comma 1, la relativa richiesta all'ANAC che procede all'aggiornamento.
In base alla normativa richiamata si può riassumere, in estrema sintesi, che i Comuni non capoluogo di provincia procedono all'acquisizione di lavori, beni e servizi tramite:
- Unione ex art. 32 Tuel;
- convenzione ex art. 30 Tuel (cd. "accordo consortile");
- Provincia, in qualità di Stazione Unica Appaltante (SUA);
- soggetto aggregatore (iscritto nell'elenco):
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1. Consip 2. centrali di acquisto regionali 3. soggetti iscritti nell'elenco dei soggetti aggregatori (città metropolitane, Province, associazioni, unioni e consorzi di enti locali, convenzioni tra Comuni, e soggetti da loro costituiti) (link a www.ancirisponde.ancitel.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA: Bonus 65% agli schermi.
Le schermature solari per poter beneficiare della detrazione fiscale del 65% devono essere ancorate ma amovibili. L'immobile sulla quale sono istallate le schermature solari alla data della richiesta di detrazione, deve essere «esistente», ossia accatastato o con richiesta di accatastamento in corso e deve essere in regola con il pagamento di eventuali tributi.

Queste le precisazioni tecniche contenute nel vademecum Enea sulle schermature solari aggiornato al 16 aprile scorso.
Le schermature solari per usufruire della detrazione fiscale del 65% devono essere a protezione di una superficie vetrata, devono essere applicate in modo solidale con l'involucro edilizio e non liberamente montabili e smontabili dall'utente. Possono essere applicate, rispetto alla superficie vetrata, all'interno, all'esterno o integrate essere in combinazioni con vetrate o autonome (aggettanti). Devono essere mobili con schermature «tecniche».
Per le chiusure oscuranti (persiane, veneziane, tapparelle ecc.), vengono considerati validi tutti gli orientamenti. Per le schermature non in combinazione con vetrate, vengono escluse quelle con orientamento nord e devono possedere la marcatura CE, se prevista. Per le schermature solari l'allegato F può essere compilato e trasmesso online direttamente dal richiedente le detrazioni fiscali oppure da un intermediario. La voce 13 «risparmio energetico stimato [kWh]» dell'allegato F deve essere compilata inserendo il valore «0» (zero). Dunque, viene meno la necessità di eseguire qualsiasi tipologia di calcolo da parte di tecnico abilitato.
Le detrazioni fiscali per interventi di riqualificazione energetica del patrimonio edilizio esistente sono prorogate nella misura del 65% fino al 31.12.2015 dalla legge 190/ 2014. La documentazione deve essere inoltrata per via telematica. Le richieste di detrazione per riqualificazione energetica ultimati nel 2015 devono essere trasmesse attraverso il sito http://finanziaria2015.enea.it/ (articolo ItaliaOggi del 21.04.2015 - tratto da www.fiscooggi.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Via, stretta su impianti e opere. Esteso il novero dei progetti sotto controllo preliminare. Dal 26 aprile in vigore nuove regole per la valutazione di impatto ambientale locale.
Potrebbe crescere sensibilmente dal prossimo 26 aprile il numero di impianti e opere sottoposti a valutazione di impatto ambientale.

A causarlo sarà l'entrata in vigore del nuovo Dm Ambiente 30.03.2015, l'atteso provvedimento che in attuazione del dlgs 152/2006 rinforza i criteri previsti dal Codice ambientale per l'individuazione da parte degli Enti territoriali di quei progetti che devono essere sottoposti a «screening ambientale» (vera e propria anticamera della più onerosa valutazione di impatto ambientale) per poter essere realizzati.
Mediante un abbassamento delle soglie dimensionali che fanno scattare, in base al Codice ambientale, l'obbligo di «verifica di assoggettabilità» il nuovo regolamento del Dicastero (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell'11.04.2015, n. 84) imporrà, infatti, a regioni e province autonome di sottoporre a screening interventi dal possibile impatto negativo sull'ecosistema, ma attualmente escluse verifica preliminare.
Il contesto normativo. In base all'articolo 6 del dlgs 152/2006 (cd. Codice ambientale), la valutazione di impatto ambientale è immediatamente necessaria (dunque senza verifica preliminare di assoggettabilità) per la realizzazione dei progetti ex allegati II (salvo l'eccezione più avanti citata) e III (sottoposti a Via regionale), per i progetti ex Allegato IV relativi a opere o interventi in aree naturali protette ex legge 394/1991, per i soli progetti ex citato allegato II che servono esclusivamente o essenzialmente per sviluppo e collaudo di nuovi metodi o prodotti e non sono utilizzati per più di 2 anni; per le modifiche di quelli ex medesimo allegato II che possono avere impatti significativi o negativi sull'ambiente.
Per gli altri progetti individuati dall'allegato IV per tipologie e soglie dimensionali (e comprendenti un vasto panorama di impianti che va dalla filiera alimentare a quella energetica, passando per carta, legno, gestione di rifiuti e strutture turistiche) è invece dallo stesso articolo del dlgs 152/2006 prevista una preliminare fase di verifica (c.d. screening, ex articolo 20) da parte di regioni e province autonome che solo in caso di esito positivo convoglia gli stessi sotto la più esigente Via.
L'articolo 6 del dlgs 152/2006 (come modificato dal dl 91/2014) affidava a un Dm Ambiente (ora adottato) la specificazione di regole uniformi per individuare in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale quali siano i progetti che effettivamente soddisfano i requisiti previsti dall'Allegato IV e, di conseguenza, siano da sottoporre a screening. Il tutto sancendo, fino alla data di entrata in vigore del suddetto regolamento, la parallela disapplicazione (per incompatibilità con la normativa comunitaria) delle regole dimensionali previste dallo stesso allegato IV e obbligando gli enti territoriali a una valutazione (transitoria) «caso per caso» dei progetti da sottoporre a screening.
I rinnovati criteri. Il nuovo e atteso dm 30.03.2015 pone dunque fine al suddetto periodo transitorio, imponendo dal 26.04.2015 (data della sua entrata in vigore) delle univoche linee guida per la corretta individuazione dei progetti da sottoporre a screening locale. Ciò che ne deriva è una disciplina fondata su tre pilastri: le caratteristiche tipologiche e dimensionali individuate dall'Allegato IV del dlgs 152/2006 (punto di partenza per identificare opere e impianti oggetto di indagine); i criteri tecnici e localizzativi generali previsti dal successivo allegato V dello stesso decreto (necessari per correttamente interpretare gli indicatori fissati dall'Allegato IV e composti da tre descrittori: caratteristiche dei progetti; localizzazione; caratteristiche dell'impatto potenziale); i nuovi criteri specifici recati dal dm 30.03.2015, che integrano i suddetti parametri introducendo (in relazione ai citati descrittori) ulteriori valutatori tecnico-dimensionali e localizzativi.
E sono proprio gli ulteriori criteri introdotti dal nuovo decreto ministeriale a imporre in molti casi una riduzione percentuale delle soglie dimensionali già fissate dall'Allegato IV del dlgs 152/2006, allargando così il novero dei progetti da sottoporre ai sensi dello stesso elenco a screening (ed, eventualmente, a vera e propria successiva Via). In relazione, per esempio, al descrittore «caratteristiche dei progetti» ex Allegato V del dlgs 152/2006, i criteri del dm 30.03.2015 specificano come il sub-descrittore «cumulo con altri progetti» debba sempre prendere in considerazione la coesistenza di altri progetti analoghi e limitrofi (entro la fascia di un chilometro da quello nuovo, derogabile dietro motivazione dalle regioni) e che sommati superano le soglie dimensionali previste dall'Allegato IV, dlgs 152/2006.
Il concorrere di tutte le citate condizioni, sancisce il nuovo regolamento ministeriale, comporta sempre per gli impianti interessati un abbattimento del 50% delle soglie dimensionali ex Allegato IV, dlgs 152/2006 (con conseguente ampliamento dei progetti eleggibili a vera e propria Via). Analoghi criteri sono dal nuovo regolamento sanciti (si veda la tabella riportata in pagina) in relazione agli altri descrittori, unitamente alla regola di chiusura per la quale la sussistenza di più criteri comporta, ancora una volta, il dimezzamento delle soglie dimensionali eventualmente previste dall'Allegato IV del Codice ambientale.
La rinnovata disciplina troverà applicazione anche ai procedimenti in corso; ma su richiesta dei singoli enti territoriali il Minambiente potrà tuttavia adottare, con ulteriore decreto, specifiche deroghe per particolari situazioni ambientali e territoriali (articolo ItaliaOggi Sette del 20.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGli esuberi non bloccano la mobilità.
La ricollocazione dei dipendenti provinciali in esubero non blocca le mobilità del personale conseguenti al trasferimento di funzioni.

Il chiarimento arriva da Ancitel, che ha risposto al quesito posto da un comune circa la portata del comma 424 dell'ultima legge di stabilità (legge 190/2014).
Tale norma, come noto, ha imposto a regioni ed enti locali di destinare le proprie risorse assunzionali prioritariamente al riassorbimento dei lavoratori soprannumerari delle province, facendo salva solo l'assunzione dei vincitori di concorsi pubblici inseriti in graduatorie vigenti o approvate al 31 dicembre scorso.
Questa disciplina ha posto numerosi dubbi interpretativi, finora non risolti in modo univoco né dalla Funzione pubblica né dalla Corte dei conti.
Fra le questioni aperte, c'è anche quella riguardante l'applicabilità, nelle more della ricollocazione dei dipendenti provinciali, dell'art. 31 del dlgs 165/2001. Quest'ultimo, in caso di trasferimento o conferimento di attività da un'amministrazione a un'altra, dispone l'applicazione della disciplina civilistica sulla cosiddetta cessione del ramo di azienda (art. 2112 c.c.), per cui il personale segue la funzione o le funzioni trasferite.
Ebbene, secondo Ancitel tale meccanismo non è impedito dal disposto del comma 424 della legge 190, essendo il citato art. 31 una norma speciale disciplinante situazioni particolari. Del resto, la stessa circolare della Funzione pubblica precisa che rimangono consentite le assunzioni previste da norme speciali.
La tesi esposta è condivisibile, anche perché diversamente si finirebbe per congelare o comunque procrastinare i percorsi di riordino previsti da altre disposizioni di legge, come per esempio quelli riguardanti la gestione in forma associata delle funzioni fondamentali dei piccoli comuni ovvero il superamento delle comunità montane (caso, quest'ultimo, che ha originato il quesito in esame) (articolo ItaliaOggi del 18.04.2015).

APPALTI: Appalti, responsabilità solidale in mano alle parti. Nei contratti collettivi possibile una diversa disciplina.
La contrattazione collettiva può disciplinare non derogare al regime di responsabilità solidale negli appalti. Può cioè prevedere metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità, non limitarsi a prevedere l'acquisizione di autodichiarazioni dei datori di lavoro.

Lo precisa il Ministero del lavoro nell'interpello 17.04.2015 n. 9/2015 formulato da Aris.
Il quesito. L'interpello verte sul cd regime di responsabilità solidale negli appalti, disciplinato dal comma 2, dell'articolo 29, del decreto legislativo n. 276/2003 (riforma Biagi), da ultimo modificato dall'articolo 4, comma 31, della legge n. 92/2012 (riforma Fornero). Tale regime intercorre tra committente, appaltatore e ciascuno degli eventuali subappaltatori e riguarda le retribuzioni e il versamento degli oneri sociali (contributi e premi) dovuti per i lavoratori impiegati nell'appalto e per il periodo dello stesso appalto, fino a due anni dopo la sua cessazione.
L'Aris ha chiesto l'interpretazione della norma nella parte in cui prevede che la contrattazione collettiva nazionale possa derogare al regime della responsabilità solidale negli appalti. In particolare, ha chiesto se l'espressione «salva diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali» si riferisca alla contrattazione collettiva sottoscritta da associazioni del settore di appartenenza dell'appaltatore ovvero di quello del committente.
I chiarimenti. L'articolo 29, spiega il ministero, dopo aver disciplinato il regime di responsabilità solidale fa salve le eventuali diverse disposizioni «dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore che possono individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti» (comma 2).
Successivamente, aggiunge il ministero, l'articolo 9, comma 1, del decreto legge n. 76/2013 (convertito dalla legge n. 99/2013), ha specificato che le eventuali diverse norme dei contratti collettivi nazionali possano esplicare i propri effetti solo in relazione ai trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell'appalto/subappalto, «con esclusione di qualsiasi effetto in relazione ai contributi previdenziali e assicurativi» (così, peraltro, già precisato dallo stesso ministero nella circolare n. 35/2013).
In conclusione, il ministero spiega che l'istituto della responsabilità solidale costituisce una garanzia per i lavoratori impiegati nell'appalto che, evidentemente, sono quelli dipendenti o dell'appaltatore o del subappaltatore. Pertanto «appare conforme alla ratio della disposizione ritenere che eventuali regimi derogatori possano essere disciplinati dai contratti collettivi applicati ai lavoratori in questione», cioè ai Ccnl applicati dalle imprese appaltatrici e/o sub-appaltatrici e non dal Ccnl applicato dal committente.
Tali contratti, in particolare, possono individuare «metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti», adeguatamente utili a garantire l'assolvimento, da parte dell'appaltatore, degli obblighi retributivi nei confronti dei propri lavoratori, senza limitarsi a prevedere l'acquisizione delle relative autodichiarazioni rilasciate dai datori di lavori (articolo ItaliaOggi del 18.04.2015).

APPALTIAppalti pubblici senza deroghe. Eccezione solo per calamità. Ma con gare trasparenti. Il pacchetto di emendamenti dei relatori al disegno di legge di riforma al senato.
Niente più leggi speciali e deroghe per gli appalti pubblici, con l'eccezione delle sole calamità naturali, ma sempre con pubblicità degli affidamenti; confermata la pubblicità dei bandi di gara sui quotidiani, oltre che su internet; istituzione di una Agenzia per il PPP (Partenariato Pubblico-Privato) e di un albo nazionale dei direttori dei lavori e dei collaudatori dei lavori affidati al contraente generale (che non svolgerà più la direzione lavori); reso più flessibile l'obbligo per i comuni di ricorso alle centrali di committenza; obbligo di ricorso all'appalto di sola esecuzione sulla base del progetto esecutivo; possibilità di utilizzo dell'appalto integrato soltanto se il 70% dell'appalto riguarda lavori di notevole contenuto innovativo o tecnologico; aggiudicazione dell'appalto sempre con il criterio dell'offerta più vantaggiosa; il massimo ribasso sarà una eccezione limitatissima e comunque verrà escluso per gli appalti ad elevato contenuto di manodopera; premialità per i concorrenti che utilizzano personale o manodopera locale.

Sono queste alcune delle novità contenute negli emendamenti che i due relatori del disegno di legge delega sugli appalti pubblici
 (Atto Senato n. 1678) hanno presentato mercoledì, insieme a quelli di tutti gli altri gruppi parlamentari, presso l'ottava commissione del Senato.
Si tratta di proposte che vincolano maggiormente il Governo nel dare attuare alla delega, precisando meglio diversi punti di quella che sarà una profonda riforma della legislazione in materia di appalti e rispondendo a molte delle richieste emerse in sede di audizione.
Rispetto al testo che gli stessi relatori avevano predisposto e depositato come testo-base la scorsa settimana (vedi ItaliaOggi del 09.04.2015) viene colmata una lacuna relativa a un elemento di notevole importanza, sottolineato più volte anche dall'Autorità nazionale anticorruzione, rappresentato dal divieto di procedure derogatorie rispetto a quelle del nuovo codice: sarà vietato affidare contratti con procedure diverse da quelle del codice tranne nei casi di urgenze di protezione civile «determinate da calamità naturali». In questi casi, comunque, dovrà essere previsto un adeguato controllo e la pubblicità successiva degli affidamenti.
Novità anche per il project financing con la creazione di un'Agenzia dedicata a tutte le operazioni di PPP (Partenariato Pubblico-Privato) e con la richiesta di studi di fattibilità più accurati che consentano la bancabilità del progetto. Nuova è anche la previsione di un albo nazionale dei responsabili dei lavori, dei direttori dei lavori e dei collaudatori delle opere della «legge obiettivo» affidate con la formula del «contraente generale» (cui sarà comunque fatto divieto di svolgere la direzione dei lavori); in particolare l'albo sarà gestito dal Ministero delle infrastrutture e la nomina avverrà con sorteggio da una lista di candidati almeno in numero triplo.
Innovativa è anche la previsione sull'obbligo di ricorso alle centrali di committenza da parte dei comuni non capoluogo di provincia. In particolare si prevede una diversificazione quantitativa e qualitativa dell'obbligo: per i comuni con popolazione al di sotto dei 5 mila abitanti scatterebbe l'obbligo di utilizzo della centrale per affidamenti oltre i 150 mila euro di importo; per quelli fino a 15 mila la soglia di valore passa a 250 mila euro, mentre per i comuni oltre i 15 mila abitanti l'obbligo sarà applicabile se il contratto vale più di 350 mila euro.
Previsti più incisivi controlli sulla fase di esecuzione dei lavori e introdotto un criterio di delega per la disciplina della pubblicità dei bandi e avvisi di gara: in via principale avverrà sul sito della stazione appaltante e «in ogni caso» occorrerà pubblicare i bandi, con costi a carico dell'aggiudicatario dell'appalto, su due quotidiani nazionali e due locali.
Per gli affidamenti la regola generale sarà l'appalto di sola esecuzione sulla base del progetto esecutivo e l'appalto integrato (progettazione esecutiva e costruzione) sarà legittimo soltanto se il 70% dei lavori ha natura notevolmente tecnologica e innovativa. Previste premialità per gli offerenti che indicano di utilizzare manodopera o personale locale (articolo ItaliaOggi del 17.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOP.a., in pensione senza penalità. Recesso ok per gli under 62 con i requisiti contributivi. Nota della Funzione pubblica. Il diritto a lasciare il lavoro va maturato entro il 31/12/2017.
Possibili fino al 31.12.2017 recessi unilaterali per i dipendenti pubblici con requisiti di anzianità contributiva anche prima del compimento dei 62 anni d'età, senza penalizzazioni.

Lo chiarisce il Dipartimento della funzione pubblica, con la nota 16.04.2015 n. 24210 di prot., in risposta ad un quesito posto dal comune di Brescia relativo all'impatto dell'articolo 1, comma 113, della legge 190/2014 sulla modifica apportata all'articolo 72, comma 11, del dl 112/2008, disposta dall'articolo 1, comma 5, del dl 90/2014, convertito in legge 114/2014.
L'articolo 1, comma 5, del dl 90/2014 (riforma Madia) ha modificato la normativa del 2008 indicando alle amministrazioni pubbliche di utilizzare come strumento ordinario la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro nei confronti del personale soggetto alla nuova disciplina pensionistica, quando detto personale abbia acquisito il requisito contributivo per la pensione anticipata (per il 2015: 42 anni e 6 mesi per gli uomini e 41 anni e 6 mesi per le donne, mentre per il triennio 2016-2018: 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne), a condizione che dipendente non abbia un'età anagrafica che possa farlo incorrere in penalizzazioni sull'importo della pensione.
In sostanza, come chiarito dalla circolare della funzione pubblica 2/2015, la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro, ai sensi della riforma Madia, non può avvenire prima del compimento dei 62 anni d'età.
Sul tema è tornato l'articolo 1, comma 113, della legge 190/2014, ai sensi del quale le disposizioni contenute nella «riforma-Fornero» delle pensioni e, in particolare l'articolo 24, comma 10, terzo e quarto periodo, del dl 201/2011 «non trovano applicazione limitatamente ai soggetti che maturano il previsto requisito di anzianità contributiva entro il 31.12.2017».
Palazzo Vidoni, dunque, chiarisce che combinando le varie disposizioni tra loro si deve concludere che nel triennio 2015-2017 «non operano più le penalizzazioni previste dall'art. 24, comma 10, del dl n. 201 del 2011, convertito in legge n. 214 del 2011, per quei dipendenti che accedono alla pensione anticipata prima del compimento dei 62 anni di età». Questo consente alle p.a., per il triennio 2015-2017, di attivare con maggiore agilità la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro, utile per sbloccare il turnover e favorire il ricambio generazionale. Le penalizzazioni torneranno operative a partire dal 01.01.2018, fatto salvo il caso della maturazione del requisito della pensione anticipata entro il 31/12/2017.
La nota spiega che qualora il dipendente abbia maturato il requisito contributivo per la maturazione del diritto alla pensione anticipata in data antecedente all'01/01/2015 e tale dipendente sia in servizio perché di età anagrafica inferiore ai 62 anni, l'amministrazione di appartenenza potrebbe comunque disporre la risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro con preavviso di 6 mesi e senza penalizzazioni per l'interessato, purché successivamente all'01/01/2015.
Laddove il dipendente maturi i suddetti requisiti contributivi entro il dicembre 2017, anche con età inferiori a 62 anni, anche in questo caso la risoluzione del rapporto di lavoro non comporterebbe penalizzazioni, nonostante la decorrenza dell'assegno di pensione ricada successivamente al 31/12/2017 (articolo ItaliaOggi del 17.04.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

SEGRETARI COMUNALISegretari comunali senza eredi. Non è chiaro chi negli enti ne raccoglierà le competenze. La riforma della dirigenza contenuta nel ddl Madia elimina una figura fondamentale.
Il disegno di legge presentato dal governo, nel riscrivere la disciplina della dirigenza pubblica, prevede l'abolizione della figura del segretario comunale (art. 10, lettera b), numero 4) del ddl Atto Senato n. 1577).
Ciò, nonostante la consultazione pubblica avviata dal governo avesse dato indicazioni completamente diverse. Secondo il disegno di legge non esiste più il ruolo che attualmente svolge il segretario all'interno dell'ente, se non facoltativo per gli enti privi di dirigenza. Le funzioni attualmente svolte dai segretari, elencate nell'art. 97 del Tuel, non è chiaro da chi debbano essere svolte negli enti con la dirigenza. Qualora l'ente sia privo di dirigenti, si prevede la facoltà di nominare un dirigente apicale, con compiti di attuazione dell'indirizzo politico, coordinamento dell'attività amministrativa e controllo della legalità dell'azione amministrativa.
L'abolizione è contenuta nella norma che riguarda l'intera dirigenza, articolo 10 del disegno di legge. Si prevede che i segretari comunali siano subito inseriti nel ruolo dei dirigenti degli enti locali (salvo alcune eccezioni: iscritti in Fascia C e vincitori di concorso per i quali è prevista una disciplina transitoria, che conduce con il tempo allo stesso effetto).
La proposta, quindi, elimina una figura fondamentale di garanzia all'interno degli enti, senza individuare con chiarezza la disciplina sostitutiva, anzi rimettendo a ciascun ente l'organizzazione in tema di interessi pubblici prioritari, quali quelli del rispetto della legalità e dell'efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa. Il tutto aggravato dal fatto che il segretario di recente è stato chiamato a svolgere delicate funzioni, anche nel disegno volto a introdurre misure amministrative di prevenzione della corruzione.
Nel corso dei lavori della commissione affari costituzionali il testo della riforma è stato notevolmente modificato ed è stato trasmesso all'aula per l'approvazione con le citate modifiche. Le modifiche hanno riguardato anche l'originario art. 10, ora divenuto art. 9, comma 1, lett. b), numero 4) del ddl Atto Senato n. 1577 probabilmente anche a causa delle forti critiche alla proposta di abolizione. La norma come riformulata, prevede l'abolizione della figura del segretario comunale, ma introduce un «obbligo per gli enti locali di nominare comunque un dirigente apicale con compiti di attuazione dell'indirizzo politico, coordinamento dell'attività amministrativa e controllo della legalità dell'azione amministrativa, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica». La proposta della commissione, cancella i segretari comunali, ma non le loro funzioni che saranno svolte obbligatoriamente all'interno di ogni ente locale da un dirigente apicale.
Appare che le funzioni di tale ultima figura si prospettino più vicine a un'amministrazione moderna che tende ad accentrare in un'unica figura le funzioni di vertice amministrativo dell'ente. Legalità e risultato, nell'ottica della nuova figura del dirigente apicale, devono convergere: non si può raggiungere l'uno senza l'altro. Questo deve diventare un modo di essere dell'amministrazione locale, deve farsi concreta strategia anticorruzione, organizzativa e funzionale; un qualsiasi controllore esterno non sarebbe in grado di svolgere altro che un controllo successivo e neutro. Successivo perché fatto dopo che l'azione amministrativa si è concretizzata nell'assunzione dell'atto e neutro in quanto consisterebbe nella mera verifica della conformità alla norma dell'atto amministrativo assunto. L'esperienza di questi anni ha invece dimostrato che gli unici veri controlli efficaci sono i controlli fatti all'interno dell'amministrazione, che guidano l'azione dell'amministrazione al raggiungimento di risultati concreti, individuati dagli atti di programmazione assunti dagli organi politici, nel rispetto del principio di legalità.
Il tema della corretta gestione dell'ente locale impone una riforma che sancisca il principio che vi sia un dirigente apicale in tutti gli enti locali, che assolva tanto alla funzione di direzione complessiva dell'ente che al presidio della legalità.
Così ricostruite le funzioni del dirigente apicale, sarà fondamentale nell'iter di approvazione della legge delega e dei decreti legislativi fissare ulteriori paletti per garantire la piena autonomia e indipendenza di tale figura, soprattutto nella logica del rafforzamento della funzione di prevenzione della corruzione già assegnata con la legge n. 190/2012, nonché per garantire l'assoluta professionalità di tale figura (articolo ItaliaOggi del 17.04.2015).

APPALTIRiforma appalti, stop alle deroghe. Prevista un’agenzia per il project financing - Stretta su varianti e massimo ribasso.
Contratti pubblici. Procedure speciali solo per lavori anticalamità tra gli emendamenti dei relatori alla delega per riscrivere il codice.

Altolà agli appalti in deroga alle procedure ordinarie previste dal codice degli appalti, con l'eccezione (limitata e comunque regolamentata con controlli potenziati e forme di pubblicità successive) dei lavori urgenti svolti dalla protezione civile in seguito a calamità naturali.
Il mantra che da anni ormai investe il settore dei lavori pubblici come un'intenzione più volte annunciata diventerà una norma cogente con il nuovo codice degli appalti. Il divieto di appalto in deroga (quindi prevalentemente a trattativa privata o affidamento diretto) spicca infatti fra i nuovi criteri di delega (Atto Senato n. 1678), poco più di una quindicina, che il relatore della riforma al Senato, il Pd Stefano Esposito, ha inserito in altrettanti emendamenti integrativi del testo base che egli stesso aveva presentato una decina di giorni fa.
Il pacchetto presentato ieri da Esposito sarà votato la settimana prossima e basterebbe da solo a fare una riforma del settore, tanto pesanti sono le norme integrative presentate: vincoli al subappalto inseriti in una nuova disciplina dell’istituto; dettagliata disciplina delle varianti “sostanziali” e “non sostanziali” in corso d'opera con l’obiettivo di limitarle fortemente soprattutto nelle grandi opere strategiche; sempre in materia di legge obiettivo, istituzione presso il Ministero delle Infrastrutture di un albo nazionale dei responsabili lavori, dei direttori dei lavori e dei collaudatori per spazzare via la stagione degli affidamenti fatti dai general contractor sulla base di rapporti fiduciari evidenziata dalle inchieste su Ercole Incalza; semplificazione dell’Avcpass gestita dall’Autorità Anticorruzione e in generale delle modalità di attestazione dei requisiti di qualificazione delle imprese; nuova Agenzia nazionale per il partenariato pubblico-privato che dovrebbe sostenere il decollo di un settore che finora ha conosciuto prevalentemente esperienze negative e comunque con risultati piuttosto sporadici nonostante una stagione con una certa diffusione dei bandi nelle piccole opere.
Sul project financing e sul Ppp Esposito interviene anche con una norma che punta all'affidamento dell’opera a privati solo dopo che siano stati acquisiti pareri e autorizzazioni, onde evitare improprie lievitazione dei costi difficili da ripartire e squilibri dei piani economico-finanziari.
«C’è una riflessione in corso anche con il governo -dice Esposito- sugli strumenti migliori per garantire il decollo del partenariato pubblico-privato che può certamente essere una risorsa per il futuro ma che finora non ha funzionato. Anche prevedendo un’agenzia nazionale e un rafforzamento dello studio di fattibilità che consenta e favorisca, più di quanto accade oggi, un esame realistico della fattibilità e della bancabilità dei progetti».
Una riforma nella riforma, quella di Esposito, senza tener conto dei puntigliosi e utilissimi paletti messi nel campo della progettazione per tentare di rilanciare la centralità del progetto: limitazione dell’appalto integrato alle sole opere in cui la ponente tecnologica e impiantistica pesi per almeno il 70% dell'importo complessivo; attenzione rinnovata alla qualità architettonica con il rilancio dello strumento dei concorsi di progettazione; la previsione di norma della messa a gara del progetto esecutivo; l’esclusione del ricorso al solo criterio di aggiudicazione del prezzo o del costo, inteso come criterio del prezzo più basso o del massimo ribasso d'asta.
Ultimo argomento che potrebbe portare a una posizione non del tutto convergente con il governo è quello dell’inserimento da parte di Esposito di soglie puntuali per gli obblighi di centralizzazione e riduzione delle stazioni appaltanti per i piccoli comuni. Il relatore ritiene di dover marciare senza più indugi su questo nodo del settore di cui si parla da anni senza che siano state assunte misure concrete. La regia nella definizione dei criteri degli accorpamenti resterebbe comunque all’Anac
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVISanzioni soft sul bollo virtuale. Da aprile, i pagamenti vanno solo col modello F24. La circolare n. 16/E chiarisce le modalità di presentazione delle dichiarazioni telematiche.
Dichiarazione telematica e versamento con F24 per l'imposta di bollo virtuale.

Con la circolare 14.04.2015 n. 16/E l'Agenzia delle entrate illustra la disciplina, oggetto di recenti modifiche, chiarendo tra l'altro che l'omesso versamento è punibile con la sanzione del 30% e non con quella dal 100 al 500% prevista per l'evasione dell'imposta di bollo dovuta con modalità ordinarie.
È superato, inoltre, il requisito del tributo minimo di 5 milioni di lire annui, precedentemente richiesto per il rilascio dell'autorizzazione all'assolvimento in modo virtuale.
Come funziona il bollo virtuale. L'art. 15 del dpr 642/1972 prevede la preventiva richiesta dell'autorizzazione all'ufficio competente, corredata da una dichiarazione contenente il numero degli atti e documenti che si presume di emettere/ricevere nell'anno. Su questa base, l'ufficio liquida provvisoriamente l'imposta fino al 31 dicembre, da versare in rate bimestrali con scadenza alla fine di ciascun bimestre solare.
Dall'anno successivo, il soggetto autorizzato presenta telematicamente all'ufficio, entro il 31 gennaio, una dichiarazione con il numero effettivo degli atti e documenti emessi nell'anno precedente, contenente tutti gli elementi utili per la liquidazione dell'imposta, nonché degli assegni bancari estinti nello stesso periodo, onde permettere all'ufficio di liquidare definitivamente l'imposta. La liquidazione definitiva, ragguagliata e corretta in caso di eventuali modifiche normative, rappresenta la base per la liquidazione provvisoria dell'anno in corso.
Ai sensi dell'art. 15-bis, alcuni soggetti (poste, banche, enti e società finanziari, imprese di assicurazione) entro il 16 aprile di ogni anno devono versare un acconto pari al 95% dell'imposta provvisoriamente liquidata.
La competenza per il rilascio dell'autorizzazione e per la liquidazione dell'imposta spetta alla direzione provinciale dell'Agenzia delle entrate competente in base al domicilio del contribuente; fa eccezione il rilascio delle autorizzazioni agli uffici ed enti statali e alle Cciaa, devoluto alla direzione regionale. La richiesta di autorizzazione va presentata con istanza in bollo, salve le esenzioni dell'art. 16, tab. B, allegata al dpr 642/1972 (enti pubblici). L'autorizzazione è rilasciata dall'ufficio dopo avere verificato la legittimità della richiesta, non solo riguardo ai documenti e agli atti, ma anche ai requisiti di idoneità del soggetto e di rilevanza dell'attività svolta.
Pur confermando le istruzioni fornite in passato dall'amministrazione finanziaria in ordine alla opportunità di verificare, tra l'altro, la sussistenza dei requisiti di affidabilità e di adeguata capacità economica del richiedente, l'agenzia ritiene debba prescindersi dal requisito della soglia minima del tributo dovuto, per cui è superata la circolare n. 49/1987, che prevedeva il rilascio dell'autorizzazione solo per importi annui non inferiori a cinque milioni di lire.
Documenti tributari informatici. La circolare rammenta che la disciplina in esame non trova applicazione per l'imposta di bollo sui documenti informatici, regolata dal dm 17.06.2014, che non necessita di autorizzazione né prevede adempimenti dichiarativi, ma solo il versamento dell'imposta con F24 telematico, entro 120 giorni dalla chiusura dell'esercizio.
Versamenti. A partire dal 20.02.2015, i versamenti dell'imposta di bollo virtuale, nonché dei relativi interessi e sanzioni, devono essere effettuati con il modello F24 (fino al 31 marzo era ancora consentito utilizzare il modello F23); i codici tributo sono stati istituiti con risoluzione n. 12/2015.
Eventuali eccedenze di imposta non possono essere portate in compensazione con altri tributi.
Sanzioni. A seguito della riforma del 1997, è stata prevista, per la mancata corresponsione, in tutto o in parte, dell'imposta di bollo dovuta sin dall'origine, la sanzione dal 100 al 500% dell'imposta. Con la stessa riforma, è stata introdotta, in via generale, la sanzione del 30% dell'importo non versato nel caso di omessi o ritardati versamenti dell'imposta risultante dalla dichiarazione, nonché in ogni ipotesi di mancato pagamento di un tributo o di una sua frazione nel termine previsto (art. 13 dlgs n. 471/1997).
Le violazioni del versamento dell'imposta di bollo virtuale, osserva la circolare, ricadono solo nella seconda ipotesi e sono pertanto punibili con la sanzione del 30%, ridotta al 2% per ogni giorno di ritardo se non superiore a 15 giorni. Per l'omessa o infedele dichiarazione di conguaglio, si applica invece la sanzione dal 100 al 200% dell'imposta, prevista dall'art. 25, comma 3, del dpr n. 642/1972; la stessa sanzione si applica in caso di tardiva presentazione.
Sono applicabili le disposizioni sul ravvedimento operoso di cui all'art. 13, dlgs n. 472/1997, compresa la lettera c) nel caso di omessa dichiarazione regolarizzata entro novanta giorni (articolo ItaliaOggi del 15.04.2015).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIOpere con Via allargata. Sforbiciata del 50% alle soglie dimensionali. I progetti sottoposti a valutazione ambientale sono destinati a crescere.
L'introduzione dei nuovi criteri per l'assoggettamento dei progetti di opere e infrastrutture alla valutazione di impatto ambientale determinerà una maggiore applicazione della procedura di Via; prevista una riduzione del 50% delle soglie dimensionali oggi applicabili ai sensi del codice dell'ambiente; Regioni e Province chiamate ad adeguare la propria normativa.

Sono questi alcuni degli effetti determinati dal decreto del ministero dell'ambiente del 30.0.2015, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 84 dell'11.04.2015, che entrerà in vigore il 26.04.2015 e si applicherà a tutti i progetti per i quali la procedura autorizzativa o di «screening» risulti in corso.
Le Regioni e le Province autonome dovranno «ove necessario» adeguare i propri ordinamenti ai criteri delle linee guida sulla base delle specifiche situazioni ambientali e territoriali. Al ministero dell'ambiente spetterà poi effettuare il monitoraggio sulle ricadute derivanti dall'applicazione delle linee guida e, se necessario, predisporne la revisione e l'aggiornamento.
Il decreto arriva a sanare una situazione di incompatibilità comunitaria rilevata dalla Commissione europea nel lontano 2009 rendendo pienamente applicabile il disposto dell'articolo 4, paragrafo 3, della direttiva europea e i criteri di selezione definiti nell'allegato III della «direttiva Via». Il decreto consegue alla delega conferita al ministero dell'ambiente dal decreto legge 91/2014 (art. 15, comma 1, lettera c) e definisce criteri e soglie da applicare per l'assoggettamento dei progetti di cui all'allegato IV alla parte II del decreto legislativo n. 152/2006 alla procedura di verifica di assoggettabilità a Via, oltre alle modalità per l'adeguamento, da parte delle Regioni, dei criteri e soglie alle specifiche situazioni ambientali e territoriali.
Il nuovo decreto avrà l'effetto, da un lato, di ridurre del 50% le soglie dimensionali già fissate nell'allegato IV (ove presenti) e dall'altro lato di estendere il campo di applicazione delle disposizioni in materia di Via a progetti potenzialmente in grado di determinare effetti negativi significativi sull'ambiente. Il decreto riguarda in particolare la verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale (il cosiddetto «screening») che si sostanzia nella procedura finalizzata a valutare se un progetto può determinare impatti negativi significativi sull'ambiente e se, pertanto, debba essere sottoposto alla valutazione di impatto ambientale.
Per decidere quindi se debbano essere sottoposti a Via i progetti di intervento sul territorio di cui all'allegato V della parte seconda del codice dell'ambiente (le principali opere a rete e lineari: dalle strade e autostrade, ai porti, ai progetti di sviluppo industriale e rurale, alle opere marittime e idriche, agli aeroporti, porti ecc.), occorrerà applicare una serie di criteri fra i quali, in primo luogo, quelli concernenti le caratteristiche dei progetti; in questi casi occorrerà valutare il cumulo con altri progetti (da intendersi in relazione a progetti relativi a opere o interventi di nuova realizzazione) e il rischio di incidenti, per quanto riguarda, in particolare, le sostanze o le tecnologie utilizzate. Un secondo parametro da tenere presente sarà quello della localizzazione dei progetti considerando la sensibilità ambientale delle aree geografiche che possono risentire dell'impatto dei progetti e quindi della «capacità di carico dell'ambiente naturale».
In quest'ultimo caso il decreto cita espressamente alcune zone «sensibili»: quelle umide, costiere, montuose o forestali, le riserve e i parchi naturali, le zone classificate o protette ai sensi della normativa nazionale, le zone protette speciali designate in base alle direttive 2009/147/Ce e 92/43/Cee, le zone nelle quali gli standard di qualità ambientale fissati dalla normativa dell'Unione europea sono già stati superati, le zone a forte densità demografica (con densità superiore a 500 abitanti per km e popolazione di almeno 50.000 abitanti) e quelle di importanza storica, culturale o archeologica (articolo ItaliaOggi del 15.04.2015).

INCARICHI PROFESSIONALI - PROGETTUALI: Professionisti, il Durc non serve. Per i bandi di gara bastano i contributi previdenziali. I chiarimenti di Inarcassa sul possesso del documento: non è necessario senza dipendenti.
Niente Durc (documento unico di regolarità contributiva) per i professionisti che lavorano con la p.a. A patto che non abbiano dipendenti nel proprio studio e siano in regola con i contributi previdenziali.

Paola Muratorio presidente di Inarcassa, la cassa di previdenza degli ingegneri e architetti, replica così alla richiesta di chiarimenti relativamente all'obbligatorietà del Durc per i professionisti che partecipano ai bandi di gara sui servizi di ingegneria e architettura.
Innanzitutto la nota 01.04.2015 n. 103 di prot. chiarisce cosa sia il Durc e cioè «un istituto giuridico (disciplinato dall'art. 6 del dpr 207/2010) distinto dall'attestazione di regolarità contributiva che le stazioni appaltanti richiedono all'associazione da me presieduta», necessario sia al momento della stipula del contratto sia per attivare i pagamenti dei corrispettivi maturati a fronte delle prestazioni effettuate. In base a questa norma, quindi, le imprese che partecipano alle gare d'appalto devono essere in regola con gli adempimenti nei confronti di Inps e Inail.
Al contrario, invece, la regolarità contributiva chiesta ai progettisti che partecipano alle gare per l'affidamento dei servizi di ingegneria e architettura è quella regolata dal codice degli appalti (dlgs 163/2006) che obbliga i professionisti ad avere una posizione regolare nei confronti del loro ente previdenziale. Nel dettaglio si prevede che qualora le stazioni appaltanti affidino ai professionisti la redazione del progetto preliminare, «all'atto dell'affidamento dell'incarico deve essere dimostrata la regolarità contributiva del soggetto affidatario», che precisa l'Inarcassa rappresenta un adempimento diverso dal Durc dell'impresa.
In sostanza, si legge nella nota, «
l'affidamento degli incarichi di progettazione da parte delle stazioni appaltanti è subordinato alla regolarità contributiva dei professionisti nei soli confronti di Inarcassa, se iscritti a questa associazione, ma anche dell'Inps nel caso in cui si tratti di lavoratori dipendenti iscritti anche alla gestione separata Inps o di società di ingegneria tenute a certificare la regolarità contributiva in relazione agli adempimenti previdenziali verso i propri dipendenti».
E quindi la cosiddetta regolarità contributiva dei professionisti senza dipendenti iscritti a una cassa di previdenza, in questo caso a Inarcassa, non va confusa con il regime di tutela dei diritti dei lavoratori. Il presidente Muratorio ha anche ricordato di aver chiesto all'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici la possibilità in base alla quale se il responsabile del procedimento ottiene un Durc negativo di trattenere dal certificato del pagamento l'importo corrispondente all'inadempienza.
Ma l'Autority aveva scartato tale possibilità specificando che non fosse possibile detrarre dai pagamenti le somme dovute dal professionista ad Inarcassa (articolo ItaliaOggi del 14.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAImpianti Aia, rush per le verifiche. Ultimi giorni per monitorare lo stato di inquinamento di acqua e suolo. Stabilimenti industriali. La competenza suddivisa tra Stato e Regioni rende incerta la portata dell’obbligo.
Scadenze ravvicinate per gli impianti industriali soggetti ad autorizzazione integrata ambientale (Aia). Entro mercoledì 22 aprile molti di questi dovranno verificare lo stato di salute di acqua e suolo. Ma il perimetro dell’obbligo è ancora incerto, soggetto alla competenza incrociata di Stato e Regioni. E da valutare caso per caso.
Dopo il recepimento della direttiva 2010/75/Ue attraverso il Dlgs 46/2014, gli impianti soggetti ad Aia sono tenuti a verificare lo stato qualitativo dei suoli e delle acque sotterranee e, quindi, l’esistenza di potenziali contaminazioni attraverso la cosiddetta relazione di riferimento.
La relazione è uno strumento pratico volto a consentire un raffronto tra lo stato qualitativo del sito al momento della redazione del documento e lo stato del medesimo sito al momento della cessazione definitiva delle attività e ciò al fine di monitorare il possibile aumento significativo dell’inquinamento del suolo e delle acque di falda.
Il Dlgs 152/2006 (Codice dell’ambiente), tuttavia, si limita a prevedere l’obbligo di presentazione della relazione di riferimento prima della messa in esercizio dell’impianto ovvero prima dell’aggiornamento dell’Aia, senza, invece, dettare specifiche indicazioni circa le modalità di elaborazione del documento. Queste ultime sono rinviate ad un successivo decreto ministeriale.
Il Dm di gennaio
Il ministero dell’Ambiente, con il Dm 272 del 13.11.2014 (pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» il 07.01.2015), ha definito le modalità di redazione della relazione di riferimento, introducendo anche una procedura di verifica preliminare.
Secondo questo decreto, una prima categoria di impianti Aia rimessi alla competenza statale (raffinerie, acciaierie, impianti di gassificazione e di liquefazione, ossia quelli di cui all’allegato XII della parte seconda del Dlgs n. 152/2006, con eccezione di centrali termiche alimentate a gas naturale) dovranno direttamente presentare la relazione di riferimento entro il 22.01.2016 (ossia entro un anno dall’entrata in vigore del Dm).
Più stringente, invece, la scadenza per gli altri impianti soggetti ad Aia (ossia gli altri impianti considerati dall’allegato VIII), i quali devono completare la procedura di verifica entro il prossimo 22 aprile.
Sarà quindi questa procedura di screening a determinare quali di questi impianti debbano effettivamente predisporre la relazione di riferimento entro il prossimo gennaio e quali, invece, siano esonerati.
Le due letture possibili
L’obbligo di avviare la procedura di verifica, tuttavia, non è chiaro. Il Dm 272, infatti, all’articolo 3, comma 2, dispone in via generale che la verifica debba essere condotta rispetto a tutti gli impianti di cui all’allegato VIII che non ricadono tra quelli direttamente soggetti a relazione di riferimento (ossia quelli dell’allegato XII, con alcune esclusioni specifiche). Sennonché, il successivo articolo 4 impone l’obbligo di verifica entro il prossimo 22 aprile solo agli impianti soggetti ad Aia “statale” che non ricadono nell’ipotesi di assoggettamento diretto alla relazione di riferimento.
Se il riferimento alla competenza statale è effettivamente voluto -come pare ragionevole pensare- la procedura di verifica entro il 22 aprile riguarderebbe solo le centrali termiche ed altri impianti di combustione con potenza termica di almeno 300 MW alimentate esclusivamente a gas naturale che, sebbene ricadenti tra quelli di cui all’allegato XII, non sono inclusi nella prima categoria direttamente assoggettata ad obbligo di predisposizione della relazione di riferimento. Di contro, tutti gli altri impianti Aia già operativi di competenza regionale o provinciale dovrebbero eseguire la verifica prima del primo aggiornamento autorizzativo, salve diverse disposizioni regionali.
Se, invece, la locuzione “statale” fosse un mero errore materiale, tutti gli impianti Aia regionali e provinciali dovrebbero completare la procedura di verifica entro il 22 aprile.
A fronte di questo dubbio interpretativo, alcune Regioni si sono già attivate per dare chiarimenti, fornendo indicazioni sulla procedura di verifica degli impianti di competenza regionale o provinciale. Secondo le Regioni, infatti, sono fatte salve le rispettive competenze e, quindi, la locuzione “statale” è voluta (si vedano le schede a fianco).
Le indicazioni regionali ad oggi disponibili, tuttavia, in molti casi, fissano comunque termini di conclusione della procedura di verifica particolarmente stringenti (ad esempio il 07.05.2015), che richiedono alle imprese coinvolte una programmazione anticipata delle attività da porre in essere
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.04.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Bonus 65% non per tutti. Ai soli edifici accatastati o in accatastamento. Nuove schede Enea per incassare gli incentivi. Regolarità fiscale d'obbligo.
L'immobile oggetto della qualificazione globale energetica alla data della richiesta della detrazione del 65%, deve essere «esistente», ossia accatastato o con richiesta di accatastamento in corso. Deve essere in regola con il pagamento di eventuali tributi e dotato di impianto di riscaldamento.
Per usufruire della detrazione del 65% gli interventi di riqualificazione energetica sugli immobili devono rispondere a determinati requisiti. È infatti agevolabile l'installazione di sistemi di schermatura (all'allegato M al dlgs del 29/12/2006 n. 311) con marcatura Ce, se prevista. In caso di installazione di caldaie a condensazione l'intervento può configurarsi come sostituzione totale o parziale del vecchio generatore termico o come nuova installazione, sugli edifici esistenti.

Queste le indicazioni principali che emergono da un vademecum Enea (composto da tre schede tecniche caldaie a condensazione, a biomassa e schermature solari) aggiornato al primo aprile 2015 per usufruire della detrazione del 65%.
La documentazione va trasmessa all'Enea esclusivamente attraverso l'apposito sito web relativo all'anno in cui sono terminati i lavori, entro i 90 giorni successivi alla fine dei lavori, come da collaudo delle opere o nel caso di interventi di riqualificazione energetica di basso impatto (per esempio, la sostituzione di infissi), come da dichiarazione di conformità. Ricordiamo che con il dlgs n. 175/2014 è stato soppresso l'obbligo di inviare una comunicazione per via telematica all'agenzia delle entrate, per i soli lavori che proseguono oltre il periodo di imposta.
Caldaia a condensazione. L'installazione della caldaia a condensazione deve inoltre avere un rendimento utile nominale minimo non inferiore all'85% e deve rispettare i criteri dei requisiti tecnici stabiliti dal provvedimento di cui all'art. 290, comma 4, del dlgs 152/2006 (dal 29/3/2012, in base al punto 1 dell'Allegato 2 del dlgs 28/2011).
Sono inoltre agevolabili le operazioni di smontaggio e dismissione dell'impianto di climatizzazione invernale esistente e la fornitura e posa in opera di tutte le apparecchiature termiche, meccaniche, elettriche ed elettroniche, delle opere idrauliche e murarie necessarie per la sostituzione, a regola d'arte, dell'impianto termico esistente con una caldaia a biomassa.
È necessaria un'asseverazione redatta da un tecnico abilitato (ingegnere, architetto, geometra o perito iscritto al proprio Albo professionale) attestante i requisiti tecnici. L'asseverazione può essere sostituita dalla dichiarazione resa dal direttore dei lavori sulla conformità al progetto delle opere realizzate o essere esplicitata nella relazione attestante la rispondenza alle prescrizioni per il contenimento del consumo di energia degli edifici e relativi impianti termici.
Caldaia a biomassa. In caso di installazione di caldaie a condensazione l'intervento può configurarsi come sostituzione totale o parziale del vecchio generatore termico o come nuova installazione, sugli edifici esistenti. Deve inoltre possedere un rendimento utile nominale minimo non inferiore all'85% (articolo ItaliaOggi del 10.04.2015).

APPALTIRiforma appalti, ampi poteri di regolazione a Cantone. Non solo vigilanza: raccomandazioni, linee-guida, soft law.
Tra le molte novità importanti contenute nel testo-base sulla riforma degli appalti (Atto Senato n. 1678) presentato ieri dal relatore al Senato, il pd Stefano Esposito, due sanciscono un cambiamento radicale di paradigma per il settore dei lavori pubblici: una drastica semplificazione delle norme e il cambiamento di Dna dell’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone che viene trasformata da autorità di sola vigilanza a vera e propria autorità di regolazione del settore.
Basta leggere il punto f) della griglia dei criteri di delega inseriti da Esposito all’articolo 1 per capire come l’Anac agirà a 360 gradi: all’Autorità non solo vengono rafforzate le funzioni di controllo «nel settore degli appalti pubblici e delle concessioni, comprendenti anche poteri di controllo, raccomandazione, intervento cautelare e sanzionatorio», ma vengono formalizzate per legge anche funzioni «di adozione di atti di indirizzo quali linee guida, bandi-tipo, contratti-tipo ed altri strumenti di regolamentazione flessibile, anche dotati di efficacia vincolante e fatta salva l’impugnabilità di tutte le decisioni assunte dall’Autorità innanzi ai competenti organi di giustizia amministrativa». Due anime -quella di poliziotto/vigilante e quella di regolatore- che finora non avevano mai convissuto in nessuna Autorità con un’estensione tanto ampia di funzioni. Certamente la norma colma un vuoto di regolazione che è fra i mali più gravi del settore.
Non solo. Il nuovo testo-base della commissione Lavori pubblici -che dovrebbe andare in votazione con gli emendamenti la prossima settimana- potenzia le funzioni di Cantone anche in altri punti che non siano la lettera f). Al punto h) è prevista, infatti, una «razionalizzazione delle procedure di spesa attraverso criteri di qualità, efficienza, professionalizzazione delle stazioni appaltanti, prevedendo l’introduzione di un apposito sistema, gestito dall’Anac, di qualificazione delle medesime stazioni appaltanti, teso a valutarne l'effettiva capacità tecnico-organizzativa sulla base di parametri obiettivi».
E al punto n) la «creazione di un Albo nazionale, gestito dall’Anac, dei componenti delle commissioni giudicatrici di appalti pubblici e concessioni, prevedendo specifici requisiti di moralità, di competenza e di professionalità e la loro assegnazione nelle commissioni giudicatrici mediante pubblico sorteggio da una lista di candidati indicati alle stazioni appaltanti che ne facciano richiesta in numero almeno doppio rispetto ai componenti da nominare».
Non meno drastico è stato Esposito sull’altro punto qualificante del suo testo: la delegificazione. Il relatore già nei giorni scorsi aveva fatto capire quali fossero i suoi obiettivi: la riduzione del complesso di articoli codice+regolamento da 650 a 250. Ovvio che, per non andare fuori delega, non si può scrivere così in un testo di legge. Ma la soluzione del testo Esposito è brillante.
Nella lettera a) dell’articolo 1, il primo dei criteri che dovranno guidare il governo nell’esercizio della delega sancisce infatti «il divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive». Non dimentichiamo che qui siamo nel Ddl che modifica il codice degli appalti per recepire le direttive Ue 23, 24 e 25 del 2014: quindi lo sbarramento posto da Esposito al governo di fatto obbliga l’esecutivo ad attenersi al testo delle direttive Ue e poco più. Qualunque ridondanza potrà essere giudicata come eccesso di delega.
Dopo aver previsto un solo codice per le tre direttive, comprendendo quindi appalti e concessioni, il testo base ripropone al punto c) il tema della semplificazione prevedendo una «ricognizione e riordino del quadro normativo vigente» al fine di «conseguire una significativa riduzione del complesso delle disposizioni legislative, amministrative e regolamentari vigenti» e ancora «un maggiore livello di certezza del diritto e di semplificazione dei provvedimenti».
A proposito di semplificazione, anche il punto g) del testo Esposito entra nel vivo prevedendo la «riduzione degli oneri documentali a carico dei soggetti partecipanti e la semplificazione delle procedure di verifica da parte delle stazioni appaltanti, con particolare riguardo all’accertamento dei requisiti di qualificazione, attraverso l’accesso a un'unica banca dati centralizzata».
Fra le altre novità del testo, la conferma delle pagelle per imprese e stazioni appaltanti, una limitazione piuttosto blanda dell’appalto integrato progettazione-lavori e la reintroduzione del débat public in fase di approvazione progettuale
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Statali assenti per malattia in caso di visite specialistiche.
Dipendente pubblico assente per malattia quando fa la visita medica specialistica. A patto che sia previsto dal certificato del sanitario che lo prescrive. E ciò soprattutto se si tratta di esami diagnostici e altre prestazioni che hanno «effetti invalidanti» secondo il professionista che li richiede, anche sul piano dello stato mentale.

È quanto emerge dalla sentenza 17.04.2015 n. 5714 del TAR Lazio-Roma, Sez. I, con la quale la Cgil ottiene l'annullamento della
circolare 17.02.2014 n. 2/2014 della Funzione pubblica secondo cui, dopo la norma «antifannulloni» di cui al decreto legge 101/2013, sarebbe stato sempre necessario prendere un permesso.
Discrezionalità tecnica
Accolto il ricorso della Federazione dei lavoratori della conoscenza del sindacato di corso Italia. Il dipartimento della Funzione pubblica non può modificare con una semplice circolare (e dunque in modo unilaterale) assetti che riguardano le assenze dal servizio: essi investono aspetti che impongono modifiche al contratto collettivo di categoria e quindi il confronto con le organizzazioni dei lavoratori.
Il giro di vite introdotto dal decreto 101/2013, riconoscono i giudici, è stato introdotto per combattere nelle amministrazioni pubbliche il fenomeno dell'assenteismo, con «anomalie» riscontrata nell'assenza dei dipendenti dal servizio in caso di visite specialistiche o di terapie di breve durata. Ma ciò non toglie che l'assenza per malattia sia giustificata in base alla discrezionale valutazione tecnica del medico curante quando il sanitario ritiene che anche per lo stato psicologico la terapia, la visita e le analisi da svolgere siano incompatibili con il lavoro.
I giudici amministrativi ribadiscono la differenza delle finalità che la norma contrattuale attribuisce ai permessi per motivi personali (limitati a pochi giorni) e alle assenze per malattia, nelle quali rientrano le visite specialistiche, le terapie e gli accertamenti diagnostici. E né la circolare impugnata né tantomeno la legge, si legge nella sentenza, hanno voluto sopprimere l'istituto dell'assenza per malattia, che continua ad essere applicabile, così come continuano ad essere applicabili, in tal caso, l'articolo 71 della legge 133/2008 nonché le norme dei contratti collettivi nazionali di lavoro sul punto.
Insomma: il riferimento ai «permessi» contenuto nella legge non può essere inserito nell'ambito della normativa collettiva vigente senza alcuna modifica o integrazione come sostiene la circolare dell'amministrazione. Per arrivare all'obiettivo prefigurato dall'amministrazione serve una più ampia revisione della disciplina del contratto di riferimento. Spese di giudizio compensate per la novità della questione (articolo ItaliaOggi del 21.04.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Statali, la visita medica giustifica la «malattia». Pubblica amministrazione. Il Tar Lazio.
Niente obbligo di permesso per il dipendente pubblico che effettua visite mediche, terapie ed esami diagnostici. In tutti questi casi si torna, almeno fino a quando non sarà introdotta una nuova regolamentazione, alla vecchia disciplina, che in pratica prevedeva per questi casi la classica assenza per malattia.
La novità arriva dalla sentenza 17.04.2015 n. 5714 del TAR Lazio-Roma, Sez. I,  che, accogliendo l’impugnazione da parte di un sindacato, ha cancellato la parte della
circolare 17.02.2014 n. 2/2014 della Funzione pubblica in cui appunto si stabiliva il ricorso al permesso per i dipendenti pubblici che dovessero assentarsi dal lavoro per sottoporsi a visite specialistiche, terapie o esami diagnostici.
Per capire il problema occorre risalire al decreto «pubblico impiego» del 2013 (articolo 4, comma 16-bis, lettere a, b e c del Dl 101/2013), che aveva modificato le vecchie regole scritte all’articolo 55-septies del Dlgs 165/2001. Il decreto del 2013 ha disposto che «nel caso in cui l’assenza per malattia abbia luogo per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici il permesso è giustificato mediante la presentazione di attestazione, anche in ordine all’orario, rilasciata dal medico o dalla struttura, anche privati, che hanno svolto la visita o la prestazione o trasmessa da questi ultimi mediante posta elettronica».
La novità, in pratica, ha sostituito «l’assenza è giustificata» con «il permesso è giustificato»; su questo intervento si è basata la circolare 2/14 della Funzione pubblica, e ha prescritto l’obbligo di utilizzare per visite ed esami i «permessi per documentati motivi personali». Qui interviene il Tar Lazio, spiegando che non può ritenersi, come invece desume la circolare, «che il riferimento ai permessi debba essere inserito sic et simpliciter» » all’istituto dei permessi in senso tecnico, cioè a quelli finora previsti nell’ambito dei contratti collettivi vigenti, «senza alcuna modifica o integrazione».
Questo cambio di regole, infatti, potrebbe aver creato parecchi problemi ai dipendenti, soprattutto a quanti avessero già utilizzato i «permessi per motivi personali» per ragioni diverse. La nuova regola, conclude quindi il Tar, non può essere immediatamente prescrittiva, ma ha bisogno di una modifica nella disciplina contrattuale in cui «trova il suo naturale elemento di attuazione»
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Visite specialistiche, per il Tar sono malattia. Annullata la circolare della madia.
La
circolare 17.02.2014 n. 2/2014 della Funzione pubblica, con la quale è stato imposto ai dipendenti pubblici di utilizzare i permessi per motivi personali, quando devono sottoporsi a visite specialistiche, è stata annullata dal TAR Lazio-Roma, Sez. I, con la sentenza 17.04.2015 n. 5714: la regolazione di questa materia è di competenza del tavolo negoziale. E dunque, la Funzione pubblica non ha titolo a regolarla autonomamente con circolare o altri atti amministrativi.
Va detto subito che le sentenze del Tar del Lazio, quando dispongono l'annullamento di atti amministrativi, valgono per tutti. Dal 14 aprile scorso, dunque, la circolare annullata non esiste più. E ciò dovrebbe sgombrare il campo dagli equivoci in questa delicata materia che, giova ricordarlo, regola anche i controlli medici che vengono effettuati periodicamente dai malati di cancro.
Non sono rari i casi di lavoratori che, sebbene gravemente ammalati, non hanno potuto imputare a malattia le assenze per visite specialistiche e, dopo avere esaurito i permessi previsti dall'articolo 15 del contratto, hanno dovuto utilizzare l'aspettativa. Ciò proprio per effetto dell'interpretazione adottata dal dicastero guidato da Marianna Madia, spazzata via dal Tar con la sentenza del 14 aprile. E che rimarranno senza alcun risarcimento. Perché il Tar, avendo annullato (e non dichiarato nulla) la circolare, di fatto ne ha legittimato l'applicazione dalla data di emanazione della circolare (17.02.2014) fino alla data di pubblicazione della sentenza (14.04.2015).
Adesso, però, la sentenza del Tar riporta in vita le norme contrattuali, che consentono ai lavoratori di imputare a malattia anche le assenze per visite specialistiche. E la sentenza è vincolante per tutti, dispiegando effetti fin dalla data di pubblicazione. E continuerà a farlo anche se l'amministrazione la impugnerà davanti al Consiglio di stato, fino all'emissione dell'eventuale ordinanza sospensiva o della sentenza definitiva (articolo ItaliaOggi del 21.04.2015).

PUBBLICO IMPIEGOAssenze per visite mediche: il TAR dà ragione alla FLC-CGIL.
Vinto il ricorso che fa prevalere le prerogative del contratto sugli atti amministrativi in materia di rapporto di lavoro. Acquista più forza il negoziato in corso all’Aran.

Ancora una vittoria dei lavoratori che grazie alla FLC CGIL potranno, come stabilito nel contratto, usufruire delle assenze per malattia qualora debbano sottoporsi a visite specialistiche o a esami diagnostici.
Il TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 17.04.2015 n. 5714, ha annullato la
circolare 17.02.2014 n. 2/2014 adottata dalla Funzione Pubblica sulle assenze per visite specialistiche e ha affermato che l’Amministrazione non può emanare una circolare ministeriale per cambiare unilateralmente quanto stabilisce e regola il contratto.
I giudici amministrativi hanno rilevato la differenza delle finalità che la norma contrattuale attribuisce ai permessi per motivi personali (limitati a pochi giorni) e alle assenze per malattia, nelle quali rientrano le visite specialistiche, le terapie e gli accertamenti diagnostici. La circolare ministeriale metteva di fatto un limite al diritto dei lavoratori a tutelare la propria salute.
La CM impugnata, affermano i giudici amministrativi è illegittima” in quanto la materia “trova il suo naturale elemento di attuazione nella disciplina contrattuale da rivisitare e non in atti generali che impongono modifiche unilaterali in riferimento a CCNL già sottoscritti”.
Questa decisione del TAR dà forza alla trattativa in corso all’Aran per aggiornare la normativa in materia. E costringe l’amministrazione a trovare soluzioni condivise con i sindacati in sede negoziale (commento tratto da www.flcgil.it).
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... per l'annullamento, previa sospensiva, della Circolare n. 2 adottata dal Dipartimento della Funzione Pubblica presso la Presidenza del Consiglio in data 17.02.2014, pubblicata in GU Serie generale n. 85 dell'11.04.2014, nonché dei provvedimenti attuativi ancorché non conosciuti di data ignota e non comunicati e di ogni atto presupposto, connesso e conseguente
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Il Collegio rileva la fondatezza delle tesi della Federazione ricorrente, nel senso che si va a illustrare.
In primo luogo, si ritiene opportuno precisare che l’utilizzo della parola “permesso”, in luogo della seconda espressione “assenza” invece presente nel precedente testo, non è stato logicamente introdotto a meri fini linguistici, per evitare una ripetizione dello stesso concetto, ma per fare riferimento a modalità di regolazione della mancata prestazione lavorativa legate agli istituti contrattualmente previsti per giustificare un’assenza diversi dalla malattia intesa come stato patologico in atto.
La norma infatti, già peraltro nella prima stesura, fa riferimento non solo a “terapie” e “prestazioni specialistiche”, che potrebbero ben collegarsi a stati patologici, ma anche a generiche “visite” ed “esami diagnostici”, che tali stati –auspicabilmente peraltro– potrebbero non rilevare.
E’ evidente, infatti, che un soggetto può sottoporsi a indagini diagnostiche per mero fine esplorativo nonché a visita medica a mero scopo preventivo e/o di controllo di uno stato di buona salute.
Non appare quindi rilevante ai presenti fini ogni richiamo alla normativa (già esistente) che regola lo stato di “malattia” e i collegati diritti costituzionalmente protetti, che non appaiono messi in discussione dalla novella legislativa, la quale –si ribadisce– appare posta al fine di regolare situazioni di assenza dal lavoro non direttamente collegate ad uno stato patologico acclarato.
In sostanza, da un punto di vista sistematico, la novella in questione è stata disposta perché si erano spesso riscontrate anomalie nel ricorso all’istituto della “assenza per malattia” da parte di pubblici dipendenti in caso di visite specialistiche o di terapie di breve durata.
Ciò non toglie, comunque, che in caso di effettiva patologia e in ogni altro caso in cui il medico curante, a sua discrezionale valutazione tecnica, ritiene una (sia pure temporanea) inabilità al lavoro del dipendente, l’assenza è giustificata a titolo di malattia con la produzione della relativa attestazione e tale circostanza si manifesta certamente ogni qual volta il dipendente debba effettuare esami diagnostici, terapie, visite e il medico curante ritenga sussistente uno stato patologico o gli esami e le terapie abbiano essi stessi carattere invalidante.
Per quanto evidenziato, quindi, né la circolare impugnata né -tantomeno- la legge hanno inteso sopprimere l’istituto dell’assenza per malattia, che continua ad essere applicabile, così come continuano ad essere applicabili, in tal caso, l’art. 71 l. n. 133/2008 nonché le norme dei CCNL sul punto.
Sotto tale profilo, quindi, può concludersi nel senso che la volontà del legislatore, nell’utilizzare la parola “permesso” in luogo di “assenza”, non può che essere ricondotta all’istituto giuridico rappresentato dai “permessi” e non all’istituto dell’assenza per malattia, in quanto la necessità di sottoporsi ad una visita o ad un controllo medico non necessariamente presuppone la presenza di una patologia in atto e quindi di una certificazione medica che la attesti.
Ne consegue, però, che non può ritenersi, come invece desumibile dalla circolare impugnata, che il riferimento ai “permessi” debba essere inserito “sic et simpliciter” nell’ambito della normativa contrattale collettiva vigente, senza alcuna modifica e/o integrazione.
Il Collegio, infatti, osserva che la norma di cui all’art. 55-septies, comma 5-ter, d.lgs. n. 165/2001, nell’attuale conformazione, non fa alcun riferimento in questo senso, limitandosi ad affermare –appunto- che “il permesso” è giustificato mediante la presentazione di una determinata attestazione.
Il Collegio ritiene che se il legislatore avesse voluto dire quanto sostenuto dalle Amministrazioni resistenti, avrebbe fatto uso di locuzioni del tipo “il permesso regolato dai vigenti contratti collettivi nazionali di comparto” o simili e non avrebbe utilizzato genericamente la locuzione “il permesso”.
Ciò vuol dire che un’interpretazione logicamente e sistematicamente orientata dalla norma non può essere quella proposta con la circolare impugnata, che direttamente ritiene di richiamare i permessi per “documentati motivi personali secondo la disciplina dei CCNL o di istituti contrattuali similari o alternativi (come i permessi brevi o la banca delle ore)”.
Ciò perché, evidentemente, tali permessi, e la relativa contrattazione di comparto, erano stati individuati nella vigenza della normativa precedente, che non faceva distinzione sull’assenza per malattia, come sopra evidenziato. E’ chiaro che tali “permessi” riguardavano la necessità di assentarsi dal lavoro per le ragioni più varie (indicate anche dalla Federazione sindacale ricorrente) ma non anche per le assenze per terapie e simili di cui all’art. 55-septies cit. allora vigente.
L’utilizzo imposto immediatamente di tale tipo di permessi comporterebbe indubbiamente uno sconvolgimento nell’organizzazione di lavoro e personale del dipendente che ben potrebbe aver già usufruito di tali forme di giustificazione di assenza, confidando di poter avvalersi dell’ulteriore modalità di “assenza per malattia” prima prevista dalla conformazione della richiamata norma e del CCNL applicabile o, viceversa, non potrebbe più avvalersi di tali “permessi” per documentati motivi personali diversi dallo svolgimento di terapie, visite e quant’altro.
Ne consegue, ad opinione del Collegio, che la novella legislativa in esame non può avere un carattere immediatamente precettivo ma deve comportare, per la sua applicazione anche mediante atti generali quali circolari o direttive, una più ampia revisione della disciplina contrattuale di riferimento.
Tale conclusione appare confermata dalla stessa Amministrazione, secondo la documentazione depositata in diverso giudizio avente ad oggetto anche la medesima impugnativa in questa sede trattata e di cui il Collegio può avvalersi, laddove lo stesso Dipartimento della Funzione Pubblica ha inviato a vari enti, una “Ipotesi di atto di indirizzo quadro all’ARAN per la sottoscrizione di un CCNQ in materia di rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti”, sulla base delle “stratificazioni regolative in materia” che hanno indotto nel tempo “problematiche interpretative di diversa natura”.
Nello specifico, è evidenziata proprio la problematica relativa alla novella dell’art. 55-septies, comma 5-ter, cit., laddove si sottolinea che “Le assenze dal servizio per l’espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche od esami diagnostici richiedono una specifica disciplina contrattuale, con carattere di omogeneità per tutti i comparti e le aree di contrattazione” e che “Tali assenze presentano la caratteristica di non essere assimilabili in tutto all’assenza per malattia, in quanto manca il presupposto della patologia in atto e di essere entro certi limiti giustificabili per la particolare causa, consistente nella esigenza di cura o di prevenzione”.
Segue poi una dettagliata descrizione delle ipotesi di individuazione di specifici permessi legati a tale tipologia di assenza, diversi da quelli già previsti dalla contrattualistica vigente e ideati per scopi ulteriori, nella vigenza della normativa precedente all’entrata in vigore dell’art. 4, comma 16-bis, d.l. n. 101/2013, conv. in l. n. 125/2013, nonché una dettagliata descrizione dell’oggetto della futura contrattazione relativa a congedi parentali, per maternità, monte-ore.
Ne consegue, quindi, che la circolare impugnata, operando direttamente nei confronti delle Amministrazioni pubbliche, è illegittima per quanto dedotto essenzialmente e in misura assorbente nel primo motivo di ricorso, in quanto la materia oggetto della novella trova il suo naturale elemento di attuazione nella disciplina contrattuale da rivisitare e non in atti generali che impongono modifiche unilaterali in riferimento a CCNL già sottoscritti.
Per quanto dedotto, perciò, il ricorso deve essere accolto, con conseguente annullamento della circolare impugnata, laddove impone alle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 165/2001 di avvalersi, ai sensi dell’art. 55-septies, comma 5-ter, d.lgs. n. 165/2001 nella nuova formulazione, dei permessi per documentati motivi personali, secondo la disciplina dei CCNL o di istituti contrattuali similari o alternativi (come i permessi brevi o la banca delle ore) (TAR Lazio-Roma, Sez. I, sentenza 17.04.2015 n. 5714 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGODipendenti iscritti in albi. La tassa la paga la p.a.. Sentenza della sezione lavoro della Corte di cassazione.
Avvocato rimborsato. È l'amministrazione che deve pagare al dipendente inserito nel ruolo professionale legale la tassa annuale di iscrizione all'elenco speciale annesso all'albo forense per l'esercizio della professione nell'interesse esclusivo dell'ente datore. E ciò perché opera lo schema ex articolo 1719 c.c.: il mandante deve tenere il mandatario indenne da tutte le diminuzioni patrimoniali che scaturiscono dall'incarico svolto. Se dunque il lavoratore ha anticipato di tasca propria, deve essere reintegrato dell'esborso perché il pagamento della quota all'Ordine non può ritenersi coperto dall'indennità di toga né inerente ai rimborsi spese.

È quanto emerge dalla sentenza 16.04.2015 n. 7776 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
Decisiva l'esclusiva
Niente da fare per l'Inps: dovrà rassegnarsi a restituire all'ex dipendente tutte le tasse versate dal lavoratore quando era impiegato all'ufficio legale dell'istituto. La Suprema corte dà seguito al parere pronunciato dal Consiglio di stato nell'affare 678/2010: non convince l'interpretazione della Corte dei conti secondo cui la tassa dovrebbe ritenersi «strettamente personale» perché legata all'integrazione del requisito professionale previsto per svolgere il rapporto con l'ente.
Decisiva è invece l'esclusività del rapporto che lega l'avvocato all'amministrazione: l'opera professionale risulta garantita nell'ambito della subordinazione, la tassa annuale da pagare all'Ordine rientra fra i costi per lo svolgimento dell'attività e deve dunque gravare sull'ente datore, che è l'unico beneficiario delle prestazioni.
L'amministrazione deve rimborsare perché la quota annuale per l'iscrizione all'elenco speciale dell'albo non può ritenersi riconducibile alla retribuzione e ha un regime tributario incompatibile con le spese sostenute nell'interesse della persona, come quelle affrontate per gli studi universitari e per l'acquisizione dell'abilitazione professionale.
L'analogia con il contratto di mandato, poi, è rilevata laddove nel lavoro dipendente si configura l'assunzione a compiere l'attività per conto e nell'interesse altrui: così è il datore che deve fornire i mezzi necessari al dipendente come il mandante al mandatario (articolo ItaliaOggi del 17.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini del rilascio del permesso di costruire, la nozione di costruzione si configura comunque in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi.
... per l'annullamento dell'ordinanza di demolizione n. 104/2007 emessa dal Comune di Bacoli.
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2. Il ricorso è infondato e va respinto come di seguito argomentato.
Risulta impugnata un’ordinanza n. 104 del 27.03.2004 con cui il Comune di Bacoli ordinava, ai sensi dell’art. 27 del d.p.r. n. 380/2001, la demolizione “ad horas” di un intervento abusivo realizzato senza titolo in area dichiarata di notevole interesse pubblico con d.m. 15.12.1959 e precisamente:
- una struttura di mq. 40,00 alta metri 2,80 costituita da scatolari di ferro in funzione verticale, fissati sul parapetto, di altezza mt. 1,00, con sovrastante telaio in ferro e copertura di lamiere coibentate, n. 2 vani luce finestra ed un vano balcone. La chiusura laterale su due lati è costituita da lamiere coibentate poste sul parapetto ed i rimanenti due lati, da muratura ex novo, di blocchi precompressi a faccia vista. All’interno è stata realizzata una parete divisoria di mt. 3,00, di altezza mt. 2,80, un’altra tramezzatura di altezza di metri 3,00 di altezza mt. 1,20, il tutto sul lastrico solare di un fabbricato preesistente e comunicante con l’appartamento sottostante.
2.1 Sulla base di quanto sopra ed avuto riguardo alla natura, entità e caratteristiche costruttive dell’abuso contestato non può porsi in dubbio che trattasi di fattispecie riconducibile ad un intervento di “nuova costruzione”. Pertanto destituito di fondamento è il motivo con cui i ricorrenti lamentano che per l’intervento edilizio realizzato non sarebbe stata necessario il permesso di costruire bensì la sola DIA con la conseguenza che il Comune non avrebbe potuto adottare la misura rispristinatoria.
Segnatamente, secondo parte ricorrente, si sarebbe trattato di un intervento di ristrutturazione edilizia che non avrebbe trasformato l’organismo preesistente. In realtà il Comune intimato ha rilevato l’esistenza di una sopraelevazione sul lastrico solare di un preesistente fabbricato costituita da un manufatto con tramezzature interne e dotato di vani luce finestra e balconi della superficie di 40 mq. e di altezza di 2,80 metri. Trattasi di un intervento che, modificando sagoma e prospetto del fabbricato cui inerisce e determinando un incremento volumetrico, è idoneo per caratteristiche e dimensioni a concretare una significativa trasformazione dello stato dei luoghi, e resta indiscutibilmente assoggettato al rilascio del previo permesso di costruire, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del D.P.R. n. 380 del 2001.
Ai fini del rilascio del permesso di costruire, la nozione di costruzione si configura comunque in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi (cfr. ex multis CdS, Sez. IV, n. 2705/2008 in tal senso anche Consiglio Stato, sez. V, 13.06.2006, n. 3490).
Pertanto del tutto inconferente si appalesa l’assunta qualificazione dell’intervento quale mera ristrutturazione edilizia assoggettabile a d.i.a. ex art. 22 t.u.e.d. posto che la normativa richiamata è applicabile limitatamente agli interventi di ristrutturazione c.d. leggera e non anche nei casi di ristrutturazione c.d. pesante che come nella specie abbia portato alla creazione di un organismo integralmente diverso per tipologia e struttura dal preesistente.
Da quanto precede deriva che le opere abusivamente realizzate, non possono essere, come vorrebbero i ricorrenti, derubricate da intervento di nuova costruzione a intervento di manutenzione straordinaria o di ristrutturazione edilizia con conseguente mitigazione del trattamento sanzionatorio che avrebbe dovuto esaurirsi, al più, nell'applicazione delle misure di cui all'articolo 37 del D.P.R. n. 380/2001 (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 16.04.2015 n. 2184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto alla invocata natura pertinenziale delle opere, il Collegio rileva come, in primo luogo, manca la dimostrazione del necessario requisito teleologico, consistente nella circostanza che la cosa non possa essere oggetto di autonoma valutazione e utilizzazione ma che esista e abbia una funzione solo in quanto a servizio e a completamento di una cosa principale.
In secondo luogo, è assente il requisito anch’esso fondamentale della scarsa consistenza volumetrica della cosa che si assume pertinenziale, in quanto può riconoscersi la natura di pertinenza solo a manufatti esigui, di scarsissimo impatto urbanistico.
In terzo luogo, non si rileva la presenza di un ulteriore requisito, definito in negativo, che le opere non occupino aree e volumi ulteriori e diverse rispetto a quelle interessate dalla res principalis.

... per l'annullamento dell'ordinanza di demolizione n. 104/2007 emessa dal Comune di Bacoli.
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2.2 Quanto alla invocata natura pertinenziale delle opere, il Collegio rileva come, in primo luogo, manca la dimostrazione del necessario requisito teleologico, consistente nella circostanza che la cosa non possa essere oggetto di autonoma valutazione e utilizzazione ma che esista e abbia una funzione solo in quanto a servizio e a completamento di una cosa principale.
In secondo luogo, è assente il requisito anch’esso fondamentale della scarsa consistenza volumetrica della cosa che si assume pertinenziale, in quanto può riconoscersi la natura di pertinenza solo a manufatti esigui, di scarsissimo impatto urbanistico (TAR Campania Napoli, Sez. III, 24.10.2014 n. 5523; TAR Piemonte, Sez. I, 04.09.2009, n. 2247).
In terzo luogo, non si rileva la presenza di un ulteriore requisito, definito in negativo, che le opere non occupino aree e volumi ulteriori e diverse rispetto a quelle interessate dalla res principalis (TAR Campania Napoli, Sez. III, 24.10.2014 n. 5523; TAR Toscana, Sez. III, 11.02.2011, n. 273) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 16.04.2015 n. 2184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere edilizie abusive realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione e, anche ove costituenti pertinenze o volumi tecnici come sostenuto nella specie, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione; “fermo che in materia urbanistica, a differenza che nella materia civilistica, possono costituire pertinenza solo manufatti inidonei ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio, ove vi sia alterazione dell’aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.l.vo n. 42 del 2004), le stesse risultano soggette alla previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica”.
Il che comporta che quand’anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l’applicazione della sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa autorizzazione paesistica.
Inoltre, la qualificazione, in ipotesi, di un intervento incidente sull’aspetto esterno dell’edificio non comporta affatto che per la sua realizzazione, o per il suo ampliamento, possa prescindersi dall’autorizzazione paesaggistica.
Risulta quindi legittima la disciplina di settore applicata (id est art. 27 d.p.r. n. 380/2001) che sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità e siffatta misura resta applicabile, sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta.
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In tema di edilizia, nel modello legale di riferimento, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione.
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabili a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria.
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La vincolatezza del provvedimento comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato). E’ infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto.
Tale conclusione non muta in relazione al tempo trascorso dalla commissione dell’abuso o dall’accertamento del medesimo; in merito, infatti, non è “configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto”. E ciò, ancora una volta, soprattutto ove l’intervento sanzionato incida, come qui accade, su di un territorio particolarmente protetto in cui l’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) "in re ipsa’.
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse.
Al riguardo il Collegio rileva come di affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa della stessa.
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento.
Si rileva infine che consentire la possibilità di non sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero decorso di un notevole lasso di tempo, non determinato con precisione, significherebbe introdurre nel sistema un pericoloso elemento di indeterminatezza, perché la repressione di un dato abuso nel caso concreto sarebbe rimessa all’apprezzamento del singolo funzionario, oltretutto pressoché impossibile da sindacare nella presente sede giurisdizionale, con intuibile possibilità di strumentalizzazioni.
Per le medesime ragioni, stante la natura permanente dell’illecito, e la doverosità dell’intervento demolitorio, alcun profilo di contraddittorietà rilievo può attribuirsi alla rilevata natura risalente dell’accertamento posto a base del provvedimento impugnato.

... per l'annullamento dell'ordinanza di demolizione n. 104/2007 emessa dal Comune di Bacoli.
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3. Sotto il profilo ambientale, trattandosi di opere realizzate in area dichiarata di notevole interesse pubblico con d.m. 12.09.1957, la Sezione ha anche recentemente osservato (cfr. TAR Napoli, VI Sezione, 20.02.2014 n. 1122 e copiosa giurisprudenza ivi richiamata) che le opere edilizie abusive realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione e, anche ove costituenti pertinenze o volumi tecnici come sostenuto nella specie, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione; “fermo che in materia urbanistica, a differenza che nella materia civilistica, possono costituire pertinenza solo manufatti inidonei ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio, ove vi sia alterazione dell’aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.l.vo n. 42 del 2004), le stesse risultano soggette alla previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica”.
Il che comporta che quand’anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l’applicazione della sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa autorizzazione paesistica.
Inoltre, la qualificazione, in ipotesi, di un intervento incidente sull’aspetto esterno dell’edificio non comporta affatto che per la sua realizzazione, o per il suo ampliamento, possa prescindersi dall’autorizzazione paesaggistica.
Risulta quindi legittima la disciplina di settore applicata (id est art. 27 d.p.r. n. 380/2001) che sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità e siffatta misura resta applicabile, sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta (Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del 07.04.2010 e sezione terza, 11.03.2009, n. 1376).
4. Va, inoltre, ricordato che in tema di edilizia, nel modello legale di riferimento, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabili a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria (Tar Campania Napoli, sempre questa sesta sezione, 14.04.2010, n. 1975; cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
5. Quanto alla dedotta carenza di motivazione sul preteso affidamento in rapporto alla risalenza dell’opera, come si è affermato in numerosissime occasioni, la vincolatezza del provvedimento comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato). E’ infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VI, n. 9718/2008 e 4037/2013).
Tale conclusione non muta in relazione al tempo trascorso dalla commissione dell’abuso o dall’accertamento del medesimo; in merito, infatti, non è “configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto” (cfr., da ultimo, Cons. Stato sezione quarta, 16.04.2012, n. 2185 e Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2903 del 05.06.2013 cit., n. 760 del 06.02.2013, n. 5084 del 11.12.2012, n. 2689 del 07.06.2012). E ciò, ancora una volta, soprattutto ove l’intervento sanzionato incida, come qui accade, su di un territorio particolarmente protetto in cui l’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) "in re ipsa’ (cfr. la giurisprudenza della Sezione fin qui riportata e, cfr. anche, per il principio generale, Cons. Stato, sezione quinta, sentenza 06.03.2012, n. 1260).
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907; Cons. Stato, IV, 04.05.2012, n. 2592). Al riguardo il Collegio rileva come di affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa della stessa (Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2009, n. 5509).
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento (TAR Brescia, Sez. I, 22.02.2010, n. 860).
Si rileva infine che consentire la possibilità di non sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero decorso di un notevole lasso di tempo, non determinato con precisione, significherebbe introdurre nel sistema un pericoloso elemento di indeterminatezza, perché la repressione di un dato abuso nel caso concreto sarebbe rimessa all’apprezzamento del singolo funzionario, oltretutto pressoché impossibile da sindacare nella presente sede giurisdizionale, con intuibile possibilità di strumentalizzazioni (TAR Campania Napoli, Sez. IV, 22.05.2013, n. 2679).
Per le medesime ragioni, stante la natura permanente dell’illecito, e la doverosità dell’intervento demolitorio, alcun profilo di contraddittorietà rilievo può attribuirsi alla rilevata natura risalente dell’accertamento posto a base del provvedimento impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 16.04.2015 n. 2184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nella fattispecie di cui all’art. 34 cit., ad avviso del Collegio, l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima e obbligatoria fase del procedimento repressivo, atteso che la sanzione demolitoria ha natura di diffida, presupponendo solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’illecito e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria va effettuato soltanto in un secondo momento, ossia quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l’organo competente emana l’ordine di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dalla concessione edilizia o delle opere costruite in parziale difformità.
In particolare, la seconda fase ha luogo una volta che il destinatario dell’ordine di ripristino non abbia ottemperato spontaneamente all’ordine di ripristino, sicché il Comune, solo in questo momento, può esprimere una valutazione tecnico discrezionale circa la possibilità di demolire la parte di opera abusiva.
In tale seconda fase, l’organo competente emana un ordine, questa volta non indirizzato all’autore dell’abuso edilizio, ma agli uffici e relativi dipendenti dell’Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie, di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non dovrebbe ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all’entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, valutazione che deve essere effettuata mediante apposito accertamento da parte dell’Ufficio tecnico comunale, d’ufficio o su richiesta dell’interessato.
Al riguardo non sfugge al Collegio che, sull’articolazione del procedimento ex art. 34 cit., in senso difforme a quanto testé affermato, una parte della giurisprudenza sia di diverso avviso sostenendo che la tesi che vuol differita al procedimento di esecuzione d’ufficio la valutazione della fattibilità della demolizione finirebbe col tradursi nell’illogico assunto che sia legittimo ingiungere al privato un’attività demolitoria che l’amministrazione stessa potrebbe a posteriori avvedersi non essere possibile eseguire d’ufficio in via sostitutiva, per cui non potrebbe configurarsi un nuovo ed autonomo procedimento avente finalità e presupposti diversi.
Ritiene il Collegio tuttavia che, stante la natura residuale della sanzione pecuniaria, l’amministrazione è tenuta al solo accertamento che l’opera sia abusiva, posto che ulteriori adempimenti, relativi all’eseguibilità dell’ordine “senza pregiudizio per la parte conforme”, richiederebbero sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con la natura vincolata e la necessaria tempestività dell’ordine demolitorio, nonché con i tempi tecnici necessari per verificare la sussistenza in atto di un pregiudizio dall’esecuzione di un ordine di demolizione peraltro nemmeno emanato.
Si tratterebbe, perciò, di un esito contrario al principio di buon andamento dell’azione amministrativa stante l’esigenza che l’attività di vigilanza urbanistico-edilizia sia strutturata normativamente in termini tali da assicurare il soddisfacimento degli interessi pubblici cui è preposta. Ne segue l’impercorribilità di un processo interpretativo che oneri la parte pubblica di verifiche tecniche, anche complesse, in una fase anteriore all’emissione dell’ordine di demolizione, a rischio di compromettere gli effetti dell’ordinanza sospensiva dei lavori, e dunque di tollerare un’ulteriore compromissione dell’assetto urbanistico-edilizio.
Si deve, perciò, ritenere che l’ordine di demolizione possa e debba essere adottato anche in assenza di una previa verifica circa la sua eseguibilità senza pregiudizio alla parte conforme, la cui rilevanza, anche ai fini dell’obbligo di provvedere, resta ascritta alla fase esecutiva.

... per l'annullamento dell'ordinanza di demolizione n. 104/2007 emessa dal Comune di Bacoli.
...
6. Analogamente destituite di fondamento sono da ritenersi le censure sollevate avverso l’addotta assenza di motivazione in ordine all’adozione della più gravosa misura demolitoria in luogo di quella pecuniaria, dal momento che, anche sul punto, l’ordine di demolizione non abbisogna di motivazioni peculiari costituendo lo strumento tipico di risposta alla violazione dell’assetto urbanistico edilizio voluto dall’ordinamento.
A ben vedere nella fattispecie di cui all’art. 34 cit., ad avviso del Collegio comunque qui non configurabile essendo stata ritualmente contestata la diversa fattispecie di cui all’articolo 27 del d.p.r. 380/2001, l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima e obbligatoria fase del procedimento repressivo, atteso che la sanzione demolitoria ha natura di diffida, presupponendo solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’illecito e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria va effettuato soltanto in un secondo momento, ossia quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l’organo competente emana l’ordine di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dalla concessione edilizia o delle opere costruite in parziale difformità. In particolare, la seconda fase ha luogo una volta che il destinatario dell’ordine di ripristino non abbia ottemperato spontaneamente all’ordine di ripristino, sicché il Comune, solo in questo momento, può esprimere una valutazione tecnico discrezionale circa la possibilità di demolire la parte di opera abusiva.
In tale seconda fase, l’organo competente emana un ordine, questa volta non indirizzato all’autore dell’abuso edilizio, ma agli uffici e relativi dipendenti dell’Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie, di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non dovrebbe ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all’entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, valutazione che deve essere effettuata mediante apposito accertamento da parte dell’Ufficio tecnico comunale, d’ufficio o su richiesta dell’interessato (Tar Napoli, sez. IV, 30.04.2012, n. 1542; id., sez. VII, 14.06.2010, n. 14156; Tar Basilicata, 06.04.2011, n.159; Tar Catania, 14.01.2011, n. 44).
Al riguardo non sfugge al Collegio che, sull’articolazione del procedimento ex art. 34 cit., in senso difforme a quanto testé affermato, una parte della giurisprudenza sia di diverso avviso sostenendo che la tesi che vuol differita al procedimento di esecuzione d’ufficio la valutazione della fattibilità della demolizione finirebbe col tradursi nell’illogico assunto che sia legittimo ingiungere al privato un’attività demolitoria che l’amministrazione stessa potrebbe a posteriori avvedersi non essere possibile eseguire d’ufficio in via sostitutiva, per cui non potrebbe configurarsi un nuovo ed autonomo procedimento avente finalità e presupposti diversi, (cfr. Cons. St., sez. II, 14.02.2007, n. 10509/2004; sez. VI, 28.02.2000, n. 1055).
Ritiene il Collegio tuttavia che, stante la natura residuale della sanzione pecuniaria, (in termini, Cons. St., sez. VI, n. 1793 del 2012), l’amministrazione è tenuta al solo accertamento che l’opera sia abusiva, posto che ulteriori adempimenti, relativi all’eseguibilità dell’ordine “senza pregiudizio per la parte conforme”, richiederebbero sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con la natura vincolata e la necessaria tempestività dell’ordine demolitorio, nonché con i tempi tecnici necessari per verificare la sussistenza in atto di un pregiudizio dall’esecuzione di un ordine di demolizione peraltro nemmeno emanato.
Si tratterebbe, perciò, di un esito contrario al principio di buon andamento dell’azione amministrativa stante l’esigenza che l’attività di vigilanza urbanistico-edilizia sia strutturata normativamente in termini tali da assicurare il soddisfacimento degli interessi pubblici cui è preposta. Ne segue l’impercorribilità di un processo interpretativo che oneri la parte pubblica di verifiche tecniche, anche complesse, in una fase anteriore all’emissione dell’ordine di demolizione, a rischio di compromettere gli effetti dell’ordinanza sospensiva dei lavori, e dunque di tollerare un’ulteriore compromissione dell’assetto urbanistico-edilizio.
Si deve, perciò, ritenere che l’ordine di demolizione possa e debba essere adottato anche in assenza di una previa verifica circa la sua eseguibilità senza pregiudizio alla parte conforme, la cui rilevanza, anche ai fini dell’obbligo di provvedere, resta ascritta alla fase esecutiva (Tar Roma, sez. I, 27.05.2013, n. 5277; Cons. St., sez. VI, 12.04.2013, n. 2001; Tar Napoli, n. 2635 del 2012; Tar Toscana, n. 946 del 2012; Tar Puglia, n. 270 del 2011; Tar Valle d’Aosta, n. 23 del 2009) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 16.04.2015 n. 2184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl provvedimento impugnato dispone la demolizione di opere realizzate senza titolo abilitativo in un contesto sottoposto a vincoli ambientali e paesistici.
Va, quindi, necessariamente ricordato che nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali per l’amministrazione, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione.
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ anche perché la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabile a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria.
La sanzione demolitoria si appalesa doverosa e vincolata a fronte della partita descrizione operata dall’amministrazione degli interventi edilizi realizzati e quindi di abusiva significativa alterazione dell’assetto del territorio.
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Per costante orientamento giurisprudenziale i provvedimenti adottati in tema di abusi edilizi, trattandosi di atti dovuti e vincolati, risultano sufficientemente motivati già solo con il riferimento alla compiuta descrizione delle opere abusive, alla constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio e all'individuazione della norma applicata e degli strumenti urbanistici con cui si pongono in contrasto.
Inoltre, diversamente dalla materia edilizia, che distingue ai fini sanzionatori tra totale difformità, variazioni essenziali e non essenziali, la legislazione in materia paesaggistica sanziona indefettibilmente con la riduzione in pristino ogni difformità dall'autorizzazione non riconducibile ai casi tassativi (così detti abusi minori) di cui all'art. 167, comma 4, D.Lgs. n. 42/2004, per i quali, comunque, la possibilità di applicazione di una sanzione pecuniaria è subordinata alla presentazione di un’istanza di parte.
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In presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato.
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In ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento.
In ogni caso, in considerazione delle espresse ragioni di rigetto degli altri motivi di ricorso, può ritenersi applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

... per l'annullamento dell’ordine di demolizione n. 133/2010 adottato dal Comune di Procida;
...    
2. Il ricorso è infondato e va respinto come di seguito esposto.
Si controverte nel giudizio in ordine alla legittimità dell’ordinanza n. 133 del 02.12.2010 con cui il Comune di Procida intimava ai ricorrenti, ai sensi dell’art. 33 del d.p.r. n. 380/2001 e del d.lvo 42/2004, la rimozione delle seguenti opere edilizie eseguite in via ... n. 25 in assenza di titolo abilitativo:
- un vano in muratura addossato ad un terrapieno della superficie di circa mq. 11,88 ed altezza interna di circa mt. 3,00 adibito a camera da letto e rifinito in tutte le sue opere, arredato, ed abitato.
Da quanto sopra emerge evidente che il provvedimento impugnato dispone la demolizione di opere realizzate senza titolo abilitativo in un contesto sottoposto a vincoli ambientali e paesistici. Va, quindi, necessariamente ricordato che nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali per l’amministrazione, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ anche perché la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabile a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria (Tar Campania Napoli, sempre questa sesta sezione, 14.04.2010, n. 1975).
La sanzione demolitoria si appalesa doverosa e vincolata a fronte della partita descrizione operata dall’amministrazione degli interventi edilizi realizzati e quindi di abusiva significativa alterazione dell’assetto del territorio (cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sezione quarta, 13.01.2010, n. 41; sezione quinta, 07.04.2011 n. 2159; Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 3613 dell’11.07.2013 cit., n. 1718 del 03.04.2013, n. 1114 del 05.03.2012; n. 26787 del 03.12.2010; 16.04.2010, n. 1993; 25.02.2010, n. 1155; 09.11.2009, n. 7053; Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 11.03.2010, n. 584).
3. Per quanto concerne il lamentato difetto di motivazione che inficerebbe l’ordinanza impugnata, il Collegio non ritiene sussistente detto vizio alla luce della funzione che deve assolvere la motivazione del provvedimento amministrativo consistente nel consentire al cittadino la ricostruzione dell’iter logico–giuridico che ha condotto l’amministrazione ad adottare l’atto, così da porlo nella condizione di controllare il corretto esercizio del potere amministrativo e di far valere eventualmente nelle opportune sedi, giustiziali o giurisdizionali, le proprie ragioni.
Orbene, dal provvedimento impugnato non emerge la sussistenza del lamentato vizio, atteso che per costante orientamento giurisprudenziale i provvedimenti adottati in tema di abusi edilizi, trattandosi di atti dovuti e vincolati, risultano sufficientemente motivati già solo con il riferimento alla compiuta descrizione delle opere abusive, alla constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio e all'individuazione della norma applicata e degli strumenti urbanistici con cui si pongono in contrasto.
Inoltre, diversamente dalla materia edilizia, che distingue ai fini sanzionatori tra totale difformità, variazioni essenziali e non essenziali, la legislazione in materia paesaggistica sanziona indefettibilmente con la riduzione in pristino ogni difformità dall'autorizzazione non riconducibile ai casi tassativi (così detti abusi minori) di cui all'art. 167, comma 4, D.Lgs. n. 42/2004, per i quali, comunque, la possibilità di applicazione di una sanzione pecuniaria è subordinata alla presentazione di un’istanza di parte.
4. Non può condividersi nemmeno la censura con la quale i ricorrenti hanno sostenuto l’illegittimità del provvedimento gravato per non avere il dirigente valutato la sanabilità dell’opera ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001, prima di ordinarne la demolizione.
Come costantemente affermato in giurisprudenza, “… in presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001. Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato” (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 21.11.2013, n. 5226, sez. IV, 06.07.2007, n. 6552).
Alla luce delle esposte argomentazioni il ricorso va respinto.
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7. Del pari quanto alla lamentata violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990 per aver l’amministrazione omesso la comunicazione di avvio del procedimento che ha portato al provvedimento gravato, la censura si rivela infondata.
Al riguardo il Collegio evidenzia l’orientamento giurisprudenziale secondo cui in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento (Consiglio Stato, sez. VI, 24.09.2010, n. 7129).
In ogni caso, in considerazione delle espresse ragioni di rigetto degli altri motivi di ricorso, può ritenersi applicabile al caso in esame il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, ai sensi del quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, vertendosi in ambito provvedimentale vincolato e risultando che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 16.04.2015 n. 2183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nella fattispecie di cui all’art. 33 dpr 380/2001, ad avviso del Collegio, l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima e obbligatoria fase del procedimento repressivo, atteso che la sanzione demolitoria ha natura di diffida, presupponendo solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’illecito e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria va effettuato soltanto in un secondo momento, ossia quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l’organo competente emana l’ordine di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dalla concessione edilizia o delle opere costruite in parziale difformità.
In particolare, la seconda fase ha luogo una volta che il destinatario dell’ordine di ripristino non abbia ottemperato spontaneamente all’ordine di ripristino, sicché il Comune, solo in questo momento, può esprimere una valutazione tecnico discrezionale circa la possibilità di demolire la parte di opera abusiva.
In tale seconda fase, l’organo competente emana un ordine, questa volta non indirizzato all’autore dell’abuso edilizio, ma agli uffici e relativi dipendenti dell’Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie, di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non dovrebbe ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all’entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, valutazione che deve essere effettuata mediante apposito accertamento da parte dell’Ufficio tecnico comunale, d’ufficio o su richiesta dell’interessato.
Al riguardo non sfugge al Collegio che, sull’articolazione del procedimento ex art. 34 cit., in senso difforme a quanto testé affermato, una parte della giurisprudenza sia di diverso avviso sostenendo che la tesi che vuol differita al procedimento di esecuzione d’ufficio la valutazione della fattibilità della demolizione finirebbe col tradursi nell’illogico assunto che sia legittimo ingiungere al privato un’attività demolitoria che l’amministrazione stessa potrebbe a posteriori avvedersi non essere possibile eseguire d’ufficio in via sostitutiva, per cui non potrebbe configurarsi un nuovo ed autonomo procedimento avente finalità e presupposti diversi.
Ritiene il Collegio tuttavia che, stante la natura residuale della sanzione pecuniaria, l’amministrazione è tenuta al solo accertamento che l’opera sia abusiva, posto che ulteriori adempimenti, relativi all’eseguibilità dell’ordine “senza pregiudizio per la parte conforme”, richiederebbero sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con la natura vincolata e la necessaria tempestività dell’ordine demolitorio, nonché con i tempi tecnici necessari per verificare la sussistenza in atto di un pregiudizio dall’esecuzione di un ordine di demolizione peraltro nemmeno emanato.
Si tratterebbe, perciò, di un esito contrario al principio di buon andamento dell’azione amministrativa stante l’esigenza che l’attività di vigilanza urbanistico-edilizia sia strutturata normativamente in termini tali da assicurare il soddisfacimento degli interessi pubblici cui è preposta.
Ne segue l’impercorribilità di un processo interpretativo che oneri la parte pubblica di verifiche tecniche, anche complesse, in una fase anteriore all’emissione dell’ordine di demolizione, a rischio di compromettere gli effetti dell’ordinanza sospensiva dei lavori, e dunque di tollerare un’ulteriore compromissione dell’assetto urbanistico-edilizio.
Si deve, perciò, ritenere che l’ordine di demolizione possa e debba essere adottato anche in assenza di una previa verifica circa la sua eseguibilità senza pregiudizio alla parte conforme, la cui rilevanza, anche ai fini dell’obbligo di provvedere, resta ascritta alla fase esecutiva.

... per l'annullamento dell’ordine di demolizione n. 133/2010 adottato dal Comune di Procida;
...    
5. Quanto alla tesi secondo cui l’amministrazione avrebbe dovuto applicare la sanzione pecuniaria ai sensi dell’art. 33 t.u. e stante l’impossibilità di ripristino dello status quo ante occorre considerare che nella fattispecie di cui all’art. 33 cit., ad avviso del Collegio, l’ingiunzione di demolizione costituisce la prima e obbligatoria fase del procedimento repressivo, atteso che la sanzione demolitoria ha natura di diffida, presupponendo solo un giudizio di tipo analitico-ricognitivo dell’abuso commesso, mentre il giudizio sintetico-valutativo, di natura discrezionale, circa la rilevanza dell’illecito e la possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria va effettuato soltanto in un secondo momento, ossia quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione e l’organo competente emana l’ordine di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dalla concessione edilizia o delle opere costruite in parziale difformità.
In particolare, la seconda fase ha luogo una volta che il destinatario dell’ordine di ripristino non abbia ottemperato spontaneamente all’ordine di ripristino, sicché il Comune, solo in questo momento, può esprimere una valutazione tecnico discrezionale circa la possibilità di demolire la parte di opera abusiva.
In tale seconda fase, l’organo competente emana un ordine, questa volta non indirizzato all’autore dell’abuso edilizio, ma agli uffici e relativi dipendenti dell’Amministrazione competenti e/o preposti in materia di sanzioni edilizie, di esecuzione in danno delle ristrutturazioni realizzate in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire o delle opere edili costruite in parziale difformità dallo stesso; pertanto, soltanto nella predetta seconda fase non dovrebbe ritenersi legittima l’ingiunzione a demolire sprovvista di qualsiasi valutazione intorno all’entità degli abusi commessi e alla possibile sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, valutazione che deve essere effettuata mediante apposito accertamento da parte dell’Ufficio tecnico comunale, d’ufficio o su richiesta dell’interessato (Tar Napoli, sez. IV, 30.04.2012, n. 1542; id., sez. VII, 14.06.2010, n. 14156; Tar Basilicata, 06.04.2011, n. 159; Tar Catania, 14.01.2011, n. 44).
Al riguardo non sfugge al Collegio che, sull’articolazione del procedimento ex art. 34 cit., in senso difforme a quanto testé affermato, una parte della giurisprudenza sia di diverso avviso sostenendo che la tesi che vuol differita al procedimento di esecuzione d’ufficio la valutazione della fattibilità della demolizione finirebbe col tradursi nell’illogico assunto che sia legittimo ingiungere al privato un’attività demolitoria che l’amministrazione stessa potrebbe a posteriori avvedersi non essere possibile eseguire d’ufficio in via sostitutiva, per cui non potrebbe configurarsi un nuovo ed autonomo procedimento avente finalità e presupposti diversi, (cfr. Cons. St., sez. II, 14.02.2007, n. 10509/2004; sez. VI, 28.02.2000, n. 1055).
Ritiene il Collegio tuttavia che, stante la natura residuale della sanzione pecuniaria, (in termini, Cons. St., sez. VI, n. 1793 del 2012), l’amministrazione è tenuta al solo accertamento che l’opera sia abusiva, posto che ulteriori adempimenti, relativi all’eseguibilità dell’ordine “senza pregiudizio per la parte conforme”, richiederebbero sopralluoghi ed accertamenti incompatibili con la natura vincolata e la necessaria tempestività dell’ordine demolitorio, nonché con i tempi tecnici necessari per verificare la sussistenza in atto di un pregiudizio dall’esecuzione di un ordine di demolizione peraltro nemmeno emanato.
Si tratterebbe, perciò, di un esito contrario al principio di buon andamento dell’azione amministrativa stante l’esigenza che l’attività di vigilanza urbanistico-edilizia sia strutturata normativamente in termini tali da assicurare il soddisfacimento degli interessi pubblici cui è preposta.
Ne segue l’impercorribilità di un processo interpretativo che oneri la parte pubblica di verifiche tecniche, anche complesse, in una fase anteriore all’emissione dell’ordine di demolizione, a rischio di compromettere gli effetti dell’ordinanza sospensiva dei lavori, e dunque di tollerare un’ulteriore compromissione dell’assetto urbanistico-edilizio.
Si deve, perciò, ritenere che l’ordine di demolizione possa e debba essere adottato anche in assenza di una previa verifica circa la sua eseguibilità senza pregiudizio alla parte conforme, la cui rilevanza, anche ai fini dell’obbligo di provvedere, resta ascritta alla fase esecutiva (Tar Roma, sez. I, 27.05.2013, n. 5277; Cons. St., sez. VI, 12.04.2013, n. 2001; Tar Napoli, n. 2635 del 2012; Tar Toscana, n. 946 del 2012; Tar Puglia, n. 270 del 2011; Tar Valle d’Aosta, n. 23 del 2009) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 16.04.2015 n. 2183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e l’astratta attitudine sanante del procedimento ex art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 si esaurisce nella conversione della misura ripristinatoria in quella pecuniaria limitatamente, però, agli illeciti che non compromettono i valori paesistico–ambientali.
6. Deve essere respinto anche il motivo con il quale parte ricorrente lamenta l’omessa valutazione del danno ambientale e della possibilità di applicare in via alternativa alla demolizione l’indennità prevista dall’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
L'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e l’astratta attitudine sanante del procedimento ex art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 si esaurisce nella conversione della misura ripristinatoria in quella pecuniaria limitatamente, però, agli illeciti che non compromettono i valori paesistico–ambientali (cfr., ex multis, Tar Campania, Napoli, questa sezione sesta, n. 5805 del 14.12.2011, n. 1770 del 07.04.2010; 26.06.2009, n. 3530 e 27.03.2007, n. 2885).
Nel caso di specie, l’illecito in contestazione –per effetto della sua intrinseca portata plurioffensiva di valori urbanistici ed al contempo paesaggistici– è stato elevato nell’ambito di altro settore dell’ordinamento, quello che disciplina l’attività edilizia, governato da disposizioni autonome rispetto a quelle compendiate nel d.lgs. 42/2004 (così Tar Campania, sesta sezione, sentenza n. 5401 del 21.10.2014) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 16.04.2015 n. 2183 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di veranda:
a. la trasformazione di un balcone o di un terrazzino, circondato da muri perimetrali, in veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza, né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a concessione edilizia ovvero permesso di costruire;
b. in particolare, una veranda è da considerarsi, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua successiva rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell'immobile.
Né può sostenersi che, nella specie, il manufatto realizzato fosse di modesta entità per le sue dimensioni, poiché, in ogni caso, attraverso la chiusura del preesistente sporto balcone è stato posto comunque in essere un aumento della volumetria abitativa ed assicurato nuovo spazio al corpo immobiliare preesistente;
c. quanto, poi, al fumus del reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, dal verbale di sequestro eseguito d'iniziativa dalla PG risulta che l'intera unità immobiliare ricade nel perimetro del parco paesistico Carnaldoli, zona vincolata D.Lgs. n. 42 del 2004, ex art. 157, e riconosciuta di particolare interesse pubblico.
Orbene, è di palmare evidenza che la chiusura di un preesistente sporto balcone di modeste dimensioni, con creazione di un volume verandato in ampliamento dell'immobile originario, è opera destinata ad incidere negativamente sul paesaggio: l'impatto negativo dell'intervento eseguito sull'originario assetto paesaggistico del territorio è, infatti, oggettivo.
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La utilizzazione della veranda -peraltro di dimensioni non minimali- come ripostiglio vale certamente ad integrare, in relazione alla fattispecie in questione, il necessario presupposto del periculum in mora, determinando un concreto pericolo ed offesa al territorio che la normativa paesaggistica è volta a salvaguardare.
Trattasi di considerazione assolutamente in linea con la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in tema di sequestro preventivo per reati paesaggistici, la sola esistenza di una struttura abusiva integra il requisito dell'attualità del pericolo indipendentemente dall'essere l'edificazione ultimata o meno, in quanto il rischio di offesa al territorio e all'equilibrio ambientale, a prescindere dall'effettivo danno al paesaggio e dall'incremento del carico urbanistico, perdura in stretta connessione con l'utilizzazione della costruzione ultimata (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il sequestro di un manufatto costituente ampliamento di un edificio già abitato dal medesimo nucleo familiare).

4. Va premesso che nell'annullare il precedente provvedimento del Tribunale del riesame questa Corte ha chiarito che:
   a. la trasformazione di un balcone o di un terrazzino, circondato da muri perimetrali, in veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza, né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a concessione edilizia ovvero permesso di costruire (Sez. 3, n. 35011 del 26/04/2007 - dep. 18/09/2007, Camarda, Rv. 237532).
   b. in particolare, una veranda è da considerarsi, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua successiva rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell'immobile.
Né può sostenersi che, nella specie, il manufatto realizzato fosse di modesta entità per le sue dimensioni, poiché, in ogni caso, attraverso la chiusura del preesistente sporto balcone è stato posto comunque in essere un aumento della volumetria abitativa ed assicurato nuovo spazio al corpo immobiliare preesistente.
   c. quanto, poi, al fumus del reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, dal verbale di sequestro eseguito d'iniziativa dalla PG risulta che l'intera unità immobiliare ricade nel perimetro del parco paesistico Carnaldoli, zona vincolata D.Lgs. n. 42 del 2004, ex art. 157, e riconosciuta di particolare interesse pubblico.
Orbene, è di palmare evidenza che la chiusura di un preesistente sporto balcone di modeste dimensioni, con creazione di un volume verandato in ampliamento dell'immobile originario, è opera destinata ad incidere negativamente sul paesaggio: l'impatto negativo dell'intervento eseguito sull'originario assetto paesaggistico del territorio è, infatti, oggettivo.
La Corte di legittimità è tuttavia pervenuta alla statuizione di annullamento per difetto di motivazione quanto al periculum poiché nell'ordinanza annullata si faceva riferimento alle sole conseguenze dannose del reato edilizio-urbanistico e non a quelle sul piano paesaggistico.
5. Ritiene il Collegio che il provvedimento oggi impugnato abbia fornito adeguata motivazione sul punto, peraltro opportunamente distinguendo tra il reato edilizio (per cui è stato parzialmente accolto il ricorso in considerazione della insussistenza di un concreto aggravio del carico urbanistico) e quello di cui all'art. 181 d.lgs.vo n. 42 del 2004.
Secondo il Tribunale, infatti, la utilizzazione della veranda -peraltro di dimensioni non minimali- come ripostiglio vale certamente ad integrare, in relazione alla fattispecie in questione, il necessario presupposto del periculum in mora, determinando un concreto pericolo ed offesa al territorio che la normativa paesaggistica è volta a salvaguardare.
Trattasi di considerazione assolutamente in linea con la giurisprudenza di questa Corte (cfr. da ultimo Sez. 3, n. 42363 del 18/09/2013, Rv. 257526), secondo cui, in tema di sequestro preventivo per reati paesaggistici, la sola esistenza di una struttura abusiva integra il requisito dell'attualità del pericolo indipendentemente dall'essere l'edificazione ultimata o meno, in quanto il rischio di offesa al territorio e all'equilibrio ambientale, a prescindere dall'effettivo danno al paesaggio e dall'incremento del carico urbanistico, perdura in stretta connessione con l'utilizzazione della costruzione ultimata (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il sequestro di un manufatto costituente ampliamento di un edificio già abitato dal medesimo nucleo familiare)
(Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 13.04.2015 n. 15193).

EDILIZIA PRIVATABeni culturali, l’ok non sana l’abuso. La sanzione scatta anche con il successivo via libera del Sovrintendente.
Cassazione penale. Il vincolo tutela dal pericolo di modifiche - Per i beni paesaggistici il sì tardivo estingue il reato.
Sanzioni penali per chi interviene su un immobile vincolato, anche se si tratta di opere che ottengono successivamente l’autorizzazione del Sovrintendente.
Lo sottolinea la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 13.04.2015 n. 14951 relativa ad un edificio nel centro storico di Trieste.
L’amministratore dell’edificio aveva fatto sostituire due serrande ed alcuni dispositivi elettrici di chiusura realizzando un foro nella facciata, montando poi infissi grigliati di aerazione senza l’autorizzazione della sovrintendenza. Ne è scaturita un’azione penale che ha condotto la condanna dell’amministratore anche se, nel frattempo, era stata ottenuta l’autorizzazione per l’esecuzione dei lavori, qualificando questi ultimi come compatibili con il vincolo.
La Cassazione penale distingue infatti tra sanzioni contenute nella Codice dei beni culturali e del paesaggio (Dlgs. 42/2004), separando gli abusi su beni paesaggistici rispetto agli interventi sui beni culturali. I beni paesaggistici sono quelli indicati nell’articolo 136 del predetto Codice, ad esempio quelli che ricadono nelle fasce di rispetto dal mare o da corsi d’acqua e quelli sottoposti a tutela dei piani paesaggistici.
I beni culturali, invece (articolo 10 Dlgs 42) sono specifici immobili o mobili appartenenti allo Stato o a soggetti pubblici, tra i quali le raccolte dei musei, pinacoteche, gallerie, gli archivi, raccolte librarie, i beni di interesse artistico, storico, archeologico specificamente vincolati (con singoli decreti) ed ogni altro bene che abbia riferimento alla storia politica, militare, letteraria, artistica e scientifica, compresi manoscritti autografi, carte geografiche, fotografie, ville, parchi e giardini, navi ed architetture rurali.
La distinzione tra beni paesaggistici e beni culturali si percepisce in modo evidente nel caso di interventi abusivi, cioè carenti di previa autorizzazione del Sovrintendente. Mentre per i beni paesaggistici il reato di abusivismo si estingue quando sopravviene un’ autorizzazione successiva all'intervento, per i beni culturali un’autorizzazione tardiva del sovrintendente non reca alcun beneficio penale.
La stessa sorte delle serrande nel palazzo di Trieste è infatti toccata alla demolizione del solaio dei miei ricostruiti in cemento armato di un immobile vincolato (cassa penale 5834/1999) ed alla realizzazione di un bagno nella sacrestia di una chiesa sconsacrata (e vincolata: Cassazione 46082/2008), interventi sanzionati penalmente anche se muniti di autorizzazione postuma del Sovrintendente.
Il vincolo che grava sui beni culturali tutela gli stessi dal “pericolo” di modifiche, e quindi la sanzione penale intende prevenire qualsiasi tipo di modifica non previamente autorizzata, anche se successivamente ritenuta compatibile.
I beni paesaggistici sono invece sottoposti a vincolo solo per la loro collocazione in zone di tutela, non per loro caratteristiche intrinseche, sicché la sanzione penale non intende tutelare da un pericolo, bensì da un’ effettiva modifica che risulti contraria al vincolo generale. Sotto l’aspetto strettamente urbanistico, cioè indipendentemente da vincoli (paesaggistici o culturali), gli abusi possono essere sanati dal Comune se vi è la “doppia conformità”, cioè la compatibilità dell’intervento sia nel momento di realizzazione che al momento di richiesta di sanatoria
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.04.2015).

EDILIZIA PRIVATA: L'accertamento postumo di compatibilità rilasciato dalla Soprintendenza competente non può costituire valido argomento per ritenere il fatto penalmente inoffensivo.
Sull'esecuzione di interventi -su di un immobile sottoposto a vincolo culturale- parte in assenza (sostituzione di due serrande, posa in opera di un dispositivo elettrico di chiusura delle persiane previa realizzazione di un foro nella facciata esterna) e parte in difformità (installazione di infissi grigliati di areazione) dall'autorizzazione della competente Sovrintendenza.
Qui è sufficiente ricordare che:
- l'esatta applicazione del principio di offensività presuppone l'individuazione del bene tutelato dalla norma incriminatrice. Nei reati formali, come quello urbanistico di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, o quello paesaggistico di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, il bene tutelato è l'interesse della pubblica amministrazione competente a controllare preventivamente che la trasformazione dell'assetto territoriale sia conforme -rispettivamente- agli strumenti urbanistici di governo del territorio o alla conservazione della integrità ambientale;
- il carattere plurioffensivo del reato urbanistico e di quello paesaggistico, per effetto del quale la norma penale tende a proteggere anche l'interesse sostanziale e finale del governo urbanistico del territorio o della integrità ambientale, si evince dal fatto che:
   a) costituisce reato urbanistico anche l'ipotesi di inosservanza degli strumenti urbanistici (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a);
   b) il reato urbanistico si estingue quando l'intervento edilizio abusivo sia riconosciuto sostanzialmente conforme agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento in cui l'intervento è eseguito sia al momento in cui è richiesto l'accertamento amministrativo di conformità (D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 36 e 45);
   c) allo stesso modo non è punibile il reato contravvenzionale paesaggistico quando l'autorità amministrativa competente accerti la compatibilità paesaggistica dell'intervento, sempre che questo sia di carattere minore (D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-ter);
   d) il reato contravvenzionale paesaggistico si estingue quando il trasgressore rimetta in pristino lo stato dei luoghi prima che sia intervenuta condanna (D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-quinquies);
- ipotesi siffatte non sono rinvenibili per il reato di abusivo intervento su beni culturali, previsto e punito dall'art. 169, d.lgs. n. 42 del 2004;
- per il reato in esame, dunque, il bene tutelato è esclusivamente l'interesse strumentale al preventivo controllo da parte dell'autorità preposta alla tutela dei beni culturali;
- tale interesse è tutelato vietando l'esecuzione di «opere e lavori di qualunque genere sui beni culturali» senza l'autorizzazione del soprintendente (art. 21, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004);
- si tratta di reato formale di pericolo presunto, sicché esso è integrato dal compimento dei lavori e delle opere senza il preventivo controllo amministrativo diretto ad evitare possibili pericoli e danni, che si consuma, perciò, anche se la condotta non produce concretamente una lesione del valore storico-artistico della cosa, sempre che non si tratti di interventi che, secondo una valutazione ex ante, siano talmente trascurabili, marginali e minimi da escludere in radice anche il solo pericolo astratto di una lesione dell'interesse protetto e perciò la necessità stessa della preventiva autorizzazione (ipotesi, peraltro, che non ricorre nel caso di specie, data la natura degli interventi così come descritti dai giudici di merito);
- la natura dell'interesse spiega la latitudine della condotta incriminata che si estende fino a ricomprendervi qualunque intervento, di qualsiasi genere (e dunque non solo edilizio), che abbia ad oggetto beni culturali e che, come detto, non sia trascurabile, minino e marginale;
- la condotta di chiunque realizzi interventi sui beni anzidetti senza la prescritta autorizzazione o comunicazione preventiva configura una concreta offesa dell'interesse amministrativo tutelato, senza che l'accertamento postumo di compatibilità col vincolo culturale o l'autorizzazione in sanatoria rilasciata dalla autorità preposta possa valere a estinguere il reato o a escluderne la punibilità;
- ne consegue, stando all'eccezione difensiva, che l'accertamento postumo di compatibilità rilasciato dalla Soprintendenza competente non può costituire valido argomento per ritenere il fatto penalmente inoffensivo.

1. Con sentenza del 27/11/2013, la Corte di appello di Trieste ha confermato la condanna alla pena di quattro mesi e dieci giorni di arresto ed € 600,00 di ammenda inflitta al sig. M.R. dal Tribunale di quello stesso capoluogo che, con sentenza del 03/12/2012, l'aveva dichiarato colpevole del reato di cui all'art. 169, comma 1, lett. a), d.lgs. 22.01.2004, n. 42, commesso in Trieste il 18/08/2009.
Si contesta all'imputato, quale amministratore dell'edificio e committente dei lavori, di aver effettuato interventi su di un immobile sottoposto a vincolo culturale, sito in via Machiavelli di Trieste, parte in assenza (sostituzione di due serrande, posa in opera di un dispositivo elettrico di chiusura delle persiane previa realizzazione di un foro nella facciata esterna), parte in difformità (installazione di infissi grigliati di areazione) dall'autorizzazione della competente Sovrintendenza.
Secondo la concorde valutazione dei giudici di merito, l'autorizzazione rilasciata successivamente all'esecuzione dei lavori da parte della Sovrintendenza, che li ha ritenuti compatibili con il vincolo, non prova la mancanza di offensività della condotta.
La Corte di appello ha peraltro precisato che, pur nella loro marginalità, i lavori avevano pur sempre comportato «un mutamento di portoni di ingresso sulla facciata (...) con la realizzazione di una autorimessa con comando automatico e di due griglie di areazione, là dove, in precedenza, vi erano delle vetrate» e che il diniego dell'autorizzazione espresso il 13/02/2009 ed il 18/06/2009 aveva riguardato sia l'esecuzione del foro di alloggiamento del dispositivo di apertura, sia per quanto riguarda la realizzazione della serranda.
...
3. Il ricorso è infondato.
4. Con il primo motivo il ricorrente pone il problema della concreta offensività della condotta e lo risolve, in senso a lui favorevole, facendo ricorso al giudizio di compatibilità espresso dall'autorità preposta al vincolo in epoca successiva ai lavori.
Questa Suprema Corte ha già espresso il diverso principio secondo il quale in tema di tutela penale del patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale, né l'accertamento postumo di compatibilità con il vincolo culturale rilasciato dalla Soprintendenza né l'autorizzazione in sanatoria rilasciata dall'Autorità preposta esplicano effetto estintivo ovvero escludono la punibilità del reato d'abusivo intervento su beni culturali (Sez. 3, n. 46082 del 08/10/2008, Fiorentino, Rv. 241785, citata anche dal Tribunale di Trieste).
Il Collegio non può che far proprie, e qui ribadire, le ragioni che stanno alla base del principio appena citato, così come lucidamente illustrate nella motivazione della sentenza n. 46082 del 2008 alla cui lettura si rimanda.
Qui è sufficiente ricordare che:
- l'esatta applicazione del principio di offensività presuppone l'individuazione del bene tutelato dalla norma incriminatrice. Nei reati formali, come quello  urbanistico di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, o quello paesaggistico di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, il bene tutelato è l'interesse della pubblica amministrazione competente a controllare preventivamente che la trasformazione dell'assetto territoriale sia conforme -rispettivamente- agli strumenti urbanistici di governo del territorio o alla conservazione della integrità ambientale;
- il carattere plurioffensivo del reato urbanistico e di quello paesaggistico, per effetto del quale la norma penale tende a proteggere anche l'interesse sostanziale e finale del governo urbanistico del territorio o della integrità ambientale, si evince dal fatto che:
   a) costituisce reato urbanistico anche l'ipotesi di inosservanza degli strumenti urbanistici (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a);
   b) il reato urbanistico si estingue quando l'intervento edilizio abusivo sia riconosciuto sostanzialmente conforme agli strumenti urbanistici vigenti sia al momento in cui l'intervento è eseguito sia al momento in cui è richiesto l'accertamento amministrativo di conformità (D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 36 e 45);
   c) allo stesso modo non è punibile il reato contravvenzionale paesaggistico quando l'autorità amministrativa competente accerti la compatibilità paesaggistica dell'intervento, sempre che questo sia di carattere minore (D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-ter);
   d) il reato contravvenzionale paesaggistico si estingue quando il trasgressore rimetta in pristino lo stato dei luoghi prima che sia intervenuta condanna (D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-quinquies);
- ipotesi siffatte non sono rinvenibili per il reato di abusivo intervento su beni culturali, previsto e punito dall'art. 169, d.lgs. n. 42 del 2004;
- per il reato in esame, dunque, il bene tutelato è esclusivamente l'interesse strumentale al preventivo controllo da parte dell'autorità preposta alla tutela dei beni culturali;
- tale interesse è tutelato vietando l'esecuzione di «opere e lavori di qualunque genere sui beni culturali» senza l'autorizzazione del soprintendente (art. 21, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004);
- si tratta di reato formale di pericolo presunto, sicché esso è integrato dal compimento dei lavori e delle opere senza il preventivo controllo amministrativo diretto ad evitare possibili pericoli e danni (Sez. 3, n. 6421 del 19/05/1993, Fiaschi, Rv. 195122; Sez. 3, n. 5834 del 10/02/1999, Buono, Rv. 213621), che si consuma, perciò, anche se la condotta non produce concretamente una lesione del valore storico-artistico della cosa (Sez. 3, n. 14446 del 11/11/1999, Mariani, Rv. 215112), sempre che non si tratti di interventi che, secondo una valutazione ex ante, siano talmente trascurabili, marginali e minimi da escludere in radice anche il solo pericolo astratto di una lesione dell'interesse protetto e perciò la necessità stessa della preventiva autorizzazione (ipotesi, peraltro, che non ricorre nel caso di specie, data la natura degli interventi così come descritti dai giudici di merito);
- la natura dell'interesse spiega la latitudine della condotta incriminata che si estende fino a ricomprendervi qualunque intervento, di qualsiasi genere (e dunque non solo edilizio), che abbia ad oggetto beni culturali e che, come detto, non sia trascurabile, minino e marginale;
- la condotta di chiunque realizzi interventi sui beni anzidetti senza la prescritta autorizzazione o comunicazione preventiva configura una concreta offesa dell'interesse amministrativo tutelato, senza che l'accertamento postumo di compatibilità col vincolo culturale o l'autorizzazione in sanatoria rilasciata dalla autorità preposta possa valere a estinguere il reato o a escluderne la punibilità;
- ne consegue, stando all'eccezione difensiva, che l'accertamento postumo di compatibilità rilasciato dalla  Soprintendenza competente non può costituire valido argomento per ritenere il fatto penalmente inoffensivo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.04.2015 n. 14951).

APPALTI: La proroga del termine di presentazione delle domande di partecipazione, seppur non specificamente motivata, non pare integrare una violazione dell’art. 70 del d.lgs. 163/2006.
Essa risulta essere una prassi comunemente seguita e, laddove rispetti il principio della par condicio e, dunque, tenda solo a favorire una più ampia partecipazione, non può essere ritenuta di per sé contraria all’ordinamento.
Anche nel caso di specie tali condizioni risultano rispettate, escludendo l’illegittimità della proroga stessa, a prescindere dalla mancata esplicitazione della motivazione, che ben può essere rappresentata dall’interesse pubblico alla maggiore partecipazione alla gara.
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La nomina della Commissione di gara, intervenuta ad opera del responsabile del settore provveditorato del Comune, in tale veste e non anche come responsabile del procedimento non pare integrare una reale ed effettiva violazione dell’art. 84, comma 2, del d.lgs. 163/2006, il quale, al comma 2, prevede che la commissione sia “nominata dall'organo della stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto”.
Ai sensi dell’art. 272 del DPR 207/2010, quello di nominare la commissione di gara non rientra tra i compiti propri del responsabile del procedimento nella gara per l’affidamento di servizi, coerentemente con il fatto che egli non può essere qualificato come organo “competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto”.
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La coincidenza delle figure del responsabile del procedimento e del Dirigente è ritenuta ammissibile dalla giurisprudenza (è stato affermato che: “La normativa di cui alla L. n. 241/1990 e quella di cui al D.Lgs. n. 163/2006 prevedono la possibilità di allocare le funzioni di r.u.p. in capo ad un soggetto differente da quello che ne approva i relativi atti, o al contrario di cumularle in capo ad un'unica persona fisica in possesso dei requisiti previsti, senza mai tuttavia prevedere come obbligatoria una tale commistione”, al pari di quella tra Dirigente della struttura competente all’affidamento dell’appalto e Presidente della commissione.
Su quest’ultima ipotesi non si ravvisano ragioni di discostarsi dal recentissimo precedente di questa Sezione n. 372/2015, nella quale si legge: “Conformemente a giurisprudenza consolidata, va ribadito che nelle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, non sussiste incompatibilità tra le funzioni di Presidente della Commissione di gara e quella di responsabile del procedimento, e ugualmente non vi è incompatibilità nel caso in cui al responsabile del procedimento sia stato attribuito il compito di approvare gli atti della selezione, atteso che detta approvazione non può essere compresa nella nozione di controllo in senso stretto, ma si risolve in una revisione interna della correttezza del procedimento spettante alla figura dirigenziale).
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Con riferimento alla posizione della sig.ra F., che ha verbalizzato l’attività del seggio di gara, in qualità di segretario del responsabile del procedimento e che, secondo parte ricorrente, sarebbe stata illegittimamente designata nella commissione tecnica, pur avendo partecipato ad altre attività correlate all’appalto, va rilevato come il segretario verbalizzante sia privo di ogni potere di influenzare il giudizio della commissione (ancorché l’attività svolta sia qualificata nei verbali di gara come “assistenza” al responsabile del procedimento), con la conseguenza che non appare ravvisabile, anche in questo caso, alcuna situazione di incompatibilità.
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Il Collegio non ritiene di poter ravvisare nemmeno la violazione degli artt. 84, commi 2 e 8 e 206 del d.lgs. 163/2006, che parte ricorrente vorrebbe ricollegare al fatto che la nomina dei componenti della commissione di gara non sarebbe stata accompagnata da alcuna motivazione in ordine alla loro specifica competenza e, dunque, la stessa parrebbe essere stata effettuata senza dare corso ad alcuna specifica attività istruttoria. Invero, incontestato il rispetto dell’indicazione di legge secondo cui debbono essere privilegiati commissari interni all’Amministrazione, i componenti, nel caso di specie, risultano essere la responsabile del settore Gare e appalti, il responsabile del Servizio Approvvigionamenti e laboratori e una funzionaria che ha “ricoperto competenze specifiche in materia di acquisizione di arredi, con la funzione di segretario verbalizzante”.
Si tratta, dunque, di funzionari che, proprio in ragione delle mansioni loro assegnate all’interno della stazione appaltante, si può ritenere abbiano maturato una specifica esperienza in materia di contratti pubblici e relative gare per l’affidamento degli stessi, anche in considerazione del fatto che lo specifico servizio oggetto di gara non richiedeva, per la sua stessa natura, un’alta specializzazione tecnica per la valutazione dello offerte.

Così anche la proroga del termine di presentazione delle domande di partecipazione, seppur non specificamente motivata, non pare integrare una violazione dell’art. 70 del d.lgs. 163/2006.
Essa risulta essere una prassi comunemente seguita e, laddove rispetti il principio della par condicio e, dunque, tenda solo a favorire una più ampia partecipazione, non può essere ritenuta di per sé contraria all’ordinamento. Anche nel caso di specie tali condizioni risultano rispettate, escludendo l’illegittimità della proroga stessa, a prescindere dalla mancata esplicitazione della motivazione, che ben può essere rappresentata dall’interesse pubblico alla maggiore partecipazione alla gara.
La nomina della Commissione di gara, intervenuta ad opera del responsabile del settore provveditorato del Comune, in tale veste e non anche come responsabile del procedimento non pare integrare una reale ed effettiva violazione dell’art. 84, comma 2, del d.lgs. 163/2006, il quale, al comma 2, prevede che la commissione sia “nominata dall'organo della stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto”.
Ai sensi dell’art. 272 del DPR 207/2010, quello di nominare la commissione di gara non rientra tra i compiti propri del responsabile del procedimento nella gara per l’affidamento di servizi, coerentemente con il fatto che egli non può essere qualificato come organo “competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto”.
Solo l’art. 10 del regolamento dei contratti del Comune di Brescia, in modo del tutto anomalo e con una disposizione la cui legittimità, pur dubbia, non è contestata con il ricorso in esame, assegna tale competenza al responsabile del procedimento.
Appare così giustificabile l’errore in cui può essere incorsa la Dirigente della struttura competente all’affidamento dell’appalto (competente anche all’aggiudicazione dello stesso), che ha provveduto alla nomina della Commissione alla luce di tale propria qualità e non anche della sua contestuale posizione di responsabile del procedimento. L’identità e la coincidenza della persona che ricopre le due vesti induce, dunque, a qualificare tale errore come un mero errore formale, inidoneo a determinare l’annullamento dell’atto ex art. 21-octies della legge n. 241/1990, in quanto non si ravvisa motivo per il quale il contenuto del provvedimento avrebbe potuto essere, nella sostanza, diverso se adottato dallo stesso soggetto vestendo i panni del responsabile del procedimento.
Né è ravvisabile la dedotta violazione degli artt. 84, commi 2, 4, 8 e 206 del d. lgs. 163 del 2006.
In primo luogo, la coincidenza delle figure del responsabile del procedimento e del Dirigente è ritenuta ammissibile dalla giurisprudenza (cfr., fra le tante TAR Milano, I, sentenza 4527 del 29.07.2009, nella quale si legge che: “La normativa di cui alla L. n. 241/1990 e quella di cui al D.Lgs. n. 163/2006 prevedono la possibilità di allocare le funzioni di r.u.p. in capo ad un soggetto differente da quello che ne approva i relativi atti, o al contrario di cumularle in capo ad un'unica persona fisica in possesso dei requisiti previsti, senza mai tuttavia prevedere come obbligatoria una tale commistione”, al pari di quella tra Dirigente della struttura competente all’affidamento dell’appalto e Presidente della commissione.
Su quest’ultima ipotesi non si ravvisano ragioni di discostarsi dal recentissimo precedente di questa Sezione n. 372/2015, nella quale si legge: “Conformemente a giurisprudenza consolidata, va ribadito che nelle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, non sussiste incompatibilità tra le funzioni di Presidente della Commissione di gara e quella di responsabile del procedimento, e ugualmente non vi è incompatibilità nel caso in cui al responsabile del procedimento sia stato attribuito il compito di approvare gli atti della selezione, atteso che detta approvazione non può essere compresa nella nozione di controllo in senso stretto, ma si risolve in una revisione interna della correttezza del procedimento spettante alla figura dirigenziale (cfr. TAR Friuli Venezia Giulia – 20/02/2013 n. 91; Consiglio di Stato, sez. V – 23/10/2012 n. 5408; sez. V – 27/04/2012 n. 2445)”.
Con riferimento, inoltre, alla posizione della sig.ra F., che ha verbalizzato l’attività del seggio di gara, in qualità di segretario del responsabile del procedimento e che, secondo parte ricorrente, sarebbe stata illegittimamente designata nella commissione tecnica, pur avendo partecipato ad altre attività correlate all’appalto, va rilevato come il segretario verbalizzante sia privo di ogni potere di influenzare il giudizio della commissione (ancorché l’attività svolta sia qualificata nei verbali di gara come “assistenza” al responsabile del procedimento), con la conseguenza che non appare ravvisabile, anche in questo caso, alcuna situazione di incompatibilità.
Il Collegio non ritiene di poter ravvisare nemmeno la violazione degli artt. 84, commi 2 e 8 e 206 del d.lgs. 163/2006, che parte ricorrente vorrebbe ricollegare al fatto che la nomina dei componenti della commissione di gara non sarebbe stata accompagnata da alcuna motivazione in ordine alla loro specifica competenza e, dunque, la stessa parrebbe essere stata effettuata senza dare corso ad alcuna specifica attività istruttoria. Invero, incontestato il rispetto dell’indicazione di legge secondo cui debbono essere privilegiati commissari interni all’Amministrazione, i componenti, nel caso di specie, risultano essere la responsabile del settore Gare e appalti, il responsabile del Servizio Approvvigionamenti e laboratori e una funzionaria che ha “ricoperto competenze specifiche in materia di acquisizione di arredi, con la funzione di segretario verbalizzante”.
Si tratta, dunque, di funzionari che, proprio in ragione delle mansioni loro assegnate all’interno della stazione appaltante, si può ritenere abbiano maturato una specifica esperienza in materia di contratti pubblici e relative gare per l’affidamento degli stessi, anche in considerazione del fatto che lo specifico servizio oggetto di gara non richiedeva, per la sua stessa natura, un’alta specializzazione tecnica per la valutazione dello offerte.
Infine, secondo parte ricorrente, la commissione avrebbe concordato dei canoni comuni di valutazione delle offerte tecniche, sia sulla base dei criteri e sub-criteri previsti dall’articolo 11 del disciplinare di gara, sia sulla base di osservazioni condivise, che, però, avrebbe omesso di verbalizzare, rendendo così impossibile verificarne il rispetto.
In realtà, alla luce dei chiarimenti forniti, può ritenersi che non vi sia stata un’illegittima fissazione di sub-criteri, ma solo l’individuazione di linee comuni di valutazione degli elementi in questione, così da uniformare le valutazioni espresse da ciascun componente, senza incorrere, in alcuna violazione di legge.
In altre parole, la commissione non ha fissato sub-criteri, ma ha solo concordato “canoni comuni” di interpretazione dei puntuali criteri fissati dal disciplinare che prevedeva gli elementi da valutare e una tabella di attribuzione del punteggio da 0 a 1 a seconda della corrispondenza dell’offerta rispetto agli standard richiesti (da nulla a massima rispondenza agli standards). In ogni caso, tale accordo sarebbe intervenuto prima di iniziare l’analisi delle offerte tecniche, aperte in seduta pubblica, ma non esaminate in quella sede (anche se due dei tre membri erano presenti all’apertura).
Ciò esclude, dunque, la fondatezza anche dell’ultima censura, secondo cui l’aggiudicazione sarebbe affetta da eccesso di potere e violazione del principio di par condicio di cui all’art. 97 Costituzione, in quanto le offerte tecniche sarebbero state aperte prima che la commissione fissasse dei canoni comuni di valutazione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.04.2015 n. 514 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQuando è realizzato un manufatto avente caratteristiche e consistenza diverse da quelle consentite dalle previsioni urbanistiche, vi è un illecito che, sotto i profili amministrativi, ha natura permanente: l’adeguamento dello stato di fatto a quello di diritto non può aversi mediante la perdurante inerzia delle autorità preposte alla repressione degli illeciti, ma solo con i provvedimenti che, se del caso, sono consentiti dalla legge.
In altri termini, quando vi è un titolo che consente la realizzazione di manufatti, il mancato rispetto delle prescrizioni in esso contenute ed il conseguente contrasto con la previsione urbanistica, comporta una perdurante situazione contra ius, che consente all’amministrazione di emanare provvedimenti di autotutela o sanzionatori, finalizzati non solo al ripristino della legalità, ma anche ad imporre il rispetto dell’atto di pianificazione o che ha conformato l’area.
Nella specie, la rilevanza dell’interesse pubblico al cui ripristino tende l’ordinanza impugnata, risiede nella necessità di adeguare lo stato di fatto allo stato di diritto espresso nel titolo concessorio originariamente adottato a favore del ricorrente.

... per l'annullamento dell'Ordinanza n. 44 del 09.08.2013 con la quale il Responsabile dello Sportello Unico per l'Edilizia del Comune di Bianco ha ordinato la demolizione delle opere edili, riguardanti un manufatto a due piani fuori terra (in catasto al fl. di mappa 16, p.lla n. 73 sub 1), eseguite in difformità alla concessione edilizia di ristrutturazione n. 20 rilasciata il 15.05.1991, con invito al medesimo ricorrente "a conformare" entro novanta giorni dalla notifica dello stesso provvedimento, nonché avverso ogni atto prodromico, connesso e/o consequenziale alla predetta ordinanza;
...
1. Nel presente giudizio è controversa la legittimità dell’ordinanza n. 44 del 09.08.2013 emessa dal Comune di Bianco con la quale, accertata la difformità delle opere edilizie realizzate dal signor P.S. rispetto alla concessione edilizia n. 20 del 1991, veniva ordinata la demolizione delle opere medesime ai sensi dell’art. 34 del d.P.R. 380/2001.
In particolare, l’Amministrazione ha verificato gravi difformità rispetto al progetto di opera originariamente autorizzato in quanto:
- la larghezza del balcone, pari a mt. 1,50 rispetto a quello indicato in progetto, pari a mt. 0,70;
- l’immobile è posizionato ad una distanza di metri 3,30 (anziché metri 4,00) dal confine del vicino;
- la distanza tra le pareti finestrate (nel locale disimpegno) è inferiore a quella consentita dal DM 1444/1968 (mt. 1,90 anziché mt. 10,00);
- il terrazzo ed il locale disimpegno sono stati eseguiti in difformità delle disposizioni di cui all’art. 907 del codice civile.
2 Avverso tale provvedimento ricorre il signor S.P., con articolati motivi di ricorso nei quali deduce la violazione di legge per difetto di motivazione, la violazione del principio dell’affidamento, la violazione delle norme del Testo Unico in materia edilizia, la violazione dell’articolo 2 della Costituzione.
Si è costituito in giudizio il Comune di Bianco, difendendo la piena legittimità dei propri atti e chiedendo il rigetto del ricorso.
Alla pubblica udienza dell’11.03.2015, la causa è stata trattenuta per la decisione.
3. Il ricorso è infondato e va respinto.
3.1 Con il primo motivo di ricorso, il signor S. denuncia la violazione del principio di affidamento e dell’obbligo di motivazione.
Egli rappresenta che il lungo lasso di tempo intercorso tra la realizzazione del manufatto e l’adozione del provvedimento repressivo, stante l’affidamento da parte del privato sulla possibilità di conservare il manufatto, richiedono un particolare obbligo di motivazione da parte dell’amministrazione che deve rappresentare le ragioni di interesse pubblico sottese alla necessità di procedere alla demolizione.
Nel caso di specie, di contro, l’Amministrazione avrebbe del tutto omesso qualsivoglia indicazione circa la prevalenza dell’interesse pubblico alla demolizione rispetto a quello della conservazione.
Tale censura non è condivisibile.
In linea generale, quando è realizzato un manufatto avente caratteristiche e consistenza diverse da quelle consentite dalle previsioni urbanistiche, vi è un illecito che, sotto i profili amministrativi, ha natura permanente: l’adeguamento dello stato di fatto a quello di diritto non può aversi mediante la perdurante inerzia delle autorità preposte alla repressione degli illeciti, ma solo con i provvedimenti che, se del caso, sono consentiti dalla legge.
In altri termini, quando vi è un titolo che consente la realizzazione di manufatti, il mancato rispetto delle prescrizioni in esso contenute ed il conseguente contrasto con la previsione urbanistica, comporta una perdurante situazione contra ius, che consente all’amministrazione di emanare provvedimenti di autotutela o sanzionatori, finalizzati non solo al ripristino della legalità, ma anche ad imporre il rispetto dell’atto di pianificazione o che ha conformato l’area.
Nella specie, la rilevanza dell’interesse pubblico al cui ripristino tende l’ordinanza impugnata, risiede nella necessità di adeguare lo stato di fatto allo stato di diritto espresso nel titolo concessorio originariamente adottato a favore del ricorrente (ex multis, Tar Reggio Calabria sent. 223/2014) (TAR Calabria-Rerggio Calabria, sentenza 10.04.2015 n. 358 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIl diritto di accedere ai documenti amministrativi comprende tanto il diritto di prenderne visione, quanto quello di estrarre copia dei documenti ostesi, con la conseguenza che anche il solo diniego della seconda delle suindicate facoltà integra gli estremi del diniego di accesso.
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I consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale», di talché «sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio delle funzioni del consigliere comunale.

Come ricordato dal patrocinio dei ricorrenti, il diritto di accedere ai documenti amministrativi comprende tanto il diritto di prenderne visione, quanto quello di estrarre copia dei documenti ostesi, con la conseguenza che anche il solo diniego della seconda delle suindicate facoltà integra gli estremi del diniego di accesso (cfr., TAR Lazio–Roma, Sez. I, ordinanza n. 1140/2015; TAR Puglia–Bari, Sez. II, sentenza n. 1664/2012).
Peraltro, i ricorrenti hanno formulato l’istanza di accesso per cui è causa nell’esercizio del munus pubblicum al quale sono stati eletti. E, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non vede ragione per discostarsi, «i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale», di talché «sul consigliere comunale non può gravare alcun particolare onere di motivare le proprie richieste di accesso, atteso che, diversamente opinando, sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio delle funzioni del consigliere comunale» (così, TAR Sicilia–Palermo, Sez. I, sentenza n. 77/2015; nello stesso senso, ex plurimis, C.d.S., Sez. V, sentenza n. 4525/2014).
La richiesta del Comune di motivare le ragioni della richiesta di copia dei documenti visionati, se pur formalmente non è atto di diniego, costituisce comunque atto lesivo delle prerogative dei consiglieri, e come tale legittimante la dispiegata azione.
Per quanto sopra esposto, l’atto è altresì illegittimo, essendo gli uffici comunali tenuti a fornire quanto richiesto dai consiglieri comunali.
Quanto alle altre circostanze rappresentate dalla difesa comunale nell’atto di costituzione, esse rappresentano una non consentita integrazione postuma del diniego e come tali sono irrilevanti (cfr., TAR Piemonte, Sez. I, sentenza n. 1676/2014).
Il Tribunale ritiene nondimeno di ricordare che il diritto di accesso è individuale, sicché non può essere negato per il solo fatto di essere già stato accordato ad altro soggetto, e che i consiglieri comunali sono tenuti a mantenere il segreto sulle informazioni di cui vengono a conoscenza nell’esercizio del potere connesso al loro ruolo (cfr., TAR Lombardia–Milano, Sez. I, sentenza n. 2834/2014) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 10.04.2015 n. 176 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Le “pezze d’appoggio” utilizzate dal Comune ai fini della liquidazione delle missioni (dei consiglieri comunali)  rientrano certamente nella nozione di documento amministrativo di cui all’art. 22 della legge 07.08.1990, n. 241, comprendente atti formati o, comunque, detenuti dall'Amministrazione, nell'esercizio dei suoi compiti istituzionali.
Alla stregua delle coordinate tracciate in particolare dagli artt. 10 TUEL, 1 e 14 d.lgs. 33/2013, si può affermare che “non può opporsi il diniego alla ostensione degli atti amministrativi, motivato dall’essere l’istanza preordinata ad esercitare un controllo generalizzato laddove gli atti richiesti, per giunta pubblici, afferiscano all’attività istituzionale della pubblica amministrazione –nel caso in esame proprio di questo di tratta- per la quale il legislatore, lungi dal considerarle con sfavore, perfino esige che siano promosse forme diffuse di controllo”.
È evidente che, alla luce delle specifiche finalità che con la pubblicazione/accesso il legislatore ha inteso perseguire (“forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche”), consentire l’accesso ai soli atti di liquidazione “secretando” i documenti comprovanti le spese effettivamente sostenute equivale ad un sostanziale -illegittimo- diniego di accesso.

Punto controverso è se le “pezze d’appoggio” utilizzate dal Comune ai fini della liquidazione delle missioni siano documenti suscettibili di accesso, circostanza negata dal Comune.
La questione va risolta prendendo le mosse da alcuni inequivoci dati normativi:
- art. 10 del d.lgs. n. 267/2000: “tutti gli atti dell'amministrazione comunale e provinciale sono pubblici” ;
- art. 1 del d.lgs. 33/2013: “La trasparenza è intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti l'organizzazione e l'attività' delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche”;
- art. 5 del d.lgs. 33/2013: “L'obbligo previsto dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione”;
- art. 14, co. 1, d.lgs. 33/2013: “Con riferimento ai titolari di incarichi politici, di carattere elettivo o comunque di esercizio di poteri di indirizzo politico, di livello statale regionale e locale, le pubbliche amministrazioni pubblicano con riferimento a tutti i propri componenti, i seguenti documenti ed informazioni:
[..omissis ..]
c) i compensi di qualsiasi natura connessi all'assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici
”;
- art. 84 T.U.E.L.: “Rimborso delle spese di viaggio: 1. Agli amministratori che, in ragione del loro mandato, si rechino fuori del capoluogo del comune ove ha sede il rispettivo ente, previa autorizzazione del capo dell’amministrazione, nel caso di componenti degli organi esecutivi, ovvero del presidente del consiglio, nel caso di consiglieri, è dovuto esclusivamente il rimborso delle spese di viaggio effettivamente sostenute (2) nella misura fissata con decreto del Ministro dell’interno e del Ministro dell’economia e delle finanze, d’intesa con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali.
2. La liquidazione del rimborso delle spese è effettuata dal dirigente competente, su richiesta dell’interessato, corredata della documentazione delle spese di viaggio e soggiorno effettivamente sostenute e di una dichiarazione sulla durata e sulle finalità della missione
”;
- art. 7, co. 2, D.P.R. 184/2006: “L'accoglimento della richiesta di accesso a un documento comporta anche la facoltà di accesso agli altri documenti nello stesso richiamati e appartenenti al medesimo procedimento, fatte salve le eccezioni di legge o di regolamento”.
Orbene, contrariamente a quanto sostenuto dal resistente, gli atti in questione rientrano certamente nella nozione di documento amministrativo di cui all’art. 22 della legge 07.08.1990, n. 241, comprendente atti formati o, comunque, detenuti dall'Amministrazione, nell'esercizio dei suoi compiti istituzionali (Consiglio di Stato sez. 4, sent. 14/05/2014 n. 2472, Tar Lazio, sez. 1 sent. 10/07/2014 n. 7374).
Alla stregua delle coordinate tracciate in particolare dai surrichiamati artt. 10 TUEL, 1 e 14 d.lgs. 33/2013, si può affermare che “non può opporsi il diniego alla ostensione degli atti amministrativi, motivato dall’essere l’istanza preordinata ad esercitare un controllo generalizzato laddove gli atti richiesti, per giunta pubblici, afferiscano all’attività istituzionale della pubblica amministrazione –nel caso in esame proprio di questo di tratta- per la quale il legislatore, lungi dal considerarle con sfavore, perfino esige che siano promosse forme diffuse di controllo”, (TAR Puglia, sez. 3, sent 18/07/2014 n. 958).
È evidente che, alla luce delle specifiche finalità che con la pubblicazione/accesso il legislatore ha inteso perseguire (“forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche”), consentire l’accesso ai soli atti di liquidazione “secretando” i documenti comprovanti le spese effettivamente sostenute equivale ad un sostanziale -illegittimo- diniego di accesso.
In conclusione, il ricorso va accolto, con il conseguente ordine al Comune di Gravina di Puglia di consentire l’accesso del ricorrente a tutti i documenti di cui all’istanza del 18/10/2014 entro il termine di 30 giorni, decorrenti dalla notificazione della presente sentenza ad opera del ricorrente o dalla sua comunicazione in via amministrativa
(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 09.04.2015 n. 572 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVORO: Sicurezza sul lavoro, il committente deve controllare il coordinatore.
Secondo la Cassazione il committente è tenuto a verificare che i coordinatori adempiano ai loro obblighi e a controllare in modo incisivo la prevenzione, sicurezza e tutela della salute del lavoratore.
La legge non attribuisce al committente il compito di verifiche solo "formali", ma di eseguire controlli sostanziali ed incisivi su tutto quanto riguarda i temi della prevenzione, della sicurezza del luogo di lavoro e della tutela della salute del lavoratore, e di accertarsi che i coordinatori per la sicurezza adempiano ai loro obblighi.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, Sez. IV penale con la sentenza 02.04.2015 n. 14012, nella quale si ricorda che l'articolo 93 del Testo Unico 81/2008 esonera il committente "limitatamente all'incarico conferito al responsabile dei lavori" e quindi l'insufficienza della mera nomina del responsabile dei lavori senza specificazione delle competenze affidategli.
OBBLIGO DI VERIFICA DELL'ADEMPIMENTO DEGLI OBBLIGHI DA PARTE DEI COORDINATORI. Invero, il Decreto Legislativo n. 494 del 1996, articolo 6, comma 2, come sostituito dal Decreto Legislativo n. 528 del 1999, articolo 6, prevede che "La designazione del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l'esecuzione, non esonera il committente o il responsabile dei lavori dalle responsabilità connesse alla verifica dell’adempimento degli obblighi di cui all'articolo 4, comma l, e articolo 5, comma l, lettera a)".
Il legislatore, dunque, nella delicata materia della sicurezza dei cantieri e della tutela della salute dei lavoratori, ha ritenuto, oltre che di delineare specificamente gli obblighi del committente -che è il soggetto nel cui interesse sono eseguiti i lavori- e del responsabile dei lavori, anche di ampliarne il contenuto, prevedendo a carico degli stessi un obbligo di verifica dell'adempimento, da parte dei coordinatori, degli obblighi su loro incombenti, come quello consistente, non solo nell'assicurare ma anche nel verificare il rispetto, da parte delle imprese esecutrici e del lavoratori autonomi, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento, nonché la corretta applicazione delle procedure di lavoro.
La Cassazione dunque osserva che il legislatore, con la norma richiamata, “ha inteso rafforzare la tutela dei lavoratori rispetto ai rischi cui essi sono esposti nell’esecuzione dei lavori, prevedendo, in capo ai committenti ed ai responsabili dei lavori, una posizione di garanzia particolarmente ampia dovendo essi, sia pure con modalità diverse rispetto a datori di lavoro, dirigenti e preposti, prendersi cura della salute e dell'integrità fisica dei lavoratori, garantendo, in caso di inadempienza del predetti soggetti, l’osservanza delle condizioni di sicurezza previste dalla legge
(commento tratto da www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: All’epoca, la giurisprudenza del tutto prevalente era (ed è tutt’ora) nel senso che, a fronte di abusi edilizi la comunicazione dell’avvio del procedimento non è dovuta.
In tema di avviso di inizio del procedimento, le disposizioni di cui all'art. 7 L. n. 241/1990 non sono applicabili per gli accertamenti di abusi edilizi, e degli atti ad essi connessi, per la cui repressione sono normativamente previsti provvedimenti tipici in stretta corrispondenza con le varie tipologie illecite, tassativamente individuate, alla cui applicazione l’amministrazione è vincolata.
Il comune, infatti, non dispone di alcun margine di discrezionalità per compiere valutazioni in merito alla scelta tra l'una e l'altra sanzione tra quelle stabilite dal legislatore.
Come chiarito da consolidata giurisprudenza, alla quale il Collegio aderisce, gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario; pertanto, tali atti non necessitano della comunicazione di avvio del procedimento.

6.- Va respinta anche la censura relativa alla violazione dell’art. 7 L. n. 241/1990, posto che in materia di interventi repressivi del’abuso edilizio l’esigenza di un pronto intervento da parte dell’amministrazione comunale prevale su quella del rispetto delle garanzie procedimentali, soprattutto laddove i lavori siano in corso.
La giurisprudenza richiamata dal ricorrente a sostegno delle proprie ragioni risulta ormai superata dall’approccio sostanzialista che si era già affermato allorché il provvedimento impugnato era stato adottato. All’epoca, la giurisprudenza del tutto prevalente era (ed è tutt’ora) nel senso che, a fronte di abusi edilizi la comunicazione dell’avvio del procedimento non è dovuta.
In tema di avviso di inizio del procedimento, le disposizioni di cui all'art. 7 L. n. 241/1990 non sono applicabili per gli accertamenti di abusi edilizi, e degli atti ad essi connessi, per la cui repressione sono normativamente previsti provvedimenti tipici in stretta corrispondenza con le varie tipologie illecite, tassativamente individuate, alla cui applicazione l’amministrazione è vincolata.
Il comune, infatti, non dispone di alcun margine di discrezionalità per compiere valutazioni in merito alla scelta tra l'una e l'altra sanzione tra quelle stabilite dal legislatore (Tar Piemonte, Torino, sez. I, 16.03.2009, n. 752).
Come chiarito da consolidata giurisprudenza, alla quale il Collegio aderisce, gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti in assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario; pertanto, tali atti non necessitano della comunicazione di avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. II, 03.09.2014, n. 4682).
La censura deve essere peraltro oggi riconsiderata alla luce della sopravvenuta novella della legge n. 241 del 1990, ad opera della legge n. 15 del 2005 che ha introdotto l’art. 21-octies. Il nuovo intervento del legislatore, se da un lato sembra smentire il sopra descritto orientamento della giurisprudenza, pretendendo la comunicazione di avvio del procedimento a prescindere dalla fonte del procedimento, se d’ufficio o di parte, dall’altro, quasi per contrappeso, ha chiarito la non annullabilità degli atti viziati per carenze solo formali-procedurali allorché, com’è nel caso in esame, si tratti di atti dovuti e vincolati tali che, anche qualora la comunicazione fosse stata inviata, l’esito del procedimento non sarebbe stato comunque diverso.
Ne consegue che, anche a volere ammettere che la fase di avvio del procedimento possa esser stata incompleta, venendo incontro in linea puramente ipotetica alla prospettazione del ricorrente, siffatta lacuna formale non sarebbe comunque idonea a determinare l’annullamento dei provvedimenti impugnati (Cons. Stato, sez. IV, 15.05.2009, n. 3029)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 02.04.2015 n. 1986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio serbato dall'Amministrazione comunale sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica (in applicazione dell’art. 13 L. 47/1985 ed ora dell’art. 36 d.p.r. 380/2001) ha valore non di silenzio-inadempimento, bensì di silenzio-rigetto con la conseguenza che, all'atto della sua formazione per inutile decorso del relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere.
Secondo l’impostazione seguita dal legislatore, infatti, si costituisce un provvedimento negativo tacito che l’interessato ha l’onere di impugnare per dimostrare, in senso contrario, la compatibilità dell'opera realizzata sine titulo con la normativa primaria e secondaria, sotto il cui imperio essa ricade.
Pertanto, a fronte di un'istanza di accertamento postumo di conformità, l’inerzia dell'amministrazione costituisce un’ipotesi tipica di silenzio-significativo, i cui effetti si identificano con un provvedimento (tacito) di rigetto dell'istanza; viene quindi a determinarsi una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in ipotesi di provvedimento espresso.
Tale provvedimento, in quanto tacito, impone all’interessato l’onere di tempestiva impugnazione il cui oggetto non può ridursi al difetto di motivazione, di cui è strutturalmente carente per previsione legislativa, bensì per il contenuto reiettivo dell'atto.

7.- Da respingere è anche la censura relativa all’“improduttività di effetti dell’impugnato provvedimento sino alla conclusione del procedimento di cui all’istanza proposta dal ricorrente” volta all’accertamento di conformità postumo, in applicazione dell’art. 13 L. 47/1985 ed ora dell’art. 36 d.p.r. 380/2001.
Sul punto, secondo l’impostazione seguita dal legislatore con le appena citate disposizioni, il silenzio serbato dall'Amministrazione comunale sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica ha valore non di silenzio-inadempimento, bensì di silenzio-rigetto con la conseguenza che, all'atto della sua formazione per inutile decorso del relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere; secondo l’impostazione seguita dal legislatore, infatti, si costituisce un provvedimento negativo tacito che l’interessato ha l’onere di impugnare per dimostrare, in senso contrario, la compatibilità dell'opera realizzata sine titulo con la normativa primaria e secondaria, sotto il cui imperio essa ricade (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II, 09.06.2014, n. 6112; TAR Piemonte, sez. II, 20.05.2011 n. 494).
Pertanto, a fronte di un'istanza di accertamento postumo di conformità, l’inerzia dell'amministrazione costituisce un’ipotesi tipica di silenzio-significativo, i cui effetti si identificano con un provvedimento (tacito) di rigetto dell'istanza; viene quindi a determinarsi una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in ipotesi di provvedimento espresso.
Tale provvedimento, in quanto tacito, impone all’interessato l’onere di tempestiva impugnazione il cui oggetto non può ridursi al difetto di motivazione, di cui è strutturalmente carente per previsione legislativa, bensì per il contenuto reiettivo dell'atto
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 02.04.2015 n. 1986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl rilascio del certificato di agibilità presuppone la conformità del fabbricato ai parametri normativi e regolamentari urbanistici ed edilizi.
Invero, l'art. 24, comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001 dispone che "il soggetto titolare del permesso di costruire" è tenuto "a chiedere il certificato di agibilità".
L'art. 35, comma 20, L. 28.02.1985, n. 47 (norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizia) prevede che "a seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria viene altresì rilasciato il certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica".
I dati normativi sopra richiamati ed il principio di ragionevolezza dell'azione amministrativa, nella valutazione e nel bilanciamento degli interessi pubblici e privati in campo, escludono l'utilizzo, per qualsivoglia destinazione, di un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata.
Non a caso le sopra descritte precise indicazioni normative sono seguite da univoca giurisprudenza, secondo cui il rilascio del certificato di agibilità, lungi dall'essere subordinato all'accertamento dei soli requisiti igienico-sanitari, presuppone altresì la conformità urbanistica ed edilizia dell'opera.
E' stato anche chiarito che il requisito dell'agibilità riflette non solo la regolarità igienico-sanitaria dell'edificio, ma anche alla sua conformità urbanistico-edilizia e paesaggistica.

Quanto al provvedimento sub a) (diniego del permesso di costruire in sanatoria), il ricorso non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
Come già osservato in sede cautelare, e confermato dal Consiglio di Stato (che, con ordinanza n. 2140/2011, ha respinto l’appello proposto dai ricorrenti avverso l’ordinanza cautelare pronunziata da questa Sezione), la deroga di cui all’art. 35 l. 47/1985 non concerne le prescrizioni di carattere igienico-sanitario.
Come precisato da Tar Campania, Napoli, sez. III, n. 3992/2014, “il rilascio del certificato di agibilità presuppone la conformità del fabbricato ai parametri normativi e regolamentari urbanistici ed edilizi.
Invero, l'art. 24, comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001 dispone che "il soggetto titolare del permesso di costruire" è tenuto "a chiedere il certificato di agibilità".
L'art. 35, comma 20, L. 28.02.1985, n. 47 (norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizia) prevede che "a seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria viene altresì rilasciato il certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica".
I dati normativi sopra richiamati ed il principio di ragionevolezza dell'azione amministrativa, nella valutazione e nel bilanciamento degli interessi pubblici e privati in campo, escludono l'utilizzo, per qualsivoglia destinazione, di un fabbricato non conforme alla normativa urbanistico edilizia e, come tale, in potenziale contrasto con la tutela del fascio di interessi collettivi alla cui protezione quella disciplina è preordinata.
Non a caso le sopra descritte precise indicazioni normative sono seguite da univoca giurisprudenza, secondo cui il rilascio del certificato di agibilità, lungi dall'essere subordinato all'accertamento dei soli requisiti igienico-sanitari, presuppone altresì la conformità urbanistica ed edilizia dell'opera (cfr. TAR Palermo, sez. III, 20.12.2013, n. 2534). E' stato anche chiarito che il requisito dell'agibilità riflette non solo la regolarità igienico-sanitaria dell'edificio, ma anche alla sua conformità urbanistico-edilizia e paesaggistica (ex multis: Cons. Stato, sez. V, 16.05.2013, n. 2665; idem 30.04.2009, n. 2760; TAR Palermo, II, 24.05.2012, n. 1055)
”. In senso analogo si è pronunziato Tar Marche, sez. I, n. 3345/2010.
Pertanto, il diniego è legittimamente motivato, atteso che il parere negativo espresso dall'ASL Napoli 1 che l'immobile de quo non possiede i requisiti minimi di abitabilità trova luogo nel fatto immanente che, come evidenziato nella nota prot. 2011/11768 dell'11.01.2011 del Servizio Progetto Condono Edilizio, la "superficie complessiva di mq. 3,28 (come risultante dalla perizia giurata presentata) non assicura il livello minimo di 1/8 della superficie di pavimento previsto dall'art. 5 del D.M. 05.07.1975 recepito anche dal Regolamento Edilizio del Comune di Napoli all'art. 17 dell'Allegato B" (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 02.04.2015 n. 1917 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo un orientamento giurisprudenziale non controverso deve riconoscersi rilevanza urbanistica (anche) al solo spianamento di un terreno agricolo con riporto di sabbia e ghiaia, realizzato al fine di ottenere un piazzale per deposito e smistamento di autocarri.
... per l'annullamento:
- del diniego di titolo abilitativo edilizio in sanatoria del 09.10.2006 del Dirigente del Settore Sviluppo Produttivo e Residenziale del Comune di Cesena, notificato il 24.10.2006,
- nonché del provvedimento di rigetto del 06.06.2006 e del Capo VII delle n.t.a. del prg ove interpretate come impeditive dell'ampliamento del piazzale,
...
La società ricorrente che gestisce un’attività di lavorazione del ferro aveva realizzato un piazzale per lo stoccaggio dei serbatoi che ha poi ampliato mediante spargimento di stabilizzato e ghiaia; ritenendo che non si trattasse di un’opera edilizia non si era munita di titolo e solo per un eccesso di cautela aveva richiesto l’applicazione del condono edilizio di cui al D.L. 269/2003 in particolare ai sensi dell’art. 36 L.R. 23/2004 quale opera minore non valutabile in termini di superficie o di volume edilizio.
Il Comune di Cesena, invece, classifica l’intervento tra quelli descritti nell’allegato alla L.R. 31/2002 alla lettera G7 ritenendolo insuscettibile di sanatoria ai sensi dell’art. 33, punto 2, L.R. 23/2004.
Il primo motivo di ricorso contesta l’eccesso di potere per motivazione insufficiente e generica in quanto la qualificazione dell’intervento come rientrante in quelli descritti alla citata lettera G7 non è stata adeguatamente motivata tenendo conto del fatto che la qualificazione del privato era stata diversa ed era opportuno chiarire le ragioni per cui non poteva essere accolta.
Il secondo motivo lamenta la violazione degli artt. 33 e 36 L.R. 23/2004 e dell’Allegato alla L.R. 31/2002 poiché l’intervento operato non costituisce una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio poiché non vi è alcuna trasformazione permanente, né una modifica della destinazione d’uso poiché la zona rurale che ricomprende le Zone E e F consente anche usi terziari. Si tratta in sostanza di opera pertinenziale per il miglioramento del servizio all’azienda.
Il terzo motivo censura la violazione del principio di imparzialità e di buona amministrazione e l’omessa applicazione dell’art. 17 L.R. 23/2004 poiché l’intervento poteva essere sanato con un semplice accertamento di conformità cosicché il Comune avrebbe dovuto istruire la domanda di condono come concessione in sanatoria poiché l’intervento è compatibile con le norme di piano che disciplinano le zone rurali tanto è vero che il preesistente piazzale era stato assentito.
Il Comune di Cesena si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso.
Il ricorso non è fondato.
La lettera G7 dell’allegato alla L.R. 31/2002 così descrive gli interventi che sono in essa ricompresi: “la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all’aperto ove comportino l’esecuzione dei lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo in edificato“.
Orbene secondo un orientamento giurisprudenziale non controverso deve riconoscersi rilevanza urbanistica (anche) al solo spianamento di un terreno agricolo con riporto di sabbia e ghiaia, realizzato al fine di ottenere un piazzale per deposito e smistamento di autocarri [vedasi sentenza TAR Campania sezione Salerno 172/2013 la quale afferma… “Richiedono infatti il permesso di costruire anche la modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio in relazione alla sua condizione naturale e alla sua qualificazione (Cons. Stato, V, 31/12/2008, n. 6756; idem, 22/12/2005, n. 7343; TAR Lombardia, Brescia, 11/01/2006, n. 32). D'altra parte è stata riconosciuta la rilevanza urbanistica anche del solo spianamento di un terreno agricolo con riporto di sabbia e ghiaia, realizzato al fine di ottenere un piazzale per deposito e smistamento di autocarri (Cass. pen., III, 09/06/1982)”].
Né può ritenersi il carattere pertinenziale dell’opera che ha una sua autonoma funzione tale da escludere la nozione edilizia e non civilistica di pertinenza.
Non era neanche possibile fare un accertamento di conformità poiché l’intervento non era in conformità con gli strumenti urbanistici.
In conclusione trattandosi di una nuova costruzione vietata dall’art. 33, punto 2, L.R. 23/2004, il Comune di Cesena ha legittimamente negato il condono (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 30.03.2015 n. 330 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAIn edilizia. Vincolo Albo a chi sposta le macerie.
L'occasionalità del trasporto di macerie edili non esenta il piccolo imprenditore dall'obbligo di iscrizione all'albo gestori ambientali. L'occasionalità del trasporto non è requisito previsto dalla norma per escludere l'obbligo della comunicazione all'albo gestori ambientali. Il trasporto occasionale e saltuario dei rifiuti non pericolosi effettuato dal loro produttore, quando non ecceda la quantità di 30 chilogrammi o di 30 litri per volta, esime soltanto dalla necessità del formulario di cui all'articolo 193 dlgs n. 152 del 2006.

Questo quanto contenuto nella
sentenza 26.03.2015 n. 12946 della III Sez. penale della Corte di cassazione.
Il fatto in sintesi: il titolare di un'impresa esercente piccoli lavori edili era stato giudicato colpevole di attività di gestione di rifiuti non autorizzata ai sensi del codice ambiente (dlgs n. 152/2006). L'imprenditore edile, dopo aver effettuato il trasporto, aveva affermato di non essere a conoscenza dell'obbligo di iscrizione all'albo dei gestori ambientali. A suo avviso, questo adempimento non doveva essere richiesto dal momento che i trasporti avvenivano solo saltuariamente e non in modo abituale.
I giudici di cassazione nel rigettare il ricorso dell'imprenditore sottolineano che «non può essere invocata l'ignoranza della legge penale ex art. 5 c.p. -alla luce dell'orientamento della giurisprudenza costituzionale- da parte di chi, professionalmente inserito in un campo di attività collegato alla materia disciplinata dalla legge integratrice del precetto penale, non si uniformi alle regole di settore, per lui facilmente conoscibili a ragione dell'attività professionale svolta».
La disposizione violata, osserva la Corte di cassazione, si applica proprio agli imprenditori che, come nel caso in esame, in virtù dell'attività svolta producano rifiuti e li trasportino, indipendentemente dal fatto che il trasporto possa essere occasionale perché non sempre necessaria conseguenza della propria attività (articolo ItaliaOggi del 15.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Macerie edili, l'occasionalità del trasporto non esenta dall'obbligo di iscrizione all'Albo.
Secondo la Cassazione, l'occasionalità del trasporto non esclude l'obbligo della comunicazione.

La vicenda in questione riguarda un imprenditore edile dichiarato dal Tribunale di Milano colpevole del reato di cui al D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, art. 256, comma 1, lett. a), e condannato alla pena di 400 euro di ammenda, per aver esercitato attività di raccolta e trasporto di macerie derivanti da demolizioni edili senza essere iscritto all'Albo Nazionale dei Gestori Ambientali.
Nel 2009 l'imprenditore era stato controllato dalla Polizia stradale mentre trasportava, a bordo del proprio autocarro, rifiuti provenienti da demolizione di costruzioni edili, come da formulario esibito agli operanti. L'imputato si era difeso affermando di non essere a conoscenza della necessità dell'iscrizione all'Albo perché non informato in tal senso dal proprio commercialista.
Nel suo ricorso in Cassazione, l'imputato ha, tra l'altro, eccepito l'erronea applicazione degli artt. 5 e 47 c.p., e comunque la mancanza e/o la manifesta illogicità della motivazione in punto di consapevolezza della illiceità della propria condotta, e ha dedotto che, prima dell'entrata in vigore della legge sui reati ambientali aveva effettuato un solo viaggio, nel 2003. Ciò a dimostrazione dell'assenza di quella professionalità ritenuta dalla Suprema Corte elemento fondante l'affermazione di responsabilità per colpa e a riprova della sussistenza dell'errore su norma extrapenale che fa venir meno la colpa stessa e sul quale il giudice di merito non si è adeguatamente soffermato.
L'OCCASIONALITÀ DEL TRASPORTO NON ESCLUDE L'OBBLIGO DELLA COMUNICAZIONE. Con la sentenza 26.03.2015 n. 12946, la III Sez. penale della Corte di Cassazione penale osserva che “l'occasionalità del trasporto non è requisito previsto dalla norma per escludere l'obbligo della comunicazione. Il trasporto occasionale e saltuario dei rifiuti non pericolosi effettuato dal loro produttore, quando non ecceda la quantità di 30 chilogrammi o di 30 litri per volta, esime soltanto dalla necessità del formulario di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 193”.
Inoltre, “
non può essere invocata l'ignoranza della legge penale ex art. 5 c.p., -alla luce dell'orientamento della giurisprudenza costituzionale- da parte di chi, professionalmente inserito in un campo di attività collegato alla materia disciplinata dalla legge integratrice del precetto penale, non si uniformi alle regole di settore, per lui facilmente conoscibili a ragione dell'attività professionale svolta (Sez. 3, n. 22813 del 15/04/2004, Ferri, Rv. 229228)”.
La norma violata, osserva la suprema Corte, si applica proprio agli imprenditori che, come nel caso in esame, in virtù dell'attività svolta producano rifiuti e li trasportino, indipendentemente dal fatto che il trasporto possa essere occasionale perché non sempre necessaria conseguenza della propria attività.
Del tutto irrilevante, poi, la tesi difensiva secondo la quale l'imputato non era stato informato dal commercialista dell'obbligo di iscriversi all'Albo (commento tratto da www.casaeclima.com).

APPALTI SERVIZI: Appalti, la qualità dipende dai curriculum. Corte Ue. Per attività di tipo intellettuale contano esperienza e formazione dei singoli.
Il valore professionale dei componenti di una squadra proposta da un offerente, vincitore di un appalto, è un elemento per valutare la qualità dell’esecuzione di un servizio. Di conseguenza, l’amministrazione aggiudicatrice può fissare come criterio la valutazione della costituzione della squadra, nonché dell’esperienza e dei curricula dei singoli componenti.

Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza 26.03.2015 causa C-601/13 chiamata dal Tribunale supremo amministrativo portoghese a chiarire la portata di alcune disposizioni della direttiva 2004/18 sul coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, recepita in Italia con Dlgs 12.04.2006 n. 163, contenente il codice dei contratti pubblici.
Al centro della controversia, che ha poi condotto al rinvio pregiudiziale, un appalto relativo all’acquisizione di servizi di formazione e consulenza. L’amministrazione aveva stabilito di aggiudicarlo all’offerta economicamente più vantaggiosa tenendo conto di parametri quali la valutazione della squadra, la qualità e i meriti della prestazione proposta e il prezzo globale. La ditta esclusa aveva presentato un ricorso che era stato respinto in primo e secondo grado. In particolare, la ricorrente contestava che, nel valutare la squadra, l’amministrazione aveva considerato l’esperienza dei singoli componenti e non degli offerenti in generale.
La questione è così arrivata sui banchi di Lussemburgo. Prima di tutto, la Corte di giustizia ha chiarito che l’articolo 53 della direttiva 2004/18 (modificata dalla 2014/24/Ue), nel caso di appalti aggiudicati all’offerta economicamente più vantaggiosa, fissa taluni criteri lasciando, anche rispetto alla precedente normativa (ossia la direttiva 92/50), un più ampio margine discrezionale all’amministrazione aggiudicatrice che così può tener conto del migliore rapporto qualità/prezzo.
Di conseguenza –osserva la Corte Ue– è rafforzato «il peso dell’elemento qualitativo nei criteri di aggiudicazione degli appalti pubblici». Va poi considerato che i criteri indicati dall’articolo 53 non sono elencati in modo tassativo con la possibilità, così, per le amministrazioni aggiudicatrici di scegliere i criteri destinati, in ogni caso, a individuare l’offerta economicamente più vantaggiosa, con un collegamento all’oggetto dell’appalto.
Pertanto, per i giudici Ue la qualità dell’esecuzione dell’appalto, in diversi casi, e soprattutto nelle situazioni in cui l’oggetto dell’appalto ha carattere intellettuale, dipende dalle persone incaricate di eseguirlo. Giusto, quindi, considerare l’esperienza professionale e la formazione dei singoli componenti della squadra la cui qualità può essere un criterio di aggiudicazione (articolo Il Sole 24 Ore del 09.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTI: Verde pubblico senza imposta comunale.
Un'area ricompresa in una zona destinata a verde pubblico attrezzato dal piano regolatore generale non è soggetta al pagamento dell'imposta comunale. Il vincolo di destinazione, infatti, non consente di considerare l'area come edificabile poiché al contribuente viene impedito di operare qualsiasi trasformazione del bene.

È quanto si legge nella sentenza 25.03.2015 n. 5992 della Corte di Cassazione, Sez. V civile.
Il giudice con l'ermellino ha così respinto il ricorso presentato da un Comune abruzzese, che aveva impugnato una sentenza della Ctr conforme alla decisione della Suprema Corte. Se il piano regolatore generale del comune stabilisce che un'area sia destinata a verde pubblico attrezzato, tale disposizione urbanistica impedisce l'edificazione.
Dunque, l'area non è soggetta al pagamento dell'Ici anche se inclusa in zona indicata come edificabile nello strumento urbanistico. Da precisare che la stessa Cassazione si era talvolta espressa anche in senso contrario, affermando la debenza dell'Ici per un'area edificabile, anche se sottoposta a vincolo urbanistico e destinata a essere espropriata (Cass. n. 9131/2007).
Nella pronuncia in commento, tuttavia, viene data preminenza al fatto che «il vincolo di destinazione preclude ai privati tutte quelle trasformazioni del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione», derivandone che un'area con tali caratteristiche non possa essere qualificata come fabbricabile.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Un Comune dell'Abruzzo proponeva ricorso per Cassazione contro una sentenza emessa dalla Ctr di L'Aquila, con la quale il giudice d'appello aveva confermato la sentenza di prime cure emessa dalla Ctp di Teramo, già favorevole al contribuente. Le pronunce di merito avevano censurato degli avvisi di accertamento Ici, per le annualità 1998-2003, emessi relativamente a delle aree destinate a verde pubblico. Secondo l'impugnazione proposta dai difensori del Comune, aveva «errato la Ctr nel ritenere non imponibile a fini Ici un'area avente previsione edificatoria di «zona a verde pubblico attrezzato»».
La questione controversa trattata nella sentenza in commento, dunque, concerne il fatto che il vincolo di destinazione urbanistica a «verde pubblico» sottragga, o meno, l'area al regime fiscale dei suoli edificabili, ai fini dell'Ici.
Un'area compresa in una zona destinata dal Prg a verde pubblico attrezzato, espone la Suprema corte, «è sottoposta a un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle trasformazioni del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione».
Ne deriva che un'area con tali caratteristiche non può essere qualificata come fabbricabile e, quindi, il possesso della stessa non può essere considerato presupposto dell'imposta comunale. «Manca», prosegue la Cassazione, «il presupposto di imposta, limitato dal dlgs 30.12.1992, n. 504, artt. 1 e 2 per le aree urbane, ai terreni fabbricabili, intendendosi per tali quelli destinati alla edificazione per espressa previsione degli strumenti urbanistici ovvero -quale criterio meramente suppletivo- in base alle effettive possibilità di edificazione».
Pertanto, come nella fattispecie, ove la zona sia stata concretamente vincolata a un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche ecc.), la classificazione apporta un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione.
Il giudice di Piazza Cavour conclude la propria sentenza affermando che: «deve negarsi la natura edificabile delle aree comprese in zona destinata dal Prg a «verde pubblico attrezzato» in quanto tale destinazione è preclusiva ai privati di forme di trasformazione del suolo riconducibile alla nozione tecnica di edificazione e le trasformazioni, se previste, sono concepite al solo fine di assicurare la fruizione pubblica degli spazi».
Per tali ragioni, il ricorso del Comune è stato rigettato dalla Cassazione, che ha anche condannato «il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità» (articolo ItaliaOggi Sette del 20.04.2015).

APPALTIL'annuncio gara è solo via web? Appalto ok
Internet costituisce una valida forma di pubblicità anche per gli appalti pubblici. È così che il Comune committente ben può affidare soltanto al suo sito web l'annuncio delle date relative alle sedute di gara, onerando in tal modo i partecipanti alla procedura a collegarsi per controllare se ci sono novità.

È quanto emerge dalla sentenza 25.03.2015 n. 464, pubblicata dalla I Sez. del TAR Sardegna.
Onere non gravoso. Niente da fare per l'impresa che contesta l'affidamento alla concorrente dei lavori previsti dal contratto di quartiere. È legittima la scelta della stazione appaltante quando stabilisce alla chiusura di tutte le riunioni della commissione di gara la data della successiva seduta pubblica sarebbe stata comunicata soltanto attraverso la pubblicazione sul sito web dell'amministrazione locale.
Altrettanto valida è la norma del disciplinare di gara secondo cui i rinvii delle operazioni vengono resi noti soltanto via Internet. E in effetti la rete costituisce ormai una forma idonea di comunicazione delle notizie anche relativamente agli appalti degli enti, come risulta dai principi affermati dal codice dell'amministrazione digitale e nello specifico dal codice dei contratti pubblici.
E gli aggiornamenti sulle date sono assimilabili ai chiarimenti per i concorrenti: non impongono comunicazioni individuali.
Inutile per l'azienda esclusa eccepire violazioni della normativa comunitaria: l'onere di consultare il sito web del Comune imposto ai partecipanti non costituisce una adempimento particolarmente gravoso anche se la pubblicazione della data avviene con poco anticipo (articolo ItaliaOggi del 15.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIIrpef comunale entro il bilancio. Illegittima la delibera approvata dopo il preventivo. Il Consiglio di stato conferma la sentenza del Tar Calabria: il termine è perentorio.
È illegittima la fissazione delle aliquote dell'addizionale comunale all'Irpef stabilita con delibera comunale approvata dopo il termine per l'approvazione del bilancio di previsione.

Il Consiglio di stato interviene di nuovo sulla questione che ha interessato molti comuni che nel 2013, forse anche a causa del particolare momento in cui si accavallavano molti provvedimenti di carattere tributario, non hanno rispettato le norme dettate dalla legge statale in materia di delibere comunali, dimenticando di approvare le aliquote dell'addizionale comunale all'Irpef entro il termini stabiliti dalla legge.
Questa volta lo fa con la sentenza 19.03.2015 n. 1495 che si aggiunge alla precedente decisione n. 4409 del 28.08.2014, arrivando alle stesse conclusioni.
I giudici di palazzo Spada hanno, infatti, respinto l'appello che un comune calabrese ha presentato avverso la sentenza n. 472 del 2014 del Tar, per la Calabria sede di Catanzaro, che ha annullato la deliberazione del consiglio comunale con cui erano state variate le aliquote dell'addizionale comunale all'Irpef in data 06.12.2013, cioè oltre termine perentorio stabilito per l'approvazione del bilancio di previsione, che per l'anno 2013 era fissato, dall'art. 8 del dl n. 102 del 2013 convertito dalla legge n. 124 del 2013, al 30.11.2013.
Questa volta il comune non si è dato per vinto e, per tutelare la legittimità della propria deliberazione, ha imbastito ulteriori argomentazioni che non hanno, però, trovato accoglimento da parte del Consiglio di stato che le ha tutte rigettate evidenziandone la completa infondatezza.
In particolare i giudici si sono soffermati sul merito della controversia riguardo al quale il comune ha contestato l'illogicità della sentenza del Tar in quanto, nei fatti, il termine perentorio del 30.11.2013 -prescritto dall'art. 1, comma 169, della legge n. 296, del 2006 che impone agli enti locali di deliberare le tariffe e le aliquote relative ai tributi di competenza degli stessi entro la data fissata dalla norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione- sarebbe stato in realtà rispettato, avendo il comune approvato la maggiorazione dell'aliquota con la delibera di giunta del 14.11.2013.
I giudici sono molto laconici. «La tesi conferma la violazione del termine in parola». Le ragioni sono, in effetti, assai chiare: le delibera in questione adottata dalla giunta comunale «non ha disposto alcuna modifica dell'addizionale ma ha solo proposto la stessa al Consiglio comunale, che l'ha poi disposta con atto del 06/12/2013, qui di oltre il termine, come contestato dal Ministero» con il ricorso dal quale è scaturita la sentenza del Tar per la Calabria (articolo ItaliaOggi del 17.04.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Anche l'indebita percezione di poche centinaia di euro costituisce un danno economicamente apprezzabile per l'amministrazione pubblica, atteso che apprezzabile non è sinonimo di rilevante.
La falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza costituisce una condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l'amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro ed integra il reato di truffa aggravata, ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili.
Appaiono infondate le censure del ricorrente in merito al difetto di tipicità del fatto, atteso che la Corte distrettuale ha giustificato in maniera non manifestamente illogica la propria valutazione sull'apprezzabilità del danno economico cagionato dall'A. a causa della ripetuta assenza dal luogo di lavoro, non rilevando in senso contrario che la porzione della retribuzione illecitamente conseguita in difetto di prestazione lavorativa non sia di rilevante entità.
In proposito va infatti ritenuto che anche l'indebita percezione di poche centinaia di euro (perché di tanto si discute) costituisca un danno economicamente apprezzabile per l'amministrazione pubblica, atteso che apprezzabile non è sinonimo di rilevante.

1. Con sentenza del 17.05.2012 il Tribunale di Marsala, all'esito di giudizio ordinario, condannava A.N. alla pena di giustizia per i reati di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici (capo c), truffa ai danni di un ente pubblico (capo a) e peculato d'uso (capo b), in relazione a vari episodi di assenteismo consumati, secondo l'ipotesi accusatoria, nella qualità di messo notificatore alle dipendenze del Comune di Partanna.
2. Propone ricorso per cessazione il difensore dell'imputato, avv. G.C., con atto affidato a tre motivi.
...
2.1 La condotta dell'imputato è ricostruita sulla base dei servizi di osservazione diretta ad opera degli investigatori, che hanno visto l'imputato "recarsi a casa propria, portandovi la spesa, le buste di acquisti effettuati, le compere di formaggi locali, entrando in abitazione e trattenendovisi dentro per intere mezzore, amabilmente conversando con i figli e facendo, come suol dirsi brutalmente, gli affari propri durante l'orario di servizio, addirittura lasciando fuori in sosta la macchina del Comune, salvo prelevare la propria, portarla alla Baggio e poi far ritorno in casa" (pagina 4 della sentenza di appello).
3. Il secondo motivo è infondato, poiché la Corte territoriale chiarisce che secondo le conclusioni tecnico contabili del Comune di Partanna, unico soggetto in grado di agevolare gli importi stipendiati abusivamente percepiti a fronte di servizio prestato, l'imputato ha arrecato un danno di euro 743,50, distinti in euro 643,50 per la truffa ed euro 100,00 per il peculato.
A questa somma, comunque giudicata congrua con apprezzamento di merito motivato e dunque non sindacabile, andrebbe poi aggiunto il danno alla funzionalità del servizio di notificazione e dell'utenza, che porterebbe ad un valore ancora più alto.
Va allora riaffermato il principio invocato dal ricorrente (da ultimo, Sez. 5, n. 8426 del 17/12/2013 - dep. 21/02/2014, Rapicano, Rv. 258987) per il quale la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza costituisce una condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l'amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro ed integra il reato di truffa aggravata, ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili; però appaiono infondate le censure del ricorrente in merito al difetto di tipicità del fatto, atteso che la Corte distrettuale ha giustificato in maniera non manifestamente illogica la propria valutazione sull'apprezzabilità del danno economico cagionato dall'A. a causa della ripetuta assenza dal luogo di lavoro, non rilevando in senso contrario che la porzione della retribuzione illecitamente conseguita in difetto di prestazione lavorativa non sia di rilevante entità.
In proposito va infatti ritenuto che anche l'indebita percezione di poche centinaia di euro (perché di tanto si discute) costituisca un danno economicamente apprezzabile per l'amministrazione pubblica, atteso che apprezzabile non è sinonimo di rilevante, come sostanzialmente dimostra di credere il ricorrente (
Corte di Cassazione, Sez. V, penale, sentenza 18.03.2015 n. 11432).

ATTI AMMINISTRATIVIIl diritto d’accesso è collegato a una riforma di fondo dell'amministrazione, ispirata ai principi di democrazia partecipativa, della pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa (desumibili dall’art. 97 della Costituzione), che si inserisce a livello comunitario nel più generale diritto all’informazione dei cittadini rispetto all’organizzazione e alla attività soggettivamente amministrativa, quale strumento di prevenzione e contrasto sociale ad abusi ed illegalità degli apparati pubblici latamente intesi.
Qualora si chieda di accedere ad atti riguardanti lo status o comunque lo svolgimento della carriera di un dipendente della pubblica amministrazione, in linea di principio non sono configurabili controinteressati in senso tecnico (non potendosi ipotizzare alcuna lesione della loro sfera giuridica nel caso di ostensione degli atti), tranne i casi i cui siano chiesti atti concernenti loro dati sensibili.
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Deve escludersi che la titolarità del diritto d’accesso risieda soltanto in una situazione funzionale all’esercizio di un interesse giuridicamente protetto suscettibile di tutela giurisdizionale: la richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in via giudiziale, purché concreto ed attuale.
In altri termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante», che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a quella di «interesse all’impugnazione».

Per la giurisprudenza di questo Consiglio, il diritto d’accesso è collegato a una riforma di fondo dell'amministrazione, ispirata ai principi di democrazia partecipativa, della pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa (desumibili dall’art. 97 della Costituzione), che si inserisce a livello comunitario nel più generale diritto all’informazione dei cittadini rispetto all’organizzazione e alla attività soggettivamente amministrativa (Cons. St., Ad. Plen., 18.04.2006, n. 6), quale strumento di prevenzione e contrasto sociale ad abusi ed illegalità degli apparati pubblici latamente intesi.
Qualora si chieda di accedere ad atti riguardanti lo status o comunque lo svolgimento della carriera di un dipendente della pubblica amministrazione, in linea di principio non sono configurabili controinteressati in senso tecnico (non potendosi ipotizzare alcuna lesione della loro sfera giuridica nel caso di ostensione degli atti), tranne i casi i cui siano chiesti atti concernenti loro dati sensibili (per tutte, Sez. IV, 14.04.2010, n. 2093).
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Deve escludersi che la titolarità del diritto d’accesso risieda soltanto in una situazione funzionale all’esercizio di un interesse giuridicamente protetto suscettibile di tutela giurisdizionale: la richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in via giudiziale, purché concreto ed attuale (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 11.06.2012, n. 3398, nonché Consiglio di Stato, Ad. Plen. 24.04.2012, n. 7).
In altri termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante», che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a quella di «interesse all’impugnazione».
Nella specie, anche a prescindere dal richiamo nell’istanza all’art. 5 d.lgs. n. 33 del 2012, la pretesa dell’appellante risulta dunque fondata sulla base dell’art. 22 e ss. l. n. 241 del 1990.
Peraltro, si deve considerare sussistente anche uno specifico interesse che giustifica la richiesta di ostensione, poiché l’appellante ha titolo a verificare che chi sia subentrato nelle sue funzioni sia in possesso dei necessari requisiti, oltre a poter valutare se sia valido l’atto transattivo.
Per di più, nella specie l’istanza di accesso è stata proposta dopo l’insorgenza di vari contenziosi (presso il giudice del lavoro e il giudice amministrativo) riguardanti proprio l’attribuzione delle funzioni di comandante della polizia municipale, e anche la reintegrazione e la permanenza in servizio dell’appellante, sicché questi ha un evidente interesse a poter valutare globalmente le vicende accadute, per poter se del caso far valutare l’accaduto nelle sedi istituzionali previste dalla legge (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.03.2015 n. 1370 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. L'offensività della condotta non è esclusa dalla valutazione di compatibilità paesaggistica.
Riguardo agli abusi paesaggistici il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene protetto, in quanto la natura di reato di pericolo della violazione non richiede la causazione di un danno e la incidenza della condotta medesima sull'assetto del territorio non viene meno neppure qualora venga attestata, dall'amministrazione competente, la compatibilità paesaggistica dell'intervento eseguito.
1. Il ricorso è infondato.
La questione posta all'esame di questa Corte concerne, sostanzialmente, la valutazione in ordine alla concreta offensività della condotta posta in essere dal ricorrente in relazione alla natura e consistenza delle opere realizzate. Si tratta di argomento che questa Corte ha più volte affrontato, da ultimo, con una decisione, riguardante un procedimento trattato dalla medesima Corte territoriale cagliaritana, nella quale venivano richiamati numerosi precedenti giurisprudenziali e che merita di essere richiamata anche in questa occasione.
2. Nella sentenza (Sez. 3, n. 7343 del 04/02/2014, Lai, non massimata) si ricordava come, in precedenza, era stata ancora una volta ribadita la natura di reato di pericolo della violazione paesaggistica attraverso una disamina dei precedenti giurisprudenziali, che veniva, ancora una volta, riproposta (Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon, Rv. 254493).
Si ricordava, quindi, come si fosse già precisato (Sez. 3, n. 28227 del 08/06/2011, Verona, Rv. 250971) che il reato contemplato dall'articolo 181 d.lgs. 42/2004 è un reato formale e di pericolo che si perfeziona, indipendentemente dal danno arrecato al paesaggio, con la semplice esecuzione di interventi non autorizzati idonei ad incidere negativamente sull'originario assetto dei luoghi sottoposti a protezione (si richiamava, a tale proposito, anche Sez. 3, n. 2903 del 20/10/2009 (dep. 2010), Soverini, Rv. 245908 ed altre prec. conf.) e come sia di tutta evidenza, attesa la posizione di estremo rigore del legislatore in tema di tutela del paesaggio, che assume rilevo, ai fini delle configurabilità del reato contemplato dal menzionato articolo 181, ogni intervento astrattamente idoneo ad incidere, modificandolo, sull'originario assetto del territorio sottoposto a vincolo paesaggistico ed eseguito in assenza o in difformità della prescritta autorizzazione.
Si rammentava anche che l'individuazione della potenzialità lesiva di detti interventi deve essere effettuata mediante una valutazione ex ante, diretta quindi ad accertare non già se vi sia stato un danno al paesaggio ed  all'ambiente, bensì se il tipo di intervento fosse astrattamente idoneo a ledere il bene giuridico tutelato (v. ex pl. Sez. 3, n. 14461 del 07/02/2003, Carparelli, Rv. 224468; Sez. 3, n. 14457 del 06/02/2003, De Marzi, Rv. 224465; Sez. 3, n. 12863 del 13/02/2003, Abbate, Rv. 224896; Sez. 3, n. 10641 del 30/01/2003, Spinosa, Rv. 224355) e che, proprio per tali ragioni, è richiesta la preventiva valutazione da parte dell'ente preposto alla tutela del vincolo per ogni intervento, anche modesto e diverso da quelli contemplati dalla disciplina urbanistica ed edilizia.
Sulla base di tali considerazioni si giungeva, pertanto, ad affermare che il reato paesaggistico è configurabile anche se la condotta consiste nell'esecuzione di interventi senza autorizzazione i cui effetti, per il mero decorso del tempo e senza l'azione dell'uomo, siano venuti meno, restituendo ai luoghi l'originario assetto (Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon, Rv. 254493, cit.). Si è poi ribadito che la punibilità del reato in questione è esclusa solo nell'ipotesi di interventi di «minima entità», inidonei, già in astratto, a porre in pericolo il paesaggio, e a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale (Sez. 3, n. 39049 del 20/03/2013, Bortini, Rv. 256426).
Tali principi sono stati affermati anche con riferimento all'ipotesi delittuosa disciplinata dal medesimo art. 181 d.lgs. 42/2004 (Sez. 3, n. 34764 del 21/06/2011, Fanciulli, Rv. 251244).
Si osservava anche come questa Corte non abbia mancato neppure di prendere in esame, da ultimo nella decisione appena citata, l'incidenza del c.d. principio di offensività, già oggetto, in precedenza, di una compiuta analisi delle diverse posizioni dottrinarie e giurisprudenziali (Sez. 3, n. 2733 del 26/11/1999 (dep. 2000), P.M. in proc. Gajo, Rv. 215868; Sez. 3, n. 44161 del 23/10/2001, Zucchini, Rv. 220624) cui si rinviava, ricordando anche quanto osservato, in tema, dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 247 del 1997), secondo la quale anche per i reati ascritti alla categoria di quelli formali e di pericolo presunto od astratto è sempre devoluto al sindacato del giudice penale l'accertamento in concreto dell'offensività specifica della singola condotta, dal momento che, ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta e si verte in tema di reato impossibile, ex art. 49 cod. pen. (sentenza n. 360 del 1995).
Veniva precisato, sempre in tale occasione (Sez. 3, n. 34764 del 21/06/2011, Fanciulli, Rv. 251244, cit.), che il principio di offensività deve essere considerato non tanto sulla base di un concreto apprezzamento di un danno ambientale, quanto, piuttosto, per l'attitudine della condotta a porre in pericolo il bene protetto (affermazione peraltro successivamente ribadita in Sez. 3, n. 13736 del 26/2/2013, Manzella, Rv. 254762 e, precedentemente, formulata in Sez. 3, n. 2903 del 20/10/2009 (dep. 2010), Soverini, Rv. 245908).
Veniva preso in considerazione anche il rilievo assunto, ai fini della valutazione della offensività della condotta, da eventuali valutazioni postume di compatibilità paesaggistica delle opere abusivamente realizzate,  escludendone ogni efficacia.
Osservando, infatti, che il reato si perfeziona con il porre in essere interventi in zone vincolate senza il controllo e la autorizzazione amministrativa indipendentemente dal risultato sulle bellezze naturali, si è ritenuto irrilevante, ai fini del perfezionamento della fattispecie, la mancanza di danno ambientale attestata dalle autorità competenti alla tutela del vincolo (Sez. 3, n. 10463 del 25/01/2005, Di Cesare, Rv. 231247).
Si era inoltre argomentato, in precedenza, che il riferimento al criterio di concreta offensività può essere accettato, nelle ipotesi in esame, soltanto in ambiti estremamente marginali, riguardanti casi in cui l'assenza di pericolo di lesione del bene tutelato sia verificabile ictu oculi e, quindi, al di là di ogni  ragionevole dubbio, con la conseguenza che non può ammettersi, per l'evidente incompatibilità con la rigorosa disciplina di settore, il riconoscimento della inoffensività, in concreto, di una nuova opera, che, indipendentemente dalle dimensioni, per il solo fatto di essere introdotta in un paesaggio rigorosamente tutelato nella sua integrità, ne determina inevitabilmente una modifica e, quindi, un «pericolo di alterazione», pericolo che, con riferimento alla sua sussistenza, al momento della consumazione dell'abuso, non può ritenersi vanificato da successiva autorizzazione in sanatoria.
Si rilevava, poi, come sia lo stesso tenore delle disposizioni che disciplinano la verifica della compatibilità paesaggistica a confermare l'esattezza di tali conclusioni, perché l'articolo 146, comma 4, d.lgs. 152/2006 stabilisce che l'autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, anche se, con riferimento ai cosiddetti abusi minori, la valutazione di compatibilità paesaggistica effettuata ai sensi dell'art. 167, commi 4 e 5, impedisce l'applicazione della sola sanzione penale, restando ferma, come disposto dall'art. 181, comma 1-ter, d.lgs. 42/2004, l'applicazione delle misure amministrative pecuniarie previste dall'articolo 167.
Tale ultima disposizione stabilisce, in particolare, al comma 5, che nel caso in cui venga accertata la compatibilità paesaggistica dell'intervento, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato ed il profitto conseguito mediante la trasgressione, il cui ammontare è determinato previa perizia di stima.
Si osservava, quindi, che la procedura di verifica postuma della compatibilità paesaggistica dell'intervento è limitata a casi del tutto marginali, riguardando le ipotesi di lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione  paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi, ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica e lavori configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Essa inoltre non esclude, neppure in questi casi, caratterizzati da un impatto sensibilmente più modesto sull'assetto del territorio vincolato, l'applicazione di sanzioni amministrative e, sopratutto, non consente di ritenere, per il solo fatto del riconoscimento di compatibilità paesaggistica, sempre in tali limitati casi, l'inoffensività della condotta posta in essere, atteso che, come si è appena detto, la determinazione delle somme da pagare tiene conto del «danno arrecato» mediante la trasgressione.
3. Date tali premesse, il Collegio riconosceva i principi richiamati come pienamente condivisibili, affermando il principio secondo il quale
riguardo agli abusi paesaggistici il principio di offensività opera in relazione alla attitudine della condotta posta in essere ad arrecare pregiudizio al bene protetto, in quanto la natura di reato di pericolo della violazione non richiede la causazione di un danno e la incidenza della condotta medesima sull'assetto del territorio non viene meno neppure qualora venga attestata, dall'amministrazione competente, la compatibilità paesaggistica dell'intervento eseguito.
Si tratta, ad avviso del Collegio, di considerazioni che vanno ribadite anche in questa occasione, non essendovi ragione alcuna per discostarsi da un orientamento che può dirsi ormai consolidato.
4. Ciò posto, deve rilevarsi come, avuto riguardo alla consistenza delle opere come descritta nell'imputazione, la decisione della Corte territoriale appare perfettamente in linea con i principi richiamati. Nella realizzazione degli interventi, secondo quanto accertato in fatto dai giudici del merito, è mancata la necessaria, preventiva valutazione delle autorità preposte alla tutela del vincolo ed il conseguente rilascio della prescritta autorizzazione.
Le opere, consistenti nel posizionamento di alcuni manufatti in difformità dal progetto e nella installazione di 66 vetrate su una spiaggia soggetta a vincolo specifico, non possono certo dirsi inidonee ad incedere negativamente sull'assetto originario dei luoghi.
Va rilevato, a tale proposito, che risulta indifferente la classificazione dell'intervento secondo la disciplina urbanistica, suggerita dal ricorrente, poiché, in ogni caso, anche per le opere assentibili mediante d.i.a. (ora s.c.i.a.), eseguite su area sottoposta a vincolo paesaggistico, è comunque richiesta la preventiva autorizzazione della competente autorità, come disposto dall'art. 22, comma 6, d.P.R. 380/2001, autorizzazione che, nella fattispecie, non era stata rilasciata.
5. Parimenti, la stessa descrizione delle opere porta ad escludere la loro riconducibilità entro l'ambito di efficacia dell'art. 149, lettera a), del d.lgs. 42/2004 (risultando comunque non applicabili le disposizioni di cui alle lettere b) e c) del medesimo articolo, in ragione della tipologia e collocazione degli interventi). La disposizione appena richiamata esclude, infatti, la necessità dell'autorizzazione paesaggistica per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici.
È di tutta evidenza che l'installazione delle vetrate così come accertata nel giudizio di merito possa collocarsi tra quegli interventi inidonei a porre in pericolo l'integrità del paesaggio, costituendo, al contrario, come correttamente rilevato dai giudici dell'appello, una modifica di sicura incidenza.
6. La Corte territoriale ha, infatti, dato atto di alcuni elementi fattuali che assumono significativo rilievo ai fini della valutazione di incidenza delle opere sull'assetto del paesaggio.
Osservano infatti i giudici del merito che le vetrate sono sostenute da intelaiature fisse di colore bianco aventi grande visibilità, cui si aggiunge quello che viene definito come «effetto specchio», dovuto al riflesso della luce solare sulle vetrate.
Si tratta, ad avviso del Collegio, di considerazioni del tutto pertinenti, che evidenziano una concreta offensività dell'intervento, poiché la collocazione delle vetrate su telai, con o senza l'ulteriore effetto prodotto dal riflesso della luce, è certamente idonea ad alterare, quanto meno, la visione panoramica d'insieme dell'area tutelata con il suo parziale occultamento o, comunque, con la modifica degli originali profili.
Né assume rilievo, quale circostanza atta ad escludere la necessità della preventiva autorizzazione dell'intervento o la negativa incidenza dello stesso sul paesaggio, la eventuale amovibilità delle strutture, cui pure fa cenno il ricorrente, considerato che questa Corte ha avuto già modo di rilevare come il reato paesaggistico sia integrato anche dalla realizzazione di manufatti precari e facilmente amovibili (Sez. 3, n. 38525 del 25/09/2012, Gruosso, Rv. 253690)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.03.2015 n. 11048 - massima tratta da www.lexambiente.it).

APPALTI SERVIZI: La giurisprudenza, sia nazionale che comunitaria, ha ritenuto che può essere consentito l'affidamento ad una società mista che sia costituita appositamente per l'erogazione di uno o più servizi determinati, da rendere almeno in via prevalente a favore dell'autorità pubblica che procede alla costituzione, attraverso una gara che miri non soltanto alla scelta del socio privato, ma anche -tramite la definizione dello specifico servizio da svolgere in partenariato con l'amministrazione e delle modalità di collaborazione con essa- allo stesso affidamento dell'attività da svolgere e che limiti, nel tempo, il rapporto di partenariato, prevedendo allo scadere una nuova gara.
In sostanza, l'affidamento di un servizio ad una società mista è ritenuto ammissibile a condizione che si sia svolta una unica gara per la scelta del socio e l'individuazione del determinato servizio da svolgere (delimitato in sede di gara sia temporalmente che con riferimento all'oggetto). Deve cioè essersi trattato di una gara a “doppio oggetto”, in cui le prestazioni relative ai servizi da svolgere siano state concretamente, precisamente, temporalmente ed oggettivamente specificate.
Non è consentito invece l’affidamento di servizi a una società mista “generalista” o la cui “missione” sia generica, indeterminata o costituita per l’attribuzione di compiti o servizi non ancora precisamente identificati nelle loro caratteristiche e durata al momento della scelta del socio privato, ancorché selezionato con pubblica gara. Tali principi oltre ad aver trovato conferma in sede interna sono poi stati affermati anche dalla giurisprudenza comunitaria.
La Corte di Giustizia ha, infatti, ritenuto l'ammissibilità dell'affidamento di servizi a società miste, a condizione che si svolga in unico contesto una gara avente ad oggetto la scelta del socio privato (socio non solo azionista, ma soprattutto operativo) e l'affidamento del servizio già predeterminato con obbligo della società mista di mantenere lo stesso oggetto sociale durante l'intera durata della concessione.

Ebbene, la giurisprudenza, sia nazionale che comunitaria, ha ritenuto che può essere consentito l'affidamento ad una società mista che sia costituita appositamente per l'erogazione di uno o più servizi determinati, da rendere almeno in via prevalente a favore dell'autorità pubblica che procede alla costituzione, attraverso una gara che miri non soltanto alla scelta del socio privato, ma anche -tramite la definizione dello specifico servizio da svolgere in partenariato con l'amministrazione e delle modalità di collaborazione con essa- allo stesso affidamento dell'attività da svolgere e che limiti, nel tempo, il rapporto di partenariato, prevedendo allo scadere una nuova gara.
In sostanza, l'affidamento di un servizio ad una società mista è ritenuto ammissibile a condizione che si sia svolta una unica gara per la scelta del socio e l'individuazione del determinato servizio da svolgere (delimitato in sede di gara sia temporalmente che con riferimento all'oggetto). Deve cioè essersi trattato di una gara a “doppio oggetto”, in cui le prestazioni relative ai servizi da svolgere siano state concretamente, precisamente, temporalmente ed oggettivamente specificate (v. Consiglio di Stato, V, 30/09/2010, n. 7214; V, 23/10/2007, n. 5587; VI, 23/09/2008, n. 4603; V, 13/02/2009, n. 824; v. anche Co. Cost. n. 199/2014 e TAR Lazio, RM n. 8442/2011).
Non è consentito invece l’affidamento di servizi a una società mista “generalista” o la cui “missione” sia generica, indeterminata o costituita per l’attribuzione di compiti o servizi non ancora precisamente identificati nelle loro caratteristiche e durata al momento della scelta del socio privato, ancorché selezionato con pubblica gara. Tali principi oltre ad aver trovato conferma in sede interna (v. ancora Cons. Stato, VI, 16.03.2009 n. 1555) sono poi stati affermati anche dalla giurisprudenza comunitaria (Corte Giustizia, sez. III, 15.10.2009, C-196/2008).
La Corte di Giustizia ha, infatti, ritenuto l'ammissibilità dell'affidamento di servizi a società miste, a condizione che si svolga in unico contesto una gara avente ad oggetto la scelta del socio privato (socio non solo azionista, ma soprattutto operativo) e l'affidamento del servizio già predeterminato con obbligo della società mista di mantenere lo stesso oggetto sociale durante l'intera durata della concessione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 11.03.2015 n. 4010 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il Consiglio di Stato solleva la seguente questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE (ex art. 234 del TCE), in relazione all’interpretazione della normativa comunitaria: «se l’art. 45 della direttiva 18/2004, letto anche alla luce del principio di ragionevolezza, nonché gli artt. 49, 56 del TFUE, ostino ad una normativa nazionale che, nell’ambito di una procedura d’appalto sopra soglia, consenta la richiesta d’ufficio della certificazione formata dagli istituti previdenziali (DURC) ed obblighi la stazione appaltante a considerare ostativa una certificazione dalla quale si evince una violazione contributiva pregressa ed in particolare sussistente al momento della partecipazione, tuttavia non conosciuta dall’operatore economico -il quale ha partecipato in forza di un DURC positivo in corso di validità- e comunque non più sussistente al momento dell’aggiudicazione o della verifica d’ufficio».
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DIRITTO
A - Il diritto dell’Unione:
La direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU L 134, pag. 114), quale modificata dal regolamento (CE) n. 1177/2009 della Commissione, del 30.11.2009, prevede, all’art. 45, i criteri di selezione qualitativa relativi alla situazione personale del candidato o dell’offerente. Secondo i paragrafi 2 e 3 di tale articolo: «Può essere escluso dalla partecipazione all’appalto ogni operatore economico:
(...)
e) che non sia in regola con gli obblighi relativi al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali secondo la legislazione del paese dove è stabilito o del paese dell’amministrazione aggiudicatrice;
f) che non sia in regola con gli obblighi relativi al pagamento delle imposte e delle tasse secondo la legislazione del paese dove è stabilito o del paese dell’amministrazione aggiudicatrice;
(...)
Gli Stati membri precisano, conformemente al rispettivo diritto nazionale e nel rispetto del diritto comunitario, le condizioni di applicazione del presente paragrafo».
3. Le amministrazioni aggiudicatrici accettano come prova sufficiente che attesta che l'operatore economico non si trova in nessuna delle situazioni di cui al paragrafo 1 e al paragrafo 2, lettere a), b), c), e) e f) quanto segue: (…) b) per i casi di cui al paragrafo 2, lettere e) o f), un certificato rilasciato dall'autorità competente dello Stato membro in questione.
Qualora non siano rilasciati dal paese in questione o non menzionino tutti i casi previsti al paragrafo 1 e al paragrafo 2, lettere a), b) o c), i documenti o i certificati possono essere sostituiti da una dichiarazione giurata ovvero, negli Stati membri in cui non esiste siffatta dichiarazione, da una dichiarazione solenne resa dalla persona interessata innanzi a un'autorità giudiziaria o amministrativa competente, a un notaio o a un organismo professionale qualificato del paese d'origine o di provenienza
”.
B - Il diritto italiano:
Il decreto legislativo n. 163, che istituisce il Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, del 12.04.2006 (supplemento ordinario alla GURI n. 100, del 02.05.2006), disciplina in Italia, nel loro complesso, le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici nei settori delle forniture, dei lavori e dei servizi, e contiene, nella sua parte II, l’articolo 38, che stabilisce i requisiti di ordine generale per la partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi. L’articolo 38, paragrafo 1, lettera i), di tale decreto così dispone: «1. Sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti:
(...)
i) che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti
».
L’articolo 38, paragrafo 2, di detto decreto legislativo definisce il criterio di gravità delle violazioni delle norme in materia di versamento di contributi agli organismi di previdenza sociale. Esso prevede, in sostanza, che ai fini dell’articolo 38, paragrafo 1, lettera i), del medesimo decreto legislativo, si intendono gravi le violazioni ostative al rilascio del documento unico di regolarità contributiva (in prosieguo: il «DURC»).
Le infrazioni ostative al rilascio del DURC, sono state definite da un Decreto del ministero del lavoro e della previdenza sociale che disciplina il documento unico di regolarità contributiva, del 24.10.2007 (GURI n. 279, del 30.11.2007, pag. 11). Ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 3, di tale decreto ministeriale: «Ai soli fini della partecipazione a gare di appalto non osta al rilascio del DURC uno scostamento non grave tra le somme dovute e quelle versate, con riferimento a ciascun Istituto previdenziale ed a ciascuna Cassa edile. Non si considera grave lo scostamento inferiore o pari al 5% tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione o, comunque, uno scostamento inferiore ad € 100,00, fermo restando l’obbligo di versamento del predetto importo entro i trenta giorni successivi al rilascio del DURC».
Il DURC rilasciato all’impresa ha validità trimestrale.
Ai sensi dell’art. 7, comma 3, di detto D.M., è inoltre previsto che in caso di mancanza dei requisiti di regolarità contributiva, gli Enti interessati prima di rilasciare un DURC negativo “invitano l’interessato a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni”.
Anche il d.l. n. 69 del 2013, convertito, con modificazioni, in l. n. 98 del 2013, all’art. 31, comma 8, ribadisce che “Ai fini della verifica per il rilascio del documento unico di regolarità contributiva (DURC), in caso di mancanza dei requisiti per il rilascio di tale documento gli Enti preposti al rilascio, prima dell’emissione del DURC o dell’annullamento del documento già rilasciato, invitano l’interessato, mediante posta elettronica certificata o con lo stesso mezzo per il tramite del consulente del lavoro ovvero degli altri soggetti di cui all’articolo 1 della legge 11.01.1979, n. 12, a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le cause della irregolarità”.
C – Il quadro giurisprudenziale interno:
A fronte di tale normativa, la giurisprudenza nazionale:
a) ha ritenuto ormai sottratta, alla valutazione dell’amministrazione ogni valutazione circa la gravità o la definitività dell’inadempimento contributivo dell’operatore economico, in quanto predefinita dalla legge e certificata esclusivamente dall’Istituto previdenziale a mezzo di DURC richiesto dalla stazione appaltante in sede di verifica. (Adunanza Plenaria n. 8/2012, ma anche n. 20/2013);
b) ha chiarito che il requisito della regolarità contributiva (così come quello della regolarità fiscale) deve sussistere dal momento della presentazione della domanda di partecipazione alla procedura e permanere per tutta la durata della gara, sicché resta irrilevante un eventuale adempimento tardivo (sul punto la giurisprudenza nazionale è consolidata; si considerino: Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1458; Cons. Stato, sez. V, 10.08.2010, n. 5556; Cons. Stato, sez. IV, 15.09.2010, n. 6907; Cons. Stato, sez. V, 12.10.2011, n. 5531);
c) ha ulteriormente chiarito che l’invito alla regolarizzazione (cd. preavviso di DURC negativo) non si applica in caso di DURC richiesto dalla stazione appaltante, atteso che, l'obbligo dell'INPS di attivare la procedura di regolarizzazione prevista dall'art. 7, comma 3, del D.M. 24.10.2007 si scontra con i principi in tema dì procedure di evidenza pubblica che, come detto, non ammettono regolarizzazioni postume (o, detto diversamente, l’eventuale regolarizzazione postuma non sarebbe comunque idonea ad elidere il dato dell’irregolarità alla data di presentazione dell’offerta) (Cfr. Consiglio di Stato, IV, 12.03.2009 n. 1458; VI, 11.08.2009, n. 4928; 06.04.2010, n. 1934; 05.07.2010, n. 4243; sez. V, 16.09.2011, n. 5194; incidentalmente, anche Adunanza Plenaria, 20/2013; si registra tuttavia una recentissima decisione della V Sezione che, mossa da esigenze equitative, afferma l’obbligo degli Istituti previdenziali di invitare l’interessato alla regolarizzazione anche in occasione della richiesta da parte della stazione appaltante (Cfr. Sezione V, 14.10.2014, n. 5064), e tuttavia, anche una simile ed ancora isolata esegesi del dato normativo, non è in grado di eliminare la valenza ostativa dell’irregolarità storicamente sussistente (l’eventuale regolarizzazione sarebbe cioè sempre postuma, in violazione dei principi generali sopra enunciati).
D- I dubbi della Sezione:
L’ordinamento italiano oggi ammette che un impresa semplicemente in ritardo nel pagamento di un pur modesto debito contributivo al tempo della scadenza del termine per la presentazione della domanda, sia automaticamente ed inderogabilmente esclusa dalla procedura, anche se l’irregolarità è stata subito dopo sanata ed è quindi insussistente al momento dell’aggiudicazione, o è comunque tale da non configurare profili dolosi o colposi che possano considerarsi plausibile indice di inaffidabilità o immoralità.
La stazione appaltante deve cioè limitarsi a fotografare la situazione in un dato momento storico, in particolare coincidente con il momento di scadenza del termine per l’offerta, e ove a quella data risulti un debito contributivo superiore ad €. 100,00, deve escludere l’impresa: non importa se quest’ultima era a conoscenza dell’irregolarità a quel tempo, se vi fossero i termini per una contestazione nella sede giudiziaria, se il contributo si è ex post rilevato non dovuto, etc. La “fotografia” scattata dall’istituto previdenziale al tempo della partecipazione, vincola la stazione appaltante ad escludere l’offerente se da esse emerge una irregolarità, persino ove quest’ultima non sia più attuale, e non sia oggettivamente idonea ad inficiare o compromettere l’affidabilità e la correttezza dell’impresa.
L’effetto è che a causa di siffatte irregolarità (esistenti solo sul piano storico e non più significative all’attualità), la stazione appaltante finisce per privarsi della migliore offerta sul piano del prezzo o del rapporto qualità prezzo, ed è vincolata ad aggiudicare l’appalto -e la connessa occasione economica- all’impresa che segue in graduatoria, con ciò:
a) sprecando risorse economiche, o meglio, non cogliendo occasioni di possibile risparmio, in violazione dei più generali principi di economicità che hanno da sempre ispirato la legislazione italiana ed in particolare la legge di contabilità di Stato, ben prima del coordinamento comunitario;
b) attribuendo l’occasione di guadagno -in violazione del principio di concorrenza nella sua pura accezione economica- non già all’imprenditore che ha formulato la migliore delle offerte in termini di prezzo o di qualità/prezzo, bensì a quello che, pur avendo offerto un prezzo più alto o una qualità più bassa, ha avuto l’accortezza di verificare per tempo la posizione contributiva propria e dei suoi partner commerciali, eventualmente regolarizzandola prima della partecipazione alla gara.
Quest’ultimo considerazione è la prova dell’esistenza di un paradosso nell’ordinamento italiano: una violazione od una serie di violazioni gravissime -in tesi idonee a minare l’affidabilità dell’impresa e la prognosi circa la sua futura condotta- purché sanate prima della presentazione della domanda, non hanno alcun rilievo o conseguenza rispetto alla procedura di gara ed alla valutazioni della stazione appaltante in punto di affidabilità e correttezza del futuro contraente; una piccola ed unica violazione, od un semplice ritardo, comunque regolarizzato prima dell’aggiudicazione, ma dopo la presentazione dell’offerta, mina l’affidabilità dell’impresa al punto da imporne ineluttabilmente l’esclusione.
In conclusione, l’attuale normativa italiana impone all’amministrazione di rinunciare alla migliore offerta, e correlativamente impedisce al migliore offerente di accedere all’aggiudicazione, anche ove oggettivamente non possa mettersi in dubbio, avuto riguardo alla storia dell’imprenditore ed ai suoi comportamenti passati, nonché alla peculiarità ed incolpevolezza della temporanea irregolarità rilevata, che egli sia un imprenditore corretto ed affidabile. Viceversa, consente l’aggiudicazione ad un imprenditore che ha sempre manifestato irregolarità ed inadempienze, purché egli al momento dell’offerta si sia “messo in regola” con i requisiti previsti dal DM 24.10.2007.
Del resto, lo Stato italiano, attraverso il complesso delle norme citate, ha inibito alle stazioni appaltanti l’autonoma ponderazione del caso concreto, ritenendo, implicitamente, che la descritta valutazione legale di “irregolarità” operante nell’ambito e per tutta la procedura di evidenza pubblica, sia garanzia di parità di trattamento tra i diversi operatori economici partecipanti alla gara.
In realtà, è opinione del collegio che il combinato disposto di tali norme, nell’interpretazione che ne fornisce la giurisprudenza nazionale, potrebbe porsi in contrasto con il diritto dell’Unione, sotto diversi profili:
  
1) Possibile contrasto con l’art. 45 della direttiva 18/2004. L’art. 45 individua, al paragrafo 1, alcune ipotesi che devono necessariamente comportare l’esclusione, nonché al paragrafo 2, alcune altre, e meno allarmanti ipotesi che “possono” comportare l’esclusione. Le differenze tra le due fattispecie sono rilevantissime. Nell’ipotesi di esclusione obbligatoria di cui al par. 1, le stazioni appaltanti “qualora abbiano dubbi sulla situazione personale di tali candidati/offerenti, possono rivolgersi alle autorità competenti per ottenere le informazioni relative alla situazione personale dei candidati o offerenti che reputino necessarie” e “se le informazioni riguardano un candidato o un offerente stabilito in uno Stato membro diverso da quello dell'amministrazione aggiudicatrice, quest'ultima può richiedere la cooperazione delle autorità competenti”.
Diversamente, nelle minori ipotesi di cui al comma 2 “Le amministrazioni aggiudicatrici accettano come prova sufficiente che attesta che l'operatore economico non si trova in nessuna delle situazioni di cui al (….) paragrafo 2 (….) un certificato rilasciato dall'autorità competente dello Stato membro in questione”. Ed ancora “Qualora non siano rilasciati dal paese in questione o non menzionino tutti i casi previsti (…) al paragrafo 2, lettere a), b) o c), i documenti o i certificati possono essere sostituiti da una dichiarazione giurata (….)”.
Riepilogando, ove ricorrano cause di obbligatoria esclusione è consentita la verifica d’ufficio, e per le imprese straniere non è ammessa alcuna dichiarazione giurata; ove ricorrano cause di facoltativa esclusione, non è consentita la verifica d’ufficio, dovendo le stazioni appaltanti limitarsi ad “accettare” le certificazioni prodotte dai partecipanti; per le imprese straniere è invece ammessa la dichiarazione giurata.
Ciò significa, con riguardo all’ipotesi dell’esclusione facoltativa che in questa sede rileva, che le stazioni appaltanti, a mente della direttiva 18/2004, e contrariamente a quanto previsto dall’ordinamento italiano: 1) non possono richiedere esse stesse il DURC in luogo dell’operatore interessato, dando così dirimente rilievo alla irregolarità storica non più sussistente, ma possono al più pretendere che il candidato alleghi all’atto della domanda il DURC in corso di validità, ovvero che lo produca prima dell’aggiudicazione (questo il senso della locuzione “le amministrazioni accettano come prova sufficiente..…”. Questa, nell’ordinamento italiano, non è questione di mero dettaglio poiché, l’aver previsto una richiesta d’ufficio del DURC, e l’avere posto a base dell’obbligatoria esclusione il certificato negativo acquisito d’ufficio in relazione a date pregresse (ossia la data di partecipazione), ha consentito che potessero emergere inadempienze contributive, non conosciute dall’operatore economico (il quale fa affidamento sulla validità trimestrale del DURC positivo ad egli rilasciato) o addirittura, come nel caso di specie, medio tempore sanate.
Se invece le stazioni appaltanti si limitassero ad “accettare” l’allegazione del DURC da parte dei concorrenti –così come previsto dalla direttiva- una tale anomalia non verrebbe mai in rilievo, atteso che, anche ove sopravvenissero ipotesi di inadempienza contributiva, gli istituti previdenziali, ai sensi dell’art. 7 del DM 24.10.2007, avrebbero l’obbligo di preavvisare il richiedente, dandogli possibilità di regolarizzazione nei successivi 15 giorni. Ergo, se l’operatore economico regolarizza la sua posizione, otterrà e potrà produrre una certificazione nuovamente positiva e non ostativa. L’inadempienza solo “storica” non avrebbe cioè modo di venire in rilievo, ad eccezione dei casi in cui il concorrente si rifiuti di regolarizzare. In conclusione, l’avere previsto una sistema che richiede sempre il controllo d’ufficio e storico della regolarità contributiva, senza possibilità di regolarizzazione in corso di gara, contrasta con la ratio ed il tenore dell’art. 45.
E’ noto l’orientamento della Corte secondo il quale, “quanto al termine entro cui gli interessati debbono avere assolto agli obblighi tributari previsti e stabiliti dagli ordinamenti interni, esso può essere individuato dalla data di presentazione delle domande di partecipazione fino al momento che precede l'aggiudicazione dell'appalto, coincidente, a sua volta con: a) la data limite per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara; b) la data di spedizione della lettera di invito a presentare un'offerta; c) la data limite della presentazione delle offerte dei candidati; d) la data di valutazione delle offerte da parte dell'amministrazione aggiudicatrice; e) il momento che precede immediatamente l'aggiudicazione dell'appalto”, purché in ossequio ai principi di trasparenza e di parità di trattamento, tale termine sia “determinato con certezza assoluta e reso pubblico” (Cfr. CdG, 09.02.2006).
Nel caso di specie, tuttavia, non è in discussione il termine (in particolare coincidente con la data di partecipazione) ma le modalità di prova della regolarità contributiva, nonché la certezza e la ragionevolezza del sistema di verifica, poiché da un lato il DURC positivo è ritenuto dirimente ai fini della valida partecipazione, ma dall’altro l’ordinamento non si accontenta dei contenuti del DURC in possesso dell’impresa ed ancora in corso di validità, e pretende il riscontro storico in ordine ad eventuali inadempienze alla data della partecipazione, senza possibilità di regolarizzazione.
  
2) V’è un’ulteriore possibile violazione del principio di concorrenza, ove letto alla luce dell’art. 45 della direttiva 18/2004: come già detto, l’art. 45 prevede che “può essere escluso dalla partecipazione all'appalto ogni operatore economico: (….)che non sia in regola con gli obblighi relativi al pagamento dei contributi previdenziali”.
La formulazione della regola sembra presupporre la dimensione attuale dell’irregolarità: essa cioè deve sussistere al momento dell’esclusione, senza che possa rilevare una semplice violazione o ritardo non più attuale. Non potrebbe pertanto, ai sensi della norma, essere escluso il soggetto che al momento della verifica, od anche al momento dell’esclusione risulta essere in regola. In altre parole, la violazione o il ritardo registratosi in un momento pregresso rispetto alla verifica o all’esclusione non dovrebbe essere considerato comportamento rilevante ai sensi dell’art. 45, se esso non sussiste più al momento della verifica.
L’avere, l’ordinamento italiano dato dirimente rilievo all’inadempimento storico e non più attuale, potrebbe piuttosto avere il senso di valutare l’affidabilità e la serietà dell’operatore economico alla luce del comportamento anche passato. Se è questa la ratio delle norme italiane, allora non v’è dubbio che si tratti di disposizioni che, incrementando le possibilità di esclusione, hanno come effetto quello di ridurre la possibilità di utile partecipazione, e con esse le potenzialità del principio di concorrenza.
Il collegio non sconosce il recente orientamento della Corte secondo il quale l’interesse fiscale e contributivo può giustificare restrizione del principio di concorrenza ai sensi degli articoli 49 TFUE e 56 TFUE, sempre che sia rispettato il principio di proporzionalità; e che, in particolare, il principio di proporzionalità non osta ad una normativa nazionale che obblighi l’amministrazione aggiudicatrice ad escludere dalla procedura di aggiudicazione di un tale appalto un offerente responsabile di un’infrazione in materia di versamento di prestazioni previdenziali se lo scostamento tra le somme dovute e quelle versate è di un importo superiore, al contempo, a EUR 100 e al 5% delle somme dovute (Cfr. CGUE, 10.07.2014, n. C-358/12).
Tuttavia, la pronuncia non tiene conto delle peculiarità ordina mentali, sopra segnalate, a mente delle quali l’esclusione è conseguenza ineluttabile della singola inadempienza, finanche quando l’operatore economico: a) sia in possesso di un DURC positivo in corso di validità; b) non abbia avuto alcuna segnalazione della sopravvenuta irregolarità; c) abbia in ogni caso regolarizzato la sua posizione prima dell’aggiudicazione e delle verifiche.
Questa, del resto, la chiara opzione della recente direttiva UE n. 24 del 26.02.2014 sugli appalti pubblici, che abroga la direttiva 2004/18/CE, la quale oggi espressamente chiarisce che l’esclusione per irregolarità contributiva “non è più applicabile quando l’operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe” (art. 57 comma 2)
  
3) Più in generale, la Sezione rileva un possibile contrasto con il principio di concorrenza di cui agli artt. 49 TFUE e 56 TFUE. Risulta dalla giurisprudenza costante della Corte di Giustizia che tali articoli ostano a ogni misura nazionale che, anche applicabile senza discriminazione relativa alla nazionalità, sia in grado di vietare, di ostacolare o di rendere meno attraente l’esercizio, da parte di cittadini dell’Unione europea, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi garantite da dette disposizioni del Trattato (v., segnatamente, sentenza Serrantoni e Consorzio stabile edili, C 376/08, EU:C:2009:808, punto 41).
Nel caso di specie, l’ordinamento italiano punta ad assicurare il principio di concorrenza attraverso l’applicazione del principio, strumentale rispetto al primo, di pari trattamento endoconcorsuale. Il principio di concorrenza non dovrebbe tuttavia limitarsi alla meccanica parità di trattamento procedimentale, ma dovrebbe consentire la più ampia ed utile partecipazione delle imprese interessate, consentendo alle stesse di dimostrare, all’atto della presentazione della propria candidatura, la serietà ed affidabilità che ha caratterizzato il proprio comportamento fiscale e contributivo, salva in ogni caso la verifica, in regime di piena trasparenza ed in contraddittorio con gli altri aspiranti, da parte del committente pubblico.
L’autonomia valutativa della stazione, ineliminabile al fine di comprendere e decidere in aderenza al caso concreto, non dovrebbe essere a priori stigmatizzata come fonte di arbitrarie scelte ed abusi –come il legislatore lascia implicitamente intendere- ma piuttosto disciplinata ed organizzata in modo da essere sempre informata ai principi di ragionevolezza e proporzionalità, oltre che di trasparenza nel procedimento e correttezza nel metodo, sindacabili dall’autorità giudiziaria. Così intesa essa porrebbe il committente pubblico in grado di “ragionare” e di comportarsi come un operatore economico dotato di razionalità economica, sia pur illuminato da principi e criteri a salvaguardia della trasparenza o di altri interessi pubblici rilevanti. L’avere eliminato l’autonomia valutativa, potrebbe avere minato la sostanza economica del principio di concorrenza.
Del resto, tale impostazione, già in nuce presente nella direttiva 18/2004, sembra essere sviluppata ed esplicitata proprio dal legislatore dell’Unione, il quale al considerando n. 101 della direttiva 24/2014 ritiene che “nell’applicare motivi di esclusione facoltativi, le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero prestare particolare attenzione al principio di proporzionalità”, nonché all’art. 57, comma 6, della medesima direttiva espressamente prevede che “un operatore economico che si trovi in una delle situazioni di cui ai paragrafi 1 e 4 (ndr situazioni che determinerebbero l’esclusione) può fornire prove del fatto che le misure da lui adottate sono sufficienti a dimostrare la sua affidabilità nonostante l’esistenza di un pertinente motivo di esclusione. Se tali prove sono ritenute sufficienti, l’operatore economico in questione non è escluso dalla procedura d’appalto”.
  
4) Ulteriore possibile violazione del principio di concorrenza. Il complesso delle norme italiane sopra analiticamente indicate consente alla stazione appaltante di interrogare d’ufficio gli istituti previdenziali in relazione alla “regolarità” contributiva alla data (pregressa) di partecipazione, ed ove dalla certificazione segnali l’esistenza di un debito contributivo superiore ad €. 100,00, impone l’esclusione, senza possibilità alcuna di sanatoria. Per le imprese di altri Stati dell’Unione, la stazione appaltante deve, invece, ai sensi dei comma 4 e 5 dell’art. 38 cit., chiedere se del caso ai candidati o ai concorrenti di fornire i necessari documenti probatori (…..) Se nessun documento o certificato è rilasciato da altro Stato dell'Unione europea, costituisce prova sufficiente una dichiarazione giurata, ovvero, negli Stati membri in cui non esiste siffatta dichiarazione, una dichiarazione resa dall'interessato innanzi a un'autorità giudiziaria o amministrativa competente, a un notaio o a un organismo professionale qualificato a riceverla del Paese di origine o di provenienza”.
Nei fatti, la circostanza che trova più frequente applicazione è il comma 5 dell’art. 38, con conseguente sufficienza di una “dichiarazione giurata” dell’imprenditore di altro Stato membro (è quanto mai difficile che le basi dati degli istituti previdenziali di altri Stati membri siano organizzate nello stesso modo di quelle italiane, si da poter soddisfare tutte le condizioni di dettaglio previste dagli artt. 5 e 8 del D.M. 24.10.2007, per giunta ad una data anteriore rispetto a quella della richiesta) che è così “favorito”, rispetto all’imprenditore italiano, in una logica di “discriminazione alla rovescia”.
Il Collegio è consapevole che il principio di non discriminazione non è tale da ricomprendere i casi in cui v’è uno sfavore per l’operatore interno, piuttosto che per quello esterno, tuttavia, a venire in rilievo in questo caso è il principio di concorrenza, il quale pretende che tutti gli operatori economici abbiano parità di chance quanto il committente abbia natura pubblica.
- In definitiva, ai fini della decisione del ricorso indicato in epigrafe, si ritiene di sollevare la seguente questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE (ex art. 234 del TCE), in relazione all’interpretazione della normativa comunitaria: «
se l’art. 45 della direttiva 18/2004, letto anche alla luce del principio di ragionevolezza, nonché gli artt. 49, 56 del TFUE, ostino ad una normativa nazionale che, nell’ambito di una procedura d’appalto sopra soglia, consenta la richiesta d’ufficio della certificazione formata dagli istituti previdenziali (DURC) ed obblighi la stazione appaltante a considerare ostativa una certificazione dalla quale si evince una violazione contributiva pregressa ed in particolare sussistente al momento della partecipazione, tuttavia non conosciuta dall’operatore economico -il quale ha partecipato in forza di un DURC positivo in corso di validità- e comunque non più sussistente al momento dell’aggiudicazione o della verifica d’ufficio
» (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 11.03.2015 n. 1236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa ricerca della linea di demarcazione dei confini fra due enti territoriali, allorché la stessa sia controversa, deve essere identificata verificando quale sia al momento attuale il confine da ritenersi vigente alla luce degli ultimi atti di data certa che si rinvengano, da cui consegue che l'indagine deve arrestarsi al primo e più recente documento che abbia definito con certezza i confini per cui è causa.
Considerato:
a) che con ricorso seguito da motivi aggiunti il Comune di Donori chiede l’accertamento dei confini tra il medesimo Comune e il Comune di Serdiana, relativamente ad una fascia di terreno ubicata in località “Sa Suergia”, descritta in catasto al fogli 31 mappale n. 51 e domanda, inoltre, l’annullamento degli atti meglio indicati in epigrafe, in quanto a suo dire emanati dal comune di Serdiana su territorio di pertinenza dello stesso ricorrente, nonché la condanna del Comune di Serdiana al risarcimento dei danni;
b) che a sostegno del ricorso il Comune di Donori deduce che:
b1) l’area in contestazione fa parte del proprio territorio, come dimostrerebbero alcuni cippi in granito posti sul terreno, le mappe del vecchio catasto terreni risalente al 1850, le carte militari del Real Corpo e il processo verbale di delimitazione del 1842;
b2) risulterebbe, conseguentemente, errata la carta topografica elaborata all’atto dell’istituzione del nuovo Catasto Terreni (risalente al periodo 1930-1935) che assegna l’area in questione al Comune di Serdiana;
b3) la tesi del Comune ricorrente troverebbe, inoltre, conferma nella relazione tecnica elaborata dal geom. Massimiliano Pusceddu per conto del Comune di Serdiana, la quale evidenzia uno scostamento, a danno del Comune di Donori, tra i cippi indicanti il confine in loco e la delimitazione territoriale ricavabile dalla cartografia catastale;
b4) problematiche analoghe a quelle insorte col comune di Serdiana si sarebbero presentate tra Comune di Donori e Comune di Sant’Andrea Frius, ma in tale circostanza il Comune di Donori avrebbe riconosciuto che l’area attribuitagli dalle cartografie apparteneva al comune di Sant’Andrea Frius, cosicché, se non si desse prevalenza ai confini come delimitati in loco rispetto al dato catastale, si tratterebbero in maniera differente situazioni identiche, sempre a danno del Comune di Donori;
c) che si sono costituite in giudizio per resistere al ricorso sia il Comune di Serdiana che la Ecoserdiana s.p.a.;
d) che in base ad un orientamento giurisprudenziale che il Collegio condivide la ricerca della linea di demarcazione dei confini fra due enti territoriali, allorché la stessa sia controversa, deve essere identificata verificando quale sia al momento attuale il confine da ritenersi vigente alla luce degli ultimi atti di data certa che si rinvengano, da cui consegue che l'indagine deve arrestarsi al primo e più recente documento che abbia definito con certezza i confini per cui è causa (Cons. Stato, Sez. IV, 22/03/2005 n. 1136 idem 20/10/1998 n. 1361; TAR Lazio-Roma, I Sez., 05/09/1994 n. 1290);
e) che nella fattispecie il più recente documento che abbia definito con certezza i confini oggetto del contendere è costituito dalla cartografia del Nuovo Catasto Terreni risalente, come è pacifico in causa, al periodo 1930-1935;
f) che è incontroverso, per averlo riconosciuto lo stesso Comune ricorrente, che la delimitazione contenuta in tale atto assegna, inequivocabilmente, l’area in contestazione al Comune di Serdiana;
g) che alla luce di quanto sopra esposto risultano irrilevanti, sia i confini ricavabili dai cippi posti in loco, sia le diverse delimitazioni contenute in atti precedenti alla suddetta cartografia del Nuovo Catasto Terreni, sia, infine, l’invocata relazione tecnica redatta dal geom. Massimiliano Pusceddu;
h) che, relativamente a quest’ultima, nella quale si afferma che “il cippo di granito, punto di confine tra i comuni è spostato rispetto alla cartografia catastale, usata come documentazione ufficiale … di circa 60 metri all’interno nell’agro del comune di Serdiana”, occorre, altresì, osservare che la sua irrilevanza dipende anche dal fatto che non vi è nessuna certezza che il cippo considerato fosse effettivamente posizionato sul reale confine fra i due enti;
i) che nell’economia del presente giudizio nessun rilevo può, evidentemente, avere il fatto che il Comune di Donori, in un’analoga situazione di incertezza dei confini, abbia riconosciuto nei confronti di altro comune (Sant’Andrea Frius) la prevalenza dei cippi apposti sul terreno sulle risultanze catastali;
l) che, pertanto, tutte le censure prospettate vanno respinte;
m) che da ciò discende l’infondatezza del ricorso (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 09.03.2015 n. 417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'Agenzia Regionale per la Protezione e l'Ambiente é l’organismo competente ad effettuare i controlli sulla compatibilità di un progetto di realizzazione di infrastrutture per impianti radioelettrici e in specie d'installazione di torri, di tralicci, di impianti radiotrasmittenti, di ripetitori di servizi di comunicazione elettronica ecc., con i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità, stabiliti uniformemente a livello nazionale (D.Lgs. 259/2003, Codice delle comunicazioni elettroniche).
Il provvedimento autorizzativo della realizzazione degli impianti é formalmente di competenza degli enti locali, previo il positivo accertamento della compatibilità del progetto da parte dell'ARPA (art. 14 L. 22.02.2001 n. 36).
Ai fini della semplificazione e della concentrazione del procedimento autorizzatorio l’art. 87 del citato Codice delle comunicazioni elettroniche ha previsto la possibilità di indire una conferenza dei servizi, cui possono partecipare rappresentanti degli enti locali, del genio civile, dell’ARPA, mentre non é necessaria la partecipazione di nessun rappresentante del distretto sanitario, non esistendo equivalenza in termini edilizi tra il concetto di costruzione e quello d'impianto tecnologico, che non richiede di essere sottoposto alle stesse valutazioni igieniche che si richiedono per le costruzioni fruibili in termini di abitazione delle persone.
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Con la legge n. 15 del 2005 é stata introdotta una novella in merito al funzionamento della Conferenza dei servizi, stabilendosi la regola che la determinazione conclusiva del procedimento deve adottarsi in maniera motivata, tenendosi conto delle posizioni prevalenti espresse in seno alla Conferenza.
Il Collegio, in dissenso con quanto ritenuto dal primo giudice, é dell'avviso che debbono considerarsi prevalenti le posizioni che vengono adottate dagli organi, che la legge considera maggiormente competenti a valutare che l'impianto da realizzare si mantenga nei limiti previsti per la salvaguardia dell'ambiente e della salute.
È errato, quindi, ritenere, come si legge nella sentenza impugnata, che la prevalenza risulti dalla somma dei voti o possa dedursi dall'assenza di analitica confutazione da parte dell’ARPA di quanto affermato, in maniera immotivata, da altri soggetti partecipanti alla conferenza.

L’appello è fondato.
Ai fini del decidere il Collegio ritiene opportuno precisare quanto segue: l'Agenzia Regionale per la Protezione e l'Ambiente é l’organismo competente ad effettuare i controlli sulla compatibilità di un progetto di realizzazione di infrastrutture per impianti radioelettrici e in specie d'installazione di torri, di tralicci, di impianti radiotrasmittenti, di ripetitori di servizi di comunicazione elettronica ecc., con i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità, stabiliti uniformemente a livello nazionale (D.Lgs. 259/2003, Codice delle comunicazioni elettroniche, applicabile in Sicilia in forza dell’art. 103 L.R. 28.12.2004 n. 17).
Il provvedimento autorizzativo della realizzazione degli impianti é formalmente di competenza degli enti locali, previo il positivo accertamento della compatibilità del progetto da parte dell'ARPA (art. 14 L. 22.02.2001 n. 36).
Ai fini della semplificazione e della concentrazione del procedimento autorizzatorio l’art. 87 del citato Codice delle comunicazioni elettroniche ha previsto la possibilità di indire una conferenza dei servizi, cui possono partecipare rappresentanti degli enti locali, del genio civile, dell’ARPA, mentre non é necessaria la partecipazione di nessun rappresentante del distretto sanitario, non esistendo equivalenza in termini edilizi tra il concetto di costruzione e quello d'impianto tecnologico (C.d.S., sez. VI, 24.11.2003, n. 7725), che non richiede di essere sottoposto alle stesse valutazioni igieniche che si richiedono per le costruzioni fruibili in termini di abitazione delle persone (v. il parere dell'Ufficio legislativo e legale della Regione Siciliana n. 984 del 16.01.2008).
Con la legge n. 15 del 2005 é stata introdotta una novella in merito al funzionamento della Conferenza dei servizi, stabilendosi la regola che la determinazione conclusiva del procedimento deve adottarsi in maniera motivata, tenendosi conto delle posizioni prevalenti espresse in seno alla Conferenza.
Il Collegio, in dissenso con quanto ritenuto dal primo giudice, é dell'avviso che debbono considerarsi prevalenti le posizioni che vengono adottate dagli organi, che la legge considera maggiormente competenti a valutare che l'impianto da realizzare si mantenga nei limiti previsti per la salvaguardia dell'ambiente e della salute. È errato, quindi, ritenere, come si legge nella sentenza impugnata, che la prevalenza risulti dalla somma dei voti o possa dedursi dall'assenza di analitica confutazione da parte dell’ARPA di quanto affermato, in maniera immotivata, da altri soggetti partecipanti alla conferenza.
Al riguardo il Consiglio, sulla scorta di quanto allegato dalla ricorrente Vodafone, senza essere smentita dalle altre parti, rileva come gli stessi rappresentanti del Comune abbiano espressamente riconosciuto che spetti all’ARPA esprimere specifiche e prevalenti valutazioni in ordine alle tematiche riguardanti i campi elettromagnetici e l'installazione di impianti radio base, senza aggiungere nulla di preciso per contestare il parere dell'ARPA.
Né i rappresentanti del Comune potevano farlo con riferimento a valutazioni urbanistiche, giacché la determina dirigenziale n. 1241 del 31.10.2003, di approvazione della deliberazione consiliare n. 33 del 13.10.2002, concernente la localizzazione delle aree per l'installazione delle antenne emittenti onde elettromagnetiche, di variante del PRG, era stata annullata dal TAR della Sicilia, con la sentenza n. 12964/2010, che ha anche annullato il regolamento per l'installazione degli impianti per la rete di telefonia cellulare, che prescriveva l'acquisizione del parere dell’ASL ai fini del rilascio della concessione edilizia.
Conclusivamente, ritenuto che l’organismo cui spetta per legge l'accertamento della compatibilità del progetto con i limiti di esposizione é l’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente, come prescrive l’art. 14 della L. 36/2001, il parere da questa espresso, in maniera motivata e documentata, unitamente al parere favorevole espresso dal rappresentante dell'Ufficio del Genio Civile, deve ritenersi prevalente ai fini del rilascio dell'impugnata autorizzazione comunale, della quale costituisce adeguata motivazione.
L'appello in conclusione va accolto e l’autorizzazione comunale va dichiarata legittima (C.G.A.R.S., sentenza 05.03.2015 n. 220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 6 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, gli interventi di manutenzione ordinaria non sono soggetti ad alcun titolo abilitativo, purché risultino rispettate le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque le altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio.
Per interventi di manutenzione ordinaria si intende, ai sensi dell’art, comma 1, lett. a), del medesimo testo normativo, gli interventi edilizi che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti.
E’ evidente che la sostituzione di una caldaia rientra nella manutenzione ordinaria, con la conseguenza che non occorre alcun titolo edilizio, neanche tacito a seguito di denuncia di inizio attività (cfr. TAR Umbria, 08.06.2002, n. 391, che ha fatto applicazione dell’art. 31 lett. a), l. 05.08.1978, n. 457, poi trasfuso nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380).
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Quanto alla specifica disciplina relativa agli impianti termici, viene in rilievo l’art. 5, commi 9, 9-bis e 9-ter d.P.R. 26.08.1993, n. 412, come introdotti dal d.l. 04.06.2013, n. 63, conv. con mod. dalla l. 03.08.2013, n. 90.
Secondo tale normativa, gli impianti termici installati successivamente al 31.08.2013 devono essere collegati ad appositi camini, canne fumarie o sistemi di evacuazione dei prodotti della combustione, con sbocco sopra il tetto dell'edificio alla quota prescritta dalla regolamentazione tecnica vigente.
E' tuttavia possibile derogare a tale regola nei casi, tra gli altri, in cui si procede, anche nell'ambito di una riqualificazione energetica dell'impianto termico, alla sostituzione di generatori di calore individuali che risultano installati in data antecedente al 31.08.2013, con scarico a parete o in canna collettiva ramificata.
In tali casi, è obbligatorio installare generatori di calore a gas che, per valori di prestazione energetica e di emissioni, appartengano alle classi 4 e 5 e posizionare i terminali di tiraggio in conformità alla vigente norma tecnica.

... per l'annullamento:
- con il ricorso principale: - dell’ordinanza del Dirigente del Settore n. 3 – Governo del Territorio del Comune di Vibo Valentia del 17.03.2014, n. 3, notificata il successivo 18.03.2014, con la quale è stato ingiunto al ricorrente la rimozione a sua cura e spese di una caldaia con fuoriuscita di canna fumaria e il ripristino dello status quo ante;
- con i motivi aggiunti: - del provvedimento del Dirigente del Settore n. 3 – Governo del Territorio del Comune di Vibo Valentia del 15.05.2014, prot. n. 21806, notificato il successivo 19.05.2014, con il quale è stata rigettata la comunicazione di attività edilizia libera;
...
5. - Il primo motivo di ricorso ed il secondo dei motivi aggiunti sono palesemente fondati, sicché, in accoglimento del ricorso, come integrato con motivi aggiunti, vanno annullati i provvedimenti impugnati.
5.1. - Ai sensi dell’art. 6 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, gli interventi di manutenzione ordinaria non sono soggetti ad alcun titolo abilitativo, purché risultino rispettate le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque le altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio.
Per interventi di manutenzione ordinaria si intende, ai sensi dell’art, comma 1, lett. a), del medesimo testo normativo, gli interventi edilizi che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti.
E’ evidente che la sostituzione di una caldaia rientra nella manutenzione ordinaria, con la conseguenza che non occorre alcun titolo edilizio, neanche tacito a seguito di denuncia di inizio attività (cfr. TAR Umbria, 08.06.2002, n. 391, che ha fatto applicazione dell’art. 31 lett. a), l. 05.08.1978, n. 457, poi trasfuso nel d.P.R. 06.06.2001, n. 380).
5.2. - Quanto alla specifica disciplina relativa agli impianti termici, viene in rilievo l’art. 5, commi 9, 9-bis e 9-ter d.P.R. 26.08.1993, n. 412, come introdotti dal d.l. 04.06.2013, n. 63, conv. con mod. dalla l. 03.08.2013, n. 90.
Secondo tale normativa, gli impianti termici installati successivamente al 31.08.2013 devono essere collegati ad appositi camini, canne fumarie o sistemi di evacuazione dei prodotti della combustione, con sbocco sopra il tetto dell'edificio alla quota prescritta dalla regolamentazione tecnica vigente.
E' tuttavia possibile derogare a tale regola nei casi, tra gli altri, in cui si procede, anche nell'ambito di una riqualificazione energetica dell'impianto termico, alla sostituzione di generatori di calore individuali che risultano installati in data antecedente al 31.08.2013, con scarico a parete o in canna collettiva ramificata. In tali casi, è obbligatorio installare generatori di calore a gas che, per valori di prestazione energetica e di emissioni, appartengano alle classi 4 e 5 e posizionare i terminali di tiraggio in conformità alla vigente norma tecnica.
5.3. - Nel caso di specie, nel provvedimento del 15.05.2014 si legge che lo scarico a parete “non rispetta quanto previsto dalla legge n. 90/2013 per la deroga di cui all’art. 9, comma a-b-c” e che “lo sbocco della canna fumaria è posta nelle immediate vicinanza di aperture di altro proprietà”.
Si tratta, tuttavia, di affermazioni generiche, in quanto l’amministrazione non specifica in cosa consista la difformità tra l’impianto installato e la disciplina applicabile; né quale sia la distanza tra lo sbocco della canna fumaria e la diversa proprietà.
A fronte di ciò, il ricorrente ha prodotto relazione a firma di un tecnico (ing. R.R.), dalla quale risulta che la caldaia precedentemente installata era obsoleta, che la nuova caldaia installata è ad alta efficienza energetica (classe 5), che -in ragione delle norme tecniche applicabili– non era possibile collegare lo scarico dei fumi alla preesistente canna fumaria, che il nuovo scarico dei fumi è ideato per consentire la massima dispersione degli stessi e ad adeguata distanza di sicurezza dai balconi degli altri condomini.
5.4. - Si può concludere, allora, che la nuova caldaia risulta installata in conformità con la disciplina specifica vigente; e che la sua sostituzione, da intendere quale manutenzione ordinaria, non era soggetta ad alcun titolo abilitativo, seppur tacito.
I due provvedimenti impugnati sono, per tali ragioni illegittimi (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 04.03.2015 n. 432  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla legittimazione delle associazioni ambientaliste di livello nazionale ad impugnare atti amministrativi non solo in materia ambientale ma anche in relazioni ad atti che incidono più in generale sulla qualità della vita in un dato territorio.
Il primo giudice ha evidenziato come la legittimazione delle associazioni ambientaliste di livello nazionale ad impugnare atti amministrativi in materia ambientale, che deriva direttamente dalla legge come si evince dal combinato disposto degli artt. 18, comma 5 e 13 della L. 08.07.1986, n. 349, previa iscrizione nell'apposito elenco ministeriale, è stata progressivamente considerata valevole anche in relazioni ad atti non solo espressamente inerenti alla materia ambientale, quanto pure per quelli che incidono più in generale sulla qualità della vita in un dato territorio.
Infatti, se da un lato le disposizione espresse appena evocate consentono alle associazioni di protezione ambientale legittimazione attiva nei giudizi dinanzi al giudice ordinario e a quello amministrativo, per tutelare finalità di protezione dell’ambiente che sono proprie dell’amministrazione dello Stato, queste, dall’altro, rappresentano una delle modalità di applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale recepito dall’art. 118, ultimo comma, Cost., e quindi impongono una lettura dinamica delle attribuzioni delle associazioni, coordinata al concreto evolversi della sensibilità sociale in tema di tutela degli interessi diffusi e, finora, adespoti.
L’impostazione molto restrittiva del tema della legittimazione ambientalista, come proposto dalle parti appellanti, e quindi la tesi per cui le attribuzioni di queste sarebbero limitate unicamente alla tutela paesistica, non può essere sostenuta ed è sconfessata da una lettura della giurisprudenza in tema, che traccia una evidente parabola interpretativa, tesa al riconoscimento di una nozione di protezione ambientale ampiamente articolata.
In questo senso, gli spunti appaiono numerosi e concordanti nel senso di attribuire alle associazioni ambientaliste la legittimazione ad agire in giudizio non solo, per la tutela degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche per quelli ambientali in senso lato, ossia quelli comprensivi dei temi della conservazione e valorizzazione dell'ambiente latamente inteso, del paesaggio urbano, rurale, naturale nonché dei monumenti e dei centri storici, tutti beni e valori idonei a caratterizzare in modo originale, peculiare ed irripetibile un certo ambito geografico territoriale rispetto ad altri.
In tempi ancora più recenti, correlandosi alla materia qui in esame, questo Consiglio ha affermato ancora più incisivamente che il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.
L'ambiente, dunque, costituisce inevitabilmente l'oggetto (anche) dell'esercizio di poteri di pianificazione urbanistica e di autorizzazione edilizia; così come, specularmente, l'esercizio dei predetti poteri di pianificazione non può non tenere conto del "valore ambiente", al fine di preservarlo e renderne compatibile la conservazione con le modalità di esistenza e di attività dei singoli individui, delle comunità, delle attività anche economiche dei medesimi.
Proprio per questo, gli atti che costituiscono esercizio di pianificazione urbanistica, la localizzazione di opere pubbliche, gli atti autorizzatori di interventi edilizi, nella misura in cui possano comportare danno per l'ambiente ben possono essere oggetto di impugnazione da parte delle associazioni ambientaliste, in quanto atti latamente rientranti nella materia "ambiente", in relazione alla quale si definisce (e perimetra) la legittimazione delle predette associazioni.
È così del tutto evidente e coerente con la giurisprudenza amministrativa che la tutela degli interessi ambientali possa anche procedere attraverso l'impugnazione di atti amministrativi generali di valenza urbanistica e di natura pianificatoria o programmatoria qualora incidenti negativamente su profili ambientali; come è del pari evidente che, stante la non necessaria correlazione dimensionale tra interessi urbanistici e interessi ambientali, permane sempre la necessità di una valutazione in concreto dell’incidenza del possibile danno all’ambiente.
Tale valutazione, come evidenziato dalla giurisprudenza appena evocata, non può che vertere sull’ampiezza dell’intervento, quale elemento di discrimine degli interventi anche incidenti sul piano ambientale. Infatti, non è immaginabile poter correlare a priori una determinata tipologia pianificatoria con la sua eventuale rilevanza ambientale, atteso che le discipline regionali impiegano una vasta congerie di strumenti, diversamente connotati e denominati, e con ciò impediscono un pur utile raccordo, quanto meno relativo alla partecipazione procedimentale, con gli enti e le associazioni di tutela.
Il che determina, in via di necessità, l’intervento successivo del giudice, come ultimo strumento per consentire la ponderazione delle posizioni dei soggetti ordinamentali pretermessi dalle scelte amministrative.

Il primo giudice ha evidenziato come la legittimazione delle associazioni ambientaliste di livello nazionale ad impugnare atti amministrativi in materia ambientale, che deriva direttamente dalla legge come si evince dal combinato disposto degli artt. 18, comma 5 e 13 della L. 08.07.1986, n. 349, previa iscrizione nell'apposito elenco ministeriale, è stata progressivamente considerata valevole anche in relazioni ad atti non solo espressamente inerenti alla materia ambientale, quanto pure per quelli che incidono più in generale sulla qualità della vita in un dato territorio.
Infatti, se da un lato le disposizione espresse appena evocate consentono alle associazioni di protezione ambientale legittimazione attiva nei giudizi dinanzi al giudice ordinario e a quello amministrativo, per tutelare finalità di protezione dell’ambiente che sono proprie dell’amministrazione dello Stato, queste, dall’altro, rappresentano una delle modalità di applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale recepito dall’art. 118, ultimo comma, Cost., e quindi impongono una lettura dinamica delle attribuzioni delle associazioni, coordinata al concreto evolversi della sensibilità sociale in tema di tutela degli interessi diffusi e, finora, adespoti.
L’impostazione molto restrittiva del tema della legittimazione ambientalista, come proposto dalle parti appellanti, e quindi la tesi per cui le attribuzioni di queste sarebbero limitate unicamente alla tutela paesistica, non può essere sostenuta ed è sconfessata da una lettura della giurisprudenza in tema, che traccia una evidente parabola interpretativa, tesa al riconoscimento di una nozione di protezione ambientale ampiamente articolata.
In questo senso, gli spunti appaiono numerosi (ricordando, senza pretesa di completezza, Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 27 settembre 2012 n. 811; Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 14.04.2011, n. 2329; id, sez. VI 15.06.2010 n. 3744; id., sez. IV, 12.05.2009 n. 2908; id., sez. IV 31.05.2007 n. 2849) e concordanti nel senso di attribuire alle associazioni ambientaliste la legittimazione ad agire in giudizio non solo, per la tutela degli interessi ambientali in senso stretto, ma anche per quelli ambientali in senso lato, ossia quelli comprensivi dei temi della conservazione e valorizzazione dell'ambiente latamente inteso, del paesaggio urbano, rurale, naturale nonché dei monumenti e dei centri storici, tutti beni e valori idonei a caratterizzare in modo originale, peculiare ed irripetibile un certo ambito geografico territoriale rispetto ad altri.
In tempi ancora più recenti, correlandosi alla materia qui in esame, questo Consiglio (sez. IV, 09.01.2014 n. 36) ha affermato ancora più incisivamente che il potere di pianificazione urbanistica non è funzionale solo all'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti.
L'ambiente, dunque, costituisce inevitabilmente l'oggetto (anche) dell'esercizio di poteri di pianificazione urbanistica e di autorizzazione edilizia; così come, specularmente, l'esercizio dei predetti poteri di pianificazione non può non tenere conto del "valore ambiente", al fine di preservarlo e renderne compatibile la conservazione con le modalità di esistenza e di attività dei singoli individui, delle comunità, delle attività anche economiche dei medesimi.
Proprio per questo, gli atti che costituiscono esercizio di pianificazione urbanistica, la localizzazione di opere pubbliche, gli atti autorizzatori di interventi edilizi, nella misura in cui possano comportare danno per l'ambiente ben possono essere oggetto di impugnazione da parte delle associazioni ambientaliste, in quanto atti latamente rientranti nella materia "ambiente", in relazione alla quale si definisce (e perimetra) la legittimazione delle predette associazioni.
È così del tutto evidente e coerente con la giurisprudenza amministrativa che la tutela degli interessi ambientali possa anche procedere attraverso l'impugnazione di atti amministrativi generali di valenza urbanistica e di natura pianificatoria o programmatoria qualora incidenti negativamente su profili ambientali; come è del pari evidente che, stante la non necessaria correlazione dimensionale tra interessi urbanistici e interessi ambientali, permane sempre la necessità di una valutazione in concreto dell’incidenza del possibile danno all’ambiente.
Tale valutazione, come evidenziato dalla giurisprudenza appena evocata, non può che vertere sull’ampiezza dell’intervento, quale elemento di discrimine degli interventi anche incidenti sul piano ambientale. Infatti, non è immaginabile poter correlare a priori una determinata tipologia pianificatoria con la sua eventuale rilevanza ambientale, atteso che le discipline regionali impiegano una vasta congerie di strumenti, diversamente connotati e denominati, e con ciò impediscono un pur utile raccordo, quanto meno relativo alla partecipazione procedimentale, con gli enti e le associazioni di tutela.
Il che determina, in via di necessità, l’intervento successivo del giudice, come ultimo strumento per consentire la ponderazione delle posizioni dei soggetti ordinamentali pretermessi dalle scelte amministrative (Consiglio Stato, Sez. IV, sentenza 19.02.2015 n. 839 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi: la prescrizione decorre da quando l'immobile è ultimato.
Il momento di consumazione dei reati edilizi –anche ai fini della prescrizione –è dato dall'ultimazione dei lavori (rifiniture interne ed esterne comprese), in modo che l'edificio sia pienamente funzionale all'uso cui è destinato.

E' quanto ha affermato la Corte di Cassazione, III Sez. penale, con sentenza 18.02.2015 n. 7044, accogliendo parzialmente il ricorso presentato avverso il disposto sequestro di un immobile,
La ricorrente –indagata per aver costruito detto immobile in violazione del titolo abitativo e delle norme antisismiche– eccepiva innanzitutto l'avvenuta prescrizione del reato edilizio contestatole, oltre che l'insussistenza del periculum in mora ai fini del sequestro preventivo.
La Cassazione, nel respingere la prima censura, ha stabilito come il fabbricato in questione non potesse dirsi ultimato alla data di entrata in vigore della legge che ne consentiva il condono (quale fatto estintivo del reato edilizio), in quanto mancante delle rifiniture.
Ha infatti specificato la Suprema Corte come l'ultimazione dei lavori –ai fini dell'identificazione del momento consumativo dei reati edilizi nonché del termine da cui far decorrere la prescrizione– debba coincidere con il completamento di tutte le opere necessarie (comprese le rifiniture interne ed esterne), affinché l'immobile risulti funzionale alla sua destinazione.
Nel caso di specie, è stato tra l'altro rilevato come l'immobile non potesse considerarsi completo nemmeno ai fini del condono -per cui la nozione di ultimazione assume un significato differente– in quanto mancante di parte integrante la struttura (scala di collegamento tra i due piani).
Ha invece meritato accoglimento la censura relativa alla disposta misura cautelare, per insussistenza di conseguenze antigiuridiche ulteriori -dunque, del periculum in mora- derivanti dall'utilizzo dell'immobile abusivo, in quanto mai abitato (commento tratto da www.telediritto.it).
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Secondo costante orientamento di questa Corte, la permanenza del reato di edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione della fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa volontaria o imposta, cessano o vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se i lavori sono proseguiti anche dopo l'accertamento e fino alla data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado (Sez. 3, Sentenza n. 29974 del 06/05/2014 Cc. (dep. 09/07/2014) Rv. 260498).
Fatta questa premessa, va detto che il momento consumativo del reato di abuso edilizio si realizza con l'ultimazione dei lavori, coincidente con la realizzazione delle finiture esterne ed interne.
Quindi la nozione di ultimazione dei lavori, intesa come momento che segna la consumazione del reato di costruzione abusiva, richiede il completamento dell'opera in modo tale da renderla abitabile e funzionale rispetto all'uso cui è destinata, comprensiva delle cd "rifiniture".
A tal riguardo si è sostenuto che "in tema di reati edilizi, deve ritenersi "ultimato" solo l'edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo che anche il suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l'ultimazione dell'immobile abusivamente realizzato, coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni" (fattispecie relativa ad immobile privo di infissi, impianti elettrici e imbiancatura, nella quale la Corte ha specificato che spetta al ricorrente l'onere di dimostrare di avere non solo sospeso l'attività edilizia, ma anche di aver voluto lasciare volutamente l'opera abusiva nello stato in cui è stata rinvenuta) (Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014 Ud. (dep. 20/11/2014) Rv. 261153).
Priva di pregio è l'argomentazione della difesa secondo la quale, trattandosi di magazzino, opera che non necessita di particolari rifiniture al fine dello svolgimento della funzione cui è destinata, il manufatto in questione, alla data del 31.03.2003, era già completato con conseguente prescrizione dei reati edilizi.
Siffatta tesi è contraddetta da alcune pronunce di questa Corte che estendono la necessità della realizzazione delle rifiniture, per i fini che interessano, anche a locali costituenti annessi dell'abitazione, in relazione ai quali si era sostenuto da parte del ricorrente, la non necessarietà delle opere finali stante la destinazione funzionale a magazzino e garage dei locali costituenti pertinenza dell'edificio principale (Cass. sez 3, 27.10.010 n. 8172).
E comunque, condivisibilmente a quanto sostenuto dai giudici del riesame, quand'anche si volesse aderire alla tesi della non necessarietà, ai fini della consumazione del reato, delle rifiniture in considerazione della destinazione funzionale del manufatto quale magazzino, si dovrebbe ugualmente pervenire alla conclusione della mancata ultimazione delle opere per la mancanza di elementi facenti parte integrante della struttura, quale la scala di collegamento fra il piano terreno e il primo piano, mancante all'epoca dell'accertamento. Discende da ciò che alla data del 31.03.2003, il manufatto abusivo non poteva ritenersi ultimato con tutte le conseguenza in tema di consumazione del reato e dunque di prescrizione.
Il D.L. 30.09.2003, art. 32, comma 25, convertito nella L. 24.11.2003, n. 326, consentiva il condono (anche con effetto estintivo dei relativi reati) di opere edilizie abusive ultimate entro il 31.03.2003 e la L. 28.02.1985, n. 47, art. 31, comma 2, cui la precedente normativa, rinvia per la disciplina del condono, stabiliva che "si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura".
Occorre precisare che in materia edilizia la nozione di ultimazione assume un diverso significato se considerata ai fini della individuazione del momento di cessazione della permanenza del reato (per stabilire il momento della consumazione del reato coincidente con la cessazione della permanenza) ovvero del condono edilizio. Nel primo caso il requisito dell'ultimazione lavori è integrato solo quando siano state eseguite anche le rifiniture dell'immobile. In materia di condono, invece, al fine dell'ultimazione dell'opera, è sufficiente che sia completato il rustico ed eseguita la copertura.
Difatti, la nozione di "ultimazione" dell' immobile ai fini dell'applicazione della sanatoria edilizia si ricava dall'art. 31 della 1. 28.02.1985 n. 47, che considera tali gli edifici per i quali sia completato il rustico ed eseguita la copertura (ovvero, quanto alle opere interne o agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente) Sez. 3 n. 9011 del 12/08/1997 Ud. (dep. 03/10/1997 ) Rv. 208861
Secondo l'elaborazione giurisprudenziale della norma in esame, con la locuzione "immobile a rustico", si intende l'avvenuto completamento di tutte le strutture essenziali, tra le quali vanno ricomprese le tamponature esterne, atteso che queste determinano l'isolamento dell'immobile dalle intemperie e configurano l'opera nella sua fondamentale volumetria (Sez. 3, n. 26119 del 13/05/2004 Cc. (dep. 10/06/2004) Rv. 228696 - Sez. 3, n. 26119 del 13/05/2004 Cc. (dep. 10/06/2004) Rv. 228696 - Sez. 3, n. 28515 del 29/05/2007 Ud. (dep. 18/07/2007) Rv. 237139).
Nel caso in esame, come correttamente ha osservato il Tribunale del riesame, alla data dell'accertamento, l'immobile non poteva ritenersi completato neppure con riguardo alla parte strutturale, in quanto, pur essendo stato già realizzato il rustico con la relativa copertura, mancava la scala di accesso al piano rialzato (raggiungibile solo tramite scala in appoggio a pioli), elemento di collegamento dei due piani che deve necessariamente considerarsi parte integrante della struttura dell'immobile.
Per contro, deve ritenersi non pertinente ai fini dell'accertamento della condonabilità dell'opera, l'assunto della difesa secondo cui, trattandosi di manufatto destinato a magazzino, non deve aversi riguardo, ai fini dell'accertamento del momento dell'ultimazione dei lavori, alla presenza di rifiniture, che, proprio per la destinazione funzionale dell'opera, non sarebbero richieste.
Orbene, come già evidenziato, ai fini della sanatoria di cui al D.L. 30.09.2003, art. 32, comma 25, convertito nella L. 24.11.2003, n. 326, non si deve avere riguardo alla rifiniture dell'immobile, rilevanti ai fini della individuazione del momento consumativo del reato di abuso edilizio, bensì allo stato grezzo del manufatto, completo dei suoi elementi strutturali e funzionali.
Quanto al secondo motivo, i reati edilizi di cui all'incolpazione provvisoria sono idonei a giustificare il vincolo reale, ragione per cui appare ultronea, ai fini cautelari, la disamina della insussistenza del reato ambientale.

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell'art. 11, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi ha a titolo per richiederlo.
D’altro canto però il comma 3 dello stesso art. 11 afferma il principio secondo cui il permesso di costruire ha rilevanza giuridica nell'ambito del rapporto pubblicistico intercorrente tra privato richiedente e amministrazione, mentre i rapporti privati restano regolati dal codice civile e dalle altre norme la cui osservanza è sottoposta al vaglio del giudice ordinario.
Dal combinato di queste due norme si è ricavato il principio secondo il quale il comune, prima di rilasciare il permesso di costruire, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando se è il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o se, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria. Tuttavia l’indagine da compiere non deve essere minuziosa, coinvolgente ogni minimo profilo civilistico che evidenzi eventuali limiti o preclusioni nei rapporti tra le parti.
Questi principi hanno carattere generale e si applicano, quindi, per ogni titolo edilizio, compresa la denuncia di inizio attività

46. Rimangono ora da esaminare i motivi ottavo e decimo, con cui il ricorrente deduce il difetto di legittimazione della controinteressata all’effettuazione dei lavori. Sostiene in particolare il ricorrente di essere comproprietario dell’edificio sul quale insiste la canna fumaria; per questa ragione la realizzazione di questa non avrebbe potuto prescindere dal suo assenso. Sostiene inoltre che il manufatto sarebbe stato realizzato su un subalterno diverso da quello indicato dalla controinteressata.
47. In proposito si deve osservare che, ai sensi dell'art. 11, comma 1, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi ha a titolo per richiederlo.
48. D’altro canto però il comma 3 dello stesso art. 11 afferma il principio secondo cui il permesso di costruire ha rilevanza giuridica nell'ambito del rapporto pubblicistico intercorrente tra privato richiedente e amministrazione, mentre i rapporti privati restano regolati dal codice civile e dalle altre norme la cui osservanza è sottoposta al vaglio del giudice ordinario.
49. Dal combinato di queste due norme si è ricavato il principio secondo il quale il comune, prima di rilasciare il permesso di costruire, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando se è il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o se, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria. Tuttavia l’indagine da compiere non deve essere minuziosa, coinvolgente ogni minimo profilo civilistico che evidenzi eventuali limiti o preclusioni nei rapporti tra le parti (cfr., fra le tante, TAR Toscana, sez. III, 09.07.2014, n. 1221).
50. Questi principi hanno carattere generale e si applicano, quindi, per ogni titolo edilizio, compresa la denuncia di inizio attività (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.02.2015 n. 466 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'obbligo di esame dell'apporto partecipativo del privato imposto dalla lettera b) dell'art. 10 della legge n. 241/1990 non impone all'Amministrazione una analitica confutazione in merito ad ogni controdeduzione dell'interessato, essendo sufficiente un iter motivazionale dal quale emergano le ragioni del mancato adeguamento dell'azione amministrativa alle deduzioni difensive del privato stesso.
L'obbligo di esame dell'apporto partecipativo del privato imposto dalla lettera b) dell'art. 10 della legge n. 241/1990 non impone –infatti- all'Amministrazione una analitica confutazione in merito ad ogni controdeduzione dell'interessato, essendo sufficiente un iter motivazionale dal quale emergano le ragioni del mancato adeguamento dell'azione amministrativa alle deduzioni difensive del privato stesso (così, fra le tante, TAR Sardegna, sez. I, 02.04.2014, n. 259) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.02.2015 n. 369 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per effetto del rilascio della fideiussione a garanzia del pagamento degli oneri concessori, il titolare del permesso di costruire é obbligato in solido al pagamento della somma garantita, senza che sussista alcun obbligo legale del Comune di avvisare o di escutere preventivamente il fideiussore; d’altronde la fideiussione vale a rafforzare la posizione del creditore (nel caso di specie il Comune), e non certo ad indebolirla.
Tale conclusione appare condivisa dalla giurisprudenza maggioritaria, che tende a negare validità all’interpretazione propugnata dalla ricorrente, affermando che la garanzia fideiussoria, se vale certamente a rafforzare la posizione della Pubblica Amministrazione, quale creditore pecuniario, non impone però a quest’ultima la preventiva escussione del fideiussore né esclude un’attenuazione dell’obbligo del debitore principale, senza neppure trasformare l’obbligazione di quest’ultimo in una sorta di obbligazione sussidiaria rispetto a quella del fideiussore.
Questa Sezione, come già sopra ricordato, ha peraltro avuto modo di esaminare la questione, con dovizia di argomenti, già attraverso la propria pronuncia del 21.07.2009 n. 4405, nella quale ha preso motivatamente posizione a favore della soluzione interpretativa più rigorosa, escludendo che si possa <<configurare un obbligo dell’Amministrazione di escutere la fideiussione allo scadere del termine di pagamento>>.
Tale interpretazione appare, del resto, maggiormente rispettosa dei generali principi in materia di obbligazioni solidali (essendo tali l’obbligazione del fideiussore e quella del debitore principale, cfr. l’art. 1944, comma 1°, del codice civile), in forza dei quali il creditore può indifferentemente rivolgersi a qualsiasi degli obbligati in solido (cfr. art. 1292 del codice civile, per il quale, in caso di solidarietà fra debitori, <<ciascuno può essere costretto all’adempimento per la totalità>>).

Nel secondo ed articolato motivo di gravame, la società esponente, pur dando atto di avere corrisposto tardivamente la seconda e la terza rata del contributo di costruzione relativo al permesso di costruire n. 33/2004 (cfr. per il testo del medesimo, il doc. 10 del resistente), reputa illegittima la pretesa comunale di pagamento della sanzione per il ritardo (ex art. 42 più volte citato), in quanto l’Amministrazione avrebbe dovuto –nel rispetto del generale dovere di correttezza di cui all’art. 1175 del codice civile– escutere preventivamente la fideiussione rilasciata al Comune dalla società a garanzia del pagamento del contributo di costruzione di cui sopra (cfr. per il testo della polizza il doc. 4 della ricorrente).
La questione giuridica posta all’attenzione del Collegio con il secondo mezzo di ricorso è stata più volte affrontata dalla giurisprudenza amministrativa, anche di questa Sezione del TAR Lombardia, la quale ha affermato che, per effetto del rilascio della fideiussione a garanzia del pagamento degli oneri concessori, il titolare del permesso di costruire é obbligato in solido al pagamento della somma garantita, senza che sussista alcun obbligo legale del Comune di avvisare o di escutere preventivamente il fideiussore; d’altronde la fideiussione vale a rafforzare la posizione del creditore (nel caso di specie il Comune), e non certo ad indebolirla (così TAR Lombardia, Milano, Sezione II, 19.03.2013, n. 720).
Tale conclusione appare condivisa dalla giurisprudenza maggioritaria, che tende a negare validità all’interpretazione propugnata dalla ricorrente, affermando che la garanzia fideiussoria, se vale certamente a rafforzare la posizione della Pubblica Amministrazione, quale creditore pecuniario, non impone però a quest’ultima la preventiva escussione del fideiussore né esclude un’attenuazione dell’obbligo del debitore principale, senza neppure trasformare l’obbligazione di quest’ultimo in una sorta di obbligazione sussidiaria rispetto a quella del fideiussore (si vedano, in tal senso, Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012, n. 4320; 24.04.2009, n. 2581 e 10.08.2007, n. 4419; oltre a TAR Valle d’Aosta, 02.11.2011, n. 71).
Questa Sezione, come già sopra ricordato, ha peraltro avuto modo di esaminare la questione, con dovizia di argomenti, già attraverso la propria pronuncia del 21.07.2009 n. 4405, nella quale ha preso motivatamente posizione a favore della soluzione interpretativa più rigorosa, escludendo che si possa <<configurare un obbligo dell’Amministrazione di escutere la fideiussione allo scadere del termine di pagamento>> (cfr. la citata sentenza n. 4405/2009 con la giurisprudenza ivi richiamata ed anche le ulteriori sentenze di questa Sezione II, 06.07.2010, n. 2777 e 22.11.2010, n. 7308, costituenti entrambe precedenti specifici ai quali si rinvia).
Tale interpretazione appare, del resto, maggiormente rispettosa dei generali principi in materia di obbligazioni solidali (essendo tali l’obbligazione del fideiussore e quella del debitore principale, cfr. l’art. 1944, comma 1°, del codice civile), in forza dei quali il creditore può indifferentemente rivolgersi a qualsiasi degli obbligati in solido (cfr. art. 1292 del codice civile, per il quale, in caso di solidarietà fra debitori, <<ciascuno può essere costretto all’adempimento per la totalità>>).
Nel caso di specie, inoltre, militano a favore dell’interpretazione sopra propugnata altri elementi in fatto, dai quali non è possibile prescindere.
Infatti, il provvedimento comunale del 13.09.2014 che accoglieva l’istanza di rateizzazione avanzata dal tecnico della società (cfr. i documenti 9 e 8 del resistente), stabiliva che la seconda e terza rata del contributo di costruzione (pari rispettivamente al 40 e al 30 per cento dell’importo complessivo), fossero versate con decorrenza rispettivamente dal momento di realizzazione del tetto (2^ rata) e dal termine dei lavori (3^ rata).
Il termine per il pagamento decorreva –pertanto– non da una data fissa e predeterminata, agevolmente controllabile dal Comune, bensì da due distinti momenti (realizzazione del tetto e conclusione dei lavori), la cui esatta individuazione era nella sostanziale disponibilità della società, con minore possibilità di controllo da parte dell’Amministrazione.
Non può, quindi, l’esponente lamentare una presunta violazione dei doveri di correttezza e buona fede nel rapporto obbligatorio, allorché era la stessa a determinare sostanzialmente il dies a quo del proprio obbligo di versamento.
Si aggiunga, ancora, che la società dava notizia al Comune della fine dei lavori in data 08.08.2007 (cfr. il doc. 13 del resistente), e che versava le somme soltanto nel maggio 2010 (cfr. il doc. 15 del resistente), quindi quasi tre anni dopo.
In conclusione, l’intero ricorso deve rigettarsi (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.02.2015 n. 369 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Mutamento destinazione d'uso senza opere.
Il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora S.C.I.A.), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica; in questo caso, infatti, non è ravvisabile alcun aggravamento del carico urbanistico esistente. Diversamente, è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea.
Con riguardo al primo motivo -che, al di là della qualifica fornita, appare riferibile all'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen.- occorre innanzitutto premettere che, per costante indirizzo di questa Corte, «la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione dell'immobile e risponde agli scopi di interesse pubblico perseguiti dalla pianificazione. Essa, infatti, individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. Soltanto gli strumenti di pianificazione, generali ed attuativi, possono decidere, fra tutte quelle possibili, la destinazione d'uso dei suoli e degli edifici, poiché alle varie e diverse destinazioni, in tutte le loro possibili relazioni, devono essere assegnate -proprio in sede pianificatoria- determinate qualità e quantità di servizi. L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono quindi realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto la possibilità di una gestione ottimale del territorio» (Sez. 3, n. 38005 del 16/5/2013, Farieri, Rv. 257689).
Ciò premesso, il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è soltanto quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, da individuarsi tenendo conto della destinazione indicata nell'ultimo titolo abilitativo relativo all'immobile ovvero della sua tipologia, nonché delle attitudini funzionali che il bene stesso viene ad acquisire in caso di esecuzione di nuovi lavori (Sez. 3, n. 38005 del 16/05/2013, Farieri, Rv. 257689).
Ancora in termini generali, il Collegio riafferma poi il principio -costantemente sostenuto da questa Corte- in forza del quale, in tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora S.C.I.A.), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica; in questo caso, infatti, non è ravvisabile alcun aggravamento del carico urbanistico esistente. Diversamente, è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria (come nel caso di specie) o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea (Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, dep. 05/02/2014, Tortora, Rv. 258686; Sez. 3, n. 4943 del 17/01/2012, Bittesini, Rv. 251984).
Ciò risponde al principio secondo cui, diversamente, risulterebbero vulnerate le regole generali finalizzate ad assicurare il corretto ed ordinato assetto del territorio, con conseguente, concreto ed inevitabile pericolo di compromissione degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica (Consiglio di Stato, 25/05/2012, n. 759); potendo, inoltre, risultare pregiudicato anche l'interesse patrimoniale dell'ente, perché gli interessati sarebbero altrimenti indotti a chiedere il rilascio dei titoli edilizi contro il pagamento di un minor contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare liberamente e gratuitamente la destinazione originaria senza corrispondere i maggiori oneri che derivano dal maggiore carico urbanistico (Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi, non massimata)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.12.2014 n. 52304 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati edilizi, ai fini del disconoscimento del concorso del proprietario del terreno non committente dei lavori nel reato previsto dall'art. 44 Dpr. 380/2001 è necessario escludere l'interesse o il suo consenso alla commissione dell'abuso edilizio ovvero dimostrare che egli non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
Questa Corte di legittimità non ritiene sufficiente, per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del terreno non abbia commissionato materialmente i lavori.
Perché il proprietario non committente vada esente da responsabilità occorre qualcosa in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso non abbia interesse all'abuso e non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
Oggi è dunque pacifico che in tema di reati edilizi, l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziarla, come la presentazione della domanda di condono edilizio (o nel caso che ci occupa la D.I.A. per un'opera diversa), sottraendosi tale valutazione al sindacato di legittimità della Suprema Corte in quanto comporta un giudizio di merito che non contrasta né con la disciplina in tema di valutazione della prova né con le massime di esperienza.
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Si pone allora il problema di individuare una casistica di tali elementi indizianti.
Al riguardo sì è precisato con motivazioni del tutto condivise dal Collegio che gli elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi abbia concorso, anche solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei lavori, possono essere individuati, nella piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e nell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione, così come nei rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, nella eventuale presenza di quest'ultimo "in loco", nello svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori, nella richiesta di provvedimenti abilitativi in sanatoria, nel regime patrimoniale dei coniugi, ovvero in tutte quelle situazioni e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi integrativi della colpa.
In altre pronunce si è poi condivisibilmente precisato che può essere attribuita al proprietario non formalmente committente dell'opera abusiva la responsabilità anche in relazione all'accertamento che questi abiti nello stesso territorio comunale ove è stata eretta la costruzione abusiva, che sia stato individuato sul luogo, che sia il destinatario finale dell'opera.
Ancora, è stato affermato che il proprietario non formalmente committente risponde del reato edilizio, ex artt. 44 D.P.R. n. 380 del 2001 e 110 cod. pen., allorché, a conoscenza dell'assenza del preventivo rilascio del permesso di costruire, abbia fornito un contributo causale che abbia agevolato la edificazione abusiva (così questa sez. 3, n. 8667 del 12.01.2007 che nell'occasione ha ulteriormente precisato che il giudice deve verificare l'esistenza di comportamenti, che possono assumere sia forma positiva che negativa, dai quali si possa ricavare una compartecipazione anche solo morale nella altrui condotta illecita).
Più recentemente si è ulteriormente precisato che la responsabilità per la realizzazione di opere abusive è configurabile anche nei confronti del nudo proprietario che abbia la disponibilità dell'immobile ed un concreto interesse all'esecuzione dei lavori, se egli non allega circostanze utili a dimostrare che si tratti di interventi realizzati da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà.

3. Va evidenziato che, differentemente da quanto oggi viene riproposto come doglianza, la L. non era solo la proprietaria del terreno, ma anche colei che in data 14.07.2008 aveva presentato presso il Comune di Montoro Inferiore la DIA protocollata al n. 12340, relativa alla recinzione del fondo con rete metallica e alla realizzazione di accessi, denuncia corredata dal progetto a firma del geometra coimputato De M.A..
E risulta davvero inverosimile ritenere che i lavori in corso per l'esecuzione di un muro che, invece, era di cemento armato, lungo ben 130 metri, alto m. 1,80 e spesso cm 25 , lavori che evidentemente comportavano anche una spesa di gran lunga superiore a quella di una recinzione metallica, fossero avvenuti a sua insaputa.
Sul punto va, peraltro, ricordato come la giurisprudenza di questa Corte Suprema sia ormai stabilmente assestata nell'affermare che in tema di reati edilizi, ai fini del disconoscimento del concorso del proprietario del terreno non committente dei lavori nel reato previsto dall'art. 44 Dpr. 380/2001 è necessario escludere l'interesse o il suo consenso alla commissione dell'abuso edilizio ovvero dimostrare che egli non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione (così questa sez. 3, n. 33540 del 19.6.2012, Pmt in proc. Grillo ed altri rv. 253169; conforme sez. 4 n. 19714 del 03.02.2009, Izzo F., rv. 243961).
Questa Corte di legittimità non ritiene sufficiente, per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del terreno non abbia commissionato materialmente i lavori.
Perché il proprietario non committente vada esente da responsabilità occorre qualcosa in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso non abbia interesse all'abuso e non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione. Oggi è dunque pacifico che in tema di reati edilizi, l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziarla, come la presentazione della domanda di condono edilizio (o nel caso che ci occupa la D.I.A. per un'opera diversa), sottraendosi tale valutazione al sindacato di legittimità della Suprema Corte in quanto comporta un giudizio di merito che non contrasta né con la disciplina in tema di valutazione della prova né con  le massime di esperienza (sez. 3, n. 35631 dell'11.07.2007, Leone ed altri, rv. 237391).
4. Si pone allora il problema di individuare una casistica di tali elementi indizianti.
Al riguardo sì è precisato con motivazioni del tutto condivise dal Collegio che gli elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che questi
abbia concorso, anche solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei lavori, possono essere individuati, nella piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e nell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione, così come nei rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario, nella eventuale presenza di quest'ultimo "in loco", nello svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori, nella richiesta di provvedimenti abilitativi in sanatoria, nel regime patrimoniale dei coniugi, ovvero in tutte quelle situazioni e comportamenti positivi o negativi dai quali possano trarsi elementi integrativi della colpa (così questa sez. 3, n. 26121 del 12.04.2005, Rosato, Rv. 231954).
In altre pronunce si è poi condivisibilmente precisato che può essere attribuita al proprietario non formalmente committente dell'opera abusiva la responsabilità anche in relazione all'accertamento che questi abiti nello stesso territorio comunale ove è stata eretta la costruzione abusiva, che sia stato individuato sul luogo, che sia il destinatario finale dell'opera (sez. 3, n. 9536 del 20.01.2004, Mancuso ed altro, rv. 227403).
Ancora, è stato affermato che il proprietario non formalmente committente risponde del reato edilizio, ex artt. 44 D.P.R. n. 380 del 2001 e 110 cod. pen., allorché, a conoscenza dell'assenza del preventivo rilascio del permesso di costruire, abbia fornito un contributo causale che abbia agevolato la edificazione abusiva (così questa sez. 3, n. 8667 del 12.01.2007, Forletti ed altro, che nell'occasione ha ulteriormente precisato che il giudice deve verificare l'esistenza di comportamenti, che possono assumere sia forma positiva che negativa, dai quali si possa ricavare una compartecipazione anche solo morale nella altrui condotta illecita).
Più recentemente si è ulteriormente precisato che la responsabilità per la realizzazione di opere abusive è configurabile anche nei confronti del nudo proprietario che abbia la disponibilità dell'immobile ed un concreto interesse all'esecuzione dei lavori, se egli non allega circostanze utili a dimostrare che si tratti di interventi realizzati da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà (sez. 3, n. 39400 del 21.03.2013, Spataro, rv. 257676).
5. In applicazione dei suvvisti principi, dunque, appare evidente che l'esclusione della responsabilità del proprietario non committente possa essere ritenuta solo qualora, all'esito del vaglio degli elementi di prova, si possa escludere l'interesse o il consenso di quest'ultimo dell'abuso.
Quanto alla doglianza in ordine alla specifica motivazione sull'elemento psicologico, la stessa, per la parte in cui non si dovesse ritenere assorbita dal motivo precedente, non è ammissibile essendo assolutamente generica.
Va peraltro ricordato che siamo di fronte ad un reato contravvenzionale per la sussistenza del quale basta la colpa, desumibile da tutti gli elementi di cui si è fin qui detto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.12.2014 n. 52040 - tratta da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione muro di recinzione e permesso di costruire.
La realizzazione di un muro di recinzione necessita del previo rilascio del permesso a costruire in casi in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli "interventi di nuova costruzione" di cui all'art. 3, lett. e), del D. P.R. n. 380 del 2001.
Quanto alla necessità o meno, a fronte della recinzione di un fondo rustico, del permesso per costruire, va precisato che occorre andare, di volta in volta a verificare l'estensione dell'area e se tale recinzione risulti realizzata con opere edilizie permanenti.
Occorre, in altri termini, ribadire il dictum di questa Corte secondo cui la realizzazione di un muro di recinzione necessita del previo rilascio del permesso a costruire in casi come quello che ci occupa in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso sia tale da modificare l'assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli "interventi di nuova costruzione" di cui all'art. 3, lett. e), del D. P.R. n. 380 del 2001 (così questa sez. 3, n. 4755 del 13.12.2007 dep. il 30.1.2008, Romano, rv. 238788).
In precedenza si era anche precisato -e va qui ribadito- che la recinzione di un fondo rustico non necessita di concessione solo nel caso in cui la stessa venga attuata con opere non permanenti; il provvedimento autorizzativo è, invece, richiesto quando venga realizzata con materiale tipicamente edilizio tra cui rientra la zoccolatura di calcestruzzo (sez. 3, n. 10566 del 30.09.1988, Baldo, rv. 179570).
E in altra pronuncia, nel valutare la realizzazione di un muro di recinzione in cemento armato di dimensioni ben più modeste di quello che ci occupa, si era condivisibilmente affermata la necessità della concessione edilizia (oggi permesso per costruire) di fronte all'erezione al confine di un fondo rustico di un muro in cemento armato, o comunque in mattoni e malta cementizia, anche alto fuori terra solo 80 cm., affermandosi, invece, che la concessione non è necessaria se la recinzione è realizzata con opere non permanenti, quali ad esempio semplici paletti conficcati nel terreno e filo spinato o un muretto cosiddetto a secco (sez. 3, n. 5395 del 25.01.1988, Gadaleta, rv. 178306)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.12.2014 n. 52040 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Violazione normativa antisismica.
Le prescrizioni per le costruzioni in zona sismica si applicano a qualsiasi manufatto indipendentemente dai materiali impiegati e dalle relative strutture in quanto nelle zone dichiarate sismiche ricorre l'esigenza di maggiore rigore e proprio l'eventuale impiego di materiali strutturali meno solidi rende ancor più necessari i controlli e le cautele prescritte, sicché ricorre il reato antisismico nel caso di opere realizzate nelle zone sismiche senza adempimento dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti allo sportello unico (art. 94 T.U.E.) e senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione (art. 94 T.U.E.), a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture.
2. Quanto al primo motivo, occorre premettere che l'art. 93 T.U.E. prescrive, tra l'altro, che nelle zone sismiche, di cui all'art. 83 T.U.E., chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a trasmettere al competente ufficio tecnico della regione copia della domanda e del progetto che ad esso deve essere allegato.
L'art. 94 T.U.E. prescrive poi che nelle località sismiche non si possono iniziare lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione.
L'inosservanza delle predette disposizioni è sanzionata dall'art. 95 T.U.E. e costituisce l'addebito ascritto dell'imputata ai capi b) e c) della rubrica con l'unica sottolineatura che competerà al giudice del rinvio accertare se vi sia sovrapposizione tra l'addebito di cui al capo b) e quello di cui al capo d) per essere stata elevata o meno la contestazione dell'omesso preavviso dei lavori allo sportello unico.
2.1. Il preavviso allo sportello unico (cui va depositato il progetto) adempie, infatti, ad una funzione informativa, in relazione all'attività da intraprendere, in modo da assicurare la vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche e garantire la cooperazione fra le amministrazioni coinvolte nel procedimento e gli interessati.
La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di precisare che, nelle zone sismiche, l'obbligo di informativa e di produzione degli atti progettuali non è limitato in relazione alle dimensioni e alle caratteristiche dell'opera, ma riguarda tutte le opere indicate dalla disposizione normativa, nessuna esclusa e dunque anche le opere cd. "minori", perché diversamente verrebbe frustrato il fine di rendere possibile il controllo preventivo e documentale dell'attività edilizia nelle zone sismiche (Sez. 3, n. 8140 del 06/07/1992, Di Scala, Rv. 191390).
Sul punto, è stato anche affermato che le prescrizioni per le costruzioni in zona sismica si applicano a qualsiasi manufatto indipendentemente dai materiali impiegati e dalle relative strutture in quanto nelle zone dichiarate sismiche ricorre l'esigenza di maggiore rigore e proprio l'eventuale impiego di materiali strutturali meno solidi rende ancor più necessari i controlli e le cautele prescritte (Sez. 3, n. 38142 del 26/09/2001, Tucci R., Rv. 220269) sicché ricorre il reato antisismico nel caso di opere realizzate nelle zone sismiche senza adempimento dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti allo sportello unico (art. 94 T.U.E.) e senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione (art. 94 T.U.E.), a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture (Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011, Floridia, Rv. 251284).
2.2. Siccome gli obblighi previsti dagli artt. 93 e 94 T.U.E. sono finalizzati a consentire il controllo preventivo della pubblica amministrazione, non rileva, ai fini della sussistenza del reato, l'effettiva pericolosità o meno della costruzione realizzata, in violazione degli adempimenti e in assenza delle prescritte autorizzazioni, perché le contravvenzioni previste dalla normativa antisismica, rientrando nel novero dei reati di pericolo presunto, puniscono inosservanze formali, con la conseguenza che neppure la verifica postuma dell'assenza del pericolo ed il rilascio del provvedimento abilitativo incidono sulla illiceità della condotta, in quanto gli illeciti sussistono in relazione al momento di inizio dell'attività (Sez. 3, n. 5738 del 13/05/1997, Petroni, Rv. 208299).
Va ricordato che la normativa antisismica è ispirata a preservare la pubblica incolumità in zone particolarmente soggette al verificarsi di movimenti tellurici, prescrivendo, da un lato, necessari obblighi burocratici e particolari prescrizioni tecniche costruttive e costituendo, dall'altro, un'anticipazione della tutela dell'interesse cui appresta  protezione (pubblica incolumità).
Ne consegue che, in materia urbanistica ed edilizia, le disposizioni legislative regionali, espressione del potere concorrente con quello dello Stato in materia, devono non solo rispettare i principi fondamentali stabiliti in materia edilizio-urbanistica dalla legislazione statale, ma devono anche essere interpretate in modo da non collidere con i medesimi (Sez. 3, n. 28560 del 26/03/2014, Alonzo, Rv. 259938).
2.3. La sentenza impugnata, come fondatamente lamenta il ricorrente, non si è uniformata ai richiamati principi di diritto e neppure ha spiegato se il deliberato della Giunta regionale delle Marche (n. 836 del 25.05.2009) -che sembrerebbe, contrariamente ai principi fissati dalla legislazione statale e contenuti nel testo unico dell'edilizia, distinguere gli interventi non sulla base della natura dell'intervento stesso (costruzioni, riparazioni, sopraelevazioni ex art. 93 T.U.E.) ma solo sulla base delle caratteristiche costruttive- rispetti i principi fondamentali stabiliti in materia edilizia-urbanistica dalla legislazione statale ovvero se collida con essi, come in sostanza ritenuto dal ricorrente, posto che, in ogni caso, l'intervento si è risolto nella realizzazione di una "costruzione", dovendosi anche ricordare che la disciplina edilizia antisismica e delle costruzioni, attenendo tali materie alla sicurezza statica degli edifici, rientra come tale nella competenza esclusiva dello Stato ex art. 117, comma secondo, Cost. (Sez. 3, n. 16182 del 28/02/2013, Crisafulli ed altro, Rv. 255254).
3. Quanto al secondo motivo, è sufficiente osservare che le costruzioni nelle zone sismiche sono disciplinate dal capo IV del T.U.E. e, per quanto qui interessa, le disposizioni, ai fini dell'osservanza delle prescrizioni contenute in detto capo, non distinguono tra opere in conglomerato cementizio armato o non armato o a struttura metallica, richiedendo l'adempimento delle prescrizioni prescritte dalla legge e ciò indipendentemente dal materiale utilizzato per la realizzazione dell'opera perché, come è stato in precedenza precisato, è richiesto un maggiore rigore nel controllo delle costruzioni realizzate nelle zone esposte al rischio sismico.
L'art. 93 T.U.E. stabilisce, al comma 2, che (quanto alle costruzioni, riparazioni, sopraelevazioni nelle zone sismiche) va allegato, alla comunicazione allo sportello unico, il progetto debitamente firmato da un professionista (ingegnere, architetto, geometra, perito edile) iscritto all'albo mentre l'art. 94, comma 4, T.U.E. dispone che i lavori devono essere diretti da uno dei professionisti sopra indicati.
Ne deriva che, ad eccezione dei soli interventi di semplice manutenzione ordinaria, qualsiasi intervento edilizio in zona sismica, comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato, deve essere (a) previamente denunciato al competente ufficio al fine di consentire i preventivi controlli, (b) necessita del rilascio del preventivo titolo abilitativo, (c) il progetto deve essere redatto da un professionista abilitato ed allegato alla denuncia di esecuzione dei lavori, (d) questi ultimi devono essere parimenti diretti da un professionista abilitato conseguendone, in difetto, la violazione dell'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Sez. 3, n. 34604 del 17/06/2010, Todaro, Rv. 248330) e ciascuna violazione, risolvendosi nell'inosservanza di specifiche prescrizioni, costituisce un titolo autonomo di reato.
Anche se errata la qualificazione giuridica data ai fatti contestati ai capi d) ed e) della rubrica (ai quali fatti non si applicano le norme contenute nel capo II del T.U.E. bensì quelle di cui al capo IV, ricadendo la costruzione del muro in zona sismica), è, per il resto, fondata la doglianza sollevata dal ricorrente circa l'inidoneo affidamento che il giudice ha fatto sul contenuto della deposizione del testimone per inferire che, essendo le opere di conglomerato cementizio sprovviste di armatura, l'imputata fosse esonerata dagli obblighi indicati nei capi d) ed e) della rubrica
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.12.2014 n. 50624 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia e restauro conservativo.
La ristrutturazione edilizia, diversamente dal restauro conservativo non è vincolata al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'edificio esistente, comprendendo il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, mentre il restauro ed il risanamento conservativo non possono modificare in modo sostanziale l'assetto edilizio preesistente.
Al fine di collocare le opere all'interno di una delle due categorie esse vanno considerate nella loro globalità tenendo conto le finalità perseguite con la loro realizzazione.

5. L'atteggiamento censurato si riverbera, inoltre, sulla qualificazione dell'intervento, che costituisce l'aspetto determinante della vicenda, ricavandosi dalla stessa la tipologia di titolo abilitativo richiesto e, conseguentemente, la liceità o meno della condotta posta in essere.
Tale qualificazione viene dunque effettuata dal Tribunale semplicemente richiamando quanto affermato dall'amministrazione comunale, ma la conclusione cui si perviene non è condivisibile.
Sempre secondo quanto è dato ricavare dalla lettura del ricorso e dell'ordinanza impugnata, i lavori, descritti nell'imputazione, riguardavano la suddivisione in 4 unità immobiliari e la demolizione dei solai del sottotetto finalizzata alla realizzazione di nuovi volumi abitabili nel vano sottotetto, qualificabili, secondo il ricorrente, come ristrutturazione soggetta a permesso di costruire o d.i.a. alternativa al permesso e, secondo l'amministrazione comunale, come risanamento conservativo soggetto a S.C.I.A.
6. Va a tale proposito rilevato, in linea generale, che la nozione di ristrutturazione edilizia risulta notevolmente ampliata, rispetto all'originaria formulazione, dopo le modifiche apportate al d.RR. 380/2001 dapprima ad opera del d.lgs. 301/2002 e, più recentemente, dal d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla L. 09.08.2013, n. 98 e dal d.l. 12.09.2014, n. 133 non ancora convertito in legge quando la presente decisione è stata deliberata.
L'articolo 10, comma primo, lettera c), d.P.R. 380/2001, nella formulazione attualmente in vigore, indica come soggetti a permesso di costruire gli «interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni».
Gli interventi di ristrutturazione sono così descritti dall'articolo 3, comma primo, lettera d), del medesimo D.P.R., nella formulazione attualmente vigente: «interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente».
7. Come è agevole rilevare dal dato letterale della disposizione, rientrano nella nozione di ristrutturazione edilizia gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione nei termini dianzi specificati.
Non tutti gli interventi di ristrutturazione edilizia richiedono, però, il permesso di costruire, come si ricava dalla lettura dell'articolo 10, comma 1, lett. c), d.RR. 380/2001.
E' inoltre previsto, in base a quanto disposto dall'articolo 22, comma 3, lett. a), che per detti interventi l'interessato possa optare per la d.i.a. alternativa al permesso di costruire.
La ristrutturazione edilizia si caratterizza, dunque, anche per la previsione di possibili incrementi volumetrici, ma ciò rende necessaria una lettura della norma nel senso che l'aumento di cubatura deve essere senz'altro contenuto, in modo da mantenere netta la differenza con gli interventi di nuova costruzione.
8. Gli interventi di ristrutturazione edilizia diversi da quelli indicati nell'articolo 10, comma primo, lettera c), invece, sono soggetti a s.c.i.a. Si tratta, in questo caso, di interventi di ristrutturazione edilizia di portata minore, che la giurisprudenza di questa Corte individua come quelli che determinano una semplice modifica dell'ordine in cui sono disposte le diverse parti che compongono la costruzione, in modo che, pur risultando complessivamente innovata, questa conserva la sua iniziale consistenza urbanistica.
La stessa giurisprudenza ricorda che, al contrario, le ristrutturazioni edilizie che comportano integrazioni funzionali e strutturali dell'edificio esistente, ammettendosi limitati incrementi di superficie e di volume, necessitano del permesso di costruire ovvero della denunzia di inizio attività alternativa al permesso (v. Sez. 3, n. 47046 del 26/10/2007, Soldano, Rv. 238460; Sez. 3, n. 40173 del 26/09/2006, Balletta, non massimata).
9. Va anche rilevato come, rispetto alle formulazioni precedente, l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380/2001 non comprenda più, tra gli interventi di ristrutturazione soggetti a permesso di costruire, quelli comportanti aumento di unità immobiliari e mutamenti della sagoma (ad eccezione, in quest'ultimo caso, degli interventi eseguiti in zone sottoposte a vincolo ai sensi del d.lgs. 42/2004), fermo restando, comunque, il divieto di apportare modifiche alla volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti.
10. Gli interventi di restauro e risanamento conservativo sono invece definiti dall'articolo 3, comma primo, lett. c), del d.P.R. 380/2001 come «gli interventi edilizi rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio».
Dalla lettura della definizione, come osservato dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 28840 del 09/07/2008, Dantoni, Rv. 240836, non massimata sul punto; Sez. 3, n. 40189 del 27/09/2006, Di Luggo, Rv. 235453, non massimata sul punto), si comprende agevolmente che la finalità degli interventi di restauro e risanamento conservativo è quella di rinnovare l'organismo edilizio in modo sistematico e globale, ma pur sempre nel rispetto dei suoi elementi essenziali «tipologici, formali e strutturali» trattandosi, appunto, di conservazione.
L'attività di restauro e risanamento conservativo si qualifica, pertanto, per un insieme di opere che lasciano inalterata la struttura dell'edificio, sia all'esterno che al suo interno, dovendosi privilegiare la funzione di ripristino della individualità originaria dell'immobile (così Sez. 3, n. 33536 del 10/06/2009, Tarallo, non massimata). Lo scopo è, in altre parole, quello di realizzare «(...)un insieme di opere riguardanti gli adeguamenti tipologici, igienico-sanitari e strutturali, finalizzato ad un uso più appropriato rispetto alle esigenze attuali degli edifici ed alloggi esistenti» (Sez. III, n.21100 del 29/03/2007, Colli, non massimata).
L'ulteriore requisito richiesto è, inoltre, quello del «rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali» dell'organismo edilizio oggetto di intervento, dei quali, tuttavia, la norma in esame non fornisce alcuna definizione, individuata, però, in precedenti pronunce di questa Corte (v. Sez. 3, n. 16048 del 21/04/2006, D'Antoni, Rv. 234265. Conf. Sez. 3, n. 39062 del 21/05/2009, Cioffi, non massimata; Sez. 3 n. 28840/2008, cit.), nelle quali si è stabilito che la «qualificazione tipologica» riguarda i caratteri architettonici e funzionali del manufatto preesistente che ne consentono la qualificazione in base alle tipologie edilizie (ad es. edificio urbano o rurale, industriale o residenziale etc.), gli  elementi formali attengono alla disposizione dei volumi, elementi architettonici che distinguono in modo peculiare il manufatto, configurando la sua immagine caratteristica; mentre gli «elementi strutturali» sono quelli che materialmente compongono la struttura dell'organismo edilizio.
11. Questa Corte ha inoltre posto in evidenza anche le differenze tra gli interventi di risanamento e restauro e quelli di ristrutturazione edilizia, osservando che quest'ultima non è vincolata al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'edificio esistente, comprendendo il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, mentre il restauro ed il risanamento conservativo non possono modificare in modo sostanziale l'assetto edilizio preesistente e consentono soltanto variazioni d'uso "compatibili" con l'edificio conservato (Cass. Sez. 3, n. 35897, del 14/05/2008, Altarozzi, non massimata. V. anche Sez. 3, n. 28458, 30/04/2009, Aversa, non massimata).
Infine, come emerge dalla seconda parte della definizione, la funzione conservativa degli interventi di restauro e risanamento può anche effettuarsi attraverso l'eliminazione di elementi estranei all'organismo edilizio ma, comunque, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali.
Anche la giurisprudenza amministrativa è orientata nel senso di ritenere che «gli interventi edilizi che alterino, anche sotto il profilo della distribuzione interna, l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi non si configurano come manutenzione straordinaria (né come restauro o risanamento conservativo), ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia, che è pertanto ravvisabile nella modificazione della distribuzione della superficie interna e dei volumi e dell'ordine in cui sono disposte le diverse porzioni dell'edificio anche per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso esistente: infatti anche in questi casi si configura il rinnovo di elementi costitutivi dell'edificio ed un'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento conservativo, che invece presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie» (v., da ultimo, Cons. St. Sez. V n. 4523, del 05/09/2014, con richiami ai prec.)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.11.2014 n. 49221 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere di scavo e necessità del permesso di costruire.
L'atto concessorio di tipo urbanistico è necessario allorché la morfologia del territorio venga alterata in conseguenza di rilevanti opere di scavo, sbancamenti, livellamenti, finalizzati ad usi diversi da quelli agricoli.
1. Il ricorso è infondato.
Il ricorrente censura la decisione impugnata lamentando l'incongruenza della motivazione, ma tale rilievo risulta privo di pregio.
Lamenta il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe escluso la natura pertinenziale dell'intervento sulla base di mere congetture.
In realtà, come emerge chiaramente dal tenore della decisione impugnata, i giudici del merito hanno valutato l'intervento nella sua consistenza accertata, rilevando che uno scavo delle dimensioni di quello riconducibile all'imputato comporta comunque una trasformazione permanente del territorio e richiede, per la sua esecuzione, il permesso di costruire.
Nel far ciò, i giudici del merito hanno anche posto in evidenza l'infondatezza della tesi difensiva, osservando che detto scavo, per dimensioni e caratteristiche (essendo pari, per lunghezza, all'intero edificio preesistente) non poteva ritenersi finalizzato alla realizzazione di una intercapedine volta all'eliminazione delle infiltrazioni di umidità ed alla realizzazione di un vano tecnico destinato ad accogliere alcune cisterne, come invece sostenuto dall'imputato.
2. Si tratta, ad avviso del Collegio, di argomentazioni giuridicamente corrette e sorrette da adeguata motivazione. L'atto concessorio di tipo urbanistico è, infatti, necessario allorché la morfologia del territorio venga alterata in conseguenza di rilevanti opere di scavo, sbancamenti, livellamenti, finalizzati ad usi diversi da quelli agricoli (cfr. Sez. III n. 23197, 04.06.2009; Sez. III n. 8064, 24.02.2009; Sez. III n. 45462, 09.12.2008; Sez. III n. 6930, 19.02.2004; Sez. III, n. 38055, 13.11.2002; Sez. III n. 3107, 14.03.2000; Sez. III n. 4722, 23.04.1994; Sez. III n. 1214, 02.04.1994).
La Corte territoriale ha, inoltre, motivatamente escluso la natura pertinenziale dell'intervento rivendicata dall'imputato sulla base di una obiettiva valutazione dei dati fattuali acquisiti, rilevando, nel contempo, come tali dati si ponessero in contraddizione con le mere affermazioni di un teste indotto dalla difesa, il quale aveva sostenuto una destinazione dell'intervento che, però, non ha trovato alcun riscontro.
Dunque, in assenza di altri elementi di valutazione (ad esempio, dimostrazione dell'effettiva presenza di umidità; presenza di progetti o altri dati concernenti le caratteristiche e dimensioni del vano accessorio; presenza delle cisterne da interrare; destinazione di utilizzo delle stesse etc.) correttamente i giudici del merito hanno ritenuto non dimostrata la natura pertinenziale dell'opera, valutandola coerentemente sulla base dei dati disponibili.
Tale evenienza sottrae pertanto la decisione impugnata ad ogni censura di legittimità
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 25.11.2014 n. 48990 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere in conglomerato cementizio armato e reati configurabili.
Ad eccezione dei soli interventi di semplice manutenzione ordinaria, qualsiasi intervento edilizio in zona sismica, comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato, deve essere (a) previamente denunciato al competente ufficio al fine di consentire i preventivi controlli, (b) necessita del rilascio del preventivo titolo abilitativo, (c) il progetto deve essere redatto da un professionista abilitato ed allegato alla denuncia di esecuzione dei lavori, (d) questi ultimi devono essere parimenti diretti da un professionista abilitato conseguendone, in difetto, la violazione dell'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 e ciascuna violazione, risolvendosi nell'inosservanza di specifiche prescrizioni, costituisce un titolo autonomo di reato.
3. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo di gravame.
Sul punto, è sufficiente osservare che le costruzioni nelle zone sismiche sono disciplinate dal capo IV del d.P.R. n. 380 del 2001 e, per quanto qui interessa, le disposizioni, ai fini dell'osservanza delle prescrizioni contenute in detto capo, non distinguono tra opere in conglomerato cementizio armato o non armato o a struttura metallica, richiedendo l'adempimento delle prescrizioni indipendentemente dal materiale utilizzato per la realizzazione dell'opera e ciò in considerazione del maggiore rigore richiesto nel controllo delle costruzioni realizzate nelle zone esposte al rischio sismico.
L'art. 93 d.P.R. n. 380 del 2001 prescrive, tra l'altro, che nelle zone sismiche, di cui all'art. 83 d.P.R. n. 380 del 2001, chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a trasmettere al competente ufficio tecnico della regione copia della domanda e del progetto che ad esso deve essere allegato (comma 2).
L'art. 94 d.P.R. n. 380 del 2001 prescrive poi che nelle località sismiche non si possono iniziare lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione. L'art. 94, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001 dispone infine che i lavori devono essere diretti da uno dei professionisti sopra indicati.
Ne deriva che, ad eccezione dei soli interventi di semplice manutenzione ordinaria, qualsiasi intervento edilizio in zona sismica, comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato, deve essere (a) previamente denunciato al competente ufficio al fine di consentire i preventivi controlli, (b) necessita del rilascio del preventivo titolo abilitativo, (c) il progetto deve essere redatto da un professionista abilitato ed allegato alla denuncia di esecuzione dei lavori, (d) questi ultimi devono essere parimenti diretti da un professionista abilitato conseguendone, in difetto, la violazione dell'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Sez. 3, n. 34604 del 17/06/2010, Todaro, Rv. 248330) e ciascuna violazione, risolvendosi nell'inosservanza di specifiche prescrizioni, costituisce un titolo autonomo di reato.
Anche se errata la qualificazione giuridica data ai fatti, così come contestati ai capi b) e c) della rubrica (ai quali fatti non si applicano le norme contenute nel capo II del d.P.R. n. 380 del 2001 bensì quelle di cui al capo IV, ricadendo la costruzione del vano in zona sismica), è dunque destituita di fondamento la doglianza sollevata dai ricorrenti che vorrebbero affrancata da ogni controllo e cautela un'opera costruttiva realizzata in zona sismica con mattoni forati legati da malta cementizia, posto che la Corte territoriale ha, con la motivazione, sostanzialmente corretto in iure l'originaria contestazione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.11.2014 n. 48005 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Concetto di ultimazione di immobile.
In tema di reato di realizzazione di manufatto abusivo, deve ritenersi ultimato solo l'edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, al punto che anche l'uso effettivo dell'immobile, se pure accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente al fine di ritenere "ultimato" l'immobile abusivamente realizzato, coincidendo l'ultimazione con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi.
2.2. La Corte distrettuale è poi giunta a ritenere, con riferimento ad entrambi i reati (sia urbanistico che paesaggistico), non integrata la prescrizione anche in considerazione di un ulteriore aspetto costituito della natura permanente dei reati contestati e sul rilievo che l'attività criminosa fosse tuttora in corso non essendo stato ancora l'immobile ultimato.
Ed infatti questa Corte, con riferimento al reato urbanistico, ha già affermato che, in tema di reato di realizzazione di manufatto abusivo, deve ritenersi ultimato solo l'edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità (Sez. 3, n. 40033 del 18/10/2011, Cappello, Rv. 250826) al punto che anche l'uso effettivo dell'immobile, se pure accompagnato dall'attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente al fine di ritenere "ultimato" l'immobile abusivamente realizzato, coincidendo l'ultimazione con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 39733 del 18/10/2011, Ventura, Rv. 251424).
Nel caso di specie, è pacifico e non controverso che l'immobile non fosse completato essendo mancante degli infissi, degli impianti elettrici e dell'imbiancatura.
Si tratta di un principio affermato anche con riferimento al reato previsto dall'art. 181, comma primo, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, qualora la fattispecie sia realizzata, come nella specie, attraverso una condotta che si protrae nel tempo, come nel caso di realizzazione di opere edilizie in zona sottoposta a vincolo, trattandosi di reato che ha natura permanente e che si consuma con l'esaurimento totale dell'attività o con la cessazione della condotta per qualsiasi motivo. (Sez. 3, n. 28934 del 26/03/2013, Borsani, Rv. 256897)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.11.2014 n. 48002 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Inammissibilità della sanatoria giurisprudenziale o impropria.
La legittimazione postuma dell’opera abusiva per effetto della c.d. sanatoria giurisprudenziale non determina l’estinzione del reato urbanistico e non giustifica neanche la revoca dell’ordine di demolizione dell’opera medesima.
4. Pare, infatti, che il provvedimento di sanatoria sia stato subordinato a condizioni e prescrizioni, tanto che, come affermato nel provvedimento impugnato, la sua inefficacia, dichiarata dalla Direzione Urbanistica di Firenze (prot. 29146/2013 dell'01.07.2013), sarebbe stata determinata dal «mancato compimento delle opere di adeguamento nei termini assegnati», venendosi così a creare una situazione in apparente contrasto con il consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale deve escludersi la possibilità della cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto che i suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto l'articolo 36 d.P.R. 380/2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un'attività vincolata della RA., consistente nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale (Sez. III n. 3895, 26.09.2013; Sez. III n. 23726, 08.06.2009 non massimata; n. 41567, 12.11.2007; n. 48499, 18.12.2003; n. 740, 13.01.2003; n. 42927, 19.12.2002; n. 41669, 21.11.2001; n. 10601, 11.10.2000).
Per le stesse ragioni questa Corte ha pure escluso l'ammissibilità di una sanatoria parziale, dovendo l'atto abilitativo postumo contemplare gli interventi eseguiti nella loro integrità (v. Sez. III n. 19587, 18.05.2011; n. 45241, 05.12.2007, non massimata; n. 291, 09.01.2004).
5. Detto provvedimento, inoltre, viene denominato «sanatoria giurisprudenziale», evidentemente con riferimento alla cosiddetta sanatoria giurisprudenziale o impropria individuata, in passato, dalla giurisprudenza amministrativa (v., ad es., Cons. St. Sez. V n. 1796, 19.04.2005) ed in base alla quale si ritengono sanabili le opere che, non conformi alla disciplina urbanistica ed alle previsioni degli strumenti di pianificazione, lo siano divenute successivamente e che sarebbe insensato demolire quando, a demolizione avvenuta, potrebbero essere legittimamente assentite.
Si tratta, tuttavia, di un orientamento nettamente minoritario che può dirsi ormai definitivamente superato, avendo la giurisprudenza amministrativa (v. Cons. St. Sez. IV, n. 4838, 17.09.2007) successivamente escluso l'ammissibilità della sanatoria giurisprudenziale sul presupposto che la sua applicazione contrasterebbe con il principio di legalità, dal momento che non vi è stata alcuna espressa previsione di tale istituto allorquando l'articolo 36 del d.P.R. 380/2001 ha sostituito la corrispondente disciplina della legge urbanistica 47/1985, nonostante il favorevole parere del 29.03.2001 della Adunanza generale del Consiglio di Stato, che ne aveva sollecitato l'introduzione al legislatore delegato il quale, tuttavia, come evidenziato nella Relazione illustrativa al testo Unico dell'edilizia, non raccoglieva il suggerimento, ponendo in evidenza l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale che impediva la formazione di un diritto vivente che avrebbe consentito la modifica del dato testuale ed il parere nettamente contrario espresso dalla Camera.
Lo stesso giudice amministrativo ha inoltre osservato, in un secondo tempo, che l'articolo 36 citato, in quanto norma derogatoria al principio per il quale i lavori realizzati sine titulo sono sottoposti alle prescritte misure ripristinatorie e sanzionatorie, non è suscettibile di applicazione analogica né di una interpretazione riduttiva (Cons. St. Sez. IV n. 6784, 02.11.2009) e che la sanatoria giurisprudenziale non può ritenersi applicabile in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa e non potendosi ritenere ammessi nell'ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell'azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall'Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l'invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all'Amministrazione (così Cons. St. Sez. V n. 3220, 11.06.2013).
Più recentemente, il Consiglio di Stato ha ulteriormente confermato la propria posizione in tema di sanatoria giurisprudenziale (alla quale, peraltro, risultano conformati anche i Tribunali Amministrativi Regionali) osservando come il divieto legale di rilasciare un permesso in sanatoria anche quando dopo la commissione dell'abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico sia giustificato della necessità di «evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile)» oltre che dall'esigenza di «disporre una regola senz'altro dissuasiva dell'intenzione di commettere un abuso, perché in tal modo chi costruisce sine titulo sa che deve comunque disporre la demolizione dell'abuso, pur se sopraggiunge una modifica favorevole dello strumento urbanistico» (Cons. Stato Sez. V 17.03.2014, n. 1324. Conf. Sez. V 27.05.2014, n. 2755).
6. L'attuale, consolidato orientamento del giudice amministrativo ha trovato peraltro conferma in una recente decisione della Corte Costituzionale (sent. 101/2013) la quale, nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 5, commi 1, 2 e 3, 6 e 7 della legge della Regione Toscana 31.01.2012, n. 4 (Modifiche alla legge regionale 3 gennaio 2005, n. 1 «Norme per il governo del territorio» e della legge regionale 16.10.2009, n. 58 «Norme in materia di prevenzione e riduzione del rischio sismico»), ha affermato che il principio della «doppia conformità» risulta finalizzato a «garantire l'assoluto rispetto della 'disciplina urbanistica ed edilizia' durante tutto l'arco temporale compreso tra la realizzazione dell'opera e la presentazione dell'istanza volta ad ottenere l'accertamento di conformità» e, richiamando la giurisprudenza amministrativa, ha pure osservato che la sanatoria, che si distingue dal condono vero e proprio, «è stata deliberatamente circoscritta dal legislatore ai soli abusi 'formali', ossia dovuti alla carenza del titolo abilitativo, rendendo così palese la ratio ispiratrice della previsione della sanatoria in esame, 'anche di natura preventiva e deterrente', finalizzata a frenare l'abusivismo edilizio, in modo da escludere letture 'sostanzialiste' della norma che consentano la possibilità di regolarizzare opere in contrasto con la disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della loro realizzazione, ma con essa conformi solo al momento della presentazione dell' istanza per l'accertamento di conformità».
7. Va a questo punto ricordato come la giurisprudenza di questa Corte abbia, in passato, preso atto delle diverse posizioni del giudice amministrativo aderendo, in un primo tempo, a quella che riconosceva efficacia alla sanatoria giurisprudenziale, escludendone comunque ogni effetto estintivo dei reati urbanistici e precisando che detto titolo abilitativo sanante avrebbe dovuto essere conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento del rilascio, escludendo, peraltro, la possibilità di procedere ad una diversa qualificazione giuridica dell'intervento edilizio per consentirne la regolarizzazione, parcellizzando le opere (Sez. III n. 286 e 291, 09.01.2004, non massimate sul punto).
In altre occasioni, confermando che la sanatoria impropria sarebbe comunque improduttiva di effetti estintivi dei reati urbanistici, si è presa in considerazione la sua rilevanza con riferimento specifico all'ordine di demolizione, rilevando, previo richiamo ai principi generali di buon andamento ed all'economia dell'azione amministrativa invocato dalla giurisprudenza amministrativa favorevole, che l'eventuale suo rilascio renderebbe inapplicabile l'ordine di demolizione, osservando, sostanzialmente, che sarebbe insensato procedere alla demolizione di ciò che può poi essere legittimamente ricostruito (v. Sez. III n. 14329, 07.04.2008; Sez. III n. 40969, 11.11.2005; Sez. III n. 1492, 09.02.1998. V. anche Sez. III n. 3082, 21.01.2008, non massimata; Sez. III n. 24451, 21.06.2007). Veniva comunque dato atto anche dell'orientamento difforme del giudice amministrativo (v. Sez. III n. 21208, 28.05.2008, non massimata).
8. La più recente ed approfondita disamina della questione concernente l'ammissibilità della sanatoria giurisprudenziale o impropria da parte del giudice amministrativo e l'autorevole richiamo a tale giurisprudenza operata dalla Corte Costituzionale consentono di ritenere ormai superate le argomentazioni sviluppate nelle decisioni di questa Corte appena ricordate, in quanto fondate, prevalentemente, sul mero richiamo di un orientamento, già minoritario, che può dirsi ormai completamente abbandonato dagli stessi giudici che lo avevano in passato formulato.
Le argomentazioni sviluppate a sostegno dell'attuale indirizzo interpretativo appaiono, ad avviso del Collegio, del tutto condivisibili, poiché tengono conto della formulazione letterale della norma e della sua genesi e risultano pienamente conformi al richiamato principio di legalità cui deve necessariamente conformarsi l'azione amministrativa perché, come osservato in dottrina, non può esservi rispetto del principio di buon andamento della pubblica amministrazione se non vi è, al tempo stesso, rispetto del principio di legalità.
La espressa previsione, nell'art. 36 d.P.R. 380/2001, del requisito della doppia conformità delle opere da sanare e la deliberata scelta del legislatore di non inserire nel Testo Unico dell'edilizia la sanatoria giurisprudenziale nonostante le indicazioni in tal senso ricevute dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato rendono evidente la volontà di limitare la possibilità di sanatoria ai soli abusi formali.
Altrettanto significative appaiono, poi, le considerazioni della più recente giurisprudenza amministrativa riguardo alla negativa incidenza sull'effetto deterrente dell'ordine di demolizione -che il legislatore ha evidentemente voluto- che sarebbe provocata dalla previsione di una sanatoria conseguente ad una conformità dell'opera sopravvenuta alla sua realizzazione, creando l'aspettativa di una futura possibile regolarizzazione anche in presenza di condizioni inizialmente ostative alla esecuzione dell'intervento edilizio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.11.2014 n. 47402 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATANel caso di concorso tra le funzioni di vigilanza edilizia ex art. 31 del DPR 380/2001, di cui è titolare il Comune, e quelle di protezione del vincolo paesistico ex art. 167 del Dlgs. 42/2004, attribuite all’ente gestore del Parco, ciascuno dei due enti è legittimato ad adottare le misure repressive nei confronti degli abusi edilizi, compresa l’ingiunzione di rimessione in pristino.
Le valutazioni che i due enti svolgono nell’esercizio delle funzioni repressive non sono sovrapponibili.
Il Comune deve certamente tenere conto dei limiti e dei divieti di natura urbanistico-edilizia posti dal piano territoriale di coordinamento del Parco, ma nella qualificazione dell’abuso e nell’accertamento di conformità ex art. 36 del DPR 380/2001 applica definizioni e categorie esclusivamente edilizie. Il Parco, in quanto autorità preposta al rilascio dell’autorizzazione paesistica, esercita un potere differente, perché decide sulla compatibilità paesistica ai fini della sanatoria adattando le definizioni e le categorie edilizie al proprio peculiare punto di osservazione.
Di conseguenza, il Comune si concentra sul contenuto della singola opera abusiva, per stabilire se la stessa ricada in una delle facoltà edificatorie previste dalla disciplina urbanistica comunale o sovraordinata. Il Parco valuta invece la percepibilità dell’opera quale parte di un insieme, come evidenziato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
Un nuovo volume potrebbe quindi essere sanabile nella valutazione del Comune ma non nella valutazione paesistica del Parco. Cambiando le circostanze di fatto, potrebbe verificarsi il caso opposto. A maggior ragione le conclusioni possono divergere per gli interventi edilizi minori e accessori.

... per l'annullamento del provvedimento del dirigente della Divisione Gestione del Territorio prot. n. U0070880 del 13.08.2007, con il quale è stata ingiunta la demolizione di alcune opere abusive realizzate in via Riva di Villa Santa;
...
1. La ricorrente M.B. è proprietaria di un fondo situato nel Comune di Bergamo tra via Paradiso e via Riva di Villa Santa, sul quale si trovano due fabbricati, precisamente un edificio residenziale di due piani fuori terra e un separato locale seminterrato censito come cantina.
2. L’intera proprietà è sottoposta a vincolo paesistico e ricade nel Parco Regionale dei Colli di Bergamo. Il piano territoriale di coordinamento del Parco classifica l’area in zona C2 (ad alto valore paesistico).
3. Nel 2006 il padre della ricorrente ha ristrutturato abusivamente il locale seminterrato, intervenendo anche sul terreno circostante. Un sopralluogo congiunto dei guardaparco e dei funzionari comunali eseguito il 15.06.2006 ha accertato la presenza delle seguenti opere: (a) un manufatto in pietra a vista e cemento (7,5x5x2,5 metri) con copertura piana (8x6 metri) a livello della strada, completata da ringhiera di protezione e pergolato in metallo alto circa 2,5 metri; (b) un muro di contenimento alto da 0,7 metri a 2,5 metri; (c) una pavimentazione in cemento (4x5 metri); (d) una vasca a livello della pavimentazione (3x2 metri, profonda 0,9 metri); (e) un vialetto in cemento e pietra (1x9,3 metri); (f) un muretto di confine addossato alla preesistente recinzione metallica.
4. Sulla base delle relazioni di sopralluogo il Comune, preso atto che non era stato rispettato l’ordine di sospensione, ha ingiunto in data 13.08.2007, con ordinanza del dirigente della Divisione Gestione del Territorio, la demolizione delle opere abusive, e specificamente del manufatto adibito a cantina, del muro di contenimento, del vialetto e della vasca.
5. In precedenza anche il direttore del Parco, con provvedimento del 12.07.2007, aveva ingiunto la rimessione in pristino.
6. Contro l’ordinanza del Comune la ricorrente ha presentato impugnazione con atto notificato il 13.11.2007 e depositato il 23.11.2007. Le censure possono essere sintetizzate come segue:
(i) violazione dell’art. 80, comma 5, della LR 11.03.2005 n. 12, che attribuisce al gestore del Parco la competenza sanzionatoria sugli abusi commessi all’interno del perimetro del Parco stesso;
(ii) travisamento, in quanto la cantina oggetto dei lavori abusivi era preesistente, e risulta in effetti in una scheda di accatastamento del 04.11.1943;
(iii) difetto di motivazione ed erronea applicazione dell’art. 31 del DPR 06.06.2001 n. 380 in luogo dell’art. 167 del Dlgs. 22.01.2004 n. 42.
7. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo la reiezione del ricorso.
8. L’ordinanza del direttore del Parco è stata impugnata separatamente davanti a questo TAR (ricorso n. 1172/2007, non ancora definito).
9. In data 14.02.2008 la ricorrente ha presentato al Comune domanda di accertamento di conformità. Il relativo procedimento non si è ancora concluso.
10. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulla compresenza di profili edilizi e paesistici
11. Per quanto riguarda i rapporti tra gli enti incaricati della repressione degli abusi edilizi all’interno dei parchi regionali, la tesi dell’alternatività sostenuta dalla ricorrente non appare condivisibile.
12. Nel caso in esame si verifica in realtà un concorso tra le funzioni di vigilanza edilizia ex art. 31 del DPR 380/2001, di cui è titolare il Comune, e quelle di protezione del vincolo paesistico ex art. 167 del Dlgs. 42/2004, che in base alla legislazione regionale (v. art. 80, comma 5, della LR 12/2005) sono attribuite all’ente gestore del Parco. Ciascuno dei due enti è quindi legittimato ad adottare le misure repressive nei confronti degli abusi edilizi, compresa l’ingiunzione di rimessione in pristino.
13. Le valutazioni che i due enti svolgono nell’esercizio delle funzioni repressive non sono sovrapponibili. Il Comune deve certamente tenere conto dei limiti e dei divieti di natura urbanistico-edilizia posti dal piano territoriale di coordinamento del Parco, ma nella qualificazione dell’abuso e nell’accertamento di conformità ex art. 36 del DPR 380/2001 applica definizioni e categorie esclusivamente edilizie. Il Parco, in quanto autorità preposta al rilascio dell’autorizzazione paesistica, esercita un potere differente, perché decide sulla compatibilità paesistica ai fini della sanatoria adattando le definizioni e le categorie edilizie al proprio peculiare punto di osservazione.
14. Di conseguenza, il Comune si concentra sul contenuto della singola opera abusiva, per stabilire se la stessa ricada in una delle facoltà edificatorie previste dalla disciplina urbanistica comunale o sovraordinata (in caso affermativo l’abuso è solo formale, e dunque regolarizzabile, in caso negativo si applicano le misure ripristinatorie o pecuniarie ex art. 31-34 del DPR 380/2001). Il Parco valuta invece la percepibilità dell’opera quale parte di un insieme, come evidenziato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (v. parere dell’Ufficio Legislativo prot. n. 16721 del 13.09.2010) e dalla giurisprudenza (v. TAR Napoli Sez. VII 10.02.2014 n. 930; TAR Torino Sez. II 17.12.2011 n. 1310).
Un nuovo volume potrebbe quindi essere sanabile nella valutazione del Comune (ad esempio, perché gli indici edificatori non sono ancora esauriti) ma non nella valutazione paesistica del Parco. Cambiando le circostanze di fatto, potrebbe verificarsi il caso opposto. A maggior ragione le conclusioni possono divergere per gli interventi edilizi minori e accessori.
Sulla valutazione sotto il profilo edilizio
15. Il punto che appare decisivo nella vicenda in esame è la preesistenza del manufatto, adibito a cantina, sul quale sono stati eseguiti gli interventi principali. La ricorrente ha documentato attraverso la scheda di accatastamento del 04.11.1943 che a quella data il seminterrato era già stato realizzato. Non è chiaro se i lavori di costruzione siano iniziati anteriormente all’entrata in vigore della legge 17.08.1942 n. 1150, ma nelle situazioni dubbie prevale la tesi più favorevole alla conservazione di quanto edificato (v. TAR Brescia Sez. II 10.05.2012 n. 825; TAR Brescia Sez. II 02.04.2013 n. 307). Del resto, il lungo tempo trascorso priverebbe di qualsiasi rilievo l’interesse pubblico alla demolizione del manufatto, anche se al momento della realizzazione fosse stato necessario un titolo autorizzatorio.
16. La presunzione di regolare edificazione derivante dall’accatastamento e il notevole intervallo temporale impongono pertanto di considerare il manufatto come preesistente e ormai stabilizzato, con la conseguente impossibilità di qualificare l’intervento edilizio abusivo come nuova costruzione.
In base alle tavole allegate alla domanda di accertamento di conformità presentata dalla ricorrente (doc. 14) sembra in effetti trattarsi di ristrutturazione pesante ex art. 10, comma 1-c, del DPR 380/2001, sia per l’incremento del volume esterno del manufatto, determinato dal riporto di terreno necessario per livellare la copertura, sia perché la terrazza così ottenuta aumenta la superficie disponibile, sia perché vi è stata modifica dei prospetti con l’inserimento di finestre sui lati est e ovest.
17. Le altre opere di sistemazione indicate nel provvedimento impugnato sono attratte nella ristrutturazione complessiva di questa parte della proprietà, e quindi l’intero intervento deve essere considerato in modo unitario.
18. Nell’insieme, non sembra che vi sia stato uno stravolgimento della condizione dei luoghi. Il confronto non deve essere fatto con la situazione di rinaturalizzazione o degrado anteriore all’intervento abusivo, ma con le caratteristiche edilizie intrinseche alle opere originarie, comprese le potenzialità di miglioramento estetico e funzionale ottenibili grazie all’inserimento di nuovi materiali e di elementi decorativi.
Così, la circostanza che la copertura del fabbricato seminterrato si trovi a livello del piano stradale ne consente certamente la sistemazione in modo da ricavarne una terrazza o dei posti auto, ed è compatibile sia con l’aggiunta di una sovrastante struttura leggera con funzione di pergolato o berceau, sia con il posizionamento di una ringhiera di protezione. Si tratta di una normale evoluzione dell’arredo esterno dei luoghi, che può dare più evidenza alla cantina sottostante ma non ne altera la natura o la consistenza interna. Parimenti, la realizzazione di muri di contenimento e di vialetti è da considerare come parte della ristrutturazione, in quanto queste opere contribuiscono al disegno di recupero dello spazio in cui si colloca il manufatto.
19. Queste osservazioni rendono necessaria un’ulteriore precisazione sulla qualificazione dell’intervento abusivo. Come si è visto sopra, la categoria della ristrutturazione pesante deve essere utilizzata a causa di alcune modifiche inserite nel manufatto adibito a cantina (volume, superficie, prospetti). È però evidente che la finalità dei lavori è quella del recupero e risanamento dell’immobile, e, salve le verifiche rimesse agli uffici comunali, il peso delle innovazioni sembra congruente con questa finalità (il maggior volume è esterno al manufatto, e ugualmente la superficie destinata a terrazza o parcheggio). La sede per maggiori approfondimenti al riguardo è però in primo luogo la procedura di accertamento di conformità, che non è mai stata ultimata, benché sia iniziata ancora nel 2008.
Conclusioni
20. In accoglimento del ricorso, il provvedimento impugnato deve quindi essere annullato, in quanto si limita a rilevare la presenza dell’abuso edilizio senza porsi il problema della preesistenza del manufatto adibito a cantina e senza precisare le ragioni che imporrebbero comunque la demolizione.
21. Questa pronuncia comporta, quale effetto conformativo, l’obbligo per il Comune di pronunciarsi sulla domanda di accertamento di conformità presentata dalla ricorrente ex art. 36 del DPR 380/2001. L’esame sotto il profilo edilizio dovrà concludersi entro 60 giorni dal deposito della presente sentenza (massima tratta da www.lexambiente.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 15.10.2014 n. 1057 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa la presunzione di abusività del fabbricato da parte del Comune, la ricorrente ha documentato attraverso la scheda di accatastamento del 04.11.1943 che a quella data il seminterrato era già stato realizzato.
Non è chiaro se i lavori di costruzione siano iniziati anteriormente all’entrata in vigore della legge 17.08.1942 n. 1150, ma nelle situazioni dubbie prevale la tesi più favorevole alla conservazione di quanto edificato. Del resto, il lungo tempo trascorso priverebbe di qualsiasi rilievo l’interesse pubblico alla demolizione del manufatto, anche se al momento della realizzazione fosse stato necessario un titolo autorizzatorio.
La presunzione di regolare edificazione derivante dall’accatastamento e il notevole intervallo temporale impongono pertanto di considerare il manufatto come preesistente e ormai stabilizzato, con la conseguente impossibilità di qualificare l’intervento edilizio abusivo come nuova costruzione.

... per l'annullamento del provvedimento del dirigente della Divisione Gestione del Territorio prot. n. U0070880 del 13.08.2007, con il quale è stata ingiunta la demolizione di alcune opere abusive realizzate in via Riva di Villa Santa;
...
1. La ricorrente M.B. è proprietaria di un fondo situato nel Comune di Bergamo tra via Paradiso e via Riva di Villa Santa, sul quale si trovano due fabbricati, precisamente un edificio residenziale di due piani fuori terra e un separato locale seminterrato censito come cantina.
2. L’intera proprietà è sottoposta a vincolo paesistico e ricade nel Parco Regionale dei Colli di Bergamo. Il piano territoriale di coordinamento del Parco classifica l’area in zona C2 (ad alto valore paesistico).
3. Nel 2006 il padre della ricorrente ha ristrutturato abusivamente il locale seminterrato, intervenendo anche sul terreno circostante. Un sopralluogo congiunto dei guardaparco e dei funzionari comunali eseguito il 15.06.2006 ha accertato la presenza delle seguenti opere: (a) un manufatto in pietra a vista e cemento (7,5x5x2,5 metri) con copertura piana (8x6 metri) a livello della strada, completata da ringhiera di protezione e pergolato in metallo alto circa 2,5 metri; (b) un muro di contenimento alto da 0,7 metri a 2,5 metri; (c) una pavimentazione in cemento (4x5 metri); (d) una vasca a livello della pavimentazione (3x2 metri, profonda 0,9 metri); (e) un vialetto in cemento e pietra (1x9,3 metri); (f) un muretto di confine addossato alla preesistente recinzione metallica.
4. Sulla base delle relazioni di sopralluogo il Comune, preso atto che non era stato rispettato l’ordine di sospensione, ha ingiunto in data 13.08.2007, con ordinanza del dirigente della Divisione Gestione del Territorio, la demolizione delle opere abusive, e specificamente del manufatto adibito a cantina, del muro di contenimento, del vialetto e della vasca.
5. In precedenza anche il direttore del Parco, con provvedimento del 12.07.2007, aveva ingiunto la rimessione in pristino.
6. Contro l’ordinanza del Comune la ricorrente ha presentato impugnazione con atto notificato il 13.11.2007 e depositato il 23.11.2007. Le censure possono essere sintetizzate come segue:
(i) violazione dell’art. 80, comma 5, della LR 11.03.2005 n. 12, che attribuisce al gestore del Parco la competenza sanzionatoria sugli abusi commessi all’interno del perimetro del Parco stesso;
(ii) travisamento, in quanto la cantina oggetto dei lavori abusivi era preesistente, e risulta in effetti in una scheda di accatastamento del 04.11.1943;
(iii) difetto di motivazione ed erronea applicazione dell’art. 31 del DPR 06.06.2001 n. 380 in luogo dell’art. 167 del Dlgs. 22.01.2004 n. 42.
7. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo la reiezione del ricorso.
8. L’ordinanza del direttore del Parco è stata impugnata separatamente davanti a questo TAR (ricorso n. 1172/2007, non ancora definito).
9. In data 14.02.2008 la ricorrente ha presentato al Comune domanda di accertamento di conformità. Il relativo procedimento non si è ancora concluso.
10. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulla valutazione sotto il profilo edilizio
15. Il punto che appare decisivo nella vicenda in esame è la preesistenza del manufatto, adibito a cantina, sul quale sono stati eseguiti gli interventi principali. La ricorrente ha documentato attraverso la scheda di accatastamento del 04.11.1943 che a quella data il seminterrato era già stato realizzato.
Non è chiaro se i lavori di costruzione siano iniziati anteriormente all’entrata in vigore della legge 17.08.1942 n. 1150, ma nelle situazioni dubbie prevale la tesi più favorevole alla conservazione di quanto edificato (v. TAR Brescia Sez. II 10.05.2012 n. 825; TAR Brescia Sez. II 02.04.2013 n. 307). Del resto, il lungo tempo trascorso priverebbe di qualsiasi rilievo l’interesse pubblico alla demolizione del manufatto, anche se al momento della realizzazione fosse stato necessario un titolo autorizzatorio.
16. La presunzione di regolare edificazione derivante dall’accatastamento e il notevole intervallo temporale impongono pertanto di considerare il manufatto come preesistente e ormai stabilizzato, con la conseguente impossibilità di qualificare l’intervento edilizio abusivo come nuova costruzione.
In base alle tavole allegate alla domanda di accertamento di conformità presentata dalla ricorrente (doc. 14) sembra in effetti trattarsi di ristrutturazione pesante ex art. 10, comma 1-c, del DPR 380/2001, sia per l’incremento del volume esterno del manufatto, determinato dal riporto di terreno necessario per livellare la copertura, sia perché la terrazza così ottenuta aumenta la superficie disponibile, sia perché vi è stata modifica dei prospetti con l’inserimento di finestre sui lati est e ovest.
17. Le altre opere di sistemazione indicate nel provvedimento impugnato sono attratte nella ristrutturazione complessiva di questa parte della proprietà, e quindi l’intero intervento deve essere considerato in modo unitario.
18. Nell’insieme, non sembra che vi sia stato uno stravolgimento della condizione dei luoghi. Il confronto non deve essere fatto con la situazione di rinaturalizzazione o degrado anteriore all’intervento abusivo, ma con le caratteristiche edilizie intrinseche alle opere originarie, comprese le potenzialità di miglioramento estetico e funzionale ottenibili grazie all’inserimento di nuovi materiali e di elementi decorativi.
Così, la circostanza che la copertura del fabbricato seminterrato si trovi a livello del piano stradale ne consente certamente la sistemazione in modo da ricavarne una terrazza o dei posti auto, ed è compatibile sia con l’aggiunta di una sovrastante struttura leggera con funzione di pergolato o berceau, sia con il posizionamento di una ringhiera di protezione.
Si tratta di una normale evoluzione dell’arredo esterno dei luoghi, che può dare più evidenza alla cantina sottostante ma non ne altera la natura o la consistenza interna. Parimenti, la realizzazione di muri di contenimento e di vialetti è da considerare come parte della ristrutturazione, in quanto queste opere contribuiscono al disegno di recupero dello spazio in cui si colloca il manufatto.
19. Queste osservazioni rendono necessaria un’ulteriore precisazione sulla qualificazione dell’intervento abusivo. Come si è visto sopra, la categoria della ristrutturazione pesante deve essere utilizzata a causa di alcune modifiche inserite nel manufatto adibito a cantina (volume, superficie, prospetti). È però evidente che la finalità dei lavori è quella del recupero e risanamento dell’immobile, e, salve le verifiche rimesse agli uffici comunali, il peso delle innovazioni sembra congruente con questa finalità (il maggior volume è esterno al manufatto, e ugualmente la superficie destinata a terrazza o parcheggio). La sede per maggiori approfondimenti al riguardo è però in primo luogo la procedura di accertamento di conformità, che non è mai stata ultimata, benché sia iniziata ancora nel 2008.
Conclusioni
20. In accoglimento del ricorso, il provvedimento impugnato deve quindi essere annullato, in quanto si limita a rilevare la presenza dell’abuso edilizio senza porsi il problema della preesistenza del manufatto adibito a cantina e senza precisare le ragioni che imporrebbero comunque la demolizione.
21. Questa pronuncia comporta, quale effetto conformativo, l’obbligo per il Comune di pronunciarsi sulla domanda di accertamento di conformità presentata dalla ricorrente ex art. 36 del DPR 380/2001. L’esame sotto il profilo edilizio dovrà concludersi entro 60 giorni dal deposito della presente sentenza (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 15.10.2014 n. 1057 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: DIFFERENZE TRA RISOLUZIONE E RECESSO DELLA P.A. DA UN CONTRATTO.
La previsione del previgente art. 340, all. E, L. n. 2248/1865 (oggi art. 136 D.Lgs. n. 163/2006) che consente alla p.a. di risolvere il contratto qualora l'appaltatore sia colpevole di frode o grave negligenza, si configura come rimedio d’inadempimento disposto in via autoritativa dalla p.a. e si differenzia dal recesso contemplato dall’art. 354 della medesima legge n. 2248 (oggi, art. 134 D.Lgs. n. 163/2006) che, pur comportando anch'esso lo scioglimento del rapporto per volontà unilaterale dell'Amministrazione, costituisce espressione di un diritto potestativo il cui esercizio non postula la sussistenza di particolari condizioni ma può aver luogo in qualsiasi momento, senza che assumano rilievo i motivi che lo hanno determinato, richiedendosi soltanto, a tal fine, la corresponsione di un indennizzo in favore dell'appaltatore.
Un operatore economico convenne in giudizio un Ente fieristico, lamentando l’ingiustificata rescissione del contratto di affidamento del servizio di biglietteria tra essi intercorrente, chiedendo -di contro- che fosse accertato l'inadempimento dell’Ente convenuto, con la condanna al risarcimento dei danni subiti. In via riconvenzionale, l’Ente domandò la declaratoria di nullità del contratto, perché stipulato con modalità contra legem e, in subordine, il riconoscimento della legittimità del recesso, consentito da una specifica previsione contrattuale da interpretarsi in maniera non tassativa, bensì esemplificativa.
All’esito del doppio grado di merito, la Corte d’appello dichiarò che il recesso era avvenuto per giusta causa, escludendo l'obbligo di corrispondere alcunché, perché in presenza del legittimo esercizio di una facoltà contrattualmente prevista. A fondamento della decisione la Corte, per quanto qui rileva, ha ritenuto che il recesso fosse giustificato dal coinvolgimento nell'esecuzione del contratto di elementi interessati da indagini penali per associazione di stampo mafioso che avevano riguardato anche la società appaltatrice, affermando che dovesse, conseguentemente, escludersi ogni pretesa di carattere patrimoniale, stante la derogabilità dell'art. 1671 c.c., come compiuta all’art. 13 dalla previsione negoziale intervenuta tra le parti.
L’impresa ricorre per Cassazione, che accoglie il ricorso. Osserva la Corte che le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte territoriale si pongono in contrasto con il tenore letterale della clausola pattizia e della comunicazione di recesso trasmessa alla società ricorrente, nonché con le disposizioni che disciplinano la rescissione dei contratti conclusi con la p.a. e, più in generale, con la disciplina del recesso dal contratto d'appalto.
La previsione contrattuale, nell'attribuire all’Amministrazione la facoltà di risolvere unilateralmente il contratto, ne consentiva l'esercizio solo al ricorrere di gravi inosservanze degli obblighi o di reiterate infrazioni alle norme riguardanti lo svolgimento del servizio: tutte fattispecie postulanti un inadempimento della predetta società. Del resto, osserva la Corte di Cassazione, la stessa rubrica e il testo della clausola non menzionavano in alcun modo un diritto di recesso, ma prevedevano esclusivamente la facoltà di rescindere il contratto, così evocando la previsione in allora vigente (art. 340, all. E della L. n. 2248/ 1865, oggi art. 136 D.Lgs. n. 163/2006) che consentiva alla p.a. di dar corso alla risoluzione del contratto (con salvezza di risarcimento) ogni qualvolta l'appaltatore si fosse reso colpevole di frode o grave negligenza, contravvenendo agli obblighi e alle condizioni stipulate.
Tale provvedimento, com'è noto, si configura come un rimedio d’inadempimento disposta in via autoritativa dall'Amministrazione nell'esercizio dei suoi poteri di autotutela e si differenzia pertanto dal recesso, contemplato dall’art. 354 della medesima legge n. 2248 (oggi, art. 134 D.Lgs. n. 163/2006) che, pur comportando anch'esso lo scioglimento del rapporto per volontà unilaterale dell'Amministrazione, costituisce espressione di un diritto potestativo il cui esercizio non postula la sussistenza di particolari condizioni ma può aver luogo in qualsiasi momento, senza che assumano rilievo i motivi che lo hanno determinato, richiedendosi soltanto, a tal fine, la corresponsione di un indennizzo in favore dell'appaltatore (Cass. civ., sez. I, 07.08.1993, n. 8565; Cass. civ., Sez. Un., 09.05.1972, n. 1402).
Non diversamente dalla disciplina privatistica dell'appalto, l'esercizio del diritto di recesso non è subordinato a specifici presupposti ma può aver luogo per qualsiasi causa, il cui accertamento non è neppure richiesto ai fini della legittimità del recesso, non essendo configurabile un diritto dell'appaltatore alla realizzazione dell'opera o allo svolgimento del servizio, la cui prosecuzione risponde esclusivamente all'interesse del committente (Cass. civ., sez. II, 02.05.2011, n. 9645; id., 24.04.2008, n. 10742; id., 29.07.2003, n. 11642).
Nello specifico, osserva la Suprema Corte, la sentenza d’appello non individua la ragione per cui le parti avrebbero inteso circoscriverne l'esercizio a ipotesi in cui, ricorrendo un inadempimento dell'appaltatrice, si sarebbe potuta legittimamente disporre la rescissione del contratto, con la conseguente  esclusione dell'obbligo di corrispondere l'indennizzo, anche in mancanza di un'espressa previsione contrattuale.
Ciò, in violazione del canone per cui -nell'interpretazione del contratto- deve attribuirsi valore prioritario al criterio che impone di fare riferimento al significato letterale delle espressioni usate e d'interpretare le clausole nel loro reciproco collegamento, la cui sufficienza, ai fini della ricostruzione della comune intenzione delle parti, esclude l'utilizzazione degli altri criteri ermeneutici, i quali rivestono una portata meramente sussidiaria e complementare, per l'ipotesi in cui in cui una clausola si presti ad interpretazioni diverse e contrastanti (Cass. civ., sez. III, 11.03.2014, n. 5595; Cass. civ., sez. V, 23.04.2010, n. 9786; Cass. civ., sez. II, 16.02.2007, n. 3644).
Ed anche a voler ritenere, chiosa la Cassazione, che la clausola contrattuale prevedesse, in riferimento alle ipotesi espressamente indicate, un diritto di recesso svincolato dall'obbligo di corrispondere l'indennizzo, la sentenza impugnata avrebbe dovuto precisare a quale delle predette ipotesi era riconducibile la determinazione dell’Amministrazione e le relative ragioni: come si evince dalla comunicazione inviata all'appaltatrice, la risoluzione del contratto fu infatti disposta per motivi di opportunità, collegati alle circostanze emerse nel corso di un'indagine penale, che non trovano apparentemente riscontro in alcuna delle fattispecie elencate dall'art. 13 del contratto.
Per il che, il ricorso è accolto e la sentenza è cassata con rinvio (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 13.10.2014 n. 21595 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2014).

EDILIZIA PRIVATA:  LA STAGIONALITÀ DEL MANUFATTO NON ESCLUDE LA CONFIGURABILITÀ DEL REATO DI COSTRUZIONE ABUSIVA.
Integra il reato di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, comma 1, lett. b), la mancata rimozione, alla scadenza del termine previsto nell'autorizzazione "in precario", di un manufatto installato per soddisfare esigenze stagionali.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sul tema, già più volte oggetto di attenzione nella giurisprudenza di legittimità, relativo all’individuazione delle condizioni in presenza delle quali può ritenersi che un manufatto, realizzato senza alcun titolo abilitativo, possa rientrare nel concetto di precarietà in quanto finalizzato a soddisfare un’esigenza stagionale.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza di condanna, confermata in appello, nei confronti del proprietario di un terreno situato in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, cui era stato attribuito di aver costruito, in mancanza di permesso di costruire e autorizzazione paesaggistica, un manufatto in legno delle dimensioni di metri 8,30 x 8,10 e altezza variabile tra 2,20 e 2,70 m.
Contro la sentenza d’appello, che pur lo aveva prosciolto dal reato paesaggistico, proponeva ricorso per cassazione l’interessato, sostenendo, per quanto qui di interesse, che la Corte d'appello non avrebbe considerato che la legge regionale (nella specie, della Lombardia) consente che, senza titolo abilitativo, siano eseguiti interventi di realizzazione di coperture stagionali destinate a proteggere le colture e i piccoli animali allevati all'aria aperta a pieno campo, e ha fondato il suo convincimento sull'assunto che il manufatto dell'imputato, quantomeno nella parte destinata allo stivaggio del fieno, non potesse rientrare in tale previsione, perché lo stesso doveva ritenersi permanente.
Secondo la difesa, però, la natura precaria del manufatto non poteva essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data dal costruttore, né dalle caratteristiche costruttive, ma dovrebbe ricollegarsi all'intrinseca destinazione dell'opera.
La Cassazione ha respinto il ricorso, facendo coerente applicazione dei principi elaborati nel corso degli anni dalla giurisprudenza di legittimità (v., in termini: Cass. pen., sez. III, 13.06.2011, n. 23645, in CED Cass., n. 250484). In particolare, nell’enunciare il principio di cui in massima, la Cassazione ha chiarito come, relativamente all'applicazione della L.R. Lombardia n. 12 del 2005, art. 33, comma 2, lett. d), che tale disposizione, vigente all'epoca dei fatti -la quale prevedeva che la realizzazione di coperture stagionali destinate a proteggere le culture ed i piccoli animali allevati all'aria aperta e a pieno campo nelle aree destinate all'agricoltura potesse essere effettuata senza titolo abilitativo- non trovava applicazione nel caso di specie, perché il manufatto non rientra nella categoria delle coperture stagionali, essendo almeno in parte permanente e venendo stagionalmente rimossa solo una parte della tettoia, trattandosi di un'opera stabilmente ancorata al suolo, chiusa da tre lati e rientrante, pertanto, a pieno titolo nella categoria delle costruzioni per le quali è necessario il rilascio del permesso di costruire, anche perché ricadente in zona vincolata (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.10.2014 n. 41720 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2014).

EDILIZIA PRIVATA: RICONDUCIBILITÀ DEL MUTAMENTO D'USO SENZA OPERE EDILIZIE ALL'ART. 44, LETT. A), D.P.R. N. 380/2001.
Integra il reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. a), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 il mutamento della destinazione d'uso di un immobile, pur senza la realizzazione di opere edilizie, qualora la trasformazione comporti funzioni e utilità contrarie alle previsioni dello strumento urbanistico, fatta comunque salva l'ipotesi di modificazioni poste in essere tra categorie omogenee.
Interessante la questione affrontata dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame, in cui i giudici affrontano il tema della necessità o meno del permesso di costruire in relazione ad interventi che, pur comportando mutamento di destinazione d’uso, siano eseguiti senza opere edilizie.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte d'appello aveva confermato la sentenza di condanna emessa dal tribunale per il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 2, e art. 44, lett. b), per aver l’imputato mutato la destinazione d'uso di un capannone senza permesso di costruire adibendolo a ricovero di ovini anziché deposito di mezzi e attrezzi agricoli. Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’interessato, sostenendo, per quanto qui di interesse, che nel caso in esame si sarebbe dovuto applicare il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a).
La Cassazione ha dato ragione all’imputato e, nell’affermare il principio di cui in massima, si è richiamato ad una precedente giurisprudenza (v., in termini: Cass. pen., sez. III, 08.02.2012, n. 4943, in CED Cass., n. 251984), osservando come la motivazione del giudice di merito presentasse più di un deficit, atteso che il tribunale nulla aveva argomentato in ordine all'accertamento del reato così come contestato - e in particolare all'esecuzione di opere edilizie finalizzate a tale mutamento d'uso che avrebbero giustificato la contestazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44,  comma 1, lett. b), come fattispecie appunto di esecuzione di opere edilizie  senza il permesso di costruire (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.10.2014 n. 41385 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2014).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: SENTENZA DI PROSCIOGLIMENTO PER ABUSI D’UFFICIO, EDILIZI E DI FALSO: QUALI LE CONDIZIONI?
L'innocuità del falso non va riferita all'uso che si faccia dell'atto ma alla idoneità di questo ad ingannare comunque la fede pubblica.
Deve escludersi che il comportamento del Sindaco, il quale non dia esecuzione all'ordinanza di demolizione dei manufatti abusivi, configuri il reato previsto dall'art. 328 c.p. (omissione o rifiuto di atti di ufficio) non potendosi ritenere che l'attività omessa rientri nella categoria degli atti urgenti qualificati di cui all'articolo citato.
È configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi, sicché, se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato.
La scala non deve necessariamente essere considerata come un intervento di "nuova costruzione", pur non potendosi la stessa essere ricondotta nelle varianti inidonee a comportare modifiche della sagoma, tanto più che attualmente, ad opera del D.L. n. 69 del 2013, art. 30, è ostativa alla possibilità di assoggettamento a mera DIA la modifica della sagoma solo relativamente agli immobili vincolati.
La tettoia di copertura non può rientrare nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituendo invece parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata.
Rientra nei compiti dell'ufficio competente al rilascio di un permesso di costruire, accertare previamente che chi richiede di costruire si trovi nelle condizioni di legittimazione di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 11.

Pronunciandosi su una complessa vicenda che vedeva imputati il Sindaco, il responsabile dell’ufficio urbanistica ed altri soggetti di numerosi reati (dall’abuso d’ufficio, al falso oltre a numerose contravvenzioni in materia edilizia), la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza con cui il giudice dell’udienza preliminare aveva prosciolto tutti gli imputati, affermando alcuni, importanti principi di diritto, precedentemente illustrati. La vicenda processuale trae origine, come detto, dalla sentenza di proscioglimento emessa dal GUP e che era stata impugnata dal Procuratore della Repubblica per l’ingiusta adozione della formula liberatoria.
La Corte, nel risolvere le diverse questioni giuridiche sottoposte alla sua attenzione, ha enunciato i su estesi principi di diritto, osservando, in particolare quanto segue. Limitando, ovviamente, l’attenzione alle sole questioni giuridicamente rilevanti, ha, anzitutto, analizzato l’imputazione con cui era stato contestato il reato di falso al Responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune, il quale, in relazione ad una pratica edilizia con oggetto la ristrutturazione di un fabbricato di civile abitazione, avrebbe attestato falsamente fatti dei quali l'atto era destinato a provare la verità, segnatamente nel rilascio del permesso di costruire dichiarando: "vista l'istruttoria del responsabile del procedimento in data …", nonostante nella pratica emergesse l'assenza della necessaria documentazione.
La Cassazione ha ritenuto erroneo l’approdo assolutorio, in particolare osservando come la sentenza, pur non apparendo escludere che l’istruttoria, di cui l'imputato avrebbe dato atto, sia in realtà mancata, è sostanzialmente giunta, a fronte peraltro della natura formale del reato di falso, ad esito assolutorio sul presupposto che non sarebbe dato comprendere la ragione di una falsa attestazione in relazione ad un permesso a costruire che avrebbe potuto comunque essere rilasciato.
Ma una tale conclusione, oltre a contrastare con gli assunti sul punto già espressi dalla Cassazione laddove si è affermato che l'innocuità del falso non va riferita all'uso che si faccia dell'atto ma alla idoneità di questo ad ingannare comunque la fede pubblica (v., in termini: Cass. pen., sez. III, 27.09.2011, n. 34901, in CED Cass., n. 250825, con riferimento a falsa attestazione di data di ultimazione delle opere contenuta in una domanda di condono edilizio pur potendo le stesse essere effettuate tramite sola DIA), non poteva certo escludere la necessità di approfondimenti derivanti dal dibattimento di per sé incompatibile con la natura della sentenza di non luogo a procedere.
In secondo luogo, invece, quanto all’imputazione di cui all'art. 328 c.p. contestata sempre al Responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune, per avere, nello svolgimento delle funzioni, indebitamente omesso di richiedere all'ASL il parere sulla sussistenza dei requisiti igienico-sanitari che, trattandosi di locale ufficio al piano seminterrato, era necessario per il rilascio del permesso alla ristrutturazione di fabbricato relativa ad una pratica edilizia, la Cassazione ha ritenuto corretta la soluzione del GUP facendo applicazione di una precedente giurisprudenza (Cass. pen., sez. VI, 22.11.1996, n. 10038, in CED Cass., n. 206368), osservando come l’art. 328, comma 1, c.p. ricollega l'urgenza ai soli provvedimenti che debbono essere presi per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di igiene e sanità, restando dunque esclusa ogni possibile inclusione dei provvedimenti in materia edilizia inequivocabilmente rientrante nella sfera di attribuzione dell'ufficio ricoperto dal responsabile dell’ufficio tecnico.
Altra questione affrontata ha riguardato l’imputazione di falso contestata sempre al Responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune, cui era addebitato, in relazione ad una pratica edilizia con oggetto la costruzione di un fabbricato da adibire a deposito, di aver attestato falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, segnatamente nel formare il permesso di costruire attestando che l'intervento era "conforme allo strumento urbanistico, al regolamento edilizio ed alla normativa urbanistica edilizia vigente", nonostante nel PRGC l'area era stata assoggettata alla formazione di un nuovo PEC mai presentato né approvato (in tale area si poteva intervenire in assenza di PEC solo per la realizzazione di ampliamenti ma non nuove costruzioni) e, ancora, considerando che il fabbricato era stato assentito a 1,5 metri dal confine e a 7 metri dal fabbricato esistente sul lotto confinante, in contrasto con l'art. 5 punto 7) delle NTA del PRGC che prevede, in caso di parete finestrata, che i fabbricati debbano essere realizzati a 5 m dal confine come previsto dal D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 che prevede una distanza minima fra fabbricati di 10 metri in caso di parete finestrata.
Sul punto, la Cassazione ha ritenuto erroneo il proscioglimento del GUP, atteso che, a fronte della contestazione che ha individuato la falsità nell'avere l'imputato attestato, in sede di permesso a costruire, la conformità dell'intervento allo strumento urbanistico, al regolamento edilizio e alla normativa urbanistica edilizia vigente, il giudice era pervenuto ad esito assolutorio fondamentalmente sul presupposto che non di una attestazione si sarebbe trattato bensì di una valutazione insuscettibile di assumere connotati di falsità; l'atto non sarebbe stato inoltre, secondo la sentenza, destinato a far fede della veridicità dell'attestazione. Tali considerazioni, tuttavia, non sembrano tenere conto del principio dianzi affermato al punto 3 (Cass. pen., sez. I, 10.06.2013, n. 45373, in CED Cass., n. 257895).
Interessante, ancora, l’ulteriore questione esaminata dalla Cassazione con riferimento al reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), sempre ascritto al Responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune il quale, nell'ambito di una pratica edilizia DIA, aveva permesso la costruzione di una scala esterna per la quale era necessario un permesso di costruire poiché tale manufatto aveva comportato la modifica della sagoma dell'edificio e, come tale, rientrante nei casi di nuova costruzione, in concorso con il progettista, il quale aveva comunicato che l'intervento, nonostante fosse necessario avviare una procedura per il rilascio di un permesso di costruire, richiedeva una DIA anziché un permesso di costruire.
Sul punto la Cassazione, nell’affermare il principio di cui al punto 4, ha ritenuto corretto l’argomentare del GUP, evidenziando come il giudice avesse correttamente ritenuto assoggettabile l’intervento al regime della super-DIA di cui all'art. 22, comma 3, del D.P.R. cit., richiamante gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all'art. 10, comma 1, lett. c); ed in effetti, ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), ben possono rientrare nei casi di ristrutturazione edilizia predetti quegli interventi che si risolvano, come quello di specie, nell'inserimento nell'edificio di un nuovo elemento, benché comportanti modifiche dei prospetti, e senza consistenti aumenti volumetrici (v., sul punto: Cass. pen., sez. III, 26.10.2007, n. 47046, in CED Cass., n. 238462).
Né è esatto circoscrivere la portata della norma, osserva la Cassazione, a quegli ampliamenti che avvengano all'interno o in concomitanza di un ulteriore intervento di ristrutturazione edilizia posto che, così ragionando, un intervento singolo, e quindi di minore portata, verrebbe irragionevolmente sottoposto al medesimo regime previsto per un intervento complessivamente più consistente.
Interessante, poi, l’argomentazione sviluppata a proposito dell’imputazione di cui all’art. 481 c.p., contestata ad un geometra, progettista di una tettoia ed area deposito rifiuti, nell'ambito di una pratica edilizia DIA 18/09, cui era addebitato di aver dichiarato che la tettoia in progetto costituisse una pertinenza di soli 469,16 mc. dell'intero stabilimento e che pertanto non necessitasse di permesso di costruire, che nella tettoia non vi sarebbero stati impianti e che non fosse sede di lavoro, mentre al contrario con una successiva pratica edilizia era stato presentato il progetto dell'impianto elettrico per alimentare un compattatore di rifiuti, oltre alla previsione di un locale doccia, così palesando che il sito fosse un luogo di lavoro e che dunque non poteva essere considerata una pertinenza bensì una struttura a sé stante.
La Cassazione ha, sul punto, ritenuto erroneo il proscioglimento, affermando il principio di cui al punto 5, atteso che la tettoia di copertura non può rientrare nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza (tra le altre, v.: Cass. pen., sez. III, 26.06.2013, n. 42330, in CED Cass., n. 257290).
Con riferimento, poi, al principio enunciato al punto 6, la Cassazione si è soffermata sulla questione della configurabilità dei reati di cui all'art. 323 c.p. e D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), relativi ad un permesso di costruire; con riguardo al reato di abuso d’ufficio la sentenza era pervenuta ad esito assolutorio argomentando fondamentalmente, da un lato, nel senso che il permesso di costruire, legittimo od illegittimo che fosse, non poteva essere idoneo nella specie a comportare l'acquisizione di proprietà fondiaria da un soggetto ad un altro, e, dall'altro, nel senso che le distanze da osservare nelle costruzioni non servono ad evitare acquisizioni di proprietà altrui, bensì sono ispirate ad altre ragioni urbanistiche, di igiene e di riservatezza, in ogni caso il permesso di costruire riportando sempre la clausola relativa alla salvezza dei diritti dei terzi.
I giudici di Piazza Cavour hanno chiarito come il primo argomento speso peccava di illogicità, atteso che l'acquisizione illecita sarebbe comunque avvenuta per il tramite di costruzione posta in essere sul presupposto di un titolo illegittimo; quanto, poi, all’aspetto giuridico, nell’affermare il principio di cui al punto 6 v., in precedenza: Cass. pen., sez. III, 14.02.2012, n. 5633, in CED Cass., n. 251884), ha poi aggiunto che il vantaggio dell'art. 323 c.p. si ha anche quando l'abuso sia volto a creare un accrescimento della situazione giuridica soggettiva a favore di colui nel cui interesse l'atto è stato posto in essere (da ultimo, Cass. pen., sez. VI, 30.01.2013, n. 12370, in CED Cass., n. 256004) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.10.2014 n. 41373 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2014).

EDILIZIA PRIVATA: CONFINI E CARATTERISTICHE DELL'ISTITUTO DELL'ASSERVIMENTO DI TERRENO PER SCOPI EDIFICATORI O "CESSIONE DI CUBATURA".
In materia edilizia, nel caso in cui sul terreno sussista un vincolo di asservimento per scopi edificatori (cosiddetta “cessione di cubatura”), l'esecuzione di ulteriori interventi sul fondo asservito, eccedenti i volumi costruttivi, integra il reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), D.P.R. 06.06.2001, n. 380 anche in presenza di un titolo abilitativo erroneamente rilasciato.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene al tema, oggetto di particolare approfondimento nella giurisprudenza amministrativa ma non sufficientemente approfondito nella materia penale, della rilevanza penalistica degli interventi edilizi nel caso in cui sul terreno sussista un vincolo di asservimento per scopi edificatori (cosiddetta “cessione di cubatura”). 
La vicenda processuale
trae origine dalla sentenza con cui la Corte d'appello di Catania aveva confermato la sentenza del Tribunale con la quale, per quanto qui rileva, gli imputati erano stati condannati per il reato di cui all'art. 110 c.p. e del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. c), per avere, in concorso tra loro, la prima quale proprietaria del terreno, il secondo quale progettista e direttore dei lavori, il terzo ed il quarto quali esecutori dei lavori, eseguito l'edificazione del manufatto di cui al progetto presentato al Comune con permesso di costruire illegittimo, perché emesso sul falso presupposto del non asservimento dell'area da edificare a costruzioni già edificate.
Contro la sentenza avevano proposto ricorso per cassazione gli imputati, in particolare sostenendo che le limitazioni al diritto di edificare potrebbero risultare solo da una norma avente valore di legge e non da meri atti amministrativi, con la conseguenza che nessun asservimento avrebbe potuto essere ritenuto sussistente nel caso di specie.
La Cassazione ha, però, con motivazione puntuale e approfondita, ritenuto infondato il ricorso. In particolare, nell’enunciare il principio di cui in massima, ha ricordato che:
a) l'istituto dell'asservimento ha carattere atipico e consiste nell'accordo tra proprietari di aree contigue, aventi la stessa destinazione urbanistica, in forza del quale il proprietario di un'area cede una quota di cubatura edificabile sul suo fondo per permettere all'altro di disporre della minima estensione di terreno richiesta per l'edificazione, ovvero di realizzare volumi maggiori di quella consentiti dalla superficie del fondo di sua proprietà;
b) gli effetti che ne derivano hanno carattere definitivo e irrevocabile, perché integrano una qualità oggettiva dei terreni e producono una minorazione permanente della loro utilizzazione da parte di chiunque ne sia il proprietario;
c) il vincolo di asservimento si costituisce con il rilascio finale del titolo edilizio, il quale crea un nuovo lotto di pertinenza urbanistica dell'edificio, che non coincide con i confini di proprietà e ha una consistenza indipendente rispetto ai successivi interventi nelle aree medesime, derivandone l'impossibilità di assentire e di richiedere ulteriori eccedenti realizzazioni di volumi costruttivi sul fondo asservito.
E in tale quadro, i giudici di merito avevano evidenziato, del tutto correttamente, che l'eventuale illegittimità dell'asservimento o anche solo della richiesta dell'attestazione di tale asservimento avrebbe dovuto essere contestata dagli interessati nel corso del procedimento amministrativo, cosa non avvenuta nel caso di specie (v., in precedenza: Cass. pen., sez. III, 20.05.2009, n. 21177, in CED Cass., n. 243623) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.10.2014 n. 41368 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2014).

EDILIZIA PRIVATA:  NEL REATO EDILIZIO IN ZONA VINCOLATA LA LESIONE DELL'INTERESSE TUTELATO È IN RE IPSA.
Nell'ipotesi di costruzione abusiva eseguita in zona assoggettata a vincolo storico, artistico, paesistico o ambientale, per la configurabilità del reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c) è sufficiente che l'attività abusiva venga operata in una delle zone anzidette, e non occorre un'effettiva lesione materiale del vincolo, né alcun accertamento della violazione del bene protetto, poiché la lesione dell'interesse tutelato è in re ipsa.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, della questione della configurabilità del reato edilizio in zona vincolata, chiarendo come non sia necessario alcun accertamento quanto alla lesione del vincolo stesso.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza con cui la Corte d'appello aveva confermato, per quanto qui d’interesse, la condanna dell’imputato per i reati commessi in zona vincolata. Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’interessato, in particolare per aver ritenuto la sentenza configurabili i reati in assenza di prova di una concreta offensività del paesaggio dell'intervento edilizio eseguito (un muro), con conseguente violazione dell'art. 49 c.p..
La Cassazione ha, però, respinto il ricorso e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha osservato, quanto ai reati relativi all'utilizzo del cemento armato, come si tratta di previsioni la cui ratio è quella di consentire alla pubblica Amministrazione di venire a conoscenza dell'attività edilizia e di effettuare i dovuti controlli, al fine di escludere ogni pericolo per l'incolumità pubblica e privata; quanto, infine, alla violazione paesaggistica contestata, ha aggiunto come il reato previsto dal D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181 qualificabile come di pericolo astratto, non richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione di interventi in assenza di preventiva autorizzazione che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato (Cass. pen., sez. III, 08.02.2013, n. 6299, in CED Cass., n. 254493).
Quanto, infine, all’asserita sussistenza di un’ipotesi di reato impossibile ex art. 49 c.p., comma 2, la Cassazione ha ritenuto priva di pregio la doglianza, in quanto l'azione posta in essere (non la semplice realizzazione di un muro, ma la realizzazione di un manufatto di ben più maggiore consistenza) era certamente idonea a ledere i beni giuridici oggetto di tutela penale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.10.2014 n. 40802 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2014).

EDILIZIA PRIVATA: ESECUZIONE DI LAVORI IN ZONA VINCOLATA E “DOPPIA” CONFIGURABILITÀ DEL REATO EDILIZIO (ED ANCHE PAESAGGISTICO, PREVIA PUBBLICAZIONE IN G.U. DEL D.M. IMPOSITIVO DEL VINCOLO).
L'esecuzione di lavori edilizi di qualsiasi genere in variazione essenziale e in totale difformità o in assenza dal permesso di costruire su beni paesaggistici ricadenti su immobili o aree che siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale, configura sia il reato urbanistico (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), che implica la pura e semplice esistenza di un valido vincolo e l'esecuzione di un intervento edilizio nella zona vincolata, sia il reato paesaggistico.
Per la configurabilità del reato paesaggistico e di quello previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto ministeriale impositivo del vincolo per un'intera zona è condizione sufficiente di operatività del vincolo stesso, non essendo necessaria la notifica del decreto ai proprietari che è invece unicamente richiesta con riguardo alle restrizioni imposte, ai fini della tutela dei beni giuridici oggetto delle rispettive incriminazione, su singoli beni.

Senza dubbio di pregevole fattura la sentenza con cui la Corte di Cassazione si sofferma ad analizzare il tema della individuazione degli illeciti configurabili in presenza di lavori eseguito in zona vincolata.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui il Tribunale, per quanto qui interessa, aveva assolto gli imputati, pur riconoscendo che l'area era gravata da vincolo paesaggistico per essere stata dichiarata di notevole interesse pubblico dal D.M. 21.10.1954, ma osservando che tale dichiarazione non era operativa perché il D.Lgs. n. 42 del 2004 e succ. mod. riconosceva l'operatività dei provvedimenti dichiarativi di notevole interesse pubblico emessi (come, nella specie, il D.M. 21.10.1954), ai sensi dell'allora vigente L. n. 1497 del 1939 solo a condizione, nella specie mancante, che essi fossero stati notificati ai proprietari delle unità immobiliari interessate, con la conseguenza che l'area su cui insisteva il manufatto abusivo non poteva neppure essere qualificata bene paesaggistico sicché il reato ex art. 44, lett. c) T.U. edilizia doveva essere derubricato in quello ex art. 44, lett. b) ed il reato ex art. 181 D.Lgs. n. 42 del 2004, doveva ritenersi con configurabile.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il P.M., in particolare sostenendo che il Tribunale, da un lato, aveva errato nel non ritenere la configurabilità del reato paesaggistico (D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181) e, dall'altro, avrebbe dovuto ritenere integrata, avendo espressamente riconosciuto che l'area ove insiste il manufatto abusivo è stata dichiarata di notevole interesse pubblico, la fattispecie originariamente contestata (art. 44, lett.  c) e non derubricare il fatto nella fattispecie di minore gravità ex art. 44, lett. b) T.U. edilizia.
La Cassazione ha accolto il ricorso del P.M., e, nell’affermare il duplice principio di cui in massima, ha ribadito che l'esecuzione di lavori edilizi di qualsiasi genere in variazione essenziale e in totale difformità o in assenza dal permesso di costruire su beni paesaggistici ricadenti su immobili o aree che siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale, configura sia il reato urbanistico (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), che implica la pura e semplice esistenza di un valido vincolo e l'esecuzione di un intervento edilizio nella zona vincolata, sia il reato paesaggistico.
Quanto all'integrazione di tale ultima fattispecie, peraltro, la stessa Corte di Cassazione aveva già affermato che la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto ministeriale impositivo di un vincolo paesaggistico per un'intera zona è condizione sufficiente di operatività del vincolo stesso, essendo necessaria la notifica del decreto ai proprietari unicamente con riguardo al vincolo imposto su singoli beni (v., in termini: Cass. pen., sez. III, 28.04.2010, n. 16491, in CED Cass., n. 246770) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.10.2014 n. 40540 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2014).

EDILIZIA PRIVATA: PER L’INTERVENTO IN ZONA VINCOLATA OBBLIGATORIO IL RISPETTO DELLA SAGOMA DELL'EDIFICIO PREESISTENTE SIA PER LA DEMOLIZIONE E RICOSTRUZIONE CHE PER IL RIPRISTINO DI RUDERI.
Il D.L. 21.06.2013, n. 69, art. 30, (cd. "decreto del fare"), convertito con L. 09.08.2013, n. 98, ha mantenuto fermo il principio che costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati al permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, un aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti e delle superfici ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino un mutamento della destinazione d'uso ed ha consentito, ricomprendendoli nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia soggetti perciò a SCIA, sia le opere consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria (non più anche con la stessa sagoma) del manufatto preesistente e sia gli interventi di ristrutturazione volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione ma non ha sottratto, in tale caso, al regime del permesso di costruire le opere delle quali non sia possibile accertare la preesistente consistenza, fermo restando che se l'intervento è eseguito in zona vincolata deve, in ogni caso, essere anche rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente tanto per gli interventi di demolizione e ricostruzione quanto per quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione.
Indubbiamente di grande interesse la questione oggetto di esame da parte della Corte di Cassazione nel caso in esame, in cui i Supremi Giudici si soffermano ad analizzare le novità normative introdotte dalla recente legislazione in materia edilizia.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza di condanna, confermata in appello, nei confronti di un imputato per aver eseguito la ricostruzione di un rudere. Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo che egli si era limitato non ad eseguire la ricostruzione di un rudere ma esclusivamente a consolidare una struttura pericolante e già preesistente; peraltro, si sosteneva in ricorso, la Corte di appello aveva errato nel non ritenere che l'intervento fosse sussumibile nella fattispecie della manutenzione straordinaria o comunque del restauro e del risanamento conservativo proprio perché egli si era limitato a consolidare, con l'applicazione di malta cementizia, una struttura muraria già preesistente onde scongiurare l'insito pericolo per la propria ed altrui incolumità attesa la precarietà della struttura.
La Cassazione ha però respinto il ricorso dell’interessato e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha chiarito opportunamente come il cd. "decreto del fare" ha novellato l'art. 3, lett. d), e l'art. 10, lett. c), T.U., ricomprendendo tra gli interventi di ristrutturazione cd. "leggera" (soggetti perciò a SCIA) non solo quelli "consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria (non più anche con la stessa "sagoma" n.d.r.) di quello preesistente ... ma anche quelli ... volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza", rimanendo fermo che "con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente".
È di tutta evidenza, per la Suprema Corte, come il legislatore sia intervenuto su due tipologie di interventi ossia, da un lato, sugli interventi di (contestuale) demolizione e ricostruzione di edifici (già contemplata dall'art. 3 T.U. edilizia), per i quali non è più richiesto, sempre che l'intervento non ricada in zona vincolata, il rispetto della sagoma e, dall'altro, sugli interventi di ripristino di edifici (già) eventualmente crollati o demoliti (cd. ruderi), i quali parimenti rientrano ora nella categoria della ristrutturazione edilizia, senza perciò la necessità che l'intervento richieda il rilascio del permesso di costruire, a condizione però che sia possibile accertarne la preesistente consistenza, accertamento necessario per la determinazione della volumetria (che il fabbricato ripristinato dovrà comunque rispettare), e all'ulteriore condizione, qualora l'intervento di ristrutturazione edilizia ricada in zona vincolata, che sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente.
Nel caso di specie, l'intervento edilizio, anche ove si volesse qualificarlo come intervento di ristrutturazione, era tenuto, ricadendo in zona vincolata, al rispetto della sagoma e soprattutto, a prescindere dall'esistenza del vincolo, si sarebbe dovuta accertare la preesistente consistenza di esso, circostanza esclusa, perché, anche in assenza di mappe catastali e di rilievi aereo fotogrammetrici (e da ciò i giudici di merito avevano tratto il logico convincimento che si trattasse di una nuova costruzione e neppure di una ristrutturazione), non era stata rilevata la preesistenza di un fabbricato (o parte di esso) da ristrutturare, inteso quale organismo edilizio dotato delle mura perimetrali, delle strutture orizzontali e della copertura, dovendo la consistenza, ai fini della disposizione in esame, essere rappresentata dalla presenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto), in modo che possa esserne determinata la volumetria, ovvero che essa possa essere oggettivamente desunta da apposita documentazione storica o attraverso una verifica dimensionale in sito, con la conseguenza che, in caso contrario, non è applicabile il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3 comma 1, lett. d), come novellato dalla L. n. 98 del 2013 (v., in precedenza, sul tema: sez. III, 07.02.2014, n. 5912, in CED Cass., n. 258597) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.09.2014 n. 40342 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2014).

EDILIZIA PRIVATA:  IL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO DA ALBERGO A FORESTERIA RICHIEDE IL PDC IN QUANTO ESEGUITO TRA DIVERSE CATEGORIE URBANISTICHE.
In materia edilizia, l'unico caso in cui il mutamento della destinazione d'uso senza opere può essere liberamente consentito è quello in cui vi sia una totale omogeneità tra la categoria urbanistica di partenza e quella conseguente al mutamento stesso, in modo che non vi sia alcun aggravamento del carico urbanistico esistente.
Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione si sofferma, ancora una volta, sulla questione della individuazione dei titoli edilizi necessari per l’esecuzione di interventi implicanti la modifica della destinazione d’uso.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza di condanna per il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), per avere destinato l’imputato ad uso abitativo un ex hotel di sua proprietà in violazione delle previsioni dello strumento urbanistico generale attualmente vigente, che non consentono tale uso. Contro la sentenza questi proponeva ricorso per Cassazione, rilevando come nel caso in esame non erano state realizzate opere edilizie e sostenendo che le modifiche di destinazione intervenute sulla base di atti negoziali sarebbero soggette a sanzioni amministrative.
Ancora si doleva del fatto che il tribunale non avrebbe approfondito la questione se l'uso foresteria fosse comunque compatibile con la previsione di strumenti urbanistici regionali e comunali, non considerandosi, in particolare, che la locazione ad uso foresteria non è una locazione abitativa perché non è diretta a soddisfare alcune esigenza abitativa del conduttore, bensì la diverse esigenze di destinare l'immobile locato a temporaneo alloggio di propri dipendenti o ospiti.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto la tesi difensiva, in particolare osservando che è evidente che la modificazione della destinazione d'uso da alberghiera a foresteria non interviene affatto fra due categorie urbanistiche omogenee, perché la locazione ad uso foresteria rientra in tutto e per tutto nella destinazione abitativa, pur rispondendo ad esigenze di destinazione dell'immobile al temporaneo alloggio di soggetti diversi dal conduttore.
Infatti, la distinzione fra locazione abitativa e locazione ad uso foresteria fatta propria dalla disciplina civilistica risponde ad esigenze di tipo sociale legate al "diritto alla casa" e non assume alcuna rilevanza ai fini penali, perché si tratta comunque in entrambi i casi di locazioni finalizzate a soddisfare esigenze abitative che si differenziano solo sul piano soggettivo, con identico carico urbanistico: da un lato, le esigenze dello stesso conduttore e, dall'altro, le esigenze di ospiti o dipendenti del conduttore (in precedenza, sull’argomento: Cass. pen., sez. III, 05.02.2014, n. 5712, in CED Cass., n. 258686) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2014 n. 39897 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2014).

EDILIZIA PRIVATA: BOX INTERRATO E APPLICABILITÀ DEL REGIME DEROGATORIO.
In materia edilizia, la circostanza che il box non sia interrato su tutti e quattro i lati consente di definire l'opera come “intervento di nuova costruzione” di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 3, comma 1, lett. e.1), trattandosi di manufatto edilizio interrato, in quanto tale soggetto a permesso di costruire.
Il punto affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene al tema, oggetto di approfondimento sia nella giurisprudenza amministrativa che in quella civilistica, della edificabilità in assenza di permesso di costruire di box auto interrati.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte d'appello aveva riconosciuto responsabili del reato edilizio il proprietario di alcuni terreni interessati da lavori edilizi e committente, nonché il direttore dei lavori e progettista, cui era stato addebitato di aver realizzato, in assenza di permesso di costruire, box fuori terra, con dimensioni di mq. 95,91, con accesso diretto ad una strada vicinale e con aperture laterali sul lato adiacente il vialetto interno, nonché una terrazza pavimentata ricavata sulla copertura dei box e delimitata da un muretto di mattoni.
Contro la sentenza, proponevano ricorso per cassazione i due imputati, in particolare invocando l'applicabilità della L. n. 122 del 1989 (cd. legge Tognoli); la questione dirimente -secondo gli stessi  è se i box realizzati possano essere ritenuti interrati o meno ai sensi della L. 24.03.1989, n. 122. Al riguardo facevano rilevare che il box risultava "totalmente interrato rispetto al piano di campagna di un preesistente terrapieno, pertinenza di un immobile ad uso abitativo, ed era stato ricavato mediante svuotamento di tale terrapieno. Pertanto, rispetto al calpestio del terrapieno, l'autorimessa risultava sotto terra".
Non rilevava poi il fatto che il box avesse accesso anche dalla sottostante strada vicinale, "a poco rileva -si affermava- che diversi metri sotto il livello del calpestio del terrapieno, e quindi al livello dell'ingresso del box, peraltro in piano, vi sia una strada comunale, perché l'autorimessa, pur fuori terra rispetto alla strada, risulta interrata rispetto al soprastante piano di campagna del terrapieno".
La Cassazione ha, però, respinto la tesi difensiva, affermando il principio di cui in massima. Sul punto, i giudici di legittimità si richiamano alla consolidata giurisprudenza amministrativa e delle Sezioni civili della Corte di Cassazione, che ha ritenuto che l'interramento dei parcheggi da realizzare in aree esterne al fabbricato deve essere totale, su tutti e quattro i lati (Cons. Stato, sez. IV, 12.03.2013, n. 1480; Cons. Stato, sez. IV, 13.07.2011, n. 4234; C.G.A. Sicilia, 27.10.2006, n. 588; C.G.A. Sicilia, sez. giurisdiz., 26.06.2000, n. 299; TAR Abruzzo, L'Aquila, 19.04.2011, n. 208; Cass, civ., sez. II, 11.09.2013, n. 20850).
È stata, dunque, respinta l'interpretazione (riduttiva) della norma proposta dai due imputati (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.09.2014 n. 39862 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 12/2014).

EDILIZIA PRIVATA: ESISTE CONTRASTO IN GIURISPRUDENZA SULL'ATTITUDINE DELLA RELAZIONE ASSEVERATA AD ESSERE INQUADRATA NELLA CATEGORIA DEI CERTIFICATI.
È ravvisabile un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla configurabilità del reato di falsità ideologica in certificati (art. 481 c.p.) in caso di falsificazione della relazione di accompagnamento alla DIA, non essendone pacifica la natura di certificato in ordine alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all'attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, della configurabilità del reato di falso ideologico nei confronti del professionista che provveda a redigere una falsa relazione di accompagnamento delle denuncia di inizio attività in materia edilizia.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza con cui la Corte di appello ha parzialmente riformato quella emessa dal Tribunale nei confronti di due imputati, condannati, per quanto qui interessa, per i reati di esecuzione di opere edili in zona sottoposta al vincolo paesaggistico-ambientale in assenza di permesso di costruire limitatamente alla costruzione di un fabbricato denominato "B" (D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. e) e per falsità ideologica (art. 481 c.p.) in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità (per entrambi i reati il primo, quale tecnico asseverante, progettista e direttore dei lavori ed, il secondo, quale proprietario dell'area).
Si rimproverava in particolare agli imputati di aver eseguito i lavori sulla base di una DIA alla quale erano allegate planimetrie ed altra documentazione attestanti una situazione di fatto diversa da quella reale dando per esistente, contrariamente al vero, un vecchio fabbricato cd. "B" laddove esisteva solo una piccola costruzione, tipo baracca, abusivamente eseguita e traslata su un mappale diverso in quanto il fabbricato "B" fu demolito per consentire in loco la costruzione di un tratto autostradale.
Contro la sentenza di condanna presentavano ricorso per cassazione ambedue gli imputati, in particolare censurando la sentenza per vizio di violazione di legge e motivazionali.
La Cassazione ha accolto il ricorso degli interessati non ritenendolo manifestamente infondato, in particolare osservando come la doglianza, con la quale si prospettava l'inconfigurabilità del reato previsto dall'art. 481 c.p., per l'assenza di sottoscrizione comportante l'inesistenza della relazione asseverata, l'inesistenza della stessa DIA e dunque l'insussistenza del falso, non poteva ritenersi manifestamente infondata in presenza di una contrastante giurisprudenza di legittimità circa l'attitudine della relazione asseverata ad essere inquadrata nella categoria dei certificati (per l'affermativa: Cass. pen., sez. III, 17.04.2012, n. 35795, in CED Cass., n. 253666; per la negativa: Cass. pen., sez. V, 26.04.2005, n. 23668, in CED Cass., n. 231906) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.09.2014 n. 37174 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 11/2014).

EDILIZIA PRIVATA:  SI CONSIDERANO SEMPRE IN TOTALE DIFFORMITÀ DAL P.D.C. GLI INTERVENTI RICADENTI IN ZONA PAESAGGISTICAMENTE VINCOLATA.
In tema di reati edilizi, si considerano in ogni caso eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire gli interventi che ricadono in zona paesaggisticamente vincolata, tanto perché, in presenza di interventi edilizi in siffatte zone, è indifferente, ai fini della loro qualificazione giuridica e dell'individuazione della sanzione penale applicabile, la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto il D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 32, comma 3, prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla legittimità o meno dell’esecuzione, in base a titolo abilitativo diverso dal permesso di costruire, degli interventi edilizi eseguiti in zona vincolata paesaggisticamente.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte di appello di Lecce ha confermato la pronuncia resa dal Tribunale che aveva condannato per il reato di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. c), il titolare di una s.r.l. esercente attività edilizia, per avere dato corso a lavori di edificazione delle seguenti opere: realizzazione di una scala in c.a. sul lato ovest con annessa rampa; realizzazione di una rampa scale che conduce al lastrico solare; realizzazione sul terrazzino, posto al lato Ovest, di strutture architettoniche a vela; realizzazione nell'area di pertinenza posta a Nord dell'immobile di n. 4 pilastri in c.a.; ampliamento di circa mq. 4 del vano identificato in progetto come “servizi”; fusione di locali commerciali al piano terra, da tre unità previste in progetto a due unità.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato sostenendo che la Corte avrebbe erroneamente interpretato il D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 31 e segg., ritenendo gli abusi come commessi in variazione essenziale ed in totale difformità dal permesso di costruire laddove, trattandosi invece di parziali difformità, il fatto andava sussunto nell'ambito della fattispecie prevista del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a) e non avendo, in ogni caso, la Corte d'appello tenuto in considerazione la novella di cui al D.L. n. 69 del 2013 che, con l'art. 30, ha modificato l'art. 3, comma 1, lett. d) T.U.E prevedendo la soppressione delle parole “e sagoma” così da rendere irrilevanti le “modifiche interne e di prospetto” sulla cui base sarebbe stata fondata la sentenza di condanna emessa a carico del ricorrente.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha però affermato il principio di cui in massima, così richiamando una giurisprudenza consolidata, peraltro confermata anche dopo l’entrata in vigore del cd. “decreto del fare”, su cui la difesa aveva insistito, avendo infatti puntualizzato la giurisprudenza che l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv. in L. n. 98 del 2013), se consente di qualificare come “ristrutturazione edilizia”, l'intervento di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, anche in caso di modifica della sagoma degli stessi, richiede, però, che sia accertata la preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili (Cass. pen., sez. III, 07.02.2014, n. 5912, in CED Cass., n. 258597) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.09.2014 n. 37169 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 11/2014).

EDILIZIA PRIVATA: INSUFFICIENTE IL MERO SBANCAMENTO DELL’AREA PER IMPEDIRE LA DECADENZA ANNUALE DEL TITOLO ABILITATIVO.
Il mero sbancamento non integra l'inizio dei lavori, che deve avvenire entro il termine annuale dal rilascio del permesso di costruire a pena di decadenza del titolo abilitativo D.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 15, dovendosi invece aggiungere a tale attività una compiuta organizzazione del cantiere e altri indizi idonei a confermare  l'effettiva intenzione del titolare del permesso di costruire l'opera assentita.
Interessante la decisione della S.C. che contribuisce a delineare con sufficiente certezza il minimum richiesto dalla legge al fine di impedire la decadenza del titolo edilizio.
La vicenda processuale segue al rigetto da parte della Corte d'appello dell’impugnazione proposta dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale avverso sentenza con cui il Tribunale aveva assolto gli imputati dal reato di cui all'art. 110 c.p. e al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b), per avere realizzato, nelle rispettive qualità, opere edilizie abusive sulla base di atti di assenso illegittimi.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il P.G., in particolare sostenendo, per quanto qui di interesse, la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 15 non essendo identificabile l'inizio dei lavori nel mero sbancamento e non essendo stato comunicato l'inizio dei lavori stessi all'ente competente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.09.2014 n. 36856 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 11/2014).

EDILIZIA PRIVATA: DIVERSITÀ DEI TITOLI ABILITATIVI RICHIESTI PER LE “VARIANTI IN SENSO PROPRIO” E PER QUELLE “VARIANTI ESSENZIALI”.
In tema di reati edilizi, mentre le “varianti in senso proprio”, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementario ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le “varianti essenziali”, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del D.P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene all’esatta delimitazione dei titoli abilitativi necessari per le varianti cc.dd. essenziali rispetto alle varianti in senso proprio.
La vicenda processuale trae origine dal provvedimento con cui il Tribunale ha rigettato l'istanza di riesame proposta dalla proprietaria di un immobile avverso il Decreto con il quale il Giudice per le indagini preliminari, sulla ritenuta sussistenza dei reati di lottizzazione abusiva di terreni ed altri reati urbanistici ed edilizi inerenti la costruzione, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ed in variazione essenziale e totale difformità dai titoli edilizi rilasciati, di 8 villette unifamiliari, aveva disposto il sequestro preventivo delle aree, dei terreni, delle opere e dei fabbricati meglio in detto decreto individuati.
Contro l’ordinanza in questione, proponeva ricorso l’interessata, in particolare sostenendo l’insussistenza della illegittima trasformazione urbanistica e la mancata urbanizzazione dell'area.
La Cassazione, sul punto, ha respinto il ricorso e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha richiamato un orientamento giurisprudenziale in precedenza già sostenuto dalla stessa Cassazione, rafforzandone la valenza argomentativa (in precedenza, in senso conforme: Cass. pen., sez. III, 24.06.2010, n. 24236, in CED Cass., n. 247686) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.08.2014 n. 34100 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 11/2014).

INCARICHI PROGETTUALI:  RAPPORTI TRA L’AZIONE DIRETTA DI CUI ALL’ART. 23 L. 144/1989 E L’ART. 2041 C.C. NEI CONFRONTI DELLA P.A.
In tema d’assunzione d’impegni o effettuazioni di spesa da parte di Enti locali, la L. n. 144/1989 ha introdotto un sistema d’imputazione diretta, nella sfera giuridica personale dell’amministratore o del funzionario, degli effetti dell’attività contrattuale da questi condotta in violazione delle regole contabili, determinandosi una scissione ope legis del rapporto di immedesimazione organica tra essi e la p.a.
In tali ipotesi non sorgono obbligazioni a carico dell’ente bensì - in virtù di una sorta di novazione soggettiva da fonte normativa - dell’amministratore o del funzionario, senza neppure possibilità di proporre un’azione d’indebito arricchimento verso la p.a., stante il difetto del requisito della sussidiarietà (art. 2042 c.c.) da escludersi in presenza di un’azione esperibile non solo nei confronti dell’arricchito ma anche nei confronti di persona diverso da esso.

Due professionisti convennero un’Amministrazione provinciale per il recupero di crediti professionali derivati da progettazione di un’opera pubblica in esecuzione di un incarico affidato con delibera di giunta, in subordine ponendo anche azione di indebito arricchimento ai sensi dell’art. 2041 c.c..
L’intimata amministrazione si costituiva eccependo il difetto di competenza del g.o., per la presenza in contratto, di una clausola compromissoria per arbitri: eccezione condivisa dal Tribunale che risolveva il grado con sentenza declinatoria in rito.
La Corte territoriale rigettava l’appello dei progettisti, non in rito, ma nel merito. Osservò che la clausola arbitrale non poteva operare, perché il disciplinare d’incarico prodotto dagli originari attori non era sottoscritto dal legale rappresentante dell’Ente pubblico e così il contratto non poteva definirsi concluso e produttivo di effetti: dal che, l’impossibilità tanto di una valenza della clausola compromissoria, quanto delle altre condizioni previste per la remunerazione dell’opera intellettuale.
La Corte respinse anche la domanda ex art. 2041 c.c., proposta in subordine, argomentando che per effetto dell’art. 23 L. n. 144/1989 l’azione poteva essere formulata dai professionisti nei confronti degli amministratori e dei funzionari pubblici, trattandosi di prestazioni rese senza il rispetto delle formalità prescritte dalla legge. Ciò, a maggior ragione, in mancanza dell’indispensabile riconoscimento dell’Ente circa l’utilità dell’opera resa.
La questione approda in Cassazione, che respinge il ricorso dei progettisti ritenendolo prima facie infondato anzitutto per l’assenza di un contratto validamente sottoscritto, in violazione del disposto degli artt. 16 e 17 del R.D. n. 2440/1923. Sull’esperibilità di un’azione per arricchimento indebito, la Suprema Corte mette in luce il rapporto tra l’azione prevista dall’art. 23 della L. n. 144/1989 (che consente, in carenza di contratto, al creditore di agire per l’intero verso il solo funzionario committente) e l’art. 2041 c.c. (che è azione residuale proponibile verso la sola p.a.).
Osserva, anzitutto, che in tema di assunzione d’impegni ed effettuazione di spese da parte degli Enti locali, la L. n. 144/1989 ha introdotto un diverso sistema d’imputazione alla sfera giuridica, diretta e personale, dell’amministratore o funzionario degli effetti dell’attività contrattuale dal medesimo condotta in violazione delle regole contabili, determinando una frattura o scissione ope legis del rapporto di immedesimazione organica tra i suddetti agenti e la p.a.
In forza di esso, non può essere riferita a quest’ultima l’iniziativa adottata fuori dallo schema procedimentale delle norme ad evidenza pubblica. Sicché non sorgono obbligazioni a carico non dell’ente, bensì -in virtù di una sorta di novazione soggettiva di fonte normativa- dell’amministratore o del funzionario, che ne rispondono con il proprio patrimonio, senza che sia esperibile l’azione di indebito arricchimento nei confronti della p.a., per difetto del requisito della sussidiarietà (art. 2042 c.c.) certamente da escludersi in presenza di un’azione esperibile non solo nei confronti dell’arricchito, ma anche nei confronti di persona diversa da esso (Cass. n. 11854/2007; sez. VI-ter, ord. n. 1391/2014).
Neppure è ipotizzabile -oltre che inammissibile perché prospettazione nuova- la questione della proponibilità di un’azione diretta in via surrogatoria ex art. 2900 c.c. del professionista verso la p.a. Ciò, in ragione della stessa ratio dell’art. 23 L. n. 144 cit., non potendo il funzionario “infedele” ipotizzarsi a priori creditore della p.a. di appartenenza, avendo agito in sostanza al di fuori del rapporto organico che a essa lo legava.
Questo, in disparte il dato, di natura, processuale, che in tali casi il funzionario avrebbe dovuto (art. 2900, comma 2, c.c.) essere convenuto in giudizio, il che nello specifico non è avvenuto (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 22.07.2014 n. 16689 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 10/2014).

URBANISTICA: NATURA GIURIDICA DI REATO PROGRESSIVO NELL’EVENTO DEL REATO DI LOTTIZZAZIONE ABUSIVA.
Il reato di lottizzazione è inquadrabile nel cd. reato progressivo nell'evento (che è cosa ben diversa dal ritenere che la lottizzazione rientri nello schema del reato progressivo) in cui possono concorrere, nell'unicità della fattispecie incriminatrice, il momento negoziale, quello programmatorio mediante l’esecuzione di opere di urbanizzazione e quello attuativo con la costruzione degli edifici.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, della questione della natura giuridica del reato di lottizzazione abusiva.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla conferma da parte del Tribunale della libertà del provvedimento cautelare emesso dal GIP con il quale era stato disposto il sequestro preventivo di un complesso turistico di proprietà dell’indagato, sottoposto ad indagini in ordine al reato di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. c) e D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181.
Contro l’ordinanza, presentava ricorso per cassazione l’interessato, sostenendo, per quanto qui di interesse, l’intervenuta prescrizione del reato; in sintesi, il Tribunale del riesame ha respinto l'eccezione di prescrizione, sollevata nel corso dell'incidente cautelare, sul presupposto che, sebbene gli ultimi ampliamenti (del teatro-bar e della reception) risalissero ad un'epoca antecedente all'anno 2006, sarebbero state recentemente eseguite nuove opere con lo scopo di consentire l'utilizzo abitativo di alcune strutture del villaggio, laddove, invece, l'assetto dei luoghi era rimasto inalterato negli ultimi otto anni, circostanza che, avendo comportato che maturasse la prescrizione, avrebbe dovuto precludere ab origine l'espletamento di qualsiasi attività investigativa inidonea, in costanza di una causa estintiva del reato, a sostenere un utile esercizio dell'azione penale rendendo, in ogni caso, illegittimo il disposto sequestro preventivo.
La Cassazione ha, però, respinto il ricorso e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha osservato che l'illecito lottizzatorio si realizza (in altri termini, la consumazione ha inizio) allorquando sia al completo dei requisiti necessari e sufficienti per l'integrazione della fattispecie incriminatrice ed il momento consumativo perdura nel tempo sino a quando l'offesa tipica raggiunge, attraverso un passaggio graduale da uno stadio determinato ad un altro ad esso successivo, una sempre maggiore gravità, ed in ciò la lottizzazione, quale reato progressivo nell'evento, partecipa alla medesima disciplina del reato permanente, anche mutuandone ricadute giuridiche, e del quale ha in comune la struttura unitaria, l'instaurazione di uno stato antigiuridico ed il suo mantenimento ma ha in aggiunta un progressivo approfondimento dell'illecito attraverso condotte successive dirette ad aggravare l'evento del reato, atteso che gli interventi susseguenti incidono sull'assetto urbanistico, compromettendo ulteriormente le scelte di destinazione e di uso del territorio riservate alla competenza pubblica (in precedenza, nel senso che la contravvenzione di lottizzazione abusiva è reato progressivo nell'evento, che sussiste anche quando l'attività posta in essere sia successiva agli atti di frazionamento o alle opere già eseguite, non esaurendo tali iniziali attività il percorso criminoso e protraendosi quest'ultimo attraverso gli interventi successivi incidenti sull'assetto urbanistico: sez. III, 04.04.2012, n. 12772, in CED Cass., n. 252236) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.06.2014 n. 25182 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 8-9/2014).

EDILIZIA PRIVATA: PERICULUM IN MORA CONFIGURABILE ANCHE IN CASO DI ACCERTAMENTO DI COMPATIBILITÀ PAESAGGISTICA.
Nella perdurante esistenza, allo stato, del fumus dei reati urbanistici in zona paesaggisticamente vincolata, le esigenze cautelari sulle quali deve fondare il sequestro preventivo possono essere integrate, pur in presenza di un accertamento di compatibilità paesaggistica, anche sulla sola base della sussistenza di un aggravamento del carico urbanistico.
Singolare la questione decisa dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame, in cui i giudici di merito affrontano il tema della sussistenza del cd. periculum in mora nel caso di sequestro preventivo di strutture alloggiative semoventi (cc.dd. case mobili) insistenti su area vincolata paesaggisticamente.
La vicenda processuale trae origine dal provvedimento con cui il tribunale ha ripristinato il vincolo cautelare su 46 bungalow (case mobili) e sull'area sulla quale essi erano stati collocati; agli indagati si contesta in via cautelare il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, n. 181, art. 44, comma 1, lett. e), del D.Lgs. n. 42 del 2004, in relazione all'esecuzione di interventi edilizi in area adibita a campeggio, in assenza del permesso di costruire e in zona sottoposta a vincolo paesaggistico; sequestro avente ad oggetto case mobili allacciate alle reti idriche, elettriche e fognarie, ritenute essere strutture ricettive con caratteristiche di sostanziale stabilità e destinate in modo permanente e a tempo indeterminato all'accoglienza con pernottamento di ospiti del campeggio sprovvisti di tende o altri mezzi propri.
Contro l’ordinanza del tribunale veniva proposto ricorso per cassazione, lamentandosi la violazione dell'art. 321 c.p.p., sotto il profilo dell'insussistenza delle esigenze cautelari in conseguenza delle intervenute sanatorie ed i conseguenti accertamenti di conformità e di compatibilità urbanistica e paesaggistica delle opere.
La Cassazione ha però respinto i motivi di ricorso, osservando che la natura del pericolo non è esclusa dalla sopravvenuta compatibilità paesaggistica sia perché, in tema di tutela del paesaggio, l'autorizzazione postuma non incide sulla disciplina urbanistica, in quanto l'interesse paesaggistico è funzionalmente differenziato da quello urbanistico, e sia perché, nel caso di specie, il conseguito accertamento di compatibilità paesaggistica rende comunque applicabili le sanzioni penali previste dalla fattispecie incriminatrice, in concreto ravvisata, di cui del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181, comma 1-bis, e comunque non produce, successivamente all'esecuzione dei lavori abusivi in zona vincolata, alcun effetto estintivo delle corrispondenti contravvenzioni, salvo il ricorso delle condizioni di cui all'art. 181, comma 1-quinquies, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42. (v., sull’argomento: sez. III, 22.03.2013, n. 13736, in CED Cass., n. 254762; sez. III, 07.05.2010, n. 17535, in CED Cass., n. 247166).
Ne consegue come -in un contesto, quale quello di specie, dove il concreto pericolo di aggravamento e protrazione delle conseguenze dei reati, negativo per l'assetto edilizio e paesaggistico del territorio, è stato già affermato in dipendenza dell'ulteriore utilizzazione a fini abitativi delle casemobili realizzate- debba ritenersi, per la Corte, che, nella perdurante esistenza, allo stato, del fumus dei reati urbanistici in zona paesaggisticamente vincolata, le esigenze cautelari sulle quali deve fondare il sequestro preventivo possono essere integrate, pur in presenza di un accertamento di compatibilità paesaggistica, anche sulla sola base della sussistenza di un aggravamento del carico urbanistico (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.06.2014 n. 22911 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 8-9/2014).

COMPETENTE PROGETTUALI - LAVORI PUBBLICI:  NECESSITÀ DI UN CONTRATTO SOTTOSCRITTO DA SOGGETTO ABILITATO ALLA RAPPRESENTANZA ESTERNA DELL’ENTE PUBBLICO ANCHE PER I LAVORI ASSEGNATI IN VIA DI SOMMA URGENZA.
In caso di lavori di somma urgenza, pur assegnati in via aggiuntiva a un’impresa già titolare di un contratto con la p.a., nondimeno occorre un contratto stipulato in forma scritta, richiesta ad substantiam, da parte del soggetto dotato di rappresentanza dell’ente: a nulla, di contro, rileva la sussistenza dei verbali di assegnazione benché contenenti ogni elemento essenziale del contratto, che si collocano su un piano meramente endoprocedimentale e preparatorio della successiva manifestazione di volontà negoziale.
Un operatore economico convenne in giudizio un’Azienda Sanitaria per il pagamento di lavori, commissionatigli in via di somma urgenza emersa nell’àmbito dell'esecuzione di opere già aggiudicategli seguito di licitazione privata.
Il Tribunale rigettò la domanda, al pari della Corte d’appello.
Questo, non solo in ragione del fatto che detti lavori erano stati affidati da un dirigente sfornito del potere di rappresentanza ma anche in assenza di contratto scritto. Ad avviso del giudice di merito, l’irregolarità della procedura di conferimento dell'incarico esclude l’instaurazione di un valido rapporto contrattuale, non essendosi la volontà delle parti tradotta in un contratto stipulato in forma scritta, richiesta ad substantiam anche per l'affidamento di opere urgenti, specie in assenza di un rappresentante legittimato dell'ente.
Irrilevante, ancora, per i giudici di merito è la circostanza che la stazione appaltante avesse, in parte, pagato parzialmente tale importo, posto che il pagamento effettuato indipendentemente dal riconoscimento della legittimità e regolarità dell'affidamento dei lavori, pur integrando una parziale ricognizione di debito, non poteva sopperire alla mancanza dell’atto contrattuale sottoscritto da soggetti legittimati per entrambe le parti, unico atto idoneo a costituire titolo di ulteriori obblighi.
La Cassazione respinge il ricorso, confermando la duplice conforme di merito. Aggiunge, il Giudice nomofilattico, che la produzione dei verbali di assegnazione d’opera per somma urgenza comunque -e in disparte il fatto che i medesimi non provenissero da soggetto abilitato all’assunzione d’impegno contrattuale all’interno dell’ASL- non surroga la necessità di un contrato scritto, benché i medesimi contenessero ogni elemento essenziale del contratto.
Sotto questo profilo, non si ha alcuna lesione dell’art. 17 R.D. n. 2440/1923, né dell’art. 70 R.D. n. 350/1895 (regolamento sui ll.pp. in allora vigente) in quanto non risponde al vero la doglianza, svolta dal ricorrente, per la quale i contratti conclusi dagli enti pubblici a trattativa privata possono essere stipulati anche a mezzo di scrittura privata e, in  caso di somma urgenza, anche mediante la compilazione del verbale sottoscritto dall'ingegnere capo dell'ente committente.
L’esclusione di un valido rapporto contrattuale tra le parti si conforma al costante orientamento secondo cui ogni contratto della p.a. -compresi quelli jure privatorum- richiede forma scritta quale requisito essenziale, prescritto a pena di nullità, con dichiarazione negoziale proveniente dall'organo titolare del potere di rappresentanza, autorizzato ad esternare la volontà dell'ente e da cui possa desumersi la concreta instaurazione del rapporto con le indispensabili determinazioni circa la prestazione da rendere e il compenso da corrispondere. Irrilevanti, di contro, sono le deliberazioni d’impegno o di conferimento degli organi abilitati a formare la volontà dell'ente, che si collocano su di un piano meramente endo-procedimentale e preparatorio della successiva manifestazione di volontà negoziale (Cass. n. 1167/ 2013; n. 19070/2006; n. 258/2005).
Il requisito, che opera per gli enti territoriali (artt. 16 e 17 R.D. n. 2440/1923) trova applicazione anche nei contratti di appalto in economia stipulati secondo l’ormai abrogato art. 67 del R.D. n. 350/1895 mediante cottimo fiduciario, secondo la specifica previsione del successivo art. 74. Circostanza del resto confermata nel capitolato generale delle opere pubbliche statali di cui al D.P.R. n. 1063/1962; quanto dai regolamenti sui lavori pubblici di cui ai D.P.R. n. 554/1999 e n. 207/2010.
A maggior ragione, deve escludersi che un valido rapporto contrattuale possa instaurarsi per effetto dell’affidamento dei lavori da parte di un funzionario dell'ente avente una competenza meramente tecnica, non essendo quest'ultimo legittimato a impegnare l'ente nei rapporti con i terzi neppure nelle situazioni di somma urgenza (Cass., n. 14647/2004) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 28.05.2014 n. 11890 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 8-9/2014).

EDILIZIA PRIVATA: LA DESTINAZIONE ABITATIVA DI UN SOTTOTETTO INTEGRA UN MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO E RICHIEDE IL PERMESSO DI COSTRUIRE.
La destinazione abitativa di un sottotetto, che secondo gli strumenti urbanistici aveva soltanto una funzione tecnica, costituisce mutamento di destinazione d'uso per il quale è necessario il rilascio preventivo del permesso di costruire, atteso che la variazione avviene tra categorie non omogenee.
La Corte Suprema torna a pronunciarsi, con la sentenza in esame, sulla questione della necessità o meno del permesso di costruire in presenza di una modifica di destinazione d’uso costituita dalla trasformazione di un sottotetto in unità abitativa.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui gli imputati sono stati condannati per il reato di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. b) (e reati satelliti: D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64 e 71; 65 e 72; 93 e 95) perché, in qualità di proprietari e committenti, in contrasto con il permesso di costruire, in concorso con ignoti, realizzavano lavori edili all'interno del sottotetto cambiandone la destinazione d'uso attraverso la creazione all'interno del predetto sottotetto di un'unità abitativa costituita da cucina, due camere da letto e due bagni.
Contro la sentenza gli stessi proponevano ricorso per cassazione, sostenendo che i lavori non avrebbero comportato difformità plano-volumetriche rispetto a quelli assentiti, giungendo a sostenere come non fosse necessario né il permesso di costruire e né l'equipollente dichiarazione di inizio di attività disciplinata dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 3.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, ricordando che la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono, infatti, realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale.
È perciò necessario dimostrare che -a condizioni esatte, ossia in presenza di opere che non comportino interventi di trasformazione dell'aspetto esteriore, e di volumi e superfici- il cambio della destinazione presenti il requisito dell'omogeneità nel senso che il mutamento sia intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee perché il cambio, allorquando investe categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina, di regola, un aggravamento del carico urbanistico esistente.
Nel caso di specie, i giudici avevano accertato che il sottotetto di proprietà degli imputati era stato trasformato abusivamente in un'unità abitativa attraverso l'esecuzione di lavori edili (tramezzature e impianti), ricavandone un appartamento composto da cucina, salone, due camere da letto e due bagni.
Da qui, dunque, la correttezza della condanna inflitta (in precedenza, in senso conforme, con riferimento alla trasformazione di sottotetti: sez. III, 24.03.2011, n. 11956, in CED Cass., n. 249774) (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.05.2014 n. 20773 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 8-9/2014).

EDILIZIA PRIVATA: NECESSITÀ DELL’AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA PER L’ESECUZIONE DI INTERVENTI EDILIZI SUI “TRATTURI”.
I tratturi, a prescindere dalla loro attuale utilizzabilità come strade, quali espressioni di vestigia e tracce di remote civiltà passate ed in considerazione del rilievo costituzionale dei beni culturali come ribadito nella legge costituzionale 18.10.2001 n. 3, art. 2, costituiscono una zona d'interesse archeologico per il loro valore intrinseco, ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. m), D.Lgs. n. 42/2004.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, su una questione di non frequente esame da parte della giurisprudenza di legittimità, in particolare vertente sulla edificabilità nelle zone di interesse archeologico.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il tribunale rigettava l'istanza di riesame avverso il provvedimento del GIP con cui è stato disposto il sequestro preventivo del lotto C, costituito da n. 6 manufatti abusivi (bungalow) sul presupposto che gli stessi sarebbero stati realizzati su terreno ricadente nel piano regio trattura in catasto al fgl. 2 ex p.lla 76, all'interno di un villaggio turistico, in assenza di permesso di costruire e di n.o. paesaggistico (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), e D.Lgs. n. 42/2004, art. 181, comma 1).
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione sostenendo l’insussistenza del fatto sotto il profilo oggettivo per inosservanza ed erronea applicazione della L.R. Abruzzo n. 35 del 1986 modificata dalla L.R. n. 134/1988, inosservanza ed erronea applicazione del D.P.R. n. 380 del 2001, e della L.R. n. 18 del 1983, modificata dalla L.R. n. 70 del 1995.
Ai fini di una completa intelligibilità della vicenda in esame, è opportuno precisare i termini fattuali della fattispecie. Il legale rappresentante della s.r.l. “V.R.”, è aggiudicatario dell'affidamento della gestione del Centro Turistico Integrato di S.S.M., e, in tale veste, aveva provveduto a predisporre i progetti di potenziamento e di miglioramento della struttura allo scopo di renderla efficiente e fruibile; il medesimo aveva provveduto a presentare il progetto, relativamente al lotto sequestrato per l'installazione dei bungalows, come da offerta di gara e da PRG; il Comune di S.S. non aveva comunicato alcunché, sicché il ricorrente si era ritenuto legittimato alla realizzazione delle nuove opere; ad opere ultimate il Comune condizionava però l'inizio dei lavori all'acquisizione ex post dei pareri e dei n.o. necessari.
Gli interventi edilizi e l'area in sequestro erano stati realizzati sul terreno ricadente nel piano regio tratturo, in catasto al fg. 2 ex pc 76, sito all'interno del villaggio turistico denominato “P.b.” di S.S.M. Il GIP presso il Tribunale, in accoglimento della richiesta del PM, ravvisando nella condotta del titolare della s.r.l., relativa alla realizzazione dei predetti bungalows, i reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 44, lett. c) e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1, aveva disposto il sequestro preventivo dell'area e dei bungalows ivi realizzati. Il Tribunale del Riesame, a seguito di gravame proposto dall’interessato, con l'ordinanza in esame, respingeva l'istanza contro il sequestro preventivo disposto dal GIP presso il Tribunale.
La Cassazione ha, per quanto qui di interesse condiviso le argomentazioni per le quali giudici del riesame hanno chiarito il perché non ritennero possibile accogliere le richieste difensive fondate, quanto alla mancanza del n.o. archeologico, sull'inesistenza del "tratturo" essendo una previsione cartolare e nemmeno indicata nel PRG, con conseguente asserita liceità della realizzazione degli interventi edilizi (bungalows).
In particolare, nell’affermare il principio di cui in massima, i giudici di Piazza Cavour hanno chiarito che i cosiddetti "Tratturi", secondo quanto ribadito nel D.M. 15.06.1976, costituiscono la diretta sopravvivenza di strade formatesi in epoca protostorica in relazione a forme di produzione fondata sulla pastorizia; tali strade sono perdurate nell'uso ininterrotto, attraverso ogni successivo svolgimento storico, come risultante dalle testimonianze archeologiche di insediamenti preromani, di centri urbani di epoca romana, di abitati longobardi e normanni ed infine dalla presenza di centri tuttora esistenti, i quali fino ad epoca recentissima hanno tratto le fondamentali risorse economiche dalla transumanza.
I "tratturi", pertanto, hanno una duplice valenza, ossia quali strade destinate al passaggio del bestiame (L. 20.12.1908, n. 746 e successive integrazioni) e quale vestigia e tracce di passate civiltà. La rilevanza in chiave paesaggistica dei tratturi è stata poi ribadita, anzitutto, dal D.M. 20.03.980 nonché, con specifico riferimento alla regione Abruzzo, dal D.M. 22.12.1983.
Non vi è dubbio, dunque, che i tratturi in esame, ricadenti nelle aree sequestrate (a prescindere dalla loro attuale utilizzabilità come strade) -quali espressioni di vestigia e tracce di remote civiltà passate ed in considerazione del rilievo costituzionale dei beni culturali come ribadito nella legge costituzionale 18.10.2001, n. 3, art. 2- costituiscono una zona d'interesse archeologico per il loro valore intrinseco, ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 142, comma 1, lett. m).
La citata disciplina, sotto la rubrica "Aree tutelate per legge", dispone che sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni del Titolo 1 (Tutela e valorizzazione), PARTE 3 (Beni paesaggistici) del D.Lgs. n. 42 del 2004 "m) le zone di interesse archeologico".
All'uopo va precisato -secondo un indirizzo giurisprudenziale condiviso dalla Cassazione- che l'individuazione di una zona d'interesse archeologico, ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 142, comma 1, lett. m), non presuppone  necessariamente l'avvenuto accertamento dell'interesse archeologico. Le zone di interesse archeologico, come indicate dal citato art. 142, lett. m), possono essere individuate per il valore intrinseco, sia da una norma di carattere generale (statale o regionale), sia da strumenti urbanistici previsti dalla legge regionale (v., sul punto: sez. III, 12.05.1999, n. 1066, non massimata; in senso conforme: sez. III, 06.08.2002, n. 29099, in CED Cass., n. 222109).
La individuazione dell'area in sequestro, quale zona di interesse archeologico, comportava dunque anche la sussistenza del vincolo paesaggistico ex lege, in base al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 142, comma 1, lett. m) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.05.2014 n. 20443 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 8-9/2014).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: NECESSARIO IL PERMESSO DI COSTRUIRE PER GLI INTERVENTI EDILIZI “PUBBLICI” ESEGUITI DAI PRIVATI CONCESSIONARI.
Solo per le opere eseguite dai Comuni non è richiesto il permesso di costruire, bensì - quale atto equipollente - la delibera del consiglio o della giunta comunale accompagnate da un progetto riscontrato conforme alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie; diversamente, per le opere realizzate da privati concessionari, il predetto titolo abilitativo è invece necessario.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene all’applicabilità o meno della speciale disciplina della cd. validazione del progetto (ai sensi del D.P.R. 21.12.1999, n. 554, art. 47 prevista dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 7) alle opere edilizie di pubblico interesse ma eseguiti da concessionari privati.
La vicenda processuale trae origine dal provvedimento con cui il tribunale del riesame ha confermato il decreto di sequestro preventivo di 65 cappelle gentilizie, 44 edicole funerarie e 180 tumuli realizzati da una società privata, ipotizzando il fumus del reato di costruzione abusiva perché trattavasi di opere eseguite in assenza del permesso di costruire.
In particolare, il Tribunale ha ritenuto che tali opere erano soggette a permesso di costruire, trattandosi di nuove costruzioni modificative dell'assetto del territorio non rientranti nella previsione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 7, lett. c) non trattandosi di "attività edilizia delle pubbliche amministrazioni" ma di opere realizzate da un privato concessionario. L’ordinanza veniva impugnata dall’amministratore della società privata concessionaria, sostenendo l’errata applicazione del D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 31 e 44; in particolare, il tribunale  avrebbe omesso di applicare il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 7, lett. c).
La Cassazione ha, sul punto, respinto il motivo di ricorso  e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ritenuto corretto il ragionamento del tribunale che aveva ritenuto necessario il permesso di costruire, perché non ricorreva il presupposto soggettivo richiesto dalla norma del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 7 trattandosi appunto non di attività edilizia realizzata dalle pubbliche amministrazioni, ma di opere realizzate da un privato concessionario sia pure nell'ambito della finanza di progetto, cioè di una metodologia attuativa del cd. partenariato pubblico-privato (in precedenza, nel senso che anche le opere eseguite dai Comuni sono soggette all'obbligo di conformarsi alle disposizioni urbanistiche vigenti e ai relativi controlli salvo restando che, per effetto dell'art. 7 del D.P.R. n. 380 del 2001 e della contestuale abrogazione del D.L. n. 398 del 1993 e successive modifiche, per dette opere non è richiesto il previo rilascio del permesso di costruire, cui deve ritenersi equipollente, infatti, la delibera del consiglio o della giunta comunale accompagnata da un progetto riscontrato conforme alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie; fattispecie, analoga alla presente, di sequestro preventivo per il reato di cui all'art. 44, lett. c), D.P.R. n. 380 del 2001 relativamente a lavori di ampliamento di cimitero comunale in violazione della distanza minima rispetto al centro abitato: Cass. pen., sez. III, 09.05.2008, n. 18900 V. e altri, in CED Cass., n. 239918) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.05.2014 n. 18907 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

URBANISTICA: LA TRASFORMAZIONE IN “ZONA BIANCA” NON CONSEGUE AUTOMATICAMENTE ALLA DECADENZA DEL VINCOLO PREORDINATO ALL’ESPROPRIO.
La decadenza del vincolo preordinato all'esproprio non comporta automaticamente la trasformazione dell'area in "zona bianca" ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 9, comma 2, occorrendo una preliminare verifica della mancanza dello strumento attuativo di urbanizzazione dell'area, ossia della insufficienza del regime dell'area stabilito nel PRG.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione, invero non molto approfondita nella giurisprudenza di legittimità, dei vincoli territoriali destinati all’espropriazione dell’area.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con cui il tribunale ha rigettato la richiesta di riesame avverso decreto di sequestro preventivo di due fabbricati emesso dal GIP, nei confronti del legale rappresentante dell'impresa esecutrice dei lavori per lottizzazione abusiva a scopo edificatorio in un'area comunale.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’interessato, sostenendo, per quanto qui di interesse, l’omessa motivazione sulla consulenza tecnica di parte del perito, asserendo che il tribunale non l’avrebbe neppure menzionata, pur avendo affermato che la difesa "nulla ha apportato per sconfessare il giudizio di insufficiente urbanizzazione", che invece era proprio lo scopo della suddetta consulenza.
La Cassazione ha accolto il ricorso dell’interessato e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha osservato come l'apparato motivativo dell'impugnata ordinanza effettivamente venisse meno a proposito dell'urbanizzazione dell'area interessata, e ciò sotto due profili. In primo luogo, perché il tribunale ha ritenuto che sull'area interessata dall'intervento assentito con permesso di costruire esisteva un vincolo preordinato all'esproprio decaduto per non avere il Comune adottato il piano attuativo entro il termine quinquennale di efficacia: in altri termini, secondo il tribunale, la decadenza del vincolo avrebbe comportato l'assoggettamento dell'area nel regime delle c.d. zone bianche di cui alla L. n. 1977 del 2010, art. 4.
Affermazione, questa, come visto, disattesa dalla Cassazione con l’importante principio affermato (in precedenza, in senso conforme: Cass. pen., sez. III, 23.06.2011, n. 25235, in CED Cass., n. 250980) (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.05.2014 n. 18727 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

EDILIZIA PRIVATA: PERMESSO DI COSTRUIRE NECESSARIO ANCHE IN CASO DI OPERA “STAGIONALE”.
Il permesso di costruire è richiesto anche nel caso in cui l'opera abbia un carattere stagionale, ben potendo quest’ultima essere destinata a soddisfare bisogni non provvisori attraverso la permanenza nel tempo della sua funzione.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione relativa alla necessità o meno del permesso di costruire ove l’intervento edilizio sia finalizzato a soddisfare esigenze di carattere stagionale.
La vicenda processuale vede coinvolti C., quale progettista dei lavori e, G., committente, per violazione edilizia conseguente al fatto di avere realizzato un gazebo in assenza di permesso di costruire, senza la previa autorizzazione del servizio tecnico di bacino, e di averlo utilizzato prima del rilascio del certificato di collaudo, nonché di falsità ideologica per avere presentato -in allegato alla DIA effettuata ex D.P.R. n. 380 del 2001, art. 6- asseverazioni false (relativamente alla riconducibilità dell'opera al cd. IPRIPI - interventi privi di rilevanza per la pubblica incolumità ai fini sismici). Per tale ragione, il PM ha chiesto ed ottenuto dal GIP la convalida del decreto di sequestro preventivo disposto sul gazebo e la sottoposizione dell'opera a sequestro preventivo.
Il tribunale del riesame, ritenendo trattarsi di opera di carattere stagionale, e, dunque, sottratta al permesso di costruire, ha annullato il sequestro. Contro l’ordinanza ha ricorso per cassazione il PM in particolare, per quanto qui di interesse, soffermandosi sulla interpretazione dell'art. 6 D.P.R. n. 380/2001 e sui concetti di "temporaneità" e "contingenza" che -all'evidenza- non possono essere riferiti alle opere bensì alle esigenze. Inoltre, lo stesso P.M. fa notare che tali aggettivi non hanno significati sovrapponibili e che, in particolare, "contingente" significa accidentale e non attiene ad una esigenza propria dell'attività di chi installa l'opera.
Ciò vuol dire, esemplificando, che chi svolge l'attività di ristoratore può considerare contingente l'allestimento per consentire, allo scoperto, una mostra fotografica non certo l'esigenza in generale di svolgere il servizio esterno di ristorazione al riparo da pioggia vento e sole perché quest'ultima è esigenza "propria" dell'attività commerciale svolta, come nel caso di specie, - dal G.
La Cassazione ha accolto il ricorso del PM e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha evidenziato come sicuramente incisivi e convincenti sono i rilievi del PM circa il fatto che un insediamento come quello realizzato consenta la soddisfazione di esigenze valide per tutto l'anno (riparando, cioè, dal freddo, in inverno, e dal caldo, d'estate) sicché, anche il carattere di esigenza "temporanea" merita maggiore approfondimento da parte del Tribunale (in precedenza, nel senso che necessità di permesso di costruire anche l’opera stagionale: Cass. pen., sez. III, 26.09.2011, n. 34763, in CED Cass., n. 251243)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.05.2014 n. 18718 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

EDILIZIA PRIVATA: VIETATO DISPORRE LA DEMOLIZIONE DELL’ABUSO EDILIZIO SE LA CONDANNA RIGUARDA LA VIOLAZIONE DELLA LETT. A) DELL’ART. 44 T.U. EDILIZIA.
Il giudice, ove pronunci condanna per il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), non può ordinare la demolizione delle opere abusive.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, delle condizioni in presenza delle quali può essere applicata la sanzione amministrativa accessoria della demolizione del manufatto abusivo.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza con cui il Tribunale ha condannato alcuni soggetti, ordinando la demolizione delle opere abusive, per il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), perché, C., quale proprietario committente, B. quale esecutore dei lavori, M.M. quale direttore dei lavori, eseguivano la costruzione di un fabbricato in difformità dal regolamento edilizio vigente e dal permesso di costruire; in particolare, realizzavano il fabbricato a distanza di circa 13,3 m anziché 20 m dalla strada comunale, come prescritto sia dal titolo autorizzatorio, sia dagli strumenti urbanistici vigenti, nonché realizzavano un'altezza di circa 2 m in corrispondenza dell'intradosso del solaio, laddove era stata autorizzata un'altezza di 0,80 m e, su tutti i lati, un balcone con uno sbalzo di circa 1,5 m, non previsto, con significativa alterazione del rapporto planivolumetrico.
Contro la sentenza di condanna proponevano ricorso per cassazione gli interessati sostenendo, per quanto qui di interesse, che il giudice, pur avendo pronunciato condanna per il reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), avrebbe ordinato la demolizione delle opere, la quale può essere invece ordinata solo in relazione alla violazione dell'art. 44, comma 1, lett. b), dello stesso D.P.R.
La Cassazione ha accolto il ricorso degli interessanti e, affermando il principio di cui in massima, ha altresì escluso la possibilità di procedere d'ufficio ad una riqualificazione della fattispecie contestata riconducendola all'ambito di applicazione della richiamata lett. b), per di più in presenza di una motivazione della sentenza impugnata che sostanzialmente escludeva una tale riqualificazione (in precedenza, in senso conforme all’inapplicabilità dell’ordine di demolizione con riferimento alla lett. a): Cass. pen., sez. III, 29.09.2011, n. 41423, in CED Cass., n. 251326) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.04.2014 n. 17991 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

EDILIZIA PRIVATA: OMESSA DENUNCIA LAVORI IN CEMENTO ARMATO: È REATO PROPRIO DEL COSTRUTTORE?
Il reato di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato (artt. 65 e 72, D.P.R. 06.06.2001, n. 380), in quanto reato omissivo proprio, è configurabile in capo al costruttore, essendo imposto dalla legge, in via esclusiva a carico di quest'ultimo, l'obbligo di denuncia.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla individuazione del soggetto responsabile del reato di omessa denuncia dei lavori in cemento armato.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui il Tribunale ha ritenuto responsabile di violazioni continuate della normativa sulle opere in conglomerato cementizio (art. 81 c.p., D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64 e 71, 65 e 72) e della normativa antisismica (art. 81 c.p., D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93, 94 e 95) il proprietario e committente, cui è stato addebitato di aver realizzato su un capannone prefabbricato, una scala in cemento armato, un vano ascensore, un solaio in lamiera grecata, un manufatto in profilati di alluminio e vetri a copertura di una scala, in assenza di un progetto esecutivo e della direzione di un tecnico abilitato e senza la prescritta denunzia di inizio lavori all'Ufficio del Genio Civile, e senza l'attestazione di avvenuto deposito, trattandosi di opere in zona sismica.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’interessato, sostenendo che, quanto alle opere in cemento armato, il reato di omessa denuncia non possa essere attribuito al committente.
La Cassazione, nel prendere atto dell’esistenza del contrasto giurisprudenziale, ha dichiarato estinti i reati contestati (nel senso che il reato in esame sarebbe reato proprio del costruttore: Cass. pen., sez. III, 07.05.2010, n. 17539, in CED Cass., n. 247168; diversamente, nel senso che il committente di lavori edilizi concorre, in qualità di "extraneus", nella contravvenzione di omessa denuncia delle opere in conglomerato cementizio armato, pur trattandosi di reato omissivo proprio del costruttore, v. Cass. pen., sez. III, 31.05.2011, n. 21775, in CED Cass., n. 250377, peraltro precisando che il concorso è ipotizzabile, ad esempio, quando la denuncia sia omessa proprio su istigazione  di chi ha ordinato i lavori) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.04.2014 n. 17281 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

EDILIZIA PRIVATA: LE OPERE DI SBANCAMENTO E LIVELLAMENTO DI TERRENO SONO SOGGETTE A PERMESSO DI COSTRUIRE.
Pure le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, se finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione relativa alla necessità o meno del permesso di costruire ove l’intervento edilizio sia finalizzato alla realizzazione di attività apparentemente non riconducibili alla nozione di costruzione edilizia.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte d'appello ha ribadito la condanna inflitta ad alcuni soggetti per avere realizzato, a fini edilizi, uno scavo di 270 mc. adiacente ad un edificio esistente, ed avere ivi effettuato uno scarico di terreno vegetale, prelevato altrove, in quantità pari a circa 100 mc..
Avverso tale decisione, i condannati hanno proposto ricorso, tramite difensore deducendo, per quanto qui di interesse, che non sarebbe esatto ricondurre la loro condotta alla fattispecie di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, visto che, in zona, non è stata realizzata alcuna opera edilizia. In realtà -si sostiene- si è trattato solo di uno spostamento del terreno che è stato rimosso più a valle, in una zona in pendio, per finalità di spianatura, come si evince agevolmente dalla documentazione fotografica.
La tesi non ha però convinto gli Ermellini che, sul punto, hanno infatti dichiarato il ricorso inammissibile. In particolare, nell’enunciare il principio di cui in massima, hanno precisato che "opera edilizia" non è solo quella che implica una "costruzione" o "edificazione"; ed invero, a mente del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, necessitano di permesso di costruire: gli interventi di nuova costruzione, gli interventi di ristrutturazione urbanistica e gli interventi di ristrutturazione edilizia.
In altri termini, sono subordinati al preventivo rilascio del permesso di costruire, non soltanto, gli interventi edilizi in senso stretto, ma anche, quelli che comportano la trasformazione in via permanente del suolo in edificato, tra cui, appunto, le opere di sbancamento e livellamento di terreno a fini non agricoli (in precedenza, in senso conforme: Cass. pen., sez. III, 24.02.2009, n. 8064, in CED Cass., n. 242741) (Corte di Cassazione, sez. III penale, sentenza 18.04.2014 n. 17278 - commento tratto da Urbanistica e appalti n. 7/2014).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla tesi difensiva secondo cui l'estratto aerofotogrammetrico proverebbe l'esistenza del fabbricato (contestato dal comune quale abusivo) prima del 1967 e, quindi, senza l'onere di aver conseguito la licenza edilizia.
Il Collegio ritiene che l’amministrazione sia correttamente pervenuta alla conclusione che le allegazioni dell’esponente siano prive di adeguata valenza probatoria.
In effetti, non soltanto gli elementi visualizzati nelle aerofotogrammetrie dell’anno 1984 (quelle più risalenti) risultano talmente poco chiari da non consentire di dimostrare la presenza del cd. roccolo, e, per la stessa ragione, di formulare qualsiasi ipotesi sulla sagoma e volumetria dell’ex fienile, ma, addirittura essi risultano inconferenti, poiché comunque non dimostrano che si tratta di manufatti preesistenti da almeno diciotto anni (tanto è il lasso di tempo che intercorre tra il 1966 –data di asserita realizzazione dei manufatti de quibus - e il 1984 –data delle allegazioni più risalenti nel tempo).
Né, a quest'ultimo riguardo, risultano utili sia la documentazione fotografica versata in atti da parte ricorrente, in quanto ben successiva all’anno 1966, sia la dichiarazione sostitutiva, resa nel mese di aprile 2012, in quanto non assistita dalle garanzie della prova testimoniale ed effettuata a notevole distanza di tempo dalla data rilevante ai fini probatori.
L'onere della prova di fatti assai risalenti, invero, può ritenersi soddisfatto solo quando le prove addotte risultano inconfutabili sulla base degli atti e documenti che, da soli od unitamente ad altri elementi di valutazione, offrono la ragionevole certezza (nella specie) dell'epoca di realizzazione del manufatto.
In tale prospettiva, la produzione di una dichiarazione sostitutiva di atto notorio non può in alcun modo assurgere al rango di prova, seppure presuntiva, sull'epoca di realizzazione dell'abuso, ai fini dell'esenzione ratione temporis dalla necessità di un titolo edilizio, quantomeno se trattasi dell’unica prova offerta in assenza di minimi riscontri documentali.
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Analogo motivo induce a disattendere la richiesta di prova testimoniale dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni sostitutive per cui:
- in linea di principio l'onere della prova circa la data di realizzazione di un immobile abusivo spetta a chi ha commesso l'abuso: secondo il principio generale previsto dall'art. 2697 del codice civile, infatti, "Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento", e con riguardo alla realizzazione di opere in tempo utile per poter fruire del condono, ad esempio, si è affermato che è onere del privato fornire la prova sulla data di ultimazione dell'abuso, in quanto la pubblica amministrazione non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge, mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea documentazione comprovante la conclusione dell'opera;
- è stato altresì sottolineato che tale onere può ritenersi a sufficienza soddisfatto solo quando le prove addotte risultano obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto, mentre la semplice produzione di una dichiarazione sostitutiva non può in alcun modo assurgere al rango di prova.
E' stato inoltre puntualizzato che, nel processo civile, alle dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà deve negarsi qualsiasi rilevanza, sia pure indiziaria, qualora costituiscano l'unico elemento esibito in giudizio al fine di provare un elemento costitutivo dell'azione o dell'eccezione, atteso che la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore -ai fini del soddisfacimento dell'onere di cui all'art. 2697 c.c.- da proprie dichiarazioni non asseverate da terzi”.
A fronte della indimostrata data di realizzazione degli interventi per cui è causa, non può, quindi, fondatamente sostenersi che incombesse sull'Amministrazione l'obbligo di motivare i propri dinieghi e le conseguenti ordinanze repressive.
Osserva, infatti, il Collegio che in base alla già citata e consolidata giurisprudenza, da cui il Collegio medesimo non ravvisa ragioni per discostarsi, "l'onere della prova dell'ultimazione dei lavori grava sul richiedente la sanatoria, in quanto, mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che lo richiede può, di regola, procurarsi la documentazione da cui si possa desumere che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data prevista".

15. Indi, il Collegio ritiene utile osservare, sempre in premessa e al fine di comprendere meglio i termini della controversia in esame, come i provvedimenti di diniego impugnati riguardino due distinte fattispecie di abuso:
- da un lato, gli ampliamenti e il mutamento di destinazione d’uso del fabbricato censito al mappale 1698, precedentemente adibito a stalla e fienile;
- e, dall’altro, la realizzazione di una nuova costruzione (cd. roccolo), in area boscata, censita al mappale 1077.
16. Ebbene, secondo l’impostazione del patrocinio ricorrente, tanto l’ampliamento quanto la nuova costruzione sarebbero stati realizzati, nella loro attuale consistenza, in epoca di molto antecedente l'accertamento, ovvero ben prima del 1966.
Per tale via, l’esponente difesa intende conseguire il risultato di poter prescindere dalla dimostrazione della sussistenza di un titolo edilizio a sostegno dei surriferiti manufatti, atteso che, solo con l'entrata in vigore della "legge ponte", n. 765/1967, di modifica dell’art. 31 della legge urbanistica generale n. 1150/1942, è stato generalizzato, dal 01.09.1967, l’obbligo, sino ad allora limitato ai centri urbani, di richiedere al Sindaco apposita “licenza edilizia” per l’attività costruttiva.
17. Sennonché, è proprio sulla sussistenza o meno di un adeguato riscontro probatorio delle predette asserzioni che si deve concentrare l’attenzione del Collegio, avendo l’amministrazione negato valenza probatoria alle allegazioni di parte ricorrente.
Queste ultime, a ben vedere, attengono alle riprese aerofotogrammetriche degli anni 1984–2009, ad alcune foto risalenti agli anni 2004 e riguardanti le superfetazioni del fabbricato censito al mappale 1698, nonché, alla dichiarazione del sig. P.A., secondo cui dette superfetazioni esisterebbero già dal 1966 (almeno, stando ai suoi ricordi, di addetto che si “occupava personalmente della cura e alimentazione dei conigli presso l’allevamento presente nell’azienda”).
18. Ebbene, esaminata attentamente la documentazione in atti, il Collegio ritiene che l’amministrazione sia correttamente pervenuta alla conclusione che le allegazioni dell’esponente siano prive di adeguata valenza probatoria, e che, pertanto, la domanda di sospensione del processo in attesa dell’escussione come teste del sig. P. nel sopramenzionato procedimento penale, sia ultronea ai fini della decisione dell’odierno giudizio.
In effetti, non soltanto gli elementi visualizzati nelle aerofotogrammetrie dell’anno 1984 (quelle più risalenti) risultano talmente poco chiari da non consentire di dimostrare la presenza del cd. roccolo, e, per la stessa ragione, di formulare qualsiasi ipotesi sulla sagoma e volumetria dell’ex fienile, ma, addirittura essi risultano inconferenti, poiché comunque non dimostrano che si tratta di manufatti preesistenti da almeno diciotto anni (tanto è il lasso di tempo che intercorre tra il 1966 –data di asserita realizzazione dei manufatti de quibus - e il 1984 –data delle allegazioni più risalenti nel tempo).
Né, a quest'ultimo riguardo, risultano utili sia la documentazione fotografica versata in atti da parte ricorrente, in quanto ben successiva all’anno 1966, sia la dichiarazione sostitutiva, resa nel mese di aprile 2012, in quanto non assistita dalle garanzie della prova testimoniale ed effettuata a notevole distanza di tempo dalla data rilevante ai fini probatori (cfr., in tal senso, tra le tante, TAR Toscana, Firenze, Sez. III, Sent. 27.09.2012, n. 1568; id. 26.11.2010, n. 6628).
L'onere della prova di fatti assai risalenti, invero, può ritenersi soddisfatto solo quando le prove addotte risultano inconfutabili sulla base degli atti e documenti che, da soli od unitamente ad altri elementi di valutazione, offrono la ragionevole certezza (nella specie) dell'epoca di realizzazione del manufatto.
In tale prospettiva, la produzione di una dichiarazione sostitutiva di atto notorio non può in alcun modo assurgere al rango di prova, seppure presuntiva, sull'epoca di realizzazione dell'abuso, ai fini dell'esenzione ratione temporis dalla necessità di un titolo edilizio (cfr., in termini, anche TAR Liguria, Sez. I, 04.12.2012, n. 1565), quantomeno se trattasi dell’unica prova offerta in assenza di minimi riscontri documentali.
E nella specie non solo difettano altri riscontri documentali attendibili (aerofotogrammetrie, mappe catastali, etc.) in ordine all'epoca di realizzazione del manufatto, ma, come sopra rilevato, alcun valore, anche solo indiziario, può essere attribuito al documento fotografico del 2004 relativo al mappale 1698, di trentasette anni successivo allo spartiacque del 1967 (in disparte ogni considerazione su ciò che emerge dall'esame della citata fotografia, ove si notano materiali di costruzione il cui utilizzo, in epoca così asseritamente risalente, non appare affatto verosimile).
Il quadro fattuale vede, dunque, la netta prevalenza di dati incompatibili con la tesi propugnata dall’esponente circa l'ultimazione delle opere in data anteriore al 1967, il che conduce a respingere, in tale contesto di carenza probatoria, anche la richiesta di c.t.u. (diretta ad accertare l'epoca di realizzazione dei manufatti), in quanto la stessa cesserebbe di svolgere la funzione di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi già acquisiti al processo per diventare un mezzo di prova vero e proprio (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 30.05.2013, n. 2974; TAR Umbria Perugia Sez. I, Sent., 30.08.2013, n. 462; TAR Piemonte, Sez. I, 10.05.2013, n. 598).
Analogo motivo induce a disattendere la richiesta di prova testimoniale dei soggetti che hanno reso le dichiarazioni sostitutive (cfr. TAR Lazio, Sez. III, 02.05.2013, n. 4383 e, più in generale, sugli argomenti oggi all’esame del Collegio: TAR Brescia, Sez. II, 02.10.2013, n. 814, per cui: “…in linea di principio l'onere della prova circa la data di realizzazione di un immobile abusivo spetta a chi ha commesso l'abuso (Consiglio di Stato, sez. IV - 31/01/2012 n. 478): secondo il principio generale previsto dall'art. 2697 del codice civile, infatti, "Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento", e con riguardo alla realizzazione di opere in tempo utile per poter fruire del condono, ad esempio, si è affermato che è onere del privato fornire la prova sulla data di ultimazione dell'abuso, in quanto la pubblica amministrazione non può di solito materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge, mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea documentazione comprovante la conclusione dell'opera (Consiglio di Stato, sez. IV - 27/11/2010 n. 8298; si veda anche TAR Campania Napoli, sez. VIII - 02/07/2010 n. 16569; TAR Lombardia Brescia, sez. I - 08/04/2010 n. 1506)… E' stato altresì sottolineato che tale onere può ritenersi a sufficienza soddisfatto solo quando le prove addotte risultano obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto, mentre la semplice produzione di una dichiarazione sostitutiva non può in alcun modo assurgere al rango di prova (TAR Liguria, sez. I - 08/03/2012 n. 367).
E' stato inoltre puntualizzato che, nel processo civile, alle dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà deve negarsi qualsiasi rilevanza, sia pure indiziaria, qualora costituiscano l'unico elemento esibito in giudizio al fine di provare un elemento costitutivo dell'azione o dell'eccezione, atteso che la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore -ai fini del soddisfacimento dell'onere di cui all'art. 2697 c.c.- da proprie dichiarazioni non asseverate da terzi (TAR Lombardia Milano, sez. II - 24/02/2012 n. 617)...
”. cfr., ancora in termini, TAR Lombardia, Brescia, Sezione II, 18/05/2012 n. 838).
A fronte della indimostrata data di realizzazione degli interventi per cui è causa, non può, quindi, fondatamente sostenersi che incombesse sull'Amministrazione l'obbligo di motivare i propri dinieghi e le conseguenti ordinanze repressive (cfr. TAR Toscana, III, n. 284 del 2011 e n. 457 del 2012).
Osserva, infatti, il Collegio che in base alla già citata e consolidata giurisprudenza, da cui il Collegio medesimo non ravvisa ragioni per discostarsi, "l'onere della prova dell'ultimazione dei lavori grava sul richiedente la sanatoria, in quanto, mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che lo richiede può, di regola, procurarsi la documentazione da cui si possa desumere che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data prevista" (cfr. Cons. di Stato Sez. VI, Sent. 05.08.2013, n. 4075; id., 24.09.2012, n. 5057; id., Sez. IV, 27.12.2011, n. 6873) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.11.2013 n. 2513 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La domanda di condono deve essere esaminata tenendo conto della normativa vigente al momento della conclusione del procedimento amministrativo.
Pertanto, se nel corso del procedimento d'esame della domanda entra in vigore una normativa o è emesso un provvedimento, che determina la sopravvenienza di un vincolo di protezione dell'area in questione, l'autorità competente ad esaminare l'istanza di condono deve acquisire il parere della autorità preposta alla tutela del vincolo sopravvenuto, che deve pronunciarsi tenendo conto del quadro normativo vigente al momento in cui esercita i propri poteri consultivi (tempus regit actum), poiché -con la disposizione o con l'atto amministrativo sopravvenuto- l'area è specificamente sottoposta ad un regime giuridico di protezione, rispetto al quale va valutata l'incidenza dell'abuso commesso.

Orbene, nel caso di specie, dagli atti di causa –a fronte di due distinte domande di accertamento di conformità edilizia (e di altrettante domande di accertamento di conformità paesaggistica), aventi ad oggetto interventi che presuppongono la legittima preesistenza di due manufatti, rispettivamente, sul mappale 1077 e sul mappale 1698- non risulta, come precedentemente detto, che la ricorrente abbia presentato la documentazione necessaria per attestare che, tanto il manufatto del mappale 1077 quanto le superfetazioni del mappale 1698 siano state realizzate prima dell'anno 1967.
In siffatte evenienze appare del tutto legittima l’azione amministrativa che si è estrinsecata con i provvedimenti in epigrafe specificati (cfr. sul tema sempre da ultimo TAR Umbria Perugia Sez. I, Sent. 30.08.2013, n. 461), assunti sul presupposto che gli interventi realizzati dall’istante si concretizzino in ben altro rispetto alla dichiarata manutenzione straordinaria, ovvero, in una nuova costruzione quanto al mappale 1077 e nella creazione di nuove superfici e volumi quanto al mappale 1698, entrambi incompatibili con la destinazione urbanistica di zona e in contrasto con il regime vincolistico dell’area (a quest’ultimo riguardo, osserva il Collegio che, contrariamente a quanto ipotizzato dall’istante a proposito dell’irrilevanza del vincolo paesaggistico siccome apposto successivamente alla realizzazione del cd. roccolo, in base alla sentenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 20.07.1999, n. 20, cui si è conformato il successivo orientamento giurisprudenziale, "la domanda di condono deve essere esaminata tenendo conto della normativa vigente al momento della conclusione del procedimento amministrativo. Pertanto, se nel corso del procedimento d'esame della domanda entra in vigore una normativa o è emesso un provvedimento, che determina la sopravvenienza di un vincolo di protezione dell'area in questione, l'autorità competente ad esaminare l'istanza di condono deve acquisire il parere della autorità preposta alla tutela del vincolo sopravvenuto, che deve pronunciarsi tenendo conto del quadro normativo vigente al momento in cui esercita i propri poteri consultivi (tempus regit actum), poiché -con la disposizione o con l'atto amministrativo sopravvenuto- l'area è specificamente sottoposta ad un regime giuridico di protezione, rispetto al quale va valutata l'incidenza dell'abuso commesso". Analogamente cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, Sent., 30.07.2013, n. 3997; id., 31.05.2013, n. 3015) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.11.2013 n. 2513 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 09.04.2015

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Altre pronunce in materia di accertamento -o meno- della compatibilità paesaggistica (ex art. 167 D.Lgs. n. 42/2004) circa la realizzazione di "superfici utili" siccome definite dal legislatore e specificate dalla circolare 26.06.2009 n. 33 del Segretario generale MIBACT ...

EDILIZIA PRIVATA: Non può essere accertata la compatibilità paesaggistica di una abusiva platea in calcestruzzo di circa mt. 11x10 (sottostante ad un pergolato in pali di legno).
L’art. 167 D.lgs. 42/2004 non permette la sanabilità ex post di opere che abbiano determinato la creazione o l’aumento di superfici utili rispetto a quelle legittimamente realizzate.
Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, la nozione di superficie utile deve essere intesa in senso ampio e finalistico, ossia non limitata agli spazi chiusi o agli interventi capaci di provocare un aggravio del carico urbanistico, quanto piuttosto considerando l’impatto dell’intervento sull’originario assetto del territorio e, quindi, l’idoneità della nuova superficie, qualunque sia la sua destinazione, a modificare stabilmente la vincolata conformazione originaria del territorio.

... per l'annullamento:
- del parere di non compatibilità paesaggistica n. 9240/2014 adottato dalla Soprintendenza di Napoli - Ministero dei Beni e delle Attività culturali;
- del provvedimento prot. 13063 del 26.06.2014 a firma del Responsabile del servizio tutela paesaggistica e ambientale del Comune di Massa Lubrense.
...
1. La sig.ra De G. è proprietaria di un fondo, su cui insiste un rudere adibito a porcilaia, posto nel Comune di Massa Lubrense, al vicolo Barbarella – località Schiazzano, in zona vincolata sul piano paesaggistico (LR 35/1987).
In data 17.11.2010 la Polizia Municipale ha accertato, presso il detto fondo, l’esistenza di opere non provviste di titolo edilizio (manufatto in fase di realizzazione costituito da una platea in calcestruzzo di circa mt. 11x10 sottostante un pergolato in pali di legno, realizzazione di mura in pietra a contenimento del terrazzamento soprastante la platea). In ragione di detto accertamento il Comune di Massa Lubrense ha ordinato la rimozione delle citate opere abusive (ordinanza di demolizione 7/2011).
Per tali opere la ricorrente ha presentato istanza, in data 15.01.2014, di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.lgs. 42/2004.
La Soprintendenza ha rilasciato parere negativo (parere prot. 9240 del 14.04.2014) ritenendo incompatibili i lavori già effettuati con i valori paesaggistici dell’area.
L’istanza è stata dunque respinta (prot. 13063 del 26.06.2014) dal Comune di Massa Lubrense che, recependo integralmente il parere vincolante della Soprintendenza per i beni culturali del 14.04.2014, ha osservato che “l’intervento ha alterato la morfologia del terreno e modificato il profilo del terrazzamento con il conseguente inserimento di elementi non tipici e caratteristici dell’area che risultano in contrasto con le specifiche disposizioni del Put per l’area di intervento”.
Con lo stesso provvedimento comunale viene reiterato l’ordine di rimozione delle opere abusive e il ripristino dello status quo ante.
...
2.5 Con il settimo motivo si lamenta la violazione delle norme procedimentali che consentono la partecipazione dell’interessato e in particolare dell’art. 10-bis L. 241/1990 che prevede in caso di diniego la comunicazione del preavviso di rigetto.
Il motivo non ha pregio.
Come già evidenziato, nel caso di specie, i lavori realizzati hanno dato luogo ad una nuova superficie edilizia; ne consegue che comunque il parere avrebbe dovuto essere in ogni caso negativo in quanto l’art. 167 D.lgs. 42/2004 non permette la sanabilità ex post di opere che abbiano determinato la creazione o l’aumento di superfici utili rispetto a quelle legittimamente realizzate.
Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa (TAR Veneto 1367/2014, TAR Liguria 281/2015) la nozione di superficie utile deve essere intesa in senso ampio e finalistico, ossia non limitata agli spazi chiusi o agli interventi capaci di provocare un aggravio del carico urbanistico, quanto piuttosto considerando l’impatto dell’intervento sull’originario assetto del territorio e, quindi, l’idoneità della nuova superficie, qualunque sia la sua destinazione, a modificare stabilmente la vincolata conformazione originaria del territorio.
Nel caso di specie dunque l’omissione del preavviso del diniego e le altre eventuali irregolarità procedimentali contestate non possono costituire causa di illegittimità in quanto in applicazione dell’art. 21-octies L. n. 241/1990 risulta palese che il contenuto dispositivo del provvedimento impugnato non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 30.03.2015 n. 1857 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non può essere paesaggisticamente sanata (ex art. 167 dlgs 42/2004) una piastra in cemento polivalente (dello spessore di 15 cm. e della superficie di oltre 400 mq.) ad uso sportivo per calcetto e gioco basket.
Nel caso in esame si è in presenza, non già di un mero intervento di sistemazione o qualificazione di un’area libera bensì della realizzazione di un’opera nuova, di rilevanti dimensioni, che modifica in modo consistente il precedente assetto territoriale sotto il profilo ambientale, estetico e funzionale.
Pertanto, come anche comprovato dalla richiesta di permesso di costruire in sanatoria, si tratta indubbiamente di un intervento soggetto al previo rilascio di tale titolo edilizio.
Trattasi, poi, di un intervento che ha certamente rilevanza paesaggistica, in quanto, per consistenza e caratteristiche, è ben percepibile e, dunque, ha incidenza sul valore paesistico tutelato, non trattandosi né di opera interna né d’intervento minimale.
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La nozione di “superficie utile” che si può trarre dalla disciplina urbanistica non può essere traslata sic et simpliciter in ambito paesaggistico, dovendo, qui, tale nozione -in mancanza di una specifica definizione- essere intesa in senso ampio e finalistico, ovvero, non tanto in termini di aggravio del carico urbanistico, quanto piuttosto considerando l'impatto dell'intervento sull'originario assetto del territorio e quindi l’idoneità della creazione di superfici utili a determinare una compromissione ambientale.
Conseguentemente, il concetto di superficie utile in ambito paesaggistico non può essere riferito esclusivamente ad una costruzione-edificio ma a qualsiasi manufatto in grado di modificare stabilmente la vincolata conformazione originaria del territorio.
In tal senso la circolare del Segretario Generale del MiBAC n. 33 del 26.06.2009, che in merito all'applicazione dell'art. 167, comma 4, del Codice dei Beni Culturali, ed in particolare in merito alla definizione di superfici utili, prevede che: “per superfici utili, si intende qualsiasi superficie utile, qualunque sia la sua destinazione”.
Per cui è evidente che nel caso di specie, la realizzazione di una piastra di calcestruzzo di circa 400 mq. da destinare a campo sportivo, in luogo di un’area sterrata occupata da vegetazione e da piante d’ulivo, rientra pienamente in tale concetto di superficie utile, trattandosi d’intervento che incide in senso fisico ed estetico sul bene protetto.

... per l'annullamento:
- del parere favorevole dell'Ufficio tecnico del Comune di Costermano 31.07.2012 n. 10504 reso sulla domanda di sanatoria edilizia n. 5786 in data 25.07.2012 presentata dalla controinteressata per l'avvenuta realizzazione di una piastra in cemento polivalente ad uso sportivo per calcetto e gioco basket;
- del parere favorevole 21.08.2012 n. 23552 espresso dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Verona, Rovigo e Vicenza;
- della nota 08.10.2012 n. 7995;
- dell'autorizzazione ex art. 146 e 167, co. 4, D.L.vo 42/2004 e del permesso di costruire ex art. 36 DPR 380/2001 e (se necessario) della deliberazione del Consiglio comunale n. 24/2005.
...
1.1. Il ricorso è fondato.
1.2. In particolare, quanto all’impugnazione dell’autorizzazione paesaggistica, risulta fondato il primo motivo di gravame, laddove si è dedotta l’assoluta insanabilità dell’abuso paesaggistico, ai sensi dell’art. 167 comma 4 del D.lgs. n. 42/2004, avendo esso determinato la creazione di superficie utile.
1.3. La norma appena citata stabilisce infatti che: “L'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380”.
1.4. Dunque, la disposizione considera ostativa al conseguimento della sanatoria la circostanza che le opere realizzate in assenza di previa autorizzazione paesaggistica si caratterizzino per l'avvenuta creazione di superfici utili o di volumi.
1.5. Nel caso di specie è stata realizzata una piastra in cemento ad uso sportivo dello spessore di 15 cm. e della superficie di oltre 400 mq. con muretto perimetrale a fungere da sedile per il pubblico. Unitamente a tali opere sono stati collocati pali metallici dell’altezza di 8 metri a sostegno della recinzione e dei fanali per l’illuminazione notturna.
1.6. La Soprintendenza ha ritenuto sanabili le opere medesime in quanto: “per la loro natura e consistenza non arrecano sostanziale pregiudizio ai valori paesaggistici dell’area sottoposta a tutela”.
1.7. Secondo i ricorrenti tale opera non può rientrare tra gli abusi minori sanabili, avendo essa creato una superficie utile di enormi dimensioni.
1.8. Secondo la difesa del Comune, invece, il manufatto in questione può essere assoggettato al procedimento di compatibilità paesaggistica non potendo esso costituire “superficie utile” in senso urbanistico-edilizio.
Ed infatti, sostiene la difesa comunale, il duplice riferimento normativo alle nuove superfici utili o volumi costituirebbe un’endiadi ossia una modalità di esprimere un concetto unitario collegato alla realizzazione di una costruzione-edificio e non di un qualsiasi manufatto.
2.1. Tali ultimi argomenti difensivi non possono essere condivisi.
Ed infatti, in primo luogo, è evidente che nel caso in esame si è in presenza, non già di un mero intervento di sistemazione o qualificazione di un’area libera, come pure sostenuto dalla difesa del Comune, bensì della realizzazione di un’opera nuova, di rilevanti dimensioni, che modifica in modo consistente il precedente assetto territoriale sotto il profilo ambientale, estetico e funzionale.
Pertanto, come anche comprovato dalla richiesta di permesso di costruire in sanatoria, si tratta indubbiamente di un intervento soggetto al previo rilascio di tale titolo edilizio.
Trattasi, poi, di un intervento che ha certamente rilevanza paesaggistica, in quanto, per consistenza e caratteristiche, è ben percepibile e, dunque, ha incidenza sul valore paesistico tutelato, non trattandosi né di opera interna né d’intervento minimale.
L'esame della documentazione fotografica in atti e dei grafici progettuali depositati evidenzia tali caratteristiche.
2.2. Inoltre, la nozione di “superficie utile” che si può trarre dalla disciplina urbanistica non può essere traslata sic et simpliciter in ambito paesaggistico, dovendo, qui, tale nozione -in mancanza di una specifica definizione- essere intesa in senso ampio e finalistico, ovvero, non tanto in termini di aggravio del carico urbanistico, quanto piuttosto considerando l'impatto dell'intervento sull'originario assetto del territorio e quindi l’idoneità della creazione di superfici utili a determinare una compromissione ambientale.
Conseguentemente, il concetto di superficie utile in ambito paesaggistico non può essere riferito esclusivamente ad una costruzione-edificio ma a qualsiasi manufatto in grado di modificare stabilmente la vincolata conformazione originaria del territorio.
In tal senso la circolare del Segretario Generale del MiBAC n. 33 del 26.06.2009, che in merito all'applicazione dell'art. 167, comma 4, del Codice dei Beni Culturali, ed in particolare in merito alla definizione di superfici utili, prevede che: “per superfici utili, si intende qualsiasi superficie utile, qualunque sia la sua destinazione”.
2.3. Per cui è evidente che nel caso di specie, la realizzazione di una piastra di calcestruzzo di circa 400 mq. da destinare a campo sportivo, in luogo di un’area sterrata occupata da vegetazione e da piante d’ulivo, rientra pienamente in tale concetto di superficie utile, trattandosi d’intervento che incide in senso fisico ed estetico sul bene protetto.
2.4. In conclusione, il parere positivo della Sovrintendenza del 21.08.2008 e la successiva autorizzazione paesaggistica del 25.10.2012 risultano porsi in diretta violazione dell’art. 167, comma 4, D.Lgs. n. 42/2004 (come peraltro interpretato dalla suddetta circolare dello stesso MiBAC), sussistendo oggettivamente le condizioni ostative previste dalla norma per il conseguimento della sanatoria.
2.5. E’ evidente che in tal modo non viene sindacato il merito del giudizio tecnico-discrezionale espresso dalle competenti autorità paesaggistiche, venendo qui in questione degli atti dal contenuto vincolato, non potendo quest’ultime che esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di sanatoria in presenza di un’opera, come quella di specie, comportante creazione di superficie utile e dunque diversa da quelle sanabili ed indicate nell’art. 167 (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.11.2014 n. 1367 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAStabilisce l’art. 142, comma 4, lett. a), del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 che, in caso di realizzazione di interventi edilizi in mancanza della prescritta autorizzazione paesaggistica, l’autore dell’illecito può chiedere a posteriori, all’ente preposto alla tutela del vincolo, l’accertamento della compatibilità paesaggistica dell’intervento. L’esito positivo del procedimento determina l’estinzione dell’illecito.
La norma esclude però che l’accertamento postumo della compatibilità paesaggistica possa riguardare lavori che “…abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Nel caso concreto è stato accertato che i nuovi manufatti hanno determinato una aumento della superficie utile pari a 0,68 mq. La volumetria dei precedenti chioschi di metallo era invero pari a 16 mq., mentre la superficie di quelli nuovi è pari a 16,68 mq.
Questa circostanza è di per sé ostativa all’accertamento della compatibilità paesaggistica; pertanto, il Parco Regionale della Valle del Lambro non poteva far altro che respingere l’istanza presentata.

... per l'annullamento:
- del provvedimento del Comune datato 04.06.2013, prot. n. 64885, in forza del quale è stato negato alla ricorrente il permesso di costruire in sanatoria per la posa di due manufatti in legno in Via Vedano n. 5;
- dell’atto del Parco datato 15.03.2013, prot. n. 1343, recante provvedimento sanzionatorio a carico di S. di ripristino dello stato dei luoghi (con conseguente necessità di provvedere alla rimozione dei manufatti in legno), ai sensi dell’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004;
- dell’ordinanza del Direttore del Settore Edilizia del Comune datata 26.06.2013, prot. n. 74431, con la quale è stato ingiunto alla ricorrente D. di provvedere alla restituzione in pristino dello stato dei luoghi attraverso la rimozione dei manufatti in legno.
...
9. La ricorrente contesta questa argomentazione con il secondo motivo di ricorso.
10. Sostiene in particolare l’interessata -dopo aver premesso che l’intervento in questione andrebbe correttamente ascritto alla fattispecie di cui alla lett. a), comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004– che l’aumento della superficie utile, determinato dalle opere di nuova realizzazione, oltre ad essere estremamente contenuto, sarebbe irrilevante sotto il profilo paesaggistico, posto che la maggiore superficie creata corrisponde a quella occupata dai portici prospicienti i manufatti e che, con circolare n. 33 del 29.06.2009, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali avrebbe escluso la rilevanza ostativa all’accertamento della compatibilità paesaggistica dei portici, collegati a fabbricati, aperti su tre lati ed aventi una superficie non superiore al 25% di quella dei fabbricati stessi.
11. Sostiene ancora la parte che l’area in cui i manufatti sono inseriti (Autodromo Nazionale di Monza) sarebbe già fortemente compromessa sotto il profilo paesaggistico; sicché del tutto irragionevole sarebbe ritenere (come fa il Parco Regionale della Valle Lambro) che la realizzazione di due manufatti in legno di ridotte dimensioni (peraltro eretti in sostituzione di precedenti manufatti metallici) possa determinare ricadute negative per il paesaggio.
12. In proposito il Collegio osserva quanto segue.
13. Stabilisce l’art. 142, comma 4, lett. a), del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 che, in caso di realizzazione di interventi edilizi in mancanza della prescritta autorizzazione paesaggistica, l’autore dell’illecito può chiedere a posteriori, all’ente preposto alla tutela del vincolo, l’accertamento della compatibilità paesaggistica dell’intervento. L’esito positivo del procedimento determina l’estinzione dell’illecito.
14. La norma esclude però che l’accertamento postumo della compatibilità paesaggistica possa riguardare lavori che “…abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
15. Nel caso concreto è stato accertato che i nuovi manufatti hanno determinato una aumento della superficie utile pari a 0,68 mq. La volumetria dei precedenti chioschi di metallo era invero pari a 16 mq., mentre la superficie di quelli nuovi è pari a 16,68 mq.
16. Questa circostanza, come illustrato, è di per sé ostativa all’accertamento della compatibilità paesaggistica; pertanto, il Parco Regionale della Valle del Lambro non poteva far altro che respingere l’istanza presentata da S. s.p.a.
17. A contrario non può essere utilmente invocata la circolare del Ministero per i Beni e le Attività Culturali n. 33 del 29.06.2004.
18. Va invero osservato, a prescindere da ogni altra considerazione, che parte ricorrente non ha per nulla dimostrato che, nel caso concreto, la maggiore superficie utile sia stata creata da portici aventi superficie non superiore al 25% di quella dei fabbricati cui accedono. Anzi, dalla documentazione depositata in giudizio (cfr. doc. 5-bis del Comune di Monza), sembra evincersi che la superficie dei portici antistanti i fabbricati in legno realizzati dalla ricorrente superi ampiamente la predetta percentuale.
19. Ne consegue che va ribadita la correttezza del diniego di rilascio del provvedimento di accertamento di compatibilità paesaggistica richiesto; e che, quindi, risulta correttamente motivato il provvedimento con cui è stata respinta la domanda di rilascio di permesso di costruire in sanatoria, almeno nella parte in cui rileva l’insussistenza dell’indefettibile presupposto costituito dal suddetto accertamento (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.09.2014 n. 2344 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo pacifico orientamento giurisprudenziale da cui il Collegio non ha ragione di discostarsi, anzitutto la realizzazione di un volume interrato determina inevitabilmente una rilevante alterazione dello stato dei luoghi rilevante oltre che sotto il profilo paesaggistico anche sul piano urbanistico-edilizio, salvo che, per le sue caratteristiche non possa essere qualificato come un mero volume tecnico.
Tale incontestata e rilevante realizzazione abusiva, a prescindere dall’asserita sanabilità sotto il profilo strettamente edilizio, appare dirimente quanto all’infondatezza della pretesa alla sanatoria paesaggistica di cui all’art. 167 del D.lgs. 42/2004, essendo con ogni evidenza preclusa all’interessata ogni possibilità di ottenerla, qualora i lavori ai sensi del comma quarto “abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati", per cui la norma è tassativa nel senso che la conformità si possa ritenere solo a volume invariato.
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A
ppare del tutto irrilevante nel caso di specie il mancato coinvolgimento nel procedimento della locale Soprintendenza, pur indubbiamente richiesto dalla normativa statale e regionale di riferimento.
In primo luogo perché come detto la variazione del volume, nel caso di specie pari all’aumento del 200% rispetto a quanto realizzato con il permesso di costruire n. 46/2011, in quanto di per sé obiettivamente preclusiva dell'autorizzazione paesaggistica in sanatoria, rende del tutto superflua (ovvero manifestamente inammissibile), anche in ossequio al fondamentale principio di economicità e non aggravio del procedimento codificato dall’art. 1, c. 2, della legge 241/1990, la vera e propria valutazione di compatibilità paesaggistica di cui al successivo comma quinto, ovvero la richiesta del parere alla Soprintendenza.
Come poi condivisibilmente prospettato dalla difesa comunale, secondo una lettura complessiva dell’art. 167 del Codice del Paesaggio, il predetto parere obbligatorio e vincolante pare riferirsi al solo giudizio di compatibilità paesaggistica che secondo il comma quarto del citato art. 167 va effettuata soltanto nei tassativi casi ivi contemplati, non essendo invece necessaria nella fase preliminare volta alla verifica dei soli presupposti di ammissibilità, in cui l’autorità comunale accerta che l’abuso paesaggistico da sanare corrisponda ad uno degli interventi di cui al comma quarto.
In secondo luogo, poiché anche a voler sostenere una generalizzata necessità di coinvolgimento della Soprintendenza in ogni e qualsiasi fase del procedimento di sanatoria paesaggistica, appare evidente in chiave prognostica l’impossibilità di giungere ad un diverso esito dell’accertamento di conformità, secondo il principio di conservazione dell’attività amministrativa e di “strumentalità delle forme” codificato dall’art. 21-octies della legge 241/1990 essendo i vizi formali/procedimentali dedotti del tutto recessivi e comunque non in grado di condurre all’annullamento giurisdizionale.
L’impossibilità di conseguire l'autorizzazione paesaggistica in via postuma preclude poi la possibilità di ottenere anche la stessa sanatoria edilizia, presupponente l'avvenuto rilascio del titolo paesaggistico.

2. E’ materia del contendere la legittimità del diniego opposto dal Comune di Assisi sull’istanza della ricorrente finalizzata al rilascio della sanatoria paesaggistica (art. 167 D.lgs. 42/2004) ed edilizia (art. 17 L.R. 21/2004) inerente la realizzazione di opere in variazione essenziale al permesso di costruire n. 46 del 2011 su area agricola ed in ambito vincolato ai sensi del D.lgs. 42/2004.
L’impugnato diniego si fonda su motivazione plurima, ovvero in sintesi sia dal punto di vista paesaggistico per la riscontrata realizzazione di incremento di superficie pari ad oltre il 200 % di quanto autorizzato, di per sé ostativa alla sanabilità ai sensi dell’art. 167, c. 4, del D.lgs. 167/2004, oltre che per il diverso posizionamento del fabbricato rispetto a quanto prescritto, sia sotto il profilo edilizio per l’accertato contrasto con il presupposto Piano di recupero.
3. Il ricorso è infondato e va respinto.
3.1. Va anzitutto evidenziato come la ricorrente ha realizzato una maggior superficie del piano interrato di mq. 188 rispetto ai mq. 58 approvati con il permesso a costruire n. 46/2011, rilasciato in base al presupposto Piano di Recupero approvato con determinazione 2424/2009 presentato ai sensi dell’art. 35, c. 8, della L.R.11/2005.
Sostiene parte ricorrente, in particolare, che il contestato incremento di superficie sarebbe irrilevante in quanto realizzato nel piano interrato e comunque per la disponibilità manifestata sia nella prima che nella seconda domanda di accertamento di conformità alla sua eliminazione successiva, ritenendo abusi formali suscettibili di sanatoria “anche gli interventi presupponenti un’attività di trasformazione da parte del soggetto interessato preordinato alla riconduzione dell’esistente entro i confini dell’assentito o dell’assentibile”.
3.2. Ritiene il Collegio di non poter condividere tali argomentazioni.
3.3. Secondo pacifico orientamento giurisprudenziale da cui il Collegio non ha ragione di discostarsi, anzitutto la realizzazione di un volume interrato determina inevitabilmente una rilevante alterazione dello stato dei luoghi rilevante oltre che sotto il profilo paesaggistico (ex multis Consiglio di Stato sez. VI, 02.09.2013, n. 4348; id. sez. VI, 06.08.2013, n.4114; id. sez. VI, 05.08.2013, n. 4079; id. sez. VI, 11.09.2013, n. 4503; TAR Campania-Napoli sez. IV, 29.05.2012, n. 2529; TAR Campania-Salerno sez. I, 11.10.2011, n. 1642) anche sul piano urbanistico-edilizio, salvo che, per le sue caratteristiche -non ricorrenti nel caso di specie- non possa essere qualificato come un mero volume tecnico (ex multis TAR Campania Napoli, sez. III, 08.07.2013, n. 3540; TAR Lazio-Roma, sez. I, 30.08.2012 n. 7396; TAR Emilia Romagna, sez. I, 29.06.2012 n. 463).
Tale incontestata e rilevante realizzazione abusiva, a prescindere dall’asserita sanabilità sotto il profilo strettamente edilizio, appare dirimente quanto all’infondatezza della pretesa alla sanatoria paesaggistica di cui all’art. 167 del D.lgs. 42/2004, essendo con ogni evidenza preclusa all’interessata ogni possibilità di ottenerla, qualora i lavori ai sensi del comma quarto “abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati", per cui la norma è tassativa nel senso che la conformità si possa ritenere solo a volume invariato (ex multis Consiglio di Stato sez. VI, 20.06.2013, n. 3373; TAR Lombardia-Brescia sez. I, 11.04.2013, n. 350; TAR Sicilia-Palermo sez. I, 10.04.2013, n. 802; TAR Toscana sez. III, 16.05.2012, n. 953; TAR Liguria sez. I, 29.05.2013, n. 849).
3.4. Ciò premesso, appare del tutto irrilevante nel caso di specie il mancato coinvolgimento nel procedimento della locale Soprintendenza, pur indubbiamente richiesto dalla normativa statale e regionale di riferimento (vedi la stessa TAR Umbria 11.06.2012, n. 221 citata da entrambe le parti).
In primo luogo perché come detto la variazione del volume, nel caso di specie pari all’aumento del 200% rispetto a quanto realizzato con il permesso di costruire n. 46/2011, in quanto di per sé obiettivamente preclusiva dell'autorizzazione paesaggistica in sanatoria, rende del tutto superflua (ovvero manifestamente inammissibile), anche in ossequio al fondamentale principio di economicità e non aggravio del procedimento codificato dall’art. 1, c. 2, della legge 241/1990, la vera e propria valutazione di compatibilità paesaggistica di cui al successivo comma quinto, ovvero la richiesta del parere alla Soprintendenza (TAR Lombardia Milano 11.01.2013, n. 84).
Come poi condivisibilmente prospettato dalla difesa comunale, secondo una lettura complessiva dell’art. 167 del Codice del Paesaggio, il predetto parere obbligatorio e vincolante pare riferirsi al solo giudizio di compatibilità paesaggistica che secondo il comma quarto del citato art. 167 va effettuata soltanto nei tassativi casi ivi contemplati, non essendo invece necessaria nella fase preliminare volta alla verifica dei soli presupposti di ammissibilità, in cui l’autorità comunale accerta che l’abuso paesaggistico da sanare corrisponda ad uno degli interventi di cui al comma quarto.
In secondo luogo, poiché anche a voler sostenere una generalizzata necessità di coinvolgimento della Soprintendenza in ogni e qualsiasi fase del procedimento di sanatoria paesaggistica, appare evidente in chiave prognostica l’impossibilità di giungere ad un diverso esito dell’accertamento di conformità, secondo il principio di conservazione dell’attività amministrativa e di “strumentalità delle forme” codificato dall’art. 21-octies della legge 241/1990 (Consiglio di Stato sez. VI, 08.05.2012, n. 2657) essendo i vizi formali/procedimentali dedotti del tutto recessivi e comunque non in grado di condurre all’annullamento giurisdizionale.
L’impossibilità di conseguire l'autorizzazione paesaggistica in via postuma preclude poi la possibilità di ottenere anche la stessa sanatoria edilizia, presupponente l'avvenuto rilascio del titolo paesaggistico (ex plurimis TAR Sicilia-Palermo sez. I, 10.04.2013, n. 802) come del resto inequivocabilmente prevede lo stesso art. 17 della legge regionale 21/2004 (TAR Umbria, sentenza 26.06.2014 n. 356 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUn’imponente opera di sbancamento senza preventiva autorizzazione paesaggistica non può essere soggetta a successivo accertamento di compatibilità (ex art. 167 dlgs 42/20204).
L’opera abusivamente realizzata consiste nella realizzazione di un terrazzamento con ricavo di zona pianeggiante esteso circa 3000 mq (60m x 50m). L’attività di sbancamento eseguita con mezzi meccanici ha quindi portato alla creazione di una superficie di circa 3000 mq da destinare, per l’appunto, all’attività di addestramento di cavalli.
Ai sensi dell’art. 167, comma 4, richiamato: “L’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica secondo le procedure di cui al comma 5 nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o in difformità dall’autorizzazione paesaggistica che non abbiano determinato creazione di superfici utili, o volumi ovvero aumento di quelli autorizzati; b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380”.
Si tratta di ipotesi eccezionali alla regola del rilascio preventivo della autorizzazione paesaggistica sancita dall’art. 146, comma 4 secondo cui la predetta autorizzazione “non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”.
Rileva nel caso di specie, in particolare, la lettera a) dell’art. 167, comma 4, in forza della quale va escluso che l’intervento in contestazione possa ritenersi soggetto al regime dell’accertamento di compatibilità paesaggistica proprio in quanto lavoro realizzato in assenza di autorizzazione paesaggistica che ha determinato la creazione di superfici utili.
A tal proposito merita di essere condivisa l’interpretazione della locuzione “superfici utili” prospettata dal MIBAC con circolare prot. 6074 del 26.06.2009 secondo cui è tale “qualsiasi superficie utile qualunque sia la sua destinazione” in quanto, dovendo le eccezioni essere interpretate in senso restrittivo, la nozione di superficie utile la cui creazione determina l’esclusione dal procedimento derogatorio, deve essere interpretata in senso ampio, non limitata in particolare all’attività edilizia in senso stretto (e cioè in termini costruttivi come invece assume il Comune) ed agli spazi chiusi (cfr. nota MIBAC prot. DGPBAAC/34.01.04/19510 del 13.06.2011).
Non può neppure condividersi la prospettazione della difesa del Comune intimato secondo cui quelli realizzati non sarebbero “lavori” ai fini di cui all’art. 167, comma 4, lett. a).
La dizione normativa infatti non può essere limitata agli interventi su “fabbricati legittimamente esistenti” ma deve essere estesa, come suggerisce la richiamata circolare ministeriale, anche agli interventi strettamente connessi all’utilizzo di altri immobili ed “aree che non comportino modificazioni delle caratteristiche peculiari del paesaggio” e quindi anche alle aree a destinazione agricola.
Del resto è condivisibile quanto rileva la difesa del Comune nel senso che la materia paesaggistica richiede una definizione del concetto di “superficie utile” da valutare nell’ottica di uno specifico riferimento alla compromissione ambientale, secondo un paradigma di carattere sostanziale.
Ed infatti è proprio con riferimento alla tutela della forma del territorio, in quanto bellezza naturale sostanziata da valori identitari, come tali culturalmente rilevanti, che l’intervento in contestazione merita severa censura. Non si tratta invero di mera risistemazione del terreno ma di uno sbancamento di rilevanti dimensioni che ha alterato il naturale pendio di una collina, frontistante il massiccio del Matese, comportando una significativa alterazione dei luoghi e della visuale panoramica che si gode dai siti limitrofi, anche insistenti su terreni nella disponibilità dei ricorrenti. Non pare dunque revocabile in dubbio che proprio in relazione alla tutela dell’interesse paesaggistico, la conseguente creazione di superficie utile allo svolgimento di attività antropiche debba essere ascritta al paradigma normativo di cui all’art. 167, comma 4, lett. a), al fine di sanzionarlo con l’obbligo di ripristino integrale.
In conclusione, avendo il P. realizzato con l’intervento di sbancamento una superficie utile di ben 3000 mq., non può chiedere il rilascio della autorizzazione paesaggistica in sanatoria bensì, in applicazione dell’art. 167, comma 1, dovrà necessariamente procedere alla integrale rimessione in pristino.

... per l'annullamento:
- del parere vincolante della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici del Molise del 14.07.2010 7032 Cl. 34.19.10/7.2 reso ai fini dell'accertamento di compatibilità paesaggistica, ai sensi dell'art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004;
- dell'accertamento di compatibilità paesaggistica di cui al 5° comma dell'art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 e s.m.i. reso dalla Regione Molise Direzione Generale IV Servizio Beni Ambientali, con provvedimento prot. 7864/M del 02.08.2010;
- della relazione istruttoria del Comune di Bojano n. 59 per la proposta di autorizzazione paesaggistica del 16.09.2010;
- della nota del Comune di Bojano datata 09.08.2010 prot. 13294 del 10.08.2010;
...
Nel merito le censure mosse dai ricorrenti con l’atto introduttivo del giudizio meritano di essere condivise e possono essere globalmente esaminate in quanto strettamente connesse ed incentrate sulla violazione dell’art. 167, commi 1, 4 e 5 ,del d.lgs. 42/2004.
E’ pacifico che l’area in questione è gravata da vincolo paesaggistico, come pure che il Signor P. ha realizzato un’imponente opera di sbancamento senza preventiva autorizzazione edilizia e paesaggistica, tant’è che dapprima presentava una DIA in sanatoria, successivamente istanza di rilascio di un permesso di costruire in sanatoria, in ciò recependo specifica indicazione del Comune di Bojano (cfr. nota prot. 10436 del 22.06.2010 sub doc. 6 in fascicolo ricorrenti).
E’ invece controversa l’ammissibilità nel caso di specie del ricorso al procedimento di accertamento della compatibilità paesaggistica previsto dall’art. 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42/2004 e la natura del parere a tal fine rilasciato dal Soprintendente, se cioè recante ordine di ripristino ai sensi del comma 1 o piuttosto parere favorevole sull’istanza di compatibilità paesaggistica ai sensi del comma 5 dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 o ancora se trattasi di parere rilasciato al fine di autorizzare ex art. 146 i lavori di ripristino.
Quanto al primo punto reputa il collegio che si tratti di opere non ricomprese nel campo di applicazione dell’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004.
Deve precisarsi in fatto che l’opera abusivamente realizzata dal P. consiste nella realizzazione di un terrazzamento con ricavo di zona pianeggiante esteso circa 3000 mq (60m x 50m) (cfr. informativa di reato in atti e DIA in sanatoria sub doc. 5, 6). L’attività di sbancamento eseguita con mezzi meccanici ha quindi portato alla creazione di una superficie di circa 3000 mq da destinare, per l’appunto, all’attività di addestramento di cavalli.
Ai sensi dell’art. 167, comma 4, richiamato: “L’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica secondo le procedure di cui al comma 5 nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o in difformità dall’autorizzazione paesaggistica che non abbiano determinato creazione di superfici utili, o volumi ovvero aumento di quelli autorizzati; b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica; c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380”.
Si tratta di ipotesi eccezionali alla regola del rilascio preventivo della autorizzazione paesaggistica sancita dall’art. 146, comma 4 secondo cui la predetta autorizzazione “non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”.
Rileva nel caso di specie, in particolare, la lettera a) dell’art. 167, comma 4, in forza della quale va escluso che l’intervento in contestazione possa ritenersi soggetto al regime dell’accertamento di compatibilità paesaggistica proprio in quanto lavoro realizzato in assenza di autorizzazione paesaggistica che ha determinato la creazione di superfici utili.
A tal proposito merita di essere condivisa l’interpretazione della locuzione “superfici utili” prospettata dal MIBAC con circolare prot. 6074 del 26.06.2009 secondo cui è tale “qualsiasi superficie utile qualunque sia la sua destinazione” in quanto, dovendo le eccezioni essere interpretate in senso restrittivo, la nozione di superficie utile la cui creazione determina l’esclusione dal procedimento derogatorio, deve essere interpretata in senso ampio, non limitata in particolare all’attività edilizia in senso stretto (e cioè in termini costruttivi come invece assume il Comune di Bojano) ed agli spazi chiusi (cfr. nota MIBAC prot. DGPBAAC/34.01.04/19510 del 13.06.2011).
Non può neppure condividersi la prospettazione della difesa del Comune intimato secondo cui quelli realizzati non sarebbero “lavori” ai fini di cui all’art. 167, comma 4, lett. a). La dizione normativa infatti non può essere limitata agli interventi su “fabbricati legittimamente esistenti” ma deve essere estesa, come suggerisce la richiamata circolare ministeriale, anche agli interventi strettamente connessi all’utilizzo di altri immobili ed “aree che non comportino modificazioni delle caratteristiche peculiari del paesaggio” e quindi anche alle aree a destinazione agricola.
Del resto è condivisibile quanto rileva la difesa del Comune di Bojano nel senso che la materia paesaggistica richiede una definizione del concetto di “superficie utile” da valutare nell’ottica di uno specifico riferimento alla compromissione ambientale, secondo un paradigma di carattere sostanziale.
Ed infatti è proprio con riferimento alla tutela della forma del territorio, in quanto bellezza naturale sostanziata da valori identitari, come tali culturalmente rilevanti, che l’intervento in contestazione merita severa censura. Non si tratta invero di mera risistemazione del terreno ma di uno sbancamento di rilevanti dimensioni che ha alterato il naturale pendio di una collina, frontistante il massiccio del Matese, comportando una significativa alterazione dei luoghi e della visuale panoramica che si gode dai siti limitrofi, anche insistenti su terreni nella disponibilità dei ricorrenti. Non pare dunque revocabile in dubbio che proprio in relazione alla tutela dell’interesse paesaggistico, la conseguente creazione di superficie utile allo svolgimento di attività antropiche debba essere ascritta al paradigma normativo di cui all’art. 167, comma 4, lett. a), al fine di sanzionarlo con l’obbligo di ripristino integrale.
In conclusione, avendo il P. realizzato con l’intervento di sbancamento una superficie utile di ben 3000 mq., non può chiedere il rilascio della autorizzazione paesaggistica in sanatoria bensì, in applicazione dell’art. 167, comma 1, dovrà necessariamente procedere alla integrale rimessione in pristino.
In tal senso si era per l’appunto determinato lo stesso Soprintendente che, investito dell’istanza in sanatoria ai sensi dell’art. 37 del DPR 380/2001, aveva reso parere negativo ex art. 27 ritenendo necessario procedere preventivamente alla “rimessione in pristino del profilo altimetrico ante operam ai sensi dell’art. 167, comma 1, del D.lgs. 42/2004”.
Sennonché con successivo parere n. 7032 del 14.07.2010 il medesimo Soprintendente, chiamato a pronunciarsi sulla compatibilità paesaggistica dell’intervento nell’ambito del distinto procedimento di rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 del DPR 380/2001, ha ritenuto di esprimere parere favorevole in merito agli interventi descritti in progetto ai fini del ripristino paesaggistico dei luoghi.
Siffatto provvedimento, contestato dai ricorrenti, è illegittimo.
Innanzitutto in quanto si pone in palese contrasto con il precedente parere negativo espresso nell’ambito della richiesta di DIA in sanatoria, senza che vengano esplicitate le ragioni di tale diversa valutazione dell’intervento.
In secondo luogo per il carattere perplesso della motivazione che oscilla tra il ripristino formale e la prescrizione di misure sostanzialmente conservative.
In terzo luogo perché l’intervento in questione per le sue caratteristiche (sbancamento con realizzazione di superficie utile) giammai avrebbe potuto essere oggetto di valutazione di compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167, comma 5, non essendo riconducibile ad alcuna delle ipotesi derogatorie di cui al precedente comma 4.
Né vale opporre che, in realtà, il parere in contestazione dovrebbe essere sostanzialmente interpretato alla stregua di un ordine di ripristino dello status quo ante o di un assenso ex art. 146 ai lavori di risistemazione da eseguire allo scopo di operare un ripristino adeguato, come opinano, con diverse sfumature, la difesa erariale e quella del Comune di Bojano.
Che l’intendimento del Soprintendente fosse quello di fare applicazione del comma 5, anziché del comma 1 dell’art. 167 o ancora dell’art. 146, è innanzitutto confermato dall’ultimo punto della motivazione in cui “Si raccomanda l’applicazione della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 167 del D.Lgs. 22.01.2004 e s.m.i.” che è prescrizione concernente la sola ipotesi del positivo accertamento di compatibilità paesaggistica.
La stessa Regione Molise nell’adottare l’autorizzazione si è pronunciata ai sensi dell’art. 167, comma 5, comunicando al contempo l’entità della sanzione pecuniaria applicata.
Inoltre nel corpo della motivazione, a differenza del precedente parere n. 976 del 03.02.2010, anziché prevedere la “rimessione in pristino del profilo altimetrico ante operam ai sensi dell’art. 167, c. 1, del D.Lgs. 42/2004…” la Soprintendenza “ritiene di poter valutare ammissibili gli interventi descritti in progetto ai fini del ripristino paesaggistico dei luoghi”, interventi che, costituendo oggetto della richiesta di un permesso di costruire in sanatoria (come precisato nell’oggetto del parere reso), non potevano che essere finalizzati a consolidare lo status quo piuttosto che a ripristinare lo status quo ante.
Le stesse prescrizioni impartite hanno finalità conservativa e di mitigazione dello stato dei luoghi illegittimamente immutato e non contenuto ripristinatorio, come confermato nella motivazione, in cui si legge “Si prescrive al fine di ripristinare al meglio la zona maggiormente manomessa e cioè lo sbancamento a confine con la stradina comunale e con la part. 252 di riportare in questo punto una congrua quantità di terreno fino al punto in cui è prevista la collocazione dei massi così come appare nella simulazione degli elaborati integrativi. Il riporto del terreno dovrà continuare poi dai massi fino al delimitare del lotto lungo il profilo della strada. Ugualmente dai massi verso il confine della part. 252 per tutta la lunghezza dello sbancamento effettuato. Il terreno, opportunamente sagomato, dovrà essere successivamente rinaturalizzato con manto erboso e arbusti autoctoni”.
Si tratta di prescrizioni volte a “mitigare e rimodellare il terreno”, come reiteratamente precisa il Comune di Bojano, soprattutto in corrispondenza “dei tagli e della scarpate” (cfr. parere negativo della soprintendenza n. 976 del 03.02.2010) che però si pongono in contrasto con l’art. 167, comma 1, che impone l’obbligo del ripristino dei luoghi tout court, con conseguente necessità di assicurare l’integrale riempimento dell’area ricavata dall’attività di escavazione, nonché il ripristino della morfologia del terreno e del profilo altimetrico ante operam, come affermato a chiare lettere nell’originario parere negativo della Soprintendenza.
Né vale invocare nel caso di specie l’applicabilità analogica della sanatoria giurisprudenziale prevista in materia edilizia come eccepisce la difesa del Comune di Bojano e del controinteressato in quanto, non solo non ricorre l’idem ratio, stante il diverso rango degli interessi in gioco (edilizio e paesaggistico, quest’ultimo tutelato al massimo livello dei valori costituzionali) ma soprattutto perché non v’è lacuna normativa, disponendo l’art. 146, comma 4, l’ammissibilità della autorizzazione in sanatoria solo nelle ipotesi tassativamente previste dall’art. 167, commi 4 e 5 del d.lgs. n. 42/2004.
Il parere della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici deve pertanto essere annullato in quanto ha favorevolmente assentito un intervento che, non essendo ricompreso nelle ipotesi di cui all’art. 167, comma 4, doveva essere oggetto di un ordine di rimessione in pristino a spese dell’autore della violazione, pena l’esecuzione d’ufficio, ai sensi e per gli effetti dei commi 1 e 2 del richiamato articolo.
Dall’accertata illegittimità del parere soprintendentizio discende, per invalidità derivata, la illegittimità del provvedimento regionale di accertamento della compatibilità paesaggistica prot. n. 7864/M nonché quella del permesso di costruire in sanatoria n. 10/2011 relativo alle opere di terrazzamento, unitamente ai pareri istruttori del 07.02.2011, che su tali atti presupposti si fondano.
Del pari illegittima per invalidità derivata risulta anche tutta la sequenza procedimentale che ha portato alla adozione del distinto permesso di costruire n. 8/2011 relativo alla “costruzione di un fabbricato ad uso stalla –denominato A– sistemazione area esterna e recinzione”.
Il Soprintendente, chiamato questa volta a pronunciarsi ai sensi dell’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, nell’ambito del procedimento di rilascio del permesso di costruire, ha ritenuto di stralciare dal parere favorevole reso con nota prot. 11773 del 28.10.2010 quella parte di interventi insistenti sull’area oggetto di illegittima trasformazione, in attesa della loro riconformazione secondo le prescrizioni già impartite; si legge infatti in tale parere che “E’ escluso dal presente parere qualsiasi intervento sul “piazzale” già oggetto di sanatoria. Eventuali interventi potranno essere valutati allorché si sarà provveduto a dimostrare l’avvenuta riconfigurazione del sito preesistente gli abusi secondo le prescrizioni di questa Soprintendenza di cui al nota prot. n. 7032 del 14.07.2010”.
Ed infatti nella parte motiva il Soprintendente esamina analiticamente la compatibilità paesaggistica dei due fabbricati di cui alla richiesta del permesso di costruire (fabbricato ad uso stalla ed alloggio custode) ma non anche la sistemazione dell’area esterna e la recinzione.
Sennonché il Comune di Bojano, in sede istruttoria (pareri del 18.02.2011) e, successivamente, di rilascio del permesso di costruire n. 8/2011, ha omesso di stralciare gli interventi su cui il Soprintendente si era espresso in termini interlocutori ed ha ritenuto di autorizzare l’intero progetto, comprensivo delle opere da realizzare sull’area da ripristinare, incorrendo in tal modo in una palese illegittimità.
Per la medesima ragione anche l’autorizzazione paesaggistica n. 56/2010 deve ritenersi illegittima perché nell’autorizzare “…i lavori riportati nei grafici ed elaborati allegati alla richiesta sopra descritta” rinvia agli elaborati progettuali presentati dal P. in data 18.01.2010 prot. 736 che si riferiscono espressamente anche alla “sistemazione area esterna e recinzione”, opere stralciate, come detto, dal Soprintendente.
A conferma di quanto precede deve ancora osservarsi che tra le prescrizioni impartite con la predetta autorizzazione paesaggistica si legge che devono essere rispettate le prescrizioni impartite dalla Soprintendenza con nota del 14.07.2010 prot. n. 7032 “attraverso il ripristino al meglio della zona maggiormente manomessa”: così facendo però, da un lato, autorizza lavori su cui il Soprintendente, nell’ambito di un distinto ed autonomo procedimento, non si è motivatamente pronunciato in sede di rilascio del parere obbligatorio, dall’altro lo fa recependo le prescrizioni di un diverso parere che per i motivi detti deve essere ritenuto illegittimo.
Il permesso di costruire n. 8/2011 è l’autorizzazione paesaggistica n. 56/2010 sono anche illegittimi in quanto, come dedotto dal ricorrente, nella descrizione dell’area esterna da sistemare (cfr. p. 5 della relazione tecnica illustrativa allegata alla richiesta di permesso di costruire prot. 736 del 18.01.2010 sub doc. 4 in fascicolo ricorrenti) non si fa riferimento allo stato dei luoghi come mutati in seguito allo sbancamento ma anzi si indicano tra i lavori da eseguire proprio quelli oggetto dello sbancamento abusivo sicché, nell’autorizzare lavori in realtà già abusivamente realizzati, i due organi sono incorsi in eccesso di potere per illogicità e difetto di istruttoria.
Stante il carattere dirimente dei motivi di censura esaminati, può farsi luogo all’assorbimento delle restanti doglianze, mentre la domanda risarcitoria deve essere respinta non avendo i ricorrenti allegato alcun profilo di danno causalmente riconducibile alla condotta illecita degli enti intimati.
In accoglimento del ricorso e dei motivi aggiunti i provvedimenti impugnati devono pertanto essere annullati, ad eccezione del parere reso dal Soprintendente con nota 11773 del 28.10.2010 con cui è stata accertata la compatibilità paesaggistica del fabbricato destinato a stalla e di quello destinato a alloggio custode, stralciando ogni intervento da eseguirsi sull’area interessata dai lavori di sbancamento abusivi (TAR Molise, sentenza 19.12.2012 n. 761 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

Ed altre sentenze in materia di compatibilità paesaggistica circa i cosiddetti "volumi tecnici"...

EDILIZIA PRIVATAL’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 prevede che possa essere rilasciata la compatibilità paesaggistica per “lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Nel caso di specie l’intervento abusivo ha evidentemente portata rilevante sul piano edilizio-urbanistico e ha dato luogo sia ad aumento di superfici che di volumi: su questo punto fa piena fede l’accertamento comunale, redatto da pubblico ufficiale, secondo cui l’attività edilizia ha dato luogo in assenza di autorizzazione ad “ampliamento dell’unità abitativa al primo piano di circa 10 mq e altezza m. 3 in loco della preesistente tettoia” e ad “un aumento volumetrico” del locale w.c. Un intervento di tal genere non può pertanto essere ricondotto nella categoria della manutenzione, la quale presuppone la conservazione delle caratteristiche planivolumetriche del fabbricato.
Non può poi essere condiviso il tentativo di parcellizzare la valutazione delle singole opere realizzate in modo da svalutarne la portata e l’impatto urbanistico, scorporando alcun interventi accessori; secondo infatti l’orientamento prevalente di questo Tribunale, da cui il Collegio non intende discostarsi, l'amministrazione, nel vagliare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, deve effettuare una valutazione globale delle stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione; nel caso dunque in cui un'opera consista, come nel caso di specie, in un ampliamento edilizio, essa non è scomponibile in distinte fasi ma va valutata nella sua unitarietà.
Non ha poi rilevanza l’asserita natura tecnica del volume oggetto di ampliamento (il vano w.c.): per orientamento consolidato, da cui non vi è ragione di discostarsi, il divieto di nuove costruzioni, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude in ogni caso qualsiasi nuova edificazione che comporti comunque la creazione o l’ampliamento di edifici, senza che sia possibile distinguere tra volumi tecnici o residenziali; tale interpretazione, orientata dal rispetto dell'art. 9 Cost. che introduce la tutela del paesaggio tra le disposizioni fondamentali, valorizza il bene ambientale come bene primario ed assoluto.
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Infine nessun difetto è ravvisabile nella motivazione del parere che non deve giustificare alcuna scelta discrezionale: il contenuto negativo è infatti esito necessitato alla luce del divieto esplicito di sanabilità postuma previsto dall’art. 167 D.lgs n. 42/2004 per interventi della tipologia in esame.

... per l'annullamento del parere negativo reso dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici sulla richiesta del ricorrente di conseguire il parere di compatibilità paesaggistica del duplice intervento edilizio realizzato alla via ... n. 98 di Vico Equense – nota prot. n. 13955/2009.
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1.- Il sig. S. è proprietario di un fabbricato ad uso residenziale posto in Vico Equense, via ... 98 (censito al catasto: Fg. 3, p.lla 4 sub. 1-2-3, p.lla 44, sub. 102, p.lla 45 sub. 102 e p.lla 46 sub. 102) in area vincolata sul piano paesaggistico.
Il ricorrente ha realizzato presso l’immobile dei lavori edilizi rappresentati -secondo quanto risulta dall’accertamento comunale prot. 25219 del 22.09.2006 riportato nell’ordinanza comunale nr. 527/2006 in atti- dall’ampliamento dell’unità abitativa al primo piano in luogo della preesistente tettoia, dall’innalzamento del preesistente locale wc con conseguente aumento volumetrico e dalla creazione di un soppalco al primo piano. Tali lavori sono stati compiuti in assenza di autorizzazione e ambientale.
Il Comune di Vico Equense ha dunque ordinato la demolizione delle opere abusive e il ripristino dello stato originario con ordinanza n. 527 del 15.11.2006.
A fronte di tale ordinanza il sig. S. ha richiesto l’accertamento della conformità urbanistica e della compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio.
Con la nota impugnata n. 13995 del 29.07.2009 la Soprintendenza ha espresso parere negativo in merito alla compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 “poiché le opere abusive hanno comportato opere di ristrutturazione edilizia con incremento di volumi esistenti”.
...
L’art. 167 D.lgs. n. 42/2004 prevede che possa essere rilasciata la compatibilità paesaggistica per “lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Nel caso di specie l’intervento abusivo ha evidentemente portata rilevante sul piano edilizio-urbanistico e ha dato luogo sia ad aumento di superfici che di volumi: su questo punto fa piena fede l’accertamento comunale, redatto da pubblico ufficiale, secondo cui l’attività edilizia ha dato luogo in assenza di autorizzazione ad “ampliamento dell’unità abitativa al primo piano di circa 10 mq e altezza m. 3 in loco della preesistente tettoia” e ad “un aumento volumetrico” del locale w.c. Un intervento di tal genere non può pertanto essere ricondotto nella categoria della manutenzione, la quale presuppone la conservazione delle caratteristiche planivolumetriche del fabbricato.
Non può poi essere condiviso il tentativo di parcellizzare la valutazione delle singole opere realizzate in modo da svalutarne la portata e l’impatto urbanistico, scorporando alcun interventi accessori; secondo infatti l’orientamento prevalente di questo Tribunale, da cui il Collegio non intende discostarsi, l'amministrazione, nel vagliare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, deve effettuare una valutazione globale delle stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione; nel caso dunque in cui un'opera consista, come nel caso di specie, in un ampliamento edilizio, essa non è scomponibile in distinte fasi ma va valutata nella sua unitarietà.
Non ha poi rilevanza l’asserita natura tecnica del volume oggetto di ampliamento (il vano w.c.): per orientamento consolidato, da cui non vi è ragione di discostarsi, il divieto di nuove costruzioni, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude in ogni caso qualsiasi nuova edificazione che comporti comunque la creazione o l’ampliamento di edifici, senza che sia possibile distinguere tra volumi tecnici o residenziali; tale interpretazione, orientata dal rispetto dell'art. 9 Cost. che introduce la tutela del paesaggio tra le disposizioni fondamentali, valorizza il bene ambientale come bene primario ed assoluto (cfr. da ultimo Cons. Stato 2222/2014, Cons. Stato 4257/2013).
Infine nessun difetto è ravvisabile nella motivazione del parere che non deve giustificare alcuna scelta discrezionale: il contenuto negativo è infatti esito necessitato alla luce del divieto esplicito di sanabilità postuma previsto dall’art. 167 D.lgs n. 42/2004 per interventi della tipologia in esame.
In conclusione, stante l’infondatezza delle censure, il ricorso è respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 05.12.2014 n. 6384 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La previsione dell'art. 167 del DLgs 42/2004 in un'ottica di apicale protezione dei valori paesaggistici esclude dalla compatibilità paesaggistica interventi realizzati che abbiano comportato "creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati".
Nel caso di specie, ad avviso del Tribunale, non è dubitabile che la piscina costituisca, al pari dei locali di pertinenza, un aumento volumetrico e pertanto si ponga fuori dalla previsione invocata.
Basta qui richiamare il seguente principio di portata generale in materia: "...la Sezione richiama e ribadisce in questa sede la propria consolidata giurisprudenza, per la quale -come si desume dall'articolo 167, comma 4, del medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica quando l'abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza paesaggistica per le opere da realizzare".
Come dunque già enunciato da questo Tribunale tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede.
Quanto alla pavimentazione del vialetto, si deve ritenere che non possa essere valutata isolatamente ma considerata insieme alla piscina quale intervento non ammesso ai sensi delle disposizioni citate.
L’opera in oggetto in quanto facente parte di un insieme di opere non compatibili sul piano paesaggistico resta dunque esclusa dalla possibilità di sanatoria; per giurisprudenza consolidata infatti nel giudicare su di un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere deve necessariamente effettuarsi una valutazione globale delle stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione; di conseguenza, in presenza di un abuso di notevoli dimensioni, composto da diverse opere l'una funzionale all'altra, si è in realtà in presenza di un'unica attività di trasformazione urbanistica.
Il provvedimento negativo dunque risulta compiutamente motivato con il riferimento alla disposizione dell’art. 167 DLgs 42/2004 che esclude le opere in oggetto dal novero di quello sanabili.

... per l'annullamento:
- della nota della Soprintendenza n. 4308/2011 del 28.01.2011 limitatamente alla parte in cui si esprime parere di non compatibilità alla richiesta di concessione edilizia per la piscina, la pavimentazione dell’area circostante e i locali pertinenziali;
- del provvedimento prot. 30291/13275 del 07.11.2011 del Comune di Massa Lubrense nella parte in cui fa proprie le determinazioni negative della Soprintendenza.
...
1.- La ricorrente ha presentato istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 D.lgs. 42/2004 per opere realizzate presso un immobile posto nel Comune di Massa Lubrense, via ... 10.
La Soprintendenza con la nota impugnata ha reso un parere positivo eccetto che per una piscina, i locali pertinenziali e la metà del viale pavimentato di accesso alla proprietà.
Il parere, per la parte sfavorevole, viene motivato sulla base del fatto che i lavori “hanno portato diminuzione di area verde in una zona di alto valore paesaggistico e la costruzione della piscina non può essere definita e sanata come manutenzione straordinaria ai sensi del DPR n. 380 del 2001”.
Con nota del 07.06.2011 il Comune di Massa Lubrense ha fatto proprio il parere ai fini della determinazione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 167 D.lgs. 42/2004.
...
3.- Il Tribunale giudica il ricorso infondato.
La previsione dell'art. 167 del DLgs 42/2004 in un'ottica di apicale protezione dei valori paesaggistici esclude dalla compatibilità paesaggistica interventi realizzati che abbiano comportato "creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati".
Nel caso di specie, ad avviso del Tribunale, non è dubitabile che la piscina costituisca, al pari dei locali di pertinenza, un aumento volumetrico e pertanto si ponga fuori dalla previsione invocata.
Basta qui richiamare il seguente principio di portata generale in materia (CdS sez. VI - sent. nr. 4503 dell'11.09.2013): "...la Sezione richiama e ribadisce in questa sede la propria consolidata giurisprudenza, per la quale -come si desume dall'articolo 167, comma 4, del medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica quando l'abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza paesaggistica per le opere da realizzare".
Come dunque già enunciato da questo Tribunale (Tar Campania/Napoli - sez. VII - n. 2088/2009, n. 1/2014) tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno, e fra di essi deve intendersi ricompresa anche la piscina, in quanto non qualificabile come pertinenza in senso urbanistico in ragione della funzione autonoma che è in grado di svolgere rispetto a quella propria dell'edificio al quale accede.
Quanto alla pavimentazione del vialetto, si deve ritenere che non possa essere valutata isolatamente ma considerata insieme alla piscina quale intervento non ammesso ai sensi delle disposizioni citate.
L’opera in oggetto in quanto facente parte di un insieme di opere non compatibili sul piano paesaggistico resta dunque esclusa dalla possibilità di sanatoria; per giurisprudenza consolidata infatti nel giudicare su di un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere deve necessariamente effettuarsi una valutazione globale delle stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione; di conseguenza, in presenza di un abuso di notevoli dimensioni, composto da diverse opere l'una funzionale all'altra, si è in realtà in presenza di un'unica attività di trasformazione urbanistica.
Il provvedimento negativo dunque risulta compiutamente motivato con il riferimento alla disposizione dell’art. 167 DLgs 42/2004 che esclude le opere in oggetto dal novero di quello sanabili.
Stante la infondatezza nel merito delle censure proposte, si dequotano i rilievi procedimentali con riferimento alla violazione dell'art. 10-bis L. 241/1990 atteso che il provvedimento impugnato, non avrebbe potuto avere in nessun caso, diverso contenuto.
Per giurisprudenza costante la violazione dell'art. 10-bis L. 07.08.1990 n. 241 non produce ex se l'illegittimità del provvedimento finale, dovendosi interpretare la disposizione sul cosiddetto preavviso di diniego alla luce del successivo art. 21-octies della medesima legge, in base al quale, laddove sia dedotto un vizio di natura formale, è imposto al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e, conseguentemente, di non annullare l'atto nell'ipotesi in cui la dedotta violazione formale non abbia inciso sulla legittimità sostanziale dei provvedimenti impugnati (ex pluris, Tar Lazio/Roma - Sez. II-ter nr. 5503 - 15.06.2007).
In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso è respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 07.11.2014 n. 5771 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer pacifico e consolidato orientamento giurisprudenziale, ove le opere risultino diverse da quelle sanabili e indicate nell'art. 167 del D.Lgs. 42/2004, le competenti autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso della reiezione dell'istanza di sanatoria, con l'unica eccezione a tale rigida prescrizione per il caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell'autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Alla vicenda odierna, pertanto, è applicabile l'art. 21-octies della L. 241/1990 che statuisce la non annullabilità del provvedimento adottato in violazione delle norme sul procedimento amministrativo qualora per la sua natura vincolata sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente adottato.
Attesa la natura dovuta del diniego di accertamento di conformità e di compatibilità paesaggistica per le ragioni illustrate, il relativo procedimento non è quindi inficiato dall'omissione del preavviso di rigetto dell'istanza.
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L'art. 167 DLgs. 42/2004 ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti a vincolo paesaggistico, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità delle opere abusive quando queste, come nel caso di specie, hanno dato luogo a nuovi superfici e nuovi volumi.
Ne consegue che, come già evidenziato, gli interventi di tale impatto sono esclusa dalla possibilità di sanatoria; per giurisprudenza consolidata peraltro nel giudicare su di un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere deve necessariamente effettuarsi una valutazione globale delle stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione: di conseguenza, in presenza di un abuso di notevoli dimensioni, composto da diverse opere l'una funzionale all'altra, si è in realtà in presenza di un'unica attività di trasformazione urbanistica.
Alla luce di ciò appare evidente, già ad un primo esame, che l’intervento realizzato, complessivamente considerato, ha ampliato la volumetria e le superficie preesistenti in quanto:
- è stato realizzato un manufatto al di fuori della sagoma esistente (la torretta a servizio dell’ascensore);
- è stato ampliato il parcheggio e il terrazzo per 35 mq. di nuova superficie, con conseguente trasformazione permanente del territorio;
- è stato realizzato un portico di 16 mq. di nuova superficie coperta;
- sono stati costruiti due nuovi ambienti ad uso wc e ripostiglio, comportanti quindi nuova volumetria;
- è stato trasformato un porticato di 23 mq. in vani utili abitabili, comportanti ugualmente nuova volumetria.
Alla luce di quanto riportato, correttamente il Comune ha ritenuto, valutatane la consistenza da parte della Soprintendenza, l’intervento non sanabile.

... per l'annullamento:
- del provvedimento prot. n. 32063-27696 del 16.10.2007 di rigetto dell’istanza di accertamento di conformità;
- del parere di non compatibilità paesaggistica reso dalla Soprintendenza di Napoli ai sensi dell’art. 167 D.lgs 42/2004 (prot. 3843 del 30.4.2007);
...
1.- La sig.ra R. è proprietaria di un immobile posto nel Comune di Massa Lubrense – via ... 19 (fg. 2 p.lla n. 713 sub. 1-2-3-4) in zona paesaggisticamente vincolata.
Presso tale immobile sono stati realizzati interventi edilizi senza abilitazione edilizia (torretta di forma quadrata, ampliamento del terrazzo, modifiche prospettiche, realizzazione di un portico) per le quali la ricorrente, a seguito di ordinanza di sospensione dei lavori, ha presentato domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 DPR n. 380/2001.
Con il provvedimento impugnato del 16.10.2007 il Comune di Massa Lubrense ha respinto la domanda, sulla base del parere vincolante della Soprintendenza ex art. 167 D.lgs. n. 42/2004, “in quanto l’abuso ha comportato aumento di volume e superficie utile”.
...
4.- Il ricorso è infondato.
4.1.- Con il primo motivo di censura la ricorrente si duole di non aver ricevuto preavviso del rigetto dell’istanza.
Il motivo non ha pregio.
Deve rammentarsi che il provvedimento ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 si caratterizza per la sua connotazione oggettiva e vincolata in quanto l'amministrazione si limita a effettuare una valutazione sulla conformità alla disciplina urbanistica senza svolgere apprezzamenti discrezionali (ex multis TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 3066/2014).
Inoltre, per pacifico e consolidato orientamento giurisprudenziale, ove le opere risultino diverse da quelle sanabili e indicate nell'art. 167 del D.Lgs. 42/2004, le competenti autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso della reiezione dell'istanza di sanatoria (cfr., Consiglio di Stato, Sez. VI, 20.06.2012 n. 3578), con l'unica eccezione a tale rigida prescrizione per il caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell'autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati (fattispecie non ricorrente nel caso di specie, come meglio evidenziato in seguito).
Alla vicenda odierna, pertanto, è applicabile l'art. 21-octies della L. 241/1990 che statuisce la non annullabilità del provvedimento adottato in violazione delle norme sul procedimento amministrativo qualora per la sua natura vincolata sia palese che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente adottato.
Attesa la natura dovuta del diniego di accertamento di conformità e di compatibilità paesaggistica per le ragioni illustrate, il relativo procedimento non è quindi inficiato dall'omissione del preavviso di rigetto dell'istanza.
4.2.- Con il secondo motivo di ricorso si deduce che l’intervento edilizio realizzato non avrebbe comportato nuovi volumi e superfici e sarebbe quindi sanabile anche ai sensi dell’art. 167 D.lgs. 42/2004, che permette la sanatoria dei “lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Il motivo è infondato.
Il richiamato art. 167 DLgs. 42/2004 ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti a vincolo paesaggistico, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità delle opere abusive quando queste, come nel caso di specie, hanno dato luogo a nuovi superfici e nuovi volumi.
Ne consegue che, come già evidenziato, gli interventi di tale impatto sono esclusa dalla possibilità di sanatoria; per giurisprudenza consolidata peraltro nel giudicare su di un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere deve necessariamente effettuarsi una valutazione globale delle stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione: di conseguenza, in presenza di un abuso di notevoli dimensioni, composto da diverse opere l'una funzionale all'altra, si è in realtà in presenza di un'unica attività di trasformazione urbanistica.
Alla luce di ciò appare evidente, già ad un primo esame, che l’intervento realizzato, complessivamente considerato, ha ampliato la volumetria e le superficie preesistenti in quanto:
- è stato realizzato un manufatto al di fuori della sagoma esistente (la torretta a servizio dell’ascensore);
- è stato ampliato il parcheggio e il terrazzo per 35 mq. di nuova superficie, con conseguente trasformazione permanente del territorio;
- è stato realizzato un portico di 16 mq. di nuova superficie coperta;
- sono stati costruiti due nuovi ambienti ad uso wc e ripostiglio, comportanti quindi nuova volumetria;
- è stato trasformato un porticato di 23 mq. in vani utili abitabili, comportanti ugualmente nuova volumetria.
Alla luce di quanto riportato, correttamente il Comune ha ritenuto, valutatane la consistenza da parte della Soprintendenza, l’intervento non sanabile.
In conclusione, vista l’infondatezza delle censure, il ricorso deve essere rigettato (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 07.11.2014 n. 5769 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’articolo 167, comma 4, lettera a), del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004 prevede la possibilità di valutare la compatibilità paesaggistica “per i lavori, realizzati in assenza o in difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
La giurisprudenza è attualmente non unanime nell’interpretazione della disposizione.
Secondo un orientamento, la realizzazione di meri volumi tecnici, irrilevanti dal punto di vista urbanistico, non precluderebbe l’accesso alla procedura di accertamento di compatibilità paesaggistica.
Nella stessa direzione appare orientata anche la circolare del Segretario generale del Ministero per i beni e le attività culturali n. 33 del 26.06.2009, laddove si legge che per “volumi” debbano intendersi, ai fini dell’articolo 167, comma 4 del Codice dei beni culturali e del paesaggio “qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto, ad esclusione dei volumi tecnici”.
Secondo altro orientamento, invece, la nozione di “volume” ai fini paesaggistici è da ritenere distinta e autonoma rispetto a quella rilevante ai fini urbanistici, in quanto anche opere che non determinano un incremento del carico urbanistico possono risultare astrattamente idonee a ledere l’interesse paesaggistico, in relazione alla loro percepibilità visiva.
Si perviene, per questa via, ad escludere la possibilità di accertare la compatibilità paesaggistica dei c.d. “
volumi tecnici” o almeno di quelli che diano vita a manufatti che presentino un’autonoma rilevanza dal punto di vista funzionale, anche potenziale, rispetto alla costruzione principale assentita (in questo senso, è stata ritenuta in ogni caso non sanabile dal punto di vista paesaggistico la realizzazione di un torrino scale, in quanto opera comunque non qualificabile come volume tecnico irrilevante ai fini dell’articolo 167, comma 4, del d.lvo n. 42 del 2004).
Ritiene il Collegio che l’interpretazione dell’articolo 167 del Codice dei beni culturali e del paesaggio debba necessariamente muovere dalla considerazione della ratio della disposizione considerata, che è volta a stabilire una soglia elevata di tutela del paesaggio, quale interesse di rilevanza costituzionale primaria, ai sensi dell’articolo 9 Cost. (C. cost. n. 367 del 2007, Id. n. 182 del 2006, Id. n. 151 del 1986).
Proprio al fine di realizzare tale obiettivo, il legislatore ha inteso escludere la possibilità generalizzata di rilascio ex post dell’autorizzazione paesaggistica al fine di sanare interventi già realizzati (possibilità in precedenza ammessa dalla giurisprudenza: v. ex multis Cons. Stato, Sez. VI, 06.11.2000, n. 6130) e ha invece stabilito che tale valutazione sia consentita soltanto per gli abusi di minima entità, tali da determinare già in astratto, per le loro stesse caratteristiche tipologiche, un rischio estremamente contenuto di causare un effettivo pregiudizio al bene tutelato, ferma restando la necessità, in caso di accesso alla procedura, di valutare in concreto l’effettiva compatibilità paesaggistica dell’opera realizzata.
Ritiene il Collegio che, in tale prospettiva, non possa dubitarsi dell’autonomia della nozione di “volume” rilevante ai fini dell’applicazione dell’articolo 167 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, dovendo tale termine essere interpretato alla luce della già vista finalità della disposizione di selezionare gli abusi che, in termini astratti, presentino una limitata potenzialità lesiva rispetto al bene tutelato.
Occorre, pertanto, muovere dalla considerazione che, in base all’articolo 131 del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lvo n. 42 del 2004, “Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni” (comma 1) e che “Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali” (comma 2).
La tutela paesaggistica ha pertanto ad oggetto la “forma” del territorio, nei suoi profili di pregio estetico e testimoniale, poiché -secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale– “il concetto di paesaggio indica, innanzitutto, la morfologia del territorio, riguarda cioè l’ambiente nel suo aspetto visivo” (C. cost. n. 367 del 2007).
Da quanto premesso discende che il discrimine da prendere in considerazione al fine di stabilire l’idoneità potenziale dell’abuso a causare un rischio nei confronti del bene tutelato dipende proprio dalla maggiore o minore percepibilità visiva dell’opera abusivamente realizzata.
Appare, quindi, condivisibile l’orientamento giurisprudenziale che considera con particolare rigore la possibilità di consentire la sanatoria paesaggistica dei c.d. “volumi tecnici”, evidenziando come, se ai fini dell’ordinato assetto del territorio assume rilevanza l’utilizzazione delle opere realizzate e, quindi, la loro capacità di determinare un incremento del carico urbanistico, invece ai fini paesaggistici deve considerarsi unicamente la visibilità del manufatto e, quindi, la sua idoneità ad alterare la “forma” del contesto territoriale tutelato.
Deve quindi convenirsi con l’affermazione per la quale “tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167, nella prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la classificazione dei volumi edilizi che si suole fare al fine di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo, quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia quando comunque si tratti di modificare un terreno o un edificio o il relativo sottosuolo”.

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L’intervento abusivamente eseguito è consistito:
- in una assai contenuta (ossia limitata a pochi centimetri) traslazione della parete nord del fabbricato rispetto al progetto assentito;
- nell’ispessimento delle murature perimetrali per finalità di contenimento dei consumi energetici;
- in un assai modesto innalzamento del tetto dovuto alla realizzazione di una nuova soletta in cemento armato tra il secondo piano e il sottotetto non utilizzabile (in quanto di altezza al colmo soltanto di m 1,55): innalzamento che non ha comportato, secondo quanto appare dagli elaborati depositati, il superamento della quota della copertura rispetto all’altra porzione, preesistente, dello stesso fabbricato (poiché a seguito dell’abuso l’edificio raggiunge la quota di m 11,09, inferiore a quella di m 11,69 della porzione preesistente e non oggetto di intervento).
A fronte di tali modificazioni progettuali, risulta inoltre che:
- non sono stati realizzati né incrementi di volume rilevanti urbanisticamente, né aumenti della superficie lorda di pavimento, ma –anzi– una diminuzione sia degli uni che degli altri, come risulta dalla memoria comunale del 12.06.2014 (nella quale si legge che la superficie lorda di pavimento sarebbe diminuita, per ciascun piano, da mq 40,30 a mq 39,60 e il volume rilevante dal punto di vista urbanistico sarebbe diminuito di mc. 4,91, passando da mc. 349,43 a mc. 344,52);
- il Comune ha verificato e rappresentato alla Soprintendenza la scarsa percepibilità visiva delle variazioni progettuali realizzate rispetto al progetto assentito.
Ritiene il Collegio che le peculiari caratteristiche dell’abuso realizzato nel caso di specie debbano indurre a ritenere sussistenti le condizioni previste dall’articolo 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio al fine di consentire l’ammissione all’accertamento di compatibilità paesaggistica dell’opera, contrariamente a quanto ritenuto dalla Soprintendenza.
E invero, non può ritenersi realizzato un “volume” rilevante ai fini della suddetta disposizione –e quindi tale da determinare già in astratto un rischio significativo di compromissione dell’interesse paesaggistico– poiché alla completa neutralità dell’abuso dal punto di vista urbanistico si aggiunge la scarsa percepibilità visiva del modesto incremento di ingombro del fabbricato realizzato: incremento che non ha determinato la costruzione di corpi o strutture dotati di autonomo rilievo funzionale o, comunque, visivamente distinguibili dall’edificio assentito, non ha comportato l’innalzamento della quota dell’edificato rispetto alla porzione di fabbricato preesistente e risulta, inoltre, dovuto in misura preponderante alla realizzazione degli accorgimenti tecnici necessari al miglioramento dell’efficienza energetica della costruzione.
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Occorre, peraltro, ribadire che l’ammissione alla procedura di verifica della compatibilità paesaggistica non assicura, di per sé, il buon esito della stessa, essendo rimessa alla Soprintendenza la valutazione estetica, in concreto, circa l’assenza di pregiudizio nei confronti del bene tutelato.

... per l'annullamento:
- dell'ordinanza del Comune di Livigno n. 151 del 29.10.2013;
- del provvedimento della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Milano prot. n. BBNN 5861 del 27.06.2013;
... 
1. Con ricorso notificato il 02.12.2013 e depositato il 13.12.2013, il sig. G.M. impugna l’ordinanza n. 151 del 29.10.2013, con la quale il Comune di Livigno ha rigettato l’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica e di permesso di costruire in sanatoria presentata dal ricorrente il 13.04.2013 e ha ordinato, altresì, “la rimessione in pristino (...), secondo il progetto allegato al permesso di costruire prot. n. 16230 del 13.07.2009, (...) delle opere abusivamente eseguite e rappresentate nel progetto allegato alla sopracitata istanza di sanatoria”.
Il provvedimento è motivato con riferimento alla nota della Soprintentenza per i beni architettonici e paesaggistici di Milano prot. n. BBNN 5861 del 27.06.2013 –anch’essa impugnata dal ricorrente– con la quale è stata ritenuta improcedibile l’istanza di valutazione di compatibilità paesaggistica, ai sensi degli articoli 167 e 181 del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, in quanto “la traslazione di murature perimetrali e tetto ha comportato variazioni dimensionali delle superfici nette di ambienti a destinazione residenziale ai piani terra, primo e secondo (soggiorni, camere) – e non di vani tecnici”.
...
8. Il ricorso è fondato, assumendo carattere dirimente il primo mezzo di gravame.
9. L’articolo 167, comma 4, lettera a), del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004 prevede la possibilità di valutare la compatibilità paesaggistica “per i lavori, realizzati in assenza o in difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
La giurisprudenza è attualmente non unanime nell’interpretazione della disposizione.
Secondo un orientamento, la realizzazione di meri volumi tecnici, irrilevanti dal punto di vista urbanistico, non precluderebbe l’accesso alla procedura di accertamento di compatibilità paesaggistica (cfr. ex multis: TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 05.11.2013, n. 515; TAR Lazio, Roma, Sez. I-ter, 15.07.2013, n. 6997; TAR Puglia, Bari, Sez. III, 11.01.2013, n. 35; Id., 30.10.2012, n. 1859; TAR. Campania, Napoli, Sez. VII, 10.05.2012, n. 2173; Id., 15.12.2010, n. 27380; Id. 03.04.2009, n. 1748; TAR Lombardia Milano, sez. IV, 16.02.2009, n. 1309).
Nella stessa direzione appare orientata anche la circolare del Segretario generale del Ministero per i beni e le attività culturali n. 33 del 26.06.2009, laddove si legge che per “volumi” debbano intendersi, ai fini dell’articolo 167, comma 4 del Codice dei beni culturali e del paesaggio “qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto, ad esclusione dei volumi tecnici”.
Secondo altro orientamento, invece, la nozione di “volume” ai fini paesaggistici è da ritenere distinta e autonoma rispetto a quella rilevante ai fini urbanistici, in quanto anche opere che non determinano un incremento del carico urbanistico possono risultare astrattamente idonee a ledere l’interesse paesaggistico, in relazione alla loro percepibilità visiva.
Si perviene, per questa via, ad escludere la possibilità di accertare la compatibilità paesaggistica dei c.d. “volumi tecnici” (ex multis: Cons. Stato, Sez. V, 17.06.2014, n. 3074; Id., Sez. VI, 26.03.2013, n. 1671; Id, Sez. VI, 20.06.2012, n. 3578; TAR Umbria, Sez. I, 29.11.2011, n. 388; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 17.02.2010, n. 963) o almeno di quelli che diano vita a manufatti che presentino un’autonoma rilevanza dal punto di vista funzionale, anche potenziale, rispetto alla costruzione principale assentita (in questo senso, è stata ritenuta in ogni caso non sanabile dal punto di vista paesaggistico la realizzazione di un torrino scale, in quanto opera comunque non qualificabile come volume tecnico irrilevante ai fini dell’articolo 167, comma 4, del d.lvo n. 42 del 2004: cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 31.03.2014, n. 1512, che conferma TAR Campania, Napoli, Sez. III, 25.05.2010, n. 8748).
10. Ritiene il Collegio che l’interpretazione dell’articolo 167 del Codice dei beni culturali e del paesaggio debba necessariamente muovere dalla considerazione della ratio della disposizione considerata, che è volta a stabilire una soglia elevata di tutela del paesaggio, quale interesse di rilevanza costituzionale primaria, ai sensi dell’articolo 9 Cost. (C. cost. n. 367 del 2007, Id. n. 182 del 2006, Id. n. 151 del 1986).
Proprio al fine di realizzare tale obiettivo, il legislatore ha inteso escludere la possibilità generalizzata di rilascio ex post dell’autorizzazione paesaggistica al fine di sanare interventi già realizzati (possibilità in precedenza ammessa dalla giurisprudenza: v. ex multis Cons. Stato, Sez. VI, 06.11.2000, n. 6130) e ha invece stabilito che tale valutazione sia consentita soltanto per gli abusi di minima entità, tali da determinare già in astratto, per le loro stesse caratteristiche tipologiche, un rischio estremamente contenuto di causare un effettivo pregiudizio al bene tutelato, ferma restando la necessità, in caso di accesso alla procedura, di valutare in concreto l’effettiva compatibilità paesaggistica dell’opera realizzata.
11. Ritiene il Collegio che, in tale prospettiva, non possa dubitarsi dell’autonomia della nozione di “volume” rilevante ai fini dell’applicazione dell’articolo 167 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, dovendo tale termine essere interpretato alla luce della già vista finalità della disposizione di selezionare gli abusi che, in termini astratti, presentino una limitata potenzialità lesiva rispetto al bene tutelato.
Occorre, pertanto, muovere dalla considerazione che, in base all’articolo 131 del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lvo n. 42 del 2004, “Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni” (comma 1) e che “Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali” (comma 2).
La tutela paesaggistica ha pertanto ad oggetto la “forma” del territorio, nei suoi profili di pregio estetico e testimoniale, poiché -secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale– “il concetto di paesaggio indica, innanzitutto, la morfologia del territorio, riguarda cioè l’ambiente nel suo aspetto visivo” (C. cost. n. 367 del 2007).
Da quanto premesso discende che il discrimine da prendere in considerazione al fine di stabilire l’idoneità potenziale dell’abuso a causare un rischio nei confronti del bene tutelato dipende proprio dalla maggiore o minore percepibilità visiva dell’opera abusivamente realizzata.
Appare, quindi, condivisibile l’orientamento giurisprudenziale che considera con particolare rigore la possibilità di consentire la sanatoria paesaggistica dei c.d. “volumi tecnici”, evidenziando come, se ai fini dell’ordinato assetto del territorio assume rilevanza l’utilizzazione delle opere realizzate e, quindi, la loro capacità di determinare un incremento del carico urbanistico, invece ai fini paesaggistici deve considerarsi unicamente la visibilità del manufatto e, quindi, la sua idoneità ad alterare la “forma” del contesto territoriale tutelato.
Deve quindi convenirsi con l’affermazione per la quale “tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167, nella prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la classificazione dei volumi edilizi che si suole fare al fine di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo, quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia quando comunque si tratti di modificare un terreno o un edificio o il relativo sottosuolo” (così Cons. Stato, Sez. VI, 24.09.2012, n. 5066).
12. Ciò premesso in linea generale, e venendo al caso oggetto del presente giudizio, rileva il Collegio che dalla documentazione agli atti di causa risulta che l’intervento abusivamente eseguito dal ricorrente è consistito:
- in una assai contenuta (ossia limitata a pochi centimetri) traslazione della parete nord del fabbricato rispetto al progetto assentito;
- nell’ispessimento delle murature perimetrali per finalità di contenimento dei consumi energetici;
- in un assai modesto innalzamento del tetto dovuto alla realizzazione di una nuova soletta in cemento armato tra il secondo piano e il sottotetto non utilizzabile (in quanto di altezza al colmo soltanto di m 1,55): innalzamento che non ha comportato, secondo quanto appare dagli elaborati depositati, il superamento della quota della copertura rispetto all’altra porzione, preesistente, dello stesso fabbricato (poiché a seguito dell’abuso l’edificio raggiunge la quota di m 11,09, inferiore a quella di m 11,69 della porzione preesistente e non oggetto di intervento).
A fronte di tali modificazioni progettuali, risulta inoltre che:
- non sono stati realizzati né incrementi di volume rilevanti urbanisticamente, né aumenti della superficie lorda di pavimento, ma –anzi– una diminuzione sia degli uni che degli altri, come risulta dalla memoria comunale del 12.06.2014 (nella quale si legge che la superficie lorda di pavimento sarebbe diminuita, per ciascun piano, da mq 40,30 a mq 39,60 e il volume rilevante dal punto di vista urbanistico sarebbe diminuito di mc. 4,91, passando da mc. 349,43 a mc. 344,52);
- il Comune ha verificato e rappresentato alla Soprintendenza la scarsa percepibilità visiva delle variazioni progettuali realizzate rispetto al progetto assentito (v. nota comunale prot. n. 27017 del 06.12.2012 – doc. 6 allegato al ricorso).
13. Ritiene il Collegio che le peculiari caratteristiche dell’abuso realizzato nel caso di specie debbano indurre a ritenere sussistenti le condizioni previste dall’articolo 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio al fine di consentire l’ammissione all’accertamento di compatibilità paesaggistica dell’opera, contrariamente a quanto ritenuto dalla Soprintendenza.
E invero, non può ritenersi realizzato un “volume” rilevante ai fini della suddetta disposizione –e quindi tale da determinare già in astratto un rischio significativo di compromissione dell’interesse paesaggistico– poiché alla completa neutralità dell’abuso dal punto di vista urbanistico si aggiunge la scarsa percepibilità visiva del modesto incremento di ingombro del fabbricato realizzato: incremento che non ha determinato la costruzione di corpi o strutture dotati di autonomo rilievo funzionale o, comunque, visivamente distinguibili dall’edificio assentito, non ha comportato l’innalzamento della quota dell’edificato rispetto alla porzione di fabbricato preesistente e risulta, inoltre, dovuto in misura preponderante alla realizzazione degli accorgimenti tecnici necessari al miglioramento dell’efficienza energetica della costruzione.
14. Occorre, peraltro, ribadire che l’ammissione alla procedura di verifica della compatibilità paesaggistica non assicura, di per sé, il buon esito della stessa, essendo rimessa alla Soprintendenza la valutazione estetica, in concreto, circa l’assenza di pregiudizio nei confronti del bene tutelato.
15. In definitiva, il ricorso merita di essere accolto e i provvedimenti impugnati devono essere annullati per i motivi sopra esposti, con assorbimento delle ulteriori doglianze (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.08.2014 n. 2263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Questioni in materia di ricollocazione del personale delle province ed elle città metropolitane (articolo 1, commi da 418 a 430, della legge 23.12.2014, n. 190) (nota 27.03.2015 n. 20506 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: D. Minussi, Distanza fra costruzioni (02.04.2015 - link a www.e-glossa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Comunicato del Presidente ANAC del 25.03.2015: si conferma che nel soccorso istruttorio la sanzione viene pagata solo se il concorrente intende aderire alla regolarizzazione (ANCE di Bergamo, circolare 03.04.2015 n. 81).

INCARICHI PROGETTUALIOggetto: prestazioni occasionali di professionisti iscritti ad Albi  - documento del Centro Studi del Consiglio Nazionale Ingegneri (c.r. 448 - novembre 2014) (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento delle Finanze, nota 25.02.2015 n. 4594 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 08.04.2015 n. 81 "Regolamento recante i criteri per la definizione del costo ambientale e del costo della risorsa per i vari settori d’impiego dell’acqua" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 24.02.2015 n. 39).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 del dell'08.04.2015, "Determinazione dei criteri di gestione obbligatoria e delle buone condizioni agronomiche e ambientali, ai sensi del regolamento UE n. 1306/2013" (deliberazione G.R. 01.04.2015 n. 3351).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 del dell'08.04.2015, "Terzo aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 01.04.2015 n. 2638).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 del dell'08.04.2015, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31.03.2015, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 01.04.2015 n. 56).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 03.04.2015 n. 78 "Definizione dei criteri di utilizzo e modalità di gestione delle risorse del fondo destinato al miglioramento dell’allocazione del personale presso le pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’articolo 30, comma 2.3, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165" (D.P.C.M. 20.12.2014).

EDILIZIA PRIVATA: "Determinazioni in ordine alle Commissioni Regionali per i Beni Paesaggistici in attuazione del comma 1 dell’art. 78 della L.R. 11.03.2005, n. 12 “Legge per il Governo del Territorio” (Regione Lombardia, deliberazione G.R. 01.04.2015 n. 3356).
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Si vedano anche:
   - l'Allegato A della D.G.R. 06.10.2010 n. 572
   - Dichiarazioni di notevole interesse pubblico ai sensi dell'art. 136 D.Lgs. 42/2004 - Territorio MONTANO (COMMISSIONE)
   - Dichiarazioni di notevole interesse pubblico ai sensi dell'art. 136 D.Lgs. 42/2004 - Territorio ALTA PIANURA e AREE URBANE AD ALTA DENSITA' (COMMISSIONE)
   - Dichiarazioni di notevole interesse pubblico ai sensi dell'art. 136 D.Lgs. 42/2004 - Territorio COLLINE E LAGHI (COMMISSIONE)
   - Dichiarazioni di notevole interesse pubblico ai sensi dell'art. 136 D.Lgs. 42/2004 - Territorio PIANURA IRRIGUA E FIUME PO (COMMISSIONE)

EDILIZIA PRIVATA: "Proposta di Progetto di Legge "DISPOSIZIONI IN MATERIA DI OPERE O DI COSTRUZIONI E RELATIVA VIGILANZA IN ZONE SISMICHE” (Regione Lombardia, deliberazione G.R. 16.03.2015 n. 3257).

QUESITI & PARERI

SICUREZZA LAVORO: RSPP e responsabilità in caso di infortunio: chi risponde?
Un RSPP esterno ad un'amministrazione comunale ha chiesto chi risponde in caso di infortunio o di malattia professionale derivante dal mancato adempimento degli obblighi derivanti dal "Testo Unico".
Il Quesito
Sono stato designato quale RSPP esterno da una amministrazione comunale che ha più sedi operative, o unità produttive, in edifici distinti e separati.
Ho preso visione della documentazione in possesso dell'amministrazione e riscontrato la seguente situazione:
- il Sindaco con specifico decreto ha individuato e nominato n. 5 Responsabili di Servizio (non dirigenti) quali datori di lavoro delle proprie unità produttive. Trattasi di una nomina e non di una "delega";
- i suddetti datori di lavoro sono dei responsabili preposti alla gestione e coordinamento delle attività lavorative, ma di fatto e in sostanza non hanno poteri decisionali né di spesa in quanto qualsiasi spesa (anche per l'acquisito di un cartello segnaletico) deve essere approvata a livello superiore. In sostanza si limitano a segnalare eventuali necessità di adeguamento e/o di prevenzione e protezione dai rischi all'ufficio tecnico comunale;
- il decreto comunale, inoltre, individua e nomina un responsabile unico delle attività di prevenzione incendi per tutte le sedi operative. La persona nominata è anche datore di lavoro di una unità produttiva;
- alcuni datori di lavoro condividono uno stesso edificio o sede operativa che ha ambienti di lavoro, spazi ed impianti tecnologici comuni. È stato redatto unico DVR dai due datori di lavori;
- il Rls è unico per tutte le unità produttive o sedi operative.
Personalmente, sulla base dell'esperienza professionale e in seguito a specifici chiarimenti pubblicati sulla Vs. rivista, ritengo che la nomina dei datori di lavoro che non hanno poteri decisionali e di spesa, perché mancanti di proprio budget di spesa, sia solo formale e non sostanziale.
Quindi
chi risponde in caso di infortunio o di malattia professionale derivante dal mancato adempimento degli obblighi derivanti dal "Testo Unico"?
Quale RSPP se individuo e segnalo al datore di lavoro "nominato" carenze, criticità e rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori che poi non vengono eliminati, posso avere responsabilità anche penali?

Secondo l'Esperto
Il vertice di una P.A. (il Sindaco di un Comune nel caso descritto) può designare uno o più datori di lavoro (dirigenti o funzionari di qualifica non dirigenziale), purché essi siano dotati di autonomi poteri decisionali e di spesa, ferme restando le responsabilità connesse alle scelte strateghe di indirizzo e di allocazione delle risorse economiche che permangono in capo all'organismo di vertice. In capo a quest'ultimo, peraltro, verrebbe ricondotta anche la funzione di datore di lavoro ove le designazioni di altri soggetti fossero state eseguite in difetto dei predetti requisiti (ultimo periodo della norma sopra richiamata).
Nel caso descritto, peraltro, si deve ritenere che la nomina a RSPP sia stata effettuata dai cinque datori di lavoro e non da altri, attesa il divieto di delega di tale adempimento ex art. 17 D.Lgs. 81/2008.
Quanto agli altri quesiti, fermo restando il tema dei requisiti necessari per lo svolgimento della funzione di datore di lavoro, non sussistono specifici doveri di corrispondenza tra fabbricati e DVR. Ove, effettivamente, vi fosse una articolazione organizzativa su diversi datori di lavoro, tutti questi potrebbero delegare le attività inerenti la prevenzione incendi ad un unico soggetto nel rispetto delle condizioni di delega di funzioni di cui all'art. 16 D.Lgs. 81/2008. Neppure ritengo sia normativamente vietata l'elaborazione, consultazione, sottoscrizione ed adozione di un D.V.R. congiuntamente tra più datori di lavoro; per tale circostanza, tuttavia, si deve ritenere la piena omogeneità dei rischi per le due organizzazioni.
Parimenti, ad un'unica organizzazione lavorativa, ancorché ripartita su diverse unità produttive o rami di organizzazione sindacale, potrà corrispondere un'unica forma di rappresentanza dei lavoratori (RLS); ovviamente gli RLS così designati eserciteranno le loro attribuzioni nei confronti dei diversi datori di lavoro, salvo che uno specifico accordo sindacale non ne disciplini ulteriori articolazioni di competenze. Sul punto, si dovranno osservare la previsioni dell'accordo confederale con l'ARAN, nonché le eventuali disposizioni della contrattazione decentrata applicabile.
In ultimo, il tema delle responsabilità.
Non si può affermare presuntivamente una responsabilità penale in caso di infortunio o malattia professionale, prescindendo dalle modalità di accadimento. Le possibili responsabilità connesse con gli eventi lesivi sono molteplici e sono riconducibili alle diverse posizioni di garanzia descritte nel D.Lgs. 81/2008 e ricordate dal suo art. 299. Tutto ciò che fosse riferibile alla posizione di datore di lavoro, ove i cinque designati fossero privi di autonomi poteri decisionali e di spesa, sarebbe quindi riconducibile all'autore di tali designazioni; ciò non esclude altri ordini di responsabilità, quali dirigenti (ai fini della sicurezza e non necessariamente sotto il profilo di inquadramento) o preposti o una delle altre figure previste nel D.Lgs. 81/2008.
Quanto al RSPP, la relativa fonte di responsabilità è funzione diretta della propria professionalità: oltre a far presente le eventuali carenze organizzative del sistema (es. inadeguata designazione datori di lavoro), egli dovrà svolgere consapevolmente le sue funzioni, segnalando eventuali situazioni di rischio e proponendone le corrispondenti valutazioni e misure, oltre agli altri compiti di cui all'art. 31 D.Lgs. 81/2008. Un RSPP esterno, inoltre, che svolga tale attività in virtù di un rapporto libero professionale, avrà la possibilità di non accettare l'incarico ovvero di esercitare le proprie facoltà contrattuali, ove non ritenga bilaterale il rapporto fiduciario.
Una volta svolte le segnalazioni, se il RSPP esterno non ha poteri diretti di intervento (perché non gli sono stati attribuiti dal/dai datore/i di lavoro) non incorre in ulteriori responsabilità; sarà, al rinnovo contrattuale, una sua valutazione se proseguire o meno nel rapporto (06.04.2015 - link a www.insic.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Quesito: curatela fallimentare e bonifica dei rifiuti.
Un quesito riguarda la curatela fallimentare:
può essere destinataria di ordinanze sindacali dirette alla bonifica di siti inquinati, per effetto del precedente comportamento commissivo od omissivo dell'impresa fallita?
Secondo l'Esperto
No; infatti, il curatore non sostituisce il fallito, atteso che la procedura fallimentare ha uno scopo liquidativo e non già amministrativo o continuativo dell'impresa fallita. Quando è il fallito ad aver prodotto i rifiuti e cagionato un danno all'ambiente, non viene meno il suo obbligo di ripristino verso la collettività, anche se il relativo smaltimento deve attuarsi (in mancanza di altri soggetti individuabili che abbiano dolosamente o colposamente concorso nell'evento, come statuito dalla normativa di settore) con l'insinuazione al passivo fallimentare del credito sorto in capo alla P.A., che anticipa le relative spese. Ciò trova eccezioni, nei seguenti casi:
- a carico del curatore stesso emergano condotte imputabili nell'abbandono dei rifiuti e nell'inquinamento dei siti di cui trattasi, circostanze queste ultime ex se escluse quando il fatto si sia verificato in epoca antecedente all'apertura della procedura fallimentare;
- il Tribunale Fallimentare competente abbia ritenuto di autorizzare il Curatore all'esercizio provvisorio, al sensi dell'art. 90 L.F., ipotesi che consentirebbe di superare le finalità solo liquidatorie delle operazioni affidate al Curatore, visto che in questo caso quest'ultimo assumerebbe veste di titolare dell'attività di impresa, continuando a realizzare l'attività precedentemente svolta, anche per le operazioni potenzialmente inquinanti.
D'altro lato, è proprio il richiamo alla disciplina del fallimento e della successione nei contratti a dimostrare che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito, non potendosi invocare l'art. 1576 c.c., poiché l'obbligo di mantenimento della cosa locata in buono stato riguarda, comunque, i soli rapporti tra conduttore e locatore e non si riverbera, direttamente, sui doveri del curatore stabiliti da altre disposizioni dirette ad altro scopo (03.04.2015 - link a www.insic.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Giunte, decide lo Stato. Gli enti non possono derogare i limiti di legge. Nei comuni sopra i 30 mila abitanti si possono nominare 7 assessori.
Qual è il numero massimo di assessori di cui può essere composta la giunta di un ente locale che ha una popolazione di 40.300 abitanti?

La determinazione numerica degli assessori rientra nella materia «organi di governo» dei comuni rimessa, ai sensi dell'art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione, alla potestà legislativa esclusiva dello stato.
Nel caso di specie, la composizione numerica della giunta deve essere conformata alle disposizioni recate dall'art. 2, comma 185, della legge n. 191 del 2009, come integrato dall'art. 1, comma 2 della legge 26.03.2010, n. 42, che hanno modificato l'art. 47 del decreto legislativo n. 267/2000. Ai sensi della citata normativa è previsto che «il numero massimo degli assessori comunali è determinato, per ciascun comune, in misura pari a un quarto del numero dei consiglieri del comune, con arrotondamento all'unità superiore».
Eventuali previsioni statutarie non adeguate ai limiti previsti dalla citata normativa statale devono ritenersi incompatibili con le intervenute modifiche normative e, quindi, non possono trovare applicazione.
Inoltre, come indicato dalla circolare del ministero dell'interno. n. 2915 del 18.02.2011, a decorrere dal 2011, in occasione del successivo rinnovo elettorale, il numero dei consiglieri sarà ridotto del 20% e di conseguenza, in caso di comuni con più di 30 mila abitanti, il numero massimo degli assessori dovrà essere calcolato su 25 unità (24 consiglieri più il sindaco).
Di conseguenza, il numero massimo dei componenti la giunta del comune in questione potrà essere di 7 unità (articolo ItaliaOggi del 03.04.2015).

ENTI LOCALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Decessi su pubblica via.
Vanno imputati alla provincia o al comune i costi relativi al recupero della salma di persona deceduta a seguito di un incidente stradale, occorso su una strada provinciale insistente nel perimetro del comune?

In caso di decesso su pubblica via, quando il recupero e il trasporto avvengano per ordine dell'Autorità giudiziaria, il comune ove è avvenuto il decesso dovrebbe curare gratuitamente il servizio di trasporto fino al locale che l'ente medesimo a priori abbia già individuato come deposito di osservazione o obitorio.
Tuttavia, solo qualora l'autorità giudiziaria disponga «accertamenti», le relative spese possono considerarsi come spese di giustizia da imputare alla stessa Autorità. Ciò trova conferma nella sentenza del Tar Campania–Napoli – n. 2844/2004 con la quale è stato precisato che la semplice rimozione ed il trasporto della salma non possono, invece, essere considerati come «accertamento».
Pertanto, in virtù dell'articolo 69, lett. c), del dpr n. 115/2002, che esclude le operazioni in parola dal novero delle spese di giustizia, deve ritenersi che l'obbligo gravi sul comune, indipendentemente dalla circostanza che il trasporto sia stato effettuato in luogo diverso dall'obitorio comunale. La spesa non può essere, altresì, imputata ai familiari della vittima, nel momento in cui il servizio di trasporto funebre presenti caratteristiche di pubblico interesse e dunque, di servizio indispensabile, dettate dalla necessità di liberare la pubblica via o altri luoghi pubblici e privati per garantire la salute pubblica della collettività.
Presentando chiaramente i presupposti del servizio indispensabile, tale servizio deve essere, dunque, posto a carico del comune, e non della provincia, che, ai sensi degli artt. 16 e 19 del dpr n. 285/1990, ne deve assumere lo svolgimento e le spese (articolo ItaliaOggi del 03.04.2015).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncarichi extra, enti rimborsati. Il 50% dei compensi va a risarcire la p.a. di appartenenza. La sezione autonomie fa chiarezza sulla devoluzione dei corrispettivi per arbitrati e collaudi.
Il 50% del compenso trattenuto al dipendente di un ente locale per lo svolgimento di un arbitrato o un collaudo deve essere versato all'amministrazione in cui il dipendente presta servizio e che ha autorizzato l'incarico, essendo irrilevante il fatto che il dipendente non presti servizio nell'ente in cui ha svolto tale attività.

È quanto ha precisato la sezione autonomie della Corte dei conti, nel testo della deliberazione 27.03.2015 n. 12, con cui ha fatto luce sull'applicazione delle disposizioni contenute nell'articolo 61, comma 9, del dl n. 112/2008, alle prestazioni di collaudo o di arbitrato rese, previa autorizzazione, da dipendenti di altre amministrazioni.
Come noto, la norma sopra evidenziata, dispone la devoluzione del 50% del compenso spettante al dipendente pubblico per l'attività di componente o di segretario ad apposito capitolo del bilancio dello stato ovvero, nel caso di amministrazioni territoriali, ai fondi per il finanziamento del trattamento economico accessorio.
Secondo la Corte, l'obiettivo che si è posto il legislatore nella norma sopra evidenziata, è quello di un generale contenimento della spesa pubblica, sottraendo il cinquanta per cento degli importi da arbitrato o collaudo al compenso individuale, per destinarli alla fruizione collettiva attraverso fondi perequativi o di amministrazione. Da queste considerazioni, emerge chiaramente che la destinazione della quota sottratta al dipendente debba essere risolta dalla prospettiva del soggetto che, autorizzato dalla propria amministrazione ex art. 53 del dlgs n. 165/2001, svolge la prestazione e non dalla prospettiva dell'amministrazione che conferisce l'incarico.
Infatti, è con questo «ritorno economico» che l'ente che autorizza il proprio dipendente a svolgere attività di arbitrato o di collaudo presso altre amministrazioni, compensa il disagio correlato alla sua assenza dal servizio, anche se temporanea, finanziando, altresì, l'incentivazione del proprio personale.
In definitiva, nel caso di incarico conferito a personale di altra amministrazione, la quota di compenso decurtata al dipendente deve essere versata all'amministrazione in cui lo stesso presta servizio e che ha autorizzato l'incarico, affinché la somma confluisca nei fondi per il trattamento accessorio.
Fermo restando che queste considerazioni non valgono nel caso di divieti espressamente imposti dalla legge, come nel caso del personale delle amministrazioni statali e per le decurtazioni operate nei confronti di magistrati o componenti dell'Avvocatura di stato, la cui quota di risparmio confluisce nei fondi perequativi istituiti dagli organi di autogoverno di riferimento (articolo ItaliaOggi dell'08.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti a contratto: la carica dei "110" manda in tilt la Corte dei Conti.
Problematiche interpretative sui divieti di assunzione nelle P.A. ex Legge di Stabilità 2015 e Circolare Madia. Precisazioni anche sulla mobilità e sui contratti a termine.

Interessante il parere 04.03.2015 n. 26 reso dalla Corte dei Conti -Sezione Regionale di Controllo per il Piemonte- in risposta ad un quesito formulato dal sindaco del Comune Omegna (VCO) che ha chiesto se “sia possibile effettuare assunzioni a tempo determinato, nel rispetto dei requisiti previsti dalla legge, nonché assunzioni tramite mobilità volontaria di personale in entrata per la copertura di posti infungibili che non è possibile coprire mediante concorso, nonché se sia possibile conferire un incarico dirigenziale ai sensi dell’art. 110, comma 1, del TUEL.
Si tratta, in effetti, di una questione sulla quale si stanno interrogando moltisssimi amministratori locali e che muove dalla previsione dell’art. 1, comma 424, della Legge di Stabilità -che prevede la nullità delle assunzioni effettuate in violazione della stessa disposizione- e dalla Circolare n. 1/2015 del Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione Marianna Madia, nella quale sono state dettate le linee-guida sull’attuazione di tale disposizione.
La logica di fondo complessiva della nuova normativa risulta quella di dettare misure di contenimento della spesa delle Province delle regioni a statuto ordinario: in particolare, per quanto riguarda il personale, vengono posti divieti in materia di assunzioni a tempo indeterminato, stipula di lavori flessibili, attribuzioni di incarichi di consulenza. Viene, altresì, prevista la riduzione della pianta organica delle Province delle regioni a statuto ordinario e delle Città Metropolitane, individuando il personale che rimane assegnato agli Enti di area vasta e quello che risulta destinatario di procedure di mobilità, attraverso la ricollocazione a valere sui budget delle assunzioni 2015 e 2016 delle Amministrazioni Pubbliche.
Per quanto concerne specificatamente gli Enti locali, la nuova disciplina (comma 424 della L. di Stabilità) prevede che le Amministrazioni destinino le risorse per le assunzioni a tempo indeterminato, nelle percentuali stabilite, all’immissione nei ruoli dei vincitori di concorso pubblico collocati nelle proprie graduatorie vigenti o approvate alla data di entrata in vigore della legge di stabilità 2015 (vale a dire il 01.01.2015) e alla ricollocazione nei propri ruoli delle unità soprannumerarie dei processi di mobilità sopra richiamati.
Nella seconda parte del medesimo comma 424, si prevede, inoltre, che le risorse rimanenti, ovvero quelle derivanti dalle facoltà ad assumere al netto di quelle utilizzate per l'assunzione dei vincitori, devono essere destinate, sommate ai risparmi derivanti dalla restante percentuale di cessazioni (ovvero 40% per il 2015 e 20% per il 2016) ai processi di mobilità del personale soprannumerario degli Enti di area vasta.
La medesima disposizione della legge di stabilità precisa, inoltre, che le assunzioni sono consentite soltanto per gli enti che sono in regola con i vincoli del patto di stabilità interno e che hanno sostenibilità finanziaria di bilancio.
Sulla base dell'innovato quadro normativo, la Corte dei Conti, in risposta al quesito proposto dal sindaco di Omegna, ha in primo luogo rilevato che “
non sono consentite procedure di mobilità, potendo essere concluse solo le procedure di mobilità volontaria avviate prima del 01.01.2015”.
A questo proposito, il Collegio ha sottolineato che "
sebbene le mobilità siano neutre sul piano finanziario, esse determinano la riduzione dei posti disponibili in pianta organica, sicché consentirne l'ammissibilità vanificherebbe lo scopo delle disposizioni in questione".
Quanto ai contratti a termine, il divieto di assunzione discende "dalla previsione del comma 426 dell’art. 1 della L. n. 190/2014, che dilaziona di un biennio il termine per l’espletamento delle procedure di stabilizzazione dei precari nelle pubbliche amministrazioni ai sensi dell’art. 4, co. 6, 8 e 9 del D.L. n. 101/2013, conv. nella L. n. 125/2013”.
Sugli incarichi ex art. 110, comma 1, del TUEL, la Corte dei Conti non manca, invece, di evidenziare come, né nelle disposizioni in esame della Legge di stabilità 2015, né nella circolare n. 1/2015, vi siano riferimenti a questi contratti. L'art. 110 citato (recentemente modificato dall'art. 11, co. 1, lett. a, del D.L. 24.06.2014, n. 90, conv. nella L. 11.08.2014, n. 114) concerne la possibilità, prevista dallo Statuto, di conferire incarichi a tempo determinato per la "copertura dei posti di responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione", previa selezione pubblica.
Proprio in considerazione di tale "omissione" ed argomentando dalla logica prioritaria di tutta la nuova normativa che è diretta a favorire l'assorbimento del personale delle Province tramite la sua riallocazione presso le Amministrazioni pubbliche, la Corte dei Conti ha sottolineato alcune problematiche interpretative non ancora esaminate in sede consultiva.
Infatti, la Sezione Autonomie, con deliberazione n. 12/2012, ha affermato che
a questi incarichi “non si applica la disciplina assunzionale vincolistica prevista dall’art. 9, co. 28, del D.L. n. 78/2010”, e che “gli Enti che intendono conferire detti incarichi (la cui spesa va considerata ai sensi dell’art. 1, co. 557 e 562, della L. n. 296/2006), oltre ad osservare gli obblighi assunzionali (generali) previsti per tutte le Pubbliche Amministrazioni, devono essere in linea con i vincoli di spesa ed assunzionali per gli stessi previsti dalla normativa in vigore.
Da tale assunto, precisa la Corte dei Conti -Sezione Regionale di Controllo per il Piemonte- consegue che “s
e un Ente locale decidesse di coprire un posto della dotazione organica tramite contratto ex art. 110, comma 1, del TUEL, ridurrebbe i posti disponibili in pianta organica, vanificando, anche in questo caso, lo scopo delle disposizioni in questione".
Più di recente, invece alcune sezioni regionali di controllo (cfr., per tutte, Sez. reg. contr. Lazio, deliberazione n. 221/2014) hanno affermato che "
il vincolo di spesa imposto dall’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78/2010 è applicabile a tutti gli incarichi conferiti ai sensi dell’art. 110 TUEL …”.
Sul presupposto che le incertezze interpretative sopra illustrate potrebbero creare dubbi nell’attività amministrativa della generalità degli Enti sul territorio nazionale, con pesanti conseguenze in relazione all’organizzazione e alla spesa per il personale,
la Sezione per il Piemonte ha, pertanto, deliberato di sottoporre al Presidente della Corte dei Conti "la valutazione sull’opportunità di deferire la questione alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni Riunite in sede di controllo", per la risoluzione della questione di massima (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).

NEWS

INCARICHI PROGETTUALIPartita Iva senza scampo. L'obbligo anche per attività professionali spot. La replica del Mef al Centro studi del Consiglio nazionale ingegneri.
Per lo svolgimento dell'attività professionale è sempre necessaria l'apertura della partita Iva. Indipendentemente da durata e compenso, infatti, qualora l'attività svolta rientri tra le attività tipiche della professione per il cui esercizio è avvenuta l'iscrizione all'albo, i relativi compensi sono considerati redditi di lavoro autonomo, con conseguente integrale soggezione degli stessi alla relativa disciplina.

Lo ha chiarito il Ministero dell'economia e delle finanze con la nota 25.02.2015 n. 4594 di prot. emanata in risposta a un documento del Centro studi del Consiglio nazionale degli ingegneri sulle prestazioni occasionali di professionisti iscritti ad albi. Attività che, al contrario, secondo il Cni non sarebbero soggette all'obbligo di apertura della partita Iva (si veda ItaliaOggi del 6 febbraio scorso).
In particolare, il riferimento del Mef è a due note diramate dal Cni: la prima (n. 488 del novembre 2014) contiene un approfondimento in merito alle cosiddette prestazioni occasionali rese da quei professionisti per i quali l'attività professionale rappresenti un di più rispetto a una primaria attività lavorativa legata a rapporti di lavoro subordinato in qualità di dipendenti pubblici o privati; la seconda (n. 31/2015) si è invece resa necessaria per via delle numerose richieste di chiarimento ricevute dal Consiglio nazionale.
Fatto sta che, secondo il Cni, l'iscritto all'albo che non esercita in modo abituale attività di lavoro autonomo, con regolarità, sistematicità e operatività, può svolgere una prestazione di lavoro occasionale (che ne presenti le caratteristiche tipiche) senza la necessità di disporre di una partita Iva.
Nella nota, però, il Mef richiama quanto disposto, in particolare, dal Tuir, che disciplina anche i redditi derivanti da rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (art. 50, comma 1, lett. c-bis), qualificandoli come redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, anche se percepiti in relazione a collaborazioni a progetto, o in relazione a collaborazioni occasionali (che non sono altro che modalità di svolgimento delle collaborazioni continuative).
In particolare, la normativa prevede, in questo senso, due diverse tipologie di redditi: quelli derivanti da rapporti tipici di collaborazione coordinata e continuativa, che sono tassativamente elencati dallo stesso Tuir; quelli derivanti da rapporti atipici, nei quali rientrano invece quei rapporti aventi per oggetto la prestazione di attività svolte senza vincolo di subordinazione a favore di un determinato soggetto all'interno di un rapporto unitario e continuativo, senza impiego di mezzi e con retribuzione periodica prestabilita.
Perché i redditi rientrino in questa seconda categoria, però, specifica la nota del Mef, la norma prevede che è «necessario verificare che gli uffici o le collaborazioni non rientrino nell'oggetto dell'arte o della professione, di cui all'art. 53, comma 1, del Tuir». In tale ipotesi, infatti, «i relativi proventi saranno attratti nel reddito di lavoro autonomo prodotto dal professionista e determinato ai sensi del successivo articolo 54 del Tuir» (articolo ItaliaOggi dell'08.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARI: Multe in autostrada Le fa solo la polizia. Ministero dei trasporti/1 Vigili e carabinieri out.
Le multe in autostrada e sui raccordi similari le possono elevare solo le pattuglie della polizia stradale dello stato. Gli altri organi di vigilanza infatti non sono abilitati a questo tipo di attività che risulta particolarmente complessa anche dal punto di vista della sicurezza operativa.

Lo ha evidenziato il Ministero dei trasporti con il parere n. 1012/2015.
La questione della competenza di intervento sui raccordi autostradali è ancora dibattuta specialmente per l'uso dell'autovelox da parte dei comuni che sono interessati dalla presenza sul territorio di strade di grande percorrenza come l'Autopalio che collega Siena a Firenze.
In questo caso il comune di Impruneta ha richiesto chiarimenti al ministero che ha confermato la logica del codice stradale. La polizia municipale nell'ambito territoriale di propria competenza può effettuare controlli su qualsiasi tipologia di strada escluso le autostrade.
Lo evidenzia l'art. 12, comma 1, lett. e), del codice della strada a sua volta richiamato dall'articolo 22 del regolamento cds. Ma attenzione alla rete autostradale. L'art. 372 del regolamento di attuazione del codice stradale, prosegue la nota centrale, stabilisce che «il servizio per la prevenzione e per l'accertamento delle infrazioni alle norme che regolano l'uso delle autostrade è di regola espletato dal personale indicato nell'art. 12, comma 1, lett. a) e f) del codice». Ovvero polizia di stato e funzionari del ministero dell'interno e dei trasporti.
In buona sostanza siccome il tratto di strada in questione risulta segnalato come autostrada la competenza operativa per l'ordinaria attività di controllo deve ritenersi riservata alla polizia di stato. Il ministero dell'interno può comunque sempre svolgere in materia una complessa opera di coordinamento, conclude il parere.
Quindi per attivare controlli di velocità con strumentazione elettronica su una strada del genere la polizia locale dovrà prima chiedere lumi in prefettura (articolo ItaliaOggi del 07.04.2015).

VARI: Strisce gialle, riserva a mezzi d'emergenza. Ministero dei trasporti/2 Farmacisti, la tesi ko.
I farmacisti non hanno diritto a uno spazio di sosta riservato in prossimità dell'esercizio commerciale. Gli stalli di sosta gialli sono infatti riservati per legge solo a determinate categorie di soggetti impegnati in servizi di emergenza o con patologie invalidanti.

Lo ha chiarito il ministero dei trasporti con il parere 20.03.2015 n. 1201 di prot..
Le categorie di veicoli per i quali la normativa prevede la riserva di spazio giallo sono solo quelle indicate dall'art. 7, comma 1, lett. d), del codice stradale. Ovvero i mezzi a disposizione degli organi di polizia stradale, dei vigili del fuoco e delle persone con limitata capacità motoria, ovvero a servizi di linea per lo stazionamento ai capilinea. Tra queste non ricadono quindi i veicoli dei lavoratori di una farmacia.
Per quanto riguarda le aree adibite al carico e scarico le stesse devono normalmente essere adibite ad un impiego temporaneo correlato alle esigenze degli utenti e anche per questo motivo devono essere individuate con strisce di colore bianco. Nelle aree pedonali e nelle zone a traffico limitato, conclude il parere centrale, possono invece essere riservati spazi di sosta riservati ai residenti (articolo ItaliaOggi del 07.04.2015).

APPALTI: Appalti, rating per imprese e Pa. Il nuovo codice dovrebbe portare una forte semplificazione: da 650 a 250 articoli.
Le imprese che hanno sempre rispettato i termini contrattuali, non hanno abusato delle varianti in corso d’opera, non hanno mai presentato ricorsi “temerari” al giudice amministrativo potranno avere un “premio” in termini di qualificazione nel prossimo sistema degli appalti.
L’introduzione dei «criteri reputazionali» per valutare le imprese, insieme al rating di legalità, è una delle novità comprese nel testo base che il relatore al Senato, il pd Stefano Esposito, renderà noto fra oggi e domani. Poi da domattina, la commissione Lavori pubblici del Senato partirà con lo sprint che dovrebbe portare il testo della riforma degli appalti nell’aula di Palazzo Madama nell’ultima decade di aprile.
Obiettivo di Esposito, largamente condiviso dai gruppi di maggioranza e di opposizione in commissione, è quello di mettere una griglia di paletti alla delega prevista dal disegno di legge governativo. Definire meglio i criteri di delega per evitare che, in sede di esercizio della delega stessa, il governo si perda fra mille possibili alternative.
«Non dobbiamo dimenticare -dice Esposito- che l’obiettivo largamente condiviso del recepimento delle direttive europee è una drastica riduzione degli articoli di codice degli appalti e regolamento: dai 650 attuali bisogna scendere a 250». Una direzione di marcia confermata anche nella lunga telefonata che sabato Esposito ha avuto con il neoministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, assolutamente intenzionato a precedere spedito sulla via della riforma e della semplificazione.
Il passaggio che si consuma fra oggi e domani in commissione Lavori pubblici, la presentazione del testo base ad opera del relatore, è un momento decisivo nel cammino della riforma perché su quel testo si innesteranno poi le proposte di emendamento dei gruppi (a partire dal 15 aprile). Il testo base di Esposito supererà di fatto il testo del governo -considerato troppo blando nella definizione dei criteri di delega- come testo di riferimento della discussione parlamentare.
Le novità introdotte da Esposito resteranno quindi nel percorso della riforma. Le “pagelle” reputazionali delle imprese saranno affidate -come il resto del sistema di qualificazione- all’Autorità nazionale anticorruzione guidata da Raffaele Cantone che dovrà gestire anche un’altra novità assai rilevante introdotta dal «testo Esposito»: le pagelle per le stazioni appaltanti.
In questo caso alla valutazione dell’Anac contribuiranno vari fattori strutturali e organizzativi (per esempio la presenza e l’esperienza di un numero adeguato di dirigenti tecnici) ma anche qui peserà la capacità che un’amministrazione potrà dimostrare di aver gestito in passato appalti con successo e secondo criteri di buona amministrazione.
Quello del potenziamento dei poteri e delle funzioni affidate all’Anac è uno dei fili interpretativi della riforma del codice degli appalti anche se non trova ancora posto nel testo un disegno organico di potenziamento dei poteri di soft law dell’Autorità a fronte della massiccia semplificazione normativa promessa.
Intorno all’Autorità guidata da Raffaele Cantone si va comunque condensando un nucleo di poteri che ne fanno il soggetto centrale nel nuovo sistema degli appalti.
Vale, per esempio, anche per il precontenzioso, il tentativo cioè di evitare che le imprese si rivolgano al giudice amministrativo per far valere il proprio punto di vista. Già oggi esiste una sede di precontenzioso presso l’Anac ma la novità è che il parere espresso dall’Autorità diventerebbe vincolante (anche se questo non potrà evitare il ricorso al Tar).
L’Anac dovrebbe poi avere un ruolo-chiave nel nuovo sistema misto di formazione delle commissioni aggiudicatrici: l’Autorità compilerebbe una lista di nove nomi presi da un registro interno e su questo elenco si svolgerebbe il sorteggio. Sempre l’Anac detterebbe i criteri oggettivi in base ai quali dare una stretta forte al numero delle stazioni appaltanti, che oggi sono più di 30mila.
Nel testo si confermano alcune novità che Esposito conferma prioritarie. A partire dalla eliminazione del criterio di aggiudicazione del massimo ribasso per le gare di appalto di servizi ad alta intensità di lavoro: si tratta, per esempio, delle gare relative all’attività di progettazione. Ma dovrebbe arrivare subito anche l’altolà alla direzione generale affidata dalla legge obiettivo ai general contractor e un drastico taglio alla possibilità di ricorso all’appalto integrato che affida alla stessa impresa progettazione e lavori.
Un’altra novità riguarderà la limitazione delle attività affidate dalle amministrazioni pubbliche (soprattutto locali) in house. Qui il terreno è minato perché le direttive Ue non offrono molti agganci in favore della tutela della concorrenza e piuttosto tutelano le amministrazioni. Difficile garantire forme di gara formale con il gioco delle soglie europee. Nel testo dovrebbe però comparire una forte raccomandazione a svolgere procedure semplificate a inviti nel rispetto del principio del contenimento dei costi pubblici.
Il confronto fra più offerte -per quanto informale- eviterebbe infatti l’affidamento diretto a una sola offerta (in house) senza possibilità di confronto sui costi e con il rischio molto alto di un danno erariale all’amministrazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATATENUITA' DEL FATTO/ Abusi edilizi, una volta si può. Restano in piedi però le sanzioni amministrative.
Gli effetti sulle costruzioni del decreto legislativo sulla depenalizzazione dei reati minori.

L'effetto del decreto legislativo sulla depenalizzazione, il 28/2015, in vigore dal 2 aprile, è di travolgere le sanzioni penali, previste dal Testo unico per l'edilizia. Si deve partire dall'articolo 44 del Dpr 380/2001, che prevede tre ipotesi delittuose.
La prima ipotesi è rappresentata dall'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire. La sanzione prevista è solo pecuniaria ed è dell'ammenda fino a 20.658 euro.
La seconda ipotesi è quella della esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l'ordine di sospensione: la sanzione prevista è dell'arresto fino a due anni congiunto all'ammenda da 10.328 a 103.290 euro.
La terza ipotesi, punita con l'arresto fino a due anni e l'ammenda da 30.986 a 103.290 euro, concerne il caso di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio. La stessa pena si applica anche nel caso di interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale, in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso. Il tipo e la quantità della sanzione rientrano nei livelli soglia che consentono a un colpevole non abituale di sottrarsi dalla sanzione penale. Sui requisiti della causa di proscioglimento il giudice avrà margine di manovra, valutando l'impatto dell'abuso. Non è detto che un grattacielo abusivo possa provocare un pregiudizio di particolare tenuità, mentre diversa potrebbe essere l'opinione rispetto alla chiusura di una veranda.
Lo stesso articolo 44 del Testo unico per l'edilizia contiene, però, la clausola di salvezza delle sanzioni amministrative. Questo significa che l'immobile abusivo potrà sempre essere demolito per ordine del dirigente dell'ufficio tecnico comunale, in quanto le sanzioni amministrative viaggiano in parallelo e non sono travolte dalla speciale causa di non punibilità (fatto tenue in seguito a condotta non abituale). D'altra parte se non ci fosse la sanzione amministrativa, non si potrebbe arrivare alla demolizione dell'opera abusiva.
In effetti il decreto legislativo sulla depenalizzazione trascina un altro effetto e cioè travolge un comma dell'articolo 31 del Testo unico per l'edilizia. Questo articolo prevede che per le opere abusive in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato, deve ordinare la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita. Se, in virtù, del decreto legislativo 28/2015 non si arriva a una sentenza di condanna (la sentenza è, infatti, di proscioglimento), allora il giudice penale non ha più la possibilità di applicare la accessoria sanzione della demolizione.
Questo significa che tutto rimane nelle mani dell'ufficio tecnico comunale, che deve provvedere ad adottare l'ordinanza di demolizione e poi eseguirla. Peraltro il comune non potrà esimersi dall'inviare in procura la notizia di reato sull'abuso edilizio. Il comune non ha competenza a stabilire se un fatto rientra o meno nei presupposti della norma sul fatto tenue e non abituale.
La musica non cambia con i reati previsti per le opere in cemento armato (articoli da 71 a 75 del testo unico per l'edilizia).
La depenalizzazione di fatto opera per i lavori abusivi (articolo 71), che è punito con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda da 103 a 1032 euro; così anche per chi produce in serie manufatti in conglomerato armato normale o precompresso o manufatti complessi in metalli senza osservare l'obbligo di comunicazione al ministero delle infrastrutture (pena dell'arresto fino a un anno, o dell'ammenda da 1032 a 10329 euro).
Anche l'omessa denuncia dei lavori in cemento armato (arresto fino a tre mesi o l'ammenda da 103 a 1032 euro) e le contravvenzioni del direttore dei lavori (ammenda da 41 a 206 euro) e del collaudatore (ammenda da 51 a 516 euro) fruiscono del salvacondotto della non punibilità del fatto tenue e non abituale.
L'imprenditore, poi, che consenta l'utilizzazione delle costruzioni prima del rilascio del certificato di collaudo andrebbe incontro all'arresto fino a un mese o all'ammenda da 103 a 1.032 euro, ma la non punibilità del fatto tenue ci sta anche in questa ipotesi.
Anche la zona sismica subisce la scossa del decreto 28/2015, la violazione delle prescrizioni ad hoc previste dal testo unico per l'edilizia è punita con sanzione abbondantemente sotto soglia (ammenda da euro 206 a euro 10.329).
Lo stesso può ripetersi per le sanzioni a tutela del paesaggio. L'articolo di riferimento è il 181 del dlgs 42/2004, che punisce le opere eseguite in assenza di autorizzazione o in difformità da essa, che, innanzi tutto, punisce chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici è punito con le sanzioni previste dall'articolo 44 del T.u. Edilizia (assoggettato alla tagliola del decreto legislativo 28/2015).
Ma il beneficio si applica anche ai casi puniti con la reclusione da uno a quattro anni e cioè abusi che ricadono su immobili a aree dichiarati di notevole interesse pubblico o che hanno comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a 750 metri cubi, oppure ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi.
Anche per questi reati il proscioglimento per fatto tenue non abituale travolge la possibilità per il giudice penale di ordinare la rimessione in pristino dello stato dei luoghi. Ma rimangono ferme le sanzioni amministrative.
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Porte dell'impunità nelle mani dei giudici.
Il decreto legislativo 28/2015, in vigore dal 02.04.2015, introduce la non punibilità dei reati che provocano un'offesa di particolare tenuità, quando, contemporaneamente, il comportamento del colpevole risulta non abituale.
Siamo di fronte a una «depenalizzazione» di fatto, che riguarda tutti i reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni o con la pena pecuniaria, sola o congiunta alla pena detentiva.
Le relazioni di accompagnamento al decreto e, in particolare, l'analisi dell'impatto della regolamentazione evidenzia l'ambito di applicazione. La novità riguarderà tutte le contravvenzioni e molti delitti.
Non vi sono materie o ambiti esclusi a priori.
Non basta, però, solo il requisito della soglia di sanzione, in quanto il magistrato dovrà valutare due elementi: la tenuità dell'offesa e la non abitualità della condotta. Se il Pubblico ministero accerta i requisiti dovrà chiedere l'archiviazione e, comunque, se il processo va avanti sarà il giudice a dover verificare la speciale causa di non punibilità. La persona offesa potrà, comunque, chiedere il risarcimento del danno in sede civile.
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Ambiente sotto lo scacco della non punibilità.
Cala la ghigliottina della non punibilità del fatto tenue e non abituale per l'abbandono di rifiuti (articolo 255 del dlgs 152/2006), punito, in caso di non ottemperanza dell'ordine del sindaco di rimozione dei rifiuti abbandonati (arresto fino a un anno).
Della non punibilità potrà beneficiare chi abusivamente compie attività di gestione di rifiuti non autorizzata (articolo 256 del dlgs 152/2006) e per la realizzazione o gestione di una discarica non autorizzata. L'ipotesi base di combustione illecita di rifiuti rientra nella soglia dell'agevolazione: l'articolo 256-bis del dlgs 152/2006 punisce con la reclusione da due a cinque anni chiunque appicca il fuoco a rifiuti abbandonati ovvero depositati in maniera incontrollata.
L'omessa bonifica dei siti inquinati (articolo 257) sarebbe punito con la pena dell'arresto da sei mesi a un anno o con l'ammenda da 2.600 euro a 26 mila euro, ma il decreto 28/2015 offre una chance per la non punibilità. Lo stesso vale per il traffico illecito di rifiuti (articolo 259 del dlgs 152/2006), che punisce chiunque effettua una spedizione di rifiuti costituente traffico illecito, o effettua una spedizione di rifiuti (articolo ItaliaOggi Sette del 05.04.2015).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia, Durc a validità ridotta. Lavori privati: la scadenza è di 90 giorni dall'emissione. Panoramica di obblighi e sanzioni per chi è tenuto al documento di regolarità contributiva.
Dal 01.01.2015, nei lavori di edilizia privata, la validità del Durc è di 90 giorni (si veda ItaliaOggi del 16/1 e del 18/3).

È quanto afferma il Ministero del lavoro nella nota 05.03.2015 n. 3899 di prot. con la quale ha chiarito che il periodo transitorio previsto dall'art. 31, comma 8-sexies della legge n. 98/2013 (che estendeva la validità del documento fino a 120 giorni dalla data di emissione) è terminato il 31/12/2014.
Il Durc è il certificato che, sulla base di un'unica richiesta, attesta contestualmente la regolarità di un operatore economico per quanto concerne gli adempimenti degli obblighi legislativi e contrattuali nei confronti dell'Inps, dell'Inail e (con riguardo alle sole imprese appartenenti al settore) della Cassa edile.
Questo certificato, oltre che per l'assegnazione di appalti pubblici, è necessario anche per l'esecuzione di appalti privati nel settore dell'edilizia. Più precisamente l'art. 90, comma 9 del dlgs n. 81/2008 (TuSic) prevede, all'interno dei cantieri temporanei e mobili di appalti pubblici e privati, che il committente o il responsabile dei lavori, anche nel caso di affidamento dei lavori ad un'unica impresa o ad un lavoratore autonomo debba, fra l'altro:
a) verificare l'idoneità tecnico-professionale delle imprese affidatarie, delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi per mezzo dell'acquisizione del relativo Durc nel quale si evidenzi la regolarità contributiva dell'operatore economico;
b) trasmettere all'amministrazione concedente, prima dell'inizio dei lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività il Durc delle imprese e dei lavoratori autonomi. A quest'ultimo riguardo, in relazione all'intervenuta generalizzazione dell'obbligo di acquisizione d'ufficio di questo certificato da parte di tutte le p.a., è l'amministrazione concedente oggi che, ha l'onere di acquisire d'ufficio il Durc delle imprese impegnate nel cantiere (cfr. Inps circ. n. 98/2012).
A proposito dei soggetti da sottoporre a verifica, ma anche con specifico riferimento alle fasi dell'attività nei cantieri temporanei e mobili nelle quali è necessario acquisire/presentare il Durc, la Commissione nazionale paritetica per le casse edili (Cnce) ha chiarito che:
• L'obbligo di presentazione del Durc riguarda tutte le imprese presenti ed operanti nel cantiere, comprese, naturalmente, le imprese subappaltatrici, quelle di fornitura con posa in opera (o con nolo a caldo);
• il Durc dell'impresa che interviene nel cantiere dovrà essere rilasciato e presentato prima che essa inizi la propria attività o la fase dei lavori affidatale;
• è necessario soltanto all'atto iniziale dell'avvio dei lavori (e non anche per gli eventuali pagamenti intermedi ovvero per la conclusione dei lavori), salvo quanto previsto da talune legislazioni regionali in materia.
Violazione degli obblighi. In caso di violazione dell'obbligo di verifica previsto dall'art. 90, comma 9, lett. a), è prevista la sanzione dell'arresto da 2 a 4 mesi o l'ammenda da 1.106,19 a 5.309,73 euro. Poiché si tratta, tuttavia, di un reato di tipo contravvenzionale, esso può essere estinto mediante l'ottemperanza del trasgressore al provvedimento di prescrizione obbligatoria impartito dal personale ispettivo e col pagamento, entro 30 giorni, di una sanzione amministrativa pari a un quarto del massimo dell'ammenda stabilita per la contravvenzione.
L'indicazione testuale dell'art. 90, comma 9, lett. c), del TuSic prevede tutt'ora l'obbligo di trasmettere all'amministrazione concedente, prima dell'inizio dei lavori, il Durc delle imprese e dei lavoratori autonomi impegnati negli appalti di lavori edili oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività pena l'applicazione della sanzione amministrativa da 548,00 a 1.972.80 euro.
Come detto, tuttavia, con l'entrata in vigore della legge n. 35/2012, questa disposizione deve ormai ritenersi implicitamente modificata col trasferimento dell'onere di acquisizione d'ufficio del certificato direttamente in capo all'amministrazione concedente. Conseguentemente si ritiene che adesso questa sanzione non sia più contestabile al committente o al responsabile dei lavori.
Validità del Durc. Originariamente non era prevista in una norma primaria la validità temporale del Durc. Difatti gli unici riferimenti al riguardo erano rinvenibili nelle fonti di secondo livello, nella prassi amministrativa ed nella giurisprudenza amministrativa.
A fronte di questa perdurante incertezza riguardante un aspetto cruciale, è stato accolto con estremo favore l'intervento del legislatore che, nell'art. 31, comma 5, della legge n. 98/2013, ha chiarito finalmente che, in linea generale, il Durc vale 120 giorni dalla data di rilascio. La stessa norma, nell'estendere la durata quadrimestrale anche al certificato emesso per i lavori edili svolti dai soggetti privati, ha inspiegabilmente previsto, tuttavia, che in questo specifico ambito il prolungamento di validità fosse temporalmente limitato al 31/12/2014.
Conseguentemente, come ha chiarito anche l'Inps col messaggio n. 1894 del 16/03/2015, per i lavori di edilizia privata dal 01.01.2015 è stata ripristinata la validità trimestrale del Durc (cfr. art. 7 del dm 24/10/2007).
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Lavori in economia esenti.
Il dlgs n. 106/2009, modificando l'originario testo dell'art. 90, comma 9, del dlgs n. 81/2008, aveva espunto l'inciso «L'obbligo di cui al periodo che precede sussiste anche in caso di lavori eseguiti in economia mediante affidamento delle singole lavorazioni a lavoratori autonomi, ovvero di lavori realizzati direttamente con proprio personale dipendente senza ricorso all'appalto».
Alcuni dubbi, tuttavia, permanevano sulla sussistenza dell'obbligo di verifica della regolarità contributiva per tali lavori. È per questa ragione che il legislatore è nuovamente intervenuto per mezzo dell'art. 31, comma 1-bis, del dl n. 69/2013 col quale ha definitivamente chiarito che, in caso di lavori privati di manutenzione in edilizia realizzati senza ricorso a imprese direttamente in economia dal proprietario dell'immobile, non sussiste l'obbligo di richiesta del Durc.
Si sottolinea che nella generica definizione di «impresa» rientrano anche le imprese artigiane costituite dall'unico titolare. Pertanto, affinché il proprietario dell'immobile possa considerarsi esentato dall'obbligo in parola dovrà fare esclusivamente ricorso a maestranze assunte direttamente o a lavoratori autonomi (senza la presenza quindi di alcun tipo di impresa).
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Tempi azzerati con la smaterializzazione.
L'art. 4 della legge n. 78/2014 prevede che chiunque vi abbia interesse possa verificare «con modalità esclusivamente telematiche» e «in tempo reale» le condizioni di regolarità contributiva di un'impresa. Questa novità è, tuttavia, subordinata all'entrata in vigore di un apposito decreto del Ministero del lavoro col quale saranno definiti i requisiti di regolarità, i contenuti e le modalità della verifica nonché le ipotesi di esclusione.
L'effetto di questa smaterializzazione del Durc farà sì che, a regime, i tempi di verifica della regolarità contributiva verranno praticamente azzerati. Con l'occasione, come preannunciato anche nella nota ministeriale del 5 marzo u.s., verrà conseguentemente riesaminata la questione della scadenza del certificato.
Alcune perplessità, tuttavia, sorgono circa l'operatività in tempi brevi di questa auspicata novità poiché è stato previsto che la piena integrazione delle banche dati degli istituti, con conseguente riconoscimento reciproco delle informazioni disponibili, avvenga senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica (articolo ItaliaOggi Sette del 05.04.2015).

APPALTI FORNITUREP.a., prodotti sempre più verdi. Premiate le aziende virtuose anche per l'alto riciclo. Il ministero dell'ambiente detta nuove regole per gli acquisti delle amministrazioni.
Pubblica amministrazione sempre più esigente in termini di eco-qualità nell'acquisto di beni necessari al soddisfacimento dei propri bisogni. Anche nella scelta di panchine, fioriere, tavoli, attrezzature per parchi gioco, transenne, bagni chimici, accessori per piste ciclabili, dissuasori di sosta e rallentatori di traffico dovrà affidarsi a fornitori che promettono i più alti standard ambientali in termini di impiego di materiali riciclati, utilizzo sostenibile del legno da foreste, assenza di sostanze pericolose.

Con l'adozione da parte del Minambiente del nuovo decreto 05.02.2015 (G.U. del 02 marzo, n. 50) recante i criteri ambientali minimi per l'acquisto di articoli per l'arredo urbano si allarga infatti il novero dei prodotti che dovranno avere elevata eco-compatibilità per diventare appetibili nelle gare ad evidenza pubblica.
I nuovi standard. Per tutti i citati articoli, rientranti nella categoria «Servizi urbani e al territorio» il nuovo dm Ambiente impone, salvo rare eccezioni, una composizione di materiale riciclato di gomma, plastica, legno (imballaggi compresi) che si attesta sul 50%, da dimostrare mediante idonee certificazioni ambientali, tra le quali posto principe occupano l'internazionale Iso e l'europea Ecolabel, a fianco di altre dichiarazioni e marchi di settore rilasciati sulla base di verifiche terze condotte da organismi riconosciuti.
Il dm 05.02.2015 richiama inoltre appaltanti ed appaltatori al rispetto dell'ultima normativa ambientale applicabile ai prodotti in questione: è il caso, in relazione ai materiali riciclati, degli standard di qualità imposti dal regolamento 333/2011/Ue per poter considerare rottami di ferro, acciaio e alluminio usciti da un processo di recupero come veri e propri beni in luogo di rifiuti («end of waste»).
In relazione al legno, il ministero richiama l'attenzione sulla disciplina prevista dal regolamento Ue n. 995/2010 per il contrasto al disboscamento illegale, disciplina che obbliga i soggetti coinvolti nella filiera (dietro minaccia delle sanzioni previste dal recente dlgs 178/2014) a verificare, tracciare e documentare la provenienza lecita del materiale.
Per coloranti e altri additivi presenti nei beni candidati (tra cui figurano anche porta biciclette, pavimentazioni antitrauma e steccati) i limiti sono per il dicastero quelli previsti dal regolamento Ue n. 1907/2006 sul controllo dell'impiego di sostanze chimiche ad alto rischio (c.d. normativa «Reach», da ultimo rinnovata dal Regolamento 2015/326/Ue).
In base al nuovo dm 05.02.2015 un punteggio premiante dovrà inoltre essere assegnato dalla pubblica amministrazione a quelle offerte di beni che, oltre a rispondere ai suddetti standard di base, garantiranno una composizione di materiale riciclato in maggiore percentuale rispetto al peso complessivo del manufatto (dunque, oltre il 50%).
L'attuale contesto normativo. Il dm Ambiente 05.02.2015 si inserisce nel quadro giuridico nazionale sugli acquisti eco-compatibili da parte della pubblica amministrazione, composto dalla disciplina sugli appalti pubblici (dlgs 163/2006 e dpr 207/2010), dalla legge istitutiva del cosiddetto «Green public procurement» (legge 296/2006) e dall'insieme delle altre norme che impongono specifici rifornimenti verdi alla p.a. (come il dlgs 24/2011 sugli autoveicoli e il dm 203/2003 sulle quote minime di prodotti ottenuti da materiale riciclato).
In particolare, il decreto legislativo 163/2006 obbliga a monte la p.a. di fondare «ogniqualvolta sia possibile» le gare pubbliche su criteri ambientali, criteri stabiliti a livello generale dal dm Ambiente 11.04.2008 (come rinnovato dal dm 10.04.2013) e poi declinati sulle singole categorie merceologiche dai regolamenti ministeriali adottati sulla base della citata legge 296/2006.
È tra questi regolamenti che trova collocazione il nuovo dm Ambiente 05.02.2015, seguendo quanto già dettato dal decreto 21.07.2014 per lampade e impianti di illuminazione pubblica, dal decreto 13.02.2014 per servizi di gestione di rifiuti urbani (compresa l'acquisizione di cassonetti per raccolta differenziata e campane per vetro) e per la fornitura di cartucce toner ed a getto di inchiostro per uffici, dal decreto 13.12.2013 per gli ammendanti del terreno.
Il restyling in arrivo. Sebbene una corsia preferenziale nelle gare a evidenza pubblica sia per i beni verdi già tracciata dall'attuale normativa nazionale, una vera e propria autostrada sarà agli eco-prodotti dedicata dalle future norme di recepimento delle direttive 2014/24/Ue e 2014/25/Ue sugli appalti pubblici, da tradurre sul piano interno entro il 18.04.2016.
Le norme comunitarie in corso di recepimento (tramite un decreto legislativo di riordino della normativa generale, come previsto dal relativo disegno di legge governativo già dal 25.03.2015 all'esame delle commissioni del Senato come AS 1678) mettono infatti al centro delle scelte della p.a. il criterio principe di aggiudicazione costituito dall'«offerta economicamente più vantaggiosa» (per l'Ue da preferirsi a quello fondato sull'offerta più bassa), fondandolo su un rapporto «costo/efficacia» che ruota intorno al «costo del ciclo di vita».
Ne discenderà per la pubblica amministrazione nazionale un rafforzamento dell'obbligo (già previsto dal citato dm 10.04.2013 in relazione alle gare fondate sul criterio dell'economicità) di effettuare le proprie scelte in base ai costi sostenuti per acquisizione, utilizzo, manutenzione e gestione a fine vita dei beni, compresi quelli relativi alle «esternalità ambientali» (come quelli a carico della collettività per attenuare le emissioni di gas inquinanti e contrastare i cambiamenti climatici).
Il tutto utilizzando i «metodi comuni di calcolo» previsti dalla stessa Ue, tra i quali già figurano quelli previsti dalla raccomandazione 2013/179/Ue (recante metodologie comuni per misurare le prestazioni ambientali nel corso del ciclo di vita dei prodotti e delle organizzazioni) che costituiscono già oggi per le aziende un utile punto strumento per essere maggiormente competitive negli appalti pubblici (articolo ItaliaOggi Sette del 05.04.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Sul sindaco-vigile onori ed oneri.
L'intraprendente sindaco di un piccolo comune senza forze di polizia avendo la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria può anche fare le multe e usare l'autovelox. Ma dovrà fermare gli automobilisti e contestare le infrazioni. E intervenire in caso di incidenti con metro e cordella.

Lo ha chiarito il ministero dei trasporti in risposta a una specifica richiesta della regione Piemonte con il parere n. 1039/2015.
A parere dell'organo tecnico centrale nulla osta all'espletamento dei servizi di polizia stradale da parte del primo cittadino munito della qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 57 cpp. Ovvero nel caso in cui nel piccolo comune manchi qualsiasi ufficio di polizia. In tal caso il sindaco, ai sensi degli articoli 11 e 12 del codice stradale, può anche svolgere funzioni di polizia stradale. Sia per accertare infrazioni che per rilevare incidenti.
Per l'impiego degli autovelox però il comune dovrà avere a disposizione strumentazione di proprietà o a noleggio. E il sindaco vigile dovrà poi procedere alla contestazione immediata delle infrazioni accertate perché non è possibile dotare un piccolo comune senza vigili di strumenti automatici, prosegue il ministero.
Sul fronte dei rilievi dei sinistri stradali poi le cose si complicano ulteriormente. Il sindaco sceriffo secondo il ministero avrebbe anche l'obbligo di intervenire in caso di incidente stradale. Configurandosi un ipotesi penale di omissione in caso di mancato intervento, laddove richiesto (articolo ItaliaOggi del 04.04.2015).

PUBBLICO IMPIEGOP.a., la mobilità scalda i motori. Ecco le tabelle di equiparazione. Proteste dei sindacati. Presentato il dpcm. Le sigle temono riduzioni salariali e annunciano battaglia.
Pronte le tabelle per agevolare la mobilità nella p.a. Nella riunione di ieri tra il ministro della funzione pubblica Marianna Madia e i sindacati è stato finalmente squarciato il velo su un tassello fondamentale per lanciare la mobilità intercompartimentale, con la distribuzione della bozza di dpcm che propone l'equiparazione.
Il provvedimento sarà utilissimo per accelerare, per esempio, i trasferimenti dei dipendenti in sovrannumero delle province verso il ministero della giustizia, in applicazione del famoso bando per 1031 posti. Ma i sindacati già annunciano battaglia.
«La nostra risposta sarà dura», promettono in una nota congiunta i segretari generali del pubblico impiego Rossana Dettori (Fp-Cgil), Giovanni Faverin (Cisl-Fp), Giovanni Torluccio (Uil-Fpl) e Benedetto Attili (Uil-Pa), secondo cui le tabelle di equiparazione determinerebbero «
una perdita salariale secca decisa d'ufficio e un salto all'indietro sui percorsi professionali».
Mentre per la Confsal (il quarto sindacato del pubblico impiego) «si tratta solo di tabelle tecniche senz'anima. Senza cioè un piano politico, un'adeguata copertura finanziaria sul trattamento accessorio e un programma di formazione e riqualificazione professionale per i dipendenti in mobilità».
Lo schema di dpcm non si estende all'armonizzazione dei compensi, sia perché l'applicazione del dpcm non deve comportare maggiori oneri per la finanza pubblica, sia perché, comunque, la retribuzione resta materia riservata alla contrattazione collettiva.
Insomma, non potrà esservi alcuna «promozione» né stipendiale, né giuridica. L'articolo 2, comma 1, dello schema di dpcm sul punto è chiaro: all'atto dell'assunzione del dipendente per mobilità, l'amministrazione che lo assume applica la tabella «tenendo conto delle mansioni, dei compiti, delle responsabilità e dei titoli di accesso relativi alle qualifiche e ai profili professionali».
Qualora la progressione economica orizzontale di un dipendente lo porti a una retribuzione superiore alla prima posizione economica della categoria di inquadramento superiore, questo non potrà determinare una progressione verticale.
Nel caso della mobilità volontaria, a seguito dell'iscrizione del dipendente nel ruolo dell'amministrazione di destinazione (cioè, a seguito dell'assunzione), per effetto dell'articolo 30, comma 2-quinquies del dlgs 165/2001 «al dipendente trasferito per mobilità si applica esclusivamente il trattamento giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi vigenti nel comparto della stessa amministrazione».
Qualora, invece, la mobilità non sia volontaria (come nel caso dei soprannumero delle province) i dipendenti trasferiti mediante mobilità, manterranno il trattamento economico fondamentale e accessorio, se più favorevole rispetto a quello dell'ente di destinazione, limitatamente però alle voci fisse e continuative. Il dpcm non specifica quali siano tali voci e si porrà quindi il problema di individuarle. Per esempio, pare non rientri tra le voci accessorie che il dipendente può conservare, l'eventuale retribuzione di posizione e risultato derivante dall'attribuzione, nell'ente di provenienza, dell'incarico nell'area delle posizioni organizzative.
Il silenzio del governo sul salario accessorio è la maggiore fonte di preoccupazione per i sindacati. «Il salario accessorio serve a sostenere la produttività», osservano Cgil, Cisl e Uil. «Così facendo il governo fa carta straccia di tutti quei meccanismi che in questi anni hanno messo in moto le responsabilità dei lavoratori, gli obiettivi di servizio e le innovazioni organizzative, facendo risparmiare le amministrazioni». «Il salario accessorio vale oggi dal 20% al 40% del trattamento economico dei lavoratori», osservano, «ed è il primo elemento di qualità nei servizi pubblici».
Se il trattamento economico del dipendente trasferito dovesse risultare superiore a quello vigente nell'ente di destinazione, il surplus sarà considerato come assegno ad personam, riassorbibile con i successivi miglioramenti economici a qualsiasi titolo conseguiti. I dipendenti transitati per mobilità non volontaria, comunque, potranno optare per il mantenimento dell'inquadramento e trattamento previdenziale di provenienza. Due princìpi (l'assegno ad personam e la facoltà di optare per il regime previdenziale di provenienza) difesi dal ministro Madia. «A chi verrà chiesto di valorizzare la propria professionalità in una diversa amministrazione non sarà tolto neanche un euro di stipendio o di pensione», promette il ministro.
Nel caso dei dipendenti delle province, comunque, difficilmente si verificherà l'ipotesi di un trattamento economico superiore a quello dell'ente di destinazione, perché mediamente i compensi sono più bassi, in particolare rispetto al comparto dei ministeri, che probabilmente sarà quello maggiormente interessato dalla migrazione dei 20.000 in sovrannumero, al netto dei 7.500 dipendenti provinciali che paiono destinati all'Agenzia per l'occupazione se e quando sarà costituita.
Con la presentazione delle tabelle ai sindacati, ha preso il via l'iter del dpcm atteso in conferenza stato-regioni il 16 aprile. Nel frattempo, i sindacati dovranno far pervenire al governo un parere sui criteri di equiparazione entro il 9 aprile. Una «mission impossible», fanno notare, «considerato che di mezzo ci sono le festività pasquali». E c'è già chi ritiene «non casuale» che le tabelle siano state illustrate proprio a ridosso di Pasqua.
Le organizzazioni rappresentative del pubblico impiego chiedono, anzi, «pretendono» un tavolo di confronto con il governo. Ma il ministro Madia manda loro un avvertimento: sì ai contributi critici, no alle battaglie ideologiche. «Abbiamo chiesto ai sindacati un contributo su uno strumento tecnico. Le strade sono due: o vogliono aiutarci nel merito prima dell'adozione definitiva del provvedimento oppure vogliono proseguire in una battaglia ideologica proprio alla vigilia di una grande operazione di mobilità come quella delle province?» (articolo ItaliaOggi del 03.04.2015 - tratto da http://rstampa.pubblica.istruzione.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMobilità, questione per pochi. Nulla osta solo per i lavoratori provinciali in esubero. La nota della funzione pubblica sulla legge Delrio prova a fare chiarezza ma complica le cose.
Mobilità, nulla osta solo per i dipendenti provinciali dichiarati in sovrannumero.

La nota 27.03.2015 n. 20506 di prot. diffusa il 31 marzo dal dipartimento della funzione pubblica in risposta a una serie di quesiti posti da Anci, Upi e Conferenza delle regioni, di certo non aiuta a districare l'estrema confusione che attanaglia la riforma delle province, ma è utile per chiarire un elemento equivoco della circolare 1/2015, quello relativo appunto alla mobilità.
La circolare afferma che «fintanto che non sarà implementata la piattaforma di incontro di domanda e offerta di mobilità presso il Dipartimento della funzione pubblica, è consentito alle amministrazioni pubbliche indire bandi di procedure di mobilità volontaria riservate esclusivamente al personale di ruolo degli enti di area vasta».
Tantissime amministrazioni, comprese le province, soffermandosi sulle ultime parole, hanno ritenuto che, allora, la «mobilità riservata» riguardasse tutti i dipendenti provinciali, a prescindere dalla loro collocazione in sovrannumero.
La nota di Palazzo Vidoni precisa, invece: «Tale facoltà è stata riconosciuta alle amministrazioni al fine di favorire il riassorbimento del personale dichiarato in soprannumero, in coerenza con la ratio delle disposizioni della legge di stabilità».
Ed è evidente: la combinazione dei commi 421, 424 e 425, dell'articolo 1 della legge 190/2014 rivela senza alcun'ombra di dubbio che i processi di ricollocazione riguardano solo e soltanto i dipendenti in sovrannumero.
Peraltro, le assunzioni non rivolte ai dipendenti in sovrannumero sono passibili della nullità comminata dai citati commi appunto alle assunzioni difformi dalle loro previsioni.
Si può obiettare che la nota non ha dignità di circolare o, comunque, di fonte di diritto, per quanto possa apparire una sorta di interpretazione autentica della circolare 1/2015. In realtà, in molti punti la nota non fa altro se non ribadire ciò che è ovvio, come quando ricorda che nell'inerzia delle regioni, le province possono adottare gli elenchi degli esuberi in modo autonomo. Non solo le province possono, ma in realtà debbono, perché comunque il 31/12/2016, data al decorrere della quale se i dipendenti non sono ricollocati vanno in disponibilità, si avvicina.
La nota si insinua, comunque, come ulteriore fonte aprocrifa del diritto, creando ulteriori stratificazioni a interpretazioni sulla legge 190/2014, che si rivela sempre più un rebus, aggiungendosi alle contrastanti opinioni proprio sulla mobilità espresse da ben quattro sezioni della Corte dei conti.
Poiché la nota del dipartimento guidato da Marianna Madia risponde a una giusta esigenza di fare un minimo di chiarezza in una disciplina complicatissima e contorta, come quella introdotta dalla legge di stabilità 2015, sarebbe allora molto più opportuno che interpretazioni autentiche o, comunque, correttivi alle disposizioni giungessero per via normativa.
Così da evitare che pareri, circolari, note, spuntino come funghi ogni giorno a rendere ancora più caotica la situazione (articolo ItaliaOggi del 03.04.2015).

TRIBUTIEdifici rurali: tocca al contribuente chiedere la modifica dell'accatastamento.
Le agevolazioni ICI riconosciute soltanto ai fabbricati rurali iscritti nella categoria A/6 e D/10.

Per il riconoscimento della ruralità degli immobili agli effetti dell'ICI è necessaria la classificazione nelle categorie catastali A/6 (fabbricati ad uso abitativo) e D/10 (fabbricati ad uso strumentale all'esercizio dell'attività agricola).
Qualora invece il fabbricato sia censito ... (articolo Il Sole 24 Ore - Agrisole del 03.04.2015 - tratto da www.fiscooggi.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMobilità, arrivano le tabelle. Scontro Governo-sindacati. Pubblico impiego. Le regole per i passaggi fra comparti diversi.
Il dipendente pubblico che cambierà comparto con la mobilità obbligatoria manterrà il trattamento economico fondamentale e accessorio «mediante assegno ad personam riassorbibile, nei casi in cui sia individuata la copertura finanziaria, anche a valere sulle facoltà assunzionali».
È stata questa frase, contenuta nella bozza di decreto con le tabelle di equiparazione per avviare la mobilità fra un settore e l’altro della pubblica amministrazione, ad accendere ieri lo scontro fra Governo e sindacati.
«Il Governo propone tagli al salario d’ufficio, e sulle professionalità si torna indietro di vent’anni: la nostra risposta sarà dura», gridano i sindacati confederali in un comunicato congiunto scritto dopo l’incontro tecnico di ieri mattina alla Funzione pubblica. «Le tabelle –ha replicato a stretto giro il ministro della Pa e della semplificazione Marianna Madia– servono a guidare con maggiori certezze per i lavoratori il processo della mobilità, che già esiste e che non ha mai funzionato in maniera efficace». Per i sindacati, secondo il ministro, le strade sono due: «Vogliono aiutarci con i loro contributi puntuali e di merito prima dell’adozione definitiva del provvedimento oppure vogliono proseguire in una battaglia ideologica proprio alla vigilia di una grande operazione di mobilità come quella delle Province?».
La questione, oltre a essere delicata perché riguarda le buste paga, è complessa, e prima di arrivare a conclusioni merita quindi di essere analizzata. Lo schema di Dpcm presentato ieri, previsto dalla riforma Brunetta, riguarda tutta la pubblica amministrazione, ma è stato rilanciato dal decreto Madia dell’anno scorso e diventa fondamentale ora per avviare la mobilità dalle Province alleggerite di funzioni per la riforma Delrio. Per regolare i passaggi fra enti pubblici caratterizzati da contratti diversi servono appunto le tabelle di equiparazione, che leggono l’inquadramento di provenienza del dipendente e lo traducono nella struttura dell’ufficio di destinazione.
Il meccanismo non è così automatico perché, spiega l’articolo 2 del decreto, nell’inquadramento del dipendente pubblico trasferito bisogna tenere conto anche «delle specifiche ed eventuali abilitazioni del profilo professionale di provenienza e di destinazione», con l’avvertenza che in ogni caso le vecchie progressioni economiche non possono spingere il dipendente verso posizioni caratterizzate «da un più elevato inquadramento giuridico iniziale».
Le tabelle, in quanto «strumento di corrispondenza tra i livelli economici di inquadramento», sono in ogni caso l’architrave del sistema, e la garanzia dei livelli retributivi per chi si sposta sono il cuore dell’operazione. Sul punto, il provvedimento spiega che nella mobilità volontaria si applicano le regole del Testo unico in base alle quali il trattamento economico è quello previsto nella Pa di destinazione (articolo 30, comma 2-quinquies del Dlgs 165/2001), mentre negli altri casi i dipendenti trasferiti mantengono «il trattamento fondamentale e accessorio ove più favorevole, limitatamente alle voci fisse e continuative».
Questa garanzia, che esclude premi e altre voci variabili di anno in anno, scatterebbe però nei limiti della copertura finanziaria presente nella Pa di destinazione: attenzione, però, nei calcoli per la copertura entrerebbero anche «le facoltà assunzionali». Dal momento che in questa fase il turn-over, comunque limitato, ha una corsia preferenziale per gli ex provinciali, nelle intenzioni governative il paracadute sarebbe completo.
Così concepito, il meccanismo si allontana dal cosidetto “zainetto” previsto dalla riforma Delrio, secondo cui per i dipendenti in mobilità dalle Province «le corrispondenti risorse sono trasferite all’ente destinatario». La spiegazione arriva dalla nota diffusa nei giorni scorsi dalla stessa Funzione pubblica, in cui si spiega che anche alla luce dei tagli miliardari chiesti agli enti di area vasta dalla manovra, «il trasferimento di personale non comporta trasferimento di risorse finanziarie».
Il nuovo provvedimento si differenzia però dalla legge Delrio anche in un altro punto, con cui si aggiunge la facoltà per i dipendenti trasferiti di mantenere il trattamento previdenziale di provenienza.
I sindacati contestano poi anche il meccanismo dell’assegno ad personam che ospiterebbe i vecchi trattamenti se più favorevoli e sarebbe «riassorbibile con i successivi miglioramenti economici conseguiti a qualsiasi titolo», perché per gli interessati si tradurrebbe in un nuovo stop pluriennale agli stipendi.
Dopo il passaggio di ieri, il provvedimento è atteso ora alla Conferenza unificata, dove potrebbe approdare il 16 aprile per il parere: ma i sindacati minacciano «battaglia» se non ci sarà «un vero tavolo di confronto»
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.04.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIncarichi a termine per i dirigenti della Pa. Primo voto al Senato sulla delega - Madia: riforma per semplificare la vita a 60 milioni di cittadini.
Dal taglio delle partecipate e delle Prefetture alla riduzione delle Camere di commercio e alle nuove regole per i concorsi pubblici.
Il testo della delega Pa approda in aula al Senato per il primo sì in una versione ampiamente rivisitata dalla Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama. Che ha anche rafforzato i poteri del premier (a cominciare da quelli di controllo sulle agenzie fiscali e sulle nomine delle società pubbliche), ha aperto la strada alla riduzione da 5 a 4 dei Corpi di polizia e ha stabilito che la responsabilità gestionale per l’attività amministrativa sarà esclusivamente a carico dei dirigenti pubblici.
Ieri l’ultima votazione della Commissione è stata sull’articolo 10 del Ddl, quello che delega il Governo a varare una complessa riforma proprio della dirigenza. Un solo ruolo, niente più fasce, incarichi di massimo tre anni rinnovabili una sola volta, superamento degli automatismi di carriera e tetti agli stipendi.
Novità anche sull’accesso (il concorso non basterà più, bisognerà superare un’ulteriore prova dopo tre anni per avere il contratto definitivo) e sull’uscita: chi non riceve incarichi dopo un certo periodo sarà licenziabile. Per la Scuola nazionale dell’Amministrazione si profila una trasformazione della natura giuridica («diventerà una sorta di Autorità indipendente» ha spiegato il relatore Giorgio Pagliari).
Mentre per i segretari comunali e provinciali arriva la cancellazione dell’albo con una fase transitoria: in sede di prima applicazione, per tre anni, le funzioni di controllo di legalità e coordinamento dell’azione amministrativa verranno affidate proprio ai dirigenti del ruolo unico provenienti dall’albo soppresso. Sul pubblico impiego è stato anche approvato un emendamento che era rimasto accantonato con cui si delega il Governo a prevedere «tipologie di lavoro flessibile compatibili con il rapporto di lavoro con la Pa» (i co.co.co saranno cancellati nel 2017).
Il disegno di legge contiene 11 deleghe al Governo, tre delle quali per compilare altrettanti testi unici di aggiornamento delle norme che regolano le società partecipate, i servizi pubblici locali e il pubblico impiego. Ma non mancano norme subito operative come quella che riforma la regole sul “silenzio-assenso” tra le amministrazioni: in caso di contese su nulla osta e altri via libera, sarà il premier a decidere, dopo un passaggio in Cdm. O quella che introduce il termine di 18 mesi per le amministrazioni che dovessero decidere la procedura dell’autotutela con la sospensione di autorizzazioni che danno vantaggi economici ai beneficiari.
«I punti salienti della riforma -ha detto Pagliari- sono l’articolo 1 sulla cittadinanza digitale, che pone le premesse per un diverso rapporto tra i cittadini e le pubbliche amministrazioni e abbatte le barriere fisiche dell’accesso alla Pa, le norme sulle conferenze dei servizi e sul silenzio assenso che riguardano l’accelerazione dell’azione amministrativa perché danno tempi più certi, le norme sulla dirigenza e sull’impiego pubblico che ridefiniscono un profilo fondamentale per l’immagine stessa della Pa. Importante inoltre la previsione di una disciplina generale delle attività non assoggettate ad autorizzazione preventiva, che fa chiarezza su tutte le attività che possono iniziare con una semplice comunicazione dei privati e delle imprese».
Dopo sette mesi di discussione in Commissione già ieri sera s’è aperta la discussione generale sul testo in Aula e l’esame continuerà mercoledì prossimo (8 aprile) con termine per la presentazione degli emendamenti fissato alle 18. Soddisfatta la ministra Marianna Madia: «Non è una riforma di settore ma una riforma per il Paese, per 60 milioni di cittadini, volta a semplificare la loro vita»
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.04.2015 - articolo tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti in cura dimagrante. Meno stazioni appaltanti. Freno al massimo ribasso. Il pacchetto con la riscrittura del codice dei contratti in commissione al senato.
Divieto di affidamento al contraente generale della direzione lavori, ampio utilizzo del performance bond, istituzione di un albo nazionale dei commissari di gara gestito dall'Anac che, inoltre, avrà più ampi e incisivi poteri di regolazione; riduzione del numero delle stazioni appaltanti in ragione della loro qualificazione tecnico-professionale; divieto del massimo ribasso per i servizi intellettuali e utilizzo preferenziale del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.

Sono queste alcune delle ipotesi emendative presentate ieri in commissione ambiente e territorio al senato dal relatore del disegno di legge delega per il recepimento delle direttive appalti pubblici e per la riforma del codice dei contratti pubblici, Stefano Esposito, che saranno recepite in un nuovo testo del disegno di legge-delega.
Sempre ieri, infatti, la commissione ha incaricato lo stesso Esposito e l'altro relatore, Lionello Pagnoncelli, a redigere un nuovo testo, da sottoporre anche ai fini della successiva fissazione del termine per gli emendamenti, con l'obiettivo di licenziare il testo per l'aula entro l'ultima settimana di aprile.
Appare evidente come il testo del governo potrebbe uscirne fortemente revisionato anche alla luce del lungo e articolato ciclo di audizioni che ha evidenziato molte richieste di modifica un po' da tutti gli operatori del settore. Per questa ragione il relatore ha fatto circolare le ipotesi emendative che saranno oggetto del nuovo testo e fra i temi individuati vi è in primo luogo quello dell'organizzazione amministrativa.
In linea con l'orientamento del governo, la proposta sarebbe quella di indicare espressamente dei parametri attraverso i quali arrivare a una sensibile riduzione del numero delle stazioni appaltanti, legati ad esempio all'importo dei contratti e al numero degli abitanti di un determinato territorio.
Nell'ambito del rafforzamento dei poteri dell'Anac, un altro tema che tocca l'organizzazione amministrativa e sul quale anche le audizioni hanno evidenziato una generale conversione di orientamenti, è quello della qualificazione delle stazioni appaltanti; secondo l'ipotesi del relatore si dovrebbe immaginare un indice di qualificazione basato sulla loro effettiva capacità organizzativa e professionale, individuato dall'Anac.
Sempre l'Anac potrebbe poi gestire un'altra attività delicatissima quale è quella dei commissari di gara; in questo caso l'ipotesi sul tavolo sarebbe quella di istituire ex novo un albo nazionale dei componenti delle commissioni giudicatrici degli appalti, gestito dall'Autorità presieduta da Raffaele Cantone, «prevedendo specifici requisiti di moralità, di competenza e di professionalità e l'assegnazione mediante sorteggio alle varie commissioni».
All'Anac, nell'ambito del rafforzamento dei suoi poteri, è previsto che debbano essere affidati funzioni di regolazione più ampie e incisive e ciò soprattutto se il nuovo codice dei contratti pubblici, che recepirà le direttive europee, dovrà essere molto più snello dell'attuale con la conseguente previsione di un apparato di soft law che si immagina debba essere gestito dall'Anac. E anche sul fatto che si dovrà trattare di un codice molto snello, c'è assenso quasi totale in commissione. Sul fronte dell'affidamento dei contratti il relatore propone un ampio utilizzo del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa con il divieto di utilizzo del massimo ribasso per alcune tipologie di contratti come quelli aventi ad oggetto servizi intellettuali (ma già oggi per la progettazione sarebbe così, in base al dpr 207/2010).
Importante anche la proposta di introduzione della polizza globale di esecuzione o performance bond a garanzia della regolare esecuzione dell'opera, oggi prevista per limitate ipotesi, e la limitazione delle modifiche ai contratti durante il periodo di validità, anche per quelli sotto soglia. È poi certa, anche alla luce delle recenti inchieste giudiziarie, la profonda riforma della disciplina per la realizzazione delle opere infrastrutturali con l'espresso divieto di affidamento della direzione dei lavori al contraente generale (articolo ItaliaOggi dell'01.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: E-fattura, guardia alta sulle ricevute. Dopo lo scarto del sistema nota a storno o modifica al documento già emesso.
Imposte indirette. La mancata indicazione dei codici Cig e Cup (se obbligatori) può bloccare il pagamento da parte della Pa.

Estensione dell’obbligo di fattura elettronica a tutte le Pa in vigore da ieri alla prova dell’avvenuta ricezione. Emissione e trasmissione tramite il sistema di interscambio (Sdi) non completano, infatti, le attività richieste per una corretta gestione del ciclo attivo e passivo di fatturazione.
È essenziale, infatti, il riscontro delle ricevute prodotte dallo Sdi, le quali costituiscono la guida per fornitori e amministrazioni per procedere a contabilizzazione, liquidazione, calcolo di eventuali interessi moratori e pagamento della fattura.
I controlli formali
Un primo riscontro è collegato al superamento o meno dei controlli formali realizzati dal sistema di interscambio, il quale opera come soggetto che riceve e reindirizza le fatture, con nessun controllo nel merito delle stesse. In caso di esito negativo dei controlli operati dallo Sdi, al fornitore viene recapitata una notifica di scarto. La fattura in questo caso va considerata emessa e, di conseguenza, non deve essere contabilizzata. Nel caso tuttavia fosse già stata registrata, perché ad esempio i sistemi contabili hanno proceduto in automatico alla sua contabilizzazione al momento della trasmissione, dovrà essere prodotta una nota, a rilevanza esclusivamente interna, a storno della fattura.
Nel workshop organizzato dall’osservatorio sulla fatturazione elettronica del Politecnico di Milano tenutosi lo scorso 9 marzo, sono stati forniti altri chiarimenti utili per le amministrazioni, ma di riflesso anche per i fornitori, in particolare relativamente all’assenza dei codici Cig (codice identificativo gara) o Cup (codice unico di progetto) sulle fatture. I controlli formali del sistema non vanno infatti a verificare la presenza di tali codici, in quanto si tratta di informazioni non rilevanti a fini fiscali.
L’amministrazione non può tuttavia procedere al pagamento in assenza di tali codici, quando ne sia obbligatoriamente prevista la presenza ai fini della tracciabilità dei pagamenti. In questa ipotesi, è stato suggerito alle amministrazioni di accettare e registrare comunque la fattura, richiedendo all’operatore l’emissione non solo di una nota di credito, per annullare la fattura, ma anche di una nuova fattura contenente i codici Cig e Cup. Infatti nel caso in cui i controlli formali vengano superati, il sistema di interscambio provvede a trasmettere all’amministrazione destinataria non solo la fattura ma anche una notifica di metadati del file fattura, contenente le informazioni utili per l’elaborazione del documento.
Le tempistiche
Al fornitore o al terzo trasmittente viene notificata una ricevuta di consegna quando l’inoltro ha avuto esito positivo: la fattura si considera in questo caso emessa. Se invece, per cause tecniche, la consegna al destinatario non è possibile nelle ventiquattro ore, il sistema di interscambio invia al trasmittente una notifica di mancata consegna e procede a contattare l’amministrazione per tentare di risolvere il problema.
Trascorsi ulteriori dieci giorni, senza riuscire a recapitare la fattura, al trasmittente viene notificata una attestazione di avvenuta trasmissione della fattura con impossibilità di recapito. Solamente in questo caso, il fornitore può inoltrare all’amministrazione la fattura utilizzando un canale elettronico alternativo al sistema di interscambio.
La pubblica amministrazione può contestare o rifiutare una fattura anche dopo avere ricevuto una notifica di decorrenza termini dal sistema di interscambio, la quale viene trasmessa decorsi quindici giorni dal ricevimento. Si tratta di un intervallo di tempo entro cui l’amministrazione destinataria ha la facoltà, ma non l’obbligo, di comunicare al fornitore l’esito dei controlli interni, dando evidenza dello stato in cui si trova la fattura attraverso il sistema di interscambio, inviando una notifica di accettazione o di rifiuto. Decorso tale periodo, l’amministrazione può comunque interagire con il fornitore utilizzando qualsiasi altro canale a sua disposizione.
Rispondere eventualmente con il rifiuto della fattura entro i quindici giorni tramite Sdi non impone tuttavia all’amministrazione di registrare in contabilità la fattura rifiutata. Al contrario, se la fattura è stata registrata ma sono necessarie variazioni dell’imponibile, le stesse dovranno essere effettuate mediante l’annotazione di fatture integrative o note di credito trasmesse dal fornitore tramite sistema di interscambio
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Vero è che qualora un edificio pervenga ad una integrale demolizione (anche a seguito della sua rovina per cause naturali) dopo che per esso è stata rilasciata una concessione edilizia di ristrutturazione, questa concessione perde la propria efficacia perché non esiste più l'edificio da ristrutturare, e per cui occorre, per la costruzione del nuovo edificio, un diverso e regolare titolo abilitativo.
Tuttavia, è peraltro vero che qualora la demolizione avvenga accidentalmente per l'imprevedibile grado di fatiscenza di strutture preesistenti e mentre una ristrutturazione edilizia è già in atto (e cioè durante un intervento inteso a conservare il fabbricato), essa non preclude il rilascio di una successiva concessione di ristrutturazione, che consenta il ripristino della sagoma e dei volumi preesistenti.

La ricostruzione storica della vicenda ha nel caso di specie notevole rilevanza, ragion per cui è preliminarmente opportuno operarne una compiuta sintesi.
Il primo atto è la concessione edilizia n. 39/1999 avente ad oggetto la manutenzione straordinaria e sopraelevazione di un villino, riportante l’espressa prescrizione che il vano scala (il cd. torrino) “conservi le attuali dimensioni ed inclinazioni”.
Durante i lavori il torrino subiva un crollo. Dopo il verificarsi dei fatti, un funzionario tecnico del comune effettuava sopralluogo e constatava un’incongruenza tra lo stato dei luoghi e quello riportato sui grafici di progetto relativamente all’originaria consistenza del vano scale, sicché l’amministrazione dapprima sospendeva i lavori riguardanti la ricostruzione del torrino scala, in quanto non assentito; poi, con successivo provvedimento del 02.02.2000 n. 13628, in risposta ad istanza del sig. Dell’E., negava il titolo per la sua ricostruzione. Infine con provvedimento dirigenziale del 27.01.2003 n. 753, inibiva l’attività edificatoria per decadenza della concessione edilizia n. 39/1999.
Il contenzioso è stato deciso, in sede giurisdizionale amministrativa, con sentenza del Consiglio di Stato n. 2175/2010, la quale, dopo aver suddiviso la vicenda fattuale in due segmenti, così si è espresso: “vero che qualora un edificio pervenga ad una integrale demolizione (anche a seguito della sua rovina per cause naturali) dopo che per esso è stata rilasciata una concessione edilizia di ristrutturazione, questa concessione perde la propria efficacia perché non esiste più l'edificio da ristrutturare, e per cui occorre, per la costruzione del nuovo edificio, un diverso e regolare titolo abilitativo (così Consiglio di Stato, sez. V, 23.03.2000, n. 1610), è peraltro vero che qualora la demolizione avvenga accidentalmente per l'imprevedibile grado di fatiscenza di strutture preesistenti e mentre una ristrutturazione edilizia è già in atto (e cioè durante un intervento inteso a conservare il fabbricato), essa non preclude il rilascio di una successiva concessione di ristrutturazione, che consenta il ripristino della sagoma e dei volumi preesistenti (Consiglio di Stato, sez. V, 18.08.1997, n. 917).
Appare quindi erroneo far risalire la legittimità dei provvedimenti di diniego successivi al crollo alle ragioni esplicitate nel primo degli atti gravati, ossia il provvedimento dirigenziale del 06.09.1999 n. 11045 di sospensione dei lavori riguardanti la ricostruzione del torrino scala non assentito. Infatti, la situazione di fatto creatasi a seguito dell’evento, che di fatto viene a stravolgere i presupposti su cui si era precedentemente regolato il Comune, andava valutata in concreto dall’amministrazione e posta come elemento fondante della sua decisione
Deve essere quindi accolto il secondo motivo proposto in grado di appello, con il quale si reitera la censura precedentemente proposta che attiene alla errata individuazione della natura giuridica della ricostruzione del torrino, che è stata riportata nell’ambito della nuova edificazione e non in quella della ristrutturazione edilizia. In concreto, al fine di una esatta qualificazione della fattispecie, l’amministrazione non potrà fondarsi su elementi fattuali non più esistenti ma dovrà nuovamente valutare la questione sottopostale. L’individuazione della tipologia di opera andrà dunque svolta in concreto, esaminando se si verta in una situazione di ristrutturazione edilizia, conseguente alla necessità di ricostruzione della parte di edificio crollata
” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.04.2015 n. 1770 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'elemento che, in linea generale, contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione deve rinvenirsi nella già avvenuta trasformazione del territorio, mediante una edificazione di cui si conservi la struttura fisica [sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente": art. 3, comma 1, lett. d), t.u.] ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" (per effetto della modifica apportata al testo unico dal decreto legislativo 27.12.2002, n. 301), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente.
Ancora più in dettaglio, si è notato che ai sensi della lettera d), comma 1, dell'art. 3 del t.u. edilizia sono inclusi nella definizione di "ristrutturazione edilizia", gli interventi di demolizione e ricostruzione con identità di volumetria e di sagoma rispetto all'edificio preesistente; la successiva lettera e) classifica come interventi di "nuova costruzione" quelli di "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti".
In base alla normativa statale di principio, quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell'edificio preesistente -intesa quest'ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.

Occorre previamente evidenziare come l’intervento oggetto di autorizzazione paesaggistica e edilizia consiste nella demolizione di un manufatto ad uso residenziale di quattro piani e di due comodi rurali e nella ricostruzione mediante edificazione di dieci unità immobiliari di circa 60 mq. ciascuna, disposte a schiera su tre livelli sfalsati, usufruendo del premio volumetrico del 35%, previsto dalla L.R. n. 19/2009, come modificata dalle successive L.R. n. 1/2011 e n. 1/2012.
Si tratta di un tipo di intervento che non può essere qualificato di ristrutturazione edilizia, essendo invece una evidente edificazione ex novo.
Infatti, la giurisprudenza di questo Consiglio ha pacificamente affermato che l'elemento che, in linea generale, contraddistingue la ristrutturazione dalla nuova edificazione deve rinvenirsi nella già avvenuta trasformazione del territorio, mediante una edificazione di cui si conservi la struttura fisica [sia pure con la sovrapposizione di un "insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente": art. 3, comma 1, lett. d), t.u.] ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita, ma -in quest'ultimo caso- con ricostruzione, se non "fedele" (per effetto della modifica apportata al testo unico dal decreto legislativo 27.12.2002, n. 301), comunque rispettosa della volumetria e della sagoma della costruzione preesistente (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 12.05.2014 n. 2397; id., sez. IV, 30.03.2013, n. 2972).
Ancora più in dettaglio, si è notato (Consiglio di Stato, sez. IV, 06.12.2013 n. 5822) che ai sensi della lettera d), comma 1, dell'art. 3 del t.u. edilizia sono inclusi nella definizione di "ristrutturazione edilizia", gli interventi di demolizione e ricostruzione con identità di volumetria e di sagoma rispetto all'edificio preesistente; la successiva lettera e) classifica come interventi di "nuova costruzione" quelli di "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti".
In base alla normativa statale di principio, quindi, un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell'edificio preesistente -intesa quest'ultima come la conformazione planivolumetrica della costruzione e il suo perimetro considerato in senso verticale e orizzontale- configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia.
Pertanto, e contrariamente a quanto sostenuto dalla parte appellante, l’intervento edilizio oggetto di contenzioso non rientra nel canone della ristrutturazione ma in quella della nuova edificazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.04.2015 n. 1763 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Gite in famiglia? Peculato d’uso. Cassazione. Auto aziendale all’incaricato di pubblico servizio.
L’uso dell’auto aziendale e del Telepass per scopi personali da parte del presidente di una società privata concessionaria di un servizio pubblico, fa scattare il reato di peculato d’uso e non quello di peculato.

La Corte di Cassazione -Sez. VI penale- con la sentenza 03.04.2015 n. 14040, accoglie parzialmente il ricorso dell’imputato condannato per peculato in entrambi i gradi di giudizio. Il ricorrente, presidente di una Srl che gestiva il trasporto pubblico, si serviva dell’utilitaria di servizio e dell’auto di rappresentanza per spostamenti privati, offrendo dei “passaggi” anche alla moglie e alla figlia. Nel “conto” i giudici di merito avevano messo anche gli scontrini Telepass collezionati nei viaggi privati.
La Cassazione respinge la tesi della difesa secondo la quale il peculato andava escluso perché l’imputato era al vertice di un’azienda privata. Era corretto considerare il ricorrente un incaricato di pubblico servizio in virtù dell’attività, in prevalenza pubblicistica, svolta dalla società per la quale lavorava.
Sbagliano invece i giudici di merito nel contestare il peculato per appropriazione (articolo 314, primo comma, del Cp).
La Cassazione ammette che, sull’uso costante dell’auto di servizio da parte del pubblico funzionario, la giurisprudenza è spaccata tra i sostenitori del peculato per appropriazione e quelli del peculato d’uso, ma ritiene di far proprie le conclusioni raggiunte dalle Sezioni unite che si sono espresse sull’indebito utilizzo del telefono d’ufficio.
La condotta è riconducibile al peculato d’uso (articolo 314, secondo comma, del Cp). L’utilizzo improprio, benché costante, non comporta, infatti, un’appropriazione se l’auto, momentaneamente distolta, torna comunque alla sua originaria destinazione.
Anche il consumo dell’olio, benzina, carburante e usura del mezzo, non hanno una rilevanza autonoma ma concorrono a determinare l’entità del danno patrimoniale che, se apprezzabile, è penalmente rilevante. Nel caso esaminato il vulnus al patrimonio era stato desunto dal risarcimento versato dall’imputato per un totale di 8 mila euro
  (articolo Il Sole 24 Ore del 07.04.2015).

APPALTI: La giurisprudenza ha chiarito che l'art. 46, c. 1-bis, D.Lgs. n. 163/2006 "ha previsto la tassatività delle cause di esclusione, disponendo che la stazione appaltante può escludere i candidati o i concorrenti solo in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; ma i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione".
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La giurisprudenza ha chiarito che l'apposizione della controfirma sui lembi sigillati della busta che la contiene mira a garantire il principio della segretezza dell'offerta e della integrità del plico.
La norma in questione stabilisce che le irregolarità relative alla chiusura dei plichi, diverse dalla non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione, sono causa di esclusione solo se sono tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte.

... per l'annullamento del verbale del 19.012.2013 con il quale è stata disposta l'aggiudicazione del "servizio di ricovero, manutenzione ordinaria e straordinaria, guida ed assicurazione di n. 2 veicoli denominati Centromobile di revisione in uso presso l'UMC di Milano (periodo dal 16/01/2014 al 15/01/2014)";
...
2. Il ricorso è fondato.
La giurisprudenza ha chiarito che l'art. 46, c. 1-bis, D.Lgs. n. 163/2006 "ha previsto la tassatività delle cause di esclusione, disponendo che la stazione appaltante può escludere i candidati o i concorrenti solo in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte; ma i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione" (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 07.01.2015 n. 18).
La giurisprudenza ha chiarito che l'apposizione della controfirma sui lembi sigillati della busta che la contiene mira a garantire il principio della segretezza dell'offerta e della integrità del plico (Cons. Stato, sez. V, n. 528/2011; TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 17.01.2013 n. 368).
La norma in questione stabilisce che le irregolarità relative alla chiusura dei plichi, diverse dalla non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione, sono causa di esclusione solo se sono tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte.
Nel caso in questione non risulta che tale valutazione in concreto sia stata fatta ma anzi risulta che la busta sia sostanzialmente integra e che la mancanza delle firme su due lembi è supplita dall’apposizione della ceralacca sui medesimi.
In definitiva quindi il ricorso va accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 02.04.2015 n. 880 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA:  L’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 d.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale.
E’ stata, quindi, più volte affermata la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”; disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
Nell'applicare tale regola, con riguardo all'individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto della particolare natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, sicché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni.
In ordine poi all’identificazione del dies a quo, pur dandosi atto del diverso orientamento assunto anche in tempi recenti dal C.G.A. -secondo il quale “…la permanenza cessa o con l’eliminazione dell’opera abusiva; o, in alternativa, con il pagamento della sanzione pecuniaria”- si è ritenuto che “…il principio di autonomia delle due tipologie di violazioni (edilizia e paesaggistica), evocato nel menzionato precedente, deve essere inteso nel senso che l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma non anche che la stessa non abbia alcuna incidenza sulla permanenza della violazione…(omissis)…con conseguente individuazione del dies a quo nel momento in cui viene eliminata la violazione con l’emissione degli atti di sanatoria”.
Sotto tale specifico profilo, va peraltro rilevato che il Giudice Siciliano d’appello, con recente decisione n. 123 del 13.03.2014, ha modificato il proprio indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio osservato e cioè quello della intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”; e che “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il momento della intervenuta concessione edilizia…”.

E. – Il ricorso è fondato, nei sensi che saranno subito indicati, per la ritenuta fondatezza dell’assorbente eccezione di prescrizione sollevata dal ricorrente, in ordine alla quale la difesa dell’Assessorato nulla ha dedotto.
E.1. – Per consolidato orientamento giurisprudenziale, l’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 (già art. 15 l. n. 1497/1939, divenuto poi art. 164 d.lgs. n. 490/1999) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che, come tale, prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 28.07.2006, n. 4690; 03.04.2003, n. 1729; sez. IV, 15.11.2004, n. 7405; 12.11.2002, n. 6279).
E’ stata, quindi, più volte affermata, anche da questa Sezione, la pacifica applicabilità anche a tale sanzione del principio contenuto nell’art. 28 della l. n. 689/1981, secondo cui “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”; disposizione, quest'ultima, applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 l. n. 689/1981); e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica, edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria (v. anche TAR Sicilia, Sez. I, 23.07.2014, n. 1942; 13.05.2013, n. 1098).
Nell'applicare tale regola, con riguardo all'individuazione del dies a quo della decorrenza della prescrizione, occorre tener conto della particolare natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, sicché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni (v. Consiglio di Stato, 12.03.2009, n. 1464).
In ordine poi all’identificazione del dies a quo, pur dandosi atto del diverso orientamento assunto anche in tempi recenti dal C.G.A. -secondo il quale “…la permanenza cessa o con l’eliminazione dell’opera abusiva; o, in alternativa, con il pagamento della sanzione pecuniaria” (v. C.G.A. in sede giurisd., 13.09.2011, n. 554)- si è ritenuto che “…il principio di autonomia delle due tipologie di violazioni (edilizia e paesaggistica), evocato nel menzionato precedente, deve essere inteso nel senso che l’intervenuta sanatoria dell’abuso edilizio non fa ex se venir meno la potestà sanzionatoria per la diversa violazione paesaggistica, ma non anche che la stessa non abbia alcuna incidenza sulla permanenza della violazione…(omissis)…con conseguente individuazione del dies a quo nel momento in cui viene eliminata la violazione con l’emissione degli atti di sanatoria” (cfr. TAR Sicilia, n. 1098/2013 cit.; nello stesso senso, TAR Sicilia, n. 1942/2014 cit.).
Sotto tale specifico profilo, va peraltro rilevato che il Giudice Siciliano d’appello, con recente decisione n. 123 del 13.03.2014, confermando la sentenza di questa Sezione n. 564/2012 -e aderendo all’orientamento adottato sia dal Consiglio di Stato (decisioni n. 1464/2009 e n. 2160/2010), sia dalle Sezioni riunite dello stesso C.G.A. (parere n. 188/2011)- ha modificato il proprio indirizzo, ritenendo preferibile l’orientamento, secondo il quale “…il termine in questione deve ritenersi coincidente piuttosto con l’atto che fa cessare nel tempo la illiceità del comportamento edilizio osservato e cioè quello della intervenuta concessione edilizia in sanatoria, la quale appunto rimuove ogni ragione di incompatibilità dell’opera con gli assetti urbanistici e territoriali e fa venir meno dunque la permanente illiceità che l’accompagnava dall’atto della sua realizzazione”; e che “…appare conforme ad una più attenta ricostruzione della disciplina giuridica da adottare assumere quale dies a quo per la prescrizione della sanzione qui in discussione il momento della intervenuta concessione edilizia…” (cfr. C.G.A. n. 123/2014 cit.) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 02.04.2015 n. 836 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIUffici freddi? Si va a casa. Astensione giustificata se l'ambiente è gelido. Una sentenza della Cassazione riconosce il diritto alla retribuzione.
Prima di recarsi al lavoro, può far comodo un'occhiata alle previsioni del tempo: se fa troppo freddo, è legittimo incrociare le braccia.

A stabilirlo è la Corte di Cassazione -Sez. I civile- che, nella sentenza 01.04.2015 n. 6631, afferma che un ambiente di lavoro troppo gelido giustifica il rifiuto dei lavoratori a prestare l'attività lavorativa, senza per questo perdere il diritto alla retribuzione.
La nevicata del 2005. I giudici confermano la decisione della Corte d'appello di Milano che, con sentenza del 2007, a sua volta aveva confermato una sentenza del tribunale di Lecco del 2005. La causa riguarda la condanna di una società alla restituzione della retribuzione di un'ora e mezzo di lavoro che, in qualità di datore di lavoro, aveva trattenuto ad alcuni suoi dipendenti per il fatto che si erano astenuti dal lavoro a causa dell'ambiente gelido di lavoro, per il cattivo funzionamento della caldaia.
In particolare, la Corte di appello aveva rilevato che l'astensione dal lavoro non era da ricondursi a una forma di protesta (sciopero), quanto piuttosto all'impossibilità di svolgere la prestazione lavorativa a motivo della temperatura troppo bassa dell'ambiente di lavoro. La società ha quindi proposto ricorso per cassazione di quella sentenza, sulla base del vizio della motivazione in quanto, sostiene, «l'ambiente di lavoro era regolarmente riscaldato».
Chiuso per freddo. A distanza di dieci anni dai fatti la Cassazione dà ragione ai lavoratori. Il datore di lavoro, si legge nella sentenza, «è obbligato ex art. 2087 del codice civile ad assicurare condizioni di lavoro idonee a garantire la sicurezza delle lavorazioni ed è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». La violazione di tale obbligo, aggiunge la Corte, «legittima i lavoratori a non eseguire la prestazione, eccependo l'inadempimento altrui».
In tal caso, precisa la sentenza, i lavoratori «mantengono il diritto alla retribuzione, in quanto al lavoratore non possono derivare conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore». Nello specifico della causa, poi, la sentenza spiega che la Corte di appello ha accertato, con motivazione congrua e corretta, che la temperatura era significativamente bassa in considerazione della stagione e dell'eccezionalità della temperatura del giorno, tanto che l'azienda aveva ritenuto legittima l'interruzione dell'attività lavorativa di parte dei dipendenti del piano inferiore.
Allo stesso tempo ha accertato pure che il sito aziendale era articolato in due piani non separati del tutto tra loro, perché il divisore dei piani non occupata tutto l'intero perimetro e consentiva il passaggio d'aria tra i due piani, essendovi un tunnel tra i due piani che consentiva il collegamento tra gli stessi per il passaggio dei carrelli e, quindi, l'immissione di aria fredda (articolo ItaliaOggi del 02.04.2015).

VARIPaga il notaio superficiale. Assistenza non adeguata al cliente.
Il notaio che pecca di leggerezza e non assiste adeguatamente il cliente risponde di tasca propria nei confronti di quest'ultimo. Se su un immobile grava una procedura esecutiva, il pubblico ufficiale deve informare compiutamente l'acquirente, consigliandogli di inserire nel contratto apposite clausole di tutela o al limite dissuadendolo dall'effettuare l'operazione a quelle condizioni.

Ad affermarlo è la III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 31.03.2015 n. 6451.
Il caso vedeva un notaio chiamato in causa da un cittadino che aveva acquistato un immobile. Il professionista, sia in sede di preliminare di compravendita sia in sede di rogito, aveva confermato che ogni debito garantito da ipoteca sul fabbricato era stato estinto.
Tuttavia, in seguito alla registrazione dell'atto, il compratore aveva appreso dall'agenzia immobiliare e dallo stesso notaio che sulla casa gravava una procedura esecutiva, già avviata in precedenza, e nella quale erano intervenuti nel frattempo altri creditori della parte venditrice. Secondo la Suprema corte la condotta del notaio «è stata gravemente negligente e fonte pertanto di responsabilità nei confronti dell'acquirente».
In particolare, quest'ultimo non è stato informato né del grave pericolo che comportava il pignoramento in corso, né dell'opportunità di inserire clausole di garanzia che avrebbero subordinato l'efficacia del negozio all'effettiva estinzione del debito da parte del venditore. Al momento della stipula, infatti, era stato dato atto del pignoramento da parte di una banca per un importo di circa 35 milioni di vecchie lire, quando in realtà era già stata avviata una procedura da altro istituto di credito per l'importo di oltre 230 milioni.
«È pacifico», aggiungono gli ermellini, «che il notaio non eseguì un accesso presso la cancelleria delle esecuzioni immobiliari e si fidò di quanto i due mediatori riferirono in proposito». Da qui il rigetto del ricorso proposto dal notaio, condannato anche al pagamento delle spese del giudizio (articolo ItaliaOggi del 07.04.2015).

URBANISTICALa giurisprudenza penale ha costantemente interpretato la fattispecie della “lottizzazione abusiva” in termini ampi e l'ha costruita quale reato di pericolo, affermando che il reato è integrato non solo dalla trasformazione effettiva del territorio, ma da qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata.
Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato in relazione alle previsioni normative vigenti all’epoca dei fatti in esame, prima che la norma dell'art. 18, l. 28.02.1985, n. 47, venisse abrogata, a decorrere dal 01.01.2002, dall’articolo 136, comma 2, lettera f), del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, che “per aversi lottizzazione abusiva è sufficiente che le opere o il frazionamento fondiario costituenti lottizzazione a scopo edificatorio siano realizzati in assenza di uno strumento urbanistico attuativo (piano particolareggiato esecutivo o piano di lottizzazione convenzionata ex art. 28 l. 17.08.1942 n. 1150), che l'autorizzi specificamente, per cui essa va sanzionata non appena si verifica tale presupposto di fatto -irrilevanti essendo a tal fine la realizzazione delle opere oppure l'assenza di concessione edilizia, la quale configura un diverso ed autonomo illecito amministrativo-, perché l'esigenza di un'ordinata pianificazione urbanistica può essere garantita solo impedendo in ogni caso ed in radice ogni intervento di tipo lottizzatorio non previamente assentito al fine del suo corretto insediamento nel territorio”.

La giurisprudenza penale ha costantemente interpretato la fattispecie della “lottizzazione abusiva” in termini ampi e l'ha costruita quale reato di pericolo, affermando che il reato è integrato non solo dalla trasformazione effettiva del territorio, ma da qualsiasi attività che oggettivamente comporti anche solo il pericolo di una urbanizzazione non prevista o diversa da quella programmata (Cass. pen., Sez. III, 16.07.2013, n. 37383).
Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato in relazione alle previsioni normative vigenti all’epoca dei fatti in esame, prima che la norma dell'art. 18, l. 28.02.1985, n. 47, venisse abrogata, a decorrere dal 01.01.2002, dall’articolo 136, comma 2, lettera f), del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, che “per aversi lottizzazione abusiva è sufficiente che le opere o il frazionamento fondiario costituenti lottizzazione a scopo edificatorio siano realizzati in assenza di uno strumento urbanistico attuativo (piano particolareggiato esecutivo o piano di lottizzazione convenzionata ex art. 28 l. 17.08.1942 n. 1150), che l'autorizzi specificamente, per cui essa va sanzionata non appena si verifica tale presupposto di fatto -irrilevanti essendo a tal fine la realizzazione delle opere oppure l'assenza di concessione edilizia, la quale configura un diverso ed autonomo illecito amministrativo-, perché l'esigenza di un'ordinata pianificazione urbanistica può essere garantita solo impedendo in ogni caso ed in radice ogni intervento di tipo lottizzatorio non previamente assentito al fine del suo corretto insediamento nel territorio” (C.d.S. sez. V 26.03.1996 n. 301).
Richiamati tali precedenti giurisprudenziali, il Collegio non ritiene disconoscibile il fatto storico dell’intervenuta lottizzazione materiale, ancorché l’efficacia dell’accertamento compiuto in sede penale non opera in questo giudizio con il vincolo di cui all’art. 654 c.p.p., stante l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione in grado di appello (sentenza del Tribunale di Milano del 22.02.1994 - cfr. sul punto Consiglio di Stato, sez. VI, 31/10/2013, n. 5266) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.03.2015 n. 1675 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte urbanistiche costituiscono, in generale, valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale e censurabili unicamente per i profili di abnormità, illogicità e travisamento dei fatti.
Tale regula iuris è da configurarsi in particolare in presenza dell’adozione di determinazioni in tema di pianificazione che investono rilevanti parti del territorio comunale, come le varianti ordinarie, che sono dirette ad avere effetti innovativi sul governo del territorio, quanto ai fini, alle destinazioni e dimensionamento degli standard.
In merito non può, dunque, negarsi all’ente locale un incisivo potere politico-discrezionale, che si rivela suscettibile di essere censurato, in virtù delle prerogative proprie delle scelte operate, solo entro ristretti ambiti di profili di illegittimità.

L’assunto difensivo risulta non condivisibile.
La giurisprudenza ha avuto modo di stabilire che in generale le scelte urbanistiche costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale e censurabili unicamente per i profili di abnormità, illogicità e travisamento dei fatti (Cons. Stato Sez. IV 22/05/2014 n. 2669).
Tale regula iuris è da configurarsi in particolare in presenza dell’adozione di determinazioni in tema di pianificazione che investono rilevanti parti del territorio comunale, come ad esempio le varianti ordinarie, che sono dirette ad avere effetti innovativi sul governo del territorio, quanto ai fini, alle destinazioni e dimensionamento degli standard per cui riesce veramente difficile negare all’ente locale un incisivo potere politico-discrezionale e che si rivela suscettibile di essere censurato, in virtù delle prerogative proprie delle scelte operate, solo entro ristretti ambiti di profili di illegittimità (Cons. Stato Sez. IV 25/11/2013 n. 5589).
La verifica della legittimità delle scelte urbanistiche da effettuarsi secondo il criterio della sussumibilità delle figure sintomatiche dell’eccesso di potere si atteggia però diversamente in relazione all’ipotesi, come quella qui in rilievo, di una variante semplificata avente ad oggetto la localizzazione di un’opera su una porzione specifica e limitata del territorio che per la natura ed entità della variazione proposta, non implica scelte di politica urbanistica di carattere generale stricto sensu, sì che le determinazioni da assumersi da parte dell’Amministrazione, nella comparazione degli interessi coinvolti, ben è assoggettabile ad un più ampio e stringente sindacato giurisdizionale, in relazione s’intende ai profili di invalidità appositamente denunciati dagli interessati, senza che si possa in ciò configurare una non consentita funzione sostitutiva del giudice amministrativo a danno delle funzioni e delle prerogative all’Autorità istituzionalmente preposta alla gestione della relativa procedura.
Ne deriva che non merita positivo apprezzamento l’argomentazione di carattere preliminare e generale fatta valere da parte appellante e volta precipuamente a far constare una sorta di “invasione di campo” della verifica di legittimità operata dal TAR in ordine alla “scelta urbanistica” assunta dal Comune di Sarno in relazione all’intervento edilizio di cui alla proposta di variante ex art. 5 DPR n. 447/1998 presentata da parte della Società Venere (massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.03.2015 n. 1673 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl giudizio instaurato ex art. 117 c.p.a. tende, in linea generale, a stigmatizzare l’inerzia della Pubblica Amministrazione che non provvede in ordine ad una istanza presentata da un soggetto qualificato, in quanto titolare di uno specifico e rilevante interesse, laddove l’Amministrazione è invece tenuta a corrispondere a quanto richiestole anche al solo scopo di esplicitare l’erronea valutazione dei presupposti da parte dell’interessato, in ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione.
Qualora, tuttavia, in alcune fattispecie, in via di deroga alle regulae iuris testé ricordate, la pretesa azionata si protenda al di là del normale ambito di operatività del giudizio di che trattasi, nel senso che l’accertamento della illegittimità del silenzio ricomprende anche l’accertamento dell’obbligo di porre in essere da parte dell’Amministrazione un’attività procedimentale da configurarsi come conseguenza logica e cronologica del comportamento omissivo in sé posto in essere, il giudizio sul silenzio si innesta su un sottostante rapporto di azioni e relazioni tra il privato e l’Amministrazione, che risulta sino ad allora essere stato definito nei suoi aspetti costitutivi e in riferimento a tale assetto di interessi l’istanza rimasta ingiustificatamente inevasa finisce col tipizzare quale sia l’attività che l’Amministrazione deve porre in essere al fine di far cessare un comportamento illegittimamente omissivo.

Dunque, come rilevasi dalla lettura della parte narrativa della decisione impugnata, il Tar dopo aver rilevato l’avvenuta inosservanza da parte del Comune dell’obbligo a provvedere di cui all’art. 2 della legge n. 241/1990, ha proceduto ad impartire al Comune le direttive da assumere in ordine alla definizione del procedimento conseguente alla presentazione della documentazione tecnica sopra descritta, con l’indicazione dell’attività istruttoria e delle determinazioni in concreto a porsi in essere.
Ritiene il Collegio che le statuizioni assunte dal Tar siano corrette e si muovano esattamente nell’alveo del giudizio instaurato ex art. 117 c.p.a..
Con il ricorso proposto ai sensi del citato articolo del codice del processo amministrativo, in linea generale si intende stigmatizzare l’inerzia della P.A. che non provvede in ordine ad una istanza presentata da un soggetto qualificato, in quanto titolare di uno specifico e rilevante interesse, laddove l’Amministrazione è invece tenuta a corrispondere a quanto richiestole anche al solo scopo di esplicitare l’erronea valutazione dei presupposti da parte dell’interessato, in ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione (cfr. Cons. Stato Sez. IV 04/12/2012 n. 6183).
In questi casi, il rimedio giustiziale in questione è volto a far constare una inadempienza dell’Amministrazione e il relativo decisum sarà emanato, ove favorevole, allo scopo di “sanzionare” l’arresto procedimentale e nella direzione del superamento dell’inerzia (Cons. Stato Sez. IV 08/03/2013 n. 2511).
Può anche accadere, però, in via di deroga alle regulae iuris testé ricordate che in alcune fattispecie (come quella qui ricorrente) la pretesa azionata si “protenda” al di là del normale ambito di operatività del giudizio di che trattasi nel senso che l’accertamento della illegittimità del silenzio ricomprende anche l’accertamento dell’obbligo di porre in essere da parte della P.A. un’attività procedimentale da configurarsi come conseguenza logica e cronologica del comportamento omissivo in sé posto in essere.
Questo avviene, in altri termini, allorché il giudizio sul silenzio si innesta su un sottostante rapporto di azioni e relazioni tra il privato e la P.A. che risulta sino ad allora essere stato definito nei suoi aspetti costitutivi e in riferimento a tale assetto di interessi l’istanza rimasta ingiustificatamente inevasa finisce col tipizzare quale sia l’attività che l’Amministrazione deve porre in essere al fine di far cessare un comportamento illegittimamente omissivo.
Nel caso che ci occupa è stata la stessa Amministrazione comunale a richiedere alla Immobiliare Chia gli elaborati planovolumetrici, orientando così sin dal momento della chiesta integrazione documentale lo sviluppo delle successive fasi procedimentali all’esito positivo (come avvenuto) del deposito di detta documentazione presso gli Uffici comunali da parte della destinataria della richiesta.
Il primo giudice nell’indicare le “modalità procedimentali” e le “possibili soluzioni” non ha fatto altro che dare consistenza all’obbligo di provvedere come originato dalla richiesta comunale di integrazione documentale, richiesta puntualmente soddisfatta dalla Società appellata. E, se così è, il giudicante non è andato ultra petita e neppure ha “sforato” l’ambito oggettivo del giudizio sul silenzio, giacché, come detto, le indicazioni rivolte al Comune costituiscono l’essenza del rimedio a fronte del suo comportamento omissivo.
In forza delle suestese considerazioni le statuizioni contenute nella sentenza impugnata devono ritenersi non scalfite dai rilievi mossi dalla parte appellante il cui gravame è da considerarsi, perciò, infondato (massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.03.2015 n. 1672 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa distanza minima fissata dall’art. 9 D.M. n. 1444 del 1968 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione luminosità ed altro.
La norma, in ragione delle prevalenti esigenze di interesse pubblico testé indicate ha, dunque, carattere cogente e tassativo, prevalendo anche sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che dispongano in maniera riduttiva.
L’applicabilità della normativa predetta, tuttavia, è subordinata alla indispensabile condizione della esistenza di due pareti che si contrappongono di cui almeno una è finestrata, tale che in mancanza la stessa non può trovare applicazione (come nella fattispecie concreta).

Con la controversia all’esame la Sezione è chiamata a verificare la legittimità o meno di un titolo edilizio rilasciato dal suindicato Comune calabrese per la realizzazione di un fabbricato ad uso commerciale in relazione alle disposizioni disciplinanti le distanze tra edifici di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968.
In particolare occorre stabilire se nella specie sia stata rispettata o meno la norma di cui al n. 2 del I comma del predetto articolo che, in tema di distanza minima dai confini di proprietà, prescrive la distanza minima assoluta di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
La questione giuridica viene in rilievo avuto riguardo al fatto che sull’immobile delle appellanti sono allocati, su vari piani, dei balconi che presentano il lato maggiore posto sulla facciata e un lato minore che affaccia sull’edificio in corso di costruzione e tenuto altresì conto che l’erigendo fabbricato (circostanza questa non contestata) è posto ad una distanza inferiore ai 10 mt. dalla parete laterale dell’immobile delle sigg.re R.- F..
Secondo un preciso orientamento di questo Consiglio di Stato (cfr. Sez. IV 20/07/2011 n. 4374; idem 12/06/2007 n. 3094) dal quale il Collegio non ha motivo di discostarsi, la distanza minima fissata dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico–sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione luminosità ed altro e trattasi certamente di una norma che in ragione delle prevalenti esigenze di interesse pubblico testé indicate ha carattere cogente e tassativo, prevalendo anche sulle disposizioni regolamentari degli enti locali che dispongano in maniera riduttiva.
Ora, ferme restando la ratio sottesa alla norma de qua e la cogente valenza della stessa, occorre convenire che il caso sottoposto al vaglio di questo giudice, come correttamente osservato dal TAR, si pone al di fuori del campo applicativo dell’art. 9 citato tenuto conto delle caratteristiche oggettive che connotano la vicenda, tali da fare escludere che sussistono i presupposti di fatto e di diritto richiesti per l’applicabilità della disciplina qui in discussione.
La condizione indispensabile per potersi applicare il regime garantistico della distanza minima dei dieci metri è data dal fatto che esistano due pareti che si contrappongono di cui almeno una è finestrata: detto ciò le appellanti sostengono che i balconi delle loro abitazioni sia pure per un lato limitato, quello minore,offrono la possibilità di affacciarsi sullo spazio che intercorre col fabbricato erigendo e perciò stesso la distanza ( minore di 10 mt.) dell’erigendo edificio provocherebbe, in violazione della regola della distanza minima posta dal citato art. 9 una lesione a quegli aspetti di tutela che la norma implicitamente persegue.
Così non è.
Come si rileva dalla documentazione anche fotografica depositata un giudizio, nella specie si è di fronte ad un posizionamento dei due fabbricati tale da non influire sulle finalità igienico–sanitarie, dacché, in concreto le due pareti fronteggianti in realtà sono costituiti da muri ciechi, privi di aperture finestrate.
Invero, le aperture costituite dai balconi sono posizionate sul lato antistante le abitazioni, che corre in modo perpendicolare al vicino edificio, e non sulla parte che fronteggia il fabbricato oggetto del titolo ad aedificandum e sono queste le aperture che consentono alle abitazioni di usufruire delle condizioni di areazione e luminosità.
Vero è che per una parte minore dei balconi del fabbricato delle appellanti è possibile in modo per così dire obliquo affacciarsi sul canale di scolo che divide i due edifici, ma trattasi di veduta che non rileva ai fini all’esame, nel senso che non è con riferimento a tale sporgenza laterale che può essere messa in discussione l’usufruibilità di area e luce per i vani interni, assicurata quest’ultima dall’affaccio esistente sul lato che si protende sul fronte strada.
In altri termini lo stato dei luoghi è tale che gli affacci (balconi) dell’edificio R.-F. prendono luce ed area da un lato-strada che non fronteggia il fabbricato I. e comunque le pareti contrapposte, quelle posizionate sul canale di scolo, non recano finestre o aperture nei sensi richiesti dalla norma qui in rilievo.
Se così è ne deriva che le signore R. e F. non possono invocare l’applicabilità della regola della distanza minima dei dieci metri e, conseguentemente, il permesso di costruire rilasciato in favore del fabbricato ad uso commerciale da erigersi sull’adiacente lotto non risulta inficiato dal vizio di legittimità dedotto in prime cure, in questo grado pure insistentemente denunciato (massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.03.2015 n. 1670 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn capo alla P.A. vige l’obbligo di reprimere, in qualsiasi momento, l’esecuzione di opere abusive, eseguite senza titolo, che hanno carattere di illecito permanente, corrispondendo alle stesse, sul piano urbanistico-edilizio, un’esigenza di rimessa in pristino, da far valere nei confronti del proprietario, fatte salve le eventuali azioni di rivalsa nei confronti degli esecutori materiali delle opere abusive, sulla base dei rapporti interni intercorsi.
Inoltre, sia l’acquisizione gratuita del bene e dell’area di sedime, sia le sanzioni pecuniarie, previste in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, possono lasciare indenne il proprietario, che sia rimasto estraneo all’esecuzione delle opere prive di titolo abilitativo e che non abbia la disponibilità delle stesse, ferma restando, tuttavia, una presunzione di corresponsabilità a carico del medesimo.
Il proprietario, infatti, nel rispetto dei doveri di diligente amministrazione, correttezza e vigilanza nella gestione dei beni immobiliari, di cui abbia la titolarità, è tenuto ad adoperarsi, con i mezzi previsti dall’ordinamento, per impedire la realizzazione di abusi edilizi, o per agevolarne la rimozione, soprattutto dopo essere stato preavvertito, dell’avvio del procedimento sanzionatorio.

I principi generali da applicare alla vicenda controversa, in ogni caso, possono essere rinvenuti nell’art. 31, commi 2, 3 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) e nell’art. 15, commi 1 e 3 della legge della Regione Lazio 11.08.2008, n. 15 (Vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia), che per quanto qui interessa hanno carattere di lex specialis rispetto all’art. 6 della legge 24.11.1981, n. 689 (modifiche al sistema penale).
Le citate norme sanzionatorie si riferiscono, infatti, non all’”autore”, ma al “responsabile” dell’abuso, quest’ultimo inteso come esecutore materiale, ma anche come proprietario o come soggetto che abbia la disponibilità del bene, al momento dell’emissione della misura repressiva.
Sia la norma statale che quella regionale, infatti, indicano espressamente come destinatari della sanzione demolitoria, in forma non alternativa, sia il proprietario che il responsabile: la prima, imponendo testualmente detta sanzione “al proprietario e al responsabile dell’abuso”; la seconda, disponendo la notifica dell’ingiunzione “al responsabile dell’abuso nonché al proprietario, ove non coincidente con il primo”; le ulteriori misure (acquisizione gratuita e pagamento di una somma in caso di inottemperanza) non possono che riferirsi ai medesimi soggetti obbligati.
Quanto sopra risulta giustificato dall’obbligo per l’Amministrazione di reprimere in qualsiasi momento l’esecuzione di opere senza titolo, che hanno carattere di illecito permanente, a cui sul piano urbanistico-edilizio (non anche della responsabilità penale) corrisponde un’esigenza di rimessa in pristino, da far valere appunto nei confronti dei soggetti in precedenza indicati, fatte salve le eventuali azioni di rivalsa di questi ultimi, nei confronti degli esecutori materiali delle opere (ove diversi), sulla base dei rapporti interni intercorsi (cfr. anche, per il principio, Cons. St., sez. V, 08.06.1994, n. 614 e Consiglio Giust. Amm. Sic. 29.07.1992, n. 229).
Per pacifica giurisprudenza, inoltre, sia l’acquisizione gratuita del bene e dell’area di sedime, sia le sanzioni pecuniarie, previste in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione, possono lasciare indenne il proprietario, che sia rimasto estraneo all’esecuzione delle opere prive di titolo abilitativo –e che non abbia la disponibilità delle stesse– ferma restando, tuttavia, una presunzione di corresponsabilità a carico del medesimo. Detto proprietario infatti –nel rispetto dei doveri di diligente amministrazione, correttezza e vigilanza nella gestione dei beni immobiliari, di cui abbia la titolarità– è tenuto ad adoperarsi, con i mezzi previsti dall’ordinamento, per impedire la realizzazione di abusi edilizi, o per agevolarne la rimozione, soprattutto dopo essere stato preavvertito, come nel caso di specie, dell’avvio del procedimento sanzionatorio (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. V, 11.07.2014, n. 3565; Cons. St., sez. VI, 22.04.2014, n. 2027 e 04.07.2014, n. 3409).
Tale presunzione di corresponsabilità trova fondamento nell’art. 3 della citata legge n. 689 del 1981, in base al quale “nelle violazioni, in cui è applicabile una sanzione amministrativa, ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”, da intendere come presunzione iuris tantum, a cui si connette l’onere della dimostrazione di avere agito senza colpa per qualunque soggetto che, in base alla legge, possa ritenersi responsabile, anche per mera omissione di controllo (cfr. in tal senso Cons. St., sez. VI, 29.03.2011, n. 1897, 19.04.2011, n. 2422, 21.06.2011, n. 3719 e 30.06.2011, n. 3895; Cons. St., sez. IV, 02.03.2012, n. 1203).
Le finalità di interesse pubblico di tutela del territorio, in altre parole, impongono al proprietario di beni immobiliari sia di non dare luogo a illegittime trasformazioni del territorio stesso, sia di attivarsi –ricorrendone i presupposti– per il ripristino della legalità violata: sull’Amministrazione, pertanto, grava soltanto l’onere di individuare sia i proprietari del bene, sia (ove non coincidenti con i primi) gli altri soggetti da ritenere responsabili (in quanto esecutori materiali dell’abuso o titolari di altri diritti per la detenzione dell’immobile interessato), con rituale comunicazione ai medesimi dell’avvio del procedimento sanzionatorio.
Ciascuno dei soggetti coinvolti deve avere, poi, la possibilità non solo di dissociarsi dalla condotta illecita, ma anche di collaborare con l’Amministrazione, nei limiti consentiti dalla situazione di fatto e di diritto esistente, per agevolare la rimessa in pristino stato dei luoghi, solo in tal caso potendosi escludere ogni ipotesi di responsabilità nei confronti dell’Amministrazione stessa (fermi restando, in ogni caso, i già ricordati diritti di rivalsa, esercitabili nei rapporti interni).
In base alle argomentazioni svolte, i motivi di gravame prospettati non possono che ritenersi privi di fondamento.
Il primo, poiché riferito alla ricordata legge regionale n. 15 del 2008, che non può non trovare lettura conforme ai principi in precedenza indicati, tenuto conto, peraltro, della consistenza delle opere abusive: un capannone in pannelli di lamiera di m. 16.50 x 7, con altezza variabile da m. 3.30 a m. 3.60, adibito ad officina e due baracche in lamiera utilizzate come magazzini, difficilmente realizzabili a totale insaputa della proprietà, in ogni caso investita degli obblighi di vigilanza in precedenza indicati, anche in presenza di un soggetto titolare di usufrutto (non certo abilitato ad effettuare, contro la volontà dei proprietari, la rilevante trasformazione dei luoghi sopra descritta).
Non è contestato d’altra parte (con gli effetti, di cui all’art. 64, comma 2, cod. proc. amm.) che gli appellanti non abbiano posto in essere alcun intervento –nei limiti consentiti dall’ordinamento– per indurre o agevolare la rimessa in pristino stato dei luoghi, anche dopo essere stati destinatari di comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio.
Il secondo motivo di gravame, a sua volta, deve ritenersi infondato in quanto riferito ad una norma della legge n. 689 (art. 6), rispetto alla quale –come già in precedenza esposto– costituiscono lex specialis, in materia di abusi edilizi, l’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 e l’art. 15 della stessa legge regionale n. 15 del 2008, riferiti specificamente ai proprietari di immobili, interessati da opere abusive e non alle sanzioni amministrative in genere.
Il terzo ordine di censure, infine, non appare condivisibile, in quanto postula incostituzionalità della citata legge regionale, per avere imposto una sanzione pecuniaria, non ancora prevista dalla legge statale (che tale sanzione prevede ora nell’art. 31, comma 4-bis, nel testo introdotto con d.l. n. 133 del 12.09.2014).
Anche prima dell’introduzione della norma da ultimo citata, deve comunque ritenersi che la Regione potesse –nel rispetto del principio di legalità, di cui all’art. 1 della citata legge n. 689 del 1981– imporre la sanzione di cui trattasi con norma di rango primario, come nella fattispecie avvenuto, rientrando il governo del territorio, a norma dell’art. 117 della Costituzione, fra le materie oggetto di legislazione concorrente, per le quali spetta alle Regioni la potestà legislativa, nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale (principi, questi ultimi, che possono essere ricondotti al già citato art. 3 della medesima legge n. 689) (massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.03.2015 n. 1650 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa questione del carattere privato ovvero pubblico di una data strada, è sottoposta, di per sé, alla giurisdizione ordinaria, in quanto inerente a diritti soggettivi, di proprietà ovvero di servitù; può peraltro essere conosciuta in via incidentale, e quindi con efficacia limitata al processo, da questo giudice amministrativo allorquando, come nella specie, rilevi per decidere della legittimità di un provvedimento, come l’ordinanza qui impugnata, che in senso ampio imponga una certa regolamentazione dell’uso della strada stessa.
Ciò presuppone infatti che di uso pubblico e non privato si tratti, e quindi che appunto si sia di fronte ad una strada non privata.
---------------
Per classificare una data strada come pubblica l’atto di inclusione nei relativi elenchi, di valore soltanto dichiarativo, costituisce una presunzione semplice, superabile avuto riguardo alla concreta situazione della strada stessa. La strada pubblica, infatti, si caratterizza anzitutto per appartenere all’ente pubblico in virtù di un atto o fatto, che come tale va provato, acquisitivo del corrispondente diritto di proprietà o servitù.
La strada pubblica è poi tale perché interessata dal passaggio di una collettività di persone appartenenti ad un medesimo gruppo territoriale, tipicamente i cittadini del Comune o di una frazione; per essere in concreto idonea a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica, esigenze di generale interesse.
Tale ultimo requisito del “collegamento” va poi inteso in modo corretto, perché alla lettera prova troppo: nessuno penserebbe infatti di considerare soggetta ad uso pubblico una viabilità che non è in alcun modo raggiungibile dalla generalità dei cittadini, come ad esempio la strada panoramica interna ad una tenuta privata, che certo non si connette in alcun modo alla pubblica via.
Per collegamento con la via pubblica, secondo ragione, va quindi inteso non il semplice accesso alla stessa, ma un collegamento per così dire organico, che inserisca la strada in questione nel sistema della viabilità, rendendola normale via di transito per compiere un certo tragitto.
A tali elementi se ne aggiunge uno ulteriore, ovvero la necessità di considerare “il comportamento tenuto dalla Pubblica Amministrazione nel settore dell'edilizia e dell'urbanistica”, ovvero in termini banali di verificare se il Comune il quale assume l’uso pubblico si sia mai preoccupato di garantirlo, curando la manutenzione della strada ed eventualmente adeguandola al transito della generalità dei cittadini.

... per l'annullamento, previa sospensione, del provvedimento 18.02.2013 prot. n. 2749 e n. 12 reg. ordinanze, notificata il 23.02.2013, con il quale il Responsabile del servizio del Comune di Bonate Sopra ha ordinato a G.D. di demolire in quanto eseguite in assenza del necessario titolo abilitativo opere costituite dalla chiusura di un tratto di strada mediante posizionamento in lato est di un cancello carrale per accesso alla proprietà e di rete metallica in lato ovest e dal sopralzo del piano stradale, il tutto alla locale via Bonzanni sul terreno distinto al locale catasto al foglio 9 mappale 4118;
...
4. Il secondo motivo di ricorso, incentrato sul presunto carattere privato della porzione di strada occupata, e più in generale, del viottolo cui essa appartiene, è parimenti infondato.
5. Per chiarezza va premesso che la relativa questione appunto il carattere privato ovvero pubblico di una data strada, è sottoposta, di per sé, alla giurisdizione ordinaria, in quanto inerente a diritti soggettivi, di proprietà ovvero di servitù; può peraltro essere conosciuta in via incidentale, e quindi con efficacia limitata al processo, da questo giudice amministrativo allorquando, come nella specie, rilevi per decidere della legittimità di un provvedimento, come l’ordinanza qui impugnata, che in senso ampio imponga una certa regolamentazione dell’uso della strada stessa.
Ciò presuppone infatti che di uso pubblico e non privato si tratti, e quindi che appunto si sia di fronte ad una strada non privata: sul punto, da ultimo, C.d.S. sez. V 10.01.2012 n. 42 e, nella giurisprudenza della Sezione, sez. I 21.12.2011 n. 1772, ove ampie ulteriori citazioni.
6. Ciò detto in punto giurisdizione, va affrontata, appunto come questione pregiudiziale, quella concernente il presunto carattere pubblico del tratto di via Bonzanni di cui in premesse, sul quale in ricorrente ha ritenuto di intervenire con le opere per cui è causa.
In proposito, va ricordato, in accordo con la costante giurisprudenza amministrativa, che per classificare una data strada come pubblica l’atto di inclusione nei relativi elenchi, di valore soltanto dichiarativo, costituisce una presunzione semplice, superabile avuto riguardo alla concreta situazione della strada stessa. La strada pubblica, infatti, si caratterizza anzitutto per appartenere all’ente pubblico in virtù di un atto o fatto, che come tale va provato, acquisitivo del corrispondente diritto di proprietà o servitù: così da ultimo C.d.S. sez. VI 08.10.2013 n. 4952 e C.G.A. 13.09.2013 n. 749.
7. La strada pubblica è poi tale perché interessata dal passaggio di una collettività di persone appartenenti ad un medesimo gruppo territoriale, tipicamente i cittadini del Comune o di una frazione; per essere in concreto idonea a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica, esigenze di generale interesse: così fra le molte C.d.S. sez. IV 15.06.2012 n. 3531 nonché la citata TAR Lombardia Brescia sez. I 21.12.2011 n. 1772.
8. Tale ultimo requisito del “collegamento”, come già argomentato nella citata sentenza 1772/2011 di questo TAR, va poi inteso in modo corretto, perché alla lettera prova troppo: nessuno penserebbe infatti di considerare soggetta ad uso pubblico una viabilità che non è in alcun modo raggiungibile dalla generalità dei cittadini, come ad esempio la strada panoramica interna ad una tenuta privata, che certo non si connette in alcun modo alla pubblica via.
Per collegamento con la via pubblica, secondo ragione, va quindi inteso non il semplice accesso alla stessa, ma un collegamento per così dire organico, che inserisca la strada in questione nel sistema della viabilità, rendendola normale via di transito per compiere un certo tragitto.
9. A tali elementi, sulla scorta di C.d.S. sez. V 07.12.2010 n. 8624, se ne aggiunge uno ulteriore, ovvero la necessità di considerare “il comportamento tenuto dalla Pubblica Amministrazione nel settore dell'edilizia e dell'urbanistica”, ovvero in termini banali di verificare se il Comune il quale assume l’uso pubblico si sia mai preoccupato di garantirlo, curando la manutenzione della strada ed eventualmente adeguandola al transito della generalità dei cittadini.
10. Alla luce dei principi illustrati e dell’istruttoria documentale svolta, vi sono allora sufficienti elementi per affermare il carattere pubblico della via considerata (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.03.2015 n. 473 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIL’art. 35 del d.p.r. 05.10.2010 n. 207, a proposito della documentazione che deve comporre il progetto esecutivo, quanto alle relazioni specialistiche, prevede che “il progetto esecutivo prevede almeno le medesime relazione specialistiche contenute nel progetto definitivo, che illustrino puntualmente le eventuali indagini integrative, le soluzioni adottate e le modifiche rispetto al progetto definitivo”; inoltre, ai sensi dell’art. 26 del medesimo regolamento, tra le relazioni tecniche e specialistiche al progetto definitivo figura alla lettera a), proprio la relazione geologica che, di conseguenza, non può mancare come autonomo elaborato anche del progetto esecutivo.
Va specificato che il richiamo alla nozione di “relazioni tecniche e specialistiche” di cui alla rubrica dell’art. 26, va inteso in senso complementare e non alternativo, essendo tale accezione opponibile solo al più ampio elaborato costituito dalla relazione generale, che potrebbe avere anche contenuti non tecnici, oltre, che, per definizione, non specialistici.
Riprova di tale assunto è che l’art. 35 del regolamento non contiene anche l’espressione relazioni tecniche (ma solo relazioni specialistiche), sebbene queste abbiano finalità illustrativa di aspetti modificativi e di dettaglio del progetto definitivo che non possono non riguardare anche profili tecnici, come proprio quello geologico (...).
A ben vedere, tale esigenza, dal punto di vista logico- funzionale, è imposta anche dal rapporto di stretta simmetria e differenziazione esistente tra i vari stadi di progettazione considerati; invero, fin dalla legislazione in materia di lavori pubblici del 1994, si è evidenziata la preferenza del legislatore per una progettazione in progress, cioè per livelli successivi di approfondimento, in cui il vincolo esistente tra i vari livelli, di natura funzionale, è destinato a risolversi nella progettazione esecutiva, che costituisce la conclusione di un percorso armonico che racchiude tutte le fasi che in essa si finiscono per ritrovarsi.
Ebbene, urterebbe con tale costruzione la possibilità in alcune fasi di progettazione di segnare il passo rispetto al livello successivo di differenziazione, in violazione dell’autonomia funzionale riconosciuta ai vari livelli.
---------------
Ritenuta la necessità della presenza delle relazione geologica anche nella progettazione esecutiva, quanto all’inapplicabilità del meccanismo di eterointegrazione della lex specialis, in riferimento alle norme prescrittive sul contenuto dei livelli di progettazione e relazioni a corredo, è sufficiente rinviare a quanto di recente opinato dalla Sezione, secondo cui «alla luce della riforma recata dal d.l. n. 70/2011, di sostanziale riscrittura dell’art. 46 del d.lgs. 12.04.2006, si rivela ormai superata l’esigenza di qualificare in termini di eterointegrazione il rapporto di completamento tra disposizioni della lex specialis, di fonte provvedimentale, e norme giuridiche primarie e secondarie che devono ora trovare applicazione al procedimento specifico, a prescindere dal loro richiamo nel bando o nel disciplinare.
Invero, lo spirito della riforma del 2011 è stato quello di riconoscere efficacia precettiva immediata alla voluntas legis, disancorandola del tutto da qualsiasi determinazione della stazione appaltante a cui è stato, infatti, espressamente inibito ogni potere, discrezionale e tecnico- discrezionale, di modifica di principi e precetti specifici che il legislatore ha riservato a sé ed alla fonte di produzione normativa.
Il superamento della logica di eterointegrazione, impone di ritenere che, innanzitutto, a presidio del procedimento di gara esistono le norme giuridiche, rispetto alle quali la determinazioni amministrative possono, queste, ritenersi integrative o, al più meramente specificative di quelle, senza che ne possano in alcun modo limitarne l’ambito applicativo, nemmeno come ragione di possibili dubbi interpretativi.
In altri termini, è alla norma che l’interprete deve guardare nel momento in cui deve assumere il parametro di legittimità di una decisione della stazione appaltante in materia di procedimenti di gara».

... per l'annullamento della determinazione n. 176 del 21/10/2014 con nota prot. n. 6406 del 24/10/2014 di aggiudicazione definitiva della gara di appalto per l'affidamenti di progettazione esecutiva ed esecuzione delle opere relative ai lavori di sistemazione idrogeologica a difesa dell'abitato- mitigazione rischio frana in località Argaria in favore della F.E C. Fondazioni e Costruzioni srl.
...
In secondo luogo, è stato obiettato che nell’offerta tecnica non erano presenti migliorie tali da rendere necessaria una modifica o integrazione della relazione geologica di accompagnamento alla progettazione definitiva posta a base di gara, per cui il preteso adempimento si risolverebbe in una questione di mera forma, inidonea a giustificare l’esclusione della Nikante Costruzioni s.r.l.
Le suesposte questioni sono state esaminate e risolte dalla Sezione con orientamento dal quale non vi è ragione di discostarsi.
Al riguardo, con sentenza 19.03.2014 n. 1578, è stato ritenuto che «l’art. 35 del d.p.r. 05.10.2010 n. 207, a proposito della documentazione che deve comporre il progetto esecutivo, quanto alle relazioni specialistiche, prevede che “il progetto esecutivo prevede almeno le medesime relazione specialistiche contenute nel progetto definitivo, che illustrino puntualmente le eventuali indagini integrative, le soluzioni adottate e le modifiche rispetto al progetto definitivo”; inoltre, ai sensi dell’art. 26 del medesimo regolamento, tra le relazioni tecniche e specialistiche al progetto definitivo figura alla lettera a), proprio la relazione geologica che, di conseguenza, non può mancare come autonomo elaborato anche del progetto esecutivo. Va specificato che il richiamo alla nozione di “relazioni tecniche e specialistiche” di cui alla rubrica dell’art. 26, va inteso in senso complementare e non alternativo, essendo tale accezione opponibile solo al più ampio elaborato costituito dalla relazione generale, che potrebbe avere anche contenuti non tecnici, oltre, che, per definizione, non specialistici. Riprova di tale assunto è che l’art. 35 del regolamento non contiene anche l’espressione relazioni tecniche (ma solo relazioni specialistiche), sebbene queste abbiano finalità illustrativa di aspetti modificativi e di dettaglio del progetto definitivo che non possono non riguardare anche profili tecnici, come proprio quello geologico (...). A ben vedere, tale esigenza, dal punto di vista logico- funzionale, è imposta anche dal rapporto di stretta simmetria e differenziazione esistente tra i vari stadi di progettazione considerati; invero, fin dalla legislazione in materia di lavori pubblici del 1994, si è evidenziata la preferenza del legislatore per una progettazione in progress, cioè per livelli successivi di approfondimento, in cui il vincolo esistente tra i vari livelli, di natura funzionale, è destinato a risolversi nella progettazione esecutiva, che costituisce la conclusione di un percorso armonico che racchiude tutte le fasi che in essa si finiscono per ritrovarsi. Ebbene, urterebbe con tale costruzione la possibilità in alcune fasi di progettazione di segnare il passo rispetto al livello successivo di differenziazione, in violazione dell’autonomia funzionale riconosciuta ai vari livelli».
Ritenuta la necessità della presenza delle relazione geologica anche nella progettazione esecutiva, quanto all’inapplicabilità del meccanismo di eterointegrazione della lex specialis, in riferimento alle norme prescrittive sul contenuto dei livelli di progettazione e relazioni a corredo, è sufficiente rinviare a quanto di recente opinato dalla Sezione, secondo cui «alla luce della riforma recata dal d.l. n. 70/2011, di sostanziale riscrittura dell’art. 46 del d.lgs. 12.04.2006, si rivela ormai superata l’esigenza di qualificare in termini di eterointegrazione il rapporto di completamento tra disposizioni della lex specialis, di fonte provvedimentale, e norme giuridiche primarie e secondarie che devono ora trovare applicazione al procedimento specifico, a prescindere dal loro richiamo nel bando o nel disciplinare; invero, lo spirito della riforma del 2011 è stato quello di riconoscere efficacia precettiva immediata alla voluntas legis, disancorandola del tutto da qualsiasi determinazione della stazione appaltante a cui è stato, infatti, espressamente inibito ogni potere, discrezionale e tecnico- discrezionale, di modifica di principi e precetti specifici che il legislatore ha riservato a sé ed alla fonte di produzione normativa.
Il superamento della logica di eterointegrazione, impone di ritenere che, innanzitutto, a presidio del procedimento di gara esistono le norme giuridiche, rispetto alle quali la determinazioni amministrative possono, queste, ritenersi integrative o, al più meramente specificative di quelle, senza che ne possano in alcun modo limitarne l’ambito applicativo, nemmeno come ragione di possibili dubbi interpretativi. In altri termini, è alla norma che l’interprete deve guardare nel momento in cui deve assumere il parametro di legittimità di una decisione della stazione appaltante in materia di procedimenti di gara
» (TAR Campania, Napoli I Sezione, 08.04.2014 n. 2010).
Relativamente alla seconda argomentazione difensiva, evidenzia il Collegio che l’insussistenza di modifiche rilevanti dal punto di vista geologico tra la progettazione definitiva posta a base di gara e quella di livello esecutivo oggetto di offerta tecnica, non consente di superare il criterio di rigida simmetria imposto dalla norma di riferimento, come rilevato nel richiamato precedente della Sezione, non potendosi giammai prescindere dal contributo del geologo, foss’anche quello di verificare e confermare che le previsioni progettuali oggetto di offerta tecnica del concorrente dal punto di vista geologico non implicano modificazioni rispetto alla progettazione definitiva; ciò a fortiori, per opere come quelle per cui è processo in cui la componente geologica assume un ruolo determinante ai fini della realizzabilità stessa dell’intervento progettato.
E’ appena il caso di aggiungere che trattandosi di un profilo di grave incompletezza dell’offerta tecnica, tale da minarne funditus l’affidabilità e la valutabilità, nessuna possibilità di soccorso istruttorio a fini di integrazione o chiarimento sarebbe stato possibile attivare in favore della ricorrente principale, che avrebbe dovuto senz’altro essere esclusa dalla gara.
In conclusione, in accoglimento del ricorso incidentale devono essere annullati gli atti con cui la Nikante Costruzioni s.r.l. è stata ammessa alla gara e collocata al secondo posto in graduatoria, con conseguente inammissibilità del ricorso principale per carenza di interesse (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 27.03.2015 n. 1837 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONei concorsi per titoli ed esami, ivi compresi quelli indetti dagli enti locali, l’incidenza dei titoli sul punteggio complessivo finale è quella fissata dall’art. 8, comma 2, del D.P.R. n. 487 del 1994, norma che ha stabilito, come si è detto, che per i titoli non può essere attribuito un punteggio complessivo superiore a 10/30 o equivalente.
5.- Così individuato l'oggetto del contendere, occorre allora verificare quale sia effettivamente l'incidenza dei predetti titoli e del relativo punteggio sulla votazione complessiva finale della procedura concorsuale. 
Ai fini del decidere, premessa fondamentale è la circostanza che nei concorsi per titoli ed esami, ivi compresi quelli indetti dagli enti locali, l'incidenza dei titoli sul punteggio complessivo finale è quella fissata dall'art. 8 comma 2, del D.P.R. 487/1994, norma che ha stabilito, come si è detto, che per i titoli non può essere attribuito un punteggio complessivo superiore a 10/30 o equivalente (Consiglio di Stato, Sez. V, 07.10.2013, n. 4922).
Orbene, sul punto il TAR si è preoccupato di chiarire se tale tetto massimo sia da rapportare al punteggio delle altre prove o al punteggio complessivo finale, concludendo, in termini che questo Collegio non può che condividere, che il punteggio massimo di 10/30 o equivalente sia da rapportare non al punteggio delle altre prove ma al punteggio complessivo, e ciò in base a vari indici interpretativi e precedenti giurisprudenziali.
Tale interpretazione, contrariamente da quanto assunto dall'appellante, consente di far proprio un metodo di calcolo e di distribuzione dei punteggi che non attribuisce prevalenza determinante, né ai titoli né alle singole prove d'esame e concilia le esigenze e le aspirazioni dei candidati più giovani rispetto a quelli che, in anni di lavoro, hanno accumulato consistenti titoli di servizio.
5b.- L'attività regolamentare dell'ente, come evidenziato dai primi giudici, non può non tener conto che l'unica differenza tra il concorso per titoli ed esami e quello per solo esami è data dall'aggiunta del punteggio per i titoli (rimanendo entrambe le procedure concorsuali strutturate su prove scritte ed orali), con il dovere di evitare una illogica prevalenza dei titoli o delle prove, trasformando il concorso per soli titoli o per soli esami.
Come si è detto, nei concorsi per titoli ed esami, l'incidenza dei titoli sul punteggio complessivo finale è stata graduata direttamente dal legislatore, il quale all'art. 8 comma 2, del d.p.r. 487/1994 ha previsto espressamente che per i titoli non può essere attribuito un punteggio complessivo superiore a 10/30 o equivalente.
Quindi, il problema di graduare l'incidenza dei titoli e del relativo punteggio sulla votazione complessiva finale, è stato risolto a monte direttamente dal legislatore che ha normativamente prefissato il limite invalicabile dell'incidenza dei titoli sulla valutazione complessiva (Consiglio di stato, Sez. V, 07.10.2013, n. 4922).
L’art. 8, dedicato alla diversa tipologia di concorsi per titoli ed esami, prevede, al comma 4, che “La votazione complessiva è determinata sommando il voto conseguito nella valutazione dei titoli al voto complessivo riportato nelle prove d'esame”.
Orbene, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, nei concorsi per titoli ed esami il punteggio complessivo è costituito dalla somma del punteggio conseguito per la valutazione dei titoli, dalla media del punteggio realizzato nelle prove scritte e dal punteggio attribuito alla prova orale (Cons. Stato Sez. V – 07.10.2013 n. 4922).
Ciò in quanto, pur non prevedendo espressamente il comma 4 dell'art. 8 del D.P.R. n. 487 del 1994 il criterio della media dei voti riportati nelle prove scritte -esplicitamente richiamata solo dall'articolo 7, comma 3, per i concorsi per soli esami– tale norma deve essere sottoposta ad una lettura coordinata con il precedente articolo, imponendo ragioni sistematiche di coordinamento normativo che il criterio della media dei voti per le prove scritte si applichi anche ai concorsi per titoli ed esami.
E l’art. 7, comma 3, del D.P.R. n. 487 del 1994 -contenente il regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi- prevede, poi, che nei concorsi per soli esami “Il punteggio finale è dato dalla somma della media dei voti conseguiti nelle prove scritte o pratiche o teorico-pratiche e della votazione conseguita nel colloquio”.
Invero, un’eventuale differenziazione del criterio di valutazione delle prove scritte in ragione della tipologia di concorso –per soli esami o per titoli ed esami- sarebbe irrazionale, atteso che l'unica differenza tra il concorso per titoli ed esami e quello per soli esami è data dall’aggiunta del punteggio per i titoli, rimanendo entrambe strutturate su prove scritte ed orali.
Si deve ulteriormente rilevare che le prove scritte, sia nei concorsi per titoli ed esami che in quelli per soli esami, pur essendo formalmente articolate in più elaborati e su più materie, costituiscono una prova unitaria al pari di quella orale, con la conseguenza che appare logico che debbano essere valutate sulla base del loro valore mediato in entrambi i concorsi.
6c.- A tale principio non ostano sia le previsioni recate dal bando –il quale prevede che la graduatoria di merito sarà formata “sulla base dei singoli punteggi conseguiti nella valutazione dei titoli di servizio, cultura e vari e nelle prove d’esame”- che dal regolamento di disciplina in materia di accesso agli impieghi presso il Comune, pur trattandosi di disposizioni non chiare, con la conseguenza che deve farsi ricorso alla normativa generale statale in materia di accesso ai pubblici impieghi, la quale delinea il criterio generale della media dei voti delle prove scritte sia con riferimento ai concorsi per esami che ai concorsi per titoli ed esami.
Come si è accennato, peraltro, non ricorre in materia la cedevolezza della normativa statale a fronte della potestà regolamentare nella materia dell’organizzazione dei propri uffici e servizi e del reclutamento del personale attribuita agli enti locali, rappresentando il rinvio, di cui al comma 7 dell’art. 35 D.Lgs. n. 165 del 2001 -specifico per le procedure concorsuali negli enti locali- alla disciplina generale contenuta nel comma terzo dello stesso art. 35, il limite della potestà regolamentare.
6d.- Conseguentemente gli enti locali, nell’esercizio della loro autonomia, sono tenuti, comunque, a conformarsi ai meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire, propri di qualsivoglia procedura concorsuale, statale o locale.
Nel novero di tali meccanismi va ascritto anche il criterio della media dei voti riportati nelle prove scritte o pratiche, e ciò in considerazione del più volte dichiarato carattere di disciplina generale del pubblici concorsi proprio del D.P.R. n. 487 del 1994, e della necessità di ancorare il calcolo del punteggio conseguito dai candidati a parametri uniformi e validi per qualsivoglia concorso e nell’intero territorio nazionale, non potendo la potestà regolamentare essere piegata all’introduzione di criteri disomogenei da comune a comune, suscettibili di produrre risultati diversi a seconda delle modalità seguite.
Se quindi il regolamento dell’ente locale ben si presta a conformare le modalità di assunzione e i requisiti dei concorrenti al diverso assetto dei singoli comuni, così non è per il procedimento concorsuale la cui rigidità, nell’ambito delle diverse tipologie previste dalla legge, è sinonimo di efficienza ed imparzialità, delle quali sono espressione i meccanismi oggettivi e trasparenti che devono presiedere la valutazione delle capacità dei singoli partecipanti secondo l’art. 35 D.Lgs. n. 165/2001 e che proprio per questo sottraggono le modalità di calcolo del punteggio all’autonomia regolamentare degli enti.
7.- In ordine, poi, all’assegnazione del voto in trentesimi, anziché in decimi, il fatto che l’art. 7, comma primo, del d.P.R. n. 487/1994 stabilisce che “i voti sono espressi, di norma, in trentesimi”, ciò non preclude, tuttavia, l’utilizzo del sistema decimale ai fini della valutazione dei candidati, atteso che l’utilizzo del diverso sistema di quantificazione del punteggio non avrebbe condotto a un diverso esito dell’esame (così, Consiglio di Stato, Sez. VI, 17.05.2010, n. 3039).
Priva di fondamento, pertanto, è la complicata tesi dell'appellante, che il legislatore, fissando il punteggio massimo attribuibile ai titoli in 10/30 (o 3,3/10 se espresso in decimi), avrebbe indicato in tale misura il limite inderogabile della loro incidenza sulla votazione complessiva finale, per cui l'incidenza del punteggio riservato ai titoli nel punteggio complessivo finale sarebbe di 10/70 (se il voto fosse espresso in trentesimi e cioè 10 per i titoli + 30 per la media prove scritte + 30 per la prova orale) o 3,3/23,3 (se il voto fosse espresso in decimi e cioè 3,3 per i titoli + 10 per la media prove scritte + 10 per la prova orale).
In entrambi i casi l'incidenza dei titoli sul punteggio complessivo, espressa in termini percentuali, corrisponderebbe al 14,30 %.
La tesi risulta in evidente contrasto con l'interpretazione sistemica in questa sede data alle norme statali e regolamentari del Comune, perché verrebbe attribuito ai titoli un valore minimo, con l'effetto che il concorso, per i motivi esposti, subirebbe un grave sbilanciamento, diventando un concorso essenzialmente per esami e non per titoli ed esami.
Come evidenziato, invece, dall'appellato nelle proprie difese "l'evidente finalità di tale tetto massimo è quella di limitare il peso dei titoli e quindi dell'esperienza rispetto alla preparazione culturale attestata dalle prove scritte e orali; ebbene, proprio in funzione di tale finalità, il tetto massimo deve essere interpretato in via generale in rapporto al punteggio complessivo finale".
Correttamente quindi il TAR ha osservato che il regolamento comunale in materia è, peraltro, sostanzialmente conforme al disposto di cui all'articolo 8 comma 2, del D.P.R. n. 487/1994, sostenendo che "l'amministrazione con le norme del bando della procedura di cui trattasi, dopo avere legittimamente scelto di definire il punteggio con il coefficiente dei decimi invece che dei trentesimi, ha, da un lato, rispettato l'equivalenza, indicando il punteggio minimo per il superamento delle prove di esame in 7/10 e, dall'altro, ha indicato il punteggio massimo attribuibile ai titoli in n. 10 punti che rappresentano, appunto, 1/3 del punteggio massimo complessivo".
Conclusivamente l'appello è infondato e va respinto (massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2015 n. 1615 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGOI bandi di gara e di concorso vanno di regola impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione. Infatti, di fronte alla clausola illegittima del bando, il partecipante alla procedura concorsuale non è ancora da ritenersi titolare di un interesse attuale all'impugnazione, dal momento che egli non sa ancora se l'astratta e potenziale illegittimità della predetta clausola si risolverà in un esito negativo della sua partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in una effettiva lesione della situazione soggettiva.
L'onere d'immediata impugnazione del bando di concorso è, invero, circoscritto al caso della contestazione di clausole escludenti, riguardanti requisiti di partecipazione, che siano ex se ostative all'ammissione dell'interessato, o, al più, impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale. Le rimanenti clausole, invece, vanno ritenute lesive ed impugnate insieme con l'atto di approvazione della graduatoria definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva.

Al riguardo il Collegio osserva, alla luce di un oramai consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa, che i bandi di gara e di concorso vanno di regola impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione. Infatti, di fronte alla clausola illegittima del bando, il partecipante alla procedura concorsuale non è ancora da ritenersi titolare di un interesse attuale all'impugnazione, dal momento che egli non sa ancora se l'astratta e potenziale illegittimità della predetta clausola si risolverà in un esito negativo della sua partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in una effettiva lesione della situazione soggettiva (Cons. Stato ad. plen., 29.01.2003, n. 1).
L'onere d'immediata impugnazione del bando di concorso è, invero, circoscritto al caso della contestazione di clausole escludenti, riguardanti requisiti di partecipazione, che siano ex se ostative all'ammissione dell'interessato, o, al più, impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale. Le rimanenti clausole, invece, vanno ritenute lesive ed impugnate insieme con l'atto di approvazione della graduatoria definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva (in termini, Cons. St., sez. V, 27.10.2014, n. 5282) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.03.2015 n. 1615 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini del rilascio del permesso di costruire, la nozione di costruzione si configura comunque in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi.
Ciò a prescindere dal fatto che detta trasformazione e/o alterazione avvenga mediante realizzazione di opere murarie, ben potendo trattarsi di opere realizzate in legno, metallo, in laminati di plastica, o altro materiale, che attuino un'evidente trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e che riguardino opere preordinate a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo funzionale.
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La giurisprudenza ha da tempo chiarito che “il concetto di pertinenza civilistico e quello urbanistico/edilizio sono da tenere distinti, sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello principale, incidono con tutta evidenza sull’assetto edilizio preesistente, determinando un aumento del carico urbanistico, devono ritenersi sottoposti a permesso di costruire”.
In sostanza, per l’individuazione di un’opera quale pertinenza rilevano non soltanto gli elementi strutturali (composizione dei materiali, smontabilità o meno del manufatto) ma anche i profili funzionali, sicché non può, attribuirsi il carattere pertinenziale ai fini edilizi ad interventi solo in quanto destinati a servizio del bene principale, specie qualora si tratti di opere di natura non precaria ma dotate di una destinazione permanente e durevole nel tempo.
Analogamente è a dirsi per la tettoia che, ancorché avente natura pertinenziale, qualora sia di rilevanti dimensioni come nella specie (metri 10,00 x 8,00 e h mt. 6,00 circa), pacificamente è configurabile quale intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, nella misura in cui realizza "l'inserimento di nuovi elementi ed impianti" ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.p.r..

2. Il ricorso è infondato e va respinto secondo quanto di seguito argomentato.
Nel presente giudizio si controverte circa la legittimità di un ordine di demolizione prot. n. 44564 del 03.12.2010, irrogato ai sensi dell’art. 107, comma 3, lett. g), del d.lgs. n. 267/2000 e dell’art. 27 d.p.r. n. 380/2001, avente ad oggetto le seguenti opere realizzate in assenza di permesso di costruire:
- un capannone con struttura portante in ferro, tompagnato con blocchi di lapil cemento e copertura in lamiere coibentate di dimensioni di mt. 10,00 x 8,00 e h. mt. 6,00 circa, completo di intonaci, porta di ingresso impianto elettrico e massetto di calpestio in cls.;
- in adiacenza ad esso una tettoia in ferro con copertura in legno montata su ruote adibita a copertura di manufatti in legno, avente le dimensioni di mt. 10,00 x 8,00 e h mt. 6,00 circa aperta sui lati;
- al civico n. 14 della III Traversa di via ... un’area destinata all’esposizione dei manufatti non provvisti di impianti ad eccetto di uno adibito ad ufficio.
2.1 Tanto premesso, avuto riguardo alla natura degli interventi contestati riconducibili alla fattispecie di “nuova costruzione”, destituito di fondamento è il motivo con cui i ricorrenti lamentano che per l’intervento edilizio realizzato non sarebbe stata necessario il permesso di costruire bensì la sola DIA con la conseguenza che il Comune non avrebbe potuto adottare la misura rispristinatoria. Segnatamente, secondo parte ricorrente, si sarebbe trattato di un intervento di manutenzione straordinaria (o al più di ristrutturazione edilizia) di opere aventi natura pertinenziale. In realtà il Comune di Pozzuoli ha rilevato l’esistenza di un capannone, di una tettoia, e di un’annessa area espositiva con locale destinato ad uso ufficio, strumentali all’esercizio dell’attività commerciale, svolta dalla società E.g.m. s.a.s. avente ad oggetto l’assemblaggio di prefabbricati in legno.
Trattasi d’interventi che, in quanto idonei per caratteristiche e dimensioni a concretare una significativa trasformazione dello stato dei luoghi, restano indiscutibilmente assoggettati al rilascio del previo permesso di costruire, ai sensi del combinato disposto degli articoli 3 e 10 del D.P.R. n. 380 del 2001 essendo evidente che si tratta di strutture a carattere permanente e non precarie.
Ai fini del rilascio del permesso di costruire, la nozione di costruzione si configura comunque in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi. Ciò a prescindere dal fatto che detta trasformazione e/o alterazione avvenga mediante realizzazione di opere murarie, ben potendo trattarsi di opere realizzate in legno, metallo, in laminati di plastica, o altro materiale, che attuino un'evidente trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e che riguardino opere preordinate a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo funzionale (cfr. ex multis CdS, Sez. IV, n. 2705/2008 in tal senso anche Consiglio Stato, sez. V, 13.06.2006, n. 3490).
2.2 Peraltro del tutto inconferente si appalesa, ai fini urbanistici, la pretesa funzione pertinenziale degli interventi, atteso che, sul punto, la giurisprudenza ha da tempo chiarito che “il concetto di pertinenza civilistico e quello urbanistico/edilizio sono da tenere distinti, sicché gli interventi che, pur essendo accessori a quello principale, incidono con tutta evidenza sull’assetto edilizio preesistente, determinando un aumento del carico urbanistico, devono ritenersi sottoposti a permesso di costruire”, - cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 07.04.2011, n. 2159; sez. IV, 13.01.2010, n. 41; TAR Campania, questa Sez., 03.12.2010, n. 26788).
In sostanza, per l’individuazione di un’opera quale pertinenza rilevano non soltanto gli elementi strutturali (composizione dei materiali, smontabilità o meno del manufatto) ma anche i profili funzionali (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater, n. 11679 del 23.11.2007), sicché non può, attribuirsi il carattere pertinenziale ai fini edilizi ad interventi solo in quanto destinati a servizio del bene principale, specie qualora si tratti di opere di natura non precaria ma dotate di una destinazione permanente e durevole nel tempo.
Analogamente è a dirsi per la tettoia che, ancorché avente natura pertinenziale, qualora sia di rilevanti dimensioni come nella specie (metri 10,00 x 8,00 e h mt. 6,00 circa), pacificamente è configurabile quale intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, nella misura in cui realizza "l'inserimento di nuovi elementi ed impianti" ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.p.r..
Da quanto precede deriva che le opere abusivamente realizzate, non possono essere, come vorrebbero i ricorrenti, derubricate da intervento di nuova costruzione a intervento di manutenzione straordinaria o di ristrutturazione edilizia con conseguente mitigazione del trattamento sanzionatorio che avrebbe dovuto esaurirsi, al più, nell'applicazione delle misure di cui all'articolo 37 del D.P.R. n. 380/2001 (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2015 n. 1759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere edilizie abusive “realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione e, se costituenti pertinenze, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione”; “fermo che in materia urbanistica, a differenza che nella materia civilistica, possono costituire pertinenza solo manufatti inidonei ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio, ove vi sia alterazione dell’aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.l.vo n. 42 del 2004), le stesse risultano soggette alla previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica”; il che comporta che “quand’anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l’applicazione della sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa autorizzazione paesistica”.
Inoltre, la qualificazione, in ipotesi, di un intervento incidente sugli esterni non comporta affatto che per la sua realizzazione, o per il suo ampliamento, possa prescindersi dall’autorizzazione paesaggistica.
Risulta quindi legittima la disciplina di settore applicata (id est art. 27 d.p.r. n. 380/2001) che sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità e siffatta misura resta applicabile, sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta.
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Va, inoltre, ricordato che in tema di edilizia, nel modello legale di riferimento, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione.
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabili a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria.
In altri termini, non è richiesto, rispetto alle già evidenziate emergenze un supplemento di motivazione: nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione.

3. Sotto il profilo ambientale, trattandosi di opere realizzate in area dichiarata di notevole interesse pubblico con d.m. 12.09.1957, la Sezione ha anche recentemente osservato (cfr. TAR Napoli, VI Sezione, 20.02.2014 n. 1122 e copiosa giurisprudenza ivi richiamata) che le opere edilizie abusive “realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione e, se costituenti pertinenze, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione”; “fermo che in materia urbanistica, a differenza che nella materia civilistica, possono costituire pertinenza solo manufatti inidonei ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio, ove vi sia alterazione dell’aspetto esteriore (cfr. art. 149 del d.l.vo n. 42 del 2004), le stesse risultano soggette alla previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica”; il che comporta che “quand’anche si ritenessero le opere pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera D.I.A., l’applicazione della sanzione demolitoria è, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa autorizzazione paesistica”.
Inoltre, la qualificazione, in ipotesi, di un intervento incidente sugli esterni non comporta affatto che per la sua realizzazione, o per il suo ampliamento, possa prescindersi dall’autorizzazione paesaggistica. Risulta quindi legittima la disciplina di settore applicata (id est art. 27 d.p.r. n. 380/2001) che sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità e siffatta misura resta applicabile, sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi e non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta (Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del 07.04.2010 e sezione terza, 11.03.2009, n. 1376).
4. Va, inoltre, ricordato che in tema di edilizia, nel modello legale di riferimento, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabili a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria (Tar Campania Napoli, sempre questa sesta sezione, 14.04.2010, n. 1975).
In altri termini, non è richiesto, rispetto alle già evidenziate emergenze un supplemento di motivazione: nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l'esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2015 n. 1759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La vincolatezza del provvedimento di demolizione opera abusiva comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato). E’ infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto.
Tale conclusione non muta in relazione al tempo trascorso dalla commissione dell’abuso o dall’accertamento del medesimo; in merito, infatti, non è “configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto”.
E ciò, ancora una volta, soprattutto ove l’intervento sanzionato incida, come qui accade, su di un territorio particolarmente protetto in cui l’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) "in re ipsa"

5. Quanto alla dedotta carenza di motivazione sul preteso affidamento in rapporto alla risalenza dell’opera, come si è affermato in numerosissime occasioni, la vincolatezza del provvedimento comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato). E’ infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VI, n. 9718/2008 e 4037/2013).
Tale conclusione non muta in relazione al tempo trascorso dalla commissione dell’abuso o dall’accertamento del medesimo; in merito, infatti, non è “configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto” (cfr., da ultimo, Cons. Stato sezione quarta, 16.04.2012, n. 2185 e Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2903 del 05.06.2013 cit., n. 760 del 06.02.2013, n. 5084 del 11.12.2012, n. 2689 del 07.06.2012).
E ciò, ancora una volta, soprattutto ove l’intervento sanzionato incida, come qui accade, su di un territorio particolarmente protetto in cui l’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) "in re ipsa" (cfr. la giurisprudenza della Sezione fin qui riportata e, cfr. anche, per il principio generale, Cons. Stato, sezione quinta, sentenza 06.03.2012, n. 1260) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2015 n. 1759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione ex art. 27 d.P.R. 380/2001 di immobili edificati abusivamente in zona sottoposta a tutela paesaggistica è provvedimento rigidamente vincolato e tale circostanza rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; trova, infatti, applicazione l’art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990.
6. Neppure è fondata la censura relativa all’omessa comunicazione di avvio del procedimento. Infatti, l’ordine di demolizione ex art. 27 d.P.R. 380/2001 di immobili edificati abusivamente in zona sottoposta a tutela paesaggistica è provvedimento rigidamente vincolato e tale circostanza rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; trova, infatti, applicazione l’art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990 (in giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, VI sez., n. 3706/2012; Consiglio Stato sez. V, 19.09.2008, n. 4530; TAR Napoli Campania sez. IV, 02.12.2008, n. 20794 e Tar Campania, Napoli, sez. IV, 16.06.2000 n. 2147) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2015 n. 1759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’istanza di accertamento di conformità non ha alcuna refluenza sul piano della legittimità dell’ordinanza di demolizione, potendo, al più, condizionare la possibilità di portarla ad esecuzione.
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Il permesso di costruire in sanatoria contenente prescrizioni è in palese contrasto con l'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 poiché postulerebbe non già la cd. doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all'esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui la richiedente avrebbe ottemperato alle prescrizioni.

7. Del pari va escluso alcun effetto inficiante dell’ordine di demolizione gravato in conseguenza dell’intervenuta presentazione di un’istanza di permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380/2001.
Non può difatti sostenersi che il Comune avrebbe dovuto revocare l’ordine di demolizione in seguito alla presentazione della predetta istanza, alla luce del costante giurisprudenza della sezione secondo cui l’istanza di accertamento di conformità non ha alcuna refluenza sul piano della legittimità dell’ordinanza di demolizione, potendo, al più, condizionare la possibilità di portarla ad esecuzione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 06.09.2010, n. 17306; nello stesso senso v. Consiglio Stato, sez. IV, 19.02.2008, n. 849 e Consiglio di stato, sez. V, 29.05.2006, n. 3236).
Peraltro è da rilevare che l’istanza di cui all’art. 36 d.p.r. n. 380/2001 è stata presentata subordinatamente all’esecuzione di ulteriori opere per ricondurre a conformità il manufatto tompagnato, provvedendo ad eliminarne le pareti per ricondurre la sanatoria ad una mera tettoia pertinenziale.
Come noto, il permesso di costruire in sanatoria contenente prescrizioni è in palese contrasto con l'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 poiché postulerebbe non già la cd. doppia conformità delle opere abusive pretesa dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post, condizionata all'esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma, eventualmente, solo alla data futura ed incerta in cui la richiedente avrebbe ottemperato alle prescrizioni (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2015 n. 1759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell’opera principale alla quale ineriscono strutturalmente”, sicché non può ammettersi “la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive”, con conseguente “obbligo del Comune di ordinarne la demolizione".
L’affermazione dei divisati postulati, infatti, non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento alla medesima sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica (art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 e art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326).
Procedura che deve essere seguita rigidamente anche per quanto attiene alle modalità di presentazione dell’istanza, sia al fine di conferire certezze in ordine allo stato dei luoghi che al fine di evitare postumi (tentativi di) disconoscimenti della circostanza per cui, come previsto dalla legge, l’esecuzione delle opere, pur se autorizzate, avviene sotto la propria responsabilità, ovverosia nella piena consapevolezza –resa esplicita dal ricorso espresso alla procedura ex art. 35 cit.- che, sebbene interventi di natura eminentemente conservativa possono essere ammessi, si sta agendo assumendo espressamente a proprio carico rischi e pericoli connessi, cosicché se il condono verrà negato si dovrà demolire anche le migliorie apportate.
In definitiva, “in siffatte evenienze la misura repressiva costituisce atto dovuto, che non può essere evitata nell’assunto che per le opere realizzate non fosse necessario il permesso di costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono, vale il diverso principio in forza del quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra opere soggette al permesso di costruire ed opere realizzabili con d.i.a.”.
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Le opere oggetto della sanzione della demolizione ricadono in zona vincolata, segnatamente trattandosi di opere realizzate su area dichiarata di notevole interesse pubblico.
Va allora osservato, trattandosi peraltro di arresti giurisprudenziali consolidati nell’orientamento della Sezione che:
- le opere edilizie realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico sono soggette alla previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, il che comporta che, quand’anche si ritenessero le opere realizzate senza titolo pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera d.i.a., l’applicazione della sanzione demolitoria sarebbe, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa autorizzazione paesistica;
- la qualificazione, in ipotesi, di un intervento incidente sugli esterni non comporta affatto che per la sua realizzazione, o per il suo ampliamento, possa prescindersi dall’autorizzazione paesaggistica.
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In tema di edilizia, nel modello legale di riferimento, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione.
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabili a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria.
Da quanto precede deriva che l’applicazione della sanzione demolitoria era doverosa anche per come disposto dall’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001, secondo cui qualunque intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo paesistico è da qualificarsi almeno come “variazione essenziale” e, in quanto tale, è suscettibile di esser demolito ai sensi dell’art. 31, co. 1, T.U. ed. cit. (art. 32, co. 3, T.U. ed.: «gli interventi di cui al comma 1, effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed ambientale, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e regionali, sono considerati in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44. Tutti gli altri interventi sui medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali») .
Quanto, poi, alla sussistenza, ai sensi dell’art. 33 del citato d.P.R. (concernente gli interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità) di un obbligo per il Comune di verificare la possibilità tecnica del ripristino prima dell’irrogazione della sanzione ripristinatoria, obbligo del cui adempimento l’ente avrebbe dovuto, a detta di parte ricorrente, dare conto nel testo della motivazione (cfr. terzo motivo), si osserva in prima battuta, che, giusta quanto già sopra evidenziato, la fattispecie qui in rilievo va sussunta sotto il combinato disposto degli articolo 31 e 32 del d.p.r. 380/2001 (ovvero dell’articolo 27 del medesimo provvedimento normativo). Di poi, è necessario soggiungere che la norma invocata individua, comunque, come prima opzione sanzionatoria, proprio quella ripristinatoria, a conferma della gravità dell’abuso e della previa necessità del titolo autorizzatorio al quale lo stesso è subordinato, prevedendo semplicemente la possibilità, qualora emergano difficoltà tecniche in sede di esecuzione della demolizione, di irrogare la sanzione pecuniaria.
Tale evenienza rileva, appunto, solo in sede esecutiva, così che la sua assenza nell’ordinanza di demolizione (come pure l'eventuale presenza del presupposto dell'impossibilità di demolire) non può costituire vizio dell'ordine di riduzione in pristino.
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Come costantemente affermato in giurisprudenza, “… in presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001. Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato”.
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Infine, per quanto concerne la mancata indicazione nell’ordinanza impugnata dell’area di sedime da acquisire in caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione da parte della ricorrente, si osserva che, come ripetutamente affermato dalla sezione, fermo che l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce, ex art. 31, comma 3, d.P.R. 380 del 2001, effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di demolizione e non abbisogna di previe specificazioni, necessarie solo per l’individuazione della ulteriore (“nonché”) area “necessaria alla realizzazione di opere analoghe…”, di cui alla restante parte della previsione, l’individuazione di quest’ultima ben può essere operata “con un successivo e separato atto”.

Il ricorso è infondato e va pertanto respinto.
Va, preliminarmente, ricordato il costante orientamento della Sezione, confortato da pronunce del giudice di appello (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, ord. n. 2182 del 18.05.2011), dal quale non vi sono ragioni per discostarsi, secondo cui “in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche) ripetono le caratteristiche di illegittimità dell’opera principale alla quale ineriscono strutturalmente”, sicché non può ammettersi “la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive”, con conseguente “obbligo del Comune di ordinarne la demolizione” (cfr. Tar Campania, Napoli, questa VI Sez., ex multis, sentenze n. 1913 del 02.04.2014; 2910 del 05.06.2013, n. 2006 del 02.05.2012, n. 2624 del 11.05.2011, n. 1218 del 25.02.2011, n. 26788 del 03.12.2010; 05.05.2010, n. 2811, 10.02.2010, n. 847 e 28.01.2010, n. 423; sezione seconda, 07.11.2008, n. 19372; negli stessi sensi, Cass. Penale, sezione terza, 24.10.2008, n. 45070). Per ovviare alla inerzia dei Comuni nel definire risalenti istanze di condono, esistono rapidi e agili strumenti di tutela.
L’affermazione dei divisati postulati, infatti, non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento alla medesima sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell’art. 35 della l. n. 47 del 1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica (art. 39 della l. 23.12.1994, n. 724 e art. 32 della l. 24.11.2003, n. 326). Procedura che deve essere seguita rigidamente anche per quanto attiene alle modalità di presentazione dell’istanza, sia al fine di conferire certezze in ordine allo stato dei luoghi che al fine di evitare postumi (tentativi di) disconoscimenti della circostanza per cui, come previsto dalla legge, l’esecuzione delle opere, pur se autorizzate, avviene sotto la propria responsabilità, ovverosia nella piena consapevolezza –resa esplicita dal ricorso espresso alla procedura ex art. 35 cit.- che, sebbene interventi di natura eminentemente conservativa possono essere ammessi, si sta agendo assumendo espressamente a proprio carico rischi e pericoli connessi, cosicché se il condono verrà negato si dovrà demolire anche le migliorie apportate (cfr. la giurisprudenza della Sezione, già sopra riportata).
In definitiva, “in siffatte evenienze la misura repressiva costituisce atto dovuto, che non può essere evitata nell’assunto che per le opere realizzate non fosse necessario il permesso di costruire o che avessero natura pertinenziale; ciò perché, in caso di prosecuzione dei lavori di un immobile già oggetto di domanda di condono, vale il diverso principio in forza del quale è la prosecuzione in sé dei lavori ad essere preclusa, senza che sia possibile distinguere tra opere pertinenziali e non, tra opere soggette al permesso di costruire ed opere realizzabili con d.i.a.” (cfr. ex multis Tar Campania, Napoli, VI sezione, 20/03/2014 n. 1606; 29.10.2013 n. 4817, VII sezione 14.01.2011, n. 160).
Deve ritenersi, quindi, che l’operato dell’amministrazione si appalesa legittimo tenuto conto che alcuna procedura ex art. 35 della legge 47/1985 risulta attivata.
In disparte quanto fin qui evidenziato, di per se stesso assorbente, deve rilevarsi che le restanti censure formulate in ricorso devono essere respinte anche sotto un distinto profilo.
Va, infatti, evidenziato che le opere oggetto della sanzione della demolizione ricadono in zona vincolata, segnatamente trattandosi di opere realizzate su area dichiarata di notevole interesse pubblico.
Va allora osservato, trattandosi peraltro di arresti giurisprudenziali consolidati nell’orientamento della Sezione (cfr. TAR Napoli, VI Sezione, 20.02.2014 n. 1122 e copiosa giurisprudenza ivi richiamata) che:
- le opere edilizie realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico sono soggette alla previa acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, il che comporta che, quand’anche si ritenessero le opere realizzate senza titolo pertinenziali o precarie e, quindi, assentibili con mera d.i.a., l’applicazione della sanzione demolitoria sarebbe, comunque, doverosa ove non sia stata ottenuta alcuna previa autorizzazione paesistica;
- la qualificazione, in ipotesi, di un intervento incidente sugli esterni non comporta affatto che per la sua realizzazione, o per il suo ampliamento, possa prescindersi dall’autorizzazione paesaggistica.
Tutto quanto innanzi considerato consente di ritenere la legittimità dell’avversata ordinanza quanto alla stessa qualificazione di abusività delle opere nella stessa elencate.
Va, inoltre, ricordato che in tema di edilizia, nel modello legale di riferimento, non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ per la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali che elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabili a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria (Tar Campania-Napoli, sempre questa sesta sezione, 14.04.2010, n. 1975).
Da quanto precede deriva che l’applicazione della sanzione demolitoria era doverosa anche per come disposto dall’art. 32, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001, secondo cui qualunque intervento effettuato su immobili sottoposti a vincolo paesistico è da qualificarsi almeno come “variazione essenziale” e, in quanto tale, è suscettibile di esser demolito ai sensi dell’art. 31, co. 1, T.U. ed. cit. (art. 32, co. 3, T.U. ed.: «gli interventi di cui al comma 1, effettuati su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico ed ambientale, nonché su immobili ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e regionali, sono considerati in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44. Tutti gli altri interventi sui medesimi immobili sono considerati variazioni essenziali») .
Quanto, poi, alla sussistenza, ai sensi dell’art. 33 del citato d.P.R. (concernente gli interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità) di un obbligo per il Comune di verificare la possibilità tecnica del ripristino prima dell’irrogazione della sanzione ripristinatoria, obbligo del cui adempimento l’ente avrebbe dovuto, a detta di parte ricorrente, dare conto nel testo della motivazione (cfr. terzo motivo), si osserva in prima battuta, che, giusta quanto già sopra evidenziato, la fattispecie qui in rilievo va sussunta sotto il combinato disposto degli articolo 31 e 32 del d.p.r. 380/2001 (ovvero dell’articolo 27 del medesimo provvedimento normativo). Di poi, è necessario soggiungere che la norma invocata individua, comunque, come prima opzione sanzionatoria, proprio quella ripristinatoria, a conferma della gravità dell’abuso e della previa necessità del titolo autorizzatorio al quale lo stesso è subordinato, prevedendo semplicemente la possibilità, qualora emergano difficoltà tecniche in sede di esecuzione della demolizione, di irrogare la sanzione pecuniaria.
Tale evenienza rileva, appunto, solo in sede esecutiva, così che la sua assenza nell’ordinanza di demolizione (come pure l'eventuale presenza del presupposto dell'impossibilità di demolire) non può costituire vizio dell'ordine di riduzione in pristino (cfr., ex multis, in relazione all’art. 33, TAR Campania-Napoli, sez. IV, 12.12.2012, n. 5108 e, in relazione all’art. 34, TAR Campania, Napoli, sez. VII. 07.06.2012, n. 2712).
Da quanto precede deriva che la sanzione demolitoria, in considerazione della visibile alterazione del paesaggio, era doverosa.
Deve essere respinto anche il motivo con il quale parte ricorrente lamenta l’omessa valutazione del danno ambientale e della possibilità di applicare in via alternativa alla demolizione l’indennità prevista dall’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
Come già evidenziato dalla Sezione, l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio (cfr., ex multis, Tar Campania, Napoli, questa sezione sesta, n. 5805 del 14.12.2011, n. 1770 del 07.04.2010; 26.06.2009, n. 3530 e 27.03.2007, n. 2885); il che a dire, con convergenti locuzioni, “che l’astratta attitudine sanante del procedimento ex art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 si esaurisce nella conversione della misura ripristinatoria in quella pecuniaria limitatamente, però, agli illeciti che compromettono i valori paesistico–ambientali. Di contro, nel caso di specie, l’illecito in contestazione –per effetto della sua intrinseca portata plurioffensiva– è stato elevato nell’ambito di altro settore dell’ordinamento, quello che disciplina l’attività edilizia, governato da disposizioni autonome rispetto a quelle compendiate nel d.lgs. 42/2004” (così Tar Campania, sempre questa sesta sezione, sentenza n. 5401 del 21.10.2014).
Parimenti infondate si rivelano, le ulteriori censure con cui parte ricorrente lamenta l’inadeguatezza dell’istruttoria condotta e l’insufficienza del corredo motivazionale dell’atto impugnato anche con riguardo alla valutazione della sanabilità dell’abuso.
Vale, infatti, ribadire che la realizzazione delle opere in questione, in mancanza dei prescritti titoli abilitativi, di per se stessa, fondava la reazione repressiva dell’organo di vigilanza.
In altri termini, l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.
Non può condividersi, quindi, neanche la censura formulata dal ricorrente mediante la quale si sostiene l’illegittimità del provvedimento gravato per non avere il Comune valutato la sanabilità dell’opera ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. 380/2001, prima di ordinarne la demolizione.
Come costantemente affermato in giurisprudenza, “… in presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001. Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31 del d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato” (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 21.11.2013, n. 5226, sez. IV, 06.07.2007 , n. 6552).
Infine, per quanto concerne la mancata indicazione nell’ordinanza impugnata dell’area di sedime da acquisire in caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione da parte della ricorrente, si osserva che, come ripetutamente affermato dalla sezione (cfr. tra le tante, sentenze n. 3492 del 04.07.2013, n. 6141 del 18.05.2011), fermo che l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime costituisce, ex art. 31, comma 3, d.P.R. 380 del 2001, effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di demolizione e non abbisogna di previe specificazioni, necessarie solo per l’individuazione della ulteriore (“nonché”) area “necessaria alla realizzazione di opere analoghe…”, di cui alla restante parte della previsione, l’individuazione di quest’ultima ben può essere operata “con un successivo e separato atto” (Tar Campania, questa sesta sezione, 16.06.2011, n. 3194, 11.05.2011, n. 2624; Tar Lazio, Roma, sez. I, 07.03.2011, n. 2031; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2809) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.03.2015 n. 1734 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini del decorso effettivo dell'inizio lavori, la predisposizione di una recinzione, l’eliminazione della vegetazione e l’esecuzione di movimenti di terra fino allo stadio della realizzazione dello sbancamento del terreno sono di per sé insufficienti, in assenza di ulteriori elementi, a dimostrare l’effettivo intento di dare avvio ai lavori.
Ritiene il Collegio che debba trovare piena applicazione il consolidato indirizzo giurisprudenziale per il quale “l'effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edilizio così come programmato e autorizzato, e ciò al ben evidente scopo di evitare che il termine per l'avvio dell'edificazione possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici, e quindi non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione”.
Invero, è stato chiarito che “l’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza del titolo edilizio può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà da di realizzare l’opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione; ovvero, detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione, con la conseguenza che la declaratoria di decadenza del titolo edilizio per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima solo se sono stati perlomeno eseguiti “lo scavo ed il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il termine di legge” o se lo sbancamento realizzato si estende un’area di vaste dimensioni”.

... per l'annullamento del provvedimento del 23.09.2005, con il quale è stata dichiarata la decadenza del permesso di costruire prot. n. 14206 del 26.06.2004 emesso dallo Sportello Unico per le Imprese – Servizio convenzionato tra i Comuni, con sede presso il Comune di Olgiate Comasco.
...
9. L’unica questione oggetto del giudizio consiste nello stabilire se il provvedimento che ha dichiarato la decadenza del permesso di costruire rilasciato alla ricorrente abbia correttamente accertato il mancato inizio dei lavori entro il prescritto termine annuale.
10. Deve, anzitutto, muoversi dall’esame del contenuto del permesso di costruire rilasciato alla ricorrente.
In particolare, il titolo abilitava alla realizzazione di un “complesso agricolo adibito a deposito e fienile”, prevedendo altresì l’impegno dell’interessata a “procedere all’attuazione delle opere di urbanizzazione necessarie all’insediamento contemporaneamente alla realizzazione dell’intervento oggetto del permesso”; opere –queste ultime– consistenti nella “realizzazione dell’allacciamento al pubblico acquedotto”. Dal titolo risulta inoltre la necessità di dotare il complesso agricolo di un sistema di dispersione degli scarichi di origine civile negli strati superficiali del sottosuolo, “previo trattamento di chiarificazione mediante fossa Imhoff o similare”.
11. Così determinata l’entità delle opere da realizzare, occorre rilevare che il permesso di costruire recava l’espressa affermazione per cui “il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo”.
Come detto, il provvedimento risulta emesso il 26.06.2004 e notificato alla ricorrente il 29.06.2004.
Ne deriva che, individuando la data di rilascio in quella di notificazione del titolo, l’effettivo inizio dei lavori avrebbe dovuto avere luogo entro la data del 29.06.2005.
...
14. Quanto, poi, all’entità complessiva delle attività svolte entro il 29.06.2005, può farsi riferimento all’esito del sopralluogo in data 11 luglio, nonché al verbale del Corpo forestale dello Stato, sopra richiamati.
In particolare, alla luce degli elementi sopra riportati, risulta che la ricorrente si sia attivata solo nell’imminenza della scadenza del termine di decadenza del titolo, e che siano state eseguite, nell’arco di pochi giorni, mere operazioni preparatorie della successiva attività edificatoria, consistenti nello sfalcio della vegetazione, nella recinzione dell’area e nell’esecuzione di movimenti di terra.
Non può dirsi neppure provato, al riguardo, che tali attività siano pervenute fino allo stadio dell’esecuzione di un vero e proprio sbancamento del terreno.
E invero, i reiterati sopralluoghi del Comune hanno rilevato –come detto– meri “movimenti di terra”, mentre –d’altro canto– la ricorrente non ha nemmeno acconsentito, al fine di accertare quale fosse lo stato dei luoghi, alla richiesta di sopralluogo congiunto formulata dall’Amministrazione. La ricorrente produce invece in questa sede la fattura sopra menzionata, recante la data del 31.08.2005, ove si fa riferimento all’esecuzione di uno sbancamento. Tale documento, però, appare di per sé solo inidoneo a dimostrare con sicurezza l’effettivo compimento di tale attività, né comprova l’epoca in cui la stessa sarebbe avvenuta.
15. Ciò posto, ritiene il Collegio che le operazioni sopra descritte non possano essere ritenute idonee a configurare un effettivo inizio dei lavori, tale da impedire, ai sensi dell’articolo 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, la decadenza del permesso di costruire.
E invero, nel caso di specie l’opera da realizzare consisteva –come detto– in un complesso agricolo di nuova edificazione, comportante una rilevante trasformazione dell’area, precedentemente coperta da vegetazione, la quale doveva essere contestualmente dotata delle necessarie opere volte ad asservirla per la prima volta all’utilizzazione edificatoria.
A fronte di tale intervento, ritiene il Collegio che debba trovare piena applicazione il consolidato indirizzo giurisprudenziale per il quale “l'effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in via generale ed astratta, ma con specifico e puntuale riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edilizio così come programmato e autorizzato, e ciò al ben evidente scopo di evitare che il termine per l'avvio dell'edificazione possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici, e quindi non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 16.11.1998 n. 1615 e, ancor più recentemente, Cons. Stato, Sez. IV, 18.05.2012 n. 2915)” (così Cons. Stato, Sez. IV, n. 4855 del 2013, cit.).
In tale prospettiva, la medesima pronuncia ora richiamata ha chiarito che “l’inizio dei lavori idoneo ad impedire la decadenza del titolo edilizio può ritenersi sussistente quando le opere intraprese siano tali da evidenziare l’effettiva volontà da di realizzare l’opera, non essendo a ciò sufficiente il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione (così Cons. Stato, Sez. V, 22.11.1993 n. 1165); ovvero, detto altrimenti, l’inizio dei lavori non è configurabile per effetto della sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento e senza che sia manifestamente messa a punto l’organizzazione del cantiere e sussistendo altri indizi che dimostrino il reale proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.10.2000 n. 5242), con la conseguenza che la declaratoria di decadenza del titolo edilizio per mancato inizio dei lavori entro il termine fissato è illegittima solo se sono stati perlomeno eseguiti “lo scavo ed il riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna entro il termine di legge” (Cons. Stato, Sez. V, 15.10.1992 n. 1006) o se lo sbancamento realizzato si estende un’area di vaste dimensioni (Cons. Stato, Sez. V, 13.05.1996 n. 535)”.
Nel caso oggetto del presente giudizio non ricorre alcuna delle situazioni sopra indicate.
E invero, come sopra detto, nell’area deputata alla realizzazione del complesso agricolo risultava solo la predisposizione di una recinzione, l’eliminazione della vegetazione e l’esecuzione di movimenti di terra. Questi ultimi –a tutto voler concedere, benché, come detto, la circostanza non sia da ritenere provata– potevano essere pervenuti fino allo stadio della realizzazione dello sbancamento del terreno; stadio che, come affermato dalla giurisprudenza sopra richiamata, è comunque da ritenere di per sé insufficiente, in assenza di ulteriori elementi, a dimostrare l’effettivo intento di dare avvio ai lavori.
Né a diverse conclusioni potrebbe pervenirsi assumendo la modesta entità del manufatto da realizzare, a fronte della quale l’avvio dei lavori dovrebbe essere eventualmente valutato con minor rigore. E ciò per due ordini di ragioni.
Sotto un primo profilo, si è già evidenziato come la descrizione contenuta nel permesso di costruire inducesse a ritenere che l’intervento comportasse la realizzazione di un insieme articolato di opere e l’esecuzione di lavori non privi di complessità.
Sotto altro profilo, assume poi carattere dirimente la circostanza che –quale che fosse l’entità delle opere da realizzare– nella specie non era concretamente rinvenibile alcun serio indizio della volontà di dare avvio all’intervento assentito, posto che all’esecuzione di attività aventi comunque, per loro natura, carattere preparatorio della futura edificazione non si era palesemente accompagnata l’effettiva organizzazione del cantiere volto alla costruzione del manufatto.
16. Deve, poi, evidenziarsi come le operazioni eseguite sul fondo –già di per sé insufficienti, dal punto di vista strettamente edilizio, a comprovare il serio intento di dare avvio ai lavori– non siano state neppure eseguite previo ottenimento di tutti i necessari atti abilitativi.
Ciò è dimostrato, in particolare, dal provvedimento del Corpo forestale dello Stato, prodotto dalla stessa ricorrente e sopra richiamato, con il quale è stata irrogata una sanzione pecuniaria di rilevante entità per l’esecuzione del taglio del bosco in assenza della necessaria autorizzazione.
Al riguardo, in considerazione del principio di coerenza dell’ordinamento giuridico –che discende dall’articolo 3 della Costituzione (C. Cost. n. 204 del 1982) e costituisce “criterio fondamentale di valutazione dei modi di attuazione di ogni altro canone costituzionale” (C. Cost. ord. n. 94 del 2004)– sarebbe lecito persino dubitare della possibilità di attribuire rilevanza, sia pure quale mero dato fattuale volto a impedire la decadenza del permesso di costruire, a un’attività di trasformazione del suolo eseguita, secondo quanto allegato dalla stessa ricorrente, in assenza di un ulteriore atto abilitativo che sarebbe stato a ciò necessario.
17. In definitiva, per le suesposte ragioni, deve ritenersi che legittimamente il provvedimento impugnato abbia dichiarato la decadenza del permesso di costruire, in ragione del mancato inizio dei lavori entro il termine annuale normativamente prescritto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.03.2015 n. 779 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'abuso realizzato, senza preventiva autorizzazione paesaggistica, consta –per il piano sottotetto– nella trasformazione da sottotetto senza permanenza di persone (s.p.p.) con altezza media di metri 2,32 in un sottotetto abitabile con cucina (di altezza 2,42 metri) e lavanderia, con apertura di finestre verso l’esterno per garantire il rapporto aeroilluminante dei nuovi locali abitabili e con aumento dell’altezza massima del locale da metri 2,65 a metri 2,75.
Vi è stata, inoltre, la formazione di un nuovo tetto con differente inclinazione e di un terrazzino c.d. a vasca.
L’abuso di cui è causa, pertanto, non è consistito semplicemente nell’apertura di una serie di nuove finestre su una parete che ne era priva, ma nella realizzazione di nuova volumetria e nuova superficie utile –con aumento dell’altezza massima- in luogo del precedente sottotetto non abitabile.
Si tratta, di conseguenza, di opere per le quali, ai sensi del combinato disposto degli articoli 167 e 181 del D.Lgs. 42/2004 non è possibile l’accertamento di compatibilità paesaggistica.
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E' legittimo l'annullamento in autotutela della rilasciata compatibilità paesaggistica laddove il comune si è avveduto che le opere assentite erano le stesse per le quali era stato ordinato -anni addietro- il ripristino ex art. 167 d.lgs. 42/2004.
Invero, l’interesse pubblico all’annullamento in autotutela del titolo abilitativo paesistico del 2007 si fonda –quindi– non sulla mera necessità di ripristino della legalità violata, bensì su quella di tutelare il valore del paesaggio (bene avente rilevanza costituzionale ai sensi dell’art. 9 della Costituzione), a fronte di un abuso paesistico non certo trascurabile, quale la creazione di un sottotetto abitabile, implicante la realizzazione di nuovo volume e l’incremento di superficie.
Il sacrificio imposto al privato –a fronte della necessità di tutela di un bene di primario rango costituzionale (l’art. 9 –come noto– rientra fra i principi fondamentali della Costituzione)– non appare eccessivo, in quanto si tratta di ripristinare l’originaria e legittima destinazione d’uso del sottotetto, nell’ambito di una unità immobiliare ampia, per la quale permane comunque il pieno godimento del terzo piano.
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Sull’annullamento d’ufficio di titoli ad edificare a fronte della necessità di tutela dell’interesse paesistico, la giurisprudenza ha affermato che: <<L'interesse del privato al mantenimento del titolo edilizio, anche se incolpevole e consolidato, perde, tuttavia, di rilevanza e diviene irrimediabilmente recessivo rispetto all'interesse pubblico, laddove il potere di autotutela incida su una concessione edilizia relativa ad un'area soggetta a vincolo paesaggistico, che comporti penetranti limitazioni alle possibilità di edificazione>>.
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I ricorrenti non possono neppure invocare, a loro favore, la tutela dell’affidamento, in quanto gli stessi erano consapevoli del carattere abusivo delle opere realizzate sul loro immobile, tanto è vero che –a fronte della rilevata falsità della concessione edilizia del 2000 richiamata nel loro atto di acquisto dello stesso anno– proponevano causa civile davanti al Tribunale di Milano contro il loro venditore.

... per l'annullamento, quanto al ricorso principale, del provvedimento di annullamento autorizzazione paesaggistica n. 500/2007 del 04/10/2007, adottato in data 07.02.2012;
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Gli esponenti acquistavano, in data 13.11.2000 un’unità abitativa in Milano, Alzaia Naviglio Grande n. ..., posta su due livelli (piano terzo e quarto mansardato).
Nell’atto di vendita l’alienante, sig.ra E.A.Z., attestava di avere eseguito lavori di recupero abitativo del sottotetto ai sensi della legge regionale 15/1996 in forza di concessione edilizia del 30.05.2000.
Tuttavia, nel corso dell’anno 2006, allorché gli esponenti avviavano trattative per la vendita dell’immobile, si scopriva che la concessione edilizia di cui sopra era falsa e che, di conseguenza, il recupero abitativo del sottotetto era avvenuto senza alcun titolo, quindi abusivamente.
Il sig. T., a questo punto, presentava due domande per l’ottenimento, a sanatoria, sia del permesso di costruire sia dell’autorizzazione paesaggistica, essendo l’immobile soggetto a vincolo paesaggistico ai sensi del D.Lgs. 42/2004.
Il Comune, però, con nota del 22.02.2007, evidenziava al sig. T. che non sarebbe stato possibile l’accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 del D.Lgs. 42/2004 –in quanto era stata realizzata nuova superficie utile– sicché sarebbe stato avviato il procedimento di riduzione in pristino di cui al menzionato art. 167.
A tale avviso di avvio del procedimento, faceva seguito l’ordinanza del 04.08.2007, con la quale il Comune ingiungeva al sig. T. il ripristino dello stato dei luoghi ai sensi del succitato art. 167 del D.Lgs. 42/2004.
Intanto la signora R. –divenuta nel frattempo proprietaria dell’intera unità immobiliare, dopo che il sig. T. in data 18.12.2006 le aveva ceduto la propria quota del 50%- presentava due domande in data 27.07.2007, per il rilascio rispettivamente dell’autorizzazione paesaggistica e del connesso permesso di costruire per interventi di “creazione di aperture in facciata interna al cortile”.
Il Comune accoglieva dapprima le due domande, rilasciando di conseguenza l’autorizzazione paesaggistica n. 500/2007 e il relativo permesso di costruire n. 12/2008.
Successivamente, però, l’Amministrazione comunale, avvedutasi che le opere assentite a favore della signora R. erano le stesse per le quali era stato ordinato al sig. T. il ripristino, avviava il procedimento per l’annullamento in autotutela sia dell’autorizzazione n. 500/2007 sia del permesso di costruire n. 12/2008.
Con provvedimento del 07.02.2012, era annullata in autotutela l’autorizzazione paesaggistica n. 500/2007.
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1.1 Ciò premesso, nel primo e nel secondo mezzo del gravame principale (che possono essere trattati unitariamente), i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 21-nonies della legge 241/1990 e in genere dei principi che presiedono all’esercizio del potere di autotutela amministrativa, in quanto il Comune di Milano non avrebbe fornito alcuna adeguata motivazione sul pubblico interesse all’annullamento del titolo –interesse diverso da quello al mero ripristino della legalità violata– e non avrebbe tenuto adeguatamente conto né del lasso di tempo trascorso né del sacrificio imposto all’interesse dei ricorrenti, con conseguente lesione del principio di proporzionalità dell’azione amministrativa e di tutela dell’affidamento.
La tesi degli esponenti, per quanto ben argomentata, non convince il Collegio.
Innanzitutto, occorre premettere che appaiono provate le circostanze in fatto sopra riportate, vale a dire che le opere -oggetto dell’autorizzazione paesaggistica n. 500/2007- sono in realtà già state realizzate abusivamente e sono state altresì oggetto di un ordine di ripristino notificato l’08.08.2008 e divenuto definitivo, in quanto mai ritualmente impugnato dal sig. T..
L’identità è provata per tabulas: nella relazione tecnica alla domanda del sig. T. del 2006 (cfr. i documenti 4 e 5 del resistente), si parla di “intervento già realizzato”, di “avvenuta formazione del nuovo tetto con inclinazione diversa” e di “apertura di serramento con formazione di terrazzino a vasca”; in pratica lo stesso intervento che un anno dopo (2007) la signora R. chiede di poter realizzare ex novo attraverso asserite “demolizioni e ricostruzioni” in realtà già avvenute (del resto le fotografie allegate alla domanda del 2006 mostrano con chiarezza l’esistenza delle aperture, si veda la tavola doc. 5 del resistente).
Risulta inoltre, dall’esame degli atti di causa, che l’intervento realizzato senza titolo ha determinato la creazione di nuovo volume e di nuova superficie utile dell’unità abitativa in questione.
Sul punto, si richiamano le planimetrie allegate alla domanda di autorizzazione paesaggistica della sig.ra R. del 27.07.2007 (docc. 1-a e 1-b del resistente), domanda accolta con l’autorizzazione n. 500/2007 poi annullata in autotutela.
La planimetria 1-b (stato di fatto e di progetto), mostra –per il piano sottotetto– la trasformazione da sottotetto senza permanenza di persone (s.p.p.) con altezza media di metri 2,32 in un sottotetto abitabile con cucina (di altezza 2,42 metri) e lavanderia, con apertura di finestre verso l’esterno per garantire il rapporto aeroilluminante dei nuovi locali abitabili e con aumento dell’altezza massima del locale da metri 2,65 a metri 2,75 (per l’individuazione delle finestre e della loro collocazione, si veda anche la planimetria 1-a).
Vi è stata, inoltre, la formazione di un nuovo tetto con differente inclinazione e di un terrazzino c.d. a vasca (cfr. ancora la succitata documentazione tecnica).
Analoga rappresentazione dell’opera realizzata nel sottotetto è contenuta nelle planimetrie depositate dal Comune quali suoi documenti 17 e 19.
L’abuso di cui è causa, pertanto, non è consistito semplicemente nell’apertura di una serie di nuove finestre su una parete che ne era priva, ma nella realizzazione di nuova volumetria e nuova superficie utile –con aumento dell’altezza massima- in luogo del precedente sottotetto non abitabile.
Si tratta, di conseguenza, di opere per le quali, ai sensi del combinato disposto degli articoli 167 e 181 del D.Lgs. 42/2004 non è possibile l’accertamento di compatibilità paesaggistica, come del resto messo in luce nel provvedimento impugnato e nella pregressa ordinanza di ripristino del 2008 (cfr. ancora i documenti 1 e 17 dei ricorrenti).
L’interesse pubblico all’annullamento in autotutela del titolo abilitativo paesistico del 2007 si fonda –quindi– non sulla mera necessità di ripristino della legalità violata, bensì su quella di tutelare il valore del paesaggio (bene avente rilevanza costituzionale ai sensi dell’art. 9 della Costituzione), a fronte di un abuso paesistico non certo trascurabile, quale la creazione di un sottotetto abitabile, implicante la realizzazione di nuovo volume e l’incremento di superficie.
Il sacrificio imposto al privato –a fronte della necessità di tutela di un bene di primario rango costituzionale (l’art. 9 –come noto– rientra fra i principi fondamentali della Costituzione)– non appare eccessivo, in quanto si tratta di ripristinare l’originaria e legittima destinazione d’uso del sottotetto, nell’ambito di una unità immobiliare ampia, per la quale permane comunque il pieno godimento del terzo piano (sulle caratteristiche dell’unità abitativa in oggetto, si veda l’atto di acquisto, doc. 2 dei ricorrenti).
Quanto al tempo trascorso dall’emissione del provvedimento di autorizzazione (2007) alla comunicazione di avvio del procedimento di annullamento (2011), non può sottacersi la complessità dell’istruttoria, determinata anche dalla condotta dei signori T. e R., i quali hanno presentato negli anni 2006 e 2007 sostanzialmente la stessa domanda però con i loro distinti nominativi (nel 2006 soltanto a nome T. e nel 2007 soltanto a nome R.), e ciò benché nel 2006 il sig. T. fosse comproprietario dell’immobile con la signora R..
Sull’annullamento d’ufficio di titoli ad edificare a fronte della necessità di tutela dell’interesse paesistico, la giurisprudenza ha affermato che: <<L'interesse del privato al mantenimento del titolo edilizio, anche se incolpevole e consolidato, perde, tuttavia, di rilevanza e diviene irrimediabilmente recessivo rispetto all'interesse pubblico, laddove il potere di autotutela incida su una concessione edilizia relativa ad un'area soggetta a vincolo paesaggistico, che comporti penetranti limitazioni alle possibilità di edificazione>> (così TAR Sardegna, sez. II, 03.07.2014, n. 549, oltre a Consiglio di Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8291; TAR Basilicata, 20.12.2014, n. 871 e TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 06.06.2012, n. 2668).
I ricorrenti non possono neppure invocare, a loro favore, la tutela dell’affidamento, in quanto gli stessi erano consapevoli del carattere abusivo delle opere realizzate sul loro immobile, tanto è vero che –a fronte della rilevata falsità della concessione edilizia del 2000 richiamata nel loro atto di acquisto dello stesso anno– proponevano causa civile davanti al Tribunale di Milano contro il loro venditore, vale a dire la signora E.A.Z., presentando anche una denuncia alla Procura della Repubblica contro quest’ultima (cfr. i documenti 4 e 5 dei ricorrenti; si veda in particolare la sentenza del Tribunale di Milano, sez. IV civile, n. 11469/2005, dalla quale risulta che gli esponenti hanno ottenuto la condanna della signora Z. al risarcimento dei danni a loro favore, doc. 5 dei ricorrenti).
Proprio a fronte dell’illecito edilizio posto in essere sulla loro unità abitativa, i ricorrenti (o meglio il sig. T., allora comproprietario al 50%), presentavano rituale domanda di sanatoria sia ai fini edilizi sia a quelli paesaggistici, che era però respinta dal Comune, per impossibilità di pervenire alla compatibilità paesaggistica di cui all’art. 167 del D.Lgs. 42/2004 (cfr. ancora i documenti 9 e 17 dei ricorrenti).
Orbene, anziché gravare ritualmente in sede giurisdizionale l’ordinanza comunale del 2008 di rimessione in pristino, gli esponenti –attraverso la signora R. divenuta nel frattempo proprietaria dell’intero immobile– presentavano domanda di nuova autorizzazione paesaggistica e di connesso permesso di costruire per opere in realtà già eseguite.
Non vi è chi non veda come tale condotta si ponga in contrasto con l’invocata buona fede, sicché nessun affidamento poteva ragionevolmente essere maturato in capo agli esponenti.
Il provvedimento impugnato si sottrae, pertanto, alle doglianze esposte nel primo e nel secondo mezzo di gravame che deve quindi interamente rigettarsi (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.03.2015 n. 770 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’offerta senza «oneri» va esclusa. L’obbligo vale anche per gli appalti di lavori, non solo per le forniture. Consiglio di Stato. Se l’impresa non indica i costi aziendali di sicurezza, va estromessa dalla gara.
Deve essere esclusa dalla gara d’appalto per lavori pubblici l’impresa che invia un’offerta in cui non si specificano i costi per la sicurezza interni. L’esclusione scatta anche se il bando di gara non la prevede esplicitamente per una situazione di questo tipo.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato riunito in Adunanza plenaria, nella
sentenza 20.03.2015 n. 3.
Questo principio di diritto è stato affermato in relazione al ricorso presentato da una delle imprese che aveva partecipato due anni fa a un bando del Comune di Caserta per la costruzione di una strada e ne era stata esclusa per non aver quantificato gli oneri per la sicurezza interni o aziendali, la cui quantificazione spetta appunto al concorrente: gli articoli 86 e 87, comma 4, del Codice dei contratti qualificano i costi per la sicurezza da rischio specifico come un elemento essenziale dell’offerta.
Il ricorso era stato respinto dal Tar Campania e, approdato al Consiglio di Stato, nel gennaio scorso la Quinta sezione lo ha rimesso all’Adunanza plenaria per la corretta interpretazione dell’articolo 87, comma 4: occorreva stabilire se esso si applica ai contratti relativi a lavori e, quindi, se davvero l’omessa indicazione degli oneri per la sicurezza sia a pena di esclusione, come ritenuto dal Tar.
Il dubbio deriva dal fatto che la recente giurisprudenza della stessa Quinta sezione (sentenze 2343/2014 e 4964/2013) ha ritenuto che l’obbligo di indicare gli oneri di sicurezza aziendali esista solo per gli appalti di servizi o forniture, perché quelli di lavori sono caratterizzati da un’analisi preventiva dei costi, data la «maggiore rischiosità insita nella predisposizione di cantieri». Da ciò deriva che la quantificazione di questi oneri -formalmente richiesta dall’articolo 87, comma 4- sarebbe rimessa al piano di sicurezza e coordinamento (previsto dall’articolo 100 del decreto legislativo 81/2008), che è di competenza non dell’impresa, ma della stazione appaltante. Dunque, sarebbe quest’ultima a dover indicare gli oneri in questione, come già accade per i costi per la sicurezza da interferenze.
L’Adunanza plenaria risponde ora che ciò è vero, ma solo per questi ultimi oneri: l’articolo 131 del Codice dispone che dopo l’aggiudicazione l’appaltatore deve redigere un proprio piano operativo di sicurezza. E il fatto che questo piano provenga dall’impresa indica che ad essa sia anche demandata la quantificazione degli oneri “aziendali”.
Né l’Adunanza plenaria trova in altre norme, citate nell’ordinanza di rimessione, elementi che portino a concludere diversamente. Invece, l’obbligo di indicare preventivamente gli oneri di sicurezza aziendali si ricaverebbe da un’interpretazione sistematica degli articoli 26, comma 6, del decreto 81/2008 e 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del Codice.
Il primo e il secondo stabiliscono che l’ente aggiudicatore deve valutare l’adeguatezza dell’offerta anche rispetto al costo per la sicurezza. L’articolo 87, comma 4, prevede analoga valutazione quando si tratta di rilevare anomalie delle offerte.
L’Adunanza plenaria osserva che, in questo quadro, il fatto che le prime due norme riguardino tutti gli appalti (quindi anche quelli di lavori) e solo la terza non li nomini espressamente non è rilevante
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.04.2015).

ATTI AMMINISTRATIVIE' illegittima l'ordinanza sindacale contingibile ed urgente  "di provvedere, prima del periodo di fioritura e, comunque, entro e non oltre giorni 30 dalla notificazione, ad intervento di potatura e/o capitozzatura e/o diradamenti sull'albero di quercia"  per cui l’efflorescenza e il polline sprigionato dal grosso albero arrecherebbe grave nocumento alla propria salute (del denunciante) e a quella del proprio nucleo abitativo.
Invero, alla base del provvedimento non sono poste ragioni di pericolo per l'incolumità pubblica ovvero la necessità di proteggere l'igiene e la salute pubblica.
L'intervento dell'Amministrazione comunale deve ritenersi illegittimo con riguardo allo strumento dell'ordinanza contingibile ed urgente, in una controversia incorsa tra i soggetti privati, in un'ipotesi carente dei caratteri di urgenza, indifferibilità di intervento e dove non è stata provata la necessità di tutelare la pubblica e privata incolumità.
L'articolo 50, rubricato "Competenze del sindaco e del presidente della provincia", dispone testualmente al comma 5 che "in particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale. Negli altri casi l'adozione dei provvedimenti d'urgenza, ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle regioni in ragione della dimensione dell'emergenza e dell'eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali".
Presupposto per l'adozione delle ordinanze contingibili ed urgenti è, pertanto, la ricorrenza di un oggettivo pericolo per l'incolumità pubblica, ossia la necessità di proteggere l'igiene e la salute pubblica, tale da rendere indispensabile l'intervento immediato ed indilazionabile dell'Amministrazione, consistente nell'imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico del privato.
Come sottolineato dalla costante giurisprudenza, per giustificare il ricorso a detto strumento ordinatorio, la legge prevede che devono sussistere gli ulteriori requisiti dell'urgenza.
Pertanto l'ordinanza è illegittima nel caso in cui sia stata adottata, come nel caso all'esame del Collegio, senza dimostrare la ricorrenza effettiva di un pericolo per l'incolumità e non sussistano i requisiti dell'urgenza.
Di tutto ciò il gravato provvedimento avrebbe necessariamente dovuto dar conto, attraverso idonea motivazione ed espresso riferimento all'iter logico decidente da cui sarebbe stato possibile desumere la correttezza dell'operato dell'amministrazione.
La vicenda impone, altresì, il richiamo al condiviso orientamento giurisprudenziale secondo il quale quando si tratti "di un caso di pericolo gravante esclusivamente su beni privati sottratti a qualsiasi forma di uso e transito pubblici, il vaglio di legittimità dell'esercizio del suddetto potere di ordinanza ex art. 54 cit. deve essere ancor più penetrante e severo, soprattutto al fine di impedire che il ricorso a tale invasivo strumento imperativo, sviando dalla funzione pubblica, si risolva in una inutile e indebita interferenza in liti tra privati".

... per l'annullamento dell'ordinanza n. 9 R.G.104 del 24.09.2014 emessa dal Sindaco del Comune di Torre Santa Susanna (Br), notificata in data 06.10.2014, con la quale è stato ordinato al ricorrente "di provvedere, prima del periodo di fioritura e, comunque, entro e non oltre giorni 30 dalla notificazione, ad intervento di potatura e/o capitozzatura e/o diradamenti sull'albero di quercia posto nella sua proprietà, sita in Torre Santa Susanna alla via .......";
...
Il ricorso è fondato.
Merita, infatti, accoglimento il primo assorbente motivo di censura con il quale si lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 50, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000 ed eccesso di potere.
Alla base del provvedimento non sono poste ragioni di pericolo per l'incolumità pubblica ovvero la necessità di proteggere l'igiene e la salute pubblica.
L'intervento dell'Amministrazione comunale deve ritenersi illegittimo con riguardo allo strumento dell'ordinanza contingibile ed urgente, in una controversia incorsa tra i soggetti privati, in un'ipotesi carente dei caratteri di urgenza, indifferibilità di intervento e dove non è stata provata la necessità di tutelare la pubblica e privata incolumità.
L'articolo 50, rubricato "Competenze del sindaco e del presidente della provincia", dispone testualmente al comma 5 che "in particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale. Negli altri casi l'adozione dei provvedimenti d'urgenza, ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle regioni in ragione della dimensione dell'emergenza e dell'eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali".
Presupposto per l'adozione delle ordinanze contingibili ed urgenti è, pertanto, la ricorrenza di un oggettivo pericolo per l'incolumità pubblica, ossia la necessità di proteggere l'igiene e la salute pubblica, tale da rendere indispensabile l'intervento immediato ed indilazionabile dell'Amministrazione, consistente nell'imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico del privato.
Come sottolineato dalla costante giurisprudenza, per giustificare il ricorso a detto strumento ordinatorio, la legge prevede che devono sussistere gli ulteriori requisiti dell'urgenza (TAR Piemonte Torino n. 318/2012, TAR Toscana n. 2584/2009).
Pertanto l'ordinanza è illegittima nel caso in cui sia stata adottata, come nel caso all'esame del Collegio, senza dimostrare la ricorrenza effettiva di un pericolo per l'incolumità e non sussistano i requisiti dell'urgenza.
Di tutto ciò il gravato provvedimento avrebbe necessariamente dovuto dar conto, attraverso idonea motivazione ed espresso riferimento all'iter logico decidente da cui sarebbe stato possibile desumere la correttezza dell'operato dell'amministrazione.
La vicenda impone, altresì, il richiamo al condiviso orientamento giurisprudenziale secondo il quale quando si tratti "di un caso di pericolo gravante esclusivamente su beni privati sottratti a qualsiasi forma di uso e transito pubblici, il vaglio di legittimità dell'esercizio del suddetto potere di ordinanza ex art. 54 cit. deve essere ancor più penetrante e severo, soprattutto al fine di impedire che il ricorso a tale invasivo strumento imperativo, sviando dalla funzione pubblica, si risolva in una inutile e indebita interferenza in liti tra privati" (TAR Campania-Napoli, sez. V, sentenza 19.04.2007 n. 4992).
Nella fattispecie, come risulta evidente dalla disamina documenti prodotti dal Comune di Torre S. Susanna, l’ordinanza contingibile ed urgente in contestazione è stata adottata non già per fronteggiare situazioni di emergenza, bensì per dirimere questioni attinenti a rapporti di vicinato tra proprietà limitrofe e senza fornire la dovuta dimostrazione della ricorrenza effettiva di un pericolo per il sotteso interesse pubblico (salute o igiene o sicurezza).
Invero, l’inconveniente igienico-sanitario lamentato dalla signora V.G. (invalida civile con grave ed importante deficit visivo cui l’efflorescenza e il polline sprigionato dal grosso albero di quercia arrecherebbe grave nocumento alla propria salute e a quella del proprio nucleo abitativo) non risulta attestato da certificazioni medico-sanitarie; né risulta alcuna concreta giustificazione e dimostrazione del nesso causale tra i fenomeni naturali connessi al ciclo vitale della pianta e “l’inconveniente” lamentato dalla denunciante.
Tanto basta a ritenere l’illegittimità dell’impugnata ordinanza (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 16.03.2015 n. 893 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASulla corretta individuazione del soggetto cui rivolgere l’ordine di demolizione opera abusiva e sulla verifica se la sanzione ex art. 31 dpr 380/2001 (“se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime (…) sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune”) sia applicabile anche nei confronti del proprietario del bene estraneo all’abuso; nonché sulla verifica, in caso di risposta affermativa, quando il proprietario possa effettivamente considerarsi estraneo all’abuso.
Si deve verificare, a questo punto, se l’Amministrazione abbia correttamente individuato il soggetto cui rivolgere l’ordine di demolizione dell'opera abusivamente realizzata.
Stabilisce l’art. 31, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 che “Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso (…) ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione…”.
Come si vede la norma è chiara nello stabilire che l’ordine di demolizione va rivolto anche nei confronti del proprietario.
Peraltro, la mancata individuazione del responsabile materiale non può portare ad escludere che l’ordine vada comunque rivolto al proprietario stesso giacché questi, anche se estraneo all’abuso, rimane comunque il destinatario finale degli effetti del provvedimento, il cui contenuto dispositivo è la demolizione di un bene su cui egli vanta il proprio diritto. Si vedrà difatti nel prosieguo che il proprietario, anche se estraneo all’abuso, deve comunque eseguire o subire la demolizione del bene.
Non è poi condivisibile l’argomentazione di parte ricorrente che ritiene che il provvedimento sarebbe dovuto essere rivolto contro il Parco Lombardo del Ticino. Queste Ente, infatti, non vanta alcun diritto dominicale sull’area in questione; né può ritenersi che ad esso possa essere attribuita qualche responsabilità in ordine all’abuso edilizio per non aver adeguatamente vigilato, essendo lo stesso Ente deputato esclusivamente a tutelare i valori ambientali del sito e non anche ad impedirne l’illecito utilizzo da parte di terzi.
Il Comune, applicando la norma ed i principi illustrati, ha quindi correttamente rivolto l’ordine di demolizione alla società ricorrente, proprietaria dell’opera abusiva.
Peraltro, la natura vincolata dell’atto impugnato, l’evidente natura abusiva del manufatto e la non contestata titolarità dello stesso in capo alla ricorrente, inducono ad escludere la rilevanza della mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento nonché della mancata comunicazione del preavviso di rigetto, giacché -prescindendo da ogni altra considerazione- è applicabile alla fattispecie l’art. 21-octies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990, in base al quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento stesso, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

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L'ordine di demolizione
impugnato, in applicazione del citato art. 31, secondo e terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, non si limita ad ordinare la demolizione, ma stabilisce anche che, in caso di inottemperanza all’ordine impartito, il Comune provvederà ad acquisire gratuitamente al proprio patrimonio il manufatto abusivo e l’area di sedime sulla quale esso insiste
Stabilisce infatti il terzo comma del citato art. 31, che “se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime (…) sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune”.
Per dare soluzione alla presente controversia il Collegio deve farsi carico di verificare se tale sanzione sia applicabile anche nei confronti del proprietario del bene estraneo all’abuso; nonché di verificare, in caso di risposta affermativa al primo quesito, quando il proprietario possa effettivamente considerarsi estraneo all’abuso.
La risposta alla prima domanda è senz’altro negativa. In tal senso si è chiaramente espressa la Corte Costituzionale con sentenza 15.07.1991, n. 345, riguardante l'art. 7, terzo comma, della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), disposizione abrogata avente contenuto analogo a quello dell’art. 31, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, applicabile alla vicenda in esame.
In quella sentenza la Corte ha affermato che la sanzione dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime al patrimonio del comune “…si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso, non potendo di certo operare (come avviene talvolta per la confisca, quando questa costituisce misura accessoria di altra sanzione o misura strumentale diretta ad impedire l'ulteriore produzione dell'illecito o l'utilizzazione dei proventi di questo) nella sfera di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento…”.
La Corte ha precisato ancora che se il proprietario non è responsabile dell’abuso e non intende eseguire direttamente la demolizione, dovrà essere il comune ad intervenire con i propri mezzi per rimuovere l’opera.
La pronuncia è una sentenza interpretativa di rigetto che, in quanto tale, non vincola il giudice comune. Va però osservato che una interpretazione contraria a quella suggerita dalla Corte dovrebbe portare a ritenere che l’art. 31, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 sia contrastante con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. (in quanto colpisce con la medesima sanzione soggetti che hanno tenuto comportamenti diversi); mentre, come noto, è obbligo primario dell’interprete quello di cercare di dare alla norma un significato conforme alla Costituzione (salva la possibilità di sollevare nuovamente questione di legittimità costituzionale; soluzione che nel caso di specie il Collegio ritiene non necessario percorrere).
Può dunque darsi per assodato che il proprietario estraneo all’abuso non possa essere colpito dalla sanzione in argomento.
Si deve quindi stabilire, a questo punto, quando il proprietario possa considerarsi effettivamente estraneo all’abuso.
In proposito va osservato che la Corte Costituzionale ha stabilito che il proprietario deve considerarsi responsabile non solo quando questi sia l’autore materiale dell’abuso, ma anche quando “…essendone venuto a conoscenza, non si sia attivato con gli strumenti offerti dall'ordinamento per impedirlo…”.
Secondo un orientamento rigoroso l’estraneità del proprietario si ha solo al ricorrere congiunto di tre condizioni: a) il proprietario non sia l’autore dell’opera; b) il proprietario non abbia la possibilità materiale e giuridica di eseguire la demolizione (tipico è il caso di area locata a terzi); c) il proprietario si sia attivato, con i mezzi offerti dall’ordinamento, per impedire l’abuso e per costringere l’autore a rimuoverlo.
In base a questa tesi, la disponibilità del bene e, dunque, la possibilità materiale e giuridica di eseguire la demolizione renderebbe il proprietario sempre compartecipe dell’abuso; con la conseguenza che questi dovrebbe essere sempre sanzionato con l’acquisizione gratuita dell’area di sedime qualora non ottemperi all’ordine di demolizione. L’opinione muove dalla condivisibile preoccupazione di evitare che l’acquirente dell’opera abusiva, pur approfittando della stessa, si sottragga alla sanzione opponendo la circostanza che autore dell’illecito è il suo dante causa.
Il Collegio deve tuttavia rilevare che la Corte Costituzionale non ha indicato una soluzione tanto rigorosa, affermando solamente che il proprietario va considerato responsabile dell’abuso esclusivamente quando questi ne sia l’autore materiale ovvero quando “….essendone venuto a conoscenza, non si sia attivato con gli strumenti offerti dall'ordinamento per impedirlo…”. Peraltro, il caso che ha dato occasione alla pronuncia riguardava proprio una situazione in cui l'abuso era da imputare esclusivamente alla condotta di un terzo detentore del bene che lo aveva perpetrato ad insaputa del proprietario, il quale si trovava nella materiale impossibilità di opporvisi, per essere appunto il bene nella disponibilità giuridica esclusiva del terzo, nella specie il conduttore di un rapporto locativo. Sarebbe stato quindi agevole per la Corte affermare esplicitamente che il proprietario deve considerarsi estraneo solo quando non abbia la possibilità materiale e giuridica di rimuovere l’abuso.
Peraltro, gli inconvenienti cui vuole ovviare la teoria più rigorosa possono essere evitati anche in altro modo. Secondo una condivisibile opinione della giurisprudenza, infatti, l’acquirente del bene succede nella posizione del dante causa in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi, ivi compresi quelli che derivano dall’abusiva trasformazione dei suoli.
Ne consegue che, già per questa ragione, lo stesso acquirente non può considerasi estraneo all’abuso realizzato dal suo dante causa (secondo una parte della giurisprudenza, peraltro, l’attuale proprietario potrebbe comunque sottrarsi dalla responsabilità dimostrando che: a) non sia autore dell'abuso; b) l'alienazione non sia avvenuta al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi; c) tra la realizzazione dell'abuso, il successivo acquisto e, più ancora, l'esercizio da parte dell'autorità dei poteri repressivi sia intercorso un lasso temporale ampio).
Senza contare che se l’attuale proprietario approfitta dell’opera abusiva, diviene anche per questo compartecipe dell’abuso, avente, come noto, natura di illecito permanente.
Per concludere sul punto, si può affermare che la disponibilità materiale e giuridica del bene non costituisce un elemento di per sé decisivo per addossare la responsabilità dell’abuso al proprietario non autore materiale dell’opera. Ciò che occorre invece a tal fine accertare, applicando i principi espressi dalla Corte Costituzionale, è se il proprietario (non autore materiale dell’opera e non avente causa da esso), una volta venuto a conoscenza dell’attività illecita svolta da terzi, si sia attivato contro responsabile per impedire l’ultimazione dell’opera abusiva e, comunque, per obbligarlo a rimuoverla. Questo comportamento dimostra difatti l’intenzione del proprietario stesso di non voler approfittare dell’attività illecita compiuta da terzi e, dunque, denota la sua estraneità alla stessa.

... per l'annullamento della nota prot. n. 81/duemilaquattordici/Reg. Ord./QS/vr del 03.06.2014, notificata in data 05.06.2014, del Comune di Somma Lombardo, Settore Pianificazione, con la quale si è ordinato “ingiunzione di demolizione di opere abusive e ripristino stato dei luoghi in frazione Case Nuove, mappale 21497 Sezione Censuaria Somma Lombardo” ovvero nello specifico “del manufatto in legno inserito in un piccolo nucleo di piante di – Pino Strobo – comunque facente parte di una vasta zona boschiva, edificato a palafitta ad un’altezza di mt. 2 da terra e avente dimensioni di mt. 4,00 per 3,00";
...
32. Correttamente pertanto il Comune, constatata l’assenza di qualsiasi titolo, ha qualificato l’opera come abusiva.
33. Si deve quindi verificare, a questo punto, se l’Amministrazione abbia correttamente individuato il soggetto cui rivolgere l’ordine di demolizione.
34. Stabilisce l’art. 31, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 che “Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso (…) ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione…”.
35. Come si vede la norma è chiara nello stabilire che l’ordine di demolizione va rivolto anche nei confronti del proprietario.
36. Peraltro, la mancata individuazione del responsabile materiale non può portare ad escludere che l’ordine vada comunque rivolto al proprietario stesso giacché questi, anche se estraneo all’abuso, rimane comunque il destinatario finale degli effetti del provvedimento, il cui contenuto dispositivo è la demolizione di un bene su cui egli vanta il proprio diritto (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VII, 17.09.2012, n. 1814). Si vedrà difatti nel prosieguo che il proprietario, anche se estraneo all’abuso, deve comunque eseguire o subire la demolizione del bene.
37. Non è poi condivisibile l’argomentazione di parte ricorrente che ritiene che il provvedimento sarebbe dovuto essere rivolto contro il Parco Lombardo del Ticino. Queste Ente, infatti, non vanta alcun diritto dominicale sull’area in questione; né può ritenersi che ad esso possa essere attribuita qualche responsabilità in ordine all’abuso edilizio per non aver adeguatamente vigilato, essendo lo stesso Ente deputato esclusivamente a tutelare i valori ambientali del sito e non anche ad impedirne l’illecito utilizzo da parte di terzi.
38. Il Comune di Somma Lombardo, applicando la norma ed i principi illustrati, ha quindi correttamente rivolto l’ordine di demolizione alla società ricorrente, proprietaria dell’opera abusiva.
39. Peraltro, la natura vincolata dell’atto impugnato, l’evidente natura abusiva del manufatto e la non contestata titolarità dello stesso in capo alla ricorrente, inducono ad escludere la rilevanza della mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento nonché della mancata comunicazione del preavviso di rigetto, giacché -prescindendo da ogni altra considerazione- è applicabile alla fattispecie l’art. 21-octies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990, in base al quale non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento stesso, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
40. Per la stessa ragione non sono condivisibili le doglianze che lamentano il difetto motivazionale ed il difetto di istruttoria, avendo l’Amministrazione basato la propria decisione sull’indiscutibile presupposto del carattere abusivo dell’opera, ed avendo la stessa dato conto dei presupposti fattuali che l’hanno indotta ad adottare l’atto.
41. A questo punto si deve osservare che il provvedimento impugnato, in applicazione del citato art. 31, secondo e terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, non si limita ad ordinare la demolizione, ma stabilisce anche che, in caso di inottemperanza all’ordine impartito, il Comune provvederà ad acquisire gratuitamente al proprio patrimonio il manufatto abusivo e l’area di sedime sulla quale esso insiste
42. Stabilisce infatti il terzo comma del citato art. 31, che “se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime (…) sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune”.
43. Per dare soluzione alla presente controversia il Collegio deve farsi carico di verificare se tale sanzione sia applicabile anche nei confronti del proprietario del bene estraneo all’abuso; nonché di verificare, in caso di risposta affermativa al primo quesito, quando il proprietario possa effettivamente considerarsi estraneo all’abuso.
44. La risposta alla prima domanda è senz’altro negativa. In tal senso si è chiaramente espressa la Corte Costituzionale con sentenza 15.07.1991, n. 345, riguardante l'art. 7, terzo comma, della legge 28.02.1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie), disposizione abrogata avente contenuto analogo a quello dell’art. 31, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, applicabile alla vicenda in esame.
45. In quella sentenza la Corte ha affermato che la sanzione dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime al patrimonio del comune “…si riferisce esclusivamente al responsabile dell'abuso, non potendo di certo operare (come avviene talvolta per la confisca, quando questa costituisce misura accessoria di altra sanzione o misura strumentale diretta ad impedire l'ulteriore produzione dell'illecito o l'utilizzazione dei proventi di questo) nella sfera di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell'area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento…”.
46. La Corte ha precisato ancora che se il proprietario non è responsabile dell’abuso e non intende eseguire direttamente la demolizione, dovrà essere il comune ad intervenire con i propri mezzi per rimuovere l’opera.
47. La pronuncia è una sentenza interpretativa di rigetto che, in quanto tale, non vincola il giudice comune. Va però osservato che una interpretazione contraria a quella suggerita dalla Corte dovrebbe portare a ritenere che l’art. 31, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 sia contrastante con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. (in quanto colpisce con la medesima sanzione soggetti che hanno tenuto comportamenti diversi); mentre, come noto, è obbligo primario dell’interprete quello di cercare di dare alla norma un significato conforme alla Costituzione (salva la possibilità di sollevare nuovamente questione di legittimità costituzionale; soluzione che nel caso di specie il Collegio ritiene non necessario percorrere).
48. Può dunque darsi per assodato che il proprietario estraneo all’abuso non possa essere colpito dalla sanzione in argomento.
49. Si deve quindi stabilire, a questo punto, quando il proprietario possa considerarsi effettivamente estraneo all’abuso.
50. In proposito va osservato che la Corte Costituzionale ha stabilito che il proprietario deve considerarsi responsabile non solo quando questi sia l’autore materiale dell’abuso, ma anche quando “…essendone venuto a conoscenza, non si sia attivato con gli strumenti offerti dall'ordinamento per impedirlo…”.
51. Secondo un orientamento rigoroso l’estraneità del proprietario si ha solo al ricorrere congiunto di tre condizioni: a) il proprietario non sia l’autore dell’opera; b) il proprietario non abbia la possibilità materiale e giuridica di eseguire la demolizione (tipico è il caso di area locata a terzi); c) il proprietario si sia attivato, con i mezzi offerti dall’ordinamento, per impedire l’abuso e per costringere l’autore a rimuoverlo.
52. In base a questa tesi, la disponibilità del bene e, dunque, la possibilità materiale e giuridica di eseguire la demolizione renderebbe il proprietario sempre compartecipe dell’abuso; con la conseguenza che questi dovrebbe essere sempre sanzionato con l’acquisizione gratuita dell’area di sedime qualora non ottemperi all’ordine di demolizione. L’opinione muove dalla condivisibile preoccupazione di evitare che l’acquirente dell’opera abusiva, pur approfittando della stessa, si sottragga alla sanzione opponendo la circostanza che autore dell’illecito è il suo dante causa.
53. Il Collegio deve tuttavia rilevare che la Corte Costituzionale non ha indicato una soluzione tanto rigorosa, affermando solamente che il proprietario va considerato responsabile dell’abuso esclusivamente quando questi ne sia l’autore materiale ovvero quando “….essendone venuto a conoscenza, non si sia attivato con gli strumenti offerti dall'ordinamento per impedirlo…”. Peraltro, il caso che ha dato occasione alla pronuncia riguardava proprio una situazione in cui l'abuso era da imputare esclusivamente alla condotta di un terzo detentore del bene che lo aveva perpetrato ad insaputa del proprietario, il quale si trovava nella materiale impossibilità di opporvisi, per essere appunto il bene nella disponibilità giuridica esclusiva del terzo, nella specie il conduttore di un rapporto locativo. Sarebbe stato quindi agevole per la Corte affermare esplicitamente che il proprietario deve considerarsi estraneo solo quando non abbia la possibilità materiale e giuridica di rimuovere l’abuso.
54. Peraltro, gli inconvenienti cui vuole ovviare la teoria più rigorosa possono essere evitati anche in altro modo. Secondo una condivisibile opinione della giurisprudenza, infatti, l’acquirente del bene succede nella posizione del dante causa in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi, ivi compresi quelli che derivano dall’abusiva trasformazione dei suoli (Consiglio di Stato, sez. VI, 11.05.2011, n. 2781; TAR Sicilia Palermo, sez. III, 13.08.2013, n. 1619; TAR Lombardia Milano, sez. IV, sent. 31.05.2010, n. 1721).
55. Ne consegue che, già per questa ragione, lo stesso acquirente non può considerasi estraneo all’abuso realizzato dal suo dante causa (secondo una parte della giurisprudenza, peraltro, l’attuale proprietario potrebbe comunque sottrarsi dalla responsabilità dimostrando che: a) non sia autore dell'abuso; b) l'alienazione non sia avvenuta al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi; c) tra la realizzazione dell'abuso, il successivo acquisto e, più ancora, l'esercizio da parte dell'autorità dei poteri repressivi sia intercorso un lasso temporale ampio. Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 04.03.2014, n. 1016).
56. Senza contare che se l’attuale proprietario approfitta dell’opera abusiva, diviene anche per questo compartecipe dell’abuso, avente, come noto, natura di illecito permanente.
57. Per concludere sul punto, si può affermare che la disponibilità materiale e giuridica del bene non costituisce un elemento di per sé decisivo per addossare la responsabilità dell’abuso al proprietario non autore materiale dell’opera. Ciò che occorre invece a tal fine accertare, applicando i principi espressi dalla Corte Costituzionale, è se il proprietario (non autore materiale dell’opera e non avente causa da esso), una volta venuto a conoscenza dell’attività illecita svolta da terzi, si sia attivato contro responsabile per impedire l’ultimazione dell’opera abusiva e, comunque, per obbligarlo a rimuoverla. Questo comportamento dimostra difatti l’intenzione del proprietario stesso di non voler approfittare dell’attività illecita compiuta da terzi e, dunque, denota la sua estraneità alla stessa.
58. Applicando questi principi al caso concreto, si deve escludere che la ricorrente possa considerarsi responsabile dell’abuso.
59. Si deve difatti rilevare che il manufatto di cui è causa è stato realizzato da ignoti in un luogo isolato, difficilmente accessibile e molto lontano dall’abitazione del legale rappresentate della società (l’abitazione si trova ad un chilometro di distanza).
60. Inoltre, essendo l’area di cui è causa inserita nel Parco Lombardo del Ticino, non è possibile dotarla di recinzione giusto il divieto in tal senso disposto dall’art. 7 del Piano di Coordinamento del Parco.
61. Il proprietario non era quindi nella condizione di impedire il perpetrarsi dell’illecito; inoltre questi, una volta venutone a conoscenza, si è subito attivato denunciando l’accaduto alle Forze dell’Ordine e chiedendo a queste di scoprire l’identità degli autori al fine di poter agire contro di essi per ottenere la rimozione di un’opera ritenuta dannosa.
62. Si deve pertanto ritenere che, nel caso concreto, ricorrano quelle speciali e straordinarie circostanze che dimostrano l’estraneità del proprietario all’abuso.
63. Per queste ragioni il Comune -fermo il suo potere di intervenire direttamente in caso di mancata ottemperanza all’ordine di demolizione- non può applicare la sanzione dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime; ne consegue che il provvedimento impugnato, nella parte in cui prevede l’applicabilità di tale sanzione, è illegittimo (TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 16.03.2015 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Una costruzione in legno a palafitta (inserita in un piccolo nucleo di piante) posta a due metri d’altezza, avente dimensioni di metri due per metri tre,  la quale è dotata di copertura, di porta e di finestre, e che al suo interno sono stati collocati alcuni mobili, costituisce "nuova costruzione".
L’art. 3, primo comma, lett. e), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 definisce la nozione di “nuova costruzione” in via residuale, disponendo che debbono considerarsi tali tutti gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti, e cioè non rientranti nelle categorie della “manutenzione ordinaria”, della “manutenzione straordinaria”, del “restauro e del risanamento conservativo” ovvero della “ristrutturazione edilizia”.
Non ha dunque alcun rilievo il fatto che l’opera non sia adibita a funzioni abitative, essendo invece sufficiente che essa abbia determinato una stabile trasformazione del territorio. Possono quindi integrare una nuova costruzione, non solo le case e, in genere, gli edifici destinati alla residenza, ma anche i magazzini, i depositi o i locali destinati ad attività di svago.
A contrario non può essere invocato, come fa parte ricorrente, l’art. 27, primo comma, lett. e), n. 5 della legge-regionale 11.03.2005, n. 12. Questa norma (che riproduce la corrispondente norma statale contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. e.5), del d.P.R. n. 380 del 2001) si riferisce ai manufatti leggeri, anche prefabbricati, ed alle altre strutture quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, ecc., per affermare che anche questi, se utilizzati per soddisfare bisogni di carattere non temporaneo, integrano la nozione di nuova costruzione. La disposizione peraltro ammette pacificamente che a tal fine non è necessario che la funzione impressa alla struttura sia quella residenziale, essendo altresì rilevanti le destinazioni a deposito, magazzino e simili.
In tale quadro appare evidente che la struttura oggetto del provvedimento impugnato, avendo essa determinato una trasformazione edilizia del territorio, e sebbene presumibilmente non destinata a residenza, va inquadrata nella categoria della nuova costruzione; di conseguenza, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la sua realizzazione presupponeva il rilascio di un titolo edilizio.
Né può sostenersi -al fine di escludere la necessità del titolo- che l’edificio possieda il carattere della precarietà posto che, per poter affermare la sussistenza di questo carattere, occorre far riferimento non solo alle caratteristiche strutturali ma anche a quelle funzionali del bene; e che non vi sono elementi per sostenere che, nel concreto, l’opera sia destinata a soddisfare esigenze di carattere temporaneo (anzi la presenza di mobili all’interno della stessa conduce a ritenere il contrario).

... per l'annullamento della nota prot. n. 81/duemilaquattordici/Reg. Ord./QS/vr del 03.06.2014, notificata in data 05.06.2014, del Comune di Somma Lombardo, Settore Pianificazione, con la quale si è ordinato “ingiunzione di demolizione di opere abusive e ripristino stato dei luoghi in frazione Case Nuove, mappale 21497 Sezione Censuaria Somma Lombardo” ovvero nello specifico “del manufatto in legno inserito in un piccolo nucleo di piante di – Pino Strobo – comunque facente parte di una vasta zona boschiva, edificato a palafitta ad un’altezza di mt. 2 da terra e avente dimensioni di mt. 4,00 per 3,00";
...
24. Come anticipato, con il ricorso in esame viene principalmente impugnata un’ordinanza di demolizione emessa nei confronti della società ricorrente.
25. Il provvedimento riguarda un manufatto realizzato su un’area di proprietà della stessa, consistente in una costruzione a palafitta posta a due metri d’altezza, avente dimensioni di metri due per metri tre.
26. Dalle foto depositate in giudizio emerge che il manufatto è dotato di copertura, di porta e di finestre, e che al suo interno sono stati collocati alcuni mobili.
27. Ciò premesso, si deve evidenziare che l’art. 3, primo comma, lett. e), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 definisce la nozione di “nuova costruzione” in via residuale, disponendo che debbono considerarsi tali tutti gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti, e cioè non rientranti nelle categorie della “manutenzione ordinaria”, della “manutenzione straordinaria”, del “restauro e del risanamento conservativo” ovvero della “ristrutturazione edilizia” (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VII, 25.06.2014, n. 3494).
28. Non ha dunque alcun rilievo il fatto che l’opera non sia adibita a funzioni abitative, essendo invece sufficiente che essa abbia determinato una stabile trasformazione del territorio. Possono quindi integrare una nuova costruzione, non solo le case e, in genere, gli edifici destinati alla residenza, ma anche i magazzini, i depositi o i locali destinati ad attività di svago (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 02.10.2008, n. 4793).
29. A contrario non può essere invocato, come fa parte ricorrente, l’art. 27, primo comma, lett. e), n. 5 della legge-regionale 11.03.2005, n. 12. Questa norma (che riproduce la corrispondente norma statale contenuta nell’art. 3, comma 1, lett. e.5), del d.P.R. n. 380 del 2001) si riferisce ai manufatti leggeri, anche prefabbricati, ed alle altre strutture quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, ecc., per affermare che anche questi, se utilizzati per soddisfare bisogni di carattere non temporaneo, integrano la nozione di nuova costruzione. La disposizione peraltro ammette pacificamente che a tal fine non è necessario che la funzione impressa alla struttura sia quella residenziale, essendo altresì rilevanti le destinazioni a deposito, magazzino e simili.
30. In tale quadro appare evidente che la struttura oggetto del provvedimento impugnato, avendo essa determinato una trasformazione edilizia del territorio, e sebbene presumibilmente non destinata a residenza, va inquadrata nella categoria della nuova costruzione; di conseguenza, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la sua realizzazione presupponeva il rilascio di un titolo edilizio.
31. Né può sostenersi -al fine di escludere la necessità del titolo- che l’edificio possieda il carattere della precarietà posto che, per poter affermare la sussistenza di questo carattere, occorre far riferimento non solo alle caratteristiche strutturali ma anche a quelle funzionali del bene (cfr. fra le tante TAR Piemonte, sez. I, 11.07.2014, n. 1240); e che non vi sono elementi per sostenere che, nel concreto, l’opera sia destinata a soddisfare esigenze di carattere temporaneo (anzi la presenza di mobili all’interno della stessa conduce a ritenere il contrario) (TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 16.03.2015 n. 728 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo un diverso e più consolidato orientamento, al quale il Collegio aderisce, la “sanatoria giurisprudenziale”, in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali al di fuori di qualsiasi previsione normativa, non può ritenersi ammessa nel nostro ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l’invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione.
Peraltro l’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, richiedente per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l'opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione del manufatto, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, è una disposizione la cui ratio è legata al contrasto all'inerzia dell'Amministrazione; ciò significa che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda; tale ratio della norma è del tutto comprensibile, quindi, e compatibile con i precetti costituzionali di cui all’art. 97 Cost..
Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, contenente l'accertamento di conformità, l'Autorità amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati.
Conclusivamente, dall’art. 13 della l. 28.02.1985, n. 47 (riprodotto dall’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001) non è ricavabile alcun diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria.

Infatti, è pur vero che il principio della cd. “doppia conformità” ex art. 13 1. n. 47 del 1985 può manifestarsi nelle forme, secondo un certo orientamento giurisprudenziale, definite “sanatoria giurisprudenziale”, e può essere riferibile all'ipotesi di specie, in modo da risultare conforme al principio di proporzionalità e ragionevolezza nel contemperamento dell'interesse pubblico e privato, poiché imporre per un unico intervento costruttivo, comunque attualmente conforme, una duplice attività edilizia, demolitoria e poi identicamente riedificatoria, lederebbe lo stesso interesse pubblico tutelato (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835; sez. V, 29.05.2006, n. 3267).
Infatti, sulla base della succitata considerazione, è stato ammesso che la sanatoria edilizia possa intervenire anche a seguito di conformità sopraggiunta dell'intervento in un primo tempo illegittimamente assentito, divenuto cioè permissibile al momento della proposizione della nuova istanza dell'interessato, posto che questa si profila come del tutto autonoma rispetto all'originaria istanza che aveva condotto al permesso annullato in sede giurisdizionale, in quanto basata su nuovi presupposti normativi in materia edilizia; all’opposto, si è ritenuto irragionevole negare una sanatoria di interventi che sarebbero legittimamente concedibili al momento della nuova istanza.
Tale principio, tuttavia, è stato disatteso da un diverso e più consolidato orientamento, al quale il Collegio aderisce, secondo cui la “sanatoria giurisprudenziale”, in quanto introduce un atipico atto con effetti provvedimentali, al di fuori di qualsiasi previsione normativa, non può ritenersi ammessa nel nostro ordinamento, caratterizzato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, secondo il principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e pena l’invasione nelle sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione (cfr. da ultimo TAR Campania, Salerno, sez. I, 10.09.2014, n. 1523 che richiama Cons. Stato, sez. V, 11.06.2013, n. 3220).
Peraltro l’art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, richiedente per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l'opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione del manufatto, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, è una disposizione la cui ratio è legata al contrasto all'inerzia dell'Amministrazione; ciò significa che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda; tale ratio della norma è del tutto comprensibile, quindi, e compatibile con i precetti costituzionali di cui all’art. 97 Cost.
Pertanto, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, contenente l'accertamento di conformità, l'Autorità amministrativa, che non è chiamata a compiere scelte discrezionali, deve esclusivamente accertare la c.d. doppia conformità dell'intervento realizzato alle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti (generali e di attuazione), oltre che la sua non contrarietà rispetto a previsioni rivenienti da strumenti urbanistici solo adottati (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 17.09.2007, n. 4838; sez. V, 25.02.2009, n. 1126).
Conclusivamente, dall’art. 13 della l. 28.02.1985, n. 47 (riprodotto dall’art. 36 del d.P.R. n. 380/2001) non è ricavabile alcun diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria (cfr. Cons. Stato, 3220/2013 cit.) (TAR Molise, sentenza 13.03.2015 n. 110 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: E-mail del dipendente svelata. Nessun segreto se c'è in ballo una causa di lavoro. Secondo il Consiglio di stato la tutela in giudizio rende l'ostensione necessaria.
Il lavoratore ha diritto a vedere l'email privata del collega che sparlava di lui con il capo in vista del conferimento di un incarico. E ciò perché il dipendente pubblico deve potersi difendere in tribunale per tutelare la sua immagine professionale laddove contesta la decisione che non l'ha confermato nel posto di prestigio per le tensioni con i sottoposti: l'ente suo datore, dunque, deve tirare fuori tutti i verbali del consiglio di amministrazione, compreso il testo dell'e-mail e il nome di chi l'ha inviata, che non è più corrispondenza privata dopo che il dirigente destinatario ne ha informato l'amministrazione.

È quanto emerge dalla sentenza 05.03.2015 n. 1113 della VI Sez. del Consiglio di Stato.
Senza privacy
Il lavoratore è responsabile amministrativo per ben sette anni ma poi non viene confermato nell'incarico. Motivo? È difficile gestire le missioni esterne e la cosa lo fa litigare con gli altri dipendenti, tanto che la «rimozione» risulta motivata proprio con la «conflittualità» nell'ambiente di lavoro.
Il dipendente decide allora di ricorrere al giudice del lavoro per contestare il conferimento dell'incarico, che evidentemente è andato a un altro. Il fatto è che per difendersi in Tribunale l'ex responsabile amministrativo ha bisogno anche delle segnalazioni fatte contro di lui ai vertici della struttura, delle quali c'è traccia nel verbale del consiglio di amministrazione all'epoca della nomina. È vero: ha natura privata l'e-mail del collega che parla male di lui al punto da non farlo riconfermare. Ma è il presidente a dare rilevanza pubblica alla «soffiata» -definita con un eufemismo «informativa»- nel momento in cui ne rende edotti gli uffici dell'amministrazione: il testo della mail diventa a tutti gli effetti un documento «detenuto» dell'ente. Tanto che l'interessato apprende dell'esistenza del documento dal responsabile del procedimento.
D'accordo, ma la privacy? L'amministrazione, in pratica, è condannata a dare in pasto all'interessato il nome del detrattore: è tuttavia l'ex responsabile che ha dimostrato come senza le generalità del mittente non gli è possibile esercitare il diritto di difesa nella causa di lavoro. Spese compensate per la novità della questione (articolo ItaliaOggi del 07.04.2015).

APPALTIIn tema di pubblici appalti, l’aggiudicazione disposta in favore di un costituendo o costituito raggruppamento temporaneo di imprese si intende effettuata in favore della composizione del medesimo raggruppamento, così come risultante dall’impegno presentato in sede di offerta, in virtù del principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare.
A tale principio, finalizzato non solo a consentire all’amministrazione appaltante la verifica dei requisiti di idoneità morale, tecnico–organizzativa ed economica, nonché della legittimazione delle imprese che hanno partecipato alla gara, ma anche a presidiare la complessiva serietà delle imprese partecipanti e la migliore affidabilità del contraente, si sottraggono le sole ipotesi eccezionali di fallimento del mandante, del mandatario e, se si tratta di imprenditore, di morte, interdizione o inabilitazione (oltre a quelle previste dalla normativa antimafia), che tuttavia riguardano situazioni indipendenti dalla volontà del soggetto partecipante alla gara e che trovano giustificazione nell’interesse della stazione appaltante alla continuazione della gara o dell’appalto affidato.

6.2.1.1. In punto di fatto occorre premettere che, come rilevato anche dai primi giudici, l’A.T.I. costituita dall’appellante Cooperativa Sociale Ferrante Aporti, capogruppo mandataria, con la società Ferrari Costruzioni s.r.l., mandante, si era resa aggiudicataria della gara bandita dal Comune di Brindisi per l’affidamento del «Progetto di ristrutturazione dell’edificio alla via Carena del Rione S. Elia – Gestione della struttura e delle attività correlate», progetto che comprendeva sia la realizzazione dei lavori di ristrutturazione del predetto edificio (già destinato a scuola materna e da destinare a centro di rivitalizzazione economica e sociale rivolto alle fasce giovanili), sia servizi di gestione “chiavi in mano” di un centro di rivitalizzazione economica e sociale rivolto alle fasce giovanili (art. 1 del Capitolato speciale d’appalto).
Occorre aggiungere che -mentre il titolo III del capitolato si occupava della «definizione tecnica ed economica dei lavori», stabilendo tra l’altro che essi si sarebbero dovuti concludere entro 180 giorni naturali consecutivi, decorrenti dalla data del verbale di consegna (art. 13, comma 1)-, la regolamentazione della «Gestione della struttura e delle attività correlate» era contenuta nel titolo III che, in particolare all’art. 1 fissava le «Modalità di espletamento del servizio», all’art. 2 stabiliva la durata dell’affidamento (cinque anni a decorrere dalla data di ultimazione dei lavori di cui al titolo II, equivalenti alla durata del piano di gestione) e all’art. 3 indicava il corrispettivo (prevedendo un «importo massimo di €. 281.000,00 al netto dell’Iva per un periodo pari a mesi 12 di attività. Gli anni successivi al primo anno sono regolati dal Piano Esecutivo di Gestione che prevede ogni costo inerenti l’esercizio delle attività previste dal presente Capitolato sia a carico del soggetto gestore, fatto salvo l’intervento a carico del soggetto attuatore per eventuali disavanzi di gestione»).
Nel contratto (Rep. n. 73135 – Raccolta 20.138 in data 18.02.2009) di costituzione dell’A.T.I. tra le società sopra indicate, era tra l’altro stabilito, al punto 4, secondo periodo, che «In caso di fallimento di una delle Imprese mandanti ovvero se Impresa individuale, in caso di morte, interdizione o inabilitazione del suo titolare, l’Impresa capogruppo rimarrà tenuta alla esecuzione direttamente o a mezzo di altra Impresa mandante, previa approvazione del Comune di Brindisi» e all’art. 6 che la predetta A.T.I. si sarebbe sciolta automaticamente «senza adempimento di ulteriori formalità, dopo l’affidamento dei lavori: a) col verificarsi di una delle fattispecie di scioglimento anticipato del contratto di appalto; b) in seguito alla accettazione delle opere appaltate ed alla conseguente emissione da parte del Comune di Brindisi successivamente alla risoluzione delle eventuali riserve, del certificato di liquidazione finale a saldo previsto dal predetto contratto».
E’ inoltre pacifica tra le parti l’intervenuta trasformazione della società mandante Ferrari Costruzioni s.r.l. in CO.GE.PU. S.p.A. in data 31.03.2010.
6.2.1.2. Ciò chiarito, la Sezione osserva che, secondo un condivisibile indirizzo giurisprudenziale (ex multis, Cons. St., V, 20.04.2012, n. 6646; sez. IV, 14.12.2012, n. 6646), l’aggiudicazione di un appalto disposta in favore di un costituendo o costituito raggruppamento temporaneo di imprese si intende effettuata in favore della composizione del medesimo raggruppamento, così come risultante dall’impegno presentato in sede di offerta, in virtù del principio di immodificabilità soggettiva dei partecipanti alle gare (arg. ex art. 37, comma 9, del D.Lgs. n. 163 del 2006).
A tale principio (preordinato non solo a consentire all’amministrazione appaltante la verifica dei requisiti di idoneità morale, tecnico–organizzativa ed economica, nonché della legittimazione delle imprese che hanno partecipato alla gara, ma anche a presidiare la complessiva serietà delle imprese partecipanti e la migliore affidabilità del contraente), si sottraggono le sole ipotesi eccezionali di cui ai commi 18 e 19 del citato articolo 37 del D.Lgs. n. 163 del 2006, nelle ipotesi di fallimento del mandante, del mandatario e, se si tratta di imprenditore, di morte, interdizione o inabilitazione (oltre a quelle previste dalla normativa antimafia), che tuttavia riguardano situazioni indipendenti dalla volontà del soggetto partecipante alla gara e che trovano giustificazione nell’interesse della stazione appaltante alla continuazione della gara o dell’appalto affidato.
Non può pertanto dubitarsi della necessità che la stazione appaltante sia tempestivamente ed adeguatamente edotta delle vicende che colpiscano le imprese facenti parte dei un costituendo o costituito raggruppamento temporaneo d’impresa, onde, nel caso di fallimento del mandatario (e se si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia) stabilire se proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dalla legge, purché abbia i requisiti di qualificazione ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire ovvero in caso negativo se recedere dall’appalto, e nel caso di fallimento di uno dei mandanti (ovvero qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia) se sussistano in capo al mandatario tenuto (ove non indichi altro operatore che sia in possesso dei prescritti requisiti) alla esecuzione direttamente o a mezzo degli altri mandanti, oltre che in capo a questi ultimi, i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire.
Non può neppure dubitarsi che l’onere di tale informativa incombeva quanto meno anche sull’impresa capogruppo, in virtù del mandato speciale conferito con il contratto di costituzione dell’A.T.I. (massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.03.2015 n. 986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO: Il dirigente comunale del settore “Sviluppo e tutela del territorio”, titolare di una posizione di garanzia nei confronti dei cittadini presenti nel territorio comunale, quando sia a conoscenza della pericolosità di una lunga e sconnessa scalinata, deve provvedere a proteggerne il percorso con un adeguato parapetto, al fine di evitare cadute nel burrone sottostante.
Il ricorso non è fondato.
Si osserva (cfr. Cass., Sez. 4, Sent. n. 4842 del 02.12.2003, Rv. 229369) che, nel momento del controllo della motivazione, la Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento; ciò in quanto l’articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), non consente a questa Corte una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché e’ estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali.
Tanto premesso la motivazione della sentenza impugnata appare logica e congrua e supera quindi il vaglio di questa Corte nei limiti sopra indicati. I giudici della Corte di appello di Messina hanno infatti chiaramente evidenziato gli elementi da cui hanno dedotto la sussistenza della responsabilità del (OMISSIS) in ordine al reato ascrittogli. In particolare hanno evidenziato che si trattava di un percorso ad elevatissimo rischio dal momento che la giovane (OMISSIS) per cause accidentali, quali verosimilmente il dislivello della pavimentazione di pietra, aveva perso l’equilibrio e, mancando elementi di appiglio o protezione, era precipitata nel burrone.
Né poteva ritenersi che l’evento fosse dipeso da colposa imprudenza da parte della vittima, non potendo considerarsi censurabile, come si legge in sentenza, la circostanza che la giovane, in piena estate, indossasse scarpe infradito e dialogasse con i suoi compagni di percorso.
I giudici della Corte territoriale hanno poi affrontato la tematica della consapevolezza da parte dell’imputato della pericolosità dei luoghi, concludendo sul punto in senso positivo, dal momento che il suo ufficio era stato investito della situazione di grave pericolo esistente in quella strada sin dal 18.12.2000, quando venne ivi inoltrata dalla (OMISSIS) la perizia redatta il 15.12.2000 dall’ing. (OMISSIS) avente ad oggetto la messa in sicurezza delle strade di (OMISSIS).
I giudici di merito hanno pertanto ritenuto che l’imputato (OMISSIS), che dal giugno 2002 rivestiva la qualifica di Dirigente del 3 settore Sviluppo e Tutela del Territorio del Comune di (OMISSIS), nella cui competenza rientra l’isola di (OMISSIS), fosse titolare di posizione di garanzia e che, per conseguenza, l’obbligo di provvedere alla messa in sicurezza delle strade di (OMISSIS) fosse da lui concretamente esigibile, perché rientrante nelle attribuzioni del suo ufficio.
In considerazione di tali circostante l’evento era pertanto da lui prevedibile ed evitabile, dal momento che agli atti del suo ufficio vi era fin dal dicembre 2000 la perizia dell’ing. (OMISSIS) e quindi il (OMISSIS), se avesse attentamente espletato i suoi compiti, avrebbe dovuto essere a conoscenza del contenuto della stessa e quindi della pericolosità del percorso di cui è processo.
I giudici di merito sono quindi pervenuti alla conclusione che la colposa ignoranza di una situazione che aveva l’obbligo di conoscere non poteva giustificare il mancato adempimento del suo obbligo di attivarsi fino all’evento mortale che ci occupa, risultando dalla lettura della sentenza che soltanto nel dicembre 2005, dopo il tragico fatto, con ordinanza n. 161 del 31.12.2005, il Sindaco del Comune di (OMISSIS), quale Commissario delegato per l’emergenza, aveva approvato la perizia di cui sopra per la “realizzazione di 212 metri di ringhiera in ferro battuto da installare lungo i tratti a rischio delle vie comunali di (OMISSIS)” (massima tratta da http://renatodisa.com - Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 25.02.2015 n. 8524).

EDILIZIA PRIVATA: In zona paesaggisticamente vincolata, non occorre la preventiva autorizzazione per lo  spostamento di duecentosessanta piante di ulivo (non quindi un loro abbattimento) all’interno della stessa proprietà, mediante trasferimento della loro allocazione dai mappali n. ... al vicino mappale n. ....
In diritto, va rilevato qui che l’art. 149 (Interventi non soggetti ad autorizzazione), comma 1, lett. b), d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) esenta dall’autorizzazione paesaggistica «gli interventi inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l'assetto idrogeologico del territorio».
La disposizione ripete il testo dell’art. 152 (Interventi non soggetti ad autorizzazione) d.lgs. 29.10.1999, n. 490 (Testo unico dei beni culturali e ambientali) e quello il testo dell’art. 82, ottavo comma, d.P.R. 24.07.1977, n. 616, aggiunti dal d.l. 27.06.1985, n. 312 come convertito con modificazioni dall’art. 1 l. 08.08.1985, n. 431.
Il significato della disposizione è che –salvo lo speciale caso dei «territori coperti da foreste e da boschi», di cui all’art. 142, comma 1, lett. g) (già art. 146, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 490 del 1999, e art. 82, quinto comma, lett. g), d.P.R. n. 616 del 1997, integrato come sopra ricordato) e la sua speciale rilevanza, e per i quali vale comunque l’art. 149, comma 1, lett. c)– l’ordinamento esenta dalla necessità della valutazione di compatibilità paesaggistica, e dunque dalla relativa autorizzazione, gli interventi sulla forma del territorio che siano funzionali alla pratica agronomica o silvicolturale e non comportino opere edilizie o civili né alterino –come di solito è per i movimenti di terra- l’assetto idrogeologico.
Si tratta infatti di modificazioni normali della forma del territorio, inerenti all’usuale pratica agricola anche per le piante da frutto o da legna, e alla parabola di esseri viventi e produttivi delle piante stesse, quand’anche interessino uliveti, vigne, pioppeti, frutteti e simili e dunque abbiano frequenza di rimozione tutt’altro che annuale. Normalmente, infatti, non sono oggetto di uno specifico valore espressamente tutelato dal vincolo paesaggistico e non ne sono elementi identificativi (come invece vuole la legge stessa per i boschi e le foreste). Diversamente opinando si incorrerebbe in una compressione eccessiva delle facoltà proprietarie e si otterrebbe il controproducente effetto di una disincentivazione della pratica agricola, con effetti negativi paradossali sulla buona manutenzione del territorio.
Resta salvo il caso in cui un vincolo paesaggistico sia stato introdotto proprio per salvaguardare una specifica presenza di piantagioni, quali elementi costitutivi essenziali della tipicità di un certo e qualificato paesaggio agrario: del che dev’essere la motivazione del vincolo a descrivere espressamente il rilievo e l’oggetto. In tal caso domina la salvaguardia di un tipo particolare di paesaggio e la compressione delle facoltà agrarie trova base nell’art. 9 Cost., essendo i paesaggi agrari tipici elementi del paesaggio nazionale di particolare pregio.
Non si versa dunque in questa particolare esenzione dell’art. 149, comma 1, lett. b), quando si tratta non già di pratiche agricole o silvicolturali, bensì di interventi su elementi arborei del paesaggio vincolato posti, ad esempio, a ornamento o arredo (es. viali di piante, piante decorative, ecc.): in quel caso la valutazione di compatibilità paesaggistica resta necessaria se la zona è paesisticamente vincolata.
È anche il caso di precisare che queste valutazioni afferiscono alla tutela paesaggistica: la quale non è condizionata, né nell’uno né nell’altro senso, dalla tutela silvicolturale delle piante (che segue i suoi distinti procedimenti amministrativi, ove necessari).
Nel caso di specie ricorre questa esenzione dell’art. 149, comma 1, lett. b).

... per la riforma della sentenza del TAR LOMBARDIA - SEZ. STACCATA DI BRESCIA: SEZIONE I n. 687/2014, resa tra le parti, concernente rimessione in pristino dello stato dei luoghi per spostamento provvisorio di alberi di ulivo in assenza di autorizzazione paesaggistica.
...
L’appello è fondato.
In fatto, come sopra riferito, si tratta di uno spostamento di duecentosessanta piante di ulivo (non quindi un loro abbattimento) all’interno della stessa proprietà, mediante trasferimento della loro allocazione dai mappali n. 1193-1175-4852 al vicino mappale n. 6340 (anch’esso a destinazione uliveto) del comune di Polpenazze del Garda.
L’appellante G.W.I. s.r.l. afferma che nella sua comunicazione dello spostamento alla Camera di Commercio, si era impegnata a “reimpiantare” al termine dei lavori (costruzione di un albergo con caratteristiche di borgo collinare tipico del gardesano) tutti gli alberi di ulivo nel luogo di origine e a integrare il numero degli stessi mediante la messa a dimora di nuove piante.
Non corrisponde a realtà quanto ritenuto dal primo giudice circa la mancata allegazione e dimostrazione di un’iniziativa edilizio-urbanistica. Infatti, anche a ritenere necessaria la dimostrazione del procedimento urbanistico-edilizio cui è funzionale la movimentazione agricola, è stato di fatto avviato dalla società un apposito procedimento, cui è propedeutico l’espianto e il reimpianto, presso lo Sportello unico per le attività produttive del Comune.
Il Comune con delibera di Giunta del 19.04.2010 ha rilasciato il parere di compatibilità all’attivazione del SUAP e con atto prot. n. 4756 del 10.11.2011 con atto unilaterale d’obbligo la società ha sottoscritto la relativa convenzione urbanistica.
Esisteva quindi sia la prova della assenza di interesse paesaggistico che della esistenza della pratica urbanistico-edilizia.
In diritto, va rilevato qui che l’art. 149 (Interventi non soggetti ad autorizzazione), comma 1, lett. b), d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) esenta dall’autorizzazione paesaggistica «gli interventi inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l'assetto idrogeologico del territorio».
La disposizione ripete il testo dell’art. 152 (Interventi non soggetti ad autorizzazione) d.lgs. 29.10.1999, n. 490 (Testo unico dei beni culturali e ambientali) e quello il testo dell’art. 82, ottavo comma, d.P.R. 24.07.1977, n. 616, aggiunti dal d.l. 27.06.1985, n. 312 come convertito con modificazioni dall’art. 1 l. 08.08.1985, n. 431.
Il significato della disposizione è che –salvo lo speciale caso dei «territori coperti da foreste e da boschi», di cui all’art. 142, comma 1, lett. g) (già art. 146, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 490 del 1999, e art. 82, quinto comma, lett. g), d.P.R. n. 616 del 1997, integrato come sopra ricordato) e la sua speciale rilevanza, e per i quali vale comunque l’art. 149, comma 1, lett. c)– l’ordinamento esenta dalla necessità della valutazione di compatibilità paesaggistica, e dunque dalla relativa autorizzazione, gli interventi sulla forma del territorio che siano funzionali alla pratica agronomica o silvicolturale e non comportino opere edilizie o civili né alterino –come di solito è per i movimenti di terra- l’assetto idrogeologico.
Si tratta infatti di modificazioni normali della forma del territorio, inerenti all’usuale pratica agricola anche per le piante da frutto o da legna, e alla parabola di esseri viventi e produttivi delle piante stesse, quand’anche interessino uliveti, vigne, pioppeti, frutteti e simili e dunque abbiano frequenza di rimozione tutt’altro che annuale. Normalmente, infatti, non sono oggetto di uno specifico valore espressamente tutelato dal vincolo paesaggistico e non ne sono elementi identificativi (come invece vuole la legge stessa per i boschi e le foreste). Diversamente opinando si incorrerebbe in una compressione eccessiva delle facoltà proprietarie e si otterrebbe il controproducente effetto di una disincentivazione della pratica agricola, con effetti negativi paradossali sulla buona manutenzione del territorio.
Resta salvo il caso in cui un vincolo paesaggistico sia stato introdotto proprio per salvaguardare una specifica presenza di piantagioni, quali elementi costitutivi essenziali della tipicità di un certo e qualificato paesaggio agrario: del che dev’essere la motivazione del vincolo a descrivere espressamente il rilievo e l’oggetto. In tal caso domina la salvaguardia di un tipo particolare di paesaggio e la compressione delle facoltà agrarie trova base nell’art. 9 Cost., essendo i paesaggi agrari tipici elementi del paesaggio nazionale di particolare pregio.
Non si versa dunque in questa particolare esenzione dell’art. 149, comma 1, lett. b), quando si tratta non già di pratiche agricole o silvicolturali, bensì di interventi su elementi arborei del paesaggio vincolato posti, ad esempio, a ornamento o arredo (es. viali di piante, piante decorative, ecc.): in quel caso la valutazione di compatibilità paesaggistica resta necessaria se la zona è paesisticamente vincolata.
È anche il caso di precisare che queste valutazioni afferiscono alla tutela paesaggistica: la quale non è condizionata, né nell’uno né nell’altro senso, dalla tutela silvicolturale delle piante (che segue i suoi distinti procedimenti amministrativi, ove necessari).
Nel caso di specie ricorre questa esenzione dell’art. 149, comma 1, lett. b).
Per quanto detto, non rileva che nella fattispecie non sia recato pregiudizio alle piante (che pur godono di buono stato vegetativo e sono curate nelle operazioni di gestione, secondo la perizia di parte prodotta e non contestata). Rileva invece che, ricorrendo le condizioni dette, l’intervento, per come è prospettato, rimane irrilevante dal punto di vista paesaggistico (e dal punto di vista urbanistico-edilizio). Del resto, nulla hanno osservato la Soprintendenza e il Servizio Forestale regionale in merito alla sopravvivenza delle piante.
Coglie tra l’altro nel segno la contestazione dell’appellante nei confronti della sentenza, che si diffonde in principi della materia agraria e dei reimpianti, quasi a suffragare e corroborare l’atto negativo comunale, e senza che tali considerazioni siano rinvenibili nell’ambito del procedimento amministrativo.
Piuttosto non era qui richiesta la stessa autorizzazione paesaggistica.
Per le considerazioni sopra svolte, l’appello va accolto e, in riforma dell’appellata sentenza, va accolto il ricorso originario (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.02.2015 n. 717 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALIProgettisti, referenze d'acciaio. Utilizzo nelle gare anche se il progetto ha abortito. Il Consiglio di stato valorizza le attestazioni maturate con i committenti privati.
Le referenze progettuali maturate con committenti privati sono utilizzabili da professionisti e società nelle gare di appalto pubbliche, anche se il progetto non sia stato realizzato o la proposta non sia risultata aggiudicataria in una procedura di project financing o di appalto integrato; l'esito della gara è irrilevante, conta soltanto che il progetto sia stato svolto per il soggetto privato e da esso remunerato; valgono come referenze i progetti svolti per le imprese di costruzioni e presentati in gara negli appalti integrati, o nei project financing o nelle concessioni di lavori pubblici.

È quanto afferma la quinta sezione del Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 10.02.2015 n. 692 che prende in esame l'utilizzabilità delle referenze maturare da professionisti e società con committenti privati, ma fornisce anche ulteriori elementi interpretativi sulle referenze maturate con i committenti pubblici.
La materia assume particolare delicatezza alla luce degli orientamenti restrittivi seguiti dagli stessi giudici di Palazzo Spada l'anno scorso (sentenza della quinta sezione n. 3663 del 14.07.2014). La controversia giudicata quest'anno riguardava l'affidamento di una concessione di lavori per la quale un raggruppamento concorrente (poi risultato aggiudicatario) aveva portato come referenze progetti svolti in procedure di project financing valutati dalla committenza, ma non risultati aggiudicatari e quindi non realizzati.
La materia è disciplinata dall'articolo 263, comma 2, del dpr 207/2010, che prevede una differente disciplina per le referenze maturate con committenti pubblici (è richiesto, oltre allo svolgimento del servizio, anche l'avvenuta approvazione, nonostante le direttive europee parlino esclusivamente di «servizi svolti») e per referenze maturate con la committenza privata (in questi casi è sufficiente il certificato del servizio svolto, o l'autodichiarazione del concorrente e la produzione, su richiesta, dell'atto concessorio/autorizzatorio, del certificato di collaudo, del contratto o delle fatture).
L'anno scorso, sia pure per una fattispecie di appalto integrato con progetto definitivo richiesto in sede di gara, i giudici avevano sposato una tesi interpretativa molto restrittiva ritenendo valutabile soltanto il progetto vincitore della gara (e quindi «approvato» e poi realizzato).
In questo caso la lettura della norma del dpr 207/2010 è del tutto diversa: se il committente è privato e se la referenza risulta dal contratto o dalle fatture «la prestazione è per ciò stesso riconoscibile quale indice di capacità tecnica, né si vede come siffatta sua spendibilità possa venire meno per la ragione del successivi impiego del progetto da parte del committente ai fini di un procedimento di evidenza pubblica in cui il progettista non rivestirà la qualità di parte». In sostanza spetta al privato che lo ha remunerato la valutazione circa l'effettiva corretta esecuzione dell'incarico progettuale.
Quando invece il committente è pubblico (ed è necessaria l'approvazione), i giudici precisano che non è necessario che il progetto (ad esempio presentato in gara per un appalto integrato) sia risultato aggiudicatario (possibilità che dipende anche dall'entità dell'offerta economica), ma è sufficiente che il «progetto sottoposto all'Amministrazione abbia riportato la valutazione di semplice idoneità tecnica».
Quindi può essere utilizzato non soltanto il progetto vincitore di un appalto integrato, ma anche gli altri progetti prodotti in sede di offerta: sia perché –in effetti- di «committenza privata» (impresa di costruzione), sia perché valutati idonei dalla commissione giudicatrice (articolo ItaliaOggi del 07.04.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 9 della legge 24.03.1989, n. 122, nel consentire la costruzione di parcheggi, da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, nel sottosuolo degli immobili o nei locali siti al piano terreno anche in deroga alla vigente disciplina urbanistica, necessariamente fa implicito riferimento ai soli fabbricati già esistenti e non anche le concessioni edilizie rilasciate per realizzare edifici nuovi, per i quali invece provvede l’articolo 2, comma 2, della stessa legge n. 122, il quale stabilisce l'obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore a 1 mq. per ogni 10 mc. di costruzione.
Ed infatti, in base a un condiviso orientamento, l’articolo 9 della legge 24.03.1989, n. 122, nel consentire la costruzione di parcheggi, da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, nel sottosuolo degli immobili o nei locali siti al piano terreno anche in deroga alla vigente disciplina urbanistica, necessariamente fa implicito riferimento ai soli fabbricati già esistenti e non anche le concessioni edilizie rilasciate per realizzare edifici nuovi, per i quali invece provvede l’articolo 2, comma 2, della stessa legge n. 122, il quale stabilisce l'obbligo di riservare appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore a 1 mq. per ogni 10 mc. di costruzione (in tal senso: Cons. Stato, IV, 16.04.2012, n. 2185) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 09.02.2015 n. 637 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALINel caso in cui l’Amministrazione, nell’indire la gara pubblica per l’affidamento dell’incarico di progettazione esecutiva finalizzato al restauro di un fabbricato di rilevante valore storico ed artistico, abbia espressamente richiesto, in considerazione della specifica natura dei beni oggetto di restauro e del carattere assolutamente prevalente dell’intervento artistico e di restauro rispetto alle parti tecniche, come requisito di partecipazione alla gara che i professionisti incaricati di redigere il progetto fossero esclusivamente architetti, è illegittimo il provvedimento che il suddetto incarico assegna ad un ingegnere essendo irrilevante, a fronte di una valutazione, poi trasfusa nella “lex specialis” a cui si è autovincolata, il richiamo negli scritti difensivi all’art. 52, comma 2, r.d. 23.10.1925 n. 2537, nella parte in cui stabilisce che le opere di edilizia civile, che presentano rilevante carattere artistico, ed il restauro ed il ripristino degli edifici contemplati dalla l. 20.06.1909, n. 364, per l’antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto, ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall’architetto quanto dall’ingegnere, rendendo quindi possibile la partecipazione anche di questi ultimi per il profilo tecnico.
Dalla massima testé citata, e al netto delle differenze fattuali, riferibili a quella fattispecie concreta, si ricava che quanto la stazione appaltante si sia autovincolata al rispetto delle competenze specifiche di architetti e ingegneri, secondo il R.D. 2537/1925, “è illegittimo il provvedimento che il suddetto incarico assegna ad un ingegnere essendo irrilevante (…) il richiamo (…) all’art. 52, comma 2, r.d. 23.10.1925 n. 2537, nella parte in cui (…) la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall’architetto quanto dall’ingegnere”.
Poco conta, secondo il Tribunale, che in quella fattispecie concreta si vertesse dell’affidamento della progettazione esecutiva, per il restauro di un immobile vincolato, e nell’appalto “de quo”, della presentazione di un progetto migliorativo (ma, pur sempre, afferente un immobile di tal genere), con attribuzione di punteggio, nell’ambito di una gara condotta con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa; quel che conta è, invece, che si sia, o meno, in presenza di un bando, che espressamente si conforma alla diversificazione di tali competenze, secondo la legge professionale, con conseguente autovincolo della stazione appaltante (tale è il caso, per l’appunto, che si verifica nella specie).
Ancora più stringente, in tale direzione, la massima seguente, secondo la quale: “Dal disposto dell’art. 52, r.d. n. 2537/1925, si evince che la riserva di competenza degli architetti sussiste per ogni tipologia di intervento su immobili gravati da vincolo storico e artistico, ad eccezione delle attività propriamente tecniche di edilizia civile per le quali lo stesso art. 52 prevede la competenza anche degli ingegneri; la competenza degli architetti, poi, si estende anche agli interventi realizzati su immobili non assoggettati a vincolo storico e artistico quando presentino un rilevante interesse artistico”; si tenga pure presente, “a contrario”, la decisione seguente: “Nel caso in cui un fabbricato oggetto di appalto non sia soggetto al vincolo di cui alla l. 01.06.1939 n. 1089, gli elaborati progettuali, relativi al suo restauro, non devono essere necessariamente sottoscritti da un architetto”.
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Il progetto migliorativo dell’intervento in oggetto– prevedendo consistenti opere di ripristino, oltre che di manutenzione straordinaria del bene culturale (se non proprio di restauro)– doveva essere, necessariamente, sottoscritto da un architetto, ai sensi dell’art. 52 del R.D. 2537/1925 (come del resto stabilito, a pena d’esclusione, dal bando di gara).
Quand’anche, obliterando quanto sopra osservato, si volesse concludere nel senso, restrittivo, della natura di opere di mera manutenzione straordinaria degli interventi migliorativi “de quibus”, non per questo ne deriverebbe, secondo quanto opinato dalla difesa del Comune, il superamento della causa d’esclusione dalla gara dell’aggiudicataria, di cui sopra.
Si consideri, a tale proposito, la massima che segue: “La riserva di competenza in favore degli architetti ex art. 52 r.d. n. 2537 del 23.10.1925, (“Regolamento per le professioni di ingegnere e di architetto”) non può essere negata solo per il fatto che i lavori da appaltare consistano in un mero intervento di recupero e manutenzione straordinaria, e non di restauro in senso stretto, non essendovi ragioni per escludere tali tipologie di intervento da quelle riservate alla competenza degli architetti, tenuto anche conto che la norma in questione contempla in maniera generica le attività di restauro e ripristino”.
In parte motiva, la suddetta decisione reca l’ulteriore, importante, precisazione: “(…) La terminologia utilizzata dal legislatore del 1925 deve quindi essere considerata in senso atecnico, e non può essere riferita alle specifiche categorie di interventi sul patrimonio edilizio esistente poi codificate dall’art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457 e oggi recepite nell’art. 3 del DPR 06.06.2001, n. 380. L’espressione “restauro e ripristino” va quindi intesa in senso omnicomprensivo, come relativa a qualsiasi attività di recupero di una struttura edilizia che presenti peculiari caratteri storico–artistici”.
Del resto, una delle massime, ricavate dalla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, dell’11/09/2006, n. 5239, richiamata, quale precedente, in quella del Consiglio di Stato – Sez. VI, del 09/01/2014, n. 21, assunta dalla stazione appaltante quale decisiva ragione di rigetto delle doglianze sollevate, in corso di gara, dalla ricorrente, prevede: “La ripartizione delle competenze professionali tra architetto e ingegnere, delineata nell’art. 52 r.d. n. 2537 del 1925, deve considerarsi applicabile, garantendo che la progettazione dell’intervento edilizio su immobili di interesse storico–artistico sia affidata a professionisti dotati di una specifica preparazione nel campo delle arti e di un’adeguata formazione umanistica”.
Infine, “ad abundantiam”, s’osserva che nella recentissima decisione del TAR Veneto, Sez. I, del 03/06/2014, n. 743, s’è concluso, significativamente, nei termini seguenti: “In relazione alla disciplina normativa italiana che riserva ai soli architetti le prestazioni principali sugli immobili di interesse culturale, l’art. 52 del r.d. n. 2537 del 1925 (regolamento delle professioni di ingegnere e architetto) non determina –in danno degli ingegneri italiani nei confronti di ingegneri di un qualunque altro Paese dell’Unione Europea– un fenomeno di “discriminazione alla rovescia”: infatti, l’ordinamento comunitario non riconosce a tutti gli ingegneri di Paesi dell’UE diversi dall’Italia (con esclusione dei soli ingegneri italiani) l’indiscriminato esercizio delle attività tipiche della professione di architetto (tra cui le attività relative ad immobili di interesse storico–artistico), ma, al contrario, giusta la normativa comunitaria, l’esercizio di tali attività –in regime di mutuo riconoscimento– sarà consentito ai soli professionisti che (al di là del “nomen iuris” del titolo posseduto) possano vantare un percorso formativo adeguatamente finalizzato all’esercizio delle attività tipiche della professione di architetto; pertanto, anche volendo ammettere che un professionista non italiano con titolo di ingegnere sia legittimato, in base alla normativa del paese d’origine, a svolgere attività rientranti tra quelle abitualmente esercitate con il titolo di architetto, ciò non è sufficiente a determinare “ex se” una “discriminazione alla rovescia”, atteso che, in forza della direttiva 85/384/Cee, l’esercizio di tali attività sarà possibile (non sulla base del mero possesso del titolo di ingegnere, ma) in quanto tale professionista non italiano avrà seguito un percorso formativo adeguato ai fini dell’esercizio delle attività abitualmente esercitate con il titolo di architetto (nella fattispecie, relativa alla procedura di affidamento della progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva e direzione lavori ristrutturazione di un fabbricato comunale ex museo, <il collegio ha concluso che un ingegnere non avrebbe potuto partecipare alla procedura per mancanza del requisito consistente nel possesso del titolo di architetto>)”.
Conviene, quindi, analizzare l’art. 52 del R. D. n. 2357/1925 (“Approvazione del regolamento per le professioni d’ingegnere e di architetto”), del seguente testuale tenore: “Formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative. <Tuttavia le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla L. 20.06.1909, n. 364 (poi, l. 01.06.1939, n. 1089, abrogata dall’art. 166 del D.Lgs. 29.10.1999, n. 490, a sua volta abrogato dall’art. 184, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42), per l’antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto>; ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall’architetto quanto dall’ingegnere”.
Con la prima e la seconda censura dell’atto introduttivo del giudizio, le quali si prestano, per analogia di materia, ad essere esaminate congiuntamente, la ricorrente ha denunziato come, per effetto della sottoscrizione del progetto migliorativo dell’offerta tecnica, da parte di un ingegnere, anziché di un architetto (circostanza, incontestata tra le parti, e ricavabile, del resto, “ictu oculi” dalla lettura della copia del progetto in questione, in atti), la controinteressata–aggiudicataria dovesse:
a) essere estromessa dall’appalto, per non aver rispettato la prescrizione di gara, dettata, espressamente, “a pena di esclusione”, che richiedeva, mercé il riferimento alle competenze, disegnate nel R.D. 2537/1925, la sottoscrizione del progetto in questione, concernente immobili vincolati, d’interesse storico–artistico, da un architetto, anziché da un ingegnere;
b) a tutto concedere, in ogni caso, la non attribuzione di alcun punteggio, alla controinteressata, per l’offerta tecnica (anziché i 50 punti, invece assegnati dalla Commissione), con corrispondente decremento del punteggio complessivo raggiunto ed aggiudicazione della gara alla medesima ricorrente, a quel punto prima graduata.
La censura, come si diceva sopra, è fondata.
Lo testimonia l’analisi della giurisprudenza, nella quale si rinviene la seguente, rilevante, affermazione di principio: “Nel caso in cui l’Amministrazione, nell’indire la gara pubblica per l’affidamento dell’incarico di progettazione esecutiva finalizzato al restauro di un fabbricato di rilevante valore storico ed artistico, abbia espressamente richiesto, in considerazione della specifica natura dei beni oggetto di restauro e del carattere assolutamente prevalente dell’intervento artistico e di restauro rispetto alle parti tecniche, come requisito di partecipazione alla gara che i professionisti incaricati di redigere il progetto fossero esclusivamente architetti, è illegittimo il provvedimento che il suddetto incarico assegna ad un ingegnere essendo irrilevante, a fronte di una valutazione, poi trasfusa nella “lex specialis” a cui si è autovincolata, il richiamo negli scritti difensivi all’art. 52, comma 2, r.d. 23.10.1925 n. 2537, nella parte in cui stabilisce che le opere di edilizia civile, che presentano rilevante carattere artistico, ed il restauro ed il ripristino degli edifici contemplati dalla l. 20.06.1909, n. 364, per l’antichità e le belle arti, sono di spettanza della professione di architetto, ma la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall’architetto quanto dall’ingegnere, rendendo quindi possibile la partecipazione anche di questi ultimi per il profilo tecnico” (Consiglio di Stato – Sez. V, 07/11/2011, n. 5883).
Dalla massima testé citata, e al netto delle differenze fattuali, riferibili a quella fattispecie concreta, si ricava che quanto la stazione appaltante si sia autovincolata al rispetto delle competenze specifiche di architetti e ingegneri, secondo il R.D. 2537/1925, “è illegittimo il provvedimento che il suddetto incarico assegna ad un ingegnere essendo irrilevante (…) il richiamo (…) all’art. 52, comma 2, r.d. 23.10.1925 n. 2537, nella parte in cui (…) la parte tecnica ne può essere compiuta tanto dall’architetto quanto dall’ingegnere”.
Poco conta, secondo il Tribunale, che in quella fattispecie concreta si vertesse dell’affidamento della progettazione esecutiva, per il restauro di un immobile vincolato, e nell’appalto “de quo”, della presentazione di un progetto migliorativo (ma, pur sempre, afferente un immobile di tal genere), con attribuzione di punteggio, nell’ambito di una gara condotta con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa; quel che conta è, invece, che si sia, o meno, in presenza di un bando, che espressamente si conforma alla diversificazione di tali competenze, secondo la legge professionale, con conseguente autovincolo della stazione appaltante (tale è il caso, per l’appunto, che si verifica nella specie).
Ancora più stringente, in tale direzione, la massima seguente, secondo la quale: “
Dal disposto dell’art. 52, r.d. n. 2537/1925, si evince che la riserva di competenza degli architetti sussiste per ogni tipologia di intervento su immobili gravati da vincolo storico e artistico, ad eccezione delle attività propriamente tecniche di edilizia civile per le quali lo stesso art. 52 prevede la competenza anche degli ingegneri; la competenza degli architetti, poi, si estende anche agli interventi realizzati su immobili non assoggettati a vincolo storico e artistico quando presentino un rilevante interesse artistico” (TAR Lazio–Roma, Sez. II, 17/10/2011, n. 7997); si tenga pure presente, “a contrario”, la decisione seguente: “Nel caso in cui un fabbricato oggetto di appalto non sia soggetto al vincolo di cui alla l. 01.06.1939 n. 1089, gli elaborati progettuali, relativi al suo restauro, non devono essere necessariamente sottoscritti da un architetto” (Consiglio di Stato, Sez. V, 10/09/2014, n. 4595).
Il richiamo alle massime che precedono –e, segnatamente, alla prima– consente di ritenere prive di pregio le vivaci contestazioni della difesa della stazione appaltante e della controinteressata, fondate sulla ricorrente affermazione della giurisprudenza, secondo la quale: “Ai sensi dell’art. 52, comma 2 r.d. 23.10.1925 n. 2537 (“Regolamento per le professioni di ingegnere e di architetto”), non la totalità degli interventi concernenti gli immobili di interesse storico e artistico deve essere affidata alla specifica professionalità dell’architetto, ma solo “le parti di intervento di edilizia civile che riguardino scelte culturali connesse alla maggiore preparazione accademica conseguita dagli architetti nell’ambito del restauro e risanamento degli immobili di interesse storico e artistico”, restando invece nella competenza dell’ingegnere civile la cd. parte tecnica, ossia “le attività progettuali e di direzione dei lavori che riguardano l’edilizia civile vera e propria” (Consiglio di Stato – Sez. VI, 09/01/2014, n. 21; conforme: TAR Sicilia–Catania, Sez. I, 27/01/2011, n. 187).
Sul punto, s’è sviluppato un serrato dibattito, sostenendosi da parte della difesa del Comune e della controinteressata, sia pur con diversità di accenti, sostanzialmente l’inammissibilità e l’infondatezza dei primi due motivi di censura, posto che si trattava soltanto d’interventi di efficientamento energetico degli immobili vincolati “de quibus”; che le proposte migliorative erano state circoscritte a specifici aspetti progettuali (quelli riferiti in precedenza); che le opere migliorative di conseguenza proposte si limitavano a “lavori impiantistici e di natura squisitamente tecnica”, i quali non implicavano “scelte culturali” di specifica competenza della professione di architetto; ed ancora, che le prescrizioni della Soprintendenza erano dirette esclusivamente al Comune, che ne aveva debitamente tenuto conto, in sede di redazione del progetto esecutivo dei lavori; le predette argomentazioni erano oggetto d’ancor più ampio sviluppo, nell’ultima memoria difensiva della stazione appaltante, la quale concludeva, nel senso che gli interventi di efficientamento energetico dei quali si tratta, lungi dal poter essere compresi nella nozione di restauro, recupero o ripristino di un bene di rilevante interesse culturale, rientravano piuttosto nel concetto di manutenzione (ordinaria, o al più straordinaria) degli immobili tutelati, con conseguente impossibilità d’affermare la competenza esclusiva dell’architetto, nella sottoscrizione della proposta tecnica migliorativa in questione.
Dal canto suo, la ricorrente, con il supporto di relazione tecnica di parte, ha osservato come l’aggiudicataria, con l’offerta migliorativa, avesse previsto, tra l’altro, la sostituzione degli infissi esterni, l’isolamento termico mediante pannelli–sandwich, la realizzazione di un isolamento termico a cappotto e interventi di isolamento della copertura e capriata di progetto, ovvero opere “che incidono in modo rilevante sul bene culturale”; e, con la memoria di replica, da ultimo depositata, ha sostenuto, al contrario di quanto assunto dalle avverse difese, come rientrassero nella nozione di restauro, e, ancor più, di ripristino, tutti gli interventi eseguiti sul bene culturale, tanto più che erano previste demolizioni, e s’è soffermata in particolare –quanto alle migliorie proposte dall’aggiudicataria– sull’installazione di infissi, diversi da quelli previsti nel progetto esecutivo e di finestre con parti in alluminio anziché in legno, nonché sulla demolizione di tutte le pareti esterne per uno spessore di 7 cm., al fine di realizzare l’isolamento termico, mediante l’installazione di pannelli–sandwich, nonché sulla rimozione del pavimento e della struttura sottostante, per circa 11 cm., implicata dalla creazione dell’impianto di riscaldamento; sull’integrale demolizione del tetto di copertura, e il successivo ripristino dello stesso, al fine di garantire l’isolamento della copertura medesima e della capriata, per di più con installazione di pannelli fotovoltaici sul tetto, tutti interventi, in definitiva, atti a modificare sensibilmente l’aspetto esterno degli immobili vincolati, come tali richiedenti l’effettuazione di ben precise scelte culturali, riservate per legge alla professione di architetto, in virtù della specifica competenza acquisita, nel corso degli studi universitari, circa tali specifici aspetti.
Orbene, a fronte di tali ultime notazioni (e tenuto conto, altresì, di quanto sopra osservato, circa l’autovincolo, imposto dalla stazione appaltante alle proprie scelte di natura discrezionale –valutativa, mercé l’esplicito richiamo alla legge professionale del 1925), si deve concludere, nel senso che il progetto migliorativo dell’intervento in oggetto– prevedendo consistenti opere di ripristino, oltre che di manutenzione straordinaria del bene culturale (se non proprio di restauro)– dovesse essere, necessariamente, sottoscritto da un architetto, ai sensi dell’art. 52 del R.D. 2537/1925 (come del resto stabilito, a pena d’esclusione, dal bando di gara).
Con l’importante, ulteriore, osservazione che quand’anche, obliterando quanto sopra osservato, si volesse concludere nel senso, restrittivo, della natura di opere di mera manutenzione straordinaria degli interventi migliorativi “de quibus”, non per questo ne deriverebbe, secondo quanto opinato dalla difesa del Comune, il superamento della causa d’esclusione dalla gara dell’aggiudicataria, di cui sopra.
Si consideri, a tale proposito, la massima che segue: “La riserva di competenza in favore degli architetti ex art. 52 r.d. n. 2537 del 23.10.1925, (“Regolamento per le professioni di ingegnere e di architetto”) non può essere negata solo per il fatto che i lavori da appaltare consistano in un mero intervento di recupero e manutenzione straordinaria, e non di restauro in senso stretto, non essendovi ragioni per escludere tali tipologie di intervento da quelle riservate alla competenza degli architetti, tenuto anche conto che la norma in questione contempla in maniera generica le attività di restauro e ripristino” (TAR Sardegna, Sez. I, 24/10/2009, n. 1559).
In parte motiva, la suddetta decisione reca l’ulteriore, importante, precisazione: “(…) La terminologia utilizzata dal legislatore del 1925 deve quindi essere considerata in senso atecnico, e non può essere riferita alle specifiche categorie di interventi sul patrimonio edilizio esistente poi codificate dall’art. 31 della legge 05.08.1978, n. 457 e oggi recepite nell’art. 3 del DPR 06.06.2001, n. 380. L’espressione “restauro e ripristino” va quindi intesa in senso omnicomprensivo, come relativa a qualsiasi attività di recupero di una struttura edilizia che presenti peculiari caratteri storico–artistici”.
Del resto, una delle massime, ricavate dalla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, dell’11/09/2006, n. 5239, richiamata, quale precedente, in quella del Consiglio di Stato – Sez. VI, del 09/01/2014, n. 21, assunta dalla stazione appaltante quale decisiva ragione di rigetto delle doglianze sollevate, in corso di gara, dalla ricorrente (cfr. il citato verbale della Commissione di gara, n. 6 del 03.09.2014, nonché il rigetto del preavviso di ricorso, presentato dalla stessa ricorrente, prot. n. 8178/2014/risc. del 04.09.2014, a firma del RUP), prevede: “La ripartizione delle competenze professionali tra architetto e ingegnere, delineata nell’art. 52 r.d. n. 2537 del 1925, deve considerarsi applicabile, garantendo che la progettazione dell’intervento edilizio su immobili di interesse storico–artistico sia affidata a professionisti dotati di una specifica preparazione nel campo delle arti e di un’adeguata formazione umanistica”.
Infine, “ad abundantiam”, s’osserva che nella recentissima decisione del TAR Veneto, Sez. I, del 03/06/2014, n. 743, s’è concluso, significativamente, nei termini seguenti: “In relazione alla disciplina normativa italiana che riserva ai soli architetti le prestazioni principali sugli immobili di interesse culturale, l’art. 52 del r.d. n. 2537 del 1925 (regolamento delle professioni di ingegnere e architetto) non determina –in danno degli ingegneri italiani nei confronti di ingegneri di un qualunque altro Paese dell’Unione Europea– un fenomeno di “discriminazione alla rovescia”: infatti, l’ordinamento comunitario non riconosce a tutti gli ingegneri di Paesi dell’UE diversi dall’Italia (con esclusione dei soli ingegneri italiani) l’indiscriminato esercizio delle attività tipiche della professione di architetto (tra cui le attività relative ad immobili di interesse storico–artistico), ma, al contrario, giusta la normativa comunitaria, l’esercizio di tali attività –in regime di mutuo riconoscimento– sarà consentito ai soli professionisti che (al di là del “nomen iuris” del titolo posseduto) possano vantare un percorso formativo adeguatamente finalizzato all’esercizio delle attività tipiche della professione di architetto; pertanto, anche volendo ammettere che un professionista non italiano con titolo di ingegnere sia legittimato, in base alla normativa del paese d’origine, a svolgere attività rientranti tra quelle abitualmente esercitate con il titolo di architetto, ciò non è sufficiente a determinare “ex se” una “discriminazione alla rovescia”, atteso che, in forza della direttiva 85/384/Cee, l’esercizio di tali attività sarà possibile (non sulla base del mero possesso del titolo di ingegnere, ma) in quanto tale professionista non italiano avrà seguito un percorso formativo adeguato ai fini dell’esercizio delle attività abitualmente esercitate con il titolo di architetto (nella fattispecie, relativa alla procedura di affidamento della progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva e direzione lavori ristrutturazione di un fabbricato comunale ex museo, <il collegio ha concluso che un ingegnere non avrebbe potuto partecipare alla procedura per mancanza del requisito consistente nel possesso del titolo di architetto>)”.
L’accoglimento del ricorso, per i profili dianzi evidenziati, con assorbimento (stante la natura dirimente del vizio, riscontrato dal Collegio) d’ogni altra doglianza, comporta l’annullamento dell’aggiudicazione definitiva, disposta in favore della controinteressata, la quale doveva essere esclusa dalla gara (e, comunque, non spettandole alcun punteggio per le migliorie proposte, non si sarebbe comunque classificata al primo posto della graduatoria, giusta le considerazioni dianzi svolte); nonché, ex art. 122 c.p.a., la dichiarazione d’inefficacia del contratto, rep. n. 6/2014 (cfr. l’all. 18 della memoria di costituzione del Comune di Polla) –stipulato il 15.10.2014, tra il Comune e la stessa controinteressata– ed il subentro della ricorrente, seconda classificata, come da sua specifica richiesta, nella stessa aggiudicazione e, di conseguenza, nel contratto di cui sopra, stipulato ma (cfr. gli allegati 19 e 20 alla stessa memoria di costituzione del Comune), non ancora portato ad esecuzione, per il sopravvenire del decreto cautelare monocratico, con cui il Presidente della Sezione ha accolto l’istanza, in tal senso rivolta dalla ricorrente medesima (in giurisprudenza: “Il giudice amministrativo, una volta che abbia annullata l’aggiudicazione definitiva dell’appalto oggetto del contendere, può ex art. 122 c. p.a. disporre il subentro della ricorrente nel contratto, ma a condizione che il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovare la gara, la domanda di subentro sia stata proposta e lo stato di esecuzione del contratto e la tipologia stessa del contratto consentano tale subentro” –Consiglio di Stato – Sez. V, 25/06/2014, n. 3220).
La tutela, in forma specifica, dell’interesse pretensivo (all’aggiudicazione della gara e al subentro nel contratto), della ricorrente, in tal modo apprestata, dal Collegio, in suo favore (al decreto monocratico di cui sopra è, infatti, seguita l’ordinanza cautelare, di conferma degli effetti del medesimo, e, quindi, la pubblicazione, in data 04.12.2014, del dispositivo con cui la presente causa è stata decisa) determina, giusta l’orientamento costantemente seguito dalla Sezione, il rigetto della domanda di risarcimento dei danni, per equivalente monetario, dalla medesima ricorrente, presentata in via subordinata, né risulta che siano stati dedotti danni, ulteriori o diversi (cfr. anche, in giurisprudenza, in senso conforme, la decisione del TAR Lazio–Roma, Sez. II, del 19/10/2012, n. 8695, nonché la specifica disciplina, dettata dall’art. 124, comma 1, c.p.a.: “L’accoglimento della domanda di conseguire l’aggiudicazione e il contratto è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli 121, comma 1, e 122. Se il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato”).
Quanto alla richiesta di condanna del Comune di Polla al pagamento delle sanzioni pecuniarie, previste dall’art. 123 c.p.a., avanzata dal ricorrente, il Collegio ritiene che essa non vada pronunziata, posto che, ai sensi dell’art. 121, comma 4: “Nei casi in cui, nonostante le violazioni, il contratto sia considerato efficace o l’inefficacia sia temporalmente limitata si applicano le sanzioni alternative di cui all’articolo 123”; ma non è questo il caso, essendo stato il contratto, già stipulato, dichiarato inefficace; del resto, l’art. 123 c.p.a., nell’individuare le sanzioni alternative, da applicare alternativamente o cumulativamente, di cui alle lett. a) e b), ne restringe, espressamente, l’applicazione ai “casi di cui all’articolo 121, comma 4”; né pare che possa diversamente ritenersi, in base al comma 3 dello stesso art. 123 c.p.a., secondo cui: “Il giudice applica le sanzioni di cui al comma 1 anche qualora il contratto è stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio stabilito per la stipulazione del contratto, ovvero è stato stipulato senza rispettare la sospensione della stipulazione derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l’aggiudicazione definitiva, quando la violazione non abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e non abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento”, posto che il riferimento, in detta norma contenuto, alle “sanzioni di cui al comma 1”, pare debba ritenersi comprensivo anche della specifica limitazione, delle stesse sanzioni, ai soli “casi di cui all’articolo 121, comma 4”, in detto art. 123, comma 1, prevista.
In giurisprudenza, cfr, le massime seguenti, nelle quali l’applicazione delle sanzioni “de quibus“ viene sempre esplicitamente ristretta ai soli casi in cui il contratto sia, nonostante le violazioni, dichiarato efficace:
- “A seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione, non va dichiarata l’inefficacia del contratto stipulato dall’aggiudicataria nel caso in cui ricorrano esigenze imperative, incluse quelle imprescindibili di carattere tecnico o di altro tipo (art. 121, comma 2, c.p.a.), fra le quali devono ricomprendersi quelle connesse all’ipotesi in cui, come nella specie, il contratto sia stato da tempo eseguito e sia da tempo intervenuto il collaudo e l’utilizzo della fornitura da parte dell’Amministrazione. Tuttavia, non avendo l’Amministrazione rispettato il cosiddetto obbligo di stand still di cui all’art. 11, comma 10, d.lgs. n. 163 del 2006, va applicata –come previsto dall’art. 121, comma 4, c.p.a. ed in applicazione dei criteri di cui al successivo art. 123– nei confronti della amministrazione la sanzione alternativa di cui al medesimo art. 123” (TAR Sicilia–Catania, Sez. II, 11/11/2013, n. 2746);
- “La mancata applicazione dell’art. 121, comma 1, del Codice, in presenza della violazione del termine di cd. stand still, determina in ogni caso –ai sensi del successivo comma 4– l’applicazione delle sanzioni alternative di cui all’art. 123, come anche autonomamente confermato dal comma 3 del medesimo art. 123. In proposito ritiene il Collegio che le disposizioni richiamate introducano un automatismo che assume un’impronta sanzionatoria, come questo Tribunale ha già evidenziato nella propria precedente pronuncia in data 30.11.2011 n. 1673 (par. 10.1), non ritualmente impugnata: <L’applicazione delle predette sanzioni deve avvenire secondo quanto disposto dagli artt. 121, comma 4, e 123>. In base a questi ultimi quando, nonostante le violazioni, <il contratto sia considerato efficace> il giudice dispone (in via alternativa o cumulativa) il pagamento di una sanzione pecuniaria da versare al bilancio dello Stato di importo compreso tra lo 0,5 ed il 5 (%) del valore del contratto e/o la riduzione della durata del medesimo (da un minimo del 10 al massimo del 50 (%) della durata residua)” (TAR Lombardia–Brescia – Sez. II, 25/06/2013, n. 610) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 13.01.2015 n. 149 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In questa sede occorre accertare se per opere realizzate fuori dal centro abitato e dalle zone di espansione prima del 01.09.1967 (entrata in vigore della legge ponte) la presenza di un regolamento edilizio che imponesse un titolo edilizio possa essere idoneo a fondare oggi un giudizio di abusività e la conseguente applicazione delle relative sanzioni.
Preliminare appare delineare il quadro normativo in subiecta materia.
Tralasciando normative anteriori che pure contemplavano i regolamenti comunali senza, tuttavia, dettare un specifica disciplina occorre prendere le mosse dall’art. 3 r.d. 22.11.1937 n. 2105 (che ai sensi dell’art. 1 sostituiva le disposizioni di cui al rd 25.03.1935 n. 640) che statuiva “In tutti i comuni del regno nei quali non è prescritta l’osservanza delle norme contenute negli articoli 7 e successivi le amministrazioni comunali devono provvedere a che nei regolamenti edilizi di cui all’art. 3 del testo unico della legge comunale e provinciale vigente sia resa obbligatoria osservanza delle disposizioni contenute nei seguenti articoli 4, 5 e 6”.
Il successivo articolo 6 stabiliva che “coloro che intendono fare nuove costruzioni ovvero modificare od ampliare quelle esistenti debbono chiedere al podestà apposita autorizzazione, obbligandosi ad osservare le norme particola idei regolamenti di edilizia e d’igiene comunali”. Lo stesso articolo contemplava poi la possibilità di irrogare al demolizione in caso di costruzione in assenza di autorizzazione.
Dall’esame della normativa di cui sopra si evince come la potestà regolamentare trovasse il proprio fondamento nella legge, fosse prevista a tutela di interessi sostanziali e fosse altresì presidiata dalla sanzione della demolizione. Anzi la legge imponeva alle amministrazioni comunali il recepimento delle norme di cui sopra.
Successivamente l’art. 31, comma 1, l. 1150/1942 nel testo originario ha previsto che: “Chiunque intenda eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7, deve chiedere apposita licenza al podestà del comune”. La legge 1150/1942, inoltre, disciplinava all’art. 33 il contenuto dei regolamenti edilizi comunali prevedendo che “I comuni debbono con regolamento edilizio provvedere, in armonia, con le disposizioni contenute nella presente legge e nel Testo unico delle leggi sanitarie approvato con R.D. 27.07.1934, n. 1265, a dettare norme precipuamente sulle seguenti materie, tenendo, se ne sia il caso, distinte quelle riguardanti il nucleo edilizio esistente da quelle riguardanti la zona di ampliamento e il restante territorio comunale”.
La legge urbanistica stabiliva l’obbligo cogente di richiedere la licenza edilizia nel centro abitato e nelle zone di espansione e ciò senza la mediazione di regolamenti edilizi comunali mentre rimetteva ai regolamenti edilizi la valutazione in ordine alla necessità della licenza edilizia nella restante parte del territorio comunale. Pertanto ove le amministrazioni comunali avessero già provveduto ai sensi della normativa previgente i regolamenti emessi in ottemperanza delle disposizioni del rd. 22.11.1937 n. 2105 i relativi regolamenti venivano fatti salvi rientrando nella potestà discrezionale del Comune intervenire o meno su di essi. Del pari il Comune avrebbe potuto, nell’esercizio della propria discrezionalità, introdurre o meno l’obbligo delle licenza edilizia nelle zone diverse dal centro abitato e dalla zone di espansione.
La legge urbanistica, da un lato, superava il precedente sistema di autorizzazione e, al contempo, dall’altro lato, fondava il potere dei regolamenti edilizi comunali, legittimando altresì i regolamenti previgenti..
Ne conseguiva la legittimità dei regolamenti edilizi che avessero inteso imporre l’obbligo delle licenza edilizia a tutto il territorio comunale irrilevante essendo la circostanza che tali regolamenti fossero anteriori o successivi all’entrata in vigore del 22.11.1937 n. 2105 e della legge 1150/1942, atteso che il primo decreto obbligando i Comuni ad adottare i regolamenti non poteva che fare salvi i regolamenti già adottati (che fossero conformi alle sue disposizioni) e atteso altresì che la legge 1150/1942 rimettendo alla amministrazione comunale tali valutazioni, ne faceva salve le determinazioni precedentemente assunte. In altre parole nel momento in cui la legge attribuiva ai regolamenti la valutazione discrezionale in ordine alla necessità di licenza edilizia comunale al di fuori delle zone in cui la stessa era obbligatoria per legge, al contempo legittimava, ratificandoli, i regolamenti che tale scelta avessero già in precedenza compiuto.
Conseguiva a tale sistema l’obbligo di munirsi del titolo edilizio per tutte le costruzioni in qualunque zona fossero state edificate, ove tale obbligo fosse previsto dai regolamenti edilizi comunali e l’applicazione delle relative sanzioni per il caso di inosservanza.
Deve notarsi, come già in precedenza evidenziato, come in questo sistema i regolamenti edilizi comunali trovassero il fondamento nella legge, rispondessero ad esigenze di tutela non meramente formale ma sostanziale e fossero presidiati dalla sanzione della demolizione.
La giurisprudenza prevalente ha, pertanto, evidenziato l’assoggettamento alla sanzione della demolizione per le costruzioni realizzate in assenza di titolo edilizio anche se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di espansione pure il relativo obbligo fosse previsto dai regolamenti edilizi comunali.
La giurisprudenza contraria che pure esiste fonda il proprio assunto su una efficacia abrogatrice della l. 1150/1942 sulle previsioni dei regolamenti edilizi precedenti che ad avviso del Collegio non è riscontrabile alla luce delle disposizioni legislative precedentemente trascritte.
La conclusione sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria del resto è conforme a quanto previsto dall’ultimo comma dell’art. 31 l. 47/1985, che prevede: “Per le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto, ai sensi dell'art. 31, primo comma, della L. 17.08.1942, n. 1150, e dei regolamenti edilizi comunali, il rilascio della licenza di costruzione, i soggetti di cui ai commi primo e terzo del presente articolo conseguono la concessione in sanatoria previo pagamento, a titolo di oblazione, della somma determinata a norma dell'articolo 34 della presente legge”.
La norma nel prevedere la condonabilità degli abusi li individua con riferimento anche all’obbligo del titolo edilizio previsto dai regolamenti comunali.
Il ricorso è rivolto avverso un ordine di demolizione.
Il ricorso è infondato.
I primi due motivi devono essere esaminati congiuntamente e respinti.
Si sostiene, sulla scorta dell’indicazioni presenti sul verbale di sopralluogo secondo cui le opere sarebbero “di antica realizzazione” che gli stessi non necessiterebbero di titolo edilizio in quanto realizzati antecedentemente all’entrata in vigore della l. 1150/1942 in zone esterna al centro abitato e non ricompresa nelle zone d’espansione.
Sul punto deve rilevarsi come la prova in ordine all’anteriorità dei manufatti incomba sui ricorrenti e che gli stessi non riescano a datare la realizzazione degli stessi, onde la reiezione dei motivi.
Da altro punto di vista occorre rilevare come nel Comune di Genova fin dal 1929 esistesse un regolamento edilizio approvato con delibera della Giunta comunale 30.08.1929 n. 2065 che prevedeva l’obbligo di denuncia al Comune delle costruzioni che si intendessero eseguire nel Comune di Genova.
In questa sede occorre pertanto accertare se per opere realizzate fuori dal centro abitato e dalle zone di espansione prima del 01.09.1967 (entrata in vigore della legge ponte) la presenza di un regolamento edilizio che imponesse un titolo edilizio possa essere idoneo a fondare oggi un giudizio di abusività e la conseguente applicazione delle relative sanzioni.
Preliminare appare delineare il quadro normativo in subiecta materia.
Tralasciando normative anteriori che pure contemplavano i regolamenti comunali senza, tuttavia, dettare un specifica disciplina occorre prendere le mosse dall’art. 3 r.d. 22.11.1937 n. 2105 (che ai sensi dell’art. 1 sostituiva le disposizioni di cui al rd 25.03.1935 n. 640) che statuiva “In tutti i comuni del regno nei quali non è prescritta l’osservanza delle norme contenute negli articoli 7 e successivi le amministrazioni comunali devono provvedere a che nei regolamenti edilizi di cui all’art. 3 del testo unico della legge comunale e provinciale vigente sia resa obbligatoria osservanza delle disposizioni contenute nei seguenti articoli 4, 5 e 6”.
Il successivo articolo 6 stabiliva che “coloro che intendono fare nuove costruzioni ovvero modificare od ampliare quelle esistenti debbono chiedere al podestà apposita autorizzazione, obbligandosi ad osservare le norme particola idei regolamenti di edilizia e d’igiene comunali”. Lo stesso articolo contemplava poi la possibilità di irrogare al demolizione in caso di costruzione in assenza di autorizzazione.
Dall’esame della normativa di cui sopra si evince come la potestà regolamentare trovasse il proprio fondamento nella legge, fosse prevista a tutela di interessi sostanziali e fosse altresì presidiata dalla sanzione della demolizione. Anzi la legge imponeva alle amministrazioni comunali il recepimento delle norme di cui sopra.
Successivamente l’art. 31, comma 1, l. 1150/1942 nel testo originario ha previsto che: “Chiunque intenda eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7, deve chiedere apposita licenza al podestà del comune”. La legge 1150/1942, inoltre, disciplinava all’art. 33 il contenuto dei regolamenti edilizi comunali prevedendo che “I comuni debbono con regolamento edilizio provvedere, in armonia, con le disposizioni contenute nella presente legge e nel Testo unico delle leggi sanitarie approvato con R.D. 27.07.1934, n. 1265, a dettare norme precipuamente sulle seguenti materie, tenendo, se ne sia il caso, distinte quelle riguardanti il nucleo edilizio esistente da quelle riguardanti la zona di ampliamento e il restante territorio comunale”.
La legge urbanistica stabiliva l’obbligo cogente di richiedere la licenza edilizia nel centro abitato e nelle zone di espansione e ciò senza la mediazione di regolamenti edilizi comunali mentre rimetteva ai regolamenti edilizi la valutazione in ordine alla necessità della licenza edilizia nella restante parte del territorio comunale. Pertanto ove le amministrazioni comunali avessero già provveduto ai sensi della normativa previgente i regolamenti emessi in ottemperanza delle disposizioni del rd. 22.11.1937 n. 2105 i relativi regolamenti venivano fatti salvi rientrando nella potestà discrezionale del Comune intervenire o meno su di essi. Del pari il Comune avrebbe potuto, nell’esercizio della propria discrezionalità, introdurre o meno l’obbligo delle licenza edilizia nelle zone diverse dal centro abitato e dalla zone di espansione.
La legge urbanistica, da un lato, superava il precedente sistema di autorizzazione e, al contempo, dall’altro lato, fondava il potere dei regolamenti edilizi comunali, legittimando altresì i regolamenti previgenti..
Ne conseguiva la legittimità dei regolamenti edilizi che avessero inteso imporre l’obbligo delle licenza edilizia a tutto il territorio comunale irrilevante essendo la circostanza che tali regolamenti fossero anteriori o successivi all’entrata in vigore del 22.11.1937 n. 2105 e della legge 1150/1942, atteso che il primo decreto obbligando i Comuni ad adottare i regolamenti non poteva che fare salvi i regolamenti già adottati (che fossero conformi alle sue disposizioni) e atteso altresì che la legge 1150/1942 rimettendo alla amministrazione comunale tali valutazioni, ne faceva salve le determinazioni precedentemente assunte. In altre parole nel momento in cui la legge attribuiva ai regolamenti la valutazione discrezionale in ordine alla necessità di licenza edilizia comunale al di fuori delle zone in cui la stessa era obbligatoria per legge, al contempo legittimava, ratificandoli, i regolamenti che tale scelta avessero già in precedenza compiuto.
Conseguiva a tale sistema l’obbligo di munirsi del titolo edilizio per tutte le costruzioni in qualunque zona fossero state edificate, ove tale obbligo fosse previsto dai regolamenti edilizi comunali e l’applicazione delle relative sanzioni per il caso di inosservanza.
Deve notarsi, come già in precedenza evidenziato, come in questo sistema i regolamenti edilizi comunali trovassero il fondamento nella legge, rispondessero ad esigenze di tutela non meramente formale ma sostanziale e fossero presidiati dalla sanzione della demolizione.
La giurisprudenza prevalente ha, pertanto, evidenziato l’assoggettamento alla sanzione della demolizione per le costruzioni realizzate in assenza di titolo edilizio anche se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di espansione pure il relativo obbligo fosse previsto dai regolamenti edilizi comunali (CS 5141/2008, Cs 287/1980, TAR Marche 2011 n. 634, TAR Emilia Romagna, Parma 2010 n. 5). La giurisprudenza contraria che pure esiste (TAR Friuli Venezia Giulia 553/2014) fonda il proprio assunto su una efficacia abrogatrice della l. 1150/1942 sulle previsioni dei regolamenti edilizi precedenti che ad avviso del Collegio non è riscontrabile alla luce delle disposizioni legislative precedentemente trascritte.
La conclusione sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria del resto è conforme a quanto previsto dall’ultimo comma dell’art. 31 l. 47/1985, che prevede: “Per le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto, ai sensi dell'art. 31, primo comma, della L. 17.08.1942, n. 1150, e dei regolamenti edilizi comunali, il rilascio della licenza di costruzione, i soggetti di cui ai commi primo e terzo del presente articolo conseguono la concessione in sanatoria previo pagamento, a titolo di oblazione, della somma determinata a norma dell'articolo 34 della presente legge”.
La norma nel prevedere la condonabilità degli abusi li individua con riferimento anche all’obbligo del titolo edilizio previsto dai regolamenti comunali.
Ne consegue l’abusività delle opere oggetto del provvedimento impugnato.
Né sul punto assume rilevanza la successione di regimi sanzionatori nel tempo. E ciò per due ragioni. In primo luogo la demolizione era già prevista come sanzione dal regolamento edilizio, in secondo luogo in quanto stante la permanenza dell’abuso lo stesso deve ritenersi assoggettato volta a volta alle successive discipline sanzionatorie per lo stesso previste.
Deve, pertanto, farsi riferimento al complesso normativo previsto dal d.p.r. 380/2001 e dalla l.r. 16/2008.
Ne consegue l’infondatezza dei primi due motivi atteso che i ricorrenti non dimostrano l’anteriorità delle opere al 1929 (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.12.2014 n. 1975 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha evidenziato che il parere della commissione locale per il paesaggio si rende necessario tutte le volte in cui venga in questione una valutazione di natura “discrezionale” circa la compatibilità paesaggistica di un intervento (ad. es. con riguardo ai materiali impiegati) mentre può essere omesso (in ossequio al divieto di inutile aggravamento del procedimento amministrativo ex art. 1, comma 2, L. n. 241/1990) tutte le volte in cui la compatibilità paesaggistica debba essere negata per profili strettamente edilizi e sulla base di un’applicazione “vincolata” della disposizione (per esempio, per interventi eccedenti la manutenzione, che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi, ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati).
Ciò non implica che il Comune non possa legittimamente consultare tale organo tecnico anche sulle questioni più specificamente attinenti alla conformità urbanistica delle opere da sanare con il P.R.G. decidendo poi di farne proprie le valutazioni (come poteva avvenire nel caso di specie se la Commissione avesse ben motivato il proprio dissenso).
Ed invero, sia il P.R.G. sia il P.T.P. sono strumenti finalizzati alla valorizzazione ed al corretto uso del territorio. In particolare, come già osservato dalla giurisprudenza il potere di pianificazione urbanistica che si esprime con l’adozione del P.R.G. non è funzionale solo all'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti, tra i quali indiscutibilmente rientra quello della tutela del paesaggio in attuazione dell’art. 9 della Costituzione (del resto lo stesso art. 145, comma 4, del codice dei beni culturali –d.lgl. n. 42/2004– impone ai comuni e agli altri enti gestori delle aree naturali protette di conformare, entro un certo termine e determinate procedure, gli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani paesaggistici).

Ciò nondimeno, deve ritenersi infondata la censura di incompetenza formulata dal ricorrente.
Più nello specifico, parte ricorrente lamenta che la Commissione comunale per il paesaggio avrebbe dovuto limitarsi a valutare gli aspetti paesaggistici dell’intervento (con riguardo quindi alle norme del P.T.P.) senza sconfinare in un giudizio di conformità urbanistica rispetto al P.R.G.
In proposito, la giurisprudenza ha evidenziato che il parere della commissione locale per il paesaggio si rende necessario tutte le volte in cui venga in questione una valutazione di natura “discrezionale” circa la compatibilità paesaggistica di un intervento (ad. es. con riguardo ai materiali impiegati) mentre può essere omesso (in ossequio al divieto di inutile aggravamento del procedimento amministrativo ex art. 1, comma 2, L. n. 241/1990) tutte le volte in cui la compatibilità paesaggistica debba essere negata per profili strettamente edilizi e sulla base di un’applicazione “vincolata” della disposizione (per esempio, per interventi eccedenti la manutenzione, che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi, ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati) (cfr. TAR Liguria, Genova, sez. I, 26.02.2014, n. 360).
Ciò non implica che il Comune non possa legittimamente consultare tale organo tecnico anche sulle questioni più specificamente attinenti alla conformità urbanistica delle opere da sanare con il P.R.G. decidendo poi di farne proprie le valutazioni (come poteva avvenire nel caso di specie se la Commissione avesse ben motivato il proprio dissenso).
Ed invero, sia il P.R.G. sia il P.T.P. sono strumenti finalizzati alla valorizzazione ed al corretto uso del territorio. In particolare, come già osservato dalla giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 08.07.2013, n. 3606) il potere di pianificazione urbanistica che si esprime con l’adozione del P.R.G. non è funzionale solo all'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio in considerazione delle diverse tipologie di edificazione distinte per finalità (civile abitazione, uffici pubblici, opifici industriali e artigianali, etc.), ma esso è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti, tra i quali indiscutibilmente rientra quello della tutela del paesaggio in attuazione dell’art. 9 della Costituzione (del resto lo stesso art. 145, comma 4, del codice dei beni culturali –d.lgl. n. 42/2004– impone ai comuni e agli altri enti gestori delle aree naturali protette di conformare, entro un certo termine e determinate procedure, gli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale alle previsioni dei piani paesaggistici).
Per finire sul punto, ben avrebbe potuto la Commissione per il paesaggio rinvenire nelle disposizioni del P.R.G. ragioni ostative alla concessione del titolo in sanatoria come pure ritenere per altre ragioni (con riferimento alle disposizioni del P.T.P.) l’intervento incompatibile con il paesaggio.
Nella fattispecie, ciò non è avvenuto e risulta carente il giudizio negativo alla sanatoria che si limita nella parte motiva dell’atto a riportare le norme del P.T.P. e del P.R.G. per la zona agricola (che come detto consentono una vasta gamma di interventi) senza indicare in quale ipotesi specifica l’opera in questione ricada e/o senza evidenziare altre ragioni di incompatibilità della stessa con il paesaggio.
In conclusione il ricorso deve essere accolto per difetto di motivazione (che riveste carattere assorbente) e, conseguentemente, il provvedimento impugnato merita di essere annullato, salve le ulteriori determinazioni dell’amministrazione (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 05.11.2014 n. 5661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 36 del t.u. edilizia ammette all’accertamento di conformità le opere “eseguite” nel senso di “realizzate”, venendo dunque in rilievo l’opera nello stato di fatto in cui si trova e non in quello ipotetico che potrebbe verificarsi a seguito dell’effettiva realizzazione degli interventi indicati nell’istanza di sanatoria o in atti successivi.
In altre parole o la conformità sussiste al momento della presentazione dell’istanza oppure non sussiste, con conseguente carenza dei presupposti di carattere tassativo e stretta interpretazione per concederla, non potendo configurarsi nemmeno in astratto una sanatoria -anche se formale- con prescrizioni ovvero di tipo condizionato all’esecuzione di opere, venendo meno lo stesso requisito della conformità con riferimento alla disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della presentazione della domanda.
Deve pertanto escludersi la possibilità -ai sensi degli artt. 17 della legge regionale Umbria n. 21/2004 e 36 del t.u. edilizia- di una sanatoria formale con prescrizioni ovvero condizionata alla realizzazione di future opere poiché “ontologicamente” in contrasto con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, di stretta interpretazione, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la integrale conformità alla disciplina urbanistica.

3.5. A diverse conclusioni non può giungersi dando rilievo, come vorrebbe la ricorrente, all’impegno manifestato sia nella prima che nella seconda istanza di sanatoria ad effettuare futuri interventi di adeguamento, consistenti nella riconduzione del piano interrato nei limiti assentiti, mostrando adesione alla tesi pur sostenuta da parte della giurisprudenza (TAR Liguria sez. I, 13.06.2006, n. 542) della ammissibilità di un titolo abilitativo a sanatoria con prescrizioni.
Infatti, sia l’art. 17 della legge regionale Umbria n. 21/2004 che l’art. 36 del t.u. edilizia ammettono all’accertamento di conformità le opere “eseguite” nel senso di “realizzate”, venendo dunque in rilievo l’opera nello stato di fatto in cui si trova e non in quello ipotetico che potrebbe verificarsi a seguito dell’effettiva realizzazione degli interventi indicati nell’istanza di sanatoria o in atti successivi.
In altre parole o la conformità sussiste al momento della presentazione dell’istanza oppure non sussiste, con conseguente carenza dei presupposti di carattere tassativo e stretta interpretazione (TAR Toscana sez. I, 27.11.2006, n. 6040) per concederla, non potendo configurarsi nemmeno in astratto una sanatoria -anche se formale- con prescrizioni ovvero di tipo condizionato all’esecuzione di opere, venendo meno lo stesso requisito della conformità con riferimento alla disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento della presentazione della domanda (C.G.A.S. 15.10.2009, n. 941; id. 29.02.2012, n. 242; Consiglio di Stato sez. V, 23.11.2006, n. 6862; TAR Campania Salerno sez. II, 02.05.2013, n. 1034; Cassazione penale sez. III, 05.12.2007 n. 45241).
3.6. Deve pertanto escludersi la possibilità -ai sensi degli artt. 17 della legge regionale Umbria n. 21/2004 e 36 del t.u. edilizia- di una sanatoria formale con prescrizioni ovvero condizionata alla realizzazione di future opere poiché “ontologicamente” in contrasto con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, di stretta interpretazione, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la integrale conformità alla disciplina urbanistica.
3.7. Anche pertanto a voler ammettersi il discusso istituto della “sanatoria giurisprudenziale” invocato da parte ricorrente -peraltro recentemente escluso dalla più recente giurisprudenza (ex multis TAR Toscana sez. III, 27.03.2013, n. 497; Consiglio di Stato sez. V, 06.07.2012, n. 3961)- sarebbe ugualmente da escludersi nella fattispecie la sussistenza dei relativi presupposti, non risultando l’intervento abusivo neppure conforme alla disciplina urbanistico edilizia vigente al momento della presentazione della domanda.
4. Tanto premesso, il motivo della non assentibilità della richiesta sanatoria per la presenza di nuovi volumi risulta del tutto legittimo e pienamente ostativo al conseguimento dell’accertamento di conformità, sia quanto al profilo paesaggistico che edilizio, con conseguente improcedibilità per carenza di interesse delle ulteriori censure dedotte, dal momento che per giurisprudenza del tutto consolidata, in caso di provvedimento basato su una motivazione plurima, accertata la legittimità anche solo di uno dei motivi posti a fondamento del medesimo, è superfluo l'esame della fondatezza delle censure dedotte dai destinatari dell'atto, avverso gli ulteriori motivi addotti a supporto del provvedimento impugnato, poiché esso non può essere annullato qualora anche uno solo dei motivi posti a suo fondamento fornisca autonomamente la legittima e congrua giustificazione della determinazione adottata (ex multis TAR Lombardia Milano sez. IV, 12.11.2013, n. 2511; TAR Toscana sez. II, 13.10.2010, n. 6457; Consiglio di Stato sez. V, 10.03.2009, n. 1383; TAR Friuli Venezia Giulia, 11.02.2010, n. 101) (TAR Umbria, sentenza 26.06.2014 n. 356 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 03.04.2015

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Ancora in materia di compatibilità paesaggistica ex art. 167 D.Lgs. n. 42/2004...

EDILIZIA PRIVATA: Non è sanabile, ex art. 167 dlgs. 42/2004, l'abusiva sopraelevazione della copertura centrale di 43 cm., calcolato dal piano di calpestio del piano terra all’intradosso della gronda, e la sopraelevazione del piano terra di appena 24 cm., calcolato dal piano di calpestio all’intradosso del primo piano.
Nella specie parte ricorrente ha realizzato un aumento di volumetria rispetto a quanto assentito con il primo permesso di costruire rilasciato, né detto aumento di volumetria è neutralizzabile, in termini giuridici, con la realizzazione di <strati di finitura>, per le ragioni in precedenza esposte.
Ciò comporta la applicabilità della disciplina di cui agli artt. 146, comma 4, e 167, comma 4, del d.lgs. 41 del 2004, che esclude il rilascio di autorizzazione paesaggistica in sanatoria ove vi sia stata “creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Non appare convincente l’assunto di parte ricorrente circa la non rilevanza e trascurabilità degli incrementi realizzati per la loro asserita modestia (“non si può negare, infatti, che la sopraelevazione della copertura centrale di 43 cm., calcolato dal piano di calpestio del piano terra all’intradosso della gronda, e la sopraelevazione del piano terra di appena 24 cm., calcolato dal piano di calpestio all’intradosso del primo piano non possono essere considerate rilevanti se correttamente valutate in rapporto alla realizzazione di un edificio come quello in questione, costituito da quattro unità abitative collocate su due piani, avente una superficie di oltre 500 mq e dalla volumetria di oltre 1.000 mc.”), poiché la normativa richiamata esclude tout court la sanabilità dell’abuso paesaggistico in ipotesi di incremento volumetrico.

23 – Con il terzo mezzo di cui al primo atto di motivi aggiunti parte ricorrente censura la seconda motivazione sulla cui base l’Amministrazione ha respinto le istanze di sanatoria proposte da parte ricorrente medesima e cioè il rilievo secondo cui l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria non sarebbe concedibile stante l’aumento di volume, sul rilievo che essa è stata in realtà già rilasciata come da comunicazione comunale del 27.07.2007 (doc. 7 di parte ricorrente), non annullata; in ogni caso poi le opere di finitura determinerebbero l’annullamento di superfici e volumetrie esistenti, riconducendo le opere contestate agli “abusi minori” di cui all’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42 del 2004.
La censura è infondata.
Nel diniego di sanatoria gravato il Comune di Castellina in Chianti evidenzia che il fabbricato in oggetto è posto in area sottoposta a vincolo paesaggistico, con il risultato che l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria non è assentibile, stante l’aumento di superficie e volume realizzato nella specie. Si tratta di motivazione corretta e conforme a legge.
Come già evidenziato, nella specie parte ricorrente ha realizzato un aumento di volumetria rispetto a quanto assentito con il primo permesso di costruire rilasciato, né detto aumento di volumetria è neutralizzabile, in termini giuridici, con la realizzazione di <strati di finitura>, per le ragioni in precedenza esposte. Ciò comporta la applicabilità della disciplina di cui agli artt. 146, comma 4, e 167, comma 4, del d.lgs. 41 del 2004, che esclude il rilascio di autorizzazione paesaggistica in sanatoria ove vi sia stata “creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Non appare convincente l’assunto di parte ricorrente circa la non rilevanza e trascurabilità degli incrementi realizzati per la loro asserita modestia (“non si può negare, infatti, che la sopraelevazione della copertura centrale di 43 cm., calcolato dal piano di calpestio del piano terra all’intradosso della gronda, e la sopraelevazione del piano terra di appena 24 cm., calcolato dal piano di calpestio all’intradosso del primo piano non possono essere considerate rilevanti se correttamente valutate in rapporto alla realizzazione di un edificio come quello in questione, costituito da quattro unità abitative collocate su due piani, avente una superficie di oltre 500 mq e dalla volumetria di oltre 1.000 mc.”), poiché la normativa richiamata esclude tout court la sanabilità dell’abuso paesaggistico in ipotesi di incremento volumetrico.
Né parte ricorrente può invocare l’autorizzazione paesaggistica assentita (di cui alla comunicazione del 27.07.2007, doc. 7 di parte ricorrente), essendo essa riferita alla prima domanda di sanatoria del 18.05.2007, prima ciò che emergessero gli incrementi volumetrici con la seconda domanda di sanatoria
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 30.03.2015 n. 508 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sono ambientalmente sanabili le opere di riporto di materiale stabilizzante per uno spessore medio di 50 cm utilizzato per la predisposizione di un’area di mq 4000 a parcheggio pertinenziale al servizio dell’immobile destinato a sede operativa dell’attività sociale.
L’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio.
In proposito va ricordato che, ai sensi dell’art. 146, comma 4, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, “fuori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”.
A sua volta, l’art. 167 consente l’accertamento postumo “a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380” .
Per quanto qui rileva, quindi, gli unici interventi dei quali è possibile l’accertamento postumo di conformità paesaggistica, a sua volta presupposto del rilascio della sanatoria edilizia, sono quelli che non hanno determinato creazione di superfici utili o di volumi, e quelli configurabili in termini di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Ascrivere, dunque, l’intervento di cui trattasi alla categoria delle opere di manutenzione vale soltanto ad ammettere che per lo stesso sia astrattamente possibile l’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica, ma non certo a rendere illegittimo il provvedimento che neghi la certificazione per contrasto dell’intervento manutentivo con gli elementi di caratterizzazione paesistica dei luoghi.
Nella fattispecie in esame, il provvedimento ha ampiamente motivato le ragioni che rendono le opere realizzate incompatibili rispetto ai connotati paesaggistici del luogo, si da costituire un’effettiva turbativa ambientale. Ha precisato, al riguardo, che l’intervento ricade in zona destinata dal PTC alle attività agricole e forestali, nel cui ambito sono ammesse unicamente le opere realizzate in funzione della conduzione del fondo e per esigenze produttive o abitative dell’imprenditore agricolo, con conseguente incompatibilità degli interventi finalizzati alla trasformazione dell’area agricola in zona di pertinenza di un insediamento produttivo.

... per l’annullamento del provvedimento n. 256/6163/08 recante diniego certificazione di compatibilità paesaggistica e per il risarcimento dei danni patiti e patiendi.
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Alla società ricorrente veniva notificata l’ordinanza n. 112007 del 14.04.2008 con cui il Comune di Sesto Calende ingiungeva il ripristino dello stato dei luoghi in relazione alle opere di riporto di materiale stabilizzante per uno spessore medio di 50 cm utilizzato per la predisposizione di un’area di mq 4000 a parcheggio pertinenziale al servizio dell’immobile destinato a sede operativa dell’attività sociale.
Per tale abuso, la società presentava istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001 e contestuale domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica.
Su quest’ultima domanda il Consorzio Parco del Ticino, su conforme parere negativo reso dalla Soprintendenza per i beni architettonici e il paesaggio di Milano, certificava la non compatibilità paesaggistica delle opere eseguite e disponeva l’applicazione delle sanzioni ex art. 167 D.Lgs. n. 42/2004.
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Il motivo è infondato.
L’autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio.
In proposito va ricordato che, ai sensi dell’art. 146, comma 4, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, “fuori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”.
A sua volta, l’art. 167 consente l’accertamento postumo “a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380
” .
Per quanto qui rileva, quindi, gli unici interventi dei quali è possibile l’accertamento postumo di conformità paesaggistica, a sua volta presupposto del rilascio della sanatoria edilizia, sono quelli che non hanno determinato creazione di superfici utili o di volumi, e quelli configurabili in termini di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Ascrivere, dunque, l’intervento di cui trattasi alla categoria delle opere di manutenzione vale soltanto ad ammettere che per lo stesso sia astrattamente possibile l’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica, ma non certo a rendere illegittimo il provvedimento che neghi la certificazione per contrasto dell’intervento manutentivo con gli elementi di caratterizzazione paesistica dei luoghi.
Nella fattispecie in esame, il provvedimento ha ampiamente motivato le ragioni che rendono le opere realizzate incompatibili rispetto ai connotati paesaggistici del luogo, si da costituire un’effettiva turbativa ambientale. Ha precisato, al riguardo, che l’intervento ricade in zona destinata dal PTC alle attività agricole e forestali, nel cui ambito sono ammesse unicamente le opere realizzate in funzione della conduzione del fondo e per esigenze produttive o abitative dell’imprenditore agricolo, con conseguente incompatibilità degli interventi finalizzati alla trasformazione dell’area agricola in zona di pertinenza di un insediamento produttivo.
La ricorrente non ha articolato censure specifiche idonee a sovvertire la valutazione posta a fondamento del provvedimento.
Ne consegue l’infondatezza del ricorso, che deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 26.03.2015 n. 841 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto concerne la tettoia (che ha non trascurabile consistenza dimensionale e altera in modo evidente la sagoma dell’edificio), non è rilevante la sua asserita qualificazione come “volume tecnico”, poiché il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio dall’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico e altro tipo di volume.
Non è dubitabile, del resto, che la tettoia in esame, proprio in quanto destinata a proteggere un’apparecchiatura fissa dell’abitazione, non costituisca semplice elemento ornamentale, ma ne abbia concretamente ampliato gli spazi, determinando perlomeno l’aumento della superficie utile del fabbricato.
Ancor più evidente appare l’impossibilità di ritenere sanabile il secondo intervento, poiché la chiusura del preesistente porticato, ossia di uno spazio aperto, per realizzarvi un nuovo locale w.c., ha comportato un sicuro, seppur contenuto, ampliamento volumetrico del fabbricato.
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La ricorrente contesta il parere della Soprintendenza sotto il profilo dell’adeguatezza della motivazione: esso si risolverebbe, infatti, nell’utilizzo di una formula stereotipata, neppure idonea a chiarire se nella fattispecie siano state create nuove superfici utili oppure nuovi volumi, e non vi sono esplicitate le ragioni che hanno imposto valutazioni antitetiche a quelle già rese dalla Commissione locale del paesaggio.
Per quanto concerne il primo profilo, si osserva che l’obiettiva natura vincolata dell’atto in contestazione consentiva di prescindere dall’onere di una motivazione diffusa, essendo invece sufficiente, ai fini dell’esauriente esternazione delle ragioni che lo giustificano, l’indicazione dell’insussistenza dei presupposti previsti dalla legge per l’accertamento di compatibilità paesaggistica.
In secondo luogo, la mancata valutazione del parere favorevole reso dalla Commissione locale del paesaggio, normalmente doverosa, appare ininfluente nel caso di specie in quanto, in difetto dei presupposti previsti dall’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, non si sarebbe potuto determinare, in ogni caso, un diverso esito procedimentale.
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Viene denunciata la violazione dei termini per la formulazione del parere della Soprintendenza e per la conclusione del procedimento (rispettivamente di 90 e di 180 giorni) che l’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004, definisce espressamente “perentori”.
L’incontestato superamento dei termini predetti non ha provocato, tuttavia, l’illegittimità degli atti tardivamente adottati in quanto, come precisato dal prevalente e condivisibile orientamento giurisprudenziale, tale circostanza non determina la consumazione dei poteri esercitati dall’amministrazione né consente che l’atto conclusivo del procedimento si discosti dal parere vincolante della Soprintendenza, sia pure emesso dopo il superamento del termine finale.

... per l'annullamento:
- della nota prot. n. 24311 del 25/07/2013, notificata il 29/07/2013, avente ad oggetto “Diniego definitivo. Intervento di sanatoria per chiusura porticato fabbricato in Via del Lampin”;
- della nota prot. n. 3337/257204 del 26/08/2013, notificata il 03/09/2013, avente ad oggetto “Provvedimento definitivo ai sensi del comma 1 dell’art. 2 della legge 241/1990. Diniego. Intervento in sanatoria per chiusura portico in fabbricato in Via del Lampin”;
- della nota della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Liguria prot. n. 33767 del 12/11/2012, resa nell’ambito del medesimo procedimento di accertamento di compatibilità paesaggistica;
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4.2) La seconda censura di legittimità concerne la consistenza e la qualificazione degli abusi realizzati nella fattispecie.
Afferma la ricorrente che la tettoia realizzata sul prospetto principale dell’edificio, assolvendo la funzione di offrire riparo ad un accessorio tecnico dell’abitazione (il condizionatore), costituirebbe un semplice volume tecnico, come tale privo di rilevanza urbanistica, vale a dire non idoneo a determinare nuovi volumi in senso proprio o alcuna superficie abitabile
Anche l’intervento volto alla realizzazione di un nuovo servizio igienico non avrebbe determinato alcun volume o superficie utile, poiché il portico preesistente, non essendo aperto su tre lati, costituiva già volume prima di essere tamponato.
Neppure tali rilievi possono essere condivisi.
Per quanto concerne la tettoia (che, come si evince dalla documentazione fotografica in atti, ha non trascurabile consistenza dimensionale e altera in modo evidente la sagoma dell’edificio), non è rilevante la sua asserita qualificazione come “volume tecnico”, poiché il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio dall’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico e altro tipo di volume (Cons. Stato, sez. VI, 05.08.2013, n. 4079 e 20.06.2012, n. 3578).
Non è dubitabile, del resto, che la tettoia in esame, proprio in quanto destinata a proteggere un’apparecchiatura fissa dell’abitazione, non costituisca semplice elemento ornamentale, ma ne abbia concretamente ampliato gli spazi, determinando perlomeno l’aumento della superficie utile del fabbricato.
Ancor più evidente appare l’impossibilità di ritenere sanabile il secondo intervento, poiché la chiusura del preesistente porticato, ossia di uno spazio aperto, per realizzarvi un nuovo locale w.c., ha comportato un sicuro, seppur contenuto, ampliamento volumetrico del fabbricato.
4.3) Infine, la ricorrente contesta il parere della Soprintendenza sotto il profilo dell’adeguatezza della motivazione: esso si risolverebbe, infatti, nell’utilizzo di una formula stereotipata, neppure idonea a chiarire se nella fattispecie siano state create nuove superfici utili oppure nuovi volumi, e non vi sono esplicitate le ragioni che hanno imposto valutazioni antitetiche a quelle già rese dalla Commissione locale del paesaggio.
Per quanto concerne il primo profilo, si osserva che l’obiettiva natura vincolata dell’atto in contestazione consentiva di prescindere dall’onere di una motivazione diffusa, essendo invece sufficiente, ai fini dell’esauriente esternazione delle ragioni che lo giustificano, l’indicazione dell’insussistenza dei presupposti previsti dalla legge per l’accertamento di compatibilità paesaggistica.
In secondo luogo, la mancata valutazione del parere favorevole reso dalla Commissione locale del paesaggio, normalmente doverosa (cfr. TAR Liguria, n. 1014/2014 cit.), appare ininfluente nel caso di specie in quanto, in difetto dei presupposti previsti dall’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, non si sarebbe potuto determinare, in ogni caso, un diverso esito procedimentale.
4.4) Anche il terzo motivo di ricorso, per tali ragioni, è infondato e deve essere respinto.
5) Con il quarto motivo, viene denunciata la violazione dei termini per la formulazione del parere della Soprintendenza e per la conclusione del procedimento (rispettivamente di 90 e di 180 giorni) che l’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004, definisce espressamente “perentori”.
L’incontestato superamento dei termini predetti non ha provocato, tuttavia, l’illegittimità degli atti tardivamente adottati in quanto, come precisato dal prevalente e condivisibile orientamento giurisprudenziale, tale circostanza non determina la consumazione dei poteri esercitati dall’amministrazione né consente che l’atto conclusivo del procedimento si discosti dal parere vincolante della Soprintendenza, sia pure emesso dopo il superamento del termine finale (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 18.09.2013, n. 4656).
6) La firma congiunta apposta al parere della Soprintendenza, da parte del responsabile del procedimento e del Soprintendente, inficerebbe l’atto in questione, non essendo possibile individuare il soggetto al quale deve essere ricondotta la volontà che vi è stata espressa.
La censura, formulata con il quinto motivo di ricorso, appare frutto di formalismo e non vale a rivelare l’esistenza del dedotto vizio di incompetenza, poiché la paternità dell'atto è chiaramente attribuibile al Soprintendente, che lo ha sottoscritto in qualità di responsabile del provvedimento, mentre il responsabile del procedimento che lo ha firmato congiuntamente è un soggetto che opera nello stesso ufficio amministrativo e non è privo di competenza specifica in relazione all’oggetto (cfr. TAR Liguria, sez. I, 09.01.2012, n. 18) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 26.03.2015 n. 345 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di autorizzazione paesaggistica postuma, il fondamento delle menzionate norme è di consentire, in deroga al già indicato divieto generale, l'autorizzazione paesaggistica postuma esclusivamente per i c.d. abusi minori, ossia quelli che non producano aumento di “superfici utili”, “volumi” ovvero “aumento di quelli legittimamente realizzati”.
La previsione di cui all'art. 167, comma 4, dlgs 42/2004 assume una indubbio carattere restrittivo e di rigore sanzionatorio. Tale carattere, ancorché vada a scapito della facoltà edificatorie connesse al diritto di proprietà, viene decisamente in ossequio all’esigenza di elevare e potenziare il livello effettivo di salvaguardia del bene paesaggio, assistito da protezione di rango costituzionale.
In altri termini, il legislatore italiano ha intenzionalmente differenziato la disciplina in materia di accertamento postumo di conformità degli interventi effettuati in assenza o in difformità dal titolo, a seconda che il bene da tutelare sia l’ordinato assetto del territorio per i profili urbanistici ed edilizi ovvero per i profili attinenti la tutela del paesaggio. Questa differenziazione
Ed invero, la conformità postuma è sempre possibile nel primo caso, anche qualora sia presente un incremento dei volumi o delle superfici (art. 36 d.p.r. 380/2001); risulta al contrario inammissibile nel secondo caso, qualora vi sia da presidiare il paesaggio.
Questa scelta del legislatore non appare censurabile per contrasto ai principi costituzionali della ragionevolezza e della parità di trattamento nonché per quelli dell’ordinamento comunitario, perché si muove su un piano di coerenza con l’accentuato profilo costituzionale dell’interesse pubblico alla preservazione del paesaggio. La necessità di difendere al massimo livello il paesaggio impone una soluzione legislativa che, nei confronti degli interventi edilizi sine titulo, abbia carattere fortemente dissuasivo se non punitivo-sanzionatorio.
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Il diverso approccio del legislatore, più pragmatico e disponibile nel caso di attività edilizia senza titolo od in difformità da questo, rispetto ai casi di attività edilizia prive di nulla osta paesaggistico trova, peraltro, una chiara spiegazione anche sotto il profilo logico/giuridico.
Ed invero, per quanto riguarda l’attività edilizia senza titolo o in difformità da questo, l’amministrazione locale non ha che da svolgere un controllo di conformità tra la singola costruzione abusiva e le previsioni contenute nei piani di programmazione e nella regolamentazione edilizia comunale (regolamento edilizio e norme tecniche di attuazione).
Simile riscontro postumo è invece inimmaginabile in tema di paesaggio, per il quale l’amministrazione competente deve svolgere un giudizio che non si riduce ad un riscontro deduttivo di conformità ma implica una valutazione di merito, sugli aspetti anche estetici, valutazione che potrebbe essere irrimediabilmente compromessa nel momento in cui il nuovo volume è già venuto ad esistenza.

5.3.- Le censure non sono fondate.
Va chiarito in via preliminare che la circostanza per la quale l’intervento è stato effettuato su area sita in zona esterna al Piano Territoriale Paesistico dei Comuni vesuviani, circostanza peraltro confermata dalla stessa Soprintendenza, è, nel caso specifico priva di concreta rilevanza, assumendo rilievo comunque la presenza del vincolo paesaggistico.
Con l’intervento edilizio oggetto di contestazione, parte ricorrente ha realizzato diversi corpi di fabbrica ad unico livello, con utilizzo di pannelli coibentati prefabbricati. Non può negarsi, quindi, che l’intervento abbia prodotto aumenti di superficie e di volumi. Ciò rende di per sé inammissibile l’autorizzazione paesaggistica postuma.
5.4.- Sul punto è chiaro l’art. 167, comma 4, d.lgs. 42/2004 per il quale: “L'autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica, secondo le procedure di cui al comma 5, nei seguenti casi: a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
6.- Il Collegio, infine, considera infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale, sollevata in via subordinata dalla ricorrente, degli artt. 146, comma 12 e 167, commi 4 e 5 del d.lgs. 42/2004 per violazione degli artt. 3, 9, 32, 41, 42 e 97 Cost.
6.1.- In tema di autorizzazione paesaggistica postuma, il fondamento delle menzionate norme è di consentire, in deroga al già indicato divieto generale, l'autorizzazione paesaggistica postuma esclusivamente per i c.d. abusi minori, ossia quelli che non producano aumento di “superfici utili”, “volumi” ovvero “aumento di quelli legittimamente realizzati”.
La previsione di cui al menzionato art. 167, comma 4, assume una indubbio carattere restrittivo e di rigore sanzionatorio. Tale carattere, ancorché vada a scapito della facoltà edificatorie connesse al diritto di proprietà, viene decisamente in ossequio all’esigenza di elevare e potenziare il livello effettivo di salvaguardia del bene paesaggio, assistito da protezione di rango costituzionale.
In altri termini, il legislatore italiano ha intenzionalmente differenziato la disciplina in materia di accertamento postumo di conformità degli interventi effettuati in assenza o in difformità dal titolo, a seconda che il bene da tutelare sia l’ordinato assetto del territorio per i profili urbanistici ed edilizi ovvero per i profili attinenti la tutela del paesaggio. Questa differenziazione
Ed invero, la conformità postuma è sempre possibile nel primo caso, anche qualora sia presente un incremento dei volumi o delle superfici (art. 36 d.p.r. 380/2001); risulta al contrario inammissibile nel secondo caso, qualora vi sia da presidiare il paesaggio.
Questa scelta del legislatore non appare censurabile per contrasto ai principi costituzionali della ragionevolezza e della parità di trattamento nonché per quelli dell’ordinamento comunitario, perché si muove su un piano di coerenza con l’accentuato profilo costituzionale dell’interesse pubblico alla preservazione del paesaggio. La necessità di difendere al massimo livello il paesaggio impone una soluzione legislativa che, nei confronti degli interventi edilizi sine titulo, abbia carattere fortemente dissuasivo se non punitivo-sanzionatorio.
6.2.- Il diverso approccio del legislatore, più pragmatico e disponibile nel caso di attività edilizia senza titolo od in difformità da questo, rispetto ai casi di attività edilizia prive di nulla osta paesaggistico trova, peraltro, una chiara spiegazione anche sotto il profilo logico/giuridico.
Ed invero, per quanto riguarda l’attività edilizia senza titolo o in difformità da questo, l’amministrazione locale non ha che da svolgere un controllo di conformità tra la singola costruzione abusiva e le previsioni contenute nei piani di programmazione e nella regolamentazione edilizia comunale (regolamento edilizio e norme tecniche di attuazione).
Simile riscontro postumo è invece inimmaginabile in tema di paesaggio, per il quale l’amministrazione competente deve svolgere un giudizio che non si riduce ad un riscontro deduttivo di conformità ma implica una valutazione di merito, sugli aspetti anche estetici, valutazione che potrebbe essere irrimediabilmente compromessa nel momento in cui il nuovo volume è già venuto ad esistenza (sul punto, cfr. Tar Salerno, sez. I, 25.06.2013 n. 1429) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.03.2015 n. 1718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo la giurisprudenza maggioritaria di questo Consiglio di Stato, “l’indennità attualmente prevista dall’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 -e, in precedenza, dall’art. 15 della legge n. 1497 del 1939- è una sanzione amministrativa, e non una forma di risarcimento del danno”.
A tale sanzione pecuniaria, conseguentemente, “si applica l’istituto della prescrizione della sanzione amministrativa per intervenuto decorso del termine quinquennale di cui all’art. 28, comma 1, della legge n. 689 del 1981 (cfr. ivi: il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione), identificandosi il dies a quo del termine prescrizionale nella data di cessazione della permanenza dell’illecito paesaggistico laddove risulti che il responsabile della violazione non si sia limitato a munirsi del parere endoprocedimentale in materia paesaggistica ma abbia concluso positivamente la procedura di condono dell’abuso edilizio di cui agli artt. 31 e ss. della legge n. 47 del 1985 e successive modifiche”.
Pertanto, come statuito dal succitato orientamento giurisprudenziale, il rilascio di una concessione edilizia in sanatoria determina la cessazione della permanenza anche dell’illecito paesaggistico, in quanto “l’autorità preposta al vincolo ha già compiutamente e definitivamente espresso il proprio avviso rilasciando il parere di compatibilità che costituisce presupposto imprescindibile per il condono delle opere abusive eseguite in zona vincolata: opinare diversamente implicherebbe l’obbligo del responsabile dell’abuso, il quale abbia ottenuto il condono e intenda rimuovere anche la violazione paesaggistica, di richiedere alla Soprintendenza un nuovo parere di compatibilità destinato a «duplicare» quello già rilasciato nel procedimento di sanatoria edilizia”.
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La giurisprudenza, in materia di irrogazione sanzione ex art. 167 dlgs 42/2004, ha più volte ribadito che ogni atto del procedimento previsto dalla legge per l'irrogazione della sanzione ha la funzione di far valere il diritto dell'Amministrazione alla riscossione della pena pecuniaria in quanto, costituendo esercizio della pretesa sanzionatoria, è idoneo a mettere in mora il debitore ai sensi dell’art. 2943 c.c., con conseguente effetto interruttivo della prescrizione.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dalla signora Grazia Marzo, contro la Regione Puglia, per l'annullamento della determinazione dirigenziale del direttore dell'Ufficio osservatorio abusivismo e contenzioso del 12.05.2011, n. 156, recante l'ingiunzione al pagamento della somma di euro 2.045,19 a titolo d'indennità ex art. 167 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
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La Sezione ritiene che il ricorso in esame sia fondato nei termini che seguono.
Rileva, preliminarmente, la Sezione che, secondo la giurisprudenza maggioritaria di questo Consiglio di Stato, “l’indennità attualmente prevista dall’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004 -e, in precedenza, dall’art. 15 della legge n. 1497 del 1939- è una sanzione amministrativa, e non una forma di risarcimento del danno”. A tale sanzione pecuniaria, conseguentemente, “si applica l’istituto della prescrizione della sanzione amministrativa per intervenuto decorso del termine quinquennale di cui all’art. 28, comma 1, della legge n. 689 del 1981 (cfr. ivi: il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione), identificandosi il dies a quo del termine prescrizionale nella data di cessazione della permanenza dell’illecito paesaggistico laddove risulti che il responsabile della violazione non si sia limitato a munirsi del parere endoprocedimentale in materia paesaggistica ma abbia concluso positivamente la procedura di condono dell’abuso edilizio di cui agli artt. 31 e ss. della legge n. 47 del 1985 e successive modifiche” (Consiglio di Stato, Sez. II, n. 868 del 2014, Adunanza del 19.06.2013 e 23.10.2013).
Pertanto, come statuito dal succitato orientamento giurisprudenziale, il rilascio di una concessione edilizia in sanatoria determina la cessazione della permanenza anche dell’illecito paesaggistico, in quanto “l’autorità preposta al vincolo ha già compiutamente e definitivamente espresso il proprio avviso rilasciando il parere di compatibilità che costituisce presupposto imprescindibile per il condono delle opere abusive eseguite in zona vincolata: opinare diversamente implicherebbe l’obbligo del responsabile dell’abuso, il quale abbia ottenuto il condono e intenda rimuovere anche la violazione paesaggistica, di richiedere alla Soprintendenza un nuovo parere di compatibilità destinato a «duplicare» quello già rilasciato nel procedimento di sanatoria edilizia”.
Orbene, nel caso di specie, il Comune di Leporano -come esposto al precedente n. 1- ha rilasciato la concessione edilizia in sanatoria a beneficio della signora P.P., dante causa iure hereditatis dell’odierna ricorrente, in data 22.07.2002, dopo aver acquisito il parere favorevole della Soprintendenza di Bari, espresso con la nota del 18.04.2002, prot. n. 11398: il dies a quo da cui far decorrere il termine prescrizionale di cui all'art. 28 della legge n. 689 del 1981 deve, pertanto, essere individuato -in base a quanto precedentemente rilevato- nel 22.07.2002, data in cui, tramite l'acquisizione del titolo abilitatorio in sanatoria, deve ritenersi cessata la permanenza dell’illecito paesaggistico de quo.
Pertanto, in ragione di quanto esposto, l'impugnata determinazione dirigenziale n. 156 del 12.05.2011 non può che ritenersi illegittima, essendo stata adottata dalla Regione Puglia ben oltre il termine quinquennale di prescrizione previsto dal già citato art. 28 della legge n. 689 del 1981.
A quanto precede non può, peraltro, opporsi la circostanza -esplicitata dall'Amministrazione riferente- secondo cui, nel caso di specie, il termine prescrizionale sarebbe stato interrotto dall'invio alla dante causa della ricorrente della nota del 10.11.2003, prot. n. 11620, e avrebbe ricominciato a decorrere solamente a partire dalla ricezione, da parte della Regione Puglia, della relazione di stima del Genio civile di Taranto, trasmessa con la nota del 04.09.2007, prot. n. 8701.
Rileva, infatti, la Sezione che il secondo comma dell'art. 28 della legge n. 689 del 1981, nel disciplinare l'istituto della prescrizione relativamente alle sanzioni amministrative, rinvia alle regole civilistiche in materia di prescrizione.
In proposito, la giurisprudenza in subiecta materia ha più volte ribadito che ogni atto del procedimento previsto dalla legge per l'irrogazione della sanzione ha la funzione di far valere il diritto dell'Amministrazione alla riscossione della pena pecuniaria in quanto, costituendo esercizio della pretesa sanzionatoria, è idoneo a mettere in mora il debitore ai sensi dell’art. 2943 c.c., con conseguente effetto interruttivo della prescrizione (ex multis: Cons. di Stato, Sez. IV, 02.03.2011, n. 1359).
Orbene, nel caso di specie, dalla documentazione acquisita agli atti di causa mediante il parere interlocutorio reso dalla Sezione nell'adunanza del 23.07.2014, non risulta che la Regione Puglia abbia emesso atti idonei ad interrompere il termine quinquennale di prescrizione, posto che non è stato compiutamente provato l’avvenuto invio alla signora Perla Palazzo, dante causa della odierna ricorrente, mediante posta raccomandata con avviso di ricevimento, della nota della Regione Puglia del 20.11.2003, prot. n. 11690, recante la trasmissione all’Ufficio del Genio civile di Taranto della documentazione necessaria alla perizia di stima: l'Amministrazione riferente, infatti, non ha adeguatamente documentato la trasmissione di detta nota, essendosi limitata a rilevare -sulla base di quanto comunicato dalla Regione Puglia con la nota del 23.09.2014, prot. n. 6906- che la citata nota del 2003, inviata per conoscenza alla signora Palazzo “a mezzo servizio postale”, “non risulta restituita dalle Poste Italiane per mancata consegna”.
Peraltro, anche a voler ritenere inviata alla signora Palazzo la nota del 20.11.2003, prot. n. 11690, il provvedimento gravato risulterebbe comunque illegittimo, atteso che -come confermato dalla Regione Puglia- la nota del Genio civile di Taranto del 21.09.2007, prot. n. 8701, recante la trasmissione alla citata Regione della perizia di stima, “non risulta essere stata trasmessa alla ricorrente”, con la conseguenza che il termine prescrizionale, interrotto dall'asserito invio della nota del 20.11.2003, comincerebbe nuovamente a decorrere a partire da tale ultima data, risultando, quindi, ampiamente decorso al momento dell'adozione del provvedimento impugnato, emanato il 12.05.2011.
Conclusivamente, in ragione di quanto esposto, la Sezione ritiene che il provvedimento impugnato debba essere annullato in quanto illegittimo, essendo stato adottato dopo il decorso del termine quinquennale di prescrizione di cui all'art. 28 della legge n. 689 del 1981 (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 24.03.2015 n. 909  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La valutazione di compatibilità tra il progetto proposto all’amministrazione ed il contesto del paesaggio naturale nel quale tale progetto deve essere realizzato è attività istruttoria che riguarda la fase “fisiologica“ del rilascio della autorizzazione paesaggistica.
A norma dell’articolo 146 del d.lgs. 42/2004 è infatti rimesso al parere della autorità preposta alla tutela del vincolo, il giudizio sulla compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto.
E’ quella la sede in cui l’amministrazione, chiamata ad esprimere una valutazione non solo di legittimità ma anche di merito, ha l’obbligo di interloquire con il richiedente, eventualmente prospettando quali modifiche progettuali possono determinare il buon esito del procedimento autorizzatorio.
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Tali presupposti, invero, non ricorrono nel caso in cui il parere della Soprintendenza sia espresso a seguito della illegittima realizzazione di opere di trasformazione del territorio, ove sussistano vincoli paesaggistici o ambientali.
L’art. 167 del d.Lgs. 42/2004, infatti, non legittima la sanatoria delle opere realizzate in violazione dei vincoli paesaggistici ma solo consente una verifica della compatibilità dell’opera abusiva con le forme vigenti di tutela del paesaggio.
Il rigore delle previsioni contenute nella citata norma non lascia spazio ad alcun esercizio di discrezionalità da parte della autorità ministeriale rinvenendosi i presupposti per l’esito favorevole del procedimento di compatibilità nella sola verifica dei presupposti predeterminati dalla norma stessa.

3.2.1 Nella odierna controversia, risulta incontestato che con decreto ministeriale dell’11.10.1967 è stato apposto dal Ministero per l’Istruzione un vincolo di interesse paesaggistico per l’area costiera del comune di Villa San Giovanni sulla quale insistono le opere realizzate dal ricorrente e che la Chiesa Madonna del Rosario – e dell’antico edificio ad essa contiguo- è stata dichiarata con decreto del Ministro per i Beni Culturali ed Ambientali del 03.11.1989, immobile di interesse particolarmente importante ai sensi della Legge 01/06/1939 n. 1089.
Il vincolo paesaggistico, la cui esistenza è pur revocata in dubbio da parte ricorrente, esiste ed è operante a prescindere dalla sua mancata annotazione nei registri immobiliari, trattandosi di vincolo apposto ex art. 136, comma 3, del D.lgs. 42/2004.
La dichiarazione relativa alla inesistenza di vincoli di legge sull’area interessata da progetto e che è contenuta nella attestazione a firma del funzionario comunale all’uopo richiamata dal ricorrente, ha come limitato effetto quello di dichiarare l’inesistenza di vincoli ex lege e dunque non riguarda affatto la esistenza di un vincolo, quale quello in contestazione, che è stato apposto con atto amministrativo.
Il ricorrente, peraltro, lamenta un vizio di carenza istruttoria in quanto la Soprintendenza non avrebbe adeguatamente ed in concreto valutato la compatibilità paesaggistica dell’intervento costruttivo realizzato.
A tal proposito ritiene il Collegio di dover precisare che la valutazione di compatibilità tra il progetto proposto all’amministrazione ed il contesto del paesaggio naturale nel quale tale progetto deve essere realizzato è attività istruttoria che riguarda la fase “fisiologica“ del rilascio della autorizzazione paesaggistica.
A norma dell’articolo 146 del d.lgs. 42/2004 è infatti rimesso al parere della autorità preposta alla tutela del vincolo, il giudizio sulla compatibilità paesaggistica dell’intervento edilizio proposto.
E’ quella la sede in cui l’amministrazione, chiamata ad esprimere una valutazione non solo di legittimità ma anche di merito, ha l’obbligo di interloquire con il richiedente, eventualmente prospettando quali modifiche progettuali possono determinare il buon esito del procedimento autorizzatorio.
Tali presupposti, invero, non ricorrono nel caso in cui il parere della Soprintendenza sia espresso a seguito della illegittima realizzazione di opere di trasformazione del territorio, ove sussistano vincoli paesaggistici o ambientali.
L’art. 167 del d.Lgs. 42/2004, infatti, non legittima la sanatoria delle opere realizzate in violazione dei vincoli paesaggistici ma solo consente una verifica della compatibilità dell’opera abusiva con le forme vigenti di tutela del paesaggio.
Il rigore delle previsioni contenute nella citata norma non lascia spazio ad alcun esercizio di discrezionalità da parte della autorità ministeriale rinvenendosi i presupposti per l’esito favorevole del procedimento di compatibilità nella sola verifica dei presupposti predeterminati dalla norma stessa.
3.2.2 Con ulteriore censura, il ricorrente lamenta il difetto di motivazione del provvedimento gravato il quale non avrebbe indicato con precisione gli estremi volumetrici che risulterebbero dall’illegittimo ampliamento.
Tale censura non può essere condivisa.
Il provvedimento di diniego impugnato fa riferimento agli accertamenti compiuti dal Comune di Villa San Giovanni e che hanno determinato il rigetto del provvedimento di rilascio del titolo edilizio in sanatoria.
Risulta agli atti che il ricorrente ha realizzato lavori di risanamento conservativo –nello specifico si è trattato di ricostruzione di ruderi- su un preesistente fabbricato del quale non è stata dimostrata la originaria consistenza volumetrica e di superficie e che, rispetto a quanto assentito con le originarie concessioni edilizie del 1991 e del 2000, egli abbia realizzato una nuova costruzione di circa mq. 63 e di volume pari a mc. 252.
La realizzazione di nuove volumetrie rappresenta causa ostativa al rilascio della autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 167 del Codice del Paesaggio da ciò derivando la piena legittimità del provvedimento impugnato (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 24.03.2015 n. 295 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti dall’art. 167, commi 4 e 5.
Con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di compatibilità paesaggistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica.
In altri termini, il richiamato art. 167 del Codice n. 42 del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri discrezionali delle autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167).
Sotto tale profilo, ove le opere risultino diverse da quelle sanabili e indicate nell’art. 167, le autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di sanatoria.

3.1 Nel merito il ricorso è infondato e pertanto va respinto.
3.1.1 Con un primo ordine di censure, il ricorrente sostiene che la illegittimità del diniego gravato deriva dal mancato rispetto da parte della amministrazione delle regole poste dagli articoli 7, 8, 10-bis della legge 241/1990 sul procedimento amministrativo, poste a tutela della partecipazione procedimentale e sostanzialmente finalizzate a consentire un contributo istruttorio da parte del privato ai fini dell’esito favorevole del procedimento stesso.
In altre parole, secondo la prospettiva del ricorrente, la impossibilità per il richiedente, di fornire elementi e chiarimenti all’amministrazione, ha pregiudicato il buon esito del procedimento autorizzatorio.
La censura non è condivisibile.
E’ decisivo infatti considerare che l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti dall’art. 167, commi 4 e 5.
Con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di compatibilità paesaggistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica.
In altri termini, il richiamato art. 167 del Codice n. 42 del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri discrezionali delle autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167).
Sotto tale profilo, ove le opere risultino diverse da quelle sanabili e indicate nell’art. 167, le autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di sanatoria.
La natura del potere esercitato dalla amministrazione determina, conseguentemente, la irrilevanza delle dedotte violazioni procedimentali alla stregua del disposto normativo di cui all’art. 21-octies della Legge 241/1990 (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 24.03.2015 n. 295 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004, secondo il quale “l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica (…) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Ad avviso degli esponenti, il duplice riferimento normativo alle nuove “superfici utili o volumi” costituirebbe un’endiadi, vale a dire una modalità di espressione di un concetto unitario collegato alla realizzazione di una costruzione-edificio, non di un qualsiasi manufatto che, come la tettoia in contestazione, non determina pacificamente la creazione di alcun volume.
La tesi di parte ricorrente, che richiama isolate pronunce giurisprudenziali, non può essere condivisa perché apertamente contrastante con la lettera della richiamata disposizione e, soprattutto, con la sua ratio, volta a stabilire una soglia elevata di tutela del paesaggio che comporta la possibilità di rilascio ex post dell’autorizzazione paesaggistica al fine di sanare interventi già realizzati soltanto per gli abusi di minima entità, tali da determinare già in astratto, per le loro stesse caratteristiche tipologiche, un rischio estremamente contenuto di causare un effettivo pregiudizio al bene tutelato.
La disposizione in esame, pertanto, deve essere interpretata in coerenza con il suo tenore letterale che, come reso evidente dall’utilizzo della congiunzione disgiuntiva “o”, considera ostativa al conseguimento della sanatoria la circostanza che le opere realizzate in assenza di previa autorizzazione paesaggistica si caratterizzino (solamente) per l’avvenuta creazione di superfici utili.
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Va respinta anche l’affermazione di parte ricorrente secondo la quale il manufatto in parola non avrebbe determinato alcuna superficie utile.
La giurisprudenza amministrativa, infatti, ha precisato che in ambito paesaggistico tale nozione deve essere intesa in senso ampio e finalistico, ossia non limitata agli spazi chiusi o agli interventi capaci di provocare un aggravio del carico urbanistico, quanto piuttosto considerando l’impatto dell’intervento sull’originario assetto del territorio e, quindi, l’idoneità della nuova superficie, qualunque sia la sua destinazione, a modificare stabilmente la vincolata conformazione originaria del territorio.
Nel caso di specie, appare evidente che la realizzazione di una tettoia sorretta da pilastri di ferro, in un contesto boschivo, determina pienamente una nuova superficie utile, trattandosi di intervento che incide in senso fisico ed estetico sul bene protetto.
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Poiché non v'è alcun dubbio circa l’applicabilità dell’art. 167, co. 4, del d.lgs. 42/2004, deve essere annullato il diniego della Soprintendenza nella parte in cui rifiuta l’accertamento di compatibilità paesaggistica e la sanatoria edilizia delle opere in difformità interessanti il box auto interrato quali: diversa distribuzione delle bucature sul prospetto, innalzamento di un muretto di contenimento del terreno, creazione di una canna fumaria e di un locale per l’alloggiamento del compressore.
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Nel procedimento volto alla definizione dell’istanza di compatibilità paesaggistica, “la natura sostanzialmente decisoria del parere vincolante (della Soprintendenza) assume connotati tali da imporre l’analisi, in capo allo stesso organo chiamato a dare l’indicazione da cui non ci si può discostare, di tutti gli elementi rilevanti nella specie”.
In linea di principio, quindi, non è revocabile in dubbio che l’organo statale sia tenuto a valutare i precedenti apporti consultivi resi nell’ambito del procedimento e di indicare, anche succintamente, le ragioni per cui intende discostarsene.
Nel caso di specie, però, l’accennato difetto di motivazione non comporta l’annullabilità dell’atto della Soprintendenza in quanto, non sussistendo i presupposti previsti dall’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, il diniego di nulla osta paesaggistico aveva carattere assolutamente vincolato, cosicché l’esame degli apprezzamenti discrezionali della Commissione locale per il paesaggio non avrebbe potuto determinare, in ogni caso, un diverso esito procedimentale.
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L’art. 181, comma 1-quater, secondo periodo, del d.lgs. n. 42/2004, stabilisce che “l’autorità competente si pronuncia sulla domanda (di compatibilità paesaggistica) entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni”.
Nel caso in esame, entrambi i termini suddetti sono stati violati, atteso che il Comune ha definito negativamente il procedimento ad oltre un anno di distanza dalla domanda e anche il parere della Soprintendenza è stato reso oltre il termine prescritto.
I ricorrenti ne desumono che, al momento di provvedere, i relativi poteri si fossero ormai consumati, con conseguente illegittimità degli atti adottati dopo la scadenza dei termini perentori all’uopo fissati dal legislatore.
In subordine, richiamando un’isolata pronuncia del giudice amministrativo di primo grado, essi sostengono che la mancata osservanza, da parte della Soprintendenza, del termine perentorio previsto ex lege per il rilascio del parere di compatibilità paesaggistica non avrebbe determinato l’illegittimità del parere medesimo che, collocandosi al di fuori del quadro normativo, avrebbe tuttavia perso il carattere vincolante impressogli dalla legge, configurandosi alla stregua di semplice elemento del procedimento che l’amministrazione deve valutare e dal quale si può motivatamente discostare.
Il Collegio non ritiene di poter aderire a tali conclusioni, siccome contraddette dal prevalente orientamento giurisprudenziale, formatosi in relazione alle analoghe disposizioni di cui all’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004, fermo nell’affermare che il superamento dei termini indicati dalla legge come perentori non rende illegittimi in quanto tali né il parere tardivo né l’atto conclusivo del procedimento, dovendo quest’ultimo attenersi comunque al parere vincolante, sia pure emesso dopo il superamento del termine finale.
Per quanto concerne la tesi proposta in via subordinata, deve rammentarsi che, nel caso di specie, il diniego di nulla osta paesaggistico costituiva conseguenza vincolata dell’accertata creazione di nuova superficie utile attraverso la realizzazione abusiva della tettoia, cosicché il Comune non avrebbe potuto in ogni caso prescindere dalle conclusioni della Soprintendenza.

... per l'annullamento:
- del provvedimento del Comune di Levanto, Settore III Tecnico, Ufficio urbanistica ed edilizia privata, in data 01/10/2013, prot. 14926, di diniego all’accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del d.lgs. 42/2004, notificato in data 08/10/2013;
- della nota della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Liguria prot. 27183 del 17/9/2013, comunicata unitamente al provvedimento di diniego;
- se ed in quanto occorra, della nota del Comune di Levanto prot. 7933 del 20/05/2013, recante la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, e dell’allegata nota della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Liguria prot. 13829 del 14/05/2013;
...
4) I ricorrenti denunciano quindi, con il terzo motivo di gravame, la violazione dell’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. n. 42/2004, secondo il quale “l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica (…) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”.
Ad avviso degli esponenti, il duplice riferimento normativo alle nuove “superfici utili o volumi” costituirebbe un’endiadi, vale a dire una modalità di espressione di un concetto unitario collegato alla realizzazione di una costruzione-edificio, non di un qualsiasi manufatto che, come la tettoia in contestazione, non determina pacificamente la creazione di alcun volume.
La tesi di parte ricorrente, che richiama isolate pronunce giurisprudenziali (TAR Campania, Napoli, sez. VII, 01.09.2011, n. 4267 e 03.11.2009, n. 6827), non può essere condivisa perché apertamente contrastante con la lettera della richiamata disposizione e, soprattutto, con la sua ratio, volta a stabilire una soglia elevata di tutela del paesaggio che comporta la possibilità di rilascio ex post dell’autorizzazione paesaggistica al fine di sanare interventi già realizzati soltanto per gli abusi di minima entità, tali da determinare già in astratto, per le loro stesse caratteristiche tipologiche, un rischio estremamente contenuto di causare un effettivo pregiudizio al bene tutelato (cfr., da ultimo, TAR Lombardia, Milano, sez. II, 27.08.2014, n. 2263).
La disposizione in esame, pertanto, deve essere interpretata in coerenza con il suo tenore letterale che, come reso evidente dall’utilizzo della congiunzione disgiuntiva “o”, considera ostativa al conseguimento della sanatoria la circostanza che le opere realizzate in assenza di previa autorizzazione paesaggistica si caratterizzino (solamente) per l’avvenuta creazione di superfici utili.
Va respinta anche l’affermazione di parte ricorrente secondo la quale il manufatto in parola non avrebbe determinato alcuna superficie utile.
La giurisprudenza amministrativa, infatti, ha precisato che in ambito paesaggistico tale nozione deve essere intesa in senso ampio e finalistico, ossia non limitata agli spazi chiusi o agli interventi capaci di provocare un aggravio del carico urbanistico, quanto piuttosto considerando l’impatto dell’intervento sull’originario assetto del territorio e, quindi, l’idoneità della nuova superficie, qualunque sia la sua destinazione, a modificare stabilmente la vincolata conformazione originaria del territorio (TAR Veneto, sez. II, 06.11.2014, n. 1367; TAR Molise, 19.12.2012, n. 761).
Nel caso di specie, appare evidente che la realizzazione di una tettoia sorretta da pilastri di ferro, in un contesto boschivo, determina pienamente una nuova superficie utile, trattandosi di intervento che incide in senso fisico ed estetico sul bene protetto.
5) E’ fondato, invece, il quarto motivo di ricorso, con cui gli esponenti denunciano il vizio di eccesso di potere per contraddittorietà estrinseca, travisamento fattuale e difetto di istruttoria.
La Soprintendenza, infatti, aveva negato il nulla osta paesaggistico limitatamente alla tettoia, precisando che gli interventi minori compresi nella richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica “non producono alcun dubbio circa l’applicabilità dell’art. 167, co. 4, del d.lgs. 42/2004”.
Tale espressione lascia intendere che non fosse stata rilevata alcuna ragione ostativa alla sanabilità delle opere in difformità diverse dalla realizzazione della tettoia, definite appunto “minori”, con conseguente illegittimità del diniego comunale che, senza tener conto di tale distinzione, ha respinto in toto l’istanza.
Il provvedimento impugnato in principalità, pertanto, deve essere annullato nella parte in cui rifiuta l’accertamento di compatibilità paesaggistica e la sanatoria edilizia delle opere in difformità interessanti il box auto interrato (diversa distribuzione delle bucature sul prospetto, innalzamento di un muretto di contenimento del terreno, creazione di una canna fumaria e di un locale per l’alloggiamento del compressore).
6) Con il quinto motivo di ricorso, viene denunciato, in relazione al parere della Soprintendenza, il vizio di difetto di motivazione, per la mancata esplicitazione delle ragioni che hanno indotto detto organo a discostarsi dalla valutazione favorevole resa dalla Commissione locale per il paesaggio.
Questa Sezione ha recentemente precisato che, nel procedimento volto alla definizione dell’istanza di compatibilità paesaggistica, “la natura sostanzialmente decisoria del parere vincolante (della Soprintendenza) assume connotati tali da imporre l’analisi, in capo allo stesso organo chiamato a dare l’indicazione da cui non ci si può discostare, di tutti gli elementi rilevanti nella specie” (TAR Liguria, sez. I, 25.06.2014, n. 1014).
In linea di principio, quindi, non è revocabile in dubbio che l’organo statale sia tenuto a valutare i precedenti apporti consultivi resi nell’ambito del procedimento e di indicare, anche succintamente, le ragioni per cui intende discostarsene.
Nel caso di specie, però, l’accennato difetto di motivazione non comporta l’annullabilità dell’atto della Soprintendenza in quanto, non sussistendo i presupposti previsti dall’art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, il diniego di nulla osta paesaggistico aveva carattere assolutamente vincolato, cosicché l’esame degli apprezzamenti discrezionali della Commissione locale per il paesaggio non avrebbe potuto determinare, in ogni caso, un diverso esito procedimentale.
7) L’art. 181, comma 1-quater, secondo periodo, del d.lgs. n. 42/2004, stabilisce che “l’autorità competente si pronuncia sulla domanda (di compatibilità paesaggistica) entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni”.
Nel caso in esame, entrambi i termini suddetti sono stati violati, atteso che il Comune ha definito negativamente il procedimento ad oltre un anno di distanza dalla domanda e anche il parere della Soprintendenza è stato reso oltre il termine prescritto.
I ricorrenti ne desumono che, al momento di provvedere, i relativi poteri si fossero ormai consumati, con conseguente illegittimità degli atti adottati dopo la scadenza dei termini perentori all’uopo fissati dal legislatore.
In subordine, richiamando un’isolata pronuncia del giudice amministrativo di primo grado, essi sostengono che la mancata osservanza, da parte della Soprintendenza, del termine perentorio previsto ex lege per il rilascio del parere di compatibilità paesaggistica non avrebbe determinato l’illegittimità del parere medesimo che, collocandosi al di fuori del quadro normativo, avrebbe tuttavia perso il carattere vincolante impressogli dalla legge, configurandosi alla stregua di semplice elemento del procedimento che l’amministrazione deve valutare e dal quale si può motivatamente discostare (TAR Puglia, Lecce, sez. I, 12.07.2013, n. 1682).
Il Collegio non ritiene di poter aderire a tali conclusioni, siccome contraddette dal prevalente orientamento giurisprudenziale, formatosi in relazione alle analoghe disposizioni di cui all’art. 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004, fermo nell’affermare che il superamento dei termini indicati dalla legge come perentori non rende illegittimi in quanto tali né il parere tardivo né l’atto conclusivo del procedimento, dovendo quest’ultimo attenersi comunque al parere vincolante, sia pure emesso dopo il superamento del termine finale (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 18.09.2013, n. 4656).
Per quanto concerne la tesi proposta in via subordinata, deve rammentarsi che, nel caso di specie, il diniego di nulla osta paesaggistico costituiva conseguenza vincolata dell’accertata creazione di nuova superficie utile attraverso la realizzazione abusiva della tettoia, cosicché il Comune non avrebbe potuto in ogni caso prescindere dalle conclusioni della Soprintendenza (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 14.03.2015 n. 281 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Interventi non autorizzati differenza tra contravvenzione e delitto.
Essenziale elemento discriminante tra la fattispecie del comma 1 e quella del comma 1-bis dell'art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, tanto da determinare la "commutazione" in delitto della contravvenzione di cui al medesimo comma 1, è quello della inclusione della zona interessata dai lavori non autorizzati in "area dichiarata di notevole interesse pubblico".
I caratteri distintivi, in senso di maggiore gravità, della previsione penale di cui all'art. 181, comma 1-bis, cit., introdotta dalla l. 15.12.2004, n. 308, hanno inciso così pesantemente sulla struttura originaria dell'art. 181, comma 1, da determinare un aggravamento quantitativo e qualitativo della pena, che è sfociato nella diversa qualificazione del reato da contravvenzione a delitto.
Questo dato assume, dunque, natura dirimente tenuto anche conto del correlativo mutamento dell'elemento soggettivo richiesto ai fini dell'integrazione del reato; come tale, è pertanto idoneo a recidere ogni collegamento con un reato-base di diversa natura sì che deve appunto escludersi la possibilità di qualificare come reato circostanziato la fattispecie di cui all'art. 181, comma 1-bis.

Va infatti ribadito che essenziale elemento discriminante tra la fattispecie del comma 1 e quella del comma 1-bis dell'art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, tanto da determinare la "commutazione" in delitto della contravvenzione di cui al medesimo comma 1, è quello della inclusione della zona interessata dai lavori non autorizzati in "area dichiarata di notevole interesse pubblico" .
Questa Corte ha in particolare specificato che i caratteri distintivi, in senso di maggiore gravità, della previsione penale di cui all'art. 181, comma 1-bis, cit., introdotta dalla l. 15.12.2004, n. 308, hanno inciso così pesantemente sulla struttura originaria dell'art. 181, comma 1, da determinare un aggravamento quantitativo e qualitativo della pena, che è sfociato nella diversa qualificazione del reato da contravvenzione a delitto.
Questo dato assume, dunque, natura dirimente tenuto anche conto del correlativo mutamento dell'elemento soggettivo richiesto ai fini dell'integrazione del reato; come tale, è pertanto idoneo a recidere ogni collegamento con un reato-base di diversa natura sì che deve appunto escludersi la possibilità di qualificare come reato circostanziato la fattispecie di cui all'art. 181, comma 1-bis (cfr. Sez. 3, n. 7215 del 17/11/2010, Buono e altro, Rv. 249522; Sez. 3, n. del 22/04/2010, Vascellari ed altro, inedita) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.03.2015 n. 10718 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 167, quarto comma, lett. a), d.lgs. n. 42/2004 stabilisce che l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Ne consegue che il provvedimento impugnato (diniego) era un atto a contenuto vincolato nell’ambito di un procedimento ad iniziativa di parte, per il quale, come affermato in giurisprudenza, la violazione formale dell'obbligo di comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza non può comportare l'annullamento del provvedimento finale allorché il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso (artt. 10-bis e 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241).
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E’ vero che la giurisprudenza ha evidenziato come, nella valutazione della creazione di superfici e volumi, occorre tener conto dei casi di minima, o meglio trascurabile, entità ed incidenza in confronto alle esigenze di tutela del paesaggio, considerando la effettiva percepibilità della modificazione dell’aspetto esteriore del bene protetto.
Tuttavia, proprio quella giurisprudenza ha precisato che deve trattarsi di “minimali variazioni assolutamente non percepibili”, ciò che deve escludersi nell’ipotesi in esame, atteso che la creazione di volume ha riguardato, nella specie, la realizzazione di un vano cucina-soggiorno.

... per l'annullamento del provvedimento di cui alla nota della Soprintendenza di Messina n. 6771/2018-12-U in data 30.10.2013, nella parte in cui è stato negato l’ampliamento del piano terra destinato a cucina-soggiorno e se ne è ordinata la demolizione.
...
Ad avviso del Collegio il ricorso è infondato.
L’art. 167, quarto comma, lett. a), d.lgs. n. 42/2004 stabilisce che l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Ne consegue che il provvedimento impugnato era un atto a contenuto vincolato nell’ambito di un procedimento ad iniziativa di parte, per il quale, come affermato in giurisprudenza (sul punto cfr. Cons. St., IV, n. 4693/2013), la violazione formale dell'obbligo di comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza non può comportare l'annullamento del provvedimento finale allorché il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso (artt. 10-bis e 21-octies della legge 07.08.1990, n. 241).
E’ vero, inoltre, che la giurisprudenza ha evidenziato come, nella valutazione della creazione di superfici e volumi, occorre tener conto dei casi di minima, o meglio trascurabile, entità ed incidenza in confronto alle esigenze di tutela del paesaggio, considerando la effettiva percepibilità della modificazione dell’aspetto esteriore del bene protetto.
Tuttavia, proprio quella giurisprudenza ha precisato che deve trattarsi di “minimali variazioni assolutamente non percepibili” (Tar Napoli, VII, n. 930/2014), ciò che deve escludersi nell’ipotesi in esame, atteso che la creazione di volume ha riguardato, nella specie, la realizzazione di un vano cucina-soggiorno.
Non hanno interesse, inoltre, i ricorrenti a lamentare l’illogicità del provvedimento per avere lo stesso accertato la compatibilità paesaggistica quanto alla terrazza di copertura realizzata al di sopra dell’ampliamento, posto che la statuizione di cui si tratta presenta per essi ricorrenti contenuto favorevole.
Secondo il Collegio, rientra, infine, nella discrezionalità del legislatore configurare un regime di tutela particolarmente intenso in ambito paesaggistico, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità “ex post” delle opere abusive (tranne quelle tassativamente indicate nell’art. 167 d.lgs. n. 42/2004) e ciò al fine di creare un deterrente incisivo contro eventuali abusi dei privati e di imporre un’utilizzazione controllata e assentita del territorio caratterizzato da uno speciale pregio ambientale (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 12.03.2015 n. 757 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini delle valutazioni inerenti il paesaggio per volume si deve intendere anche il volume tecnico quando, come nel caso di specie, il volume tecnico incide sulla percezione del paesaggio.
Il volume tecnico non valutabile è soltanto quello che non incide sulla percezione del paesaggio.
Avendo dunque l’opera comportato aumento di volume percepibile nel paesaggio, non è possibile il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, così come infatti prevede l’art. 181 del codice del paesaggio.

... per l'annullamento dell'atto emesso dal Settore Edilizia privata ed appalti del Comune di Jesolo il 14/10/2014, prot. n. 2014/0065315-10-23-EDPR recante "diniego dell'istanza di compatibilità paesaggistica per esecuzione, in difformità da autorizzazione paesaggistica G/2009/658, di ampliamento al piano secondo e sistemazione accessibilità ai sensi L.R. 13/1989 su edificio ad uso ristorante, ricadente all'interno del villaggio Marzotto".
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Il provvedimento impugnato, con cui è stata rigettata l’istanza di autorizzazione paesaggistica, costituisce atto dovuto e vincolato.
Infatti il manufatto realizzato senza l’autorizzazione paesaggistica ha comportato aumento di volume.
Tale circostanza fattuale si desume dalla stessa documentazione depositata in giudizio da parte ricorrente ed in particolare dalla certificazione a firma del dirigente del settore del comune di Jesolo in data 20.11.2014 in cui si riconosce l’aumento di volume, ma che il volume in aumento coincide con spazi destinati a canalizzazioni di ventilazione degli ambienti e dunque tale volume non sarebbe da conteggiare per effetto di quanto dispone il regolamento edilizio comunale.
Tuttavia il collegio osserva che ai fini delle valutazioni inerenti il paesaggio per volume si deve intendere anche il volume tecnico quando, come nel caso di specie, il volume tecnico incide sulla percezione del paesaggio.
Il volume tecnico non valutabile è soltanto quello che non incide sulla percezione del paesaggio.
Avendo dunque l’opera comportato aumento di volume percepibile nel paesaggio, non è possibile il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, così come infatti prevede l’art. 181 del codice del paesaggio.
Il ricorso è pertanto infondato (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 16.02.2015 n. 191 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon può sostenersi che la chiusura del quarto lato del preesistente porticato non comporti alcun aumento della superficie lorda di pavimento.
Deve in proposito ricordarsi che, come afferma costantemente la giurisprudenza, la tamponatura del porticato dà vita ad un nuovo volume edilizio entro il perimetro di uno spazio in origine aperto, quale quello ricompreso nel porticato, per cui, se esso è trasformato in volume chiuso con pareti fisse (anche se di vetro, come nella specie), come tale è rilevante sul piano edilizio ed urbanistico ai sensi dell'art. 3 comma 1, lett. e.1, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Ed ancora, la chiusura di un porticato, ancorché realizzata con materiali di facile rimozione, esclude la precarietà dell'opera ove la destinazione impressa sia finalizzata a fornire un'utilità prolungata nel tempo, con conseguente necessità del rilascio di specifica concessione edilizia.
Deve quindi ritenersi che, nel caso di specie, la chiusura del quarto lato del preesistente porticato ha determinato la realizzazione di un nuovo organismo edilizio, in parte diverso da quello preesistente, con sicuro aumento della volumetria e della superficie utile di pavimento, così come correttamente ritenuto dall’amministrazione procedente.
E tale circostanza, peraltro, a fronte dell’esistenza di un vincolo ambientale e paesistico ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004, è rilevante anche dal punto di vista paesaggistico in quanto, a norma dell’art. 167 del menzionato d.lgs., l’accertamento di compatibilità paesaggistica è in radice escluso allorché i lavori abbiano determinato la creazione di superfici utili o di volumi

5.1. Con riguardo all’ampliamento del piano terreno ed al rifacimento del muro di sostegno dal lato giardino, il ricorso ed i motivi aggiunti non sono fondati (potendosi pertanto prescindere, in parte qua, dalla disamina dell’eccezione di inammissibilità formulata dall’amministrazione resistente).
Ed infatti non può sostenersi, come fa la ricorrente, che la chiusura del quarto lato del preesistente porticato non abbia comportato alcun aumento della superficie lorda di pavimento.
Deve in proposito ricordarsi che, come afferma costantemente la giurisprudenza, la tamponatura del porticato dà vita ad un nuovo volume edilizio entro il perimetro di uno spazio in origine aperto, quale quello ricompreso nel porticato, per cui, se esso è trasformato in volume chiuso con pareti fisse (anche se di vetro, come nella specie), come tale è rilevante sul piano edilizio ed urbanistico ai sensi dell'art. 3 comma 1, lett. e.1, del d.P.R. n. 380 del 2001 (cfr., tra le tante, TAR Liguria, sez. I, n. 1769 del 2008).
Ed ancora, la chiusura di un porticato, ancorché realizzata con materiali di facile rimozione, esclude la precarietà dell'opera ove la destinazione impressa sia finalizzata a fornire un'utilità prolungata nel tempo, con conseguente necessità del rilascio di specifica concessione edilizia (così TAR Campania, Napoli, sez. IV, n. 16733 del 2004).
Deve quindi ritenersi che, nel caso di specie, la chiusura del quarto lato del preesistente porticato ha determinato la realizzazione di un nuovo organismo edilizio, in parte diverso da quello preesistente, con sicuro aumento della volumetria e della superficie utile di pavimento, così come correttamente ritenuto dall’amministrazione procedente.
E tale circostanza, peraltro, a fronte dell’esistenza di un vincolo ambientale e paesistico ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004, è rilevante anche dal punto di vista paesaggistico in quanto, a norma dell’art. 167 del menzionato d.lgs., l’accertamento di compatibilità paesaggistica è in radice escluso allorché i lavori abbiano determinato la creazione di superfici utili o di volumi (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 30.01.2015 n. 169 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 167 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 contempla la sanzione pecuniaria da irrogare per gli abusi edilizi commessi in aree con vincolo paesaggistico, in alternativa all'ordine di rimessione in pristino. Tale sanzione è pari alla maggior somma fra il danno ambientale causato dall'intervento sanzionato e il profitto conseguito. L'indennità in questione, per giurisprudenza costante, è dovuta anche in mancanza di un concreto danno ambientale, ed è commisurata, in questo caso, al profitto conseguito.
Per quanto riguarda, invece, la determinazione del quantum della sanzione, la giurisprudenza ha chiarito che per la determinazione del profitto è più agevole ricorrere ad elementi oggettivi di valutazione mentre per la determinazione del danno ambientale soccorrono criteri equitativi.
In ogni caso, l’art. 167 precisa che la somma deve essere determinata previa perizia di stima. Quest’ultima dovrà contenere pertanto i predetti elementi oggettivi, che possono essere ad esempio individuati, come nel caso di specie, nel valore di mercato e nel costo di costruzione dell’opera, parametri utili per la quantificazione del profitto.
Il provvedimento di ingiunzione al pagamento della sanzione pecuniaria deve, a sua volta, richiamare la suddetta perizia di stima ai sensi dell’art. 3 della Legge 241/1990, il quale precisa che “la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria”. L’Amministrazione deve, altresì, indicare gli estremi dell’atto al fine di poterlo individuare e di renderlo disponibile per l'interessato, fermo restando che la concreta disponibilità è poi rimessa all'attivazione dell'interessato stesso, a mezzo del diritto d'accesso.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, proposto dal Sig. M.V. per l’annullamento del provvedimento n. 668 del 14.01.2005 a firma del dirigente dell’Area tecnica del Comune di Brentola (VI), con cui viene determinata l’applicazione e qualificata la sanzione pecuniaria ex art. 167 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42, per lavori eseguiti in Via Strada delle Asse.
...
DIRITTO
Con il ricorso in oggetto il ricorrente deduce i seguenti motivi di gravame: - Violazione/errata interpretazione dell'art. 167 D.L.vo 22.01.2004, n. 42; eccesso di potere per travisamento dei fatti; eccesso di potere per illogicità-contraddittorietà manifesta.
Con tale motivo di diritto il Sig. V. contesta la procedura con cui l’Amministrazione comunale ha calcolato (attesa la dichiarata inesistenza del danno) il profitto conseguito mediante la trasgressione, utilizzato quale parametro per la determinazione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 167 del D.Lgs. 42/2004. In particolare, nel concordare con la quantificazione del costo di costruzione in € 8.250, il ricorrente si duole dell’erronea stima del valore di mercato, pari ad euro 945 al mq, che risulterebbe “sproporzionata ed errata per un edificio senza serramenti, non dotati di impianti e munito di una sola lampadina”.
Il ricorrente procede quindi con un esemplificazione numerica con la quale spiega come, dai calcoli operati dall’Ufficio Tecnico, il profitto, riferito all’opera allo stato grezzo, sia stato determinato in euro 4.980, mentre, se si fosse considerato il manufatto come ultimato, il profitto sarebbe stato pari ad euro 2.400 (calcolato detraendo dal valore di mercato intero, pari ad € 18.900, il costo di costruzione, pari ad euro 16.500). Afferma, pertanto, il Sig. V.: “non è possibile che un'opera non finita al 50% dia un profitto superiore a quella finita (100%)”.
Viene, altresì, lamentata l’assoluta carenza di motivazione, quando in un simile contesto, secondo il ricorrente, l’Amministrazione comunale avrebbe dovuto produrre una propria perizia di stima.
Il Ministero riferente, nella propria relazione, si limita a rimandare alle osservazioni fornite dal Comune di Brendola, senza addurre alcuna ulteriore argomentazione. L’Amministrazione comunale, dal canto suo, afferma che:
- il precedente ricorso straordinario, che il Ministero riferente asserisce di non aver mai ricevuto, “è da considerarsi inammissibile in quanto riferito ad un atto endoprocedimentale e non trasmesso a firma del responsabile di provvedimento”;
- con riferimento alla lamentata mancanza e comunque riferimento alla perizia di stima, la medesima, presente agli atti dell’Ufficio Tecnico, sarebbe stata trattata come un atto interno e quindi non richiamata nell’provvedimento di ingiunzione impugnato, anche perché “sarebbe stata sufficiente una semplice richiesta di accesso agli atti per rendersene conto”.
Nel merito, corre l’obbligo di evidenziare che l'art. 167 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, contempla la sanzione pecuniaria da irrogare per gli abusi edilizi commessi in aree con vincolo paesaggistico, in alternativa all'ordine di rimessione in pristino. Tale sanzione è pari alla maggior somma fra il danno ambientale causato dall'intervento sanzionato e il profitto conseguito. L'indennità in questione, per giurisprudenza costante, è dovuta anche in mancanza di un concreto danno ambientale, ed è commisurata, in questo caso, al profitto conseguito (Consiglio di Stato, Sez. II n. 48 del 15.05.2002, Sez. VI, n. 912 del 21.02.2001).
Per quanto riguarda, invece, la determinazione del quantum della sanzione, la giurisprudenza ha chiarito che per la determinazione del profitto è più agevole ricorrere ad elementi oggettivi di valutazione mentre per la determinazione del danno ambientale soccorrono criteri equitativi (Consiglio di Stato, Sez. II n. 48 del 15.05.2002, Sez. V n. 1225 del 01.10.1999).
In ogni caso, l’art. 167 precisa che la somma deve essere determinata previa perizia di stima. Quest’ultima dovrà contenere pertanto i predetti elementi oggettivi, che possono essere ad esempio individuati, come nel caso di specie, nel valore di mercato e nel costo di costruzione dell’opera, parametri utili per la quantificazione del profitto.
Il provvedimento di ingiunzione al pagamento della sanzione pecuniaria deve, a sua volta, richiamare la suddetta perizia di stima ai sensi dell’art. 3 della Legge 241/1990, il quale precisa che “la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria”. L’Amministrazione avrebbe dovuto, altresì, indicare gli estremi dell’atto, al fine di poterlo individuare e di renderlo disponibile per l'interessato, fermo restando che la concreta disponibilità è poi rimessa all'attivazione dell'interessato stesso, a mezzo del diritto d'accesso (TAR Lazio, Sez. II, 02.09.2005, n. 6537).
Nel caso di specie tutto ciò non è avvenuto. La perizia di stima utilizzata dall’Ufficio Tecnico per la determinazione della sanzione non solo non è stata acclusa al provvedimento di ingiunzione al pagamento, ma non è stata neanche richiamata nel provvedimento stesso, tanto che il ricorrente ne lamenta l’inesistenza.
Peraltro verso, mentre il valore di mercato unitario dell’opera stimato per euro 945 al mq, risulta proporzionato atteso che per quantificarlo è stata applicata una plausibile riduzione del 30% al costo unitario (certo) di un’abitazione situata nel centro del Comune, non altrettanto può dirsi per il valore di mercato complessivo utilizzato per calcolare il profitto conseguito.
Infatti, mentre con riferimento al costo di realizzazione dell’intervento è stata applicata una riduzione del 50%, “trattandosi di opere allo stato grezzo”, per il valore di mercato complessivo è stata, invece, applicata una riduzione del 30%. La giustificazione addotta dall’Ufficio Tecnico sarebbe quella secondo cui l’opera sarebbe “utilizzabile a pieno come accessorio alla residenza”.
Tale motivazione risulta del tutto illogica, se si considera che il manufatto, per stessa ammissione dell’Amministrazione, si trova allo stato grezzo, e quindi sarebbe tutt’altro che utilizzabile. Pertanto, applicando la riduzione del 50% anche al valore di mercato si perverrebbe ad un ammontare pari ad euro 9.450, da cui discende un profitto pari ad euro 1200.
Per quanto sopra, si ritiene che il profitto calcolato in euro 4.980 dall’Ufficio Tecnico sia sproporzionato rispetto alla reale consistenza ed allo stato di completamento dell’opera abusiva (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 17.10.2007 n. 6774 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAa) l’art. 15 della legge 29.06.1939, n. 1497 (divenuto poi l’art. 164 del t.u. n. 490/1999 ed oggi l’articolo 167 del d.lgs. n. 42/2004) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che come tale prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale;
b) gli abusi commessi in zone soggette a tutela paesistica sotto il vigore delle norme anteriori al nuovo codice dell’ambiente (d.lgs. n. 42/2004) sono condonabili, purché sia intervenuto il parere favorevole dell’autorità competente ai sensi dell’art. 32 della legge 28.02.1985, n. 47;
c) la sanzione di cui al predetto art. 15 è applicabile anche nel caso in cui sia intervenuto il previsto nulla osta: ciò è stato precisato dall’art. 2, comma 46, della legge 23.12.1966, n. 662, norma di natura interpretativa;
d) l’art. 28 legge n. 689 del 24.11.1981 -a norma del quale “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”– è applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 legge n. 689 del 1981) e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
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La regola della decorrenza della prescrizione quinquennale dal giorno della commissione della violazione, deve tuttavia correlarsi alla particolare natura degli illeciti in materia urbanistica edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, di talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a, dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni.
Inoltre, per la decorrenza della prescrizione dell'illecito amministrativo permanente, trova applicazione il principio relativo al reato permanente, secondo cui il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la permanenza (art. 158, comma 1, Cod. pen.); pertanto, per gli illeciti amministrativi in materia paesistica-urbanistica-edilizia la prescrizione quinquennale di cui all'art. 28 legge n. 689 del 1981 inizia a decorrere solo dalla cessazione della permanenza, con la conseguenza che, vertendosi in materia di illeciti permanenti, il potere amministrativo repressivo, come la determinazione di applicare la sanzione pecuniaria, può essere esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo nell'esercizio del potere.
Più in particolare, è stato giustamente osservato che per quanto concerne il momento in cui può dirsi cessata la permanenza per gli illeciti amministrativi in materia urbanistica edilizia e paesistica, è stato precisato che, mentre per il diritto penale rileva la condotta commissiva (sicché la prescrizione del reato inizia a decorrere dalla sua ultimazione), per il diritto amministrativo si è in presenza di un illecito di carattere permanente, caratterizzato dall'omissione dell'obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare secundum jus lo stato dei luoghi, con l’ulteriore conclusione che se l'Autorità emana un provvedimento repressivo (di demolizione, ovvero di irrogazione di una sanzione pecuniaria), non emana un atto «a distanza di tempo» dall'abuso, ma reprime una situazione antigiuridica contestualmente contra jus, ancora sussistente.
Dalle considerazioni che precedono si ricava, dunque, che nel campo dell’illecito amministrativo –che, come quello in esame, integra un’ipotesi di illecito formale consistente nell’omessa richiesta della preventiva autorizzazione– la permanenza cessa (e il termine quinquennale di prescrizione comincia a decorrere) o con l’irrogazione della sanzione pecuniaria o con il conseguimento dell’autorizzazione che, secondo pacifico orientamento, può essere rilasciata anche in via postuma.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con contestuale domanda cautelare di sospensiva, proposto dalla sig.ra A.R., rapp.ta e difesa dall’avv.to Riccardo Ruffo con studio in Verona, Lungadige Capuleti n. 1/A, per l’annullamento della determinazione prot. n. 22964 in data 11.12.2002 del Comune di Negrar (VR, con cui è stata irrogata la sanzione di Euro 516,45 in violazione di vincolo paesistico.
...
2 - Le questioni che vengono in rilievo in relazione al secondo motivo sono ben conosciute al Collegio che, in relazione alla fattispecie in esame, ritiene di condividere l’impostazione seguita e le conclusioni alle quali è pervenuto questo Consiglio di Stato nell’esame di controversie aventi analogo contenuto (Cfr., Sez. IV, 12.11.2002, n. 6279; Sez. V, 08.06.1994, n. 614; Sez. VI, 02.06.2000, n. 3184; 09.10.2000, n. 5373; Sez. IV, 25/11/2003, n. 7769/2003; Sez. IV, 11.02.2004, n. 798; Sez. V, 13.07.2006, n. 4420; Sez. IV, 11/04/2007, n. 1585 ).
I principi enucleati in dette decisioni possono riassumersi nelle seguenti statuizioni:
a) l’art. 15 della legge 29.06.1939, n. 1497 (divenuto poi l’art. 164 del t.u. n. 490/1999 ed oggi l’articolo 167 del d.lgs. n. 42/2004) va interpretato nel senso che l’indennità prevista per abusi edilizi in zone soggette a vincoli paesaggistici costituisce vera e propria sanzione amministrativa (e non una forma di risarcimento del danno), che come tale prescinde dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale;
b) gli abusi commessi in zone soggette a tutela paesistica sotto il vigore delle norme anteriori al nuovo codice dell’ambiente (d.lgs. n. 42/2004) sono condonabili, purché sia intervenuto il parere favorevole dell’autorità competente ai sensi dell’art. 32 della legge 28.02.1985, n. 47;
c) la sanzione di cui al predetto art. 15 è applicabile anche nel caso in cui sia intervenuto il previsto nulla osta: ciò è stato precisato dall’art. 2, comma 46, della legge 23.12.1966, n. 662, norma di natura interpretativa;
d) l’art. 28 legge n. 689 del 24.11.1981 -a norma del quale “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”– è applicabile, per espresso dettato legislativo, a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (art. 12 legge n. 689 del 1981) e, quindi, anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistica edilizia e paesistica puniti con sanzione pecuniaria.
3 - La regola della decorrenza della prescrizione quinquennale dal giorno della commissione della violazione, deve tuttavia correlarsi alla particolare natura degli illeciti in materia urbanistica edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, di talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a, dire con il conseguimento delle prescritte autorizzazioni.
Inoltre, per la decorrenza della prescrizione dell'illecito amministrativo permanente, trova applicazione il principio relativo al reato permanente, secondo cui il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la permanenza (art. 158, comma 1, Cod. pen.); pertanto, per gli illeciti amministrativi in materia paesistica-urbanistica-edilizia la prescrizione quinquennale di cui all'art. 28 legge n. 689 del 1981 inizia a decorrere solo dalla cessazione della permanenza, con la conseguenza che, vertendosi in materia di illeciti permanenti, il potere amministrativo repressivo, come la determinazione di applicare la sanzione pecuniaria, può essere esercitato senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo nell'esercizio del potere.
Più in particolare, è stato giustamente osservato che per quanto concerne il momento in cui può dirsi cessata la permanenza per gli illeciti amministrativi in materia urbanistica edilizia e paesistica, è stato precisato che, mentre per il diritto penale rileva la condotta commissiva (sicché la prescrizione del reato inizia a decorrere dalla sua ultimazione), per il diritto amministrativo si è in presenza di un illecito di carattere permanente, caratterizzato dall'omissione dell'obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare secundum jus lo stato dei luoghi, con l’ulteriore conclusione che se l'Autorità emana un provvedimento repressivo (di demolizione, ovvero di irrogazione di una sanzione pecuniaria), non emana un atto «a distanza di tempo» dall'abuso, ma reprime una situazione antigiuridica contestualmente contra jus, ancora sussistente.
Dalle considerazioni che precedono si ricava, dunque, che nel campo dell’illecito amministrativo –che, come quello in esame, integra un’ipotesi di illecito formale consistente nell’omessa richiesta della preventiva autorizzazione– la permanenza cessa (e il termine quinquennale di prescrizione comincia a decorrere) o con l’irrogazione della sanzione pecuniaria o con il conseguimento dell’autorizzazione che, secondo pacifico orientamento, può essere rilasciata anche in via postuma (Cfr., C.d.S., Sez. VI, 12.05.2003, n. 2653; 30.10.2000, n. 5851; Ad. Generale 11.04.2002, n. 4/Gab e n. di Sezione 2340/2001).
4 - Alla stregua delle considerazioni appena svolte, deve ritenersi che nel caso di specie, consistendo l'illecito paesistico nella realizzazione di opera in zona vincolata senza la prescritta autorizzazione, la permanenza dell'illecito non era ancora cessata alla data in cui è stata applicata, la sanzione pecuniaria di cui all'art. 15 legge n. 1497 del 1939, e dunque l'esercizio del potere repressivo è stato tempestivo (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 06.06.2007 n. 6770 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sanzione ex art. 167 dlgs 42/2004 (in quanto di sanzione amministrativa si tratta, e non di una forma di risarcimento del danno) non ha carattere afflittivo-punitivo bensì assolve ad un ruolo solo reintegratorio-riparatorio.
Invero, la sanzione della cui applicazione si tratta, ha carattere alternativo alla demolizione. Attesa la natura oggettivamente riparatoria della demolizione, essendo posta a tutela dell'interesse pubblico alla non alterazione del mondo fisico, essa è sempre applicabile indipendentemente dal titolo di proprietà, di possesso, di detenzione, essendo conforme all'ordinamento che una costruzione abusiva, che altera l'assetto del territorio, venga demolita, chiunque ne sia il proprietario o l'occupante. La demolizione, investendo il bene, finisce per cadere su chiunque abbia una relazione con esso. Orbene, laddove la misura patrimoniale sia diretta a riparare l'ordinamento per la lesione ad esso arrecata dal medesimo bene lo stesso principio vale anche per essa. Infatti, stante il parallelismo esistente con la demolizione, anche la misura patrimoniale, sia pure non in forma specifica ma solo per equivalente, appare preordinata ad assicurare la riparazione della lesione arrecata all'ordinamento.
La sanzione pecuniaria, pertanto, non ha natura punitiva, non essendo volta a colpire direttamente, in funzione afflittiva, l'autore dell'abuso. Detta sanzione ha, invece, natura ripristinatoria dell'ordine giuridico violato. La circostanza che la sanzione in questione venga applicata nei confronti di un soggetto (il quale al momento dell'irrogazione goda dei benefici derivanti dall'utilizzazione della costruzione abusiva) diverso dall'effettivo responsabile dell'abuso, certamente inammissibile in caso di sanzione amministrativa di natura afflittiva-punitiva, non rileva nella fattispecie, attesa la diversa natura (ripristinatoria, si ribadisce) della sanzione applicata. La sanzione è, dunque, collegata alla realizzazione, senza la previa autorizzazione, di un intervento di costruzione o di modificazione di un determinato immobile in un contesto vincolato; essa ha pertanto natura reale (le sanzioni ripristinatorie o sostitutive, infatti, tendono a realizzare direttamente l’interesse pubblico di settore leso dall’atto illecito), in quanto la condotta sanzionata è produttiva di effetti reali, consistenti in un intervento edificatorio o in un intervento costruttivo, comunque non autorizzato (produttivo o meno di effettivo danno ambientale).
Si ricordi che autorevole dottrina ha sostenuto che le sanzioni pecuniarie possono inquadrarsi nel campo delle sanzioni in senso ampio quando sono meramente alternative alla riduzione in pristino e mirano a costituire una sorta di indennizzo o di compensazione dello status quo, onde risarcire per equivalente, anziché in forma specifica, l'interesse pubblico leso dalla trasgressione. Ciò vale, in particolare, per le sanzioni previste dalla legislazione urbanistica e di tutela paesistica e storico-artistica che partecipano della stessa natura delle misure ripristinatorie cui sono strettamente collegate in regime di alternatività; di conseguenza, esse soggiacciono alla medesima disciplina in tema di requisiti del soggetto passivo, di imprescrittibilità, di retroatttività, di giurisdizione.
Tali sanzioni si differenziano dalle sanzioni pecuniarie in senso stretto, che hanno natura eminentemente afflittiva, in quanto le prime, diversamente dalle seconde, prescindono totalmente dalla valutazione dei requisiti soggettivi del trasgressore (ed invero, la funzione di reintegrazione della legalità violata svolta dalla sanzione pecuniaria nella fattispecie che ci occupa è da intendersi in termini oggettivi, sicché è ad essa indifferente che a sopportare le conseguenze della reazione pubblica all'abuso sia l'originario proprietario od un suo avente causa potendosi applicare anche a carico di chi non abbia compiuto la violazione), possono colpire persone giuridiche, di regola sono imprescrittibili (anche se la giurisprudenza ha mitigato tale connotazione richiedendo a volte la sussistenza di un interesse pubblico attuale alla loro applicazione), possono avere carattere retroattivo (sia pure nei limiti di ragionevolezza richiesti dalla giurisprudenza costituzionale).
Il Collegio, conclusivamente, ritiene che la funzione della sanzione applicata nella fattispecie non è repressiva della condotta nell'autore dell’illecito ma ripristinatoria dei valori giuridici offesi dalla condotta illecita. L’illecito in questione deve infatti ritenersi abbia natura reale, determinando una modificazione peggiorativa e permanente del bene che lo segue perciò nei suoi successivi passaggi di proprietà; interpretando invece la norma come rivolta esclusivamente al trasgressore, ne sarebbe peraltro agevole la vanificazione, essendo a tal fine sufficiente che il trasgressore ceda ad altri la proprietà dell’immobile subito dopo il compimento dell’abuso che lo ha danneggiato sotto il profilo ambientale.
Ne consegue che è tenuto a subire le conseguenze della condotta contraria alle norme di tutela del paesaggio non solo l'autore materiale dell’illecito ma, se diverso, anche l'attuale proprietario del bene.

La sig.ra C.S. ha proposto ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avverso la determinazione n. 01/13956/22 dell’08.11.2001, con cui il Dirigente dell’Ufficio condono edilizio del Comune di Firenze ha imposto alla ricorrente la corresponsione della soma di cui all’art. 15 legge n. 1497/1939 (successivamente trasfuso -con modifiche- nell’art. 164 del d.lgs. n. 490/1999).
...
Il Collegio ritiene che i prospettati motivi non possano trovare accoglimento.
In relazione al primo, si osserva che l’immobile sito in via ... n. 27 ricade nel Comune di Firenze che è territorio vincolato ai sensi della l. n. 1497/1939, giusta D.M. del 05.11.1951 e, che il vincolo ex art. 15, della legge ora citata non fa riferimento al singolo immobile ma all’area su cui esso insiste. Pertanto, privo di pregio risulta la censura secondo cui l’edificio di via G.B. Gelli n. 27 non sarebbe sottoposto alle disposizioni di cui alla l. n. 1497/1939.
In relazione al secondo, la ricorrente lamenta che non essendo autore materiale dell’illecito -commesso dal costruttore- l’Amministrazione erroneamente le avrebbe irrogato la sanzione pecuniaria di cui all'art. 15, l. 29.06.1939, n. 1497.
Merita di essere premesso che l'art. 15, comma 1, della legge 29.06.1939, n. 1497, così disponeva: «Indipendentemente dalle sanzioni comminate dal codice penale, chi non ottempera agli obblighi e agli ordini di cui alla presente legge è tenuto, secondo che il Ministero dell'educazione nazionale ritenga più opportuno, nell'interesse della protezione delle bellezze naturali e panoramiche, alla demolizione a proprie spese delle opere abusivamente eseguite o al pagamento di una indennità equivalente alla maggiore somma tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la commessa trasgressione».
Il successivo art. 164, comma 1, del d.lgs. n. 490/1999 prevedeva che «In caso di violazione degli obblighi e degli ordini previsti da questo Titolo, il trasgressore è tenuto, secondo che la regione ritenga più opportuno, nell'interesse della protezione dei beni indicati nell'art. 138, alla rimessione in pristino a proprie spese o al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. La somma è determinata previa perizia di stima» (dall’analisi del dettato normativo emerge che mentre l’abrogato art. 15 della legge n. 1497/1939 riportava l'espressione “pagamento di un’indennità”, il d.lgs. n. 490/1999, così come il recente art. 167 del d.lgs. 22/01/2004, n. 42 recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio, utilizza la locuzione “pagamento di una somma”).
La censura prospettata dalla ricorrente evoca la tesi -ampiamente esaminata in giurisprudenza- secondo cui le sanzioni di carattere punitivo si applicano solo a colui che ha commesso l'abuso, ovvero al responsabile dell'illecito e non a chi si trovi, casualmente, in una data relazione giuridica con la cosa, nella fattispecie in qualità di attuale proprietario dell'immobile. La tesi in esame si basa sulla natura afflittiva - punitiva della sanzione amministrativa di che trattasi (natura che è stata affermata nella decisione del Cons. Stato, sez. IV, 02.06.2000, n. 3184).
L'assunto non può essere condiviso.
La sanzione de qua (in quanto di sanzione amministrativa si tratta, e non di una forma di risarcimento del danno: cfr. Cons. Stato, sez. IV, 04.02.2004 n. 395) non ha carattere afflittivo-punitivo bensì assolve ad un ruolo solo reintegratorio-riparatorio.
Invero, la sanzione della cui applicazione si tratta, ha carattere alternativo alla demolizione. Attesa la natura oggettivamente riparatoria della demolizione, essendo posta a tutela dell'interesse pubblico alla non alterazione del mondo fisico, essa è sempre applicabile indipendentemente dal titolo di proprietà, di possesso, di detenzione, essendo conforme all'ordinamento che una costruzione abusiva, che altera l'assetto del territorio, venga demolita, chiunque ne sia il proprietario o l'occupante. La demolizione, investendo il bene, finisce per cadere su chiunque abbia una relazione con esso. Orbene, laddove la misura patrimoniale sia diretta a riparare l'ordinamento per la lesione ad esso arrecata dal medesimo bene lo stesso principio vale anche per essa. Infatti, stante il parallelismo esistente con la demolizione, anche la misura patrimoniale, sia pure non in forma specifica ma solo per equivalente, appare preordinata ad assicurare la riparazione della lesione arrecata all'ordinamento.
La sanzione pecuniaria, pertanto, non ha natura punitiva, non essendo volta a colpire direttamente, in funzione afflittiva, l'autore dell'abuso. Detta sanzione ha, invece, natura ripristinatoria dell'ordine giuridico violato. La circostanza che la sanzione in questione venga applicata nei confronti di un soggetto (il quale al momento dell'irrogazione goda dei benefici derivanti dall'utilizzazione della costruzione abusiva) diverso dall'effettivo responsabile dell'abuso, certamente inammissibile in caso di sanzione amministrativa di natura afflittiva-punitiva, non rileva nella fattispecie, attesa la diversa natura (ripristinatoria, si ribadisce) della sanzione applicata. La sanzione è, dunque, collegata alla realizzazione, senza la previa autorizzazione, di un intervento di costruzione o di modificazione di un determinato immobile in un contesto vincolato; essa ha pertanto natura reale (le sanzioni ripristinatorie o sostitutive, infatti, tendono a realizzare direttamente l’interesse pubblico di settore leso dall’atto illecito), in quanto la condotta sanzionata è produttiva di effetti reali, consistenti in un intervento edificatorio o in un intervento costruttivo, comunque non autorizzato (produttivo o meno di effettivo danno ambientale).
Si ricordi che autorevole dottrina ha sostenuto che le sanzioni pecuniarie possono inquadrarsi nel campo delle sanzioni in senso ampio quando sono meramente alternative alla riduzione in pristino e mirano a costituire una sorta di indennizzo o di compensazione dello status quo, onde risarcire per equivalente, anziché in forma specifica, l'interesse pubblico leso dalla trasgressione. Ciò vale, in particolare, per le sanzioni previste dalla legislazione urbanistica e di tutela paesistica e storico-artistica che partecipano della stessa natura delle misure ripristinatorie cui sono strettamente collegate in regime di alternatività; di conseguenza, esse soggiacciono alla medesima disciplina in tema di requisiti del soggetto passivo, di imprescrittibilità, di retroatttività, di giurisdizione.
Tali sanzioni si differenziano dalle sanzioni pecuniarie in senso stretto, che hanno natura eminentemente afflittiva, in quanto le prime, diversamente dalle seconde, prescindono totalmente dalla valutazione dei requisiti soggettivi del trasgressore (ed invero, la funzione di reintegrazione della legalità violata svolta dalla sanzione pecuniaria nella fattispecie che ci occupa è da intendersi in termini oggettivi, sicché è ad essa indifferente che a sopportare le conseguenze della reazione pubblica all'abuso sia l'originario proprietario od un suo avente causa potendosi applicare anche a carico di chi non abbia compiuto la violazione), possono colpire persone giuridiche, di regola sono imprescrittibili (anche se la giurisprudenza ha mitigato tale connotazione richiedendo a volte la sussistenza di un interesse pubblico attuale alla loro applicazione), possono avere carattere retroattivo (sia pure nei limiti di ragionevolezza richiesti dalla giurisprudenza costituzionale).
Il Collegio, conclusivamente, ritiene che la funzione della sanzione applicata nella fattispecie non è repressiva della condotta nell'autore dell’illecito ma ripristinatoria dei valori giuridici offesi dalla condotta illecita. L’illecito in questione deve infatti ritenersi abbia natura reale, determinando una modificazione peggiorativa e permanente del bene che lo segue perciò nei suoi successivi passaggi di proprietà; interpretando invece la norma come rivolta esclusivamente al trasgressore, ne sarebbe peraltro agevole la vanificazione, essendo a tal fine sufficiente che il trasgressore ceda ad altri la proprietà dell’immobile subito dopo il compimento dell’abuso che lo ha danneggiato sotto il profilo ambientale.
Ne consegue che è tenuto a subire le conseguenze della condotta contraria alle norme di tutela del paesaggio non solo l'autore materiale dell’illecito ma, se diverso, anche l'attuale proprietario del bene (cfr. per una recente applicazione Cons. Stato, sez. V, 13.07.2006, n. 4420) (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 18.04.2007 n. 5028 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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EDILIZIA PRIVATACertificazione energetica, arrivano le nuove regole per l’APE! Tutto quello che c’è da sapere nello Speciale di BibLus-net.
Arrivano le nuove regole per la certificazione energetica: tutte le informazioni da sapere e un’anteprima del nuovo APE nello Speciale di BibLus-net.
Ci siamo quasi: stanno per cambiare ancora una volta le regole per la certificazione energetica.
E stavolta i cambiamenti saranno notevoli, a partire dal nuovo modello di APE fino ai nuovi requisiti minimi che dovranno possedere gli edifici.
Ricordiamo che già il 2 ottobre dello scorso anno, il calcolo delle prestazioni energetiche ha subito un grosso cambiamento grazie alle nuove UNI TS 11300, parte 1 e 2.
Ora stanno per essere pubblicati i nuovi decreti attuativi previsti dalla legge 90/2013 (di conversione del D.L. 63/2013) che ha modificato il decreto legislativo n. 192/2005 in attuazione della direttiva dell’Unione europea sugli edifici a energia quasi zero (direttiva 2010/31/UE).
Nello specifico stiamo parlando di:
- decreto requisiti minimi, già approvato il 25 marzo dalla Conferenza unificata
- nuove linee guida per l’attestazione della prestazione energetica degli edifici
Il nuovo APE avrà dunque un volto completamente nuovo e sono previsti nuovi standard minimi di prestazione energetica che gli edifici di nuova costruzione e quelli ristrutturati dovranno raggiungere per rispettare le disposizioni della Direttiva sugli edifici a energia quasi zero.
In questo articolo proponiamo ai lettori di BibLus-net un nuovo Speciale in cui si cerca di far luce sulle novità dei 2 nuovi dispositivi normativi che cambieranno profondamente le regole della certificazione energetica (molto probabilmente) già dal primo luglio del 2015.
Gli argomenti trattati sono:
- quadro normativo, dalla legge 10 alla legge 90
- norme UNI TS 11300
- nuovo decreto requisiti minimi
- nuove linee guida
E’ presente anche una descrizione con le immagini che avrà il nuovo APE (02.04.2015 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROSicurezza cantieri, la guida pratica per il lavoratore autonomo.
Sicurezza sui cantieri per i lavoratori autonomi, ecco il vademecum dell’Inail da scaricare.
I lavoratori autonomi sono esposti agli stessi pericoli per la salute e la sicurezza dei lavoratori dipendenti, ma il rischio di infortuni con lesioni invalidanti o mortali è doppio rispetto a tutte le altre categorie di lavoratori.
Il testo unico sulla sicurezza (D.Lgs. 81/2008) all’art. 21 prevede che anche i lavoratori autonomi, al fine di operare in sicurezza, rispettino precisi obblighi normativi, come ad esempio utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro e munirsi di dispositivi di protezione individuali e di tessera di riconoscimento (con l’indicazione del committente).
Al riguardo segnaliamo la guida Inail “Lavoratori autonomi” contenente indicazioni sulla sicurezza dei lavoratori autonomi in edilizia.
Il documento effettua l’analisi dei 4 principali rischi a cui sono esposti i lavoratori autonomi durante la loro attività lavorativa:
- rischio elettrico
- rischio di caduta dall’alto
- rischio seppellimento
- rischio legato all’uso non corretto delle attrezzature
Vengono fornite le indicazioni su cosa fare e cosa non fare nelle attività lavorative in cantiere, con le definizioni di lavoratore autonomo, subordinato ed impresa individuale.
Infine, sono riportati tutti i casi di autonomia che risultano regolari e le sanzioni previste per l’utilizzo improprio dei lavoratori autonomi da parte dell’impresa (02.04.2015 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 14 del 02.04.2015, "Disciplina regionale dei servizi di polizia locale e promozione di politiche integrate di sicurezza urbana" (L.R. 01.04.2015 n. 6).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 14 dell'01.04.2015, "Indirizzi applicativi della l.r. 28.11.2014, n. 31 «Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato»" (comunicato regionale 25.03.2015 n. 50).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 14 del 31.03.2015, "Istituzione del registro delle Unioni di Comuni lombarde ai sensi dell’art. 20-bis della legge regionale n. 19 del 27.06.2008 «Riordino delle Comunità Montane della Lombardia, disciplina delle Unioni di Comuni lombarde e sostegno all’esercizio associato di funzioni e servizi comunali» e approvazione delle modalità di iscrizione e cancellazione" (deliberazione G.R. 27.03.2015 n. 3304).

LAVORI PUBBLICI: Linee guida per la verifica di assoggettabilità a valutazione di impatto ambientale dei progetti di competenza delle regioni e delle province autonome (Allegato IV alla Parte Seconda del D.Lgs. 152/2006) (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 30.03.2015 n. 52).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 26.03.2015 n. 71, suppl. ord. n. 16, "Linee guida di indirizzo per la tutela dell’ambiente acquatico e dell’acqua potabile e per la riduzione dell’uso di prodotti fitosanitari e dei relativi rischi nei Siti Natura 2000 e nelle aree naturali protette" (Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, decreto 10.03.2015).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 25.03.2015 n. 70 "Aggiornamento della regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, la costruzione e l’esercizio delle strutture sanitarie pubbliche e private di cui al decreto 18.09.2002" (Ministero dell'Interno, decreto 19.03.2015).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

PUBBLICO IMPIEGO: R. Pallotta, DDL anticorruzione, dipendenti pubblici corrotti: nuove responsabilità (02.04.2015 - tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto: ALCUNE NOTE SULLA RECENTE LEGGE REGIONALE N. 31 DEL 2014 IN MATERIA DI RIDUZIONE DEL CONSUMO DI SUOLO E DI RINNOVO URBANISTICO, CON PARTICOLARE RIGUARDO ALLA NORMA TRANSITORIA (Consulta Regionale Lombarda degli Ordini degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori, nota 18.03.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: L. Ventrella e M. Zaccheo, Il reato di “concussione mediante induzione” alla luce delle novità normative introdotte dalla legge 190/2012. Prime applicazioni giurisprudenziali in sede di merito e di legittimità dell’art. 319-quater c.p. (TRIBUNALE DI ROMA, SEZIONE DEI GIUDICI PER LE INDAGINI PRELIMINARI, SENTENZA 16.04.2013 N. 138) (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2014).
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SOMMARIO: 1. Premessa: la vicenda fattuale della sentenza GUP del Tribunale di Roma n. 138/13 del 16.04.2013 - 2. Originaria formulazione dell'art. 317 c.p.: le condotte di costrizione e di induzione - 3. Novità legislative: la legge n. 190 del 2012 (cd. Legge Severino) - 4. Prime interpretazioni giurisprudenziali della Cassazione post 190/2012: sentenza Nardi - 5. (segue) Sentenza Roscia - 6. (segue) Sentenza Melfi - 7. Cass. Sez. Un. 14.03.2014 n. 12228 - 8. Sentenza GUP in commento.

PUBBLICO IMPIEGO: L. Raineri, Mansioni nel pubblico impiego: assegnazione, svolgimento di fatto di mansioni superiori e demansionamento (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2014).
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SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Evoluzione storico-normativa del rapporto di pubblico impiego e della disciplina delle mansioni nel rapporto di pubblico impiego - 3. Assegnazione di mansioni nel pubblico impiego e lo ius variandi del datore di lavoro pubblico nell’attuale sistema normativo - 3.1 Assegnazione di diritto di mansioni superiori - 4. Assegnazioni di fatto di mansioni superiori - 4.1 L’orientamento della giurisprudenza amministrativa, costituzionale e civile in tema di svolgimento di fatto di mansioni superiori da parte del pubblico dipendente - 5. Demansionamento - 6. Sindacato del Giudice del lavoro e onere della prova delle parti.

APPALTI: R. Benvenuti, La figura del responsabile unico del procedimento ai sensi del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 “Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE. Prime riflessioni a seguito dell’entrata in vigore del D.P.R. 05.10.2010, n. 207 “Regolamento di esecuzione ed attuazione del d.lgs. 12.04.2006, n. 163” (maggio 2011 - tratto da www.regione.lazio.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Piano Regionale Amianto Lombardia (P.R.A.L.) (ASL di Bergamo, nota 01.04.2015 n. 38941 di prot.)

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: trasmissione comunicazione relativa al "Regolamento locale di igiene tipo" D.G.R. 49784/1985 (Regione Lombardia, Direzione Generale Ambiente, Energia e Sviluppo Sostenibile, nota 01.04.2015 n. 16939 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Aggiornamenti sul SISTRI (ANCE di Bergamo, circolare 27.03.2015 n. 79).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Chiarimenti sul trasporto dei materiali da scavi gestiti ai sensi del D.M. 161/2012 (ANCE di Bergamo, circolare 27.03.2015 n. 78).

TRIBUTI: OGGETTO: Tributo per i servizi indivisibili (TASI). Modello di dichiarazione. Applicazione delle disposizioni concernenti l’approvazione del modello di dichiarazione relativo all’imposta municipale propria (Ministero dell'Economia e delle Finanze, risoluzione 25.03.2015 n. 3/DF).

SEGRETARI COMUNALI: Oggetto: Segretari comunali - iscrizione fascia professionale 'B' - Trattamento economico. Integrazione (Ministero dell'Interno, Albo nazionale dei Segretari comunali e provinciali, nota 24.03.2015 n. 486 di prot.).

SEGRETARI COMUNALI: Oggetto: Convenzioni per l'ufficio di segreteria (Ministero dell'Interno, Albo nazionale dei Segretari comunali e provinciali, nota 24.03.2015 n. 485 di prot.).

APPALTI SERVIZI: Classificazione più appropriata per la gestione del verde pubblico, nell'alternativa fra servizio pubblico locale e attività strumentale ancillare ad un servizio pubblico principale (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Comitato per lo Sviluppo del Verde Pubblico, deliberazione 19.03.2015 n. 6/2015).

PATRIMONIO - TRIBUTI: Sulla portata dell'art. 24 della legge 11.11.2014 n. 164 (di conversione del d.l. 11.09.2014 n. 133) che dispone: "Art. 24. Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio
1. I comuni possono definire con apposita delibera i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli o associati, purché individuati in relazione al territorio da riqualificare. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l'abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. In relazione alla tipologia dei predetti interventi, i comuni possono deliberare riduzioni o esenzioni di tributi inerenti al tipo di attività posta in essere. L'esenzione è concessa per un periodo limitato e definito, per specifici tributi e per attività individuate dai comuni, in ragione dell'esercizio sussidiario dell'attività posta in essere. Tali riduzioni sono concesse prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute.
" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Comitato per lo Sviluppo del Verde Pubblico, deliberazione 23.02.2015 n. 5/2015).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONEProgettisti, irretroattivo il tetto agli incentivi. La sezione autonomie della Corte conti risolve la querelle.
La nuova disciplina sugli incentivi alla progettazione a favore dei tecnici delle pubbliche amministrazioni si applica con riguardo al momento in cui l'attività viene svolta: se essa è successiva al 19.08.2014 si applicano le nuove regole e il tetto massimo di incentivo che può ricevere il dipendente pubblico (50% del trattamento economico annuo lordo) riguarda tutti gli incentivi, anche corrisposti da altre amministrazioni, e non soltanto quello previsto per la progettazione.

È quanto afferma la deliberazione 24.03.2015 n. 11 della Corte dei conti, sezione delle autonomie, che risolve una delicata questione di diritto transitorio relativa al passaggio dalla vecchia (art. 92, comma 5, del dlgs 163/2006), alla nuova disciplina in materia di riparto del fondo per la progettazione (art. 93, comma 7-ter introdotto dal decreto-legge n. 90/2014).
Il punto esaminato riguardava l'applicabilità del limite imposto ex novo dall'art. 13-bis del decreto (non superare il 50% del trattamento economico complessivo annuo lordo spettante al singolo dipendente) soltanto ai pagamenti di incentivi riferiti a prestazioni rese anteriormente al 19.08.2014 (data di entrata in vigore del decreto 90), ma non ancora liquidate, ovvero anche a lavori e opere portate a compimento dopo tale data.
Sul punto la sezione della regione Liguria e Emilia-Romagna si erano espresse nel senso che la cesura fra la vecchia e la nuova normativa fosse da rinvenire nel momento in cui le attività vengono svolte; la sezione della Lombardia invece aveva fatto riferimento al momento in cui le attività vengono remunerate, la sezione della Basilicata al momento in cui gli atti sono approvati.
La delibera n. 11 preliminarmente ricostruisce gli elementi innovativi della nuova disciplina sottolineando, fra le altre cose, che una delle novità desumibile dall'articolo 13-bis del decreto 90 riguarda il tetto massimo dell'incentivo attribuibile a ogni tecnico (50 per cento del trattamento economico annuo lordo): prima era riferito al singolo incentivo di cui al riformulato articolo 92 del codice dei contratti pubblici, adesso è da rapportare a tutti gli incentivi ricevuti nel corso dell'anno, anche da diverse amministrazioni.
Nel merito della questione sottoposta, la sezione delle autonomie chiarisce che occorre fare riferimento al principio dell'irretroattività della legge da applicare alla nuova disciplina dell'incentivo, che ha carattere innovativo e non interpretativo. In particolare i magistrati contabili spiegano che le disposizioni recate dall'art. 93, comma 7-ter «non possono essere considerate disposizioni di interpretazione autentica e pertanto non sono applicabili retroattivamente»; se fossero interpretate in modo retroattivo, infatti, «verrebbero ad incidere su posizioni giuridiche in atto, senza che tale retroattività trovi giustificazione ragionevole, ponendosi, anzi, in contrasto con il principio generale di eguaglianza e con l'affidamento legittimamente sorto negli interessati».
Ciò detto, la Corte afferma che è il momento in cui viene svolta la prestazione incentivata che, sulla scorta della giurisprudenza prevalente, deve costituire riferimento imprescindibile per legittimare la corresponsione dell'incentivo e fissarne, in maniera intangibile, la misura (articolo ItaliaOggi del 28.03.2015).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: L’obbligo di non superare nella corresponsione di incentivi al singolo dipendente, nel corso dell’anno, l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo, è applicabile al pagamento degli incentivi dovuti per attività tecnico-professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma a far data dall’entrata in vigore della legge di conversione del d.l. 24.06.2014, n. 90.
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Con deliberazione 22.12.2014 n. 75, la Sezione regionale di controllo per la Liguria, in esito alla richiesta di parere formulata, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge n. 131/2003, dal Sindaco del Comune di Genova -per il tramite del competente Consiglio delle Autonomie locali- ha sospeso il giudizio, rimettendo gli atti al Presidente della Corte dei conti, per il deferimento della questione alle Sezioni Riunite, ai sensi dell’art. 17, comma 31, del d.l. n. 78/2009, ovvero alla Sezione delle autonomie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge 07.12.2012, n. 213, come da ultimo modificato dall’art. 33, comma 2, del d.l. 24.06.2014, n. 91 convertito dalla legge n. 116/2014.
La richiesta del Comune era tesa a conoscere l’avviso della Sezione Liguria in merito alla corretta interpretazione del comma 7-ter dell’art. 93 del d.lgs. 12.04.2006, n.163, come modificato dall’art. 13-bis del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla legge n. 114/2014, in materia di riparto del fondo per la progettazione e l’innovazione.
Nello specifico il Comune istante ha sottoposto alla Sezione Liguria quattro quesiti riguardanti la disciplina intertemporale degli incentivi alla progettazione risultante a seguito dell’entrata in vigore della citata legge n. 114/2014.
I quesiti riguardavano in particolare:
1) la possibilità per l’Amministrazione, in ossequio al principio di irretroattività delle leggi, nonché al principio di competenza, di liquidare ad oggi, secondo la precedente disciplina, gli incentivi riferiti a lavori ed opere portate a compimento –compresa la fase di collaudo– prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. n. 90/2014 (19.08.2014);
2) le modalità di liquidazione dell’incentivo nel caso di lavori ed opere iniziate prima dall’anzidetta data e portate a compimento successivamente;
3) l’operatività, a decorrere dal 19.08.2014, dell’esclusione dal novero dei beneficiari degli incentivi alla progettazione del personale con qualifica dirigenziale;
4) l’applicabilità del limite imposto ex novo dall’art. 13-bis di non superare il 50% del trattamento economico complessivo annuo lordo spettante al singolo dipendente solo per i pagamenti di incentivi riferiti a prestazioni rese anteriormente alla predetta data, ma non ancora liquidate, ovvero anche a lavori ed opere portate a compimento prima del 19.08.2014.
La Sezione remittente, con parere 16.12.2014 n. 73, ha fornito risposta ai primi tre quesiti formulati dal Comune di Genova, mentre, per quanto riguarda il quarto quesito, con successiva deliberazione 22.12.2014 n. 75, ha deciso di sospendere la pronuncia e di sottoporre al Presidente della Corte dei conti la valutazione circa l’opportunità di deferire alle Sezioni Riunite ovvero alla Sezione delle autonomie la soluzione della prospettata questione di massima.
La rimessione è stata motivata dalla Sezione Liguria in virtù della necessità di trovare un indirizzo interpretativo univoco per le disposizioni recate dall’art. 93, comma 7-ter, del codice degli appalti, ed in particolare per quelle relative al limite del 50 per cento del compenso annuo lordo, in merito alle quali si è evidenziato un contrasto fra la soluzione adottata dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia (cfr.
parere 13.11.2014 n. 300) e quella adottata dalla Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna (cfr. Romagna parere 19.09.2014 n. 183).
Nell’anzidetto
parere 13.11.2014 n. 300, la Sezione Lombardia, in esito alla richiesta di parere formulata dalla Provincia di Mantova su quesiti analoghi a quelli oggetto del parere 16.12.2014 n. 73 della Sezione remittente, si è espressa in merito alla disciplina intertemporale, ritenendo che la cesura fra la vecchia e la nuova normativa trovi applicazione solo con riferimento alle attività poste in essere successivamente all’entrata in vigore del d.l. n. 90/2014.
A sostegno della soluzione interpretativa adottata, la Sezione Lombardia ha richiamato la deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG
della Sezione delle autonomie, poiché la stessa aveva affrontato le problematiche connesse alla precedente riformulazione della disciplina dell’incentivo alla progettazione, di cui all’art. 92, comma 5, nonché alla riduzione introdotta dall’art. 18, comma 4-sexies, del d.l. n. 185/2008, convertito dalla legge n. 2/2009.
Nella citata delibera la Sezione delle autonomie ha posto un punto fermo al quale ha fatto riferimento tutta la giurisprudenza contabile successiva e cioè che il diritto al compenso nasce nel momento del compimento dell’attività di progettazione e che eventuali disposizioni riduttive, successivamente intervenute, non hanno alcuna efficacia retroattiva, poiché la misura dell’incentivo spettante deve calcolarsi in base alla normativa vigente al momento del compimento delle specifiche attività.
Per quanto riguarda il limite nell’erogazione degli incentivi alla progettazione, rappresentato dal 50 per cento del compenso annuo lordo complessivo spettante a ciascun dipendente, la Sezione Lombardia ha ritenuto che le specifiche disposizioni debbano essere interpretate sulla base del criterio letterale, grazie al chiaro riferimento al momento della corresponsione effettuato dalla norma. Riferimento che non condiziona, secondo la Sezione, la possibilità di erogare l’incentivo, ma si limita a determinarne l’ammontare massimo.
La Sezione Liguria, in considerazione del descritto contrasto interpretativo, rilevante non soltanto per l’attività consultiva ma anche per l’attività di controllo, ha sospeso la decisione e rimesso, con la citata deliberazione 22.12.2014 n. 75, la questione alla valutazione del Presidente della Corte dei conti.
Il Presidente della Corte dei conti, con l’ordinanza n. 7 del giorno 04.02.2015, ha deferito la questione alla Sezione delle autonomie, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012.
...
   2. Per quanto riguarda il merito occorre premettere che la disciplina in materia di riparto del fondo per l’incentivazione per la progettazione interna è stata riformulata ad opera degli artt. 13 e 13-bis del d.l. 24.06.2014, n. 90, convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114.
La prima delle due disposizioni ha abrogato i commi 5 e 6 dell’art. 92 del codice dei contratti, concernenti rispettivamente la disciplina degli incentivi alla progettazione di opere o lavori e la redazione di un atto di pianificazione comunque denominato.
Il successivo art. 13-bis, inserito in fase di conversione in legge, ha introdotto nel testo dell’art. 93, dopo il comma 7, i commi dal 7-bis al 7-quinquies. In particolare, il comma 7-ter è intervenuto ad individuare i criteri in base ai quali il fondo deve essere ripartito, stabilendo, fra l’altro, che gli incentivi, complessivamente corrisposti nel corso dell’anno al singolo dipendente, anche da amministrazioni diverse, non possano superare l’importo del 50 per cento del trattamento complessivo annuo lordo.
Le novelle introdotte dall’art. 13-bis, entrate in vigore, ai sensi dell’art. 15, comma 5, della legge 23.08.1988, n. 400, in quanto apportate in sede di conversione del decreto, dalla data di pubblicazione della legge n. 114/2014, hanno profondamente innovato la disciplina in esame sotto diversi aspetti.
In primo luogo, la provvista per l’erogazione degli incentivi non è più legata alla singola opera, in quanto le risorse destinate, che continuano ad essere pari ad un massimo del 2% degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro, vengono fatte confluire, ora, in un fondo denominato fondo per la progettazione e l’innovazione. Inoltre, le risorse del fondo sono destinate per l’80% a remunerare l’attività di progettazione, mentre il restante 20% deve essere destinato da parte degli enti all’acquisto di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, nonché di implementazione di banche dati per il controllo ed il miglioramento della capacità di spesa.
E’ stata introdotta, altresì, una disciplina più puntuale dei criteri di riparto delle risorse del fondo, con rinvio alla sede della contrattazione decentrata integrativa e ad uno specifico regolamento comunale da adottarsi in materia. Ciò allo scopo di graduare l’incentivo in base, da una parte, alle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, dall’altra parte, alla complessità dell’opera ed all’effettivo rispetto, nel corso della realizzazione della stessa, dei costi e dei tempi stabiliti in fase di progetto.
Ulteriore novità introdotta è quella riguardante il metodo di calcolo dell’ammontare massimo dell’incentivo attribuibile ad uno stesso dipendente, non più con riferimento al singolo incentivo, che secondo il vecchio sistema (comma 5, dell’art. 92 ora abrogato dall’art. 13-bis del d.l. n. 90/2014) non poteva superare l’importo del rispettivo trattamento economico annuo lordo, ma con riferimento ad un tetto complessivo annuo, che somma tutti gli incentivi attribuiti ad uno stesso dipendente nel corso dell’anno anche da diverse amministrazioni e che, complessivamente, non deve superare il 50 per cento del trattamento economico annuo lordo di quel dipendente. Infine, la nuova disciplina non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
   3. Il contrasto interpretativo evidenziato dalla Sezione remittente, con riferimento alla disciplina intertemporale dell’incentivazione alla progettazione interna, origina dall’assenza di una specifica disposizione che regolamenti la fase di passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina in materia di riparto del fondo per la progettazione. Ciò a differenza di quanto accaduto, ad esempio, in materia di abrogazione dei diritti di rogito del segretario comunale, giacché, in tal caso, il legislatore ha previsto espressamente, in sede di conversione in legge del d.l. 24.06.2014, n. 90, l’aggiunta all’art. 10 di un comma specifico, il 2-ter, in forza del quale le novelle introdotte non si applicano per le quote già maturate alla data di entrata in vigore dello stesso decreto.
Tale contrasto interpretativo è emerso, come ricostruito nella parte in fatto, nell’ambito dell’attività consultiva delle Sezioni regionali di controllo, dal confronto fra la soluzione adottata con riferimento al dettato del comma 7-ter dell’art. 93 del codice dei contratti dalla Sezione Liguria e la soluzione ermeneutica prescelta dalla Sezione Lombardia.
La Sezione remittente, analogamente alla Sezione Emilia Romagna (parere 19.09.2014 n. 183) ha ritenuto che l’obbligo di non superare l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo sia applicabile solo per il pagamento degli incentivi riferiti ad attività tecnico-professionali espletate da dipendenti dopo il 19.08.2014. La Sezione Lombardia (
parere 13.11.2014 n. 300), diversamente argomentando, ha stabilito che il computo del limite del 50 per cento vada applicato anche alle attività svolte in precedenza, ma non ancora liquidate, dovendosi avere riguardo al momento della corresponsione dell’incentivo.
Nel solco dell’interpretazione seguita dalle Sezioni Emilia Romagna e Liguria si colloca anche la recente deliberazione della Sezione di controllo per la Basilicata (parere 12.02.2015 n. 3).
La soluzione ermeneutica proposta da quest’ultima Sezione presenta caratteri peculiari, in quanto, pur partendo dallo stesso presupposto, che è quello del tempus regit actum (la disciplina di ciascun fatto va ricercata nella normativa del tempo in cui esso si verifica), sposta la linea di demarcazione individuata fra la vecchia e la nuova regolamentazione della materia.
Tale cesura non sarebbe, a parere della Sezione Basilicata, da ricercarsi nel momento in cui l’attività incentivata viene compiuta (tesi sostenuta dalla Sezione remittente e dalla Sezione Emilia Romagna sulla scorta dell’approdo ermeneutico della deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG della Sezione delle autonomie) e neppure nel momento in cui la prestazione resa viene remunerata (tesi della Sezione Lombardia), bensì nel momento in cui l’opera o il lavoro sono approvati ed inseriti nei documenti di programmazione vigenti nell’esercizio di riferimento.
   4. Il fondamento della tesi sostenuta dalla Sezione remittente e dalla Sezione di controllo per l’Emilia Romagna è l’irretroattività della legge ed, in particolare, delle disposizioni recate dall’art. 93, comma 7-ter, come introdotto dall’art. 13-bis della legge di conversione del d.l. n. 90/2014, che non possono essere considerate disposizioni di interpretazione autentica e pertanto non sono applicabili retroattivamente.
Infatti, come precisato dalla giurisprudenza costituzionale, pur riconoscendosi l’importanza dell’intervento del legislatore, attuato attraverso leggi di interpretazione autentica, da considerarsi quale modalità per sopperire a lacune o errori nella formazione delle leggi, tuttavia, una legge, per essere riconosciuta quale norma interpretativa, deve limitarsi ad assegnare alle disposizioni interpretate un significato in esse già contenuto, individuabile come una delle possibili letture del testo originario.
Sul punto, si ritiene di richiamare quanto chiarito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 236 del 2009, in cui si estende il campo della retroattività ad altre tipologie di leggi, che non siano necessariamente di interpretazione autentica e per le quali il Giudice delle leggi considera presupposto indefettibile che esse trovino giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrastino con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti, tra cui l’affidamento legittimamente sorto, quale principio connaturato allo Stato di diritto.
Nel caso di specie le norme in esame, oltre ad avere carattere innovativo, verrebbero, ove interpretate in modo retroattivo, ad incidere su posizioni giuridiche in atto, senza che tale retroattività trovi giustificazione ragionevole, ponendosi, anzi, in contrasto con il principio generale di eguaglianza e con l’affidamento legittimamente sorto negli interessati.
Le stesse, pertanto, devono, nella fattispecie, essere applicate alla luce del principio di irretroattività della norma. Principio che, sebbene in materia civile non sia mai assurto a rango costituzionale, come accaduto, invece, in materia penale con l’art. 25 della Costituzione (che statuisce che nessuno possa essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso), tuttavia, rappresenta un cardine del nostro ordinamento giuridico, nonché fondamento dello Stato di diritto e conditio sine qua non della certezza del diritto stesso, a mente di quanto disposto dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale.
   5. Il fondamento della tesi contraria sostenuta dalla Sezione Lombardia (
parere 13.11.2014 n. 300), con riferimento esclusivo all’interpretazione delle disposizioni, contenute anch’esse nell’art. 93, comma 7-ter, del d.lgs. n. 163/2006, è rappresentato dal tenore testuale delle stesse, che fanno riferimento espressamente al momento della corresponsione degli incentivi al dipendente, individuandone un tetto massimo rappresentato dal 50 per cento del trattamento economico complessivo lordo annuo.
Pertanto, solo al momento dell’erogazione andrebbe riferita l’applicazione della disciplina, così come modificata da ultimo dalla legge n. 114/2014; il computo del 50 per cento atterrebbe solo ed unicamente alla fase della liquidazione, alla quale, evidentemente, i comuni istanti non erano ancora pervenuti al momento dell’entrata in vigore delle disposizioni in esame.
   6. La soluzione prospettata dalla Sezione Basilicata, collocandosi anch’essa nell’alveo della tesi dell’irretroattività della norma e del criterio del tempus regit actum, concorre, con ricchezza di argomentazioni, a completare la ricostruzione del quadro ermeneutico prospettato, fornendo un ulteriore punto di vista a sostegno della tesi maggioritaria.
L’approdo ermeneutico al quale è pervenuta l’anzidetta Sezione, che individua nel momento dell’approvazione dell’opera il riferimento temporale per la scelta della disciplina da applicare al caso di specie, prescinde dal momento in cui le prestazioni incentivate siano state in concreto poste in essere. Momento che, sulla scorta della giurisprudenza prevalente si ritiene debba, invece, costituire riferimento imprescindibile per legittimare la corresponsione dell’incentivo e fissarne, in maniera intangibile, la misura.
   7. Conclusivamente, premesso quanto sopra, si ritiene che la questione di diritto intertemporale, posta dalla Sezione remittente, possa essere risolta, alla stregua degli altri quesiti formulati dal Comune di Genova in merito alla disciplina della fase di passaggio fra il vecchio ed il nuovo sistema di riparto del fondo per la progettazione e l’innovazione, facendo ricorso all’anzidetto principio di irretroattività della norma, da cui discende, alla luce della giurisprudenza costituzionale, la considerazione che la disposizione retroattiva, specie quando determini effetti pregiudizievoli rispetto ai diritti soggettivi “perfetti” che trovino la loro base in rapporti di durata di natura contrattuale convenzionale -pubbliche o private che siano le parti contraenti– deve, comunque, essere assistita da una causa normativa adeguata, intendendosi per tale una funzione della norma che renda accettabilmente penalizzata la posizione del titolare del diritto compromesso, attraverso contropartite intrinseche allo stesso disegno normativo e che valgano a bilanciare le posizioni delle parti (Corte Cost. sentenza n. 92/2013).
Inoltre, in questa sede, non si ritiene di doversi discostare sostanzialmente da quanto affermato dalla Sezione delle autonomie nella più volte richiamata deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG. Infatti, nonostante le modifiche introdotte dal legislatore in merito alla costituzione del fondo per la progettazione ed ai criteri per la sua ripartizione, non appare, in concreto, mutata, la natura del diritto al beneficio e la corrispondenza sinallagmatica fra incentivo ed attività compensate, derivante dal riconoscimento, sancito anche dalla Suprema Corte (cfr. Cassaz. Sez. Lav. n. 13384 del 19.07.2004) della qualifica di vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva, che inerisce al rapporto di lavoro, nel cui ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere.
Il riferimento, contenuto nella disposizione in esame, al momento della corresponsione (gli incentivi complessivamente corrisposti), che privilegia l’aspetto prettamente contabile, potrebbe comportare, di fatto, il rischio di disparità di trattamento. La soluzione che fa leva esclusivamente sul momento della liquidazione risulta, peraltro, legata a tempistiche che esulano, del tutto, dalla disponibilità del beneficiario e che, specificatamente, attengono alla fase della gestione di cassa. Fase che, alla luce delle regole di contabilità ma, soprattutto, dell’esigenza di salvaguardia degli equilibri di bilancio, dovrà essere stata, presumibilmente, preceduta da una previsione autorizzatoria e da un impegno regolarmente assunto dall’ente per vincolare la spesa alla soddisfazione della corrispondente obbligazione.
Si ritiene, infine, difficile ipotizzare -alla luce del fatto che le disposizioni contenute nell’art. 13-bis del d.l. n. 90/2014 rappresentano sostanzialmente un corpo normativo unitario, essendo accomunate da un’unica ratio ispiratrice- una soluzione interpretativa, che non sia univoca e non faccia riferimento all’intero impianto normativo novellato.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie sulla questione di massima, rimessa dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria, con deliberazione 22.12.2014 n. 75, come ricostruita in parte motiva, enuncia il seguente principio di diritto: “l’obbligo di non superare nella corresponsione di incentivi al singolo dipendente, nel corso dell’anno, l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo, è applicabile al pagamento degli incentivi dovuti per attività tecnico-professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma a far data dall’entrata in vigore della legge di conversione del d.l. 24.06.2014, n. 90 (Corte dei Conti, Sez. Autonomie, deliberazione 24.03.2015 n. 11).

URBANISTICA: In merito alle modalità di determinazione da parte dei comuni del corrispettivo relativo alla cessione in proprietà delle aree comprese nei piani di edilizia economico e popolare (P.E.E.P.), già concesse in diritto di superficie, alla luce della novella recata dall’art. 1, comma 392, della legge n. 147/2013 (legge di stabilità 2014).
La disposizione di cui all’art. 31, comma 48, legge n. 448/1998, come novellata dall’art. 1, comma 392, legge n. 147/2013 deve essere intesa nel senso che, al fine della determinazione del corrispettivo per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà, è data all’Ente la facoltà di abbattere sino al 50 per cento la quota percentuale da applicarsi al valore venale del bene e, dunque, correlativamente di elevare la già prevista riduzione del 40 per cento sino al 50 per cento.
Il citato comma 392 non immuta, per il resto, l’originaria formulazione del comma 48 e, pertanto, il corrispettivo in parola dovrà, altresì, essere determinato al netto degli oneri di concessione del diritto di superficie, rivalutati sulla base della variazione, accertata dall'ISTAT, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati verificatasi tra il mese in cui sono stati versati i suddetti oneri e quello di stipula dell'atto di cessione delle aree e non può essere superiore al costo stabilito dal comune per le aree cedute direttamente in proprietà al momento della trasformazione di cui all’art. 31, comma 47, della legge n. 448/1998
”.
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- Visto il quesito posto dal Comune di Cabras (OR), in merito alle modalità di determinazione da parte dei comuni del corrispettivo relativo alla cessione in proprietà delle aree comprese nei piani di edilizia economico e popolare (P.E.E.P.), già concesse in diritto di superficie, alla luce della novella recata dall’art. 1, comma 392, della legge n. 147/2013 (legge di stabilità 2014);
- Vista il parere 06.11.2014 n. 58, con la quale la Sezione regionale di controllo per la Sardegna ha rimesso al Presidente della Corte dei conti la valutazione circa il deferimento alla Sezione delle autonomie, ai sensi del richiamato art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012, di una questione di massima in relazione alla predetta richiesta, in quanto afferente alla corretta gestione del patrimonio ed alla integrità delle entrate dei comuni;
...
   1. La questione all’esame della Sezione si inscrive nell’ambito della più generale tematica relativa alla trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà delle aree ricomprese nei piani di edilizia economica e popolare quale peculiare modulo di valorizzazione del patrimonio immobiliare dei Comuni che, già previsto dalle leggi n. 549/1995 e n. 662/1996, ha ricevuto significativo impulso per effetto della legge n. 448/1998.
Particolare rilievo assumono, in questa prospettiva, i commi da 45 a 50 dell’art. 31, che, nel consentire ai comuni di cedere in proprietà le aree comprese nei piani di edilizia economica e popolare, approvati a norma della legge 18.04.1962, n. 167 –ovvero delimitate ai sensi dell’art. 51 della legge 22.10.1971, n. 865– già concesse in diritto di superficie ai sensi dell’art. 35, quarto comma, della medesima legge n. 865/1971, hanno tratteggiato un articolato iter procedimentale, attivabile su impulso dei predetti enti, nell’ambito del quale particolare valenza assume la determinazione del corrispettivo della cessione.
A tal riguardo il comma 48, nella originaria formulazione, prevedeva che detto corrispettivo fosse calcolato dal comune, su parere del proprio ufficio tecnico, in misura pari al 60 per cento di quello determinato ai sensi dell’art. 5-bis, comma 1, d.l. 11.07.1992, n. 333, convertito con modificazioni, dalla legge 08.08.1992, n. 359 –recante criteri per la determinazione della indennità di espropriazione– al netto degli oneri di concessione del diritto di superficie, rivalutati sulla base degli indici Istat. L’intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, commi 1 e 2, del d.l. 11.07.1992, n. 333, nonché dell’art. 37, commi 1 e 2, del d.p.r. 08.06.2001, n. 327 (cfr. sentenza Corte costituzionale n. 348/2007), ha, tuttavia, comportato il venir meno del predetto parametro di riferimento e, conseguentemente, un vuoto normativo in relazione ai criteri da adottare per la determinazione del corrispettivo, solo di recente, colmato per effetto dell’art. 1, comma 392, legge di stabilità 2014 (legge n. 147/2013) che ha, in parte qua, novellato il citato art. 31, comma 48, lasciandone immutata, per il resto, l’originaria formulazione.
Nelle more del richiamato intervento normativo, sulla questione relativa al metodo di calcolo applicabile, ed ai criteri, cui aver riguardo, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, per la determinazione del corrispettivo della cessione si sono, in più occasioni, pronunciate le Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti che hanno, tuttavia, apprestato soluzioni difformi alla specifica problematica (cfr. Sezione regionale di controllo per la Lombardia, n. 1/2009 e n. 915/2009; Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna n. 49/2008; Sezione regionale di controllo per la Puglia n. 2/2009).
Di qui la successiva pronuncia resa, in funzione nomofilattica, dalle Sezioni riunite in sede di controllo (cfr. deliberazione n. 22/CONTR/2011) che sono intervenute a dirimere il predetto contrasto interpretativo, individuando nei criteri per il calcolo dell’indennità di espropriazione di cui all’art. 37, commi 1 e 2, d.p.r. n. 327/2001, come modificati dalla legge 24.12.2007, n. 244, il parametro al quale far riferimento.
Nell’occasione le Sezioni riunite, hanno, altresì, rilevato le finalità agevolative sottese alla normativa in esame evidenziando la “perdurante vigenza, nell’ordinamento, dell’impianto normativo desumibile dall’art. 31 della legge 23.12.1998, n. 448, da cui discende una disciplina tesa ad individuare un riferimento comune per gli enti interessati, nella determinazione del valore del corrispettivo in parola, anche al fine di agevolare, in maniera indifferenziata nelle diverse realtà locali, l’acquisizione in piena proprietà delle aree ivi considerate, da parte dei soggetti già titolari del diritto di superficie sulle stesse”.
Le coordinate interpretative rese dalle Sezioni riunite sono state recepite e ulteriormente esplicitate dalle Sezioni regionali di controllo laddove è stato chiarito che “la disposizione di cui all’art. 31, comma 48, della legge n. 448/1998 deve essere intesa secondo la lettera della disposizione medesima e cioè nel senso che il calcolo per la determinazione del corrispettivo per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà deve essere effettuato nella misura del 60 per cento del valore venale del bene con conseguente riduzione del 40 per cento” (cfr. Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, parere 25.07.2013 n. 258; Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 31.10.2013 n. 164).
Coerente con tali indicazioni risulta la disciplina introdotta dalla Legge di stabilità 2014 laddove il comma 392 dell’articolo unico, di fatto positivizzando i principi enucleati dalle Sezioni riunite della Corte dei conti con la richiamata deliberazione n. 22/CONTR/2011, dispone che “All’art. 31, comma 48, della legge 23.12.1998, n. 448, le parole da: ai sensi dell’art. 5-bis fino a: “riduzione prevista” dall’ultimo periodo dello stesso comma sono sostituite dalle seguenti: “attraverso il valore venale del bene, con la facoltà per il comune di abbattere tale valore fino al 50 per cento”.
Dalle indicazioni rese dalle Sezioni riunite prende, inoltre, le mosse il parere reso dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia che, chiamata ad esprimere il proprio avviso in ordine alla portata applicativa del novellato comma 48 ed in ordine ad eventuali profili restitutori da annettersi alla disciplina –di maggior favore– recata dall’art. 1, comma 392, legge di stabilità 2014, si è, incidentalmente, pronunciata anche sulle nuove modalità di calcolo del corrispettivo in parola (cfr.
parere 28.04.2014 n. 170).
Sul punto la Sezione ha, invero, evidenziato che “
alla luce del quadro normativo si deve ritenere che il comune, a far data dall’entrata in vigore della legge di stabilità 2014, possa determinare il corrispettivo in parola sulla base dei nuovi criteri di calcolo con la conseguente facoltà di abbattere fino al 50 per cento l’importo corrispondente al valore venale del bene già ridotto del 60 per cento” escludendo la possibilità per il Comune di “rideterminare, sulla base dei medesimi criteri, i corrispettivi calcolati in applicazione della normativa previgente in modo da restituire l’eventuale eccedenza ai privati”.
A conforto del proprio percorso argomentativo
la stessa Sezione ha, peraltro, rilevato come una eventuale disparità di trattamento, rispetto a fattispecie analoghe regolate sulla base della disciplina previgente, sia la mera “conseguenza di una diversa valutazione di interessi operata direttamente dal legislatore nel definire i nuovi criteri di calcolo” e come, in ogni caso, l’Ente rimanga “libero di modulare la riduzione, legislativamente rimessa alla propria discrezionalità, in modo da allineare i valori tra i  corrispettivi attuali e quelli determinati in base ai precedenti criteri”.
   2. Così ricostruito il quadro normativo ed interpretativo di riferimento la Sezione ritiene che, al fine di individuare il valore su cui operare la riduzione del 50 per cento prevista dal comma 48, nella formulazione successiva alla riscrittura operata dal più volte citato comma 392 della legge di stabilità 2014, debba aversi esclusivo riguardo ai criteri fissati dall’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale e valorizzarsi, dunque, un’interpretazione strettamente incentrata sul dato testuale.
In questa prospettiva,
non appaiono condivisibili né le conclusioni cui è pervenuta la Sezione regionale di controllo per la Lombardia con il menzionato
parere 28.04.2014 n. 170 né le prospettazioni dell’Ente istante evidenziandosi, sotto tale ultimo profilo, che entrambi gli esempi di calcolo offerti muovono dell’erroneo presupposto che il novellato art. 31, comma 48, della legge n. 448/1998 introduca la facoltà per i Comuni di abbattere fino al 50 per cento, e dunque di poter –nell’ipotesi di maggior favore– dimezzare, l’importo ottenuto applicando al valore venale del bene la percentuale del 60 per cento.
Di contro, ad avviso della Sezione,
la disposizione in parola deve essere intesa nel senso che, al fine della determinazione del corrispettivo per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà, è riconosciuta all’Ente la facoltà di abbattere sino al 50 per cento la percentuale da applicarsi al valore venale del bene e, dunque, correlativamente di elevare la già prevista riduzione del 40 per cento sino al 50 per cento.
A conforto si richiamano, peraltro, i contenuti della nota di lettura n. 26 del dicembre 2013 (atti Senato), relativa alla legge di stabilità 2014 laddove, con riguardo al comma 392 dell’articolo unico, si evidenzia come, per un verso, si incrementi il valore del bene al quale rapportare la percentuale di determinazione del corrispettivo di cessione e, per altro, si attribuisca ai Comuni la possibilità di ridurre tale percentuale sino al 50 per cento.

Tale ricostruzione, del resto, consente di contemperare le “finalità agevolative” sottese alla disposizione in parola –evidenziate dalle Sezioni riunite della Corte dei conti con riguardo alla disciplina previgente (cfr. deliberazione n. 22/CONTR/2011 cit.) ed ulteriormente enfatizzate dalle norme, di maggior favore, oggetto del recente intervento legislativo– con le esigenze di valorizzazione del patrimonio immobiliare che, parimenti, informano la normativa di cui trattasi.
La stessa appare, inoltre, idonea a garantire una sostanziale uniformità nella determinazione del prezzo di riscatto: sotto tale profilo non può, invero, sottacersi come, diversamente opinando e, dunque, applicando l’abbattimento secondo le modalità prospettate dal Comune richiedente o secondo quelle indicate dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia, si perverrebbe ad esiti applicativi tali da determinare un’irragionevole disparità di trattamento tra coloro che hanno già proceduto al riscatto e quelli che lo faranno in futuro, pur avendo pagato, all’origine, identico corrispettivo per il diritto di superficie.
Né, a tal proposito, appaiono persuasive le deduzioni svolte dalla Sezione Lombardia laddove si evidenzia che “una pretesa disparità di trattamento scaturente dall’applicazione della norma si rivela essere una diversa valutazione di interessi operata direttamente dal legislatore nel definire i nuovi criteri di calcolo” (cfr. deliberazione citata) essendo siffatta interpretazione estranea sia alla lettera che alla ratio della disposizione scrutinata.
P.Q.M.
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, sulla questione di massima richiamata in premessa, posta dalla Sezione regionale di controllo per la Sardegna, con la deliberazione n. 58/2015/PAR, pronuncia il seguente principio di diritto: “
La disposizione di cui all’art. 31, comma 48, legge n. 448/1998, come novellata dall’art. 1, comma 392, legge n. 147/2013 deve essere intesa nel senso che, al fine della determinazione del corrispettivo per la trasformazione del diritto di superficie in diritto di proprietà, è data all’Ente la facoltà di abbattere sino al 50 per cento la quota percentuale da applicarsi al valore venale del bene e, dunque, correlativamente di elevare la già prevista riduzione del 40 per cento sino al 50 per cento.
Il citato comma 392 non immuta, per il resto, l’originaria formulazione del comma 48 e, pertanto, il corrispettivo in parola dovrà, altresì, essere determinato al netto degli oneri di concessione del diritto di superficie, rivalutati sulla base della variazione, accertata dall'ISTAT, dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati verificatasi tra il mese in cui sono stati versati i suddetti oneri e quello di stipula dell'atto di cessione delle aree e non può essere superiore al costo stabilito dal comune per le aree cedute direttamente in proprietà al momento della trasformazione di cui all’art. 31, comma 47, della legge n. 448/1998
” (Corte dei Conti, Sez. Autonomie, deliberazione 24.03.20145 n. 10).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: La Sezione Regionale di controllo della Corte dei Conti per la Liguria sottopone al Presidente della Corte dei conti la valutazione sull’opportunità di deferire alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni riunite in sede di controllo, ai sensi dell’articolo 6, comma 4, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174, la seguente questione di massima: “se l’obbligo di non superare l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo, di cui al comma 7-ter dell’articolo 93, sia applicabile solo per il pagamento degli incentivi riferiti alle attività tecnico professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma dopo il 19.08.2014 (data di entrata in vigore della legge di conversione n. 114/2014)".
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La richiesta di parere è intesa a conoscere la corretta applicazione del riparto del fondo per la progettazione e l’innovazione ex art. 93, comma 7-ter, decreto legislativo n. 163/2006 a seguito delle riformulazione operata dall’articolo 13-bis del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, recante "Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari", convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114.
In particolare, nel parere si evidenzia che:
- il decreto-legge n. 90/2014, all'art. 13, ha abrogato i commi 5 e 6 dell'articolo 92 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163;
- la nuova disciplina della materia è ora contenuta nell'articolo 93, commi 7-bis e 7-ter del decreto legislativo n. 163/2006 che dispone: "L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.";
- la Corte dei Conti Sezione di Controllo per l'Emilia Romagna, nel
parere 19.09.2014 n. 183, intervenendo sul disposto del precitato art. 93, comma 7-ter, ha affermato che: "l'art. 93, comma 7-ter, ultimo periodo, del codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, come inserito dall'art. 13-bis "Fondi per la progettazione e l'innovazione" della legge di conversione 11.08.2014, n. 114 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90 -disposizione non applicabile retroattivamente, non essendo norma di interpretazione autentica- ha espunto dall'ordinamento il comma 5 (al quale il CCNL dell'Area II faceva richiamo) e il comma 6 dell'articolo 92 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163; in base a tale nuova disciplina il riparto del fondo per la progettazione non trova più applicazione per il personale con qualifica dirigenziale.";
- il
parere 19.09.2014 n. 183 contiene la precisazione che la nuova disciplina non può trovare applicazione retroattiva e che il personale con qualifica dirigenziale è escluso dal riparto del fondo incentivante a decorrere dall'entrata in vigore delle modifiche legislative di cui sopra, vale a dire dal 19.08.2014;
- mentre è, quindi, chiaro che le nuove regole trovano applicazione per tutti i lavori e le opere avviate a partire dal 19.08.2014, sussistono invece dubbi per gli incentivi riferiti a lavori e opere portate a compimento prima di tale data, ma che l'amministrazione non ha ancora provveduto a liquidare;
- la questione dell'applicabilità delle modifiche normative rispetto ad attività già compiute, ma per le quali non è stato ancora corrisposto il compenso, si era già posta in passato a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 144/1999 che aveva modificato la percentuale dell'incentivo per la progettazione.
La Corte dei Conti Sezione Autonomie, nella
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG, aveva richiamato il principio espresso dalla Corte di Cassazione Sez. Lav. nella sentenza n. 13384 del 19.07.2004. Secondo i giudici della Suprema Corte, il diritto all'incentivo di cui trattasi "costituisce un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva che inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va individuato l'obbligo per l'Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere concreta l'erogazione del compenso. In sostanza dal compimento dell'attività nasce il diritto al compenso, intangibile dalle disposizioni riduttive, che non hanno alcuna, efficacia retroattiva”;
- nella pronunzia la Sezione Autonomie aveva, quindi, sancito un principio di competenza affermando che ciò che rileva ai fini della nascita del diritto è "il compimento effettivo dell'attività dovendosi, anzi, tener conto, per questo specifico aspetto, che per le prestazioni di durata, cioè quelle che non si esauriscono in una puntuale attività, ma si svolgono lungo un certo arco di tempo, dovrà considerarsi la frazione temporale di attività compiuta.";
- sulla base dei sopra richiamati principi, le modifiche normative intervenute non dovrebbero quindi incidere sulla liquidazione dell'incentivo per le attività compiute fino al 19.08.2014. Poiché, peraltro, a differenza di quanto avvenuto in passato, la nuova disciplina incide non sulla percentuale ma sulla quantificazione del fondo, destinandone solo una parte per la progettazione, dubbi applicativi sorgono con riguardo ai lavori e alle opere iniziate prima del 19.08.2014 e portate a compimento successivamente a tale data. Si avrebbero, in tal caso, attività incentivate portate a compimento in frazioni temporali diverse che ad avviso del Comune, dovrebbero però fare tutte riferimento alle risorse del fondo come quantificato secondo la disciplina vigente all'inizio dell'opera o del lavoro;
- sussistono altresì dubbi applicativi per quanto attiene il capoverso che recita: "Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo.";
Il Comune chiede, quindi, di sapere:
1) se l'Amministrazione, in ossequio al principio della non retroattività della legge e al principio di competenza, possa in oggi liquidare secondo la precedente disciplina gli incentivi riferiti a lavori e opere portate a compimento, compresa la fase del collaudo, prima della data del 19.08.2014;
2) quali debbano essere le modalità di liquidazione dell'incentivo nel caso di lavori e opere iniziate prima del 19.08.2014 e portate a compimento successivamente a tale data;
3) se per il personale con qualifica dirigenziale l'esclusione dal pagamento dell'incentivo operi a decorrere dal 19.08.2014 solo con riferimento a lavori ed opere successive a tale data oppure anche dalla liquidazione degli incentivi riferiti a lavori ed opere portati a compimento prima del 19.08.2014;
4) se la disposizione che impone di non superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo sia applicabile solo per il pagamento degli incentivi riferiti a lavori e opere avviati dopo il 19.8.2014, oppure si tratti di norma immediatamente operante su tutte le liquidazioni effettuate dopo il 19.08.2014, anche se riferite a lavori e opere portate a compimento prima di tale data.
...
 
La richiesta di parere concerne distintamente quattro quesiti relativi all’applicazione dell’art. 93 del decreto legislativo 12.04.2006, n.163 (codice dei contratti pubblici), come integrato e modificato dagli articoli 13 e 13-bis della legge 11.08.2014, n. 144, di conversione del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, che hanno abrogato i commi 5 e 6 del citato articolo 92 e aggiunto i commi da 7-bis a 7-quinqiues all’articolo 93.
Il Collegio ha dato risposta ai primi tre quesiti con il parere 16.12.2014 n. 73, mentre ha separato la trattazione del quarto quesito, sottoponendolo, per i profili che ora si esporranno, al Presidente della Corte dei conti affinché valuti, ai sensi dell’articolo 6, comma 4, decreto-legge 10.10.2012, convertito dalla legge 07.12.2012, n. 213, l’opportunità di rimettere alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni riunite la questione di massima, in presenza di contrasto interpretativo con il
parere 13.11.2014 n. 300 della Sezione regionale di controllo per la Lombardia.
La richiesta di parere è da considerarsi ammissibile sotto il profilo soggettivo e procedurale, poiché è stata sottoscritta dall’organo legittimato a rappresentare l’Amministrazione ed è stata trasmessa tramite il Consiglio delle Autonomie Locali della Liguria, nel rispetto delle formalità previste dall’art. 7 della legge 05.06.2003, n. 131.
In ordine al requisito oggettivo si osserva che la questione evidenziata dal Comune e riassunta nella richiesta di parere può costituire oggetto di attività consultiva, in quanto rientrante nell’accezione dinamica del concetto di “materia di contabilità pubblica”, di cui alla deliberazione della Sezioni Riunite 54/CONTR/2010, da ultimo, ripresa dalla delibera 3/SEZAUT/2014.
Il terzultimo capoverso del comma 7-ter dell’articolo 93 dispone che “Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo.”
Ai fini della risoluzione del quesito il Collegio condivide le conclusione cui perviene la deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG della Sezione delle Autonomie, che ha precisato quanto segue: ”la soluzione della questione non può prescindere dalla verifica dell’esistenza e della consistenza del diritto che si pretende intangibile dalla legge sopravvenuta, in quanto la irretroattività della legge costituisce un principio di salvezza di un diritto acquisito, purché se ne dimostri l’avvenuta insorgenza”.
Quanto appena affermato, prosegue la Sezione Autonomie “presuppone una valutazione preliminare sulla configurabilità, o meno, di un vincolo di destinazione, giuridicamente rilevante, tra la quantificazione della somma da ripartire per ogni singola opera, ed il “quantum” del diritto al beneficio, di talché si possa ritenere che nel momento in cui sia sorto tale diritto e cioè quando siano state compiute le varie attività che legittimano la corresponsione dell’incentivo (attività procedimentali amministrative, progettazione, collaudo, collaborazioni etc.) rimangono fissate, in maniera intangibile, da un lato, la somma da ripartire e, dall’altro, la misura del beneficio, così come le stesse sono state determinate in base ai meccanismi previsti dalla norma stessa. (modalità e criteri della ripartizione previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento)”.
Alla luce della riferita interpretazione,
il Collegio ritiene che l’obbligo di non superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo sia applicabile solo per il pagamento degli incentivi riferiti alle attività tecnico-professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma dopo il 19.08.2014 (data di entrata in vigore della legge di conversione n. 114/2014).
Di converso,
sulle liquidazioni, e conseguenti pagamenti, effettuati dopo il 19.08.2014, ma riferiti ad attività portate a compimento dai dipendenti prima di tale data, vale il principio della non retroattività della legge nei termini sopra evidenziati, con l’ulteriore precisazione secondo cui “il diritto all’incentivo costituisce un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva (Cass. Sez. Lav. sent. n. 13384 del 19.07.2004) che inerisce al rapporto di lavoro in corso nel cui ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere concreta l’erogazione del compenso (deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG citata).
Una diversa interpretazione, infatti, farebbe dipendere dal mero momento materiale del pagamento (e/o da quello prodromico della liquidazione) l’applicazione del nuovo tetto complessivo annuo previsto dalla legge per i c.d. “incentivi alla progettazione”.
Infatti,
la garanzia di fornire medesimo trattamento giuridico a situazioni identiche (l’espletamento, da parte del dipendente, dell’attività tecnico-professionale incentivata, in data antecedente all’entrata in vigore della legge di conversione), di cui si era fatta portatrice anche la Sezione delle Autonomie nella citata deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG, nonché la stessa Sezione per la Lombardia negli altri quesiti oggetto del
parere 13.11.2014 n. 300, conduce a ritenere che il nuovo regime giuridico introdotto dall’art. 13 del decreto-legge n. 90/2014, convertito dalla legge n. 114/2014, non possa trovare applicazione per le attività espletate dai dipendenti prima dell’entrata in vigore della legge n. 114/2014 (che potrebbero essere, dati i tempi di aggiudicazione ed esecuzione di un lavoro o opera pubblica, anche molto risalenti nel tempo), pena il rischio di evidenti situazioni di disparità di trattamento (anche all’interno della medesimo ente) dipendenti dal mero momento della liquidazione/pagamento (adempimento che non è, tantomeno riguardo i tempi, nella disponibilità del dipendente incaricato delle attività tecnico-professionali beneficiate dalla legge di incentivazione).
Né si ritiene che, per un diverso avviso, possa essere valorizzato il generico, e atecnico, termine utilizzato nel periodo in discorso dal legislatore (“corrisposti”), potendo anche quest’ultimo ben essere riferito interamente al nuovo regime giuridico introdotto dal legislatore per la disciplina delle attività tecnico professionali beneficiate dei c.d. incentivi alla progettazione (che, dal 19/08/2014, avranno un fondo limitato all’80% del 2%, quale percentuale massima, dell’importo posto a base di gara; non potranno essere erogate ai dirigenti; confluiranno in economia a beneficio dell’amministrazione nelle nuove ipotesi previste dalla norme; non potranno, infine, superare il 50% del trattamento economico complessivo annuo del dipendente).
Diverso avviso ha espresso, invece, la Sezione regionale di controllo per la Lombardia con il recente
parere 13.11.2014 n. 300 su identica questione posta dal Presidente della provincia di Mantova (“se il limite degli incentivi che possono essere corrisposti nel corso dell’anno al singolo dipendente, pari al 50% del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo, operi anche con riferimento a prestazioni, sia concluse che in corso, rese anteriormente alla vigenza delle norme sopravvenute ma non liquidate”).
La Sezione Lombardia, a differenza della soluzione interpretativa data agli altri quesiti oggetto dell’istanza di parere sfociata nel
parere 13.11.2014 n. 300 (perfettamente aderente all’orientamento palesato dalla Sezione Autonomie nella deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG, condiviso da questa Sezione nella parere 16.12.2014 n. 73), conclude affermando che, nel caso di specie, “la norma effettuata un chiaro riferimento al momento della corresponsione e non condiziona la possibilità di erogare l’incentivo, ma si limita a determinare (per relationem rispetto al trattamento economico fruito) l’ammontare massimo. L’ente, rimanendo per il resto libero nell’esercizio della propria attività discrezionale, nel periodo transitorio dovrà fare riferimento, quanto ai presupposti e ai beneficiari dell’incentivo, alla previgente disciplina mentre, per quel che concerne l’ammontare complessivo delle risorse destinabili al singolo beneficiario, al limite inderogabile fissato dalla norma con riferimento al trattamento economico spettante al momento dell’erogazione”.
Pertanto, attesa la necessità di un indirizzo interpretativo univoco in materia, questa Sezione ritiene opportuno che venga sottoposta all’esame del Presidente della Corte dei conti la valutazione sull’opportunità di deferire la questione alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni riunite, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012 n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 07.12.2012, n. 213, il quale, nel testo recentemente novellato dal decreto legge 24.06.2014, n. 91, dispone che “al fine di prevenire o risolvere contrasti interpretativi rilevanti per l'attività di controllo o consultiva o per la risoluzione di questioni di massima di particolare rilevanza, la Sezione delle autonomie emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni regionali di controllo si conformano. Resta salva l'applicazione dell'articolo 17, comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 03.08.2009, n. 102, nei casi riconosciuti dal Presidente della Corte dei conti di eccezionale rilevanza ai fini del coordinamento della finanza pubblica ovvero qualora si tratti di applicazione di norme che coinvolgono l’attività delle Sezioni centrali di controllo".
P.Q.M.
La Sezione Regionale di controllo della Corte dei Conti per la Liguria sottopone al Presidente della Corte dei conti la valutazione sull’opportunità di deferire alla Sezione delle Autonomie o alle Sezioni riunite in sede di controllo, ai sensi dell’articolo 6, comma 4, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174, la seguente questione di massima: “
se l’obbligo di non superare l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo, di cui al comma 7-ter dell’articolo 93, sia applicabile solo per il pagamento degli incentivi riferiti alle attività tecnico professionali espletate dai dipendenti individuati dalla norma dopo il 19.08.2014 (data di entrata in vigore della legge di conversione n. 114/2014)" (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, deliberazione 22.12.2014 n. 75).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Fruizione congedo straordinario ai sensi dell'art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001.
Il Dipartimento della funzione pubblica (cfr. circolare n. 1 del 2012) ha precisato che, nel caso di fruizione cumulata nello stesso mese del congedo straordinario ex art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001 e dei permessi di cui all'art. 33, comma 3, della l. 104/1992 da parte del dipendente a tempo pieno, questi ultimi spettano sempre nella misura stabilita dalla legge (3 giorni) e non è previsto un riproporzionamento.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alle modalità di fruizione da parte di un dipendente, del congedo previsto dall'art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001, precisando che l'interessato presta attività lavorativa su sei giorni settimanali. Le problematiche evidenziate dall'Ente istante concernono sostanzialmente la presunta incumulabilità tra la fruizione del congedo in argomento e la fruizione dei permessi ex art. 33, comma 3, della l. 104/1992 e l'eventuale possibilità, per il responsabile d'Area, di negare la prospettata fruizione per esigenze di servizio.
Preliminarmente è doveroso osservare che esula dai compiti dello scrivente Servizio procedere alla disamina di concrete e specifiche richieste inerenti alla gestione del rapporto di lavoro del personale dell'Amministrazione, alla quale spetta in via esclusiva la competenza a sovraintendere e organizzare l'attività lavorativa all'interno delle singole strutture comunali.
Premesso un tanto, si ritiene opportuno fornire in via collaborativa alcune delucidazioni di carattere generale, che traggono spunto dalle considerazioni espresse sull'istituto in argomento dal Dipartimento della funzione pubblica
[1] e possono quindi contribuire ad una puntuale valutazione della situazione prospettata.
Com'è noto, l'art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001, prevede che il coniuge convivente di soggetto con handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell'art. 4, comma 1, della l. 104/1992, abbia diritto a fruire del congedo di cui al comma 2 dell'art. 4, della l. 53/2000
[2], entro sessanta giorni dalla richiesta. In caso di mancanza, decesso, o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente, ha diritto a fruire del congedo il padre o la madre anche adottivi; in caso di decesso, mancanza o in presenza di patologie invalidanti del padre e della madre, anche adottivi, ha diritto a fruire del congedo uno dei figli conviventi; in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti dei figli conviventi, ha diritto a fruire del congedo uno dei fratelli o sorelle conviventi.
I successivi commi 5-bis, 5-ter, 5-quater e 5-quinquies del citato articolo 42 forniscono ulteriori specificazioni in ordine al congedo di cui trattasi.
In particolare, in ordine alle modalità di fruizione del congedo straordinario per assistenza, si ritiene utile riportare di seguito le considerazioni espresse dal Dipartimento della funzione pubblica nella citata circolare illustrativa.
Nello specifico, il predetto Dipartimento ha precisato che: 'Il d.lgs. n. 119 del 2011 ha modificato il disposto dell'ex comma 5 dell'art. 42 in esame, prevedendo all'attuale comma 5-bis che i genitori, anche adottivi, possono fruirne alternativamente, ma negli stessi giorni l'altro genitore non può fruire dei benefici di cui all'art. 33, commi 2 e 3, della l. n. 104 del 1992 e 33, comma 1, del presente decreto'.
A seguito della modifica, i genitori possono fruire delle predette agevolazioni (permessi di tre giorni mensili, permessi di due ore al giorno, prolungamento del congedo parentale) anche in maniera cumulata con il congedo straordinario nell'arco dello stesso mese, mentre è precluso il cumulo dei benefici nello stesso giorno. La conclusione vale anche nel caso in cui la fruizione delle agevolazioni avvenga da parte di un solo genitore, che, pertanto, nell'arco dello stesso mese
[3] può fruire del congedo ex art. 42, commi 5 ss., d.lgs. n. 151 del 2001 e dei permessi di cui all'art. 33, commi 2 e 3, della l. n. 104 del 1992 o del prolungamento del congedo parentale. Analogamente, il dipendente che assiste una persona in situazione di handicap grave diversa dal figlio nell'ambito dello stesso mese può fruire del congedo in esame e del permesso di cui all'art. 33, comma 3, della l. n. 104 del 1992.
Il Dipartimento della funzione pubblica ha inoltre sottolineato che: 'nel caso di fruizione cumulata nello stesso mese del congedo (ovvero di ferie, aspettative od altre tipologie di permesso) e dei citati permessi di cui all'art. 33, comma 3, da parte del dipendente a tempo pieno questi ultimi spettano sempre nella misura stabilita dalla legge (3 giorni) e non è previsto un riproporzionamento'.
Lo stesso Dipartimento ha poi chiarito che il congedo è fruibile anche in modo frazionato, a giorni interi, ma non ad ore.
Si è evidenziato anche -in tale sede- che, affinché non vengano computati nel periodo di congedo i giorni festivi, le domeniche e i sabati (nel caso di articolazione dell'orario su cinque giorni), è necessario che si verifichi l'effettiva ripresa del lavoro al termine del periodo di congedo richiesto. Tali giornate non saranno conteggiate nel caso in cui la domanda di congedo sia stata presentata dal lunedì al venerdì, se il lunedì successivo si verifica la ripresa dell'attività lavorativa ovvero anche un'assenza per malattia del dipendente o del figlio.
Pertanto, due differenti frazioni di congedo straordinario intervallate da un periodo di ferie o altro tipo di congedo, debbono comprendere ai fini del calcolo del numero di giorni riconoscibili come congedo straordinario anche i giorni festivi e i sabati (per l'articolazione su cinque giorni) cadenti subito prima o subito dopo le ferie o altri congedi o permessi.
Il comma 5 dell'art. 42 in esame dispone espressamente che il dipendente ha diritto a fruire del congedo per assistenza entro sessanta giorni dalla richiesta
[4].
Compete ovviamente al responsabile del settore di appartenenza verificare, in primo luogo, la sussistenza dei requisiti e delle condizioni previste dalla legge per il diritto alla fruizione del congedo straordinario.
Ma, una volta accertata la sussistenza dei prescritti presupposti
[5], non si può sindacare le modalità prescelte (e ritenute funzionali alle esigenze personali) dal dipendente per la fruizione frazionata o pretenderne una diversa articolazione.
Si rappresenta ad ogni buon conto che non è preclusa all'amministrazione la possibilità di procedere all'assunzione di un lavoratore a part-time di tipo verticale
[6], per le esigenze sostitutive [7] del dipendente assente, nel rispetto della normativa vigente.
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[1] Cfr. circolare n. 1 del 03.02.2012.
[2] 'I dipendenti di datori di lavoro pubblici o privati possono richiedere, per gravi e documentati motivi familiari, fra i quali le patologie individuate ai sensi del comma 4, un periodo di congedo, continuativo o frazionato, non superiore a due anni'.
[3] Cfr. anche circolare INPS n. 28 del 28.02.2012 e parere ANCI del 23.04.2014.
[4] Cfr. circolare INPDAP n. 2 del 2002.
[5] Cfr. Tribunale di Lamezia Terme, Sezione lavoro e previdenza, ordinanza del 01.02.2011, in cui si evidenzia la ratio dell'istituto del congedo retribuito di cui all'art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001, che esonera il dipendente dal prestare servizio presso il datore di lavoro, per dedicarsi alla cura del parente disabile in modo puntuale, continuo e capillare, per assisterlo in ogni momento ed in ogni atto quotidiano di vita.
[6] Con prestazione lavorativa, quindi, limitata ai giorni della settimana in cui il dipendente risulta assente.
[7] Si osserva che l'art. 13, comma 16, della l.r. 24/2009 (contenente, fra l'altro, la previsione di sostituzione di personale assente con diritto alla conservazione del posto, qualora l'assenza sia prevista per almeno tre mesi) è stato abrogato dall'art. 4 della l.r. 12 del 2014. Per quanto concerne le assunzioni a tempo determinato, allo stato attuale, i riferimenti legislativi sono costituiti dall'art. 4, comma 2, della l.r. 12/2014, che rinvia, ai fini applicativi, alla normativa statale vigente (d.lgs. 368/2001 e, per il limite di spesa, art. 9, comma 28, del d.l. 78/2010)
(27.03.2015 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Seggi, prima i candidati. I sindaci mancati possono costituire gruppi. La materia è disciplinata dallo statuto e dal regolamento del comune.
È corretta la costituzione di gruppi consiliari in un ente in cui tre consiglieri, già candidati sindaci non eletti, hanno comunicato di assumere la carica di capogruppo per liste che, pur appartenendo alle proprie coalizioni, non hanno espresso consiglieri comunali?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4 e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000). La materia, pertanto, è regolata da apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa dei consigli, riconosciuta dall'art. 38 del citato Tuel.
In ordine alla fattispecie in esame, si rileva che lo statuto del comune prevede che «i consiglieri eletti nella medesima lista formano un gruppo consiliare» mentre il regolamento del consiglio comunale prevede che «i consiglieri eletti nella medesima lista formano, di regola, un gruppo consiliare». Tale disposizione appare più rigida rispetto all'articolo del regolamento, laddove si prevede che «di regola» i consiglieri eletti nella medesima lista formano un gruppo consiliare.
L'articolo dello statuto consentendo, altresì, la mobilità tra gruppi, prevede la costituzione del gruppo misto ove si iscrivono di diritto, tra gli altri, i consiglieri che si dichiarano indipendenti, e dispone, al comma 4, che «ove una lista presentata all'elezione abbia ottenuto un solo consigliere, a questi sono riconosciuti i diritti e la rappresentanza spettanti ad un gruppo consiliare».
Benché nel caso di specie non sia chiaro se i consiglieri interessati abbiano costituito gruppi unipersonali, si rileva, comunque, che in assenza di norme regolamentari che integrino, ulteriormente, la disposizione statutaria i gruppi unipersonali sono riconosciuti solo nei confronti dei consiglieri eletti nell'ambito di una lista (escludendosi, dunque, la formazione di gruppi unipersonali dopo l'insediamento del consiglio).
L'articolo 73 del decreto legislativo n. 267/2000, che disciplina l'elezione del consiglio nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, al comma 11 prevede, dopo il riparto dei seggi tra le varie liste, che il primo seggio venga assegnato al candidato sindaco non eletto, e, in caso di collegamento tra più liste, tale seggio si detrae dai seggi complessivamente attribuiti al gruppo di liste collegate.
In proposito, occorre osservare, così come affermato dal Cds con sentenza della V sezione, 12.12.2003, n. 8208, che la normativa sopra citata «impone palesemente di dedurre in via prioritaria il seggio controverso da quelli riservati alla coalizione di riferimento, e non da quelli spettanti alla lista che lo ha presentato, e di procedere, poi all'assegnazione di quelli rimasti mediante l'individuazione dei quozienti più alti conseguiti dai candidati dalle liste collegate».
Tale principio è confermato da giurisprudenza più recente (v. Tar Campania, sez. I, n. 2124/2013 del 22.04.2013) la quale ha ribadito che l'interessato «è stato proclamato eletto non già quale candidato al consiglio comunale (di una lista) ma quale candidato sindaco uscito sconfitto dalla competizione, del più vasto schieramento composto da quattro liste in conformità al già citato art. 73, comma 11».
Il candidato sindaco non eletto fa parte, quindi, del consiglio non come esponente di una lista, ma in qualità di maggior rappresentante della coalizione nella sua interezza.
Nel caso di specie, il primo o unico seggio attribuito al complesso di liste collegate, compete, pertanto, al candidato sindaco non eletto, il quale, anche in virtù del più generale principio di rappresentanza di più liste, come riconosciuto dal regolamento del comune in questione («di regola») rispetto all'analoga previsione statutaria, può costituire un gruppo autonomo, acquisendo i corrispondenti diritti e le relative prerogative (articolo ItaliaOggi del 27.03.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Legge 07.06.2000, n. 150. Utilizzo delle bacheche comunali per finalità di comunicazione politica.
In considerazione di quanto disposto dalla legge 150/2000 in materia di attività di informazione e comunicazione da parte delle pubbliche amministrazioni, si ritiene che nelle bacheche comunali possano essere previsti adeguati spazi destinati alle comunicazioni dei vari gruppi consiliari, a condizione che tali informazioni rivestano carattere istituzionale, ovvero siano finalizzate ad informare la cittadinanza sull'attività svolta dal gruppo medesimo.
Per contro, si ritiene che tutto ciò che esula dall'informazione concernente l'attività del gruppo assuma la valenza di comunicazione politica e, pertanto, non possa trovare spazio in tale sede.

L'Ente rappresenta il caso di un consigliere comunale di minoranza che chiede di poter utilizzare le bacheche comunali per comunicazioni alla cittadinanza relative al proprio gruppo politico di appartenenza. Chiede il Comune se tale richiesta sia legittima, in particolare in considerazione di quanto disposto in materia di comunicazione istituzionale dalla legge 07.06.2000, n. 150, recante la 'Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni'.
Sentito il Servizio elettorale di questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
La legge 150/2000 rappresenta la prima fonte di legittimazione formale per le attività di informazione e comunicazione all'interno della pubblica amministrazione. Il testo normativo infatti identifica le attività riconducibili alla categoria della comunicazione istituzionale e codifica la possibilità per le amministrazioni pubbliche di avvalersi di strumenti in uso nel settore delle comunicazioni di massa.
In particolare, all'art. 1, comma 4, si specifica che 'sono considerate attività di informazione e di comunicazione istituzionale quelle poste in essere in Italia o all'estero dai soggetti di cui al comma 2
[1] e volte a conseguire:
a) l'informazione ai mezzi di comunicazione di massa, attraverso stampa, audiovisivi e strumenti telematici;
b) la comunicazione esterna rivolta ai cittadini, alle collettività e ad altri enti attraverso ogni modalità tecnica ed organizzativa;
c) la comunicazione interna realizzata nell'ambito di ciascun ente
.'
Il comma 5 dispone poi che 'Le attività di informazione e comunicazione sono, in particolare, finalizzate a:
a) illustrare e favorire la conoscenza delle disposizioni normative, al fine di facilitarne l'applicazione;
b) illustrare le attività delle istituzioni e il loro funzionamento;
c) favorire l'accesso ai servizi pubblici, promuovendone la conoscenza;
d) promuovere conoscenze allargate e approfondite su temi di rilevante interesse pubblico e sociale;
e) favorire processi interni di semplificazione delle procedure e di modernizzazione degli apparati, nonché la conoscenza dell'avvio e del percorso dei procedimenti amministrativi;
f) promuovere l'immagine delle amministrazioni, nonché quella dell'Italia, in Europa e nel mondo, conferendo conoscenza e visibilità ad eventi d'importanza locale, regionale, nazionale ed internazionale
.'
Successivamente, all'art. 2, comma 1, è disposto che 'Le attività di informazione e comunicazione delle pubbliche amministrazioni si esplicano (...) anche attraverso la pubblicità, le distribuzioni o vendite promozionali, le affissioni, l'organizzazione di manifestazioni e la partecipazione a rassegne specialistiche, fiere e congressi.'
Come emerge dal dettato normativo, le amministrazioni pubbliche, tra cui naturalmente rientrano quelle locali, hanno il compito di rendere edotta la popolazione sulle proprie attività. Un tanto in virtù dei principi di trasparenza e partecipazione all'azione amministrativa affermatisi negli ultimi decenni nel nostro ordinamento, a partire dalla legge 241/1990 su procedimento amministrativo e diritto di accesso.
Accertato quindi che l'amministrazione pubblica può legittimamente (anzi deve) comunicare con il cittadino, occorre operare una attenta valutazione sull'oggetto di tale comunicazione. Bisogna infatti distinguere fra comunicazione istituzionale e comunicazione politica.
La comunicazione istituzionale si rivolge al cittadino nella sua veste di membro della collettività e/o di utente, si connota come comunicazione di servizio che l'amministrazione (a qualsiasi livello) attiva al fine di garantire il diritto all'informazione, alla trasparenza, all'accesso e alla partecipazione; l'obiettivo ultimo è di realizzare un ampliamento degli spazi della democrazia.
Per contro, la comunicazione politica si rivolge al cittadino nella sua veste di elettore e muove da finalità di partito, nella dimensione della personalizzazione delle dispute e delle competizioni su temi in cui si scontrano posizioni contrapposte; è finalizzata a consolidare il consenso o acquistarne in vista di un confronto elettorale.
Va infine considerato un altro aspetto, ovvero che la presenza di materiale dal contenuto chiaramente politico in un luogo istituzionale (quale, ad esempio, le bacheche comunali), solleverebbe questioni di opportunità e, non da ultimo, di par condicio nei confronti di altri gruppi che potrebbero avanzare richieste analoghe.
Di conseguenza, si ritiene che nelle bacheche comunali possano essere previsti adeguati spazi destinati alle comunicazioni dei vari gruppi, a condizione che tali informazioni rivestano carattere istituzionale, ovvero siano finalizzate ad informare la cittadinanza sull'attività svolta dal gruppo medesimo. Per contro, si ritiene che tutto ciò che esula dall'informazione concernente l'attività del gruppo assuma la valenza di comunicazione politica.
Nella definizione del contenuto delle informazioni a carattere istituzionale rivolte alla cittadinanza, si ritiene che il Comune possa intervenire in sede regolamentare.
Anche secondo l'ANCI
[2], il regolamento del consiglio può prevedere la pubblicazione di comunicazioni istituzionali dei gruppi consiliari, definendone le modalità e la durata: in tale sede, l'Ente può quindi, in virtù della propria autonomia, stabilire, ad esempio, la pubblicazione di recapiti e orari di ricevimento dei consiglieri, o anche di comunicazioni relative all'attività istituzionale (mozioni, interpellanze, ecc.) degli stessi [3].
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[1] '2. Ai fini della presente legge sono pubbliche amministrazioni quelle indicate all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29' (ora art. 1, comma 2, del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165).
[2] Si veda il parere del 01.02.2005.
[3] Si vedano i pareri prot. n. 12314 del 22/07/2010 e prot. n. 17926 del 17/11/2009 reperibili sul Portale delle Autonomie locali all'indirizzo http://autonomielocali.regione.fvg.it
(12.03.2015 - link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATAPotere sanzionatorio e tutela preventiva degli Enti parco contro l’abusivismo edilizio:
-
Rilascio del nulla osta da parte degli Enti Parco nei procedimenti di conformità in sanatoria ex artt. 36 e 37 d.P.R. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) (parere 24.10.2014 n. 444210/12, AL 10020/13, Sez. II). 
...
Codesta Avvocatura ha trasmesso una richiesta di parere da parte del Responsabile del Servizio Giuridico dell’Ente Parco in indirizzo, con la quale si chiede se quest’ultimo possa rilasciare “in sanatoria” il nulla osta previsto dall’art. 13 della legge n. 394/1991 [ndr Legge Quadro Aree Protette].
Tale richiesta fa seguito ad un allegato parere dello stesso ente parco in senso negativo a detto quesito (e con riferimento ad una istanza di rilascio di nulla osta in sanatoria di un privato). Il responsabile del servizio giuridico del Parco argomenta muovendo dal silenzio della legge n. 394/1991 e dal divieto di analogia della norma speciale di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 [ndr Codice Beni Culturali].

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- Poteri sanzionatori dell’Ente Parco a fronte di abusi edilizi posti in essere all’interno dell’area protetta (parere 24.10.2014 n. 444041/42, AL 12108/12, Sez. II).
...
L’Avvocatura in indirizzo riferisce che l’Ente Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano, ha richiesto un parere in relazione alle sanzioni irrogabili dall’Ente Parco a fronte dell’accertamento di abusi edilizi realizzati all’interno del Parco stesso, ponendo in particolare tre quesiti:
1) se, sia possibile irrogare sanzioni amministrative in alternativa alla riduzione in pristino, qualora ritenuta “materialmente impossibile” o “controproducente”, applicando in via analogica la disciplina prevista dall’art. 34, co. II D.P.R. n. 380/2001;
2) se siano irrogabili sanzioni amministrative in presenza del rilascio di provvedimento favorevole del Comune ex articolo 36 D.P.R. n. 380/2001 sulla istanza d’accertamento di conformità;
3) in caso di risposta positiva, se possano essere oggetto di sospensione le eventuali sanzioni irrogate in alternativa all’ordine di ripristino, in attesa della definizione della procedura di accertamento di conformità ex art. 36 cit.)
(Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2014).

NEWS

APPALTIP.a., fattura elettronica per tutti. Occhio al codice di identificazione e al codice gara. Da oggi l'obbligo si estende ai fornitori degli enti territoriali. Esclusi i lavoratori occasionali.
A partire da oggi (martedì 31.03.2015) tutti fornitori della pubblica amministrazione dovranno fatturare i corrispettivi pretesi, per prestazioni effettuate, mediante documento elettronico, in formato xml, che dovrà essere inoltrato per il tramite del Sistema di interscambio. Infatti l'originario termine previsto, dal dm 55/2013, per il 06.06.2015 è stato anticipato ad oggi, dall'articolo 25 del decreto legge 66/2014. Dovranno quindi procurarsi il codice univoco di identificazione della p.a. destinataria al quale inoltrare tramite il Sistema di interscambio, la fattura, nonché prestare attenzione alla necessità di indicare il Cig (Codice identificativo di gara) sul documento.

Della fatturazione elettronica nei rapporti con la p.a. se ne è occupato il comma 209 dell'art. 1 della Finanziaria 2008 (legge 24.12.2007, n. 244) che ha previsto l' «obbligo» di fatturazione elettronica per coloro che hanno rapporti con la p.a. La regola vale, non solo per le imprese, ma anche per i professionisti e si riferisce, oltre che alla «fattura» in senso stretto, anche a documenti ad essa equipollenti ai sensi dell'art. 21, comma 1, del dpr n. 633/1972 (nota, conto, parcella e simili).
Il decreto ministeriale n. 55 del 03.04.2013, entrato in vigore il 06.06.2013, che ha reso operativo quanto stabilito dalla legge 244/2007 in merito all'obbligo di emissione, trasmissione e conservazione in forma elettronica delle fatture nei rapporti con le p.a., ha previsto il calendario di attuazione, per cui le fatture elettroniche, sono già in uso dal 06.06.2014, per ministeri, Agenzie fiscali ed enti nazionali di previdenza.
Emissione della fattura elettronica. La fattura elettronica si considera trasmessa per via elettronica e ricevuta dalle amministrazioni solo a fronte del rilascio della ricevuta di consegna. Il rilascio, da parte del Sistema di interscambio, della ricevuta di consegna, è certamente sufficiente a provare sia l'emissione della fattura elettronica, sia la sua ricezione da parte della pubblica amministrazione committente. È tuttavia possibile e opportuno individuare in maniera disgiunta le condizioni alle quali la fattura elettronica possa considerarsi emessa dal soggetto cedente o prestatore, ovvero ricevuta dal cessionario o committente.
Le regole tecniche prevedono che il Sistema di interscambio (Sdi), all'atto della ricezione di una fattura elettronica e una volta superati i controlli previsti per la fattura stessa, provveda a inoltrarla al competente ufficio dell'amministrazione committente, identificato tramite il codice univoco riportato nella fattura medesima. In funzione dell'esito di tale inoltro, il Sistema di interscambio rilascia al soggetto che ha inviato la fattura una ricevuta di consegna, nel caso in cui l'inoltro abbia avuto esito positivo, ovvero una notifica di mancata consegna, nel caso in cui l'inoltro abbia avuto esito negativo.
Per la trasmissione della fattura elettronica, tramite il Sdi, i fornitori della p.a. dovranno procurarsi il codice univoco della stessa, che, peraltro, avrebbe dovuto essere pubblicato sul relativo sito già dal 28 febbraio scorso e che molte amministrazioni hanno già provveduto a comunicare ai propri fornitori.
Divieto di pagamento in assenza di fattura elettronica. Le norme prevedono il divieto di pagamento della fattura cartacea emessa dopo il 30 marzo, tuttavia una volta entrato in vigore l'obbligo della trasmissione elettronica della fattura, se una pubblica amministrazione stesse ancora processando una fattura emessa in forma cartacea prima della decorrenza dell'obbligo, l'amministrazione dovrà senz'altro portare a compimento il relativo procedimento e, ove sussistano tutte le altre condizioni, procedere al pagamento nel termine di tre mesi decorrenti da oggi. È invece da escludere la possibilità, per le pubbliche amministrazioni, di accettare fatture in forma cartacea emesse successivamente al 30 marzo.
Attenzione al cig. L'art. 25 del decreto legge 66/2014, oltre ad anticipare l'entrata in vigore della fattura elettronica emessa a carico degli enti residui, ha introdotto l'obbligo di indicazione del Cig (e del Cup quando esistente) sulla stessa. Nell'allegato 1, al citato decreto, troviamo, tuttavia, le cause di esclusione dal cig. La fattura elettronica senza Cig non sarà pagata, per cui oltre al codice univoco, i fornitori della p.a. dovranno preoccuparsi di ottenere, dalla stessa, il cig, ovvero la indicazione della causa di esclusione.
Esclusioni. I lavoratori occasionali, ovviamente, non essendo in possesso di partita Iva non dovranno emettere fattura elettronica, ma potranno continuare a emettere note debito cartacee. Anche con riferimento agli addebiti, ai sensi dell'art. 15 del dpr 633/1972, per spese anticipate in nome e per conto del committente, riteniamo sia necessaria l'emissione di fattura elettronica, se queste spese vengono addebitate in fattura, unitamente all'onorario, viceversa se venissero addebitate separatamente, non ci sarebbe bisogno della fattura, bastando una semplice nota debito, che potrebbe continuare ad essere cartacea.
L'adempimento per i fornitori della p.a., pur richiedendo oneri aggiuntivi, offrirà la certezza di notifica e la velocizzazione del pagamento, dato che entro dieci giorni dal ricevimento, l'ente, dovrà annotarlo sul Registro unico delle fatture e farlo entrare nella graduatoria cronologica per il pagamento (articolo ItaliaOggi del 31.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'Ape avrà sette classi energetiche. Si parte dalla A4 e si arriva alla G.
Attestato di prestazione energetica unico per tutto il territorio nazionale, con una metodologia di calcolo omogenea. Le regioni dovranno adeguarsi alle nuove regole Ape entro due anni. Le classi energetiche passeranno da sette a dieci, dalla A4 (la migliore) alla G (la peggiore). Il nuovo attestato dovrà esprimere la prestazione energetica globale sia in termini di energia primaria totale sia di energia primaria non rinnovabile. Inoltre la classe energetica dovrà essere determinata attraverso l'indice di prestazione energetica globale, espresso in energia primaria non rinnovabili. Verrà realizzato un sistema informativo comune in tutta Italia, denominato Sape, contenente tutti i dati relativi agli attestati di prestazione energetica, in modo che le regioni potranno attivare i relativi controlli.

Queste le nuove linee guida nazionali per l'attestazione della prestazione energetica degli edifici redatte dal ministero dello sviluppo economico che si apprestano a ottenere il via libera dalla Conferenza unificata.
Le nuove linee guida sostituiranno quelle per la certificazione energetica emanate con il dm 26.06.2009. Verrà introdotto uno schema di annuncio di vendita e di locazione contenente informazioni uniformi sulla qualità energetica degli edifici. Per fornire un quadro completo dell'immobile in tale schema saranno riportati anche gli indici di prestazione energetica parziali, come quello riferito all'involucro, quello globale e la relativa classe energetica corrispondente.
Inoltre verranno inseriti simboli grafici, come degli emoticon, per facilitare la comprensione ai non tecnici. Gli strumenti di calcolo, o software commerciali per l'applicazione delle metodologie, dovranno garantire che i valori degli indici di prestazione energetica, calcolati attraverso il loro utilizzo, abbiano uno scostamento massimo del 5% rispetto ai corrispondenti parametri determinati con l'applicazione dello strumento nazionale di riferimento. Il comitato termotecnico italiano predisporrà lo strumento nazionale di riferimento sulla cui base verrà fornita una apposita garanzia (articolo ItaliaOggi del 31.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIConti correnti in movimento senza spese e in tempi certi. INVESTMENT COMPACT/Le novità della legge di conversione del dl 3/2015, in G.U..
Più movimento dei conti bancari. Portabilità del conto e concorrenza tra istituti creditizi vanno di pari passo per la Ue e ora per la legislazione italiana.

Il decreto legge 3/2015 (articolo 2), convertito nella legge n. 33 del 24/03/2015, pubblicata sulla G.U. n. 70 del 25/03/2015, recepisce una direttiva europea (n. 2014/92/Ue) e stabilisce il trasferimento dei servizi di pagamento senza spese da una banca all'altra, anche quando non si chiude il conto.
L'articolo 2 del citato decreto legge 3/2015, sulla portabilità dei conti di pagamento, riscritto nel corso dell'esame parlamentare, estende la portata delle esenzioni di spese a tutte le ipotesi di trasferimento dei servizi, anche quando l'originario conto corrente di appoggio non viene estinto.
Il provvedimento recepisce la direttiva 2014/92/Ue e tiene conto della segnalazione dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm): entrambe si preoccupano di fissare termini certi entro i quali gli intermediari devono perfezionare la portabilità del conto o dei servizi. In caso di mancato rispetto dei termini, è previsto un indennizzo al cliente calcolato in proporzione al ritardo stesso e al saldo del conto.
Lo strumento per agevolare la mobilità bancaria (e quindi favorire la concorrenza nel mercato finanziario) è individuato nella eliminazione di oneri o spese di portabilità nel caso di trasferimento di un conto di pagamento su richiesta di un cliente.
La norma in esame definisce l'ambito di applicazione, comprendendo il trasferimento di ordini permanenti di bonifico, addebiti diretti ricorrenti e bonifici in entrata ricorrenti eseguiti sul conto di pagamento, o il trasferimento dell'eventuale saldo positivo da un conto di pagamento di origine a un conto di pagamento di destinazione, o entrambi. E questo con o senza la chiusura del conto di pagamento di origine.
Il servizio di trasferimento senza spese deve essere garantito tra i conti nella stessa valuta a tutti i consumatori. Chi deve occuparsi del trasferimento è la banca di destinazione su richiesta del consumatore, che deve rilasciare una specifica autorizzazione. Nel caso in cui il conto abbia due o più titolari, l'autorizzazione è fornita da ciascuno di essi.
Con riguardo alla forma dell'autorizzazione si applica l'articolo 117, commi 1 e 2, del testo unico delle leggi in materia bancaria (decreto legislativo n. 385 del 1993), che impongono la forma scritta e la consegna di una copia al cliente, salvo deroghe motivate stabilite dal Cicr, Comitato interministeriale per il credito e il risparmio per ragioni tecniche. La banca destinataria ha tempo dodici giorni lavorativi dalla ricezione dell'autorizzazione del consumatore.
È il consumatore, inoltre, che deve identificare specificamente i bonifici ricorrenti in entrata, gli ordini permanenti di bonifico e gli ordini relativi ad addebiti diretti per l'addebito in conto che devono essere trasferiti.
Il consumatore dovrà indicare la data a partire dalla quale decorrerà il trasferimento, ma non prima di sei giorni lavorativi a decorrere dal giorno in cui la banca destinataria avrà ricevuto i documenti dalla banca originaria. Se gli operatori finanziari non osservano modalità e tempi del trasferimento si applicherà la sanzione prevista dall'articolo 144, comma 3-bis, del testo unico bancario (dlgs 385/1993) e cioè sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.160 a euro 64.555.
Per monitorare la situazione il decreto in commento dà la possibilità al consumatore di avere gratuitamente informazioni sull'esecuzione del servizio di trasferimento e relative agli ordini permanenti e agli addebiti. Sempre senza spese per il consumatore deve essere lo scambio di informazioni tra banche per il periodo di tredici mesi anteriori al trasferimento.
Il decreto, inoltre, esclude penalità e spese di chiusura se, nell'ambito del servizio di trasferimento, il consumatore richiede la chiusura del conto di pagamento di origine (articolo 126-septies, commi 1 e 3 del Tu Bancario). Per ribadire il concetto, un comma (il tredicesimo dell'articolo 2 in commento) attesta che il prestatore di servizi di pagamento trasferente e il prestatore di servizi di pagamento ricevente non devono addebitare spese al consumatore per il servizio di trasferimento. Anche per evitare sorprese si stabilisce ancora che le informazioni necessarie al trasferimento devono essere messe a disposizione dei consumatori a titolo gratuito.
Il contenuto delle informazioni e le modalità con cui queste sono messe a disposizione del consumatore sono regolati dal decreto legislativo n. 385 del 1993, nella parte in cui disciplina la trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti in relazione ai servizi di pagamento e alle operazioni e ai servizi bancari e finanziari.
Le regole esplicitate si applicano anche al trasferimento, su richiesta del consumatore, di strumenti finanziari da un conto di deposito titoli a un altro, con o senza la chiusura del conto di deposito titoli di origine, senza oneri e spese per il consumatore.
Il decreto legge interviene, infine, sulla trasparenza aggiungendo il comma 1-bis all'articolo 116 del Tu Bancario: le banche e gli intermediari finanziari devono rendere noti gli indicatori che assicurano la trasparenza informativa alla clientela, quali l'indicatore sintetico di costo e il profilo dell'utente, anche attraverso gli sportelli automatici e gli strumenti di accesso remoto ai servizi bancari.
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Indennizzi per i ritardi.
In caso di mancato rispetto delle norme a tutela del consumatore sulla portabilità del conto e dei servizi di pagamento, la banca inadempiente dovrà indennizzare il cliente in misura proporzionale al ritardo e alla disponibilità esistente sul conto di pagamento al momento della richiesta di trasferimento. Quindi maggiore è il ritardo o più alto è il saldo del conto e più pingue sarà l'importo dell'indennizzo.
Sarà un decreto ministeriale a definire i criteri per la quantificazione dell'indennizzo e anche le modalità e i termini di adeguamento alle disposizioni sulla portabilità dei titoli. In sede di prima attuazione, i decreti saranno emanati entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto. I prestatori di servizi di pagamento si devono adeguare alle disposizioni sulla trasferibilità dei servizi di pagamento entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto.
La legge parla di indennizzo, ma non pare escludere anche il risarcimento del danno. Se il correntista ha subito un danno ulteriore dovrà avere la possibilità di agire per ottenerlo. Il decreto ministeriale non può stabilire una cifra congrua per tutti i casi né può abrogare le disposizione del codice civile sulla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
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La Ue impone trasferimenti flash.
Stop a spese che frenano i consumatori nel passare da una banca all'altra: questo lo scopo della direttiva europea (2014/92), che impone ai prestatori di servizi di pagamento l'obbligo di mettere a disposizione dei consumatori una procedura rapida e sicura per trasferire i conti di pagamento.
La direttiva 2014/92/Ue scandisce i tempi del trasferimento dei conti di pagamento, precisando nel sesto giorno, da quando si hanno a disposizione le informazioni, la data a partire dalla quale gli ordini permanenti di bonifico e gli addebiti diretti devono essere eseguiti dal conto nella nuova banca.
La direttiva prevede poi un lasso di 12 giorni: entro due giorni lavorativi dalla ricezione dell'autorizzazione del consumatore, la nuova banca è tenuta ad attivarsi per chiedere alla vecchia banca le specifiche informazioni e per chiedere il compimento di specifiche operazioni, tra cui la chiusura del conto di provenienza; entro cinque giorni lavorativi dalla richiesta, il prestatore trasferente deve fornire le opportune informazioni; entro cinque giorni lavorativi dalla ricezione delle informazioni da parte del trasferente, il ricevente esegue le operazioni necessarie ad assicurare l'operatività del nuovo conto, a decorrere dalla data indicata dal consumatore (articolo ItaliaOggi Sette del 30.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Pos negli studi. E loro pagano. Costi fissi fino a 200 annui più il 2% della transazione. Allarme su spese e sanzioni per chi deve adeguarsi alle norme sulla moneta elettronica.
I costi della lotta all'evasione non possono gravare sempre sui professionisti. Per questo «l'operazione Pos» deve essere a saldo zero per gli studi. Invece i lavoratori autonomi che intendono mettere a disposizione dei clienti il pagamento elettronico sono costretti oggi a sborsare fino a 200 euro annui di costi fissi più il 2% dell'importo transato.
Troppi, secondo le categorie, che illustrano a ItaliaOggi Sette gli interventi correttivi ritenuti necessari.

«Continua l'opera di informatizzazione della pubblica amministrazione a spese dei professionisti», commenta Rosario De Luca, presidente della Fondazione studi dei consulenti del lavoro, «dopo la fatturazione elettronica obbligatoria per tutti i fornitori della p.a., che ha imposto nuove spese di gestione, ora è il turno della moneta elettronica negli studi professionali e delle relative sanzioni per chi non è dotato dell'apposito Pos in nome della tracciabilità dei pagamenti. Se lo Stato ritiene necessario questo adempimento noi siamo disponibili a farlo, ma non può prevedere che siano sempre i professionisti a pagare».
Sono stati proprio i consulenti del lavoro a stimare i costi dell'operazione. A seconda della tipologia di Pos installato (tradizionale, cordless o gsm), il canone di abbonamento varia dai 10 ai 28 euro al mese. A questi si devono aggiungere gli oneri delle chiamate (circa 20 centesimi per ogni operazione), più le commissioni a favore dell'istituto di credito, pari in media al 2% dell'importo incassato. Secondo i calcoli della Fondazione, un consulente del lavoro che in un anno riceve dai propri clienti 1.000 euro tramite un Pos tradizionale (25 operazioni da 40 euro) avrebbe un costo di 172 euro, ossia il 17,2% del fatturato. «È giusto prevenire l'evasione fiscale, ma non imponendo ai professionisti di fare un regalo alle banche di circa 2 miliardi di euro», aggiunge De Luca.
Poiché finora il Pos è stato sì reso obbligatorio dal legislatore, ma senza la previsione di sanzioni, molti studi professionali hanno deciso di non procedere all'installazione. Sul punto è intervenuto il Consiglio nazionale forense con la circolare n. 10/2014, che ha chiarito come l'unico rischio per l'avvocato inadempiente sarebbe la mora del creditore. «La disposizione introduce un onere, piuttosto che un obbligo giuridico», ha spiegato il Cnf, «e il suo campo di applicazione è necessariamente limitato ai casi nei quali saranno i clienti a richiedere all'avvocato di potersi liberare dall'obbligazione pecuniaria a proprio carico per il tramite di carta di debito. Ipotesi che, considerate le prassi in uso nei fori, per molti colleghi potrebbe anche non verificarsi mai».
In parlamento però c'è ora in discussione una proposta di legge che prevede sanzioni economiche e accessorie a carico chi non si dota di Pos (si veda altro articolo in pagina). Un «bastone» che, secondo i commercialisti italiani, potrebbe essere ammissibile solo laddove adeguatamente bilanciato dalla «carota» per i soggetti virtuosi. «Pur avendo riserve sul provvedimento», spiega il vicepresidente del Cndcec, Davide Di Russo, «non siamo pregiudizialmente contrari. Ciò che ci pare inaccettabile del testo in discussione al senato è l'ammontare abnorme delle sanzioni ipotizzate e l'idea di sospendere addirittura l'attività dei professionisti che non dovessero mettersi in regola».
Ancora una volta, sottolinea la categoria, il legislatore non si preoccupa più di tanto dell'aggravio economico per gli studi professionali legati all'introduzione del Pos. «Se proprio si vuol parlare di sanzioni», aggiunge Di Russo, «che lo si lo si faccia solo dopo aver introdotto quel credito d'imposta che i commercialisti chiedono da tempo per alleggerire il peso economico di una operazione che ricade totalmente ed indiscriminatamente sui professionisti italiani, a vantaggio del sistema bancario».
In realtà la proposta di legge prevede la «detrazione» del costo dalla base imponibile (una formulazione che peraltro lascia aperte diverse incertezze operative). Ma tale misura, a parere del Cndcec, non è affatto un'agevolazione, «per il semplice motivo che si tratta di costi inerenti all'attività professionale e quindi ovviamente deducibili». La richiesta dei commercialisti è invece quella di un credito d'imposta pari agli oneri sopportati, in modo da sterilizzare integralmente i maggiori costi.
A meno che, come ha evidenziato il presidente dell'Istituto nazionale tributaristi, Riccardo Alemanno, in una lettera inviata alla commissione finanze del senato la scorsa settimana, l'intenzione non fosse quella di prevedere «una duplice detrazione dei costi delle transazioni, cioè una detrazione prima effettuata a livello contabile, come costo di gestione, e poi nuovamente detratta prima del calcolo delle imposte».
In ogni caso, secondo l'Int, serve maggiore chiarezza, che si otterrebbe «solo indicando, quale agevolazione, un credito di imposta da calcolarsi in percentuale sui costi annui totali derivanti dall'installazione e dall'utilizzo del Pos». Da una ricognizione effettuata dal Notariato, infine, risulta che pressoché tutti gli studi notarili d'Italia si sono dotati dei pagamenti elettronici.
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Si rischiano multe fino a 500 euro.
Sanzioni economiche fino a 500 euro per negozianti, professionisti e aziende che non si dotano del Pos. E in caso di mancato adeguamento all'obbligo entro 90 giorni dalla contestazione l'addebito di un'ulteriore sanzione da 1.000 euro. Fino ad arrivare, scaduti tutti i termini previsti senza che siano stati adottati strumenti di pagamento elettronici, alla sospensione dell'attività professionale e commerciale.
È quanto prevede la proposta di legge n. 1747, che il 17 marzo scorso è stata assegnata alla commissione finanze del senato per l'avvio del proprio iter parlamentare. Il testo, di iniziativa del gruppo Area Popolare (Ncd-Udc), vede come primo firmatario il senatore Piero Aiello.
La finalità del provvedimento è quella di rendere più incisive le disposizioni recate dall'articolo 15, comma 4 del dl n. 179/2012. Senza la previsione di apposite sanzioni, infatti, la norma resta spuntata e non si può parlare di vero e proprio obbligo. «Il disegno di legge è volto quindi sia a premiare il professionista, commerciante, esercente o l'azienda che, in adempimento della normativa, abbia provveduto a dotarsi degli strumenti elettronici di pagamento, sia a tutelare il consumatore e fruitore del servizio nel caso in cui si veda negata la legittima possibilità di procedere al pagamento mediante strumenti elettronici», si legge nella relazione illustrativa.
Si ricorda peraltro che il dl n. 179/2012 prevede anche la possibilità di estendere l'obbligo a ulteriori strumenti di pagamento elettronici, specie con riguardo alle tecnologie mobili. Nell'ottica di raggiungere un più elevato livello di digitalizzazione del paese e di continuare a favorire la diffusione di strumenti tracciabili di pagamento, quindi, non è escluso che in futuro venga introdotta la possibilità di pagare la parcella del professionista attraverso lo smartphone e la tecnologia «contactless» (articolo ItaliaOggi Sette del 30.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Fatture elettroniche, è l'ora X. Al via la rivoluzione per 2 milioni di fornitori della p.a.. Da martedì l'estensione a tutti gli enti, comprese scuole, università, camere di commercio.
L'ora X è arrivata. Questa settimana (martedì 31 marzo) scatta l'obbligo di fatturazione elettronica per chi effettua cessioni di beni e prestazioni di servizi nei confronti degli enti pubblici. Non più soltanto le amministrazioni centrali dello stato (ministeri, agenzie fiscali, enti previdenziali), per i quali le procedure digitali sono già in essere dal 06.06.2014, ma anche enti locali, scuole, università, camere di commercio, aziende del servizio sanitario nazionale e quant'altro. Nessuna p.a. è esclusa, come chiarito dalla circolare Finanze-Funzione pubblica n. 1/2015 dello scorso 9 marzo.
Una rivoluzione che interesserà circa 2 milioni di imprese, tanti sono i fornitori abituali e occasionali della p.a.. Secondo i numeri forniti dalla rete Menocarta.net verranno meno 2,2 milioni di fatture cartacee all'anno, per un importo totale di 135 miliardi di euro. Il risparmio immediato per lo stato sarà di 1,5 miliardi di euro. Ma i benefici effettivi, in caso di digitalizzazione completa dell'intero circolo degli ordini a livello nazionale, potrebbe valere fino a 60 miliardi di euro annui.
Un cambiamento di portata storica ma che, come documentato da ItaliaOggi Sette del 16.03.2015, non è a costo zero per gli operatori. Soprattutto per i soggetti che con la p.a effettuano operazioni occasionali e/o di piccolo importo, l'obbligo di fatturazione elettronica e della conseguente conservazione sostitutiva rappresenta nell'immediato un maggior costo. L'aggravio si verifica sia che l'operatore decida di acquistare un software per gestire da sé il processo, sia laddove scelga di affidarlo in tutto o in parte a un provider di servizi esterno. Nel primo caso i costi potrebbero andare dai 200 ai 1.500 euro all'anno.
Nella seconda ipotesi, con il servizio «pay per use», i prezzi vanno in media dai 3 ai 20 euro per ogni fattura emessa. Mentre sul mercato delle software house fioccano offerte e saldi dell'ultima ora, i consigli nazionali di alcuni ordini, tra i quali commercialisti e consulenti del lavoro, hanno sviluppato soluzioni volte ad offrire ai propri iscritti fatture digitali gratuite per una determinata quantità o periodo di tempo.
 Lo stesso ha fatto Infocamere, che mette a disposizione delle imprese titolari di Carta nazionale dei servizi la gestione gratuita di 24 documenti contabili all'anno (articolo ItaliaOggi Sette del 30.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri, scattano le sanzioni. Conseguenze soft per chi attiva il ravvedimento operoso. Dal 1° aprile gli effetti per omessa iscrizione e mancato pagamento del contributo.
Scattano dal 01.04.2015 le sanzioni per omessa iscrizione al Sistri e mancato pagamento del relativo contributo annuale, ma la tempestiva attivazione del meccanismo di ravvedimento operoso previsto dal Codice ambientale permetterà agli operatori di attutirne l'effetto.
A sancire l'applicabilità delle prime sanzioni per l'inosservanza delle prescrizioni dettate dal nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti è il dl 192/2014 («Milleproroghe», come modificato dalla legge di conversione 11/2015) che, mediante la modifica al dl 91/2014 (c.d. «Competitività»), rende irrogabili le pene amministrative previste dai commi 1 e 2, articolo 260-bis del dlgs 152/2006 che colpiscono, con importi fino a 93 mila euro, le suddette condotte.
I soggetti interessati. I soggetti obbligati ad aderire al Sistri, e dunque potenzialmente interessati dalle sanzioni in caso di omissione, sono individuati dall'articolo 188-ter del dlgs 152/2006 e dal dm Ambiente 24.04.2014 (che ne ha ridotto il novero, come indicato nella tabella riportata in questa stessa pagina).
Tra i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi obbligati figurano, come chiarito dalla circolare Minambiente 31.10.2013, anche i soggetti che provvedono al trasporto in proprio degli stessi residui (indicati dallo scorso 9 marzo sul portale internet ufficiale «sistri.it» come coincidenti con quelli iscritti nella categoria 5 dell'Albo gestori ambientali).
I produttori di rifiuti, in particolare. Al fine di non incorrere nelle sanzioni, particolare attenzione dovrà essere prestata dai produttori iniziali di rifiuti. E questo alla luce di due circostanze: la produzione anche non volontaria di rifiuti speciali pericolosi che fa scattare l'obbligo di adesione al Sistri; il rinnovato sistema di classificazione dei rifiuti in vigore dal 18.02.2015 che può comportare la necessaria riconduzione sotto il novero dei pericolosi rifiuti che prima giuridicamente non lo erano.
Sotto il primo profilo, si ricorda infatti che l'iscrizione al Sistri deve essere infatti effettuata: (ex articolo 10, dm 52/2011) prima di dare avvio alle attività, o comunque al verificarsi dei presupposti per i quali la disciplina in materia dispone l'obbligo di iscrizione; (ex articolo 188-ter, comma 10, dlgs 152/2006) in caso di produzione accidentale di tali rifiuti, entro tre giorni lavorativi dall'accertamento della pericolosità degli stessi.
Sotto il secondo profilo, è invece necessario sottolineare come le nuove istruzioni introdotte dal dl 91/2014 nell'allegato D, Parte IV del Codice ambientale impongono al fine di individuare le eventuali caratteristiche di pericolo dei rifiuti: ove non siano noti i composti specifici, di prendere come riferimento quelli peggiori: qualora le sostanze presenti non siano note o determinate, di classificare i residui come pericolosi. Con la conseguenza che, ricorrendo tali condizioni, devono essere identificati come pericolosi quei rifiuti con i c.d. «codici a specchio», ossia da classificare come tali proprio in presenza di determinate caratteristiche di rischio.
Il contributo. A essere interessati dal pagamento del contributo annuale (da corrispondere ex dm 52/2011 entro il 30 aprile di ogni anno) sono i soggetti obbligati a iscriversi al Sistema e quelli che vi aderiscono su base volontaria.
In merito ai contributi pregressi (da regolarizzare), si ricorda che mentre quelli per gli anni 2012 e 2013 sono stati sospesi ex lege, quello relativo al 2014 è invece stato oggetto di mera proroga, avendone il citato dm Ambiente 24.04.2014 solo spostato il termine ultimo di pagamento al successivo 30.06.2014.
A chiarire la situazione dei soggetti che proprio a cavallo di detta proroga erano stati dallo stesso dm formalmente esclusi dall'obbligo Sistri aveva prontamente provveduto, lo ricordiamo, lo stesso Minambiente, il quale con comunicato 0017140/2014 aveva sottolineato come per tale categoria, tranne in caso di volontaria permanenza nel Sistema, l'obbligo di pagamento di contributo non sussisteva più, anche se alla data di scadenza 2014 ancora non era stata avviata o conclusa la procedura di cancellazione dal Sistema.
Il ravvedimento operoso. A mitigare l'impatto delle prime sanzioni Sistri concorrerà tuttavia, come accennato in apertura, il meccanismo del «ravvedimento operoso» previsto dall'articolo 260-bis, comma 9-ter, del Codice ambientale che rende indenne dalle sanzioni amministrative i soggetti che entro 30 giorni dalla commissione dell'illecito vi pongono riparo adempiendo agli obblighi sottesi e li ammette al pagamento di delle sanzioni se definiscono la controversia, sempre previo adempimento, entro 60 giorni dalla contestazione.
I controlli. Parallelamente allo scattare del sistema sanzionatorio si allarga anche il novero dei soggetti istituzionali addetti al controllo, essendo con dm 15.01.2015 stata formalizzata l'interconnessione al Sistri del Corpo forestale dello Stato, e ciò al fine al fine di intensificare in stretto rapporto con il Minambiente l'azione di contrasto alle attività illecite di gestione dei rifiuti.
La piena operatività del Sistri. Scatterà invece solo dal 01.01.2016, insieme alla cessazione del cd. «regime transitorio del doppio binario», l'applicabilità delle altre sanzioni (anche penali) previste dal dlgs 152/2006 per la violazione delle strette regole di tracciamento telematico dei rifiuti.
Ad alleggerirle concorrerà questa volta il nuovo istituto deflattivo ex dlgs 28/2015 che sancisce, sussistendo particolare tenuità dell'offesa e non abitualità della condotta, l'esclusione della punibilità per i reati sanzionati con pena pecuniaria o detentiva non superiore a cinque anni, range nel quale rientrano anche quelli previsti dalla disciplina Sistri (articolo ItaliaOggi Sette del 30.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Energia, un bollino cumulativo. Indice in funzione di tutti i servizi presenti nell'edificio. Dai metodi di calcolo agli esoneri: come cambia l'attestato di prestazione energetica.
Cambiano il volto i contenuti dell'Attestato di prestazione energetica (Ape), con nuovi metodi di calcolo delle prestazioni energetiche degli edifici. L'indice di prestazione energetica globale dell'edificio e la conseguente classe saranno finalmente determinati in funzione di tutti i servizi presenti nell'edificio (climatizzazione estiva, climatizzazione invernale, illuminazione, ventilazione e acqua calda sanitaria).
Queste le novità contenute nelle nuove linee guida nazionali (dei ministero dello sviluppo economico, di infrastrutture e ambiente) per l'attestato di prestazione energetica, che sostituirà il decreto del ministero dello sviluppo economico del 26.06.2009.
Esclusione obbligo Ape. Sarà eliminata la possibilità da parte del proprietario di autocertificare l'appartamento se di cattiva qualità energetica al momento della compravendita. Conseguentemente è stata maggiormente dettagliata la casistica degli edifici esentati dalla certificazione energetica, escludendo dagli obblighi quelli per cui risulta tecnicamente non possibile o non significativo procedere alla certificazione. Saranno esclusi i ruderi, gli immobili invenduti nello stato di «scheletro strutturale», i box, le cantine, le autorimesse, i parcheggi multipiano, i depositi e le strutture stagionali a protezione degli impianti sportivi. Nell'atto notarile di trasferimento della proprietà dovrà essere inserita esplicita dichiarazione dello stato di rudere.
Scostamento massimo. Gli strumenti di calcolo, o software commerciali per l'applicazione delle metodologie, dovranno garantire che i valori degli indici di prestazione energetica, calcolati attraverso il loro utilizzo, abbiano uno scostamento massimo del 5% rispetto ai corrispondenti parametri determinati con l'applicazione dello strumento nazionale di riferimento. Il comitato termotecnico italiano predisporrà lo strumento nazionale di riferimento sulla cui base verrà fornita una apposita garanzia.
Indice di prestazione energetica. L'indice di prestazione verrà sempre valutato in kWh/m2 di superficie climatizzata, sia per gli edifici residenziali sia per i non residenziali. L'attestato di prestazione energetica conterrà quindi gli indici per la climatizzazione estiva e per l'illuminazione degli ambienti.
Applicazione. Le nuove linee guida aggiorneranno i contenuti del dpr 59/2009 e del dm 26.06.2009 (linee guida nazionali in ambito energetico) e si applicheranno alle regioni e province autonome che non avranno ancora recepito la direttiva 2010/31/Ue. Una delle finalità delle nuove linee guida sarà rendere più omogenea e coordinata l'applicazione delle norme per l'efficienza energetica sul territorio nazionale, a oggi estremamente frastagliata a causa dell'autonomia regionale.
Dm in arrivo sui requisiti minimi. Nuovi metodi di calcolo della prestazione energetica degli edifici adeguati alla normativa europea. La classificazione degli edifici avverrà in base alla destinazione d'uso con format specifici e nuove norme per il monitoraggio e il controllo della regolarità amministrativa e tecnica della prestazione degli edifici. Dal 01.07.2015 i requisiti minimi saranno sempre più stringenti (nuove trasmittanze per strutture opache e trasparenti) rispetto agli attuali. Saranno aggiornati almeno ogni cinque anni, prevedendo che dal 01.01.2021 tutti gli edifici nuovi o sottoposti a ristrutturazioni importanti dovranno essere a energia quasi zero.
L'Ape conterrà anche gli indici di climatizzazione estiva, di illuminazione, l'indicazione dell'energia prelevata dalla rete e i vantaggi legati alle diagnosi energetiche e agli interventi di riqualificazione energetica, con lo scopo di rendere più reali le raccomandazioni già oggi presenti nell'attestato. Queste alcune delle novità contenute nel decreto Mise (emanato di concerto con il ministero dell'ambiente e dei trasporti) di prossima pubblicazione che ridefinirà le modalità di applicazione della metodologia di calcolo delle prestazioni energetiche e dell'utilizzo delle fonti rinnovabili negli edifici, e i requisiti minimi in materia di prestazioni energetiche degli edifici.
Il decreto entrerà in vigore il prossimo 01.07.2015 ed è attuativo dell'articolo 5 del decreto legge 04.06.2013 n. 63, convertito nella legge 03.08.2013 n. 90.
Applicazione Norma Uni. Il decreto sui requisiti minimi è da tempo atteso dagli operatori del settore dopo la pubblicazione delle norme Uni/ts 11300 parte 1 e parte 2 che hanno revisionato le metodologie di calcolo per eseguire la certificazione energetica.
L'ente italiano di normazione ha rilasciato gli aggiornamenti relativi alle norme Uni/ts 11300 parte 1 (determinazione del fabbisogno di energia termica dell'edificio per la climatizzazione estiva e invernale) e parte 2 (determinazione del fabbisogno di energia primaria e dei rendimenti per la climatizzazione invernale e per la produzione di acqua calda sanitaria), e quello relativo al rapporto tecnico Uni/tr 11552 (abaco delle strutture costituenti l'involucro opaco degli edifici). Per la prima volta, all'interno del decreto sui requisiti minimi vi è la definizione tecnica di «edificio a energia quasi zero».
L'indice di prestazione energetica globale dell'edificio e la conseguente classe saranno determinati in funzione di tutti i servizi presenti nell'edificio (climatizzazione invernale, climatizzazione estiva, acqua calda sanitaria, illuminazione e ventilazione). Vi sarà una definizione più chiara dei consumi energetici così da permettere all'utente di individuare il consumo totale di energia e la quota di energia rinnovabile utilizzata, la qualità dell'involucro e degli impianti (articolo ItaliaOggi Sette del 30.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONelle province esuberi lotteria. Regioni in ritardo sul riordino. Hanno legiferato solo in 3. Alla Toscana si aggiungono Liguria e Umbria. Il 31/3 la ricognizione dei lavoratori in eccesso.
Gli esuberi provinciali stanno assumendo sempre più i contorni di una lotteria. Mancano pochi giorni alla scadenza del 31 marzo entro cui, ai sensi della legge di stabilità, gli enti di area vasta dovranno individuare il personale oggetto di mobilità nell'ambito del riordino imposto dalla legge Delrio.
Ma proprio il ritardo accumulato dalle regioni, nella definizione delle funzioni che resteranno alle province e di quelle che saranno dirottate verso altri livelli di governo, rischia di sminuire il monitoraggio sui dipendenti in sovrannumero che inevitabilmente verrà attuato al buio. Ossia applicando le rigide percentuali di taglio degli organici imposte dalla legge 190/2014 (50% per le province, 30% per le città metropolitane) senza però un reale legame tra personale e funzioni. Con il rischio che, quando tutti i governatori avranno deliberato sulla sorte delle funzioni provinciali, gli enti di area vasta possano scoprire di aver considerato esuberi dipendenti quanto mai necessari per gestire compiti che le regioni non hanno voluto accollarsi, mantenendoli in capo alle province.
Alla data di ieri solo tre regioni a statuto ordinario su 15 hanno approvato in consiglio regionale la legge sul riordino delle funzioni provinciali. Alla Toscana, che è stata la prima, avendo approvato la legge regionale (n. 22) il 3 marzo scorso, si sono aggiunte negli ultimi giorni Liguria e Umbria dove le leggi di riordino hanno tagliato il traguardo in consiglio il 26 marzo. Le altre sono chi più, chi meno, in ritardo.
In Abruzzo, ad esempio, la legge di riordino ha avuto l'ok della giunta il 29 dicembre, ma poi in tre mesi non è riuscita ad approdare in consiglio per il varo definitivo. L'appuntamento è fissato per la fine di aprile, quindi un mese dopo l'individuazione degli esuberi da parte delle province.
La Basilicata era stata ancora più solerte (avendo varato in giunta la legge il 10 ottobre) ma poi l'iter si è inceppato. Le regioni più in ritardo sono quelle che sono andate al voto il 23 novembre: Emilia-Romagna e Calabria. Quest'ultima ha aspettato l'esito delle elezioni per costituire l'Osservatorio regionale e non ha ancora approvato in giunta il ddl. Stessa sorte per l'Emilia-Romagna che dovrebbe compiere il primo passaggio dell'approvazione in giunta a fine mese.
In Campania il provvedimento giace in consiglio dal 14 gennaio e al momento non si sa nulla su quando sarà approvato dall'assemblea. E anche in Lombardia si brancola nel buio. Il ddl si è impantanato nelle commissioni consiliari e l'unica certezza è che non è stato inserito nella programmazione dei lavori dell'assemblea fino a maggio.
Come annunciato dal sottosegretario Gianclaudio Bressa (si veda ItaliaOggi di ieri) l'esecutivo ha convocato i governatori per l'8, 9 e 14 aprile, nel quadro di incontri bilaterali, per cercare di sbloccare la situazione. Nel frattempo le province saranno chiamate a decidere al buio su chi dovrà andare in mobilità (articolo ItaliaOggi del 28.03.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIACon 30 kg c'è il Sistri.
Novità sul fonte iscrizione al Sistri per il trasporto in conto proprio. Per quanto riguarda i trasportatori di rifiuti speciali pericolosi risultano obbligate all'adesione al Sistri solo le imprese iscritte all'albo nazionale gestori ambientali in categoria 5, quindi per quantità superiori a 30 kg/litri al giorno.
Tutto questo in seguito all'aggiornamento sul portale Sistri, dell'elenco dei «soggetti obbligati» ad aderire al sistema di tracciabilità.
Sono obbligati ad aderire al Sistri gli enti e imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi con più 10 dipendenti, le imprese che raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi a titolo professionale, i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi che effettuano attività di stoccaggio, gli enti e imprese che effettuano operazioni di trattamento, recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti urbani e speciali pericolosi.
Fino al 31.12.2015 le aziende obbligate al Sistri saranno tenute a osservare una doppia registrazione dei rifiuti (articolo ItaliaOggi del 28.03.2015).

EDILIZIA PRIVATAEdifici classificati a energia zero. O quasi.
Arrivano nuovi metodi di calcolo e nuovi requisiti minimi in materia di prestazioni energetiche degli edifici. E arriva la definizione tecnica per gli immobili di «edificio a energia quasi zero». Dal 01.07.2015 i requisiti minimi saranno sempre più stringenti (nuove trasmittanze per strutture opache e trasparenti) rispetto agli attuali.
Saranno aggiornati almeno ogni 5 anni, prevedendo che dal 01.01.2021 tutti gli edifici nuovi o sottoposti ristrutturazioni importanti dovranno essere ad energia quasi zero. Vi sarà una definizione più chiara dei consumi energetici così da permettere all'utente di individuare il consumo totale di energia e la quota di energia rinnovabile utilizzata, la qualità dell'involucro e degli impianti. La classificazione degli edifici avverrà in base alla destinazione d'uso con format specifici e nuove norme per il monitoraggio e il controllo della regolarità amministrativa e tecnica della prestazione degli edifici.

La conferenza unificata del 25 marzo ha dato il via libera definitivo al decreto Mise (emanato di concerto con il ministero dell'ambiente e dei trasporti) di prossima pubblicazione sulla gazzetta ufficiale che ridefinirà le modalità di applicazione della metodologia di calcolo delle prestazioni energetiche e dell'utilizzo delle fonti rinnovabili negli edifici, e i requisiti minimi in materia di prestazioni energetiche degli edifici.
L'indice di prestazione energetica globale dell'edificio e la conseguente classe saranno determinati in funzione di tutti i servizi presenti nell'edificio (climatizzazione invernale, climatizzazione estiva, acqua calda sanitaria, illuminazione e ventilazione). Il decreto sui requisiti minimi è da tempo atteso dagli operatori del settore dopo la pubblicazione delle norme Uni/Ts 11300 parte 1 e parte 2 che hanno revisionato le metodologie di calcolo per eseguire la certificazione energetica.
L'ente italiano di normazione ha rilasciato gli aggiornamenti relativi alle norme Uni/Ts 11300 parte 1 (determinazione del fabbisogno di energia termica dell'edificio per la climatizzazione estiva e invernale) e parte 2 (determinazione del fabbisogno di energia primaria e dei rendimenti per la climatizzazione invernale e per la produzione di acqua calda sanitaria), e quello relativo al rapporto tecnico Uni/Tr 11552 (abaco delle strutture costituenti l'involucro opaco degli edifici).
Per la prima volta, all'interno del decreto sui requisiti minimi vi è la definizione tecnica di «edificio a energia quasi zero». L'indice di prestazione energetica globale dell'edificio e la conseguente classe saranno determinati in funzione di tutti i servizi presenti nell'edificio (climatizzazione invernale, climatizzazione estiva, acqua calda sanitaria, illuminazione e ventilazione).
Vi sarà una definizione più chiara dei consumi energetici così da permettere all'utente di individuare il consumo totale di energia e la quota di energia rinnovabile utilizzata, la qualità dell'involucro e degli impianti (articolo ItaliaOggi del 28.03.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMobilità con database. Incrocerà domanda e offerta di lavoro. Le amministrazioni dovranno inserire le informazioni entro il 13/4.
Al via la piattaforma per la ricollocazione dei dipendenti delle province e della Croce rossa. All’indirizzo www.mobilita.gov.it  il dipartimento della funzione pubblica ha allestito l’impianto per realizzare la mega banca dati dei posti disponibili ai fini dell’incontro domanda/offerta tra dipendenti in sovrannumero ed amministrazioni che possono assumere.
Con la messa in opera del portale, si avvia anche la fase della rilevazione dei posti disponibili.
Sul sito, il dipartimento guidato da Marianna Madia dispone che le amministrazioni avranno tempo entro il 13.04.2015 per inserire le informazioni richieste che riguarderanno cinque diversi elementi: la dotazione organica vigente; le unità di personale a tempo indeterminato e a tempo determinato presenti in servizio; le unità di personale cessato nel 2014; le previsioni di cessazione per l’anno 2015 e l’anno 2016; infine, il numero di posti destinato ai vincitori collocati nelle graduatorie vigenti (o approvate alla data dell’01.01.2015) di concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato di ciascuna amministrazione.
Le amministrazioni interessate dovranno registrarsi sul portale, compilando l’apposito modulo telematico e compilare le schede connesse. Tra queste amministrazioni sono comprese anche regioni ed enti locali, presenti nel data base degli enti chiamati a fornire le informazioni richieste. Sembra mancare, tuttavia, almeno stando all’informazione nella pagina d’accesso al portale, un elemento fondamentale per il censimento: l’attestazione che l’ente rispetta il patto di stabilità e i vincoli finanziari previsti dalle leggi per assumere.
Resta da capire come sarà impostata la rilevazione. Se, infatti, dovesse limitarsi all’indicazione delle disponibilità finanziarie e dei posti vacanti delle dotazioni organiche (rilevabili dalla differenza tra la dotazione organica e le unità di personale in servizio), la ricollocazione potrebbe avvenire senza uno specifico legame con i profili professionali del «fabbisogno». Si supererebbe, così, il problema posto da molte amministrazioni che, sondate in vari modo dalle province e dalla stessa Anci, hanno sin qui manifestato disponibilità ad assumere spesso per profili professionali a esse utili, ma praticamente assenti presso le province: è il caso paradigmatico degli educatori degli asili nido. La piattaforma, potrebbe, invece, abbinare i posti vacanti della dotazione ai profili professionali dei dipendenti provinciali.
Se così fosse, allora occorrerebbe aprire la possibilità ai comuni e alle altre amministrazioni di assumere, almeno per mobilità neutrale, i profili assenti nelle province. L’Anci ha chiesto al governo di inserire nel decreto finanze per gli enti locali una modifica al comma 424, che permetta ai comuni anche di scorrere le graduatorie vigenti o effettuare concorsi per figure professionali necessarie ai servizi essenziali.
Il portale informa, tuttavia, che «nei prossimi giorni saranno rese accessibili altre funzionalità necessarie per l’inserimento dei dati relativi alla programmazione completa dei fabbisogni delle amministrazioni interessate con riferimento ai rispettivi ordinamenti». L’accenno ai fabbisogni potrebbe far rientrare in pista l’indicazione di particolari profili professionali, col rischio, però, di un clamoroso mismatching tra offerta di mobilità (il personale in sovrannumero) e relativa domanda (articolo ItaliaOggi del 27.03.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOComuni, paga solo il dirigente. Per i sindaci nessuna responsabilità per la gestione. Ok senza modifiche alla discussa norma del ddl Madia. Procedimenti disciplinari veloci.
Solo i dirigenti, e non gli amministratori locali (sindaci, assessori), saranno responsabili per l'attività gestionale degli enti.

Il governo non ha fatto dietrofront sulla discussa norma, inserita a fine gennaio (si veda ItaliaOggi del 23/1/2015) come emendamento del relatore al ddl delega sulla riforma della p.a., subito ribattezzata «salva-sindaci» o «salva Renzi» (in quanto da alcuni ritenuta applicabile al giudizio per danno erariale a carico del presidente del consiglio, da cui però il premier è stato frattempo assolto).
Non ci sarà nessun ripensamento ma anche nessuna riformulazione dell'emendamento, come in un primo momento annunciato dal ministro Marianna Madia per evitare polemiche e definire meglio la ratio della disposizione. Il governo al senato ha tirato dritto per la sua strada confermando nel testo originario l'emendamento di Giorgio Pagliari (Pd). «Per me la norma era già abbastanza chiara, andando nella direzione di rafforzare il principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione e non dava adito a nessun retropensiero su un possibile salvacondotto per i sindaci», ha spiegato Pagliari a ItaliaOggi.
«Tuttavia, proprio per mettere a tacere le polemiche, mi ero dichiarato disponibile a una riformulazione del testo che precisasse le condizioni in cui anche gli organi politici sono chiamati a rispondere del loro operato». Il mancato dietrofont del governo è stato contestato dal Movimento Cinque Stelle che chiedeva la cancellazione della norma «salva-sindaci». «È un esempio dell'ipocrisia del governo», ha dichiarato Nicola Morra, vicepresidente della commissione affari costituzionali del senato. «In questo modo i politici vengono deresponsabilizzati e i dirigenti restano gli unici a rispondere da un punto di vista erariale ed amministrativo».
La commissione affari costituzionali del senato ha anche approvato l'emendamento che punta a sveltire i procedimenti disciplinari verso gli statali. Tra i criteri di delega che spetterà ai decreti attuativi tradurre in norme precettive, il governo ha fatto inserire l'«introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto l'esercizio dell'azione disciplinare». Alla stretta fa da contraltare la semplificazione dei procedimenti di valutazione che dovranno portare a riconoscere e premiare i dipendenti meritevoli.
Segretari comunali, partecipate e camere di commercio, tutto rimandato. La lentezza con cui la commissione affari costituzionali sta procedendo nel voto sugli emendamenti ha fatto slittare l'approvazione della soluzione transitoria, individuata dal relatore, per i segretari comunali e provinciali. Non c'è stato nessun dietrofront sulla cancellazione della figura, ma almeno per tre anni i segretari resteranno al loro posto anche se nel frattempo, a seguito dell'abolizione dell'Albo, saranno confluiti nel ruolo unico della dirigenza. Le funzioni oggi esercitate dai segretari (attuazione dell'indirizzo politico, coordinamento dell'attività amministrativa e controllo di legalità) saranno attribuite ai dirigenti.
L'emendamento prevede che i comuni capoluogo di provincia e quelli con più di 100 mila abitanti, in assenza di specifiche professionalità interne all'ente, possano individuare il dirigente apicale anche al di fuori del ruolo unico, «purché in possesso di adeguati requisiti culturali e professionali». Nei piccoli comuni, in coerenza con l'obbligo di associazionismo (che dopo la recente proroga scatterà solo a partire dal 2016), gli enti dovranno gestire in forma associata, al pari delle altre funzioni fondamentali, anche la funzione di direzione apicale.
Rinviata anche la stretta sulle società partecipate. La commissione affari costituzionali riprenderà oggi l'esame ripartendo dall'articolo 14 sulla razionalizzazione e il riordino delle partecipate.
L'approvazione slitta a dopo Pasqua. La conferenza dei capigruppo ha preso atto del passo di lumaca con cui sta procedendo la prima commissione e ha deciso di posticipare l'arrivo in aula del ddl a giovedì 2 aprile. In questo modo, di fatto, slitta dopo Pasqua l'ok finale del provvedimento che poi andrà a Montecitorio per la seconda lettura (articolo ItaliaOggi del 26.03.2015).

APPALTICantone «sfida» la Corte dei conti e limita la tassa odiata dalle imprese. Soccorso istruttorio. Pagano solo le aziende che vogliano rientrare in gara sanando irregolarità formali.
O la multa o il cartellino rosso. Il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, va incontro alle imprese vessate dagli eccessi di burocrazia in gara. E preferisce applicare i principi europei rispetto alla stretta interpretazione letterale delle norme, che pure, nel caso specifico, era piaciuta alla Corte dei Conti.
La questione potrebbe sembrare una tecnicalità, nascosta peraltro dietro al complicato nome di «soccorso istruttorio». Se non fosse che incide sulle casse delle imprese (piccole e grandi) interessate agli appalti pubblici. Riassumiamo. Per limitare le esclusioni dalle gare d’appalto pubbliche (e i relativi ricorsi al Tar) giustificate da errori puramente formali (come la dimenticanza di una firma o di una dichiarazione) lo scorso agosto il decreto Pa (Dl 90/2014) ha introdotto una norma che permette agli imprenditori di sanare i documenti irregolari entro 10 giorni, pagando una sanzione (compresa tra l’uno per mille e l’uno per cento dell’appalto, entro i 50mila euro). Chi non si mette in regola viene comunque escluso.
Problema: lo spirito della norma è chiaro, non la sua trasposizione letterale, che anzi induce molte stazioni appaltanti a comminare la sanzione anche alle imprese che decidono di non avvalersi della nuova possibilità di restare in corsa per il contratto sanando i documenti. E anzi preferirebbero rinunciare alla chance (magari del tutto aleatoria) di vincere l’appalto, rispetto alla certezza di dover sborsare subito qualche migliaio di euro.
Non la pensa così Cantone che aveva già chiarito la sua interpretazione nella determinazione n. 1/2015 dell’Autorità, mirata proprio a fugare i dubbi sull'applicazione del nuovo «soccorso istruttorio». Ora la posizione viene ribadita con un comunicato che, rispondendo ad alcuni quesiti del ministero dell’Interno, spiega che quell’interpretazione è «doverosa sia per evitare eccessive ed immotivate vessazioni delle imprese» sia per rispettare i principi contenuti nelle nuove direttive Ue che offrono «la possibilità di integrare o chiarire i certificati», «senza il pagamento di alcuna sanzione». Ma in Italia, si sa, ci piace distinguerci
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGONella gestione della Pa responsabili solo i dirigenti. Pubblica amministrazione. Si conferma la «salvaguardia» dei politici.
La responsabilità di gestione di un’amministrazione, dal più piccolo comune al maggior ministero di spesa, sarà tutta in capo alla dirigenza che risponderà dei risultati (o degli eventuali errori) sul piano contabile ed erariale.
È quanto prevede l’emendamento al Ddl Pa presentato dal relatore, Giorgio Pagliari (Pd), e approvato ieri in commissione Affari costituzionali del Senato. L’ok è arrivato dopo un teso confronto politico con i rappresentanti del Movimento 5 Stelle all’attacco contro una «misura salva-politici» e con altri settori dell’opposizioni critici per la scarsa efficacia della norma. Critiche anche fuori dal Parlamento con alcuni sindacati dei dirigenti pubblici che parlano di misura «salva-sindaci» e «salva-presidenti di Provincia e Regione». Tutti rilievi respinti con forza da Governo e relatore.
L’emendamento approvato affida al Governo una delega in più nell’ambito del previsto riordino del lavoro pubblico per meglio distinguere gli atti che rientrano nella gestione di un’amministrazione da quelli più propri dell’indirizzo politico. In altre parole si definirà con un decreto legislativo la tipizzazione di casi e fattispecie che non rientrano nell’indirizzo politico ma che sono propri della funzione amministrativa di cui risponde, appunto, la dirigenza.
«Immaginiamo una dirigenza autonoma anche in grado, se lo ritiene, di dire no alla politica» grazie alla «separazione tra l’attività di gestione e l’indirizzo politico», ha chiarito il ministro della Semplificazione e della Pa, Marianna Madia. Un concetto ribadito anche dal relatore Pagliari che ha sottolineato come l’approvazione dell’emendamento «che rafforza il principio di separazione tra l’indirizzo politico-amministrativo e la gestione» sia «un punto importante della riforma. Per questo -ha aggiunto- trovo ingiuste le critiche piovute dai gruppi di opposizione».
Sulla riforma più complessiva della dirigenza prevista all’articolo 10 del Ddl che è incardinata sul principio della rotazione degli incarichi e dell’istituzione del ruolo unico, la Commissione dovrebbe votare probabilmente martedì prossimo, data in cui la “Affari costituzionali” dovrebbe concludere i suoi lavori che per oggi prevedono il voto sul capitolo delle partecipate. In ogni caso il testo approderà in Aula al Senato il 2 aprile e non più il 31 marzo come originariamente previsto. Un leggero slittamento che è stato deciso ieri dalla Conferenza dei capigruppo di palazzo Madama. Il Senato darà quindi il suo via libera dopo Pasqua al provvedimento che a quel punto potrà cominciare il suo cammino alla Camera.
Ieri in Commissione sono stati approvati diversi altri emendamenti all’articolo 13, sul lavoro pubblico, che spaziano dal conferimento all’Inps dell’attività di accertamento sulle assenze per malattia alla semplificazione di tutta la normativa prevista nella riforma Brunetta per il riconoscimento del merito e della premialità fino al ridimensionamento delle procedure disciplinari «per rendere concreto e certo il tempo di espletamento» di una sanzione.
Tra gli emendamenti approvati anche quello che prevede, per le amministrazioni con oltre 200 addetti, la nomina di un dirigente responsabile dell’inserimento di dipendenti affetti da disabilità. Sul passaggio dalle Asl all’Inps: l’operazione riguarda sia le competenze per le verifiche sia delle risorse (si tratterebbe di 70 milioni euro). Nelle chiamate per gli accertamenti sarà data priorità ai medici inseriti in liste speciali dell’Inps. Saranno quindi loro, poco meno di 1.200, a sorvegliare sulla validità dei certificati.
Via libera anche alle nuove misure sui concorsi con l’accentramento delle selezioni per gli ingressi per tutte le Pa, la revisione delle regole per il loro svolgimento, una sorta di corsia preferenziale per i precari, la definizione dei tetti per gli idonei e la riduzione dei termini per la validità delle graduatorie per le quali scatta di fatto una stretta. «L’obiettivo è avere concorsi con scadenze metodiche», ha detto il ministro Madia. Che, parlando del riordino delle partecipazioni societarie delle pubbliche amministrazioni in votazione oggi in Commissione, ha sottolineato: «Non partiamo da un numero, ma ci sarà una drastica riduzione delle partecipate»
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.03.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Una piattaforma telematica per ricollocare i dipendenti.
Al via la piattaforma per la ricollocazione dei dipendenti delle province e della Croce rossa.

All'indirizzo www.mobilita.gov.it il Dipartimento della funzione pubblica ha allestito l'impianto per realizzare la mega banca dati dei posti disponibili ai fini dell'incontro domanda/offerta tra dipendenti in sovrannumero e amministrazioni che possono assumere. Con la messa in opera del portale, si avvia anche la fase della rilevazione dei posti disponibili.
Sul sito, il Dipartimento della funzione pubblica dispone che le amministrazioni avranno tempo entro il 13.04.2015 per inserire le informazioni richieste che riguarderanno cinque diversi elementi: la dotazione organica vigente; le unità di personale a tempo indeterminato e a tempo determinato presenti in servizio; le unità di personale cessato nel 2014; le previsioni di cessazione per l'anno 2015 e l'anno 2016; infine, il numero di posti destinato ai vincitori collocati nelle graduatorie vigenti (o approvate alla data dell'01/01/2015) di concorsi pubblici per assunzioni a tempo indeterminato di ciascuna amministrazione. Le amministrazioni interessate dovranno registrarsi sul portale, compilando l'apposito modulo telematico e compilare le schede connesse.
Tra queste amministrazioni sono comprese anche regioni ed enti locali, presenti nel data base degli enti chiamati a fornire le informazioni richieste. Sembra mancare, tuttavia, almeno stando all'informazione nella pagina d'accesso al portale, un elemento fondamentale per il censimento: l'attestazione che l'ente rispetta il patto di stabilità e i vincoli finanziari previsti dalle leggi per assumere. Resta da capire come sarà impostata la rilevazione.
Il portale informa, tuttavia, che «nei prossimi giorni saranno rese accessibili altre funzionalità necessarie per l'inserimento dei dati relativi alla programmazione completa dei fabbisogni delle amministrazioni interessate con riferimento ai rispettivi ordinamenti» (articolo ItaliaOggi del 25.03.2015).

VARIIl conto si sposta gratis. Trasferibili anche bonifici e domiciliazioni. Oggi in G.U. la legge 33/2015 di conversione del decreto banche.
Non si paga per spostarsi da una banca all'altra. Fra tre mesi, il trasferimento di un conto corrente da un istituto all'altro o anche semplicemente del conto di pagamento (bancomat, bonifici, domiciliazioni eccetera) dovrà avvenire in tempi certi e senza addebiti per il consumatore.

L'articolo 2 del decreto legge 3/2015 su banche e investimenti, convertito ieri in legge dal senato, in materia di portabilità dei conti di pagamento, riscritto nel corso dell'esame parlamentare, estende la portata della esenzioni di spese a tutte le ipotesi di trasferimento dei servizi, anche quando l'originario conto corrente di appoggio non viene estinto.
L'obiettivo dell'istituto è eliminare oneri o spese di portabilità nel caso di trasferimento di un conto di pagamento su richiesta di un cliente. La legge (che sarà pubblicata oggi in G.U. con il numero 33 e la cui norma sui conti entrerà in vigore dopo tre mesi dalla pubblicazione) recepisce la Direttiva 2014/92/Ue e la segnalazione dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm), dettando il tempo agli intermediari nel caso di portabilità del conto o dei servizi. In caso di mancato rispetto delle norme a tutela del consumatore, la banca inadempiente dovrà indennizzare il cliente in misura proporzionale al ritardo e alla disponibilità esistente sul conto di pagamento al momento della richiesta di trasferimento. L'importo dell'indennizzo sarà stabilito con un decreto ministeriale.
La norma riguarda il trasferimento di ordini permanenti di bonifico, addebiti diretti ricorrenti e bonifici in entrata ricorrenti eseguiti sul conto di pagamento, o il trasferimento dell'eventuale saldo positivo da un conto di pagamento di origine a un conto di pagamento di destinazione, o entrambi. E questo con o senza la chiusura del conto di pagamento di origine.
Il servizio di trasferimento senza spese è garantito tra i conti nella stessa valuta a tutti i consumatori. Chi deve occuparsi del trasferimento è la banca di destinazione su richiesta del consumatore, che deve rilasciare una specifica autorizzazione. Nel caso in cui il conto abbia due o più titolari, l'autorizzazione è fornita da ciascuno di essi. A questo punto la banca destinataria ha tempo 12 giorni lavorativi dalla ricezione dell'autorizzazione del consumatore. È il consumatore, inoltre, che deve identificare specificamente i bonifici ricorrenti in entrata, gli ordini permanenti di bonifico e gli ordini relativi ad addebiti diretti per l'addebito in conto che devono essere trasferiti.
Sempre il consumatore dovrà indicare la data a partire dalla quale decorrerà il trasferimento, ma non prima di sei giorni lavorativi a decorrere dal giorno in cui la banca destinataria avrà ricevuto i documenti dalla banca originaria.
Se gli operatori finanziari non osservano modalità e tempi del trasferimento si applicherà la sanzione prevista dall'articolo 144, comma 3-bis, del testo unico bancario (dlgs 385/1993) e cioè la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.160 a euro 64.555.
Per monitorare la situazione il decreto in commento dà la possibilità al consumatore di avere gratuitamente informazioni sull'esecuzione del servizio di trasferimento e relative agli ordini permanenti e agli addebiti. Sempre senza spese per il consumatore deve essere lo scambio di informazioni tra banche per il periodo di 13 mesi anteriori al trasferimento.
Il decreto, inoltre, esclude penalità e spese di chiusura se, nell'ambito del servizio di trasferimento, il consumatore richiede la chiusura del conto di pagamento di origine (articolo 126-septies, commi 1 e 3 del T.u. bancario).
Per ribadire il concetto un comma (il tredicesimo dell'articolo 2 in commento) attesta che il prestatore di servizi di pagamento trasferente e il prestatore di servizi di pagamento ricevente non devono addebitare spese al consumatore per il servizio di trasferimento.
Anche per evitare sorprese si stabilisce ancora che le informazioni necessarie al trasferimento devono essere messe a disposizione dei consumatori a titolo gratuito. Le regole esplicitate si applicano anche al trasferimento, su richiesta del consumatore, di strumenti finanziari da un conto di deposito titoli a un altro, con o senza la chiusura del conto di deposito titoli di origine, senza oneri e spese per il consumatore (articolo ItaliaOggi del 25.03.2015).

INCARICHI PROGETTUALIOpere pubbliche, concorsi obbligatori. Progettazione. Inizia l’iter in commissione Beni culturali al Senato il Ddl Zanda per valorizzare la qualità dell’architettura.
Concorsi di progettazione obbligatori per tutti gli interventi di trasformazione del territorio, incluse le grandi opere della legge obiettivo; stop agli appalti integrati di progetto e lavori, con obbligo di affidare a un unico professionista (o società o team ) tutti e tre i livelli della progettazione; rilascio dei permessi edilizi per interventi (piccoli e grandi) promossi da privati subordinato alla presentazione di un progetto redatto da un professionista abilitato; direzione lavori da assegnare al professionista responsabile del progetto esecutivo, salvo sua espressa rinuncia.
Sono alcuni dei principi, dalla grande carica innovativa, contenuti nel disegno di legge promosso da Luigi Zanda, capogruppo dei senatori Pd. Il provvedimento viene calendarizzato oggi. E c’è da scommettere che il senatore, che aveva presentato un Ddl di contenuto analogo nella scorsa legislatura (in cui peraltro era stato presentato alla Camera un provvedimento simile promosso dal settimanale «Progetti e Concorsi» del Sole 24 Ore), non mancherà di far pesare il suo ruolo per sollecitare l’esame del provvedimento.
Due i capitoli in cui si divide il disegno di legge. Nella prima parte l’attenzione si concentra sulla promozione della qualità della progettazione, mutuata dalla legge francese sull’architettura (Mitterand, 1977). Qui si chiarisce che la qualità dei progetti (nuove opere, recupero del patrimonio, infrastrutture) assume un «interesse pubblico primario». Di particolare rilievo la norma che impone l’obbligo di assegnare un incarico di progettazione a un professionista abilitato a «chiunque intenda intraprendere un’attività sottoposta a titolo edilizio». Tra i principi fondamentali di cui dovranno tenere conto le Regioni nelle loro leggi c’è il ricorso ai concorsi di progettazione o di idee per scegliere i progetti delle opere pubbliche (con bandi riservati ai giovani) .
Il secondo capitolo si interseca con la riforma appalti all’esame della commissione Lavori pubblici di Palazzo Madama (vedi articolo a fianco). Delega il governo a rivedere le norme sulla progettazione sia per le grandi che per le piccole opere. Tra i principi: concorsi di idee o di progettazione obbligatori per incarichi oltre centomila euro, stop agli appalti integrati e ai progetti affidata a general contractor, obbligo di affidare a un unico soggetto i tre gradi del progetto e la direzione lavori al titolare del progetto esecutivo.
E, infine, obbligo per la Pa di fare ricorso a società di project management per controllare l’operato in cantiere delle grandi imprese (con gara e spese a carico dei general contractor)
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAddio carta per le fatture alle Pa. Obbligo per ciascun ufficio di comunicare ai propri fornitori il codice univoco.
Digitalizzazione. Da martedì entrerà a regime la fase-due della fatturazione elettronica nei confronti della pubblica amministrazione.

A pochi giorni dall’avvio a regime della seconda fase della fatturazione elettronica nei confronti di tutte le pubbliche amministrazioni, gli operatori sono alle prese con gli ultimi adempimenti necessari per affrontare con successo la scadenza di martedì 31 marzo.
Individuare il codice univoco ufficio, in assenza di idonea comunicazione da parte dell’amministrazione destinataria, e gestire eventuali fatture cartacee, emesse in tale formato prima del termine di avvio (si veda l’articolo qui a fianco), costituiscono due delle attività di tipo non esclusivamente tecnologico che devono essere state affrontate e risolte per tempo.
I destinatari
Fondamentale è innanzitutto capire se un’amministrazione rientra o meno tra i destinatari obbligatori di fatture elettroniche. Di grande ausilio risulta la circolare 1 del 09.03.2015 a firma congiunta della presidenza del Consiglio dei ministri –dipartimento della Funzione pubblica– e del ministero dell’Economia e delle finanze.
Le classi di amministrazioni destinatarie non sono solamente quelle di cui all’elenco Istat, ma anche le autorità indipendenti e, comunque, le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 165/2001. A questo proposito, l’Agenzia per l’Italia digitale (Agid) ha pubblicato il 17 marzo un comunicato, informando della pubblicazione di una lista dei soggetti che, dalle rilevazioni effettuate al 15.03.2015, non risultavano ancora registrate nell’Indice delle pubbliche amministrazioni (Ipa).
Il codice univoco ufficio, attribuito dall’Ipa a seguito dell’accreditamento delle amministrazioni, costituisce un elemento non solo obbligatorio nei flussi di fatturazione ma anche indispensabile e funzionale alla corretta veicolazione delle fatture al destinatario. In effetti può capitare che un ente pubblico abbia più Ipa e che il fornitore operi contestualmente su più uffici. In questo caso sarà necessario indirizzare ciascuna fattura all’Ipa di riferimento di ciascun contratto.
Il codice
La registrazione su Ipa e un’attività propedeutica per la transizione al sistema elettronico di fatturazione, garantendo l’identificazione degli uffici che, all’interno delle amministrazioni, devono recepire le fatture. Sono a questo riguardo ancora assolutamente applicabili le indicazioni già rese dal Dipartimento delle Finanze con la circolare 1 del 31.03.2014 che impone, in capo a ciascuna pubblica amministrazione, l’obbligo di comunicare ai propri fornitori il codice univoco ottenuto dall’Ipa in modalità tale da permettere l’associazione con i contratti vigenti.
A ciascuna amministrazione che si accredita in Ipa viene innanzitutto attribuito un codice corrispondente all’ufficio centrale di fatturazione elettronica. Questo codice deve essere utilizzato solamente se il fornitore non ha ricevuto dall’amministrazione la comunicazione del codice univoco ufficio destinatario della fattura.
L’interscambio
Sulla base dei dati fiscali di destinazione, presenti sulla fattura, il Sistema di interscambio, attraverso cui transitano tutti i flussi elettronici, verifica comunque l’esistenza o meno in Ipa di un ufficio, non centrale, preposto al ricevimento. In caso di riscontro positivo, il Sdi invia al mittente una notifica di scarto segnalando contemporaneamente l’ufficio competente. In caso contrario, la fattura viene inoltrata all’ufficio centrale individuato dall’amministrazione.
Potrebbe accadere invece il diverso caso in cui il fornitore, non avendo ricevuto alcuna comunicazione dall’amministrazione, riscontri in Ipa anche l’assenza di un ufficio centrale. In questa ipotesi, occorre indicare in fattura il valore di default indicato nelle specifiche tecniche operative predisposte da Agid e agenzia delle Entrate. Il Sdi, analogamente al caso precedente, verifica l’esistenza in Ipa di un unico ufficio destinatario respingendo eventualmente la fattura con notifica di scarto e indicando il codice ufficio da utilizzare.
Il via libera
In tutti gli altri casi il Sdi rilascia al fornitore una «Attestazione di avvenuta trasmissione della fattura con impossibilità di recapito». La fattura in esso contenuta viene considerata in questo caso emessa. Può essere quindi recapitata all’amministrazione dal fornitore trasmettendo l’attestato tramite un servizio di posta elettronica, altro canale telematico, ovvero mettendola a disposizione tramite portali telematici che consentano di effettuare il download dell’attestato e della fattura elettronica nello stesso inclusa
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Vecchi invii da regolare in tre mesi. Il regime transitorio per saldare i documenti.
Il divieto di pagamento in assenza di fattura elettronica costituisce un limite all’emissione e alla gestione in formato cartaceo dei documenti da martedì 31.03.2015. L’articolo 6, comma 6 del Dm 03.04.2013, n. 55 dispone inoltre che, trascorsi tre mesi dalla data di decorrenza dell’obbligo di fatturazione elettronica, le pubbliche amministrazioni non possono procedere ad alcun pagamento, nemmeno parziale, sino all’invio delle fatture in formato elettronico.
La circolare 1 del 31.03.2014 ha già analizzato la portata di tali disposizioni, individuando i comportamenti da tenere nel caso in cui siano state emesse fatture cartacee prima dell’avvio dell’obbligo. Le indicazioni rese allora sono applicabili anche in vista della prossima scadenza.
È stato chiarito innanzitutto come l’obbligo di emissione in forma elettronica precede di tre mesi la corrispondente decorrenza del divieto di accettazione e pagamento di fatture in forma cartacea. Si tratta di un periodo di transizione durante il quale le pubbliche amministrazioni possono ancora accettare e pagare fatture emesse in forma cartacea entro il termine di decorrenza dell’obbligo. I fornitori, a loro volta, a partire dalla decorrenza dell’obbligo, non possono più emettere fattura in forma cartacea.
La trasmissione di una fattura cartacea non è infatti istantanea e, di conseguenza, è stato definito questo periodo di transizione tenuto conto, ad esempio, dei giorni che decorrono, nel caso di spedizione a mezzo posta ordinaria, dal momento dell’emissione a quello della ricezione. Quindi se al 31.03.2015 una Pa stesse ancora processando una fattura cartacea emessa prima dello scadere del termine, la necessità di instaurare una nuova procedura, a seguito dell’invio da parte del fornitore di una fattura elettronica, comporterebbe un ulteriore prolungamento dell’iter amministrativo, con aggravio di costi sia per il fornitore sia per l’amministrazione.
Per queste ragioni, il procedimento amministrativo avviato a seguito del ricevimento di fattura cartacea, emessa prima del 31.03.2015, può essere concluso con il pagamento senza attendere l’invio di una fattura elettronica.
L’attestazione della data di emissione della fattura prima del 31.03.2015, e la sua conseguente presa in carico dall’amministrazione ricevente, possono essere ottenute anche ricorrendo alle funzionalità messe a disposizione dalla piattaforma certificazione dei crediti.
Infatti il fornitore che ha emesso e trasmesso una fattura cartacea prima dell’avvio della seconda fase di FatturaPa potrebbe accreditarsi sulla piattaforma e inserire i dati di fattura sulla stessa, assicurando così l’attribuzione, di fatto, di una data certa di emissione e trasmissione della fattura all’amministrazione destinataria. È esclusa al contrario la possibilità, per le Pa, di accettare fatture su carta emesse dopo il 31.03.2015
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

SEGRETARI COMUNALIPer i segretari comunali soluzione ponte di tre anni. Delega Pa. Niente bonus concorsi per gli staff «politici».
L’abolizione dei segretari comunali e provinciali scatterà di fatto solo fra tre anni anche se formalmente i 3.669 dirigenti in questione confluiranno subito nel nuovo ruolo unico degli enti locali.
È questo il «punto di equilibrio» trovato ieri in Commissione Affari costituzionali e che ha acceso la luce verde all’emendamento riformulato dal relatore Giorgio Pagliari (Pd), che sarà votato tra oggi e domani. Ieri invece i senatori hanno approvato una correzione proposta da Linda Lanzillotta (Pd) che cancella i bonus per chi, con una diretta collaborazione presso un organo politico, decidesse di partecipare a un concorso.
La seduta di ieri è durata poco per un imprevisto che ha riguardato uno dei componenti della Commissione, così solo oggi si entrerà nel vivo delle votazioni sugli ultimi articoli del disegno di legge delega Pa. Un leggero allungamento dei tempi che potrebbe far slittare a domani il voto finale sull’articolato. Resta comunque confermato l’obiettivo di avviare l’esame del testo in Aula il 31 marzo.
«Sui segretari comunali c’è stata un’ampia discussione e il relatore» ha presentato «la riformulazione» di una proposta la quale «scinde tra la figura del segretario comunale, che viene abolita confluendo nel ruolo unico della dirigenza, e le sue funzioni di legalità amministrativa, che invece vengono mantenute» ha spiegato il ministro della Semplificazione e della Pa, Marianna Madia.
In pratica nulla cambia nell’immediato. I segretari, il cui Albo viene cancellato, continueranno a svolgere la loro triplice funzione per le amministrazioni di appartenenza: attuazione dell’indirizzo politico, coordinamento dell’attività amministrativa e controllo di legalità dell’azione amministrativa, compresa l’attività di rogito per la quale sono stati cancellati i vecchi compensi. Una sorta di “soluzione ponte” come ha spiegato il relatore, Giorgio Pagliari: «in sede di prima applicazione, per tre anni, le funzioni in questione verranno affidate ai dirigenti del ruolo unico provenienti dall'albo dei segretari comunali».
L’emendamento, in cui si conferma che la soluzione non dovrà comportare nuovi oneri per la finanza pubblica, consente ai comuni capoluogo di provincia e a quelli con un popolazione superiore ai 100mila abitanti, di reclutare il dirigente-segretario anche fuori dal ruolo unico, «perché in possesso di adeguati requisiti culturali e professionali».
Tra i nodi che restano da sciogliere oggi c’è quello delle Camere di commercio, il cui riordino è previsto all’articolo 9 del ddl. L’emendamento originale del relatore prevede una riduzione degli enti attuali da 105 a 60 con un soglia dimensionale minima di 80mila imprese locali iscritte nel registro delle imprese. Ma la discussione è aperta tra le diverse forze politiche per fissare soglie più elevate e consentire la permanenza di enti camerali in aree urbane maggiori, anche se dal ministero per lo Sviluppo economico, che dovrà attuare la delega in questione, arriva un «no» all’aumento delle circoscrizioni. Possibili deroghe a questi vincoli potrebbero essere presi in esame nella seconda lettura alla Camera.
Altro nodo che oggi arriva al pettine è quello delle società partecipate (articolo 15). L’orientamento resta quello di non procedere con la norma salva sindaci e confermare il ripristino della responsabilità degli amministratori. Verrà rinviato a una decisione dell’Aula, infine, il nodo del riordino della Guardia forestale, intervento sul quale ieri sono nuovamente scesi in campo i sindacati.
In una nota siglata da organizzazioni che rappresentano oltre il 70% dei personale si è fatto ieri notare come «stia prevalendo la logica della scorciatoia mediatica attraverso l’inutile quanto dannoso accorpamento dell’unica forza di polizia specializzata nella sicurezza ambientale ed agroalimentare, che metterà a rischio l’economia di importanti settori produttivi del nostro Paese ed il benessere dei cittadini»
(articolo Il Sole 24 Ore del 25.03.2015).

APPALTI: Centrali uniche da limitare. Dl enti locali.
Consentire a tutti i comuni di acquisire lavori, forniture e servizi fino a 40 mila euro di importo senza obbligo di ricorrere alle centrali uniche di committenza.

È questa la richiesta avanzata dall'Anci per il prossimo decreto enti locali che dovrebbe andare in consiglio dei ministri nei giorni a ridosso di Pasqua e che è stato oggetto di esame da parte del direttivo dell'Anci del 19 marzo.
Nella missiva che ha inviato il presidente Anci, Piero Fassino al presidente del consiglio, è allegato un corposo documento con 36 norme con le quali affrontare molti temi che stanno a cuore agli enti locali (si veda ItaliaOggi del 21/3/2015).
Fra le diverse richieste, l'Anci dedica una disposizione ad hoc all'obbligo di acquisizione di lavori, forniture e servizi attraverso le modalità previste dall'articolo 33, comma 3-bis, del Codice dei contratti pubblici, come modificato dal dl 66/2014 e successivamente dal dl 90/2014, che si sostanziano quindi nell'obbligo di ricorso a forme di aggregazione degli acquisiti, cioè alle centrali di committenza.
Si tratta di un obbligo che per tutti gli enti locali è stato rinviato al 01.09.2015 dal decreto Milleproroghe da poco convertito in legge. In sede di conversione in legge del provvedimento di urgenza l'Anci aveva però fatto presente la necessità di intervenire, oltre che sull'entrata in vigore dell'obbligo, anche sulla disposizione che oggi ammette la possibilità di procedere autonomamente per appalti fino a 40 mila euro (senza quindi ricorrere alle centrali di committenza).
In particolare, i comuni con popolazione superiore a 10 mila abitanti possono procedere autonomamente per gli acquisti di beni, servizi e lavori di valore inferiore a 40 mila euro; gli enti locali sotto questa soglia sono invece costretti a ricorrere alla centrale unica di committenza per ogni spesa (a parte quelle tramite economato).
L'Anci giudica la norma inidonea ad affrontare situazioni in cui occorre intervenire immediatamente, che tuttavia non rientrano nelle spese economali e non sono rinvenibili sulle piattaforme Consip/Mepa (articolo ItaliaOggi del 24.03.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ok al Mud via web entro il 30/4. Unioncamere.
Entro il 30 aprile il Mud va inviato per via telematica (tramite il sito www.mudtelematico.it) alla camera di commercio di competenza con i dati riferiti all'anno 2014, utilizzando il software Unioncamere. Solo la comunicazione semplificata può essere inviata su modulistica cartacea tramite posta. La camera di commercio competente è quella nel cui territorio ha sede l'unità locale cui la dichiarazione si riferisce. Il diritto di segreteria è di 15,00 euro per ogni unità locale dichiarante. Il diritto di segreteria spettante alla camera di commercio deve essere versato, generalmente, utilizzando un bollettino di conto corrente postale indicando nella causale di versamento il codice fiscale del dichiarante e la dicitura «diritti di segreteria Mud- (legge n. 70/1994)».

Il nuovo modello unico di dichiarazione ambientale, approvato con dpcm 17.12.2014 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 27.12.2014 n. 299) dà la possibilità di indicare altri stati fisici oltre a quelli previsti e di indicare, nel modulo RE, i rifiuti prodotti da cantieri temporanei e mobili anche di bonifica. Infine prevede l'obbligo di distinguere tra i rifiuti in deposito temporaneo quelli in attesa di essere avviati a recupero da quelli destinati allo smaltimento e la possibilità.
Il nuovo modello unico di dichiarazione ambientale è diviso in sei comunicazioni: rifiuti, veicoli fuori uso, imballaggi, rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, rifiuti urbani e assimilati e produttori di apparecchiature elettriche ed elettroniche. I soggetti che svolgono attività di solo trasporto e soli intermediari senza detenzione devono invece presentare il Mud alla camera di commercio della provincia nel cui territorio vi è la sede legale dell'impresa cui la dichiarazione si riferisce.
Deve essere presentato un Mud per ogni unità locale che sia obbligata dalla normativa vigente. La comunicazione rifiuti semplificata deve essere compilata utilizzando la modulistica cartacea disponibile sul sito oppure attraverso la nuova procedura di compilazione disponibile, a partire dalla fine di febbraio, sul sito di Ecocerved.
Le comunicazioni semplificate devono essere spedite alla Cdc competente per territorio all'interno di apposito plico. Ogni plico deve contenere l'attestazione di versamento dei diritti di segreteria (articolo ItaliaOggi del 24.03.2015).

APPALTI SERVIZIVerde pubblico, «sì» all’affidamento slegato dai rifiuti. Servizi locali. Dal ministero dell’Ambiente.
Il verde pubblico è un «servizio pubblico» autonomo, e di conseguenza può essere oggetto di un affidamento separato da quello relativo all’igiene urbana.
L’indicazione arriva dal ministero dell’Ambiente, nella deliberazione 19.03.2015 n. 6/2015 con cui il comitato per lo sviluppo del verde pubblico ha risposto al quesito di un Comune.
Il punto fondamentale è rappresentato proprio dalla possibilità o meno di affidare la gestione e la manutenzione del verde con una procedura autonoma, evitando di collegarla a quella relativa all’igiene urbana. Questo matrimonio, sottolinea il ministero, «assume rilievo in punto di fatto», perché in molti Comuni è dato per scontato, ma non rappresenta una soluzione obbligatoria.
Per essere oggetto di un affidamento a sé, un’attività deve rispondere ai requisiti necessari a configurarla come «servizio pubblico», ed è su questi parametri che il ministero si concentra per arrivare a dare la propria risposta al quesito del Comune. L’identikit più puntuale di un servizio pubblico si incontra nella sentenza 2021/2012 del Consiglio di Stato, che fissa quattro caratteristiche: l’attività deve essere prevista da una legge, deve essere obbligatoria, avere un «carattere economico e produttivo» ed essere rivolto a tutta la collettività amministrata.
La base normativa è individuata nel Testo unico degli enti locali, secondo il quale i Comuni sono «enti a fini generali» (articolo 3) e devono «promuovere lo sviluppo delle comunità locali» (articolo 112). In questo raggio d’azione così ampio, spiega il ministero, rientra anche il verde pubblico, il cui carattere obbligatorio è confermato anche dalla legge ambientale (articolo 4, comma 2, della legge 10/2013) che impone l’approvazione delle varianti urbanistiche ai Comuni dove non sono previste le quantità minime di verde pubblico fissate dalle regole nazionali (in particolare il Dm 1444/1968). Il verde pubblico, allora, rientra fra i «servizi indivisibili» finanziati con la Tasi, e in quanto tale risponde anche al requisito dell’universalità in base al quale un servizio pubblico, per essere tale, deve rivolgersi genericamente alla collettività.
Meno scontato è il «carattere economico» del servizio, che secondo il ministero dell’Ambiente può essere determinato anche dai risparmi di spesa che una scelta gestionale può portare. In altre parole, se la modalità di affidamento fa risparmiare risorse al Comune, che può quindi dirottarle ad altre attività, anche il requisito del carattere economico viene rispettato.
Così configurato, conclude la delibera, il verde può essere oggetto in modo autonomo di tutte le opzioni tipiche dei servizi pubblici, che vanno dalla gestione diretta all’affidamento in house o con gara
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.03.2015).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: In tema di rispetto delle distanze costituisce jus receptum il principio per cui "in tema di distanze fra costruzioni o di queste con i confini vige il regime della c.d. "doppia tutela", per cui il soggetto che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita (con competenza del G.O.) e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'amministrazione, quando tale attività sia stata autorizzata, consentita e permessa (conosciuto dal G.A.)".
A fronte di una fondata denuncia di malgoverno delle disposizioni che regolano le distanze, quindi, all’Amministrazione non resta –salvo casi limite qui certo non ricorrenti- che attivare le verifiche ed eventualmente annullare il titolo rilasciato.
Non si tratta –quindi- di dare “rilievo unicamente all’interesse di una parte” come infondatamente sostenuto da parte appellata: si tratta invece di applicare la legge, a fronte di due interessi speculari e pari ordinati integranti posizioni di diritto soggettivo.

1. L’appello dell’amministrazione comunale è fondato e merita di essere accolto, con conseguente reiezione del ricorso di primo grado. Per identiche ragioni va parimenti accolto l’appello incidentale proposto dal’originario contro interessato di primo grado Fasoli.
2. Si controverte in ordine alla esattezza –o meno- dell’annullamento parziale del titolo edilizio rilasciato a L.V. nella parte in cui il fabbricato erigendo era posizionato a soli mt. 3,50 (invece di 7, 50) dal confine di pertinenza F. ed alla apertura di finestre nel cavedio posto al lato est del predetto fabbricato.
2.1. Posto che l’appellata S.R.L. F., costituendosi con memoria, ha riproposto i motivi del mezzo di primo grado assorbiti dal Tar, ritiene il Collegio per comodità espositiva di vagliare prioritariamente questi ultimi.
2.2. Essi sono palesemente infondati.
2.3. Invero la ditta F., esecutrice dei lavori, non era proprietaria dell’area, e “vanta” esclusivamente una posizione derivata: posto che l’avviso dell’avvio del procedimento di autotutela ex art. 7 della legge n. 241/1990 fu inviato alla titolare dell’area V.L. (che aveva richiesto in proprio il titolo abilitativo 24.12.2004) e latrice del permesso di costruire (come lealmente ammesso dalla stessa ditta F. a pag. 24 dell’appello, in seno al terzo motivo) essa non può dolersi che l’avviso non le sia stato direttamente inoltrato.
2.4. Quanto alla asserita insussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’autotutela (secondo riproposto motivo di doglianza), la censura non persuade.
Il permesso di costruire fu rilasciato il 11.7.2005; i lavori (sbancamenti, etc.) iniziarono il 16.07.2005 (come sostenuto dalla predetta ditta F., e rimasto incontestato): ma già in data 08.08.2005 parte appellante incidentale F. (e l’altro vicino, Sig. G.) si attivò inviando un esposto al comune e per conoscenza alla proprietaria dell’area V.L. ed alla stessa F., facendo presente che il fabbricato non rispettava le distanze (e che v’erano due aperture abusive, peraltro).
Il brevissimo termine dall’avvio dei lavori rende palese che i presupposti oggettivi dell’autotutela sussistevano; per altro verso, parte appellata F. richiama a torto la doverosità di una comparativa delibazione sull’interesse pubblico.
Essa non può mai mancare –è ben vero- nel caso di esercizio di autotutela. Ma nel caso di specie essa è recessiva, e comunque l’interesse pubblico è in re ipsa, laddove si consideri che in tema di rispetto delle distanze costituisce jus receptum il principio per cui (ex aliis, ancora di recente TAR Veneto Venezia Sez. II, 29.04.2014, n. 561, ma si veda anche Cons. Giust. Amm. Sic., 30.05.2013, n. 514, Cons. Stato Sez. V, 28.12.2011, n. 6955) “in tema di distanze fra costruzioni o di queste con i confini vige il regime della c.d. "doppia tutela", per cui il soggetto che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita (con competenza del G.O.) e, dall'altra, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'amministrazione, quando tale attività sia stata autorizzata, consentita e permessa (conosciuto dal G.A.)".
A fronte di una fondata denuncia di malgoverno delle disposizioni che regolano le distanze, quindi, all’Amministrazione non resta –salvo casi limite qui certo non ricorrenti- che attivare le verifiche ed eventualmente annullare il titolo rilasciato.
Non si tratta –quindi- di dare “rilievo unicamente all’interesse di una parte” come infondatamente sostenuto da parte appellata: si tratta invece di applicare la legge, a fronte di due interessi speculari e pari ordinati integranti posizioni di diritto soggettivo.
Ad avviso del Collegio, parte appellata non ha neppure un reale interesse a sollevare la questione: l’appellante incidentale, ove la sua ricostruzione fosse ritenuta fondata e pur tuttavia il provvedimento di autotutela venisse annullato per vizi formali e comunque suoi propri, potrebbe rivolgersi al GO ottenendo la disapplicazione del provvedimento abilitativo illegittimo e la rimozione in pristino.
Ne discende che l’unica questione centrale è quella riposante nella esattezza –o meno- della ricostruzione dell’amministrazione comunale, e che anche il secondo motivo della memoria di parte appellata è infondato, e comunque vi sarebbe da dubitare del concreto interesse a proporlo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.03.2015 n. 1692 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è necessaria la preventiva comunicazione dell’avvio del procedimento in caso di annullamento d’ufficio del permesso di costruire.
Osserva preliminarmente il Collegio che l’ultimo passaggio del ragionamento di parte ricorrente (secondo il quale la preclusione dell’annullamento di cui all’art. 21-octies cit. sarebbe applicabile solo all’attività vincolata) non ha portata generale e non vale con riferimento al vizio dedotto in giudizio (mancata comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della legge n. 241 del 1990).
Come anche da ultimo la giurisprudenza ha messo in evidenza l’art. 21-octies cit. prevede “due diverse fattispecie”, di cui “la prima è generale e riguarda il caso in cui l’attività amministrativa sia vincolata e l’amministrazione abbia violato una norma che contempla un requisito formale o procedimentale”, mentre “la seconda ha carattere particolare e riguarda il caso in cui è violata la norma che contempla il requisito procedimentale della comunicazione di avvio del procedimento”, con la precisazione che “tale ultima fattispecie, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, si applica in presenza di attività sia vincolata che discrezionale”; ciò è reso palese dal fatto che il secondo periodo del comma 2 dell’art. 21-octies stabilisca che il provvedimento amministrativo, nel caso di mancanza di comunicazione di avvio che risulti ininfluente, non è “comunque” annullabile, cioè sia con riferimento alla generale categoria dell’attività vincolata, di cui al primo periodo del medesimo comma 2, sia con riferimento all’attività discrezionale.
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Come la giurisprudenza ha avuto modo di evidenziare, il parere della Commissione Edilizia e della Commissione per il Paesaggio deve sì essere acquisito anche in sede di ritiro del titolo abilitativo, ma con l’eccezione delle ipotesi in cui l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio sia supportato solo da ragioni eminentemente formali o di esclusivo rilievo giuridico.
Nella specie l’annullamento del permesso di costruire in sanatoria non coinvolge profili tecnici relativi alla edificazione ma è fondato su una valutazione di tipo eminentemente giuridico, essendo correlato al fatto che il titolo in sanatoria ritirato era stato rilasciato sulla base di una istanza di accertamento di conformità parziale, che non consentiva conseguentemente la necessaria valutazione dell’abuso nella sua complessiva effettiva consistenza.
Ne discende che in una tale fattispecie non risulta necessaria la acquisizione dei suddetti pareri.

12 – Con il primo mezzo di cui al ricorso introduttivo del giudizio la società ricorrente contesta il provvedimento n. 9080 del 2011, di annullamento d’ufficio del permesso di costruire in sanatoria n. 9 del 2010, in quanto non preceduto da comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990.
La censura è infondata.
Parte ricorrente rileva la circostanza, pacifica, che l’Amministrazione non ha provveduto a comunicare preventivamente l’avvio del procedimento di annullamento d’ufficio ed evidenza che tale mancanza non sarebbe sanabile ai sensi dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, stante la natura discrezionale dell’atto di autotutela.
Osserva preliminarmente il Collegio che l’ultimo passaggio del ragionamento di parte ricorrente (secondo il quale la preclusione dell’annullamento di cui all’art. 21-octies cit. sarebbe applicabile solo all’attività vincolata) non ha portata generale e non vale con riferimento al vizio dedotto in giudizio (mancata comunicazione di avvio del procedimento di cui all’art. 7 della legge n. 241 del 1990).
Come anche da ultimo la giurisprudenza ha messo in evidenza l’art. 21-octies cit. prevede “due diverse fattispecie”, di cui “la prima è generale e riguarda il caso in cui l’attività amministrativa sia vincolata e l’amministrazione abbia violato una norma che contempla un requisito formale o procedimentale”, mentre “la seconda ha carattere particolare e riguarda il caso in cui è violata la norma che contempla il requisito procedimentale della comunicazione di avvio del procedimento”, con la precisazione che “tale ultima fattispecie, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, si applica in presenza di attività sia vincolata che discrezionale” (Cons. Stato, Sez. 6^, 04.03.2015, n. 1060); ciò è reso palese dal fatto che il secondo periodo del comma 2 dell’art. 21-octies stabilisca che il provvedimento amministrativo, nel caso di mancanza di comunicazione di avvio che risulti ininfluente, non è “comunque” annullabile, cioè sia con riferimento alla generale categoria dell’attività vincolata, di cui al primo periodo del medesimo comma 2, sia con riferimento all’attività discrezionale.
D’altra parte nel caso di specie l’Amministrazione ha dimostrato che la partecipazione non avrebbe modificato l’esito della procedura, ciò alla luce degli sviluppi della stessa e come emergerà dall’esame delle ulteriori censure, dal quale si evidenzierà la legittimità dell’operato dell’Amministrazione.
Ciò porta a concludere nel senso che la mancata comunicazione di avvio del procedimento di autotutela non può comportare, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, secondo periodo, della legge n. 241 del 1990 l’annullamento del provvedimento impugnato.
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15 – Con il quarto mezzo di cui al ricorso introduttivo parte ricorrente contesta che il provvedimento di annullamento del permesso di costruire in sanatoria sia stato posto in essere senza il rispetto del principio del <contrarius actus>, cioè senza richiedere i pareri della Commissione Edilizia e della Commissione per il Paesaggio, che sono necessari per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria e quindi anche per il suo ritiro.
La censura è infondata.
Parte ricorrente censura il mancato rispetto nella specie del principio del <contrarius actus>, in base al quale in sede di ritiro di un atto deve essere seguito lo stesso percorso procedimentale necessario per il rilascio dell’atto ritirato, cosa che nella specie non sarebbe avvenuta, essendo mancata, in sede di procedimento di annullamento d’ufficio, l’acquisizione dei pareri della Commissione Edilizia e della Commissione del Paesaggio. Ma l’assunto non convince.
Come la giurisprudenza ha avuto modo di evidenziare, il parere dei citati organi consultivi deve sì essere acquisito anche in sede di ritiro del titolo abilitativo, ma con l’eccezione delle ipotesi in cui l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio sia supportato solo da ragioni eminentemente formali o di esclusivo rilievo giuridico (in tal senso Cons. Stato, sez. 4^, 31.03.2009, n. 1909; Cons. Stato, sez. 5^, 12.05.2011, n. 2821).
Nella specie l’annullamento del permesso di costruire in sanatoria non coinvolge profili tecnici relativi alla edificazione ma è fondato su una valutazione di tipo eminentemente giuridico, essendo correlato al fatto che il titolo in sanatoria ritirato era stato rilasciato sulla base di una istanza di accertamento di conformità parziale, che non consentiva conseguentemente la necessaria valutazione dell’abuso nella sua complessiva effettiva consistenza.
Ne discende che in una tale fattispecie non risultava necessaria la acquisizione dei pareri della Commissione Edilizia e della Commissione per il Paesaggio
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 30.03.2015 n. 508 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della qualificazione delle opere oggetto dell’istanza di sanatoria, deve essere effettuata una valutazione unitaria, perché “la valutazione dell’abuso presuppone una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate”, così che “non è dato scomporne una parte” giacché “il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante, ma dall’insieme delle opere nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni”.
Né parte ricorrente può sottrarsi a questo principio giuridico giustificando la presentazione di istanza di sanatoria parziale sul rilievo che essa avrebbe chiesto la sanatoria del solo profilo sino a quel momento emerso sulla base dell’accertamento della polizia municipale; gli ulteriori abusi dei quali è chiesta la sanatoria nella seconda domanda di accertamento di conformità risultavano già realizzati alla data della prima domanda di sanatoria, giacché quelle opere erano state realizzate tra settembre 2006 e marzo 2007 (dichiarazione del legale rappresentante della ricorrente di cui al doc. 19 dell’Amministrazione) mentre la prima domanda di sanatoria è del 18.05.2007.
Ne consegue che, proprio per la necessaria valutazione unitaria dell’abuso, le violazioni commesse dovevano tutte essere dichiarate a prescindere da quali di esse fossero già state rilevate da atti di accertamento dell’Amministrazione.
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Il divieto di frazionamento degli abusi commessi, fatti oggetto di distinte pratiche di sanatoria, è funzionale ad una necessaria valutazione unitaria dell’abuso, che sia frutto di una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate, stante il rilievo che il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante, ma dall’insieme delle opere nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni.
Un siffatto ragionamento vale sicuramente anche nella presente fattispecie, non esseno condivisibile l’assunto di parte ricorrente secondo cui sarebbe invece possibile valutare separatamente l’abuso consistente nella traslazione dell’edificio sul lotto rispetto a quello attinente alle volumetrie e superficie realizzate, essendo questioni “completamente distinte e non cumulabili”.

14 – Con il terzo mezzo di cui al ricorso introduttivo parte ricorrente contesta il gravato provvedimento di annullamento d’ufficio del permesso di costruire in sanatoria n. 9 del 2010, evidenziando che essa in realtà presentò la prima domanda di accertamento di conformità avente ad oggetto la sola traslazione planimetrica dell’immobile perché quello solo era stato il profilo di violazione del titolo originario rilevato in sede di verifica da parte della polizia municipale, riservandosi varianti in corso d’opera per regolarizzare le ulteriore fisiologiche difformità ed evidenzia la contraddittorietà e lo sviamento di potere in cui è incorsa l’Amministrazione.
La censura è infondata.
Come la Sezione ha già avuto modo di evidenziare, ai fini della qualificazione delle opere oggetto dell’istanza di sanatoria, deve essere effettuata una valutazione unitaria, perché “la valutazione dell’abuso presuppone una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate”, così che “non è dato scomporne una parte” giacché “il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante, ma dall’insieme delle opere nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni” (sentenza del 15.05.2013, n. 798).
Né parte ricorrente può sottrarsi a questo principio giuridico giustificando la presentazione di istanza di sanatoria parziale sul rilievo che essa avrebbe chiesto la sanatoria del solo profilo sino a quel momento emerso sulla base dell’accertamento della polizia municipale; gli ulteriori abusi dei quali è chiesta la sanatoria nella seconda domanda di accertamento di conformità risultavano già realizzati alla data della prima domanda di sanatoria, giacché quelle opere erano state realizzate tra settembre 2006 e marzo 2007 (dichiarazione del legale rappresentante della ricorrente di cui al doc. 19 dell’Amministrazione) mentre la prima domanda di sanatoria è del 18.05.2007.
Ne consegue che, proprio per la necessaria valutazione unitaria dell’abuso, le violazioni commesse dovevano tutte essere dichiarate a prescindere da quali di esse fossero già state rilevate da atti di accertamento dell’Amministrazione.
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16 – Con il quinto mezzo di cui al ricorso introduttivo parte ricorrente contesta il profilo motivazionale centrale del gravato atto di annullamento d’ufficio, rilevando che il frazionamento, in sede di presentazione delle domande di sanatoria, degli abusi commessi sarebbe precluso solo nell’ipotesi in cui sia funzionale ad ottenere una sanatoria che ove fossero dichiarati tutti gli abusi commessi non potrebbe essere concessa, mentre ciò non varrebbe nella specie stante il carattere distinto e non cumulabile degli abusi di cui è richiesta la sanatoria nelle due istanze presentate dalla società medesima.
La censura è infondata.
Come già esposto al precedente punto 14 della presente motivazione, il divieto di frazionamento degli abusi commessi, fatti oggetto di distinte pratiche di sanatoria, è funzionale ad una necessaria valutazione unitaria dell’abuso, che sia frutto di una visione complessiva e non atomistica delle opere realizzate, stante il rilievo che il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento a sé stante, ma dall’insieme delle opere nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni.
Un siffatto ragionamento vale sicuramente anche nella presente fattispecie, non esseno condivisibile l’assunto di parte ricorrente secondo cui sarebbe invece possibile valutare separatamente l’abuso consistente nella traslazione dell’edificio sul lotto rispetto a quello attinente alle volumetrie e superficie realizzate, essendo questioni “completamente distinte e non cumulabili”.
Al contrario anche in questo caso si imponeva una valutazione unitaria, complessiva e nel suo insieme degli abusi commessi, perché anche in questo caso ciò che conta è il complessivo impatto edilizio delle opere realizzate, valutate anche nella reciproca interazione tra le stesse.
Non vi sono quindi convincenti ragioni per considerare la presente fattispecie sottratta al principio di inscindibilità degli abusi affermato in termini generali. 
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 30.03.2015 n. 508 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 24, comma 1, T.U. 380/2001, “Il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente”.
Il certificato stesso, quindi, non può essere negato per questioni relative alla conformità edilizia dell’immobile, in particolare per il mancato pagamento del contributo di concessione.
Il rilascio dell’agibilità, ai sensi del successivo art. 25 T.U., consegue sempre ad un provvedimento, ancorché, come nella specie, tacitamente formatosi col meccanismo del silenzio-assenso a fronte di una certificazione del privato; consiste poi in un provvedimento “allo stato”, nel senso che è revocabile ai sensi dell’art. 26 ancora seguente, ove i presupposti di fatto vengano a mancare, ovvero se la costruzione divenga insalubre.

... per l’annullamento, previa sospensione, del provvedimento 21.05.2014 prot. n. 15683, comunicato in data imprecisata, con il quale il Responsabile del settore urbanistico del Comune di Palazzolo sull’Oglio ha disposto nei confronti della CMT Due Srl la revoca dell’agibilità dell’immobile sito in Via ... autocertificata con atti 30.01.2013 prot. n. 3102 e 21.08.2013 n. 21700;
...
La C.M.T. Due S.r.l., odierna ricorrente, insorge nella presente sede giurisdizionale avverso il provvedimento meglio indicato in epigrafe (doc. 1 ricorrente, copia di esso), mediante il quale ha visto pronunciare la “revoca” delle agibilità presentate nelle forme della autocertificazione in data 30.01. e 21.08.2013 quanto ad un immobile di proprietà, sito in Palazzolo sull’Oglio, in Via ... e distinto al relativo catasto al foglio 16, mappale 51, in dichiarata esecuzione del capo A punto 2 di un “protocollo di intesa” stipulato con il Comune in data 15.11.2012.
In detto protocollo, per quanto interessa, si dà in sintesi atto che, per regolarizzare la realizzazione abusiva di un centro benessere all’interno dell’immobile in questione, alla ricorrente è stata irrogata una sanzione pecuniaria, alternativa alla rimessione in pristino così come consentito dall’art. 33 del T.U. 06.06.2001 n. 380; si conviene poi una rateizzazione degli importi corrispondenti sia alla sanzione sia al contributo di costruzione ed infine si stipula -al punto 2 del capo A citato- che “resta salvo il potere di revoca dell’agibilità per l’immobile ad uso commerciale – centro benessere, quale destinazione d’uso post abuso accertata e confermata dalla sentenza del TAR Brescia n. 1429 del 03.08.2012, per i casi di cui all’articolo 26 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, ed il caso in cui non venga effettuato il pagamento anche di una sola delle rate della sanzione irrogata” (doc. 11 ricorrente, copia convenzione, p. 5 prime sei righe), evenienza quest’ultima poi in effetti verificatasi e posta a fondamento della revoca per cui è causa.
A sostegno del ricorso, deduce tre censure, riconducibili ad un unico motivo di violazione degli artt. 24 e ss. del T.U. 380/2001, nel senso che l’agibilità, dichiarata nel relativo certificato, nella specie formatosi con la procedura del silenzio assenso prevista dalle norme citate, conseguirebbe esclusivamente ad un accertamento delle condizioni igieniche e di sicurezza degli immobili, e potrebbe essere revocata solo allorquando esse venissero a mancare in un momento successivo, e non in base a considerazioni di altro tipo, come l’inadempimento pecuniario verso il Comune per cui è causa, assolutamente non previste dalla legge.
Ha resistito il Comune, con memoria 29.08.2014, in cui chiede che il ricorso sia respinto nel merito; sostiene in dettaglio anzitutto che la revoca sarebbe conseguenza di una pattuizione liberamente conclusa, a fronte di un inadempimento non controverso, atteso che la ricorrente -la quale per vero non lo nega- da un lato ha sospeso il pagamento delle rate afferenti tanto la sanzione quanto il contributo di costruzione, dall’altro lato, ha prestato la garanzia di due fideiussori rivelatisi insolventi (doc. 1 ricorrente, cit.); sostiene poi che l’inadempimento in questione avrebbe impedito il perfezionarsi della sanatoria, sì che revocando l’agibilità si sarebbe perseguito l’interesse pubblico a impedire la circolazione di un immobile tuttora abusivo
...
1. Il ricorso, nell’unico motivo dedotto, è fondato e va accolto, non ravvisando il Collegio ragioni per discostarsi da quanto già sinteticamente motivato nell’ordinanza cautelare di cui in narrativa.
2. Va per chiarezza ricostruito il dato normativo. Ai sensi dell’art. 24, comma 1, T.U. 380/2001, “Il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente”. Il certificato stesso quindi –come ritenuto, in particolare C.d.S. sez. IV 26.08.2014 n. 4309 e, nella giurisprudenza della Sezione, 09.12.2008 n. 1723, citata dalla ricorrente- non può essere negato per questioni relative alla conformità edilizia dell’immobile, in particolare per il mancato pagamento del contributo di concessione.
3. Il rilascio dell’agibilità, ai sensi del successivo art. 25 T.U., consegue sempre ad un provvedimento, ancorché, come nella specie, tacitamente formatosi col meccanismo del silenzio-assenso a fronte di una certificazione del privato; consiste poi in un provvedimento “allo stato”, nel senso che è revocabile ai sensi dell’art. 26 ancora seguente, ove i presupposti di fatto vengano a mancare, ovvero se la costruzione divenga insalubre.
4. In proposito, l’amministrazione resistente sostiene, per implicito ma inequivocabilmente, che quella riferita sarebbe solo la disciplina ordinaria; che essa avrebbe carattere dispositivo e che nella specie essa sarebbe stata legittimamente derogata sulla base della libera pattuizione di cui in premesse e che, anzi, sulla liceità di tale pattuizione questo Giudice non potrebbe pronunciarsi senza andare con ciò oltre la domanda. Si tratta però di assunti tutti non condivisibili, nei termini di che appresso.
5. In ordine logico, è infondato il rilievo di ultrapetizione. Il provvedimento impugnato, all’evidenza, sta e cade con la validità ed efficacia della pattuizione di che trattasi, e quindi la relativa questione –peraltro, rilevabile anche d’ufficio trattandosi in ipotesi di una nullità per contrarietà a norme imperative- è una pregiudiziale di merito che questo Giudice di necessità deve risolvere.
6. Ciò posto, la pattuizione fra il Comune e l’odierna ricorrente, di cui si è dato conto in premesse, appartiene all’evidenza alla categoria degli accordi integrativi ovvero sostitutivi di provvedimenti, poiché con essa le parti hanno inteso regolamentare l’esercizio da parte dell’ente dei propri poteri sanzionatori di un precedente abuso edilizio, esercizio sul quale l’art. 33 T.U. riconosce spazi di discrezionalità.
7. Come tale, essa è disciplinata dall’art. 11 l. 07.08.1990 n. 241, e quindi può determinare “il contenuto discrezionale del provvedimento finale” ovvero sostituire un provvedimento di tal specie, non già incidere sull’esercizio di un potere vincolato, che in presenza dei presupposti di legge ha contenuti imposti.
8. Ai poteri vincolati, appartiene quello di dichiarare l’agibilità, che come si ricava dalle norme citate, presuppone unicamente il dato tecnico sanitario della salubrità dei locali, e quindi serve all’interesse della sanità pubblica, con ogni evidenza, quindi, ad un interesse indisponibile in via pattizia. Il contenuto dell’accordo fra le parti, nella parte in cui pretende di incidere sull’esercizio di detto potere, per altre –pur in sé non indegne di tutela- ragioni è quindi nullo per contrasto con norma imperativa, e comporta l’illegittimità del provvedimento che su tale contenuto si fondi.
9. Due ulteriori precisazioni. In primo luogo, la suddetta conclusione non cambierebbe anche a voler considerare, come dedotto dalla difesa del Comune (memoria 13.02.2015 p. 2 tredicesimo rigo), la clausola in questione come una penale, poiché, a parte ogni altra considerazione, una penale non può conferire rilievo giuridico ad una pattuizione nulla: sul principio, Cass. civ. sez. II 15.02.2002 n. 2209.
10. In secondo luogo, non risponde a verità quanto affermato sempre dalla difesa del Comune, ovvero (memoria 29.08.2014, p. 4) che la clausola in questione presidierebbe in via esclusiva un interesse pubblico a impedire la circolazione dell’immobile sin quando la sanzione non sia pagata per intero. Si tratterebbe infatti di un fine in sé legittimo, ma perseguito in maniera impropria, dato che lo stesso risultato può conseguirsi con gli ordinari mezzi civilistici di tutela del relativo credito, che ben possono impiegarsi proprio al fine di impedire al debitore inadempiente di trasferire a terzi un bene immobile (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.03.2015 n. 476 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZICorte Ue. Appalti, conta la squadra.
Nell'aggiudicazione di un appalto di servizi di natura intellettuale è legittimo valutare la squadra che l'offerente propone per svolgere la prestazione e quindi i profili tecnico-professionali del team offerto.

È quanto stabilisce la Corte di giustizia europea con la sentenza 26.03.2015 causa C-601/13 che prende in esame la compatibilità comunitaria di una gara di appalto di servizi di formazione e consulenza per la quale si era previsto che l'appalto sarebbe stato aggiudicato all'offerta economicamente più vantaggiosa, determinata tenendo conto del parametro «Valutazione della squadra» (con il 40% del punteggio) ottenuto tenendo conto della costituzione della squadra, dell'esperienza attestata e dell'analisi dei suoi curricula (altri 55% venivano poi assegnati alla «qualità e meriti della prestazione proposta» e 5% al prezzo).
La Corte legittima l'operato della stazione appaltante affermando che la qualità dell'esecuzione di un appalto può dipendere in modo determinante dal valore delle persone incaricate (articolo ItaliaOggi del 28.03.2015).
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MASSIMA:
Ai fini dell’aggiudicazione di un appalto di fornitura di servizi di carattere intellettuale, di formazione e di consulenza, l’articolo 53, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, non osta alla fissazione da parte dell’amministrazione aggiudicatrice di un criterio che consenta di valutare la qualità delle squadre proposte in concreto dagli offerenti ai fini dell’esecuzione di tale appalto, criterio che tiene conto della costituzione della squadra nonché dell’esperienza e dei curricula dei suoi membri.

EDILIZIA PRIVATA: In sede di repressione degli abusi edilizi occorre applicare il regime sanzionatorio vigente al momento in cui l’amministrazione provvede ad applicare la misura ripristinatoria.
Invero, il principio generale tempus regit actum impone di applicare il regime sanzionatorio vigente all’epoca di richiesta della sanatoria e non quello in vigore al tempo della realizzazione degli abusi.

... per l'annullamento:
- della nota prot. n. 24311 del 25/07/2013, notificata il 29/07/2013, avente ad oggetto “Diniego definitivo. Intervento di sanatoria per chiusura porticato fabbricato in Via del Lampin”;
- della nota prot. n. 3337/257204 del 26/08/2013, notificata il 03/09/2013, avente ad oggetto “Provvedimento definitivo ai sensi del comma 1 dell’art. 2 della legge 241/1990. Diniego. Intervento in sanatoria per chiusura portico in fabbricato in Via del Lampin”;
- della nota della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici della Liguria prot. n. 33767 del 12/11/2012, resa nell’ambito del medesimo procedimento di accertamento di compatibilità paesaggistica;
...
4) Il terzo motivo di ricorso contiene autonome censure di legittimità.
4.1) In primo luogo, l’esponente sostiene che avrebbe dovuto trovare applicazione nella fattispecie la più favorevole disciplina prevista dalla normativa vigente al momento di realizzazione degli abusi, anziché quella successivamente introdotta dall’art. 27 del d.lgs. n. 157/2006 che ha limitato in misura significativa le possibilità di assentimento postumo dell’autorizzazione paesaggistica.
Tale tesi contrasta, però, con il principio generale tempus regit actum che, come riconosciuto da un consolidato orientamento giurisprudenziale, impone di applicare il regime sanzionatorio vigente all’epoca di richiesta della sanatoria e non quello in vigore al tempo della realizzazione degli abusi (cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2014, n. 1906).
Anche questo Tribunale ha recentemente precisato, con la sentenza della seconda Sezione n. 27 dell'08.01.2015, che in sede di repressione degli abusi edilizi occorre applicare il regime sanzionatorio vigente al momento in cui l’amministrazione provvede ad applicare la misura ripristinatoria (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 26.03.2015 n. 345 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASe la modifica dell’impianto comporta un sostanziale raddoppio della potenza totale consegue che la fattispecie non appare rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 87-bis del Dlgs. n. 259 del 2003.
Infatti, la norma da ultimo citata si applica alla “modifica delle caratteristiche trasmissive”, mentre la disposizione di cui all’art. 87 appare dover trovare applicazione per la diversa fattispecie della “modifica delle caratteristiche di emissione”.

... per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia:
- del provvedimento del Responsabile del Servizio prot. n. 5381/7533 del 24.12.2014 con cui si vieta la "prosecuzione dei lavori di modifica dell'impianto" per la telefonia mobile sita in via degli Impianti sportivi;
- della precedente nota prot. n. 5381/5643 del 02.10.2014, con cui si comunicano i motivi ostativi alla esecuzione di detti lavori;
- del "piano per la localizzazione delle stazioni radio base per la telefonia mobile" di cui alla variante del P.R.G. adottata con deliberazioni del Consiglio comunale rispettivamente n. 34 del 29.11.2010 e n. 2 del 28.02.2011 (nella specie art. 9 delle N.T.A.).
...
Considerato:
- che ad una prima e sommaria delibazione propria della fase cautelare il ricorso non presenta sufficienti elementi di fondatezza;
- che infatti, come attestato dall’Arpav, la modifica dell’impianto comporta un sostanziale raddoppio della potenza totale, con la conseguenza che la fattispecie non appare rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 87-bis del Dlgs. n. 259 del 2003;
- che infatti la norma da ultimo citata si applica alla “modifica delle caratteristiche trasmissive”, mentre la disposizione di cui all’art. 87 appare dover trovare applicazione per la diversa fattispecie della “modifica delle caratteristiche di emissione”;
- che la previsione circa l’incompatibilità dell’impianto, cui consegue l’applicazione delle norme restrittive circa gli interventi ammissibili finalizzate a favorirne la rilocalizzazione nei siti preferenziali, appare sufficientemente motivata con l’esigenza di salvaguardare il sito sensibile e di diminuire l’impatto paesaggistico, già in origine indicata dalla Soprintendenza al momento del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (cfr. il parere prot. n. 12721 del 07.06.2010, di cui al doc. 15 allegato alle difese del Comune) (TAR Veneto, Sez. II, ordinanza 26.03.2015 n. 107 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ritiene il Collegio di dover precisare, in ordine al procedimento di apposizione del vincolo e dunque di prova di esistenza dello stesso che:
- il procedimento per la apposizione del vincolo paesaggistico, per le cosiddette bellezze di insieme può essere avviato su iniziativa del ministro ai sensi dell’art. 141 del codice stesso e si conclude con la pubblicazione del decreto sulla gazzetta ufficiale;
- non si applica per il vincolo apposto sulle bellezze panoramiche, il disposto dell’art. 140, comma 3, che –contemplando la trascrizione nei registri immobiliari– è riferibile soltanto a beni immobili “individui”;
- è del tutto irrilevante la mancata indicazione negli strumenti urbanistici delle zone specificamente ricadenti nel vincolo, in quanto lo strumento edilizio comunale fa riferimento alle tipologie edilizie ammesse sul territorio, ma non si occupa degli aspetti concernenti l’incidenza che avrebbero sul paesaggio gli insediamenti privati o le grandi opere.

3.2 Il ricorrente con ulteriore censura, denuncia la illegittimità del gravato provvedimento che sarebbe stato adottato dalla amministrazione con travisamento dei fatti e difetto di istruttoria.
A sostegno di tale censura, il ricorrente pone in evidenza che dalla attestazione emessa dall’ufficio tecnico del Comune di Villa San Giovanni si evince la assenza sull’area di qualsivoglia vincolo rilevante ex legge 431/1985 e che dallo strumento urbanistico vigente non risultano vincoli inibitori.
Tale censura non può essere condivisa.
Ritiene il Collegio di dover precisare, in ordine al procedimento di apposizione del vincolo e dunque di prova di esistenza dello stesso che:
- il procedimento per la apposizione del vincolo paesaggistico, per le cosiddette bellezze di insieme può essere avviato su iniziativa del ministro ai sensi dell’art. 141 del codice stesso e si conclude con la pubblicazione del decreto sulla gazzetta ufficiale;
- non si applica per il vincolo apposto sulle bellezze panoramiche, il disposto dell’art. 140, comma 3, che –contemplando la trascrizione nei registri immobiliari– è riferibile soltanto a beni immobili “individui”;
- è del tutto irrilevante la mancata indicazione negli strumenti urbanistici delle zone specificamente ricadenti nel vincolo, in quanto lo strumento edilizio comunale fa riferimento alle tipologie edilizie ammesse sul territorio, ma non si occupa degli aspetti concernenti l’incidenza che avrebbero sul paesaggio gli insediamenti privati o le grandi opere (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 24.03.2015 n. 295 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAI cattivi odori si misurano solo «a naso». Cassazione. Condannato l’ad di una torrefazione, anche se l’impianto era in regola con tutte le autorizzazioni.
La molestia olfattiva si misura “a naso” e il reato scatta anche se gli odori nauseabondi provengono da un impianto munito di regolare autorizzazione.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 23.03.2015 n. 12019 chiarisce che in materia di odori non esiste una normativa statale che fissi delle soglie. Dunque, il criterio di riferimento deve essere quello della «stretta tollerabilità».
Contro la tesi affermata, si era battuto l’amministratore delegato di una torrefazione di caffè, condannato per getto pericoloso di cose (articolo 674 del Codice penale) a causa della forte puzza diffusa dal caffè bruciato, di cui si erano lamentati gli abitanti della zona. Il ricorrente era stato condannato malgrado l’impianto della società fosse autorizzato e le immissioni nei limiti.
Secondo il legale rappresentante, la condotta che gli veniva contestata avrebbe dovuto restare confinata in un ambito civilistico. Per la condanna in sede penale mancava anche l’elemento soggettivo del reato. Non c’era, infatti, il profilo psicologico dell’azione incriminata, perché l’imputato si era attenuto alle prescrizioni contenute nell’autorizzazione, senza pensare di poter commettere in alcun modo un reato.
La Cassazione spiega però che il reato va valutato tenendo d’occhio l’asticella delle «stretta tollerabilità», a prescindere dal superamento di eventuali valori soglia fissati per legge. Quando non esiste la possibilità di accertare obiettivamente, con adeguati strumenti, l’intensità delle emissioni, il mezzo per decidere se queste sono sopportabili o meno è la testimonianza diretta di chi è a conoscenza dei fatti, purché le dichiarazioni non siano del tutto soggettive o tecniche, ma relative a quanto oggettivamente percepito.
Nel caso esaminato, le immissioni considerate nella norma non erano riferibili, né potevano esserlo, agli odori, che si erano manifestati in maniera particolarmente molesta. Chi abitava nei pressi della torrefazione aveva riferito di una puzza di caffè bruciato, soprattutto all’ora di pranzo, tanto nauseante da provocare in alcuni casi il vomito. Senza successo, l’imputato ha fatto presente che il giudice non aveva disposto nessun accertamento tecnico. Per la Cassazione si sarebbe trattato di una verifica inutile, visto che la «molestia olfattiva non può essere accertata per via scientifica con qualsivoglia esame».
Nessuno strumento sofisticato, dunque: nel caso dei cattivi odori ci si affida ai sensi.
L’imputato aveva invece proseguito l’ attività, senza adottare alcun accorgimento, ignorando gli esposti e le segnalazioni degli abitanti, dei quali era a conoscenza
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.03.2015).

URBANISTICA: La difesa comunale ha evidenziato che la scelta dell’Amministrazione comunale di avvalersi di un esperto esterno (quale autorità competente per la VAS) è da ricondurre all’assenza di idonee professionalità all’interno dell’Ente, dotato di un organico esiguo, e –inoltre– alla circostanza che il Comune non avrebbe potuto ricorrere ad altre strutture pubbliche, non facendo parte di unioni di comuni o comunità montane.
In tali circostanze, ritiene il Collegio che la determinazione di avvalersi di una figura professionale esterna –da un lato– appaia del tutto ragionevole, in quanto volta ad assicurare il compimento della VAS da parte di un soggetto dotato della necessaria professionalità e –dall’altro– non incida in alcun modo sulla natura pubblica dell’amministrazione competente, poiché quest’ultima è rinvenibile nello stesso Comune, cui vanno imputati gli atti del professionista incaricato.
E’ ben vero, infatti, che il riferimento normativo alla qualità di “pubblica amministrazione” sia dell’autorità procedente, che dell’autorità competente della VAS è indubitabilmente contenuto all’articolo 5, lettere p) e q), del decreto legislativo n. 152 del 2010. Tuttavia, le previsioni normative richiamate non implicano affatto un divieto per il Comune di avvalersi di esperti esterni, al fine dello svolgimento dei compiti propri dell’autorità competente della VAS, nel caso in cui non siano rinvenibili adeguate professionalità al proprio interno. Ciò in quanto, laddove l’Ente compia una tale scelta, il soggetto designato acquisisce necessariamente la veste di organo dell’Amministrazione, e a quest’ultima dovranno essere imputati gli atti compiuti dall’incaricato.
In altri termini, la disposizione normativa richiamata dal ricorrente si limita ad affermare che l’autorità competente assume una veste pubblicistica, senza però influire sulle determinazioni organizzative che il Comune rimane libero di compiere. Sotto questo profilo, è infatti irrilevante che l’insieme dei compiti e delle prerogative pubblicistiche in cui si sostanzia il ruolo dell’autorità competente sia attribuito a un ufficio della stessa o di altra amministrazione, ovvero a un soggetto esterno, legato all’Ente da un rapporto di lavoro autonomo e non subordinato.
D’altra parte, la stessa giurisprudenza richiamata dalla ricorrente ha bensì affermato che “(...) dalle riferite definizioni risulta chiaro che entrambe le autorità de quibus sono sempre “amministrazioni” pubbliche (...)”. Ciò però ha fatto allo scopo di chiarire che l’autorità competente e quella procedente possono essere legittimamente afferenti alla stessa amministrazione pubblica, in quanto “in nessuna definizione del Testo Unico ambientale si trova affermato in maniera esplicita che debba necessariamente trattarsi di amministrazioni diverse o separate (e che, pertanto, sia precluso individuare l’autorità competente in diverso organo o articolazione della stessa amministrazione procedente)”.

1. Con il primo motivo la ricorrente allega l’illegittimità della procedura di VAS relativa al PGT di Leggiuno, in quanto l’autorità competente non avrebbe potuto essere individuata, come invece è avvenuto, in un professionista privato esterno all’Amministrazione, dovendo necessariamente trattarsi di un “soggetto pubblico”.
1.1 Può al riguardo prescindersi dall’eccezione comunale di inammissibilità della censura per difetto di interesse della ricorrente, in quanto il motivo è, nel merito, infondato.
1.2 La ricorrente evidenzia che la disciplina in materia di VAS non richiede soltanto che l’autorità competente sia dotata dei requisiti di autonomia rispetto all’autorità procedente e di competenza tecnica, ma impone altresì che essa sia individuata in un soggetto pubblico. Ciò si evincerebbe, in particolare, dall’articolo 5, comma 1, lett. p), del decreto legislativo n. 152 del 2006, ove si definisce l’autorità competente come “la pubblica amministrazione” cui competono le attività ivi indicate, nonché dalla delibera del Consiglio regionale della Lombardia n. 8/6420, punto 3.2, laddove vi si legge che l’autorità competente “è individuata all’interno dell’ente tra coloro che hanno compiti di tutela e valorizzazione ambientale”.
Sulla scorta di tali prescrizioni, sarebbe pertanto illegittima la scelta operata dal Comune di Leggiuno, che con delibera della Giunta comunale n. 18 del 29.02.2008 ha designato quale l’autorità competente per la VAS un professionista privato, ossia il dott. G.C..
1.3 Ritiene il Collegio che le argomentazioni svolte dalla ricorrente non possano essere condivise.
La difesa comunale ha evidenziato che la scelta dell’Amministrazione comunale di avvalersi di un esperto esterno è da ricondurre all’assenza di idonee professionalità all’interno dell’Ente, dotato di un organico esiguo, e –inoltre– alla circostanza che il Comune di Leggiuno non avrebbe potuto ricorrere ad altre strutture pubbliche, non facendo parte di unioni di comuni o comunità montane.
In tali circostanze, ritiene il Collegio che la determinazione di avvalersi di una figura professionale esterna –da un lato– appaia del tutto ragionevole, in quanto volta ad assicurare il compimento della VAS da parte di un soggetto dotato della necessaria professionalità e –dall’altro– non incida in alcun modo sulla natura pubblica dell’amministrazione competente, poiché quest’ultima è rinvenibile nello stesso Comune di Leggiuno, cui vanno imputati gli atti del professionista incaricato.
E’ ben vero, infatti, che il riferimento normativo alla qualità di “pubblica amministrazione” sia dell’autorità procedente, che dell’autorità competente della VAS è indubitabilmente contenuto all’articolo 5, lettere p) e q), del decreto legislativo n. 152 del 2010. Tuttavia, le previsioni normative richiamate non implicano affatto un divieto per il Comune di avvalersi di esperti esterni, al fine dello svolgimento dei compiti propri dell’autorità competente della VAS, nel caso in cui non siano rinvenibili adeguate professionalità al proprio interno. Ciò in quanto, laddove l’Ente compia una tale scelta, il soggetto designato acquisisce necessariamente la veste di organo dell’Amministrazione, e a quest’ultima dovranno essere imputati gli atti compiuti dall’incaricato.
In altri termini, la disposizione normativa richiamata dal ricorrente si limita ad affermare che l’autorità competente assume una veste pubblicistica, senza però influire sulle determinazioni organizzative che il Comune rimane libero di compiere. Sotto questo profilo, è infatti irrilevante che l’insieme dei compiti e delle prerogative pubblicistiche in cui si sostanzia il ruolo dell’autorità competente sia attribuito a un ufficio della stessa o di altra amministrazione, ovvero a un soggetto esterno, legato all’Ente da un rapporto di lavoro autonomo e non subordinato.
D’altra parte, la stessa giurisprudenza richiamata dalla ricorrente (Cons. Stato, Sez. IV, 12.01.2011, n. 133) ha bensì affermato che “(...) dalle riferite definizioni risulta chiaro che entrambe le autorità de quibus sono sempre “amministrazioni” pubbliche (...)”. Ciò però ha fatto allo scopo di chiarire che l’autorità competente e quella procedente possono essere legittimamente afferenti alla stessa amministrazione pubblica, in quanto “in nessuna definizione del Testo Unico ambientale si trova affermato in maniera esplicita che debba necessariamente trattarsi di amministrazioni diverse o separate (e che, pertanto, sia precluso individuare l’autorità competente in diverso organo o articolazione della stessa amministrazione procedente)”.
Nel caso di specie, la scelta operata dal Comune di Leggiuno appare, quindi, del tutto in linea con tale insegnamento, poiché l’Ente ha designato l’autorità competente in un professionista non dipendente dal Comune, ma i cui atti –come sopra detto– sono comunque destinati a essere imputati al medesimo Ente, così come sarebbe avvenuto laddove gli stessi compiti fossero stati affidati a un diverso organo o articolazione già strutturalmente presente all’interno della stessa amministrazione procedente.
D’altra parte, non può ritenersi di ostacolo alla scelta organizzativa compiuta dal Comune neppure la previsione contenuta nella delibera del Consiglio regionale richiamata dalla ricorrente (v. il precedente punto 1.2). Tale disposizione, che ha previsto l’affidamento del ruolo di autorità competente ad articolazioni della stessa amministrazione procedente, non può essere infatti ragionevolmente intesa nel senso di aver altresì imposto necessariamente ai Comuni di ricercare i soggetti cui affidare la VAS esclusivamente tra i propri dipendenti, anche laddove le rispettive compagini organizzative non includano professionalità adeguate.
In definitiva, sulla scorta delle considerazioni fin qui svolte, va confermato il rigetto del primo motivo di ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.03.2015 n. 783 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le osservazioni dei privati agli strumenti urbanistici adottati danno luogo a meri apporti collaborativi, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che le osservazioni siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano.
Quanto, poi, alla motivazione del mancato accoglimento dell'osservazione presentata dalla ricorrente, si richiama la costante giurisprudenza secondo cui le osservazioni dei privati agli strumenti urbanistici adottati danno luogo a meri apporti collaborativi, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che le osservazioni siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano (Cons. Stato, sez. IV, 07.07.2008, n. 3358; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.07.2014, n. 1972) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.03.2015 n. 783 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento è configurabile soltanto nel caso di assoluta identità di situazioni di fatto e di conseguente assoluta irragionevole diversità di trattamento riservato alle stesse.
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Non emerge, pertanto, il denunciato vizio di ingiustificata disparità di trattamento, tenuto conto dell’ampia discrezionalità di cui l’Amministrazione dispone nel compimento delle scelte pianificatorie, le quali comportano necessariamente, per loro stessa natura, la differenziazione del trattamento dei suoli.
Gli apprezzamenti compiuti in tale sede sono, per costante giurisprudenza, da ritenere sindacabili solo laddove risultino inficiati da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare.
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Non può condividersi l’affermazione della difesa della ricorrente, secondo la quale il mutamento della disciplina dei propri suoli rispetto al precedente strumento pianificatorio avrebbe determinato un particolare onere di motivazione da parte dell’Amministrazione.
Nel caso di specie non è infatti ravvisabile nessuna delle situazioni che –in coerenza con gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza– comportano in capo al Comune un obbligo di motivazione più incisivo delle scelte urbanistiche, le quali, di regola, non necessitano di apposita motivazione, oltre a quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano.
Tali evenienze comportanti un onere di motivazione più incisivo sono state ravvisate:
- nel superamento degli standards minimi di cui al decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444;
- nella lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, da accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su domanda di concessione edilizia etc.;
- nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.
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Occorre tenere presente che la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire quali siano i limiti alla configurabilità dell’interesse c.d. strumentale all’impugnazione di uno strumento urbanistico.
In particolare, si è affermato che “tale impugnazione deve pur sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento alle determinazioni adottate dall’Amministrazione in ordine al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, e non può fondarsi sul generico interesse a una migliore pianificazione del proprio suolo, che in quanto tale non si differenzia dall’eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire.
In altri termini, l’utilità comunque rappresentata dal possibile vantaggio che astrattamente il ricorrente potrebbe ottenere per effetto della riedizione dell’attività amministrativa non è ex se indicativa della titolarità di una posizione di interesse giuridicamente qualificata e differenziata, idonea a legittimare la tutela giurisdizionale.”

4.1 Deve, al riguardo, evidenziarsi come, in conformità ai principi, “il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento è configurabile soltanto nel caso di assoluta identità di situazioni di fatto e di conseguente assoluta irragionevole diversità di trattamento riservato alle stesse” (così ex multis, tra le più recenti, Cons. giust. amm. Sicilia, 14.03.2014, n. 133).
Nel caso di specie, la ricorrente non ha dimostrato l’identità di situazione tra i propri terreni e quelli resi trasformabili in accoglimento di altre osservazioni.
D’altra parte –come evidenziato dalla difesa comunale– l’intervento in Consiglio comunale cui si riferisce la sig.ra P. aveva fatto riferimento ai terreni “situati al centro del paese” e precedentemente edificabili, mentre le aree della ricorrente non risultano collocate in posizione centrale (e, peraltro, solo una di esse era edificabile in base al precedente strumento urbanistico).
Non emerge, pertanto, il denunciato vizio di ingiustificata disparità di trattamento, tenuto conto dell’ampia discrezionalità di cui l’Amministrazione dispone nel compimento delle scelte pianificatorie, le quali comportano necessariamente, per loro stessa natura, la differenziazione del trattamento dei suoli. Gli apprezzamenti compiuti in tale sede sono, per costante giurisprudenza, da ritenere sindacabili solo laddove risultino inficiati da arbitrarietà od irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare (così, ex multis, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15.05.2014, n. 1281); ciò che però non risulta dimostrato nel caso di specie.
Sotto altro profilo, neppure può condividersi l’affermazione della difesa della ricorrente, secondo la quale il mutamento della disciplina dei propri suoli rispetto al precedente strumento pianificatorio avrebbe determinato un particolare onere di motivazione da parte dell’Amministrazione.
Nel caso di specie non è infatti ravvisabile nessuna delle situazioni che –in coerenza con gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza– comportano in capo al Comune un obbligo di motivazione più incisivo delle scelte urbanistiche, le quali, di regola, non necessitano di apposita motivazione, oltre a quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano (Cons. Stato, Ad. Plen., n. 24 del 1999).
Tali evenienze comportanti un onere di motivazione più incisivo sono state ravvisate: nel superamento degli standards minimi di cui al decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444; nella lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, da accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree, da aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di concessione edilizia o di silenzio rifiuto su domanda di concessione edilizia etc.; nella modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (v. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, n. 1972 del 2014, cit.).
Nella specie, la ricorrente non ha allegato di versare in alcuna di tali situazioni e, pertanto, non sussisteva alcun particolare onere di motivazione delle scelte operate con riferimento ai suoli di sua proprietà; scelte che possono quindi ritenersi sufficientemente giustificate alla luce dei criteri generali di impostazione del piano.
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Ciò posto, il ricorso non consente di stabilire in che modo l’eventuale vizio attinente alla mancata previsione, nell’ambito del fabbisogno complessivo di abitazioni, di quote di edilizia sociale abbia leso l’interesse della sig.ra P., la quale agisce nel presente giudizio al solo fine di ottenere la possibilità di trasformazione edificatoria dei propri terreni, qualificati come aree a “verde urbano”.
In proposito, occorre tenere presente che la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire quali siano i limiti alla configurabilità dell’interesse c.d. strumentale all’impugnazione di uno strumento urbanistico.
In particolare, si è affermato che “tale impugnazione deve pur sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento alle determinazioni adottate dall’Amministrazione in ordine al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, e non può fondarsi sul generico interesse a una migliore pianificazione del proprio suolo, che in quanto tale non si differenzia dall’eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.07.2010, nr. 4546). In altri termini, l’utilità comunque rappresentata dal possibile vantaggio che astrattamente il ricorrente potrebbe ottenere per effetto della riedizione dell’attività amministrativa non è ex se indicativa della titolarità di una posizione di interesse giuridicamente qualificata e differenziata, idonea a legittimare la tutela giurisdizionale.” (Cons. Stato, n. 133 del 2011, cit.)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 23.03.2015 n. 783 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa ricorrente ha impugnato i titoli edilizi relativi alla realizzazione e alla parziale sanatoria di una vasca di stoccaggio liquami e di due trincee per insilato di mais evidenziando il rischio di emissioni odorigene moleste verso l’area residenziale di sua proprietà.
Per evitare questo rischio la ricorrente utilizza un argomento di natura igienico-sanitaria in forma urbanistica, ossia la violazione della disciplina sulle distanze minime dagli allevamenti, contenuta nel regolamento locale di igiene e richiamata nello strumento urbanistico.
L’intreccio di questi due elementi (presunzione di molestie olfattive provenienti dagli allevamenti, vicinitas qualificata a causa della riduzione della distanza minima) costituisce una base ampiamente sufficiente per l’impugnazione diretta dei titoli edilizi prima che la molestia si concretizzi, e parimenti per l’impugnazione degli atti in sanatoria.
Non è necessario attendere il certificato di agibilità, né impugnarlo una volta emesso, in quanto la parte ricorrente non cerca tutela contro immissioni moleste attuali (la cui sede di trattazione è davanti al giudice ordinario) ma censura titoli edilizi che, a suo giudizio, non garantiscono ai soggetti esposti la protezione standardizzata e di carattere generale prevista nel regolamento locale di igiene.

12. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sull’interesse all’impugnazione
13. La ricorrente ha impugnato i titoli edilizi relativi alla realizzazione e alla parziale sanatoria di una vasca di stoccaggio liquami e di due trincee per insilato di mais evidenziando il rischio di emissioni odorigene moleste verso l’area residenziale di sua proprietà.
14. Per evitare questo rischio la ricorrente utilizza un argomento di natura igienico-sanitaria in forma urbanistica, ossia la violazione della disciplina sulle distanze minime dagli allevamenti, contenuta nel regolamento locale di igiene e richiamata nello strumento urbanistico. L’intreccio di questi due elementi (presunzione di molestie olfattive provenienti dagli allevamenti, vicinitas qualificata a causa della riduzione della distanza minima) costituisce una base ampiamente sufficiente per l’impugnazione diretta dei titoli edilizi prima che la molestia si concretizzi, e parimenti per l’impugnazione degli atti in sanatoria.
Non è necessario attendere il certificato di agibilità, né impugnarlo una volta emesso, in quanto la parte ricorrente non cerca tutela contro immissioni moleste attuali (la cui sede di trattazione è davanti al giudice ordinario) ma censura titoli edilizi che, a suo giudizio, non garantiscono ai soggetti esposti la protezione standardizzata e di carattere generale prevista nel regolamento locale di igiene.
15. Sia il ricorso introduttivo sia i motivi aggiunti devono quindi considerarsi ammissibili e procedibili (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.03.2015 n. 418 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia igienico-sanitaria il potere di deroga alle distanze minime si deve considerare implicito, salvi i casi in cui è espressamente vietato. La tutela igienico-sanitaria ammette infatti forme equivalenti di protezione (ad esempio, il distacco degli allevamenti dagli edifici residenziali può essere minore se vi sono particolari misure di mitigazione, o se vengono utilizzati metodi di allevamento e mangimi in grado di limitare le emissioni odorigene).
Inoltre, sono possibili bilanciamenti tra interessi pubblici diversi (ad esempio, restando al caso in esame, la minore distanza dalle abitazioni è tollerabile se la vasca di stoccaggio viene inserita in una rete che distribuisce i liquami come fertilizzanti, con riduzione dell’inquinamento complessivo grazie al ridotto uso di fertilizzanti chimici e al minore impiego di autobotti).
L’individuazione del sindaco, contenuta nel regolamento locale di igiene, come autorità competente al rilascio della deroga è semplicemente tralatizia, in quanto si tratta di una funzione gestionale che potrebbe essere svolta, secondo la regola generale, dai responsabili degli uffici. Sul piano formale, il riferimento al sindaco è tuttora attuale per effetto dell’art. 124, comma 2, della LR 33/2009, che mantiene in vigore in via transitoria le disposizioni del regolamento locale di igiene tipo elaborato dalla ASL e recepito dai comuni.
Sul piano sostanziale, la deroga costituisce il rivestimento amministrativo delle valutazioni tecniche svolte dalla ASL, autorità preposta alla tutela degli interessi di natura igienico-sanitaria e dotata delle necessarie professionalità (v. art. 3.10.8 del regolamento locale di igiene).
In realtà, i comuni potrebbero anche discostarsi dai pareri della ASL, raccogliendo evidenze tecnico-scientifiche di analogo livello ma di segno opposto. Ponendosi sul medesimo terreno tecnico, con l’apporto di soggetti qualificati, i comuni possono dimostrare che le riserve o le precauzioni della ASL sono eccessive o sproporzionate, oppure inefficaci.
In questo quadro, l’art. 29.8 delle NTA, che prevede una competenza del consiglio comunale sulla concessione della deroga alle distanze tra allevamenti e zone residenziali, non deve essere inteso come un’espropriazione della competenza del sindaco. Come si è visto sopra, in materia igienico-sanitaria la deroga alle distanze minime è uno strumento ordinario di risoluzione dei problemi.
Si tratta infatti di un’opzione non disponibile quando si possa rispettare normalmente il distacco minimo ex lege, ma da prendere sempre in considerazione quando tale possibilità non sussista e occorra trovare una soddisfacente composizione degli interessi coinvolti. Pertanto, questa deroga non può essere assimilata all’ipotesi del tutto eccezionale del rilascio di un permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici, che richiede una preventiva deliberazione consiliare (v. art. 14 del DPR 06.06.2001 n. 380; art. 40 della LR 11.03.2005 n. 12).
Piuttosto, come chiarito nel caso in esame dallo stesso art. 29.8 delle NTA, la deroga alle distanze può diventare oggetto di una disciplina generale, di natura regolamentare, per favorire e incentivare l’adeguamento degli allevamenti esistenti. Un simile disegno richiede in effetti un esercizio ampio della funzione urbanistica, in quanto interviene sui diritti edificatori di un’intera categoria di proprietari e modifica l’equilibrio della pianificazione.
Al contrario, la semplice deroga in relazione a specifici titoli edilizi rimane circoscritta a un ambito gestionale, che per tradizione è affidato al sindaco.
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L’art. 3.10.4-b.3 del regolamento locale di igiene distingue gli allevamenti esistenti a seconda che rispettino o meno la distanza legale. Per i primi prevede espressamente la possibilità di realizzare concimaie o vasche di stoccaggio in deroga alle distanze minime, per i secondi elenca quali interventi consentiti la sola manutenzione ordinaria e straordinaria delle vasche di stoccaggio.
Tuttavia, le due disposizioni devono essere lette in modo coordinato, come suggerisce la clausola di rinvio inserita nella seconda (“fatto salvo quanto sopra precisato”), perché con un’interpretazione parcellizzata si potrebbero verificare situazioni paradossali, come accadrebbe se le nuove vasche collegate agli allevamenti posti a distanza legale risultassero, per effetto della deroga, più vicine alle zone residenziali delle vasche esistenti collegate agli allevamenti privi della distanza legale.
Occorre quindi ricondurre il potere di deroga a un’unica fattispecie, avente come presupposti da un lato la necessità di adeguare gli stoccaggi e dall’altro l’impraticabilità di localizzazioni alternative. La misura dell’avvicinamento alle zone residenziali è in tutti i casi individuata non con riguardo alle condizioni di partenza dell’allevamento ma cercando un equilibrio ragionevole tra la minore distanza e il rischio di maggiori molestie.
La deroga si applica alle distanze indicate nell’art. 3.10.5 del regolamento locale di igiene, e consente quindi di scendere anche al di sotto del limite di 300 metri, fermo restando per le vasche di stoccaggio il limite invalicabile di 100 metri dalle singole abitazioni. Nel potere di deroga è implicita la facoltà di avvicinare le vasche alla zona residenziale, anche quando la posizione iniziale dell’allevamento non rispetti la distanza minima.
Parimenti, la deroga relativa alle vasche non è subordinata alle altre condizioni dell’art. 3.10.5 del regolamento locale di igiene, tra cui la finalità di assicurare il benessere animale, anche se prescrizioni in questo senso potrebbero essere legittimamente introdotte nel provvedimento di deroga.
Per quanto riguarda invece le trincee per insilato di mais, l’art. 3.10.4-b.2 del regolamento locale di igiene, con una previsione specifica che prevale sulle norme genericamente riferite alle strutture aziendali, fissa la distanza di 50 metri dalle singole abitazioni e di 20 metri dalle abitazioni dell’azienda agricola.
L’impossibilità di collocare altrove le vasche di stoccaggio non deve essere valutata in astratto ma tenendo conto dell’organizzazione aziendale esistente e delle disfunzioni che l’allontanamento delle nuove infrastrutture potrebbe provocare.
Il provvedimento di deroga sottolinea che la controinteressata non si era ancora adeguata alle norme regionali applicative della disciplina comunitaria sui nitrati, precisamente per quanto riguarda la conformità degli stoccaggi degli effluenti di allevamento (v. DGR 21.11.2007 n. 8/5868; DGR 14.09.2011 n. 9/2208). Si può quindi ritenere che la nuova vasca di stoccaggio abbia anche la funzione di consentire l’adeguamento degli stoccaggi.

12. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sul potere di deroga
16. In materia igienico-sanitaria il potere di deroga alle distanze minime si deve considerare implicito, salvi i casi in cui è espressamente vietato. La tutela igienico-sanitaria ammette infatti forme equivalenti di protezione (ad esempio, il distacco degli allevamenti dagli edifici residenziali può essere minore se vi sono particolari misure di mitigazione, o se vengono utilizzati metodi di allevamento e mangimi in grado di limitare le emissioni odorigene).
Inoltre, sono possibili bilanciamenti tra interessi pubblici diversi (ad esempio, restando al caso in esame, la minore distanza dalle abitazioni è tollerabile se la vasca di stoccaggio viene inserita in una rete che distribuisce i liquami come fertilizzanti, con riduzione dell’inquinamento complessivo grazie al ridotto uso di fertilizzanti chimici e al minore impiego di autobotti).
17. L’individuazione del sindaco, contenuta nel regolamento locale di igiene, come autorità competente al rilascio della deroga è semplicemente tralatizia, in quanto si tratta di una funzione gestionale che potrebbe essere svolta, secondo la regola generale, dai responsabili degli uffici. Sul piano formale, il riferimento al sindaco è tuttora attuale per effetto dell’art. 124, comma 2, della LR 33/2009, che mantiene in vigore in via transitoria le disposizioni del regolamento locale di igiene tipo elaborato dalla ASL e recepito dai comuni.
18. Sul piano sostanziale, la deroga costituisce il rivestimento amministrativo delle valutazioni tecniche svolte dalla ASL, autorità preposta alla tutela degli interessi di natura igienico-sanitaria e dotata delle necessarie professionalità (v. art. 3.10.8 del regolamento locale di igiene).
19. In realtà, i comuni potrebbero anche discostarsi dai pareri della ASL, raccogliendo evidenze tecnico-scientifiche di analogo livello ma di segno opposto (v. TAR Brescia Sez. I 29.09.2014 n. 997). Ponendosi sul medesimo terreno tecnico, con l’apporto di soggetti qualificati, i comuni possono dimostrare che le riserve o le precauzioni della ASL sono eccessive o sproporzionate, oppure inefficaci.
Nel caso in esame, peraltro, vi è sintonia tra la posizione comunale e quella della ASL. Quest’ultima è infatti intervenuta più volte, valutando favorevolmente le soluzioni proposte dalla controinteressata e formulando alcune prescrizioni (v. nota del 19.03.2012 e note del 01.10.2013 - doc. 9-17-23 del Comune).
20. In questo quadro, l’art. 29.8 delle NTA, che prevede una competenza del consiglio comunale sulla concessione della deroga alle distanze tra allevamenti e zone residenziali, non deve essere inteso come un’espropriazione della competenza del sindaco. Come si è visto sopra, in materia igienico-sanitaria la deroga alle distanze minime è uno strumento ordinario di risoluzione dei problemi.
Si tratta infatti di un’opzione non disponibile quando si possa rispettare normalmente il distacco minimo ex lege, ma da prendere sempre in considerazione quando tale possibilità non sussista e occorra trovare una soddisfacente composizione degli interessi coinvolti. Pertanto, questa deroga non può essere assimilata all’ipotesi del tutto eccezionale del rilascio di un permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici, che richiede una preventiva deliberazione consiliare (v. art. 14 del DPR 06.06.2001 n. 380; art. 40 della LR 11.03.2005 n. 12).
Piuttosto, come chiarito nel caso in esame dallo stesso art. 29.8 delle NTA, la deroga alle distanze può diventare oggetto di una disciplina generale, di natura regolamentare, per favorire e incentivare l’adeguamento degli allevamenti esistenti. Un simile disegno richiede in effetti un esercizio ampio della funzione urbanistica, in quanto interviene sui diritti edificatori di un’intera categoria di proprietari e modifica l’equilibrio della pianificazione. Al contrario, la semplice deroga in relazione a specifici titoli edilizi rimane circoscritta a un ambito gestionale, che per tradizione è affidato al sindaco.
Sull’ammissibilità della deroga
21. L’art. 3.10.4-b.3 del regolamento locale di igiene distingue gli allevamenti esistenti a seconda che rispettino o meno la distanza legale. Per i primi prevede espressamente la possibilità di realizzare concimaie o vasche di stoccaggio in deroga alle distanze minime, per i secondi elenca quali interventi consentiti la sola manutenzione ordinaria e straordinaria delle vasche di stoccaggio.
Tuttavia, le due disposizioni devono essere lette in modo coordinato, come suggerisce la clausola di rinvio inserita nella seconda (“fatto salvo quanto sopra precisato”), perché con un’interpretazione parcellizzata si potrebbero verificare situazioni paradossali, come accadrebbe se le nuove vasche collegate agli allevamenti posti a distanza legale risultassero, per effetto della deroga, più vicine alle zone residenziali delle vasche esistenti collegate agli allevamenti privi della distanza legale.
Occorre quindi ricondurre il potere di deroga a un’unica fattispecie, avente come presupposti da un lato la necessità di adeguare gli stoccaggi e dall’altro l’impraticabilità di localizzazioni alternative. La misura dell’avvicinamento alle zone residenziali è in tutti i casi individuata non con riguardo alle condizioni di partenza dell’allevamento ma cercando un equilibrio ragionevole tra la minore distanza e il rischio di maggiori molestie.
22. La deroga si applica alle distanze indicate nell’art. 3.10.5 del regolamento locale di igiene, e consente quindi di scendere anche al di sotto del limite di 300 metri, fermo restando per le vasche di stoccaggio il limite invalicabile di 100 metri dalle singole abitazioni. Nel potere di deroga è implicita la facoltà di avvicinare le vasche alla zona residenziale, anche quando la posizione iniziale dell’allevamento non rispetti la distanza minima.
Parimenti, la deroga relativa alle vasche non è subordinata alle altre condizioni dell’art. 3.10.5 del regolamento locale di igiene, tra cui la finalità di assicurare il benessere animale, anche se prescrizioni in questo senso potrebbero essere legittimamente introdotte nel provvedimento di deroga.
23. Per quanto riguarda invece le trincee per insilato di mais, l’art. 3.10.4-b.2 del regolamento locale di igiene, con una previsione specifica che prevale sulle norme genericamente riferite alle strutture aziendali, fissa la distanza di 50 metri dalle singole abitazioni e di 20 metri dalle abitazioni dell’azienda agricola.
24. L’impossibilità di collocare altrove le vasche di stoccaggio non deve essere valutata in astratto ma tenendo conto dell’organizzazione aziendale esistente e delle disfunzioni che l’allontanamento delle nuove infrastrutture potrebbe provocare.
Nel caso in esame, la nuova vasca risulta collegata sia all’impianto di separazione delle deiezioni, sia alle vasche esistenti, sia all’impianto di fert-irrigazione (v. relazione agronomica dello Studio Fappani del settembre 2013 – doc. 14 del Comune), e dunque sembra che la localizzazione scelta risponda a effettive esigenze aziendali.
25. Il provvedimento di deroga sottolinea che la controinteressata non si era ancora adeguata alle norme regionali applicative della disciplina comunitaria sui nitrati, precisamente per quanto riguarda la conformità degli stoccaggi degli effluenti di allevamento (v. DGR 21.11.2007 n. 8/5868; DGR 14.09.2011 n. 9/2208). Si può quindi ritenere che la nuova vasca di stoccaggio abbia anche la funzione di consentire l’adeguamento degli stoccaggi.
Sulle molestie olfattive
26. La verificazione disposta da questo TAR sulle emissioni odorigene provocate dalla nuova vasca di stoccaggio e dall’insilato delle trincee conferma ex post la correttezza delle valutazioni alla base della deroga. Le misurazioni evidenziano che il disturbo olfattivo rimane lontano dalla soglia di attenzione (80 OU/mc) fissata dalla Regione Lombardia con DGR 15.02.2012 n. 9/3018.
Occorre anche sottolineare che le misurazioni riflettono un disturbo olfattivo aggregato, ossia originato da tutte le strutture aziendali poste nelle vicinanze del confine est (v. doc. 1 e 2 della controinteressata – deposito del 12.04.2014), e non riferibile solo alla nuova vasca di stoccaggio e alle nuove trincee per insilato.
27. Le condizioni in cui le misurazioni sono state effettuate si possono considerare normali, e dunque l’esito appare attendibile. Non è escluso, naturalmente, che in condizioni diverse (vento, temperatura, lavorazioni aziendali) il risultato possa variare in modo significativo.
Qualora si registrassero in futuro molestie olfattive eccedenti la normale tollerabilità ex art. 844 del codice civile, resterebbe aperta la possibilità di una tutela sul piano civilistico, e anche sul piano amministrativo attraverso un intervento repressivo da parte del Comune.
28. Per quanto riguarda però la valutazione amministrativa in sede di rilascio dei titoli edilizi, è sufficiente che i dati disponibili non contraddicano la scelta di concedere la deroga. La garanzia che l’amministrazione comunale deve dare ai vicini preoccupati per il rischio di molestie olfattive è quella della ragionevole previsione di un impatto contenuto, normalmente accettabile in un contesto dove sono presenti e devono convivere destinazioni urbanistiche diverse.
Del resto, neppure il rispetto della distanza minima può assicurare che non vi saranno interferenze odorigene da parte dell’allevamento.
Poiché dunque, da un lato, la riduzione della distanza minima favorisce una gestione dell’allevamento più razionale e rispettosa delle normative di settore, e dall’altro le misurazioni effettuate in corso di causa non rivelano alcun avvicinamento alla soglia di disturbo olfattivo, la legittimità della deroga non appare contestabile (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.03.2015 n. 418 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISicurezza a 360°. È obbligatorio indicare i costi. Il Cds: il principio per le imprese di costruzioni.
È obbligatorio indicare i costi per la sicurezza aziendale (cosiddetti interni) anche per le imprese di costruzioni che partecipano ad appalti pubblici di lavori.

Lo chiarisce definitivamente l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 20.03.2015 n. 3.
La questione riguarda l'applicabilità al settore dei lavori dell'art. 87, c. 4, del codice contratti pubblici che, ai fini della valutazione dell'anomalia delle offerte, richiede alle stazioni appaltanti di prendere in esame i costi della sicurezza i quali «devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture».
I «lavori» non sono citati e apparentemente l'obbligo di indicare i costi propri di ogni impresa connessi all'esecuzione del contratto vale soltanto per i contratti di servizi e di forniture. In passato un orientamento estensivo aveva ricompreso anche i lavori partendo dalla ratio della norma, che ha finalità di tutela della sicurezza dei lavoratori, ispirandosi a valori sociali e di rilievo costituzionale; un altro orientamento aveva invece escluso tale applicabilità in ragione della speciale disciplina che tale settore ha da sempre nell'ordinamento giuridico.
Per i lavori tutto si sarebbe risolto nel piano di sicurezza e coordinamento ex art. 100, decreto 81/2008, in base all'art. 131 del codice dei contratti. Il Cds aderisce al primo orientamento: «Nelle procedure di affidamento relative ai contratti pubblici di lavori i concorrenti debbono indicare nell'offerta economica i costi per la sicurezza interni o aziendali» perché dalla normativa vigente non risultano «prescrizioni o elementi preclusivi dell'indicazione dei costi interni nelle offerte per l'affidamento di lavori».
Sarebbe incoerente e illogico anche perché «non si rinviene la ratio di non prescrivere la specificazione dei detti costi per le offerte di lavori, nella cui esecuzione i rischi per la sicurezza sono normalmente i più elevati» e si inciderebbe sulla «prioritaria finalità della tutela della sicurezza del lavoro» (articolo ItaliaOggi del 24.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Gli atti amministrativi vanno interpretati non solo in base al tenore letterale, ma anche risalendo alla effettiva volontà dell'amministrazione ed al potere concretamente esercitato, cosicché occorre prescindere dal nomen iuris ad essi attribuito al momento della adozione.
La giurisprudenza di merito ha, del resto, parimenti precisato che “l'esatta qualificazione giuridica del provvedimento amministrativo impugnato, fondandosi sull'analisi del suo contenuto effettivo e della sua causa reale, spetta al giudice investito dalla controversia, il quale può (anche) legittimamente prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito dall'amministrazione all'atto adottato.”
Ciò sulla scia del condivisibile dictum dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio ove è stato affermato che "l'atto amministrativo va qualificato per il suo effettivo contenuto, per quanto effettivamente dispone, non già per la sola qualificazione che l'autorità, nell'emanarlo, eventualmente ed espressamente gli conferisca".

Come è noto, questo Consiglio di Stato (v. Sez. V, 15.10.2003, n. 6316; Sez. IV, 05.08.2005, n. 4165) ha a più riprese affermato che gli atti amministrativi vanno interpretati non solo in base al tenore letterale, ma anche risalendo alla effettiva volontà dell'amministrazione ed al potere concretamente esercitato, cosicché occorre prescindere dal nomen iuris ad essi attribuito al momento della adozione (v. Cons. St., V, 28.06.2004, n. 4756).
La giurisprudenza di merito ha, del resto, parimenti precisato (TAR Lombardia Milano Sez. II, 18.09.2013, n. 2170) che “l'esatta qualificazione giuridica del provvedimento amministrativo impugnato, fondandosi sull'analisi del suo contenuto effettivo e della sua causa reale, spetta al giudice investito dalla controversia, il quale può (anche) legittimamente prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito dall'amministrazione all'atto adottato.”
Ciò sulla scia del condivisibile dictum dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio, con la decisione 23.01.2003, n. 3, ove è stato affermato che "l'atto amministrativo va qualificato per il suo effettivo contenuto, per quanto effettivamente dispone, non già per la sola qualificazione che l'autorità, nell'emanarlo, eventualmente ed espressamente gli conferisca" (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.03.2015 n. 1515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche il parcheggio interrato, da realizzare ai sensi dell'art. 9 della L. n. 122/1989, in quanto struttura servente all'uso abitativo e, comunque, posta nell'ambito della fascia di rispetto cimiteriale, rientra tra le costruzioni edilizie del tutto vietate dalla disposizione di cui all'art. 338 del R.D. n. 1265/1934 (fascia di rispetto cimiteriale).
Quanto alle doglianze sostanziali, stante la assoluta portata dell’impedimento ad edificare nei limiti imposti delle fasce di rispetto (circostanza questa, sulla quale, in via di principio, anche l’appellante concorda, come si evince dall’incipit della pag. 16 dell’atto di appello), ne discende la assoluta ininfluenza della circostanza che il parcheggio previsto fosse del tutto interrato.
Condivisibile giurisprudenza, plasticamente traslabile, per analogia, alla odierna fattispecie, così si è espressa in passato, ed il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi da tale opinamento (ex aliis: Cons. Stato Sez. V, 14.09.2010, n. 6671): “anche il parcheggio interrato, da realizzare ai sensi dell'art. 9 della L. n. 122/1989, in quanto struttura servente all'uso abitativo e, comunque, posta nell'ambito della fascia di rispetto cimiteriale, rientra tra le costruzioni edilizie del tutto vietate dalla disposizione di cui all'art. 338 del R.D. n. 1265/1934” (ma si veda anche Cons. Stato Sez. VI, 21.07.2010, n. 4801)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.03.2015 n. 1515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della qualificazione di una strada come vicinale pubblica, occorre avere riguardo alle sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare in tale categoria solo qualora rilevino il passaggio esercitato "iure servitutis pubblicae" da una collettività di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile.
L'iscrizione della strada nell'elenco delle strade vicinali di uso pubblico costituisce presunzione "iuris tantum", superabile con la prova contraria, che escluda l'esistenza di un diritto di uso o di godimento della strada da parte della collettività.
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L'iscrizione di una strada nell'elenco formato dalla p.a delle vie gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva, ma è dichiarativa della pretesa della p.a. La stessa iscrizione pone in essere una mera presunzione "iuris tantum" di uso pubblico, superabile con la prova dell'inesistenza di un tale diritto di godimento da parte della collettività.
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La strada interpoderale o vicinale, iscritta negli elenchi comunali, si presume assoggettata al pubblico transito, diritto reale dell'ente esponenziale estinguibile soltanto per volontà, anche implicita, del medesimo, e tale presunzione può essere vinta con la prova contraria dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività.
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L'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un'azione negatoria di servitù.
Ne consegue che la controversia circa la proprietà, pubblica o privata, di una strada, o circa l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, giacché investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della pubblica amministrazione.
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Ai fini della qualificazione di una strada come vicinale pubblica, occorre avere riguardo alle sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare in tale categoria solo qualora rilevino il passaggio esercitato "iure servitutis pubblicae" da una collettività di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile.

4.1. Se così è, l’unico profilo residuo da risolvere riposa nella contestazione che l’appellante muove alla dedotta circostanza che la strada limitrofa al fondo di sua pertinenza fosse da considerare gravata da servitù di pubblico transito.
4.1.1. Le critiche appellatorie, a tal proposito, confliggono irrimediabilmente con il consolidato orientamento giurisprudenziale (ad es. TAR Puglia-Lecce Sez. III, 09.05.2014, n. 1217), secondo cui “ai fini della qualificazione di una strada come vicinale pubblica, occorre avere riguardo alle sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare in tale categoria solo qualora rilevino il passaggio esercitato "iure servitutis pubblicae" da una collettività di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile. L'iscrizione della strada nell'elenco delle strade vicinali di uso pubblico costituisce presunzione "iuris tantum", superabile con la prova contraria, che escluda l'esistenza di un diritto di uso o di godimento della strada da parte della collettività”.
In disparte ogni problematica in ordine alla giurisdizione in ipotesi di contestazione, resta fermo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. Sez. Unite, 07.11.1994, n. 9206) secondo cui “l'iscrizione di una strada nell'elenco formato dalla p.a delle vie gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva, ma è dichiarativa della pretesa della p.a. La stessa iscrizione pone in essere una mera presunzione "iuris tantum" di uso pubblico, superabile con la prova dell'inesistenza di un tale diritto di godimento da parte della collettività.”.
Da ciò si trae che, ove l’appellante avesse voluto contestare fondatamente la qualificazione impressa dal comune nell’atto reiettivo, avrebbe dovuto provare (non già elementi accessori e probatoriamente recessivi quali l’omessa iscrizione in catasto etc., ma) una sola circostanza: che la strada predetta non è adibita al pubblico transito.
In punto di ripartizione dell’onus probandi, anche la giurisprudenza di merito civile è categorica (Trib. Chieti, 15.10.2009): “la strada interpoderale o vicinale, iscritta negli elenchi comunali, si presume assoggettata al pubblico transito, diritto reale dell'ente esponenziale estinguibile soltanto per volontà, anche implicita, del medesimo, e tale presunzione può essere vinta con la prova contraria dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività.”.
Ma così non è stato: neppure labialmente, infatti, l’appellante ciò ha sostenuto, facendo unicamente riferimento, invece, ad un uso compatibile con la asserita natura interpoderale (Cass. civ. Sez. II Sent., 18.07.2008, n. 19994: “l'accertamento della comunione di una via privata, costituita "ex collatione agrorum privatorum", non è soggetto al rigoroso regime probatorio della rivendicazione, potendo, tale comunione, al pari di ogni altra "communio incidens", dimostrarsi con prove testimoniali e presuntive, comprovanti l'uso prolungato e pacifico della strada da parte dei frontisti e la rispondenza della stessa alle comuni esigenze di comunicazione in relazione alla natura dei luoghi,con la conseguente necessità di una valutazione complessiva degli elementi, anche indiziari addotti, al fine di stabilire l'effettiva destinazione della via alle esigenze comuni di passaggio” -nella specie la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza della corte di merito per avere escluso rilevanza, ai fini della comproprietà di una strada interpoderale, di elementi quali un'antica mappa del tracciato della strada, l'ampiezza di questa, l'idoneità al percorso di mezzi meccanici, la presenza di numerazione civica e di varie porte a fronte strada, una lettera attestante l'esistenza, al di sotto della strada, di una tubatura per le acque di scolo delle proprietà frontiste-).
Il Comune ha ribadito, invece, che la collettività utilizza e fruisce di tale via; ed a fronte di tali affermazioni, in carenza di decisive contestazioni supportate probatoriamente, la doglianza non appare accoglibile (il carteggio intrattenuto con soggetti terzi, anche se riferito alla stessa strada, e la circostanza che il Comune non effettuasse la raccolta di rifiuti sulla ridetta strada, infatti, non dimostrano che la collettività non la utilizzasse).
Nei limiti dell’accertamento incidentale demandato al Collegio (Cass. civ. Sez. Unite Ordinanza, 27.01.2010, n. 1624: “l'iscrizione di una strada nell'elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva e portata assoluta, ma riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del Comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell'uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un'azione negatoria di servitù. Ne consegue che la controversia circa la proprietà, pubblica o privata, di una strada, o circa l'esistenza di diritti di uso pubblico su una strada privata, è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, giacché investe l'accertamento dell'esistenza e dell'estensione di diritti soggettivi, dei privati o della pubblica amministrazione”; -nella specie, le S.U. hanno affermato la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario in controversia promossa da privato proprietario di una strada sterrata, immettentesi su strada comunale, al fine di sentir dichiarare che la strada medesima, divenuta oggetto di provvedimento comunale di classificazione come strada vicinale ad uso pubblico, era di sua proprietà esclusiva-), non può che richiamarsi la consolidata giurisprudenza (ex aliis, Cons. Stato Sez. IV, 07.09.2006, n. 5209 e, ancora di recente, TAR Puglia Lecce Sez. III, 09.05.2014, n. 1217), secondo cui “ai fini della qualificazione di una strada come vicinale pubblica, occorre avere riguardo alle sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare in tale categoria solo qualora rilevino il passaggio esercitato "iure servitutis pubblicae" da una collettività di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.03.2015 n. 1515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Reato di abusiva gestione dei rifiuti, la Cassazione su responsabilità appaltatore e committente. L'appaltatore è, di regola, il produttore del rifiuto e su di lui gravano i relativi oneri, ma ci sono casi in cui gli oneri si estendono anche al committente.
L'appaltatore, in ragione della natura del rapporto contrattuale, che lo vincola al compimento di un opera o alla prestazione di un servizio con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio è, di regola, il produttore del rifiuto; su di lui gravano, quindi, i relativi oneri, pur potendosi verificare, come osservato in dottrina, casi in cui, per la particolarità dell'obbligazione assunta o per la condotta del committente, concretatasi in ingerenza o controllo diretto sull'attività dell'appaltatore, detti oneri si estendono anche a tale ultimo soggetto.
La Corte di Cassazione, III Sez. penale, con la sentenza 16.03.2015 n. 11029, fornisce dei chiarimenti in merito al ruolo dell'appaltatore nelle attività di gestione dei rifiuti, ai suoi obblighi e responsabilità da distinguere rispetto alle diverse figure del committente e del subappaltatore.
La suprema Corte ribadisce che nessuna fonte legale, né scaturente da norma extrapenale, quale la disciplina generale sui rifiuti, né da contratto, individua committente e subappaltatore come gravati da un obbligo di garanzia in relazione all'interesse tutelato ed il correlato potere giuridico di impedire che l'appaltatore commetta il reato di abusiva gestione dei rifiuti.
Di conseguenza, tranne nel caso di un diretto concorso nella commissione del reato, non può ravvisarsi alcuna responsabilità ai sensi dell'articolo 40, comma 2, cod. pen. per mancato intervento al fine di impedire violazioni della normativa in materia di rifiuti da parte della ditta appaltatrice (Sez. 3, n. 25041 del 25/05/2011, Spagnuolo, Rv. 250676; Sez. 3, n. 40618 del 22/09/2004, Bassi, Rv. 230181; Sez. 3, n. 15165 del 28/01/2003, Capecchi, Rv. 224706. V. anche Sez. 3, n. 35692 del 05/04/2011, Taiuti, Rv. 251224)”.
Tali condivisibili considerazioni si fondano –osserva la Cassazione penale- sulla natura stessa del contratto di appalto, che non consente, di norma, alcuna ingerenza da parte dell'appaltante nell'attività dell'appaltatore”.
IL COMMITTENTE NON HA ALCUN POTERE GIURIDICO DI IMPEDIRE IL REATO DI ABUSIVA GESTIONE DEI RIFIUTI DA PARTE DELL'APPALTATORE.Si è così osservato –spiega la suprema Corte- come il committente non abbia alcun potere giuridico di impedire l'evento del reato di abusiva gestione dei rifiuti commesso dall'appaltatore, poiché ha diritto di controllare lo svolgimento dei lavori nel suo interesse ai sensi dell'articolo 1662 cod. civ., ad esempio verificando la conformità dei materiali utilizzati a quelli pattuiti o l'esecuzione delle opere a regola d'arte, ma non gli è consentito di interferire sullo svolgimento dei lavori a tutela degli interessi ambientali, salvo nel caso in cui questi coincidano col suo interesse contrattuale.
Ha la facoltà di controllare la qualità dei materiali utilizzati per il riempimento del terreno, ma non il potere (e non certamente l'obbligo) di chiedere all'appaltatore se è abilitato allo smaltimento dei rifiuti e, tanto meno, di impedire all'appaltatore non autorizzato di smaltire i rifiuti che lui utilizza per lo svolgimento dell'appalto. Conclusioni analoghe sono state tratte nel caso in cui il committente dei lavori sia anche proprietario dell'area su cui i lavori sono eseguiti, poiché come tale egli non ha alcun potere giuridico specifico verso l'appaltatore, posto che i rapporti reciproci sono regolati soltanto dal contratto di appalto (così Sez. 3, n. 40618 del 22/9/2004, Bassi, cit.)
”.
Quindi, la Cassazione osserva che “l'appaltatore, in ragione della natura del rapporto contrattuale, che lo vincola al compimento di un opera o alla prestazione di un servizio con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio è, di regola, il produttore del rifiuto; su di lui gravano, quindi, i relativi oneri, pur potendosi verificare, come osservato in dottrina, casi in cui, per la particolarità dell'obbligazione assunta o per la condotta del committente, concretatasi in ingerenza o controllo diretto sull'attività dell'appaltatore, detti oneri si estendono anche a tale ultimo soggetto.
La verifica delle singole posizioni costituisce, peraltro, un accertamento in fatto demandato al giudice del merito
(massima tratta da www.lexambiente.it - commento tratto da www.casaeclima.com).

COMPETENZE PROGETTUALI: La progettazione di opere di viabilità, anche se attinenti alla viabilità rurale, rientra nella competenza degli ingegneri.
Per saggiarne la fondatezza del ricorso occorre prendere avvio dalla ratio della separazione di competenze tra ingegneri ed architetti delineata dagli artt. 51 e 52 del succitato R.D. n. 2537 del 1925, che vanno considerati tuttora vigenti.
Tale ratio non consiste nella necessità di garantire una buona qualità delle opere sotto il profilo estetico o funzionale, ma unicamente nell’assicurare l’incolumità delle persone, sicché il professionista, che deve intervenire in un progetto, deve assumersi la responsabilità della verifica di tutti i calcoli necessari e di tutte le soluzioni tecniche sotto il profilo della tutela dell’incolumità pubblica.
La progettazione di opere di viabilità, anche se attinenti alla viabilità rurale, rientra nella competenza degli ingegneri, non solo in forza degli artt. 51 e 54 R.D. n. 2537 del 1925, ma anche perché tali opere non rientrano nel concetto di edilizia civile.
E’ evidente che un’interpretazione evolutiva dell’edilizia civile può indurre tutt’al più a consentire che gli architetti firmino un progetto relativo alla viabilità strettamente servente un’opera di edilizia civile, tale perciò, da potersi considerare accessoria a quest’ultima.
Del resto, se si considera che anche una strada rurale può comportare –come ben sottolinea l’Amministrazione– complessi calcoli connessi ai problemi di possibili dissesti idrogeologici oppure alla resistenza del fondo stradale al traffico di mezzi pesanti, come le macchine agricole, o ancora la necessità di superare talune più gravi asperità del terreno, si vede come solo le conoscenze tecnico-scientifiche proprie della professione di ingegnere garantiscano una corretta e responsabile progettazione delle strade rurali.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dalla Federazione degli Ordini degli Architetti pianificatori, paesaggisti e conservatori del Lazio e delle corrispondenti Federazioni delle province di Rieti e Frosinone avverso l’esclusione disposta dalla Regione Lazio del progetto, presentato dal Comune di Piglio (FR) per spese di ristrutturazione di strade rurali, dal sostegno per investimenti ed interventi a favore del miglioramento e per il potenziamento delle infrastrutture delle unità produttive agricole.
...
CONSIDERATO
Non sussiste il difetto di motivazione lamentato nel ricorso, in quanto il rinvio all’art. 10 del bando non può che significare, nel caso di specie, difetto nel professionista, che aveva sottoscritto il progetto, dell’iscrizione ad un Ordine professionale competente. Del resto è la stessa lettera del suddetto art. 10 ad esigere l’iscrizione del professionista “all’Ordine competente per materia”.
Né può ritenersi –come invece sembrano ritenere i motivi aggiunti del 18.01.2011- che vi sia stata un’integrazione o un mutamento di motivazione con la nota della Regione del 17.05.2010. Questa nota ed il parere ad essa allegato hanno inteso semplicemente specificare che la dizione dell’art. 51 R.D. 23.10.1925 n. 2537 comprende nei “lavori relativi alle vie ed ai mezzi… di comunicazione…” anche la c.d. viabilità rurale, sicché tutte le opere viarie in genere, ivi comprese quelle relative alla viabilità rurale, sono escluse dalla competenza progettuale degli architetti.
Quest’ultima considerazione introduce il secondo motivo di ricorso. Per saggiarne la fondatezza occorre prendere avvio dalla ratio della separazione di competenze tra ingegneri ed architetti delineata dagli artt. 51 e 52 del succitato R.D. n. 2537 del 1925, che vanno considerati tuttora vigenti (Cons. Stato, Sez. VI, 11.09.2006, n. 5239). Tale ratio non consiste nella necessità di garantire una buona qualità delle opere sotto il profilo estetico o funzionale, ma unicamente nell’assicurare l’incolumità delle persone, sicché il professionista, che deve intervenire in un progetto, deve assumersi la responsabilità della verifica di tutti i calcoli necessari e di tutte le soluzioni tecniche sotto il profilo della tutela dell’incolumità pubblica (Cons. Stato, Sez. V, 10.03.1997, n. 248).
La progettazione di opere di viabilità, anche se attinenti alla viabilità rurale, rientra nella competenza degli ingegneri, non solo in forza degli artt. 51 e 54 R.D. n. 2537 del 1925, ma anche perché tali opere non rientrano nel concetto di edilizia civile (Cons. Stato, Sez. IV, 19.02.1990, n. 92).
E’ evidente che un’interpretazione evolutiva dell’edilizia civile può indurre tutt’al più a consentire che gli architetti firmino un progetto relativo alla viabilità strettamente servente un’opera di edilizia civile, tale perciò, da potersi considerare accessoria a quest’ultima (Cons. Stato, Sez. VI, 15.03.2013, n. 1550).
Del resto, se si considera che anche una strada rurale può comportare –come ben sottolinea l’Amministrazione– complessi calcoli connessi ai problemi di possibili dissesti idrogeologici oppure alla resistenza del fondo stradale al traffico di mezzi pesanti, come le macchine agricole, o ancora la necessità di superare talune più gravi asperità del terreno, si vede come solo le conoscenze tecnico-scientifiche proprie della professione di ingegnere garantiscano una corretta e responsabile progettazione delle strade rurali.
In conclusione il ricorso in oggetto appare infondato e deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 12.03.2015 n. 723  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa norma di legge batte la circolare.
Presi dalla frenesia degli adempimenti quotidiani e confusi dal mare di informazioni e disposizioni amministrative che dobbiamo immagazzinare nella nostra mente per svolgere al meglio la nostra professione, pensavamo di aver perso memoria dei fondamenti giuridici che regolano il nostro stato di diritto e che definiscono la gerarchia delle fonti. Se ad un qualsiasi studente frequentante le prime classi di qualsiasi istituto superiore tecnico oppure fresca matricola di una facoltà universitaria di aria giuridica od economica, venisse posta la domanda: nel caso una circolare di un ente pubblico (Inps, Inail ecc.) dovesse sostenere posizioni diverse rispetto alle previsioni di una legge dello stato, l'azienda od il cittadino a quale disposizione dovrebbe attenersi? La ovvia risposta del giovane studente sarebbe stata: certamente alla legge dello stato! Pertanto è giusto, ogni tanto, resettare la propria mente operativa e, nell'esercizio della professione, ripartire dall'analisi della normativa in primis e poi, forse, passare a tenere conto di quanto disposto dalle circolari.

È questa è la riflessione che abbiamo sviluppato nel leggere la sentenza 12.03.2015 n. 353 del TRIBUNALE di Brindisi (avv.ti Leo e Patarnello) che afferma la supremazia assoluta e indiscutibile della previsione normativa rispetto al contenuto di una circolare dell'Inps.
Qualcuno potrebbe sostenere che le cose stanno ovviamente così, ma invito ognuno di noi ad analizzare i comportamenti quotidiani o i consigli professionali che sistematicamente formuliamo a favore dei nostri clienti, che risultano ormai impregnati delle convinzioni contenute nelle disposizioni amministrative dell'Inps o dell'Inail piuttosto che del Ministero del lavoro.
Troppo spesso molliamo la barra del diritto positivo rappresentato nelle norme di legge per timonare verso i meno burrascosi lidi offerti dalle disposizioni amministrative. Purtroppo le finalità e gli interessi perseguiti dalle circolari non sono gli stessi individuati dalle norme di legge e spesso, troppo spesso, tramite le circolari si snaturano le norme o si mortifica l'operato del parlamento, questo avviene sovente, anche solo per becere ragioni di cassa.
In particolare la questione risolta dalla sentenza, verteva sull'impugnativa giudiziaria di un ordinanza ingiunzione per il pagamento di sanzioni per lavoro nero derivante da un provvedimento dell'Inps di Brindisi con il quale si era esclusa la possibilità di ammettere l'azienda alla sanatoria derivante dall'emersione ex legge 223/2006. L'esclusione era determinata dal fatto che la lavoratrice fosse stata stabilizzata con un apprendistato, la cui qualifica finale, era simile a quella indicata nel periodo di lavoro nero poi regolarizzato.
Sostanzialmente, secondo la tesi della Dtl e in ragione di quanto previsto dalla circolare Inps 116/2007 e del Messaggio 25913/2007, la regolarizzazione non era accettabile poiché la lavoratrice era stata assunta come apprendista. Il giudice con estrema chiarezza e linearità di ragionamento ha ritenuto che le finalità della previsione normativa fossero state raggiunte e quindi, non rilevavano le «peggiori o restrittive» valutazioni formulate dall'Inps nelle sue disposizioni amministrative che, secondo la Dtl, erano da rispettare in pieno tanto da affrontare un contenzioso giudiziario.
Ebbene il principio affermato dalla sentenza, viene regolarmente violato dalla necessità di amministrare i nostri studi e somministrare la nostra consulenza, cercando di creare meno problemi possibili al cliente ed evitare qualsiasi contenzioso con gli enti pubblici. C'è da chiedersi, però, se in tal modo, si adempia pienamente al mandato professionale ricevuto dal cliente (articolo ItaliaOggi del 27.03.2015).

EDILIZIA PRIVATAAbusi edilizi, esproprio automatico. Il Comune acquisisce gratuitamente il bene scaduti i 90 giorni per demolire. Consiglio di Stato. L’ente incamera di diritto l’opera per inottemperanza all’ordine di abbattimento.
L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale di quanto costruito con abuso edilizio non è un provvedimento di autotutela, ma una sanzione che deriva dalla legge per il mancato adempimento dell’ordine, impartito dal Comune, di demolire opere abusive e ripristinare lo stato dei luoghi.
Secondo il Consiglio di Stato (Sez. VI, sentenza 04.03.2015 n. 1064), l’acquisizione avviene di diritto, in quanto effetto ricondotto direttamente dalla legge, secondo l’articolo 31, commi 3 e 4, del Dpr 380/2001, all’inottemperanza dell’ordine di demolizione. Sicché, l’accertamento che il Comune svolge coi propri tecnici, scaduti i 90 giorni per ottemperare, assume carattere dichiarativo dell’effetto traslativo della proprietà già verificatosi con la scadenza del termine rimasto inadempiuto.
Questa scadenza –precisano i giudici– è quindi presupposto per l’operatività automatica della sanzione amministrativa del trasferimento coattivo della proprietà.
Il caso affrontato dal Consiglio di Stato riguardava l’acquisizione gratuita di un’opera abusiva (per variazione essenziale dell’originaria concessione edilizia) e dell’area di sedime di proprietà. C’era stato un permesso a costruire in sanatoria, rispetto al quale l’intervento si poneva, peraltro, in totale difformità. Di fronte all’ordinanza di demolizione e ripristino, non si ripristinava lo stato progettuale nei tempi previsti dalla legge.
La sentenza chiarisce, poi, che il termine di 90 giorni, stabilito dall’articolo 31 del Dpr 380/2001, ha unicamente la funzione di consentire al responsabile dell’abuso di provvedere a eliminarlo entro un tempo determinato. Invece, l’accertamento dell’inottemperanza è il «titolo per l’immissione nel possesso e la trascrizione nei registri immobiliari», in base all’articolo 31, comma 4. Il che significa che l’accertamento può avvenire sostanzialmente senza termine, avendo funzione meramente strumentale rispetto ad acquisizione e ripristino dello stato dei luoghi.
Ora, se l’affermazione sugli effetti automatici riconducibili al mancato adempimento dell’ordinanza demolitoria, viene coordinata con la posizione assunta dalla più recente ulteriore giurisprudenza amministrativa in tema di repressione di abusi edilizi, si delineano le caratteristiche ed il contenuto che le iniziative che il Comune è tenuto ad assumere, di competenza del dirigente comunale preposto al ramo, (Consiglio di Stato, Quinta sezione, sentenza n. 1598 del 2012) di fronte all’inottemperanza all’ordinanza di demolizione:
- la sanzione demolitoria è una conseguenza necessitata dell’abuso edilizio ed è sufficientemente motivata col semplice riferimento al permanere del carattere abusivo dell’opera eseguita; il che porta con sé che come carattere vincolato il provvedimento di demolizione non richiede ponderazioni di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e coincidenti col corretto uso del territorio, non richiedendo, quindi, motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività dell’opera (Consiglio di Stato, Sesta sezione, sentenza n. 6423 del 2014);
- se le opere abusive sono realizzate su area vincolata, ai sensi dell’articolo 27, comma 2, del Dpr 380/2001, l’obbligatorietà dell’ordine di demolizione esclude che il provvedimento sia preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento (Consiglio di Stato, Sezione quarta, sentenza n. 2380 del 2014);
- l’obbligatorietà del provvedimento sanzionatorio non esclude, tuttavia, l’applicazione del principio di proporzionalità; cosicché il bene da acquisire non solo deve essere individuato con sufficiente precisione, ma nell’applicazione della sanzione l’amministrazione sacrifica la posizione soggettiva del privato, attraverso l’acquisizione dell’area in misura graduata e strettamente necessaria all’obbiettivo dell’interesse pubblico perseguito. Ciò in quanto l’articolo 31, comma 3, stabilisce che l’area acquisita non può essere superiore a 10 volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita, (Consiglio di Stato, Sesta sezione, sentenza n. 5607 del 2014);
- l’acquisizione al patrimonio comunale viene, peraltro, esclusa in due ipotesi: in casi di «accertamento di conformità», quale procedimento diretto a sanare le opere eseguite senza titolo, ma conformi alla normativa urbanistica (Consiglio di Stato, Quarta sezione, sentenza n. 5774 del 2013); nell’ipotesi in cui la costruzione abusiva sia riconducibile al concetto di pertinenza, che presuppone un’opera priva di fruizione o utilizzazione autonoma, in quanto integrata in un organismo edilizio principale (Consiglio di Stato, Sezione sesta, sentenza n. 3178 del 2014)
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.03.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIABonifiche con oneri ridotti. Nessun obbligo di risanare per il proprietario incolpevole del sito. Aree inquinate. La Corte Ue fissa le responsabilità: l’intervento sostitutivo spetta all’ente pubblico.
Il proprietario incolpevole non può essere obbligato a bonificare un sito contaminato.

Secondo la Corte di Giustizia dell’Unione europea (sentenza 04.03.2015 n. causa C-534/13), i principi comunitari di tutela dell’ambiente non impongono la bonifica al proprietario che non è stato responsabile della contaminazione. La sentenza europea, dunque, conferma la piena conformità dell’impianto normativo nazionale previsto dal Dlgs n. 152/2006 in materia di siti contaminati.
Il caso
La recente decisione è in risposta ad un quesito pregiudiziale posto dal Consiglio di Stato, il quale si è trovato a risolvere un conflitto giurisprudenziale che ormai creava da diversi anni incertezza tra gli operatori rispetto agli obblighi e alle responsabilità in materia di bonifica di siti contaminati.
Se da un lato, infatti, è pacifico che l’obbligato in via principale sia il soggetto che ha causato la contaminazione, dall’altro, non era chiaro il ruolo del proprietario incolpevole.
Nonostante il Dlgs 152/2006 non prevedesse obblighi in capo allo stesso (salvo quello di comunicare la scoperta della contaminazione e di adottare le misure di prevenzione), parte della giurisprudenza amministrativa era giunta a riconoscere comunque un obbligo ad intervenire individuando responsabilità che discendevano in via generale dalla detenzione o custodia del bene “contaminato”.
Al contrario, il Consiglio di Stato in adunanza plenaria (ordinanza n. 21/2013) era giunto alla conclusione che l’impianto delineato dal Codice dell’ambiente stabilisse un quadro specifico di responsabilità e obblighi, non suscettibile di interpretazioni estensive.
Secondo la normativa nazionale, dunque, l’unico soggetto obbligato è il responsabile della contaminazione e, in subordine, la pubblica amministrazione. Il proprietario incolpevole, invece, ha solo una facoltà di intervenire su base volontaria e ciò al fine di evitare l’apposizione di un onere reale sull’area in caso di intervento d’ufficio da parte della regione o del comune interessati.
La stessa adunanza plenaria, tuttavia, pur giunta ad interpretazione univoca sulle norme italiane, si era posta il dubbio se queste fossero effettivamente in linea con i principi comunitari di tutela dell’ambiente, in particolare quelli di precauzione, prevenzione e correzione.
E ora la Corte di Giustizia ha confermato che la disciplina nazionale, non prevedendo obblighi a carico del proprietario incolpevole, non contrasta con i principi e le disposizioni di cui alla direttiva sul danno ambientale 2004/35/Ce.
La conferma da parte del giudice europeo dovrebbe, quindi, mettere la parola fine al dibattito dottrinale e giurisprudenziale sugli obblighi e sulle responsabilità di bonifica del proprietario incolpevole.
Le conseguenze
La “promozione” dell’impianto normativo nazionale, tuttavia, apre necessariamente un nuovo confronto sociale rispetto alla gestione di tutte le contaminazioni rispetto alle quali non è più individuabile il soggetto responsabile (in particolare quelle storiche o relative a fallimenti).
In tal caso, infatti, l’obbligo ad intervenire (si badi bene, non la facoltà) ricade sulla pubblica amministrazione, la quale sarebbe tenuta ad avviare la procedura di legge e a individuare le risorse necessarie per poter fronteggiare immediatamente i casi di contaminazione più gravi attraverso l’attuazione di misure di messa in sicurezza d’emergenza.
Sennonché, risulta difficile pensare che tale scenario possa effettivamente trovare applicazione, atteso che le risorse pubbliche sono sempre più limitate.
Pertanto, proprio al fine di poter assolvere indirettamente i propri compiti e obblighi istituzionali, le pubbliche amministrazioni dovranno necessariamente individuare soluzioni alternative che prevedano una sinergia con i privati.
È, quindi, evidente che sarà necessario creare un interesse concreto del proprietario non responsabile o di un terzo ad intervenire volontariamente nella procedura di bonifica in sostituzione dell’amministrazione.
Un ruolo fondamentale in tal contesto sarà rivestito dai progetti di riqualificazione urbanistica ed edilizia dei siti contaminati, che dovranno assicurare la realizzazione di un valore aggiunto sufficiente a garantire la copertura dei costi di ripristino ambientale.
Altro aspetto fondamentale è rappresentato dalla futura legge sul consumo di suolo che, di fatto, rappresenterà una opportunità unica per la valorizzazione delle aree contaminate e dismesse.
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IL «RESPONSABILE»
Obbligo di avvio dell’iter
Il soggetto responsabile della contaminazione deve avviare la procedura di bonifica e attuare gli interventi necessari, intendendo sia gli interventi emergenziali, sia quelli definitivi
Articolo 242, Dlgs 152/2006
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LA PROVINCIA
Indagini per il responsabile
Sugli uffici della Provincia ricade l’obbligo di avviare le indagini per arrivare ad accertare chi sia il soggetto qualificabile come responsabile della contaminazione
Articolo 244, Dlgs 152/2006
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IL COMUNE O LA REGIONE
Procedura d’ufficio
Se il responsabile non provvede o non è individuabile, la Pa avvia la bonifica d’ufficio. Comune o Regione possono apporre sull’area l’onere reale (articolo 253, Dlgs 152) e, completata la bonifica, rivalersi sull’area nei limiti del valore della stessa
Articolo 250, Dlgs 152/2006
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IL PROPRIETARIO INCOLPEVOLE
Facoltà di sostituirsi alla Pa
Gli interessati (proprietari incolpevoli) devono avviare l’iter di bonifica (notifica) e adottare le misure di prevenzione, ma non sono tenuti ad attuare misure di emergenza e bonifiche. Possono sostituirsi alla Pa e rivalersi sul responsabile
Articolo 245, Dlgs 152/2006
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Freno europeo ai danni da contaminazioni storiche. Gli altri principi. Una data limite per risarcire le conseguenze dell’inquinamento.
Il giudice europeo, valutando l’impianto normativo nazionale in materia di bonifiche (sentenza 04.03.2015 n. causa C-534/13) , offre anche alcuni importanti spunti di riflessione sul danno ambientale. Proprio il concetto di danno ambientale non è sempre di facile inquadramento.
Se da un lato, questo danno spesso coincide con la contaminazione e, quindi, la bonifica rappresenta di fatto una forma di risarcimento in forma specifica, dall’altro, risulta più difficile valutare se sussista anche un ulteriore danno da risarcire una volta completata la bonifica.
Non solo è difficoltoso comprendere quale possa essere tale ulteriore danno residuale, ma è anche complessa la sua quantificazione e imputazione.
La parte sesta del Dlgs 152/2006 (Codice dell’ambiente), recependo la direttiva 2004/35/Ce, disciplina espressamente il danno ambientale, ma, in fase di concreta applicazione, la normativa risulta comunque lacunosa e di difficile interpretazione. Assumono, quindi, fondamentale importanza le indicazioni giurisprudenziali, in particolare quelle del Giudice europeo.
Con la sentenza del 5 marzo scorso (si veda l’articolo a fianco), la Corte di giustizia ha passato in rassegna diversi aspetti della disciplina europea relativa al danno ambientale, i quali potrebbero essere di aiuto anche rispetto al contesto nazionale.
In primo luogo, si è posta la questione di comprendere se la direttiva comunitaria sul danno ambientale possa trovare applicazione rispetto alle contaminazioni storiche.
Il dubbio nasce dal fatto che la direttiva dovrebbe applicarsi ai danni causati da eventi verificatosi dal 30 aprile 2007 in poi ovvero da attività svolte precedentemente a tale data ma non terminate prima di essa.
Secondo questa interpretazione, dunque, il danno ambientale potrebbe trovare applicazione anche rispetto alle contaminazioni storiche, solo a condizione che le attività che hanno causato il danno siano cessate dopo il 30 aprile 2007. Tutti i danni all’ambiente causati prima di tale data, invece, non sarebbero risarcibili ai sensi della direttiva.
Invero, la normativa italiana per come recentemente modificata dalla legge 97/2013, fisserebbe la data di riferimento ad aprile 2006, quando è entrata in vigore la disciplina nazionale sul danno ambientale.
I medesimi principi interpretativi dettati dal Giudice europeo rispetto al momento in cui si è verificato l’evento dannoso, tuttavia, possono valere anche per la normativa italiana.
La Corte di giustizia, poi, prende posizione anche sulla responsabilità, ovvero sul nesso causale tra evento e danno. In particolare, la sentenza evidenzia e sottolinea che il compito di accertare il nesso causale ricade sulla pubblica amministrazione, sia rispetto alla responsabilità oggettiva che soggettiva (dolo e colpa) degli operatori.
In assenza di un accertamento puntuale, dunque, non può essere imputato un danno ambientale. In ogni caso, qualora gli operatori accertati responsabili dovessero invece dimostrare di aver attuato idonee misure di sicurezza che tuttavia non hanno evitato il danno, ovvero che questo sia stato conseguenza di ordini o istruzioni impartite dall’amministrazione, gli stessi non sarebbero comunque tenuti a sostenere le spese di riparazione.
Le indicazioni della Corte, dunque, sono utili per poter applicare correttamente a livello nazionale la normativa sul danno ambientale che, come detto, discende direttamente da quella europea.
Tuttavia, è bene ricordare che la normativa nazionale può anche introdurre previsioni più limitative volte a garantire una maggiore tutela ambientale, ma in tal caso occorrerebbe porsi il problema se le maggiori restrizioni siano sempre e comunque in linea con i principi fondamentali contenuti nella direttiva 2004/35/Ce, ovvero se siano in violazione dei medesimi.
In tal caso, non è da escludersi che il possibile contrasto possa anche portare anche ad una disapplicazione della disciplina italiana, la quale -a differenza di quella sulle bonifiche- non è stata ancora specificamente vagliata
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.03.2015).

SICUREZZA LAVOROInfortuni, paga anche il committente. Sicurezza. Per la Cassazione il subappaltante deve adottare le misure precauzionali di base atte a evitare incidenti.
In un appalto anche l’impresa subappaltante può essere chiamata a rispondere dell’infortunio subìto dal lavoratore dipendente dell’impresa subappaltatrice qualora l’evento si colleghi causalmente a una sua colpevole omissione. Tanto più nel caso in cui la mancata adozione o l’inadeguatezza delle misure precauzionali sia immediatamente percepibile senza particolari indagini.

Sono alcuni principi espressi e richiamati dalla Corte di Cassazione (III Sez. penale, sentenza 24.02.2015 n. 12228), chiamata a decidere in merito a un infortunio mortale su cui vi era stata una pronuncia di colpevolezza in primo grado, poi decisioni controverse in sede di appello, e il riconoscimento della colpevolezza dell’impresa affidataria subappaltante.
La sentenza si riferisce a un infortunio mortale occorso a un lavoratore dipendente da una impresa individuale che aveva assunto in subappalto, da una affidataria subappaltante, i lavori per la sostituzione di lastre di eternit con alluminio di un edificio della società proprietaria committente. Compito dell’impresa subappaltatrice era rimuovere la copertura per poter procedere alla successiva ricopertura. Il lavoratore in questione era salito insieme ai compagni di lavoro sul tetto del fabbricato, pedonabile tranne che in corrispondenza dei lucernai. Sul tetto, tuttavia, non erano state ancora approntate idonee misure di protezione e non era stata sistemata la testata in acciaio alla quale il lavoratore avrebbe potuto assicurarsi con cinture di sicurezza. Mentre percorreva il tetto in corrispondenza di un lucernaio, dal quale era stata rimossa la rete metallica di protezione, il lavoratore precipitava al suolo da circa 8 metri infortunandosi mortalmente.
La sentenza, richiamandosi all’articolo 7, comma 3, del Dlgs n. 626/1994 (vigente all’epoca dei fatti, costituito dall’articolo 26 del Dlgs n. 81/2008), chiarisce che spetta al committente promuovere la cooperazione e il coordinamento e che tale obbligo deve ritenersi escluso soltanto per i rischi specifici delle attività delle imprese appaltatrici o dei singoli lavoratori autonomi. L’esclusione, dunque, secondo la Corte, è prevista non per le generiche precauzioni, da adottarsi negli ambienti di lavoro per evitare incidenti, ma per quelle regole che richiedono una specifica competenza tecnica settoriale, normalmente assente in chi opera in settori diversi dalla conoscenza delle procedure da adottare nelle singole lavorazioni e nell’utilizzazione di speciali tecniche o nell’uso di determinate macchine. Pertanto, non può considerarsi rischio specifico quello derivante dalla generica necessità di impedire cadute da parte di chi operi in altezza essendo, questo pericolo, riconoscibile indipendentemente dalle specifiche competenze.
In presenza, poi, dello specifico “rischio da caduta” è stato riaffermato che in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, qualora il lavoratore presti la propria attività in esecuzione di un contratto di appalto, il committente (o appaltante come in questo caso) è esonerato dagli obblighi antinfortunistici solo per le precauzioni che richiedono una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni
(articolo Il Sole 24 Ore del 26.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio ritiene che la repressione degli abusi edilizi può essere disposta nei confronti del proprietario interessato dall'intervento abusivo, anche se non responsabile dell'abuso (potendo egli, eventualmente, avvalersi degli ordinari rimedi civilistici), poiché l’abuso costituisce un illecito permanente, né si richiede, per l'emanazione dei relativi provvedimenti, l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la realizzazione dell'abuso, intervenendosi con sanzione di carattere reale.
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Con riferimento alla competenza dell'Ente Parco ad adottare provvedimenti repressivi, valga evidenziare la circostanza che le opere abusive sono state realizzate all’interno del perimetro del Parco, cosicché il potere di ordinanza esercitato dall’Ente nella fattispecie in questione si fonda sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento della sua stessa istituzione, essendo, quindi, stato esercitato un potere sancito nella legislazione statale in materia ambientale (legge n. 394/1991) e finalizzato alla protezione delle aree sottoposte a vincolo ambientale da un'attività edilizia non conforme alla normativa.
L'art. 13 della Legge 394/1991 stabilisce che il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell'Ente Parco. Il nulla osta verifica la conformità tra le disposizioni del piano e del regolamento. Il successivo art. 29 sancisce che, qualora venga esercitata un'attività in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta, se ne dispone l'immediata sospensione e, in ogni caso, la riduzione in pristino.
All'Ente, pertanto, non residuavano margini di discrezionalità, avendo lo stesso constatato l'esecuzione delle opere abusive in assenza del titolo abilitativo. L’ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto della p.a., riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dalla Società Euroholiday s.r.l., in persona del legale rappresentante p.t. S.R., per l'annullamento, previa sospensiva, dell'ordinanza di demolizione di opere abusive n. 08 del 11.02.2013, emessa dal Direttore dell’Ente Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano.
...
Il ricorso è infondato.
Con riferimento ai dedotti vizi concernenti l'asserita errata notificazione dell'ordinanza impugnata, è sufficiente rilevare che l’atto ha raggiunto la conoscenza effettiva della società, tanto che quest’ultima lo ha ritualmente impugnato. Deve, pertanto, ritenersi che ogni vizio della comunicazione sia stato sanato, in ragione del principio di effettività e di strumentalità delle forme, che implica la necessità di conferire rilievo alla conoscenza di fatto dell’atto o del provvedimento recettizio, anche in mancanza di una specifica norma che dispone in tal senso.
Con riferimento alla dedotta estraneità agli abusi della società -imputabili al sig. A.M., nella sua qualità di legale rappresentante della Holiday Dream s.r.l., titolare di un contratto di affitto d'azienda del Residence Capo d'Arena, di proprietà della società Euroholiday s.r.l.-, il Collegio ritiene che la repressione degli abusi edilizi può essere disposta nei confronti del proprietario interessato dall'intervento abusivo, anche se non responsabile dell'abuso (potendo egli, eventualmente, avvalersi degli ordinari rimedi civilistici), poiché l’abuso costituisce un illecito permanente, né si richiede, per l'emanazione dei relativi provvedimenti, l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la realizzazione dell'abuso, intervenendosi con sanzione di carattere reale (Cons. Stato, Sez. VI, n. 3867/2014 e n. 5011/2013).
Con riferimento, invece, alla competenza dell'Ente Parco ad adottare provvedimenti della specie, valga evidenziare la circostanza che le opere abusive sono state realizzate all’interno del perimetro del Parco, cosicché il potere di ordinanza esercitato dall’Ente nella fattispecie in questione si fonda sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento della sua stessa istituzione, essendo, quindi, stato esercitato un potere sancito nella legislazione statale in materia ambientale (legge n. 394/1991) e finalizzato alla protezione delle aree sottoposte a vincolo ambientale da un'attività edilizia non conforme alla normativa (Cons. Stato, Sez. II, 20.02.2013, n. 169/2013).
L'art. 13 della Legge 394/1991 stabilisce che il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti ed opere all'interno del parco è sottoposto al preventivo nulla osta dell'Ente Parco. Il nulla osta verifica la conformità tra le disposizioni del piano e del regolamento. Il successivo art. 29 sancisce che, qualora venga esercitata un'attività in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta, se ne dispone l'immediata sospensione e, in ogni caso, la riduzione in pristino.
All'Ente, pertanto, non residuavano margini di discrezionalità, avendo lo stesso constatato l'esecuzione delle opere abusive in assenza del titolo abilitativo. L’ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto della p.a., riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge, con la conseguenza che il provvedimento sanzionatorio non richiede una particolare motivazione, essendo sufficiente la mera rappresentazione del carattere illecito dell’opera realizzata; né è necessaria una previa comparazione dell’interesse pubblico alla repressione dell’abuso (Cons. Stato, Sez. IV, n. 4403/2011).
A nulla rileva che la Sovrintendenza per i Beni Architettonici e paesaggistici di Salerno e Avellino avesse disposto un provvedimento analogo, trattandosi di autorità amministrativa preposta alla tutela paesaggistica, cui la legge riconduce il potere sanzionatorio avverso quegli interventi realizzati in assenza della prescritta autorizzazione (art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004) (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 23.02.2015 n. 522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Se gli atti generali rimessi alla competenza degli organi di governo sono regolati nella loro efficacia e vigenza dall’art. 134 del Tuel, si comprende allora che le determinazioni dirigenziali comunali vadano anch’esse pubblicate per soddisfare le esigenze di trasparenza dell’attività amministrativa, ma non vi è alcuna regola legislativa che ne comporti l’inefficacia in pendenza di pubblicazione.
Pur se le determinazioni dirigenziali rientrano nella nozione più vasta di deliberazione come riportata dall’art. 124 del T.u.e.l., non si può affermare lo stesso circa l’estensione a queste circa i limiti all’esecutività previsti dal seguente art. 134; ora, se la necessaria pubblicità dell’azione degli enti locali richiede di applicare ai provvedimenti monocratici le stesse fondamentali regole di pubblicità degli atti degli organi collegiali, ciò non vuol dire che per gli stessi valgano anche le disposizioni che riguardano il conseguimento dell’efficacia dei provvedimenti.
Come sostenuto negli atti d’appello, la stessa lettera dell’art. 134 (che riguarda gli atti del consiglio e della giunta) non permette l’estensione rilevata dal Tar agli atti di altri organi comunali.
Sotto tale profilo, va rimarcato che –per il principio di legalità– solo agli atti emanati dagli organi individuati dall’art. 134 del T.u.e.l. si applicano le sue relative disposizioni, e non anche agli atti disciplinati dal precedente art. 124.
L’art. 42 del T.u.e.l. definisce il consiglio comunale quale organo di controllo politico-amministrativo e conseguentemente rimette alle sue competenze una serie di atti programmatori, organizzatori ed in senso lato normativi ed una limitatissima serie di provvedimenti di gestione di notevole rilevanza, mentre la giunta è chiamata ad attuare gli indirizzi generali del consiglio ed a collaborare con il Sindaco – art. 48.
I dirigenti invece hanno le competenze di carattere generale per l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno e che non siano ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico amministrativo degli organi di governo dell’ente.
Dunque, è comprensibile che l’esecutività degli atti degli organi di governo sia subordinata ai tempi della loro pubblicazione, dato il carattere interesse collettivo da questi rivestito; le determinazioni dirigenziali costituiscono in genere la figura del provvedimento, ossia di quell’atto tipico denominato chiamato a realizzare gli interessi specifici affidati alle cure dell’amministrazione e consistenti in decisioni destinate a generare, modificare distinguere situazioni giuridiche specifiche o quanto meno a negarne la nascita, la modificazione o l’estinzione.
Quindi se gli atti generali rimessi alla competenza degli organi di governo sono regolati nella loro efficacia e vigenza dall’art. 134, si comprende allora che le determinazioni dirigenziali comunali vadano anch’esse pubblicate per soddisfare le esigenze di trasparenza dell’attività amministrativa, ma non vi è alcuna regola legislativa che ne comporti l’inefficacia in pendenza di pubblicazione.

Il Collegio ritiene del tutto corrette le doglianze mosse con il terzo motivo di appello del Comune e quelle analoghe di cui al secondo motivo dell’appello della dott.ssa P..
Pur se le determinazioni dirigenziali rientrano nella nozione più vasta di deliberazione come riportata dall’art. 124 del T.u.e.l., non si può affermare lo stesso circa l’estensione a queste circa i limiti all’esecutività previsti dal seguente art. 134; ora, se la necessaria pubblicità dell’azione degli enti locali richiede di applicare ai provvedimenti monocratici le stesse fondamentali regole di pubblicità degli atti degli organi collegiali, ciò non vuol dire che per gli stessi valgano anche le disposizioni che riguardano il conseguimento dell’efficacia dei provvedimenti.
Come sostenuto negli atti d’appello, la stessa lettera dell’art. 134 (che riguarda gli atti del consiglio e della giunta) non permette l’estensione rilevata dal Tar agli atti di altri organi comunali.
Sotto tale profilo, va rimarcato che –per il principio di legalità– solo agli atti emanati dagli organi individuati dall’art. 134 del T.u.e.l. si applicano le sue relative disposizioni, e non anche agli atti disciplinati dal precedente art. 124.
L’art. 42 del T.u.e.l. definisce il consiglio comunale quale organo di controllo politico-amministrativo e conseguentemente rimette alle sue competenze una serie di atti programmatori, organizzatori ed in senso lato normativi ed una limitatissima serie di provvedimenti di gestione di notevole rilevanza, mentre la giunta è chiamata ad attuare gli indirizzi generali del consiglio ed a collaborare con il Sindaco – art. 48.
I dirigenti invece hanno le competenze di carattere generale per l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi che impegnano l’amministrazione verso l’esterno e che non siano ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico amministrativo degli organi di governo dell’ente.
Dunque, è comprensibile che l’esecutività degli atti degli organi di governo sia subordinata ai tempi della loro pubblicazione, dato il carattere interesse collettivo da questi rivestito; le determinazioni dirigenziali costituiscono in genere la figura del provvedimento, ossia di quell’atto tipico denominato chiamato a realizzare gli interessi specifici affidati alle cure dell’amministrazione e consistenti in decisioni destinate a generare, modificare distinguere situazioni giuridiche specifiche o quanto meno a negarne la nascita, la modificazione o l’estinzione.
Quindi se gli atti generali rimessi alla competenza degli organi di governo sono regolati nella loro efficacia e vigenza dall’art. 134, si comprende allora che le determinazioni dirigenziali comunali vadano anch’esse pubblicate per soddisfare le esigenze di trasparenza dell’attività amministrativa, ma non vi è alcuna regola legislativa che ne comporti l’inefficacia in pendenza di pubblicazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.02.2015 n. 515 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: La risoluzione del contratto al tempo aggiudicato dipende dalla decadenza dell’attestazione SOA ed è collegata al principio generale statuito dall’art. 40 D.Lgs. 163 del 2006, secondo il quale l’affidamento e lo svolgimento di lavori pubblici di importo superiore a €. 150.000,00 può essere aggiudicato solamente agli operatori economici dotati dell’attestazione SOA corrispondente ai lavori da realizzare.
Da ciò non può che discendere che la validità di tale attestazione deve permanere fino al compimento delle opere e per questo è sufficiente rammentare che la giurisprudenza di questa Sezione ha già affermato che l’amministrazione appaltante può in ogni momento, anche dopo il provvedimento di aggiudicazione definitiva, escludere dalla gara un’impresa, anche quella che sia stata definitivamente dichiarata aggiudicataria, allorquando accerti la mancanza dei requisiti di partecipazione alla gara stessa.

Considerato che appare del tutto corretta la sentenza del TAR della Sardegna, secondo cui la risoluzione del contratto al tempo aggiudicato dipende dalla decadenza dell’attestazione SOA –decadenza che a questo momento non può più essere messa in dubbio– ed è collegata al principio generale statuito dall’art. 40 D.Lgs. 163 del 2006, secondo il quale l’affidamento e lo svolgimento di lavori pubblici di importo superiore a €. 150.000,00 può essere aggiudicato solamente agli operatori economici dotati dell’attestazione SOA corrispondente ai lavori da realizzare: da ciò non può che discendere che la validità di tale attestazione deve permanere fino al compimento delle opere e per questo è sufficiente rammentare che la giurisprudenza di questa Sezione ha già affermato che l’amministrazione appaltante può in ogni momento, anche dopo il provvedimento di aggiudicazione definitiva, escludere dalla gara un’impresa, anche quella che sia stata definitivamente dichiarata aggiudicataria, allorquando accerti la mancanza dei requisiti di partecipazione alla gara stessa (Sez. V, 12.07.2010 n. 4477) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.02.2015 n. 510 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTI: L’istituto del raggruppamento di imprese è da ritenersi uno strumento finalizzato ad ampliare la possibilità di partecipare alle gare pubbliche anche a soggetti singolarmente sprovvisti dei requisiti speciali richiesti (dalla legge o dalla lex specialis di gara).
Nel perseguimento di detta finalità, le disposizioni di cui all’art. 37 non dettano norme meramente definitorie o organizzative, ma si preoccupano di correlare l’organizzazione e le modalità del raggruppamento con il possesso dei requisiti di affidabilità professionale, e con la responsabilità nel rapporto con il committente.
Si vuol cioè dire che, a differenza della previsione di fondo che ammette la partecipazione in gruppo -la cui funzione proconcorrenziale è evidente- le norme che intervengono sull’organizzazione interna del gruppo (nei raggruppamenti verticali, orizzontali e misti) non attengono, se non in via mediata ed indiretta, alla concorrenza, concernendo piuttosto le garanzie di capacità ed affidabilità, e l’eventuale responsabilità infra gruppo in caso di inadempienze. L’unica norma, nel contesto dell’art. 37, immediatamente riconducibile alla diretta tutela della concorrenza è piuttosto quella contenuta nel comma 7 dell’art. cit., la quale fa divieto al concorrente di partecipare alla gara in più di un raggruppamento temporaneo, oppure di partecipare alla gara anche in forma individuale qualora abbia già partecipato alla gara medesima in raggruppamento.
Al di fuori di questo caso, nel quale rileva il comportamento esterno ed anti concorrenziale delle singole imprese riunite, le norme sulla ripartizione interna del modello di raggruppamento vanno lette ed interpretate alla luce del criterio di sufficienza delle garanzie di affidabilità e responsabilità, di modo che queste ultime non ne risultino pregiudicate.

L’istituto del raggruppamento di imprese è da ritenersi uno strumento finalizzato ad ampliare la possibilità di partecipare alle gare pubbliche anche a soggetti singolarmente sprovvisti dei requisiti speciali richiesti (dalla legge o dalla lex specialis di gara). Nel perseguimento di detta finalità, le disposizioni di cui all’art. 37 non dettano norme meramente definitorie o organizzative, ma si preoccupano di correlare l’organizzazione e le modalità del raggruppamento con il possesso dei requisiti di affidabilità professionale, e con la responsabilità nel rapporto con il committente.
Si vuol cioè dire che, a differenza della previsione di fondo che ammette la partecipazione in gruppo -la cui funzione proconcorrenziale è evidente- le norme che intervengono sull’organizzazione interna del gruppo (nei raggruppamenti verticali, orizzontali e misti) non attengono, se non in via mediata ed indiretta, alla concorrenza, concernendo piuttosto le garanzie di capacità ed affidabilità, e l’eventuale responsabilità infra gruppo in caso di inadempienze. L’unica norma, nel contesto dell’art. 37, immediatamente riconducibile alla diretta tutela della concorrenza è piuttosto quella contenuta nel comma 7 dell’art. cit., la quale fa divieto al concorrente di partecipare alla gara in più di un raggruppamento temporaneo, oppure di partecipare alla gara anche in forma individuale qualora abbia già partecipato alla gara medesima in raggruppamento.
Al di fuori di questo caso, nel quale rileva il comportamento esterno ed anti concorrenziale delle singole imprese riunite, le norme sulla ripartizione interna del modello di raggruppamento vanno lette ed interpretate alla luce del criterio di sufficienza delle garanzie di affidabilità e responsabilità, di modo che queste ultime non ne risultino pregiudicate.
Nel caso di specie, la circostanza che la mandataria, in possesso delle necessarie qualificazioni, e per legge responsabile in via esclusiva dei lavori della categoria prevalente ed anche solidalmente delle lavorazioni scorporabili assunte ed eseguite dalle mandanti (per le quali queste ultime solo rispondono), decida di assumere dichiaratamente anche parte di queste ultime, da sola o in sub raggruppamento con altre, non viola alcun astratto divieto, né arreca, in concreto, alcun pregiudizio nei rapporti con il committente.
Lo stesso può dirsi per il caso in cui vengano costituiti sub raggruppamenti orizzontali sia per la categoria prevalente che per quelle scorporabili. L’art. 37, comma 6, non lo vieta (ossia non prevede un regime di alternatività) e, giusto quanto già osservato, nessun particolare pregiudizio, neanche in questo caso, ne discende in punto di affidabilità e garanzie rispetto alla misura minima contemplata dalla legge (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.01.2015 n. 374 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer pacifico principio generale, si può ritenere formato il silenzio-assenso in quanto la pratica sia completa di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di cui si deduce l'avvenuto perfezionamento (cfr. C.d.S., sez. IV, 11/04/2014, n. 1767, secondo cui <<la formazione tacita dei provvedimenti amministrativi per silenzio-assenso presuppone, quale sua condizione imprescindibile, non solo l'inutile decorso del tempo dalla presentazione dell'istanza senza che sia intervenuta risposta dall'Amministrazione, ma la ricorrenza di tutte le condizioni, i requisiti e i presupposti richiesti dalla legge>>).
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In tema di condono edilizio, in particolare, il silenzio-assenso non si forma per il solo fatto dell'inutile decorso del termine di ventiquattro mesi e del pagamento dell'oblazione senza alcuna risposta del Comune, ma occorre altresì la prova della ricorrenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi stabiliti dalla legge, cui è subordinata l'ammissibilità del condono.
Con riferimento alla normativa di cui al d.l. 30.09.2003 n. 269, convertito nella l. 24.11.2003 n. 326, imprescindibile requisito oggettivo di ammissibilità al condono è quello della ultimazione delle opere abusive entro la data del 31.03.2003, la cui dimostrazione incombe in capo al richiedente.
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L’art. 32, comma 25, D.L. n. 269 del 2003 (conv. L. n. 326 del 2003), stabilisce, nel primo periodo, che sono condonabili, entro determinati limiti, gli incrementi volumetrici di tutti i manufatti edilizi (sia residenziali che non residenziali). Nel secondo periodo, invece, prevede la condonabilità delle nuove costruzioni (nel limite ivi indicato), ma con la specificazione che si deve trattare di nuove costruzioni residenziali.
La norma in esame limita quindi l'applicabilità del condono edilizio ivi previsto, per quanto riguarda le nuove costruzioni, soltanto a quelle aventi destinazione residenziale.
Né è possibile, in presenza di una normativa eccezionale, postulare una sua interpretazione analogica (in questo senso Cons. Stato, ord. 17.12.2008, n. 6237 e Adunanza Plenaria 23.04.2009, n. 4, che ha escluso la possibilità del condono in presenza di una fattispecie meno "grave" della presente, rappresentata dalla costruzione di un'opera non residenziale in presenza di un titolo edilizio successivamente annullato).
Tale interpretazione risulta confermata anche dall'analisi dei lavori preparatori della legge di conversione del decreto legge n. 269 del 2003. Il relatore della VIII Commissione permanente della Camera dei Deputati, nella seduta del 05.11.2003, ha illustrato l'emendamento governativo 'limitativo' su cui il Governo ha poi posto la questione di fiducia, osservando che tra "le opere ammesse al condono" rientrano quelle di "nuova costruzione, ma limitatamente agli edifici residenziali, anche in questo caso nel limite dei 750 mc. per singola richiesta".
In definitiva, la lettera della legge unitamente all'analisi dei lavori preparatori e alla struttura eccezionale della fattispecie disciplinata conduce a ritenere che le opere in esame, non avendo natura residenziale, non rientrano nel campo di applicazione della disposizione di sanatoria.
Non sono pertanto condivisibili le apodittiche osservazioni contrarie, contenute nella circolare interpretativa emessa dal Ministero delle infrastrutture 07.12.2005, n. 2699.

1.1.1. Per pacifico principio generale, infatti, in tanto si può ritenere formato il silenzio-assenso in quanto la pratica sia completa di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di cui si deduce l'avvenuto perfezionamento (cfr. C.d.S., sez. IV, 11/04/2014, n. 1767, secondo cui <<la formazione tacita dei provvedimenti amministrativi per silenzio-assenso presuppone, quale sua condizione imprescindibile, non solo l'inutile decorso del tempo dalla presentazione dell'istanza senza che sia intervenuta risposta dall'Amministrazione, ma la ricorrenza di tutte le condizioni, i requisiti e i presupposti richiesti dalla legge>>).
In tema di condono edilizio, in particolare, il silenzio-assenso non si forma per il solo fatto dell'inutile decorso del termine di ventiquattro mesi e del pagamento dell'oblazione senza alcuna risposta del Comune, ma occorre altresì la prova della ricorrenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi stabiliti dalla legge, cui è subordinata l'ammissibilità del condono (TAR Campania, Napoli, sez. II, 29/05/2014, n. 2956).
Con riferimento alla normativa di cui al d.l. 30.09.2003 n. 269, convertito nella l. 24.11.2003 n. 326, imprescindibile requisito oggettivo di ammissibilità al condono è quello della ultimazione delle opere abusive entro la data del 31.03.2003, la cui dimostrazione incombe in capo al richiedente (cfr. C.d.S., sez. VI, 05.08.2013, n. 4075; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 26.06.2014, n. 3519).
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L’art. 32, comma 25, D.L. n. 269 del 2003 (conv. L. n. 326 del 2003), stabilisce, nel primo periodo, che sono condonabili, entro determinati limiti, gli incrementi volumetrici di tutti i manufatti edilizi (sia residenziali che non residenziali). Nel secondo periodo, invece, prevede la condonabilità delle nuove costruzioni (nel limite ivi indicato), ma con la specificazione che si deve trattare di nuove costruzioni residenziali. La norma in esame limita quindi l'applicabilità del condono edilizio ivi previsto, per quanto riguarda le nuove costruzioni, soltanto a quelle aventi destinazione residenziale (Cassazione penale, sez. III, 27.04.2011, n. 19330; C.d.S., Sez. VI, 12.12.2012, n. 6381; TAR Campania, Napoli, Sezione IV, 28.10.2011 n. 5055; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 27.11.2014, n. 6116).
Né è possibile, in presenza di una normativa eccezionale, postulare una sua interpretazione analogica (in questo senso Cons. Stato, ord. 17.12.2008, n. 6237 e Adunanza Plenaria 23.04.2009, n. 4, che ha escluso la possibilità del condono in presenza di una fattispecie meno "grave" della presente, rappresentata dalla costruzione di un'opera non residenziale in presenza di un titolo edilizio successivamente annullato).
Tale interpretazione risulta confermata anche dall'analisi dei lavori preparatori della legge di conversione del decreto legge n. 269 del 2003. Il relatore della VIII Commissione permanente della Camera dei Deputati, nella seduta del 05.11.2003, ha illustrato l'emendamento governativo 'limitativo' su cui il Governo ha poi posto la questione di fiducia, osservando che tra "le opere ammesse al condono" rientrano quelle di "nuova costruzione, ma limitatamente agli edifici residenziali, anche in questo caso nel limite dei 750 mc. per singola richiesta".
In definitiva, la lettera della legge unitamente all'analisi dei lavori preparatori e alla struttura eccezionale della fattispecie disciplinata conduce a ritenere che le opere in esame, non avendo natura residenziale, non rientrano nel campo di applicazione della disposizione di sanatoria.
Non sono pertanto condivisibili le apodittiche osservazioni contrarie, contenute nella circolare interpretativa emessa dal Ministero delle infrastrutture 07.12.2005, n. 2699 (in tal senso, v. anche Cass. pen. III, n. 3093 del 2004).
Nel caso di specie costituisce dato non contestato che si è in presenza di una "nuova costruzione" avente destinazione artigianale e quindi non residenziale. Ne consegue che, alla luce della riportata normativa, così come interpretata, la fattispecie in esame esula dall'ambito applicativo della disciplina sul condono ex D.L. n. 269 del 2003
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.01.2015 n. 230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASecondo il pacifico orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto, l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire (non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico).
Con la seconda censura, i ricorrenti deducono il vizio di difetto di motivazione, per mancata esplicitazione del pubblico interesse sotteso all’attuazione del potere repressivo, stante il lungo lasso di tempo trascorso dalla realizzazione degli abusi edilizi in questione.
Anche tale censura non merita tuttavia condivisione.
A prescindere dal considerare che l’impugnata ordinanza di demolizione (del 22/06/2012) è stata emanata pochi mesi dopo la definizione, in senso negativo agli odierni ricorrenti, delle ultime domande di condono edilizio concernenti i manufatti in questione (cfr. provvedimenti del 28/11/2011 e del 03/01/2012) occorre tuttavia rilevare che, secondo il pacifico orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto (cfr., fra le tante, C.d.S., sez. IV, 12.04.2011, n. 2266), l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire (non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.01.2015 n. 230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’articolo 31, comma terzo, del D.P.R. n. 380/2001, nel prevedere l’acquisizione dell’area ulteriore rispetto a quella di sedime (<<necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive>> e che <<non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita>>), pone tuttavia un preciso obbligo di motivazione a carico dell’amministrazione procedente in ordine alle ragioni che rendono necessario disporre l'ulteriore acquisto, nonché alla precisa indicazione dell'ulteriore area di cui viene disposta l'acquisizione.
La circostanza che il legislatore non abbia predeterminato l'ulteriore area acquisibile, ma si sia limitato a prevedere che tale area <<non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita>>, si giustifica per il fatto che l'ulteriore acquisto sia funzionale e strumentale rispetto all'acquisto del bene abusivo e della relativa area di sedime.
In altri termini -non potendosi ritenere che la determinazione dell'ulteriore area acquisibile sia affidata al puro arbitrio dell'Amministrazione- la circostanza che sia stata predeterminata solo la superficie massima di tale area (comunque non superiore a dieci volte quella abusivamente costruita) può spiegarsi solo ipotizzando che l'ulteriore acquisto sia necessario al fine di consentire l'uso pubblico del bene abusivo acquisito al patrimonio comunale.
Ne consegue che il nesso funzionale tra i due acquisti implica che l'Amministrazione sia tenuta a specificare, volta per volta, in motivazione le ragioni che rendono necessario disporre l'ulteriore acquisto, nonché ad indicare con precisione l'ulteriore area di cui viene disposta l'acquisizione (cfr. C.d.S., Sez. VI, 05.04.2013, n. 1881, in motivazione, secondo cui: <<… l'individuazione dell'ulteriore area la cui acquisizione è parimenti doverosa secondo la disciplina dettata ….. va motivata, volta per volta, con l'esplicitazione delle modalità di delimitazione della stessa, proprio perché il legislatore non ha predeterminato, se non nel massimo, l'ulteriore area acquisibile, ma ha indicato un criterio per determinarla rapportato alla normativa urbanistica rilevante nel singolo caso; viene, dunque, delineato un procedimento di determinazione della c.d. pertinenza urbanistica da condurre di volta in volta sulla base di criteri di individuazione che tengano conto di quanto previsto dalle vigenti disposizioni urbanistiche "per la realizzazione di opere analoghe a quelle abusive">>).
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Il provvedimento di acquisizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituito unicamente dalla constatata mancata ottemperanza al precedente ordine di demolizione.

Con la seconda, autonoma, censura, i ricorrenti deducono il vizio di difetto di motivazione in relazione alla circostanza che il Comune di Casalnuovo di Napoli, con l’impugnato provvedimento, avrebbe genericamente disposto l’acquisizione di una porzione ulteriore e maggiore (corrispondente all’intera consistenza di tutte le particelle di loro proprietà) rispetto a quella coincidente con l’area di sedime sulla quale sono allocate le costruzioni.
La censura, come già affermato in sede cautelare, è meritevole di condivisione.
L’articolo 31, comma terzo, del D.P.R. n. 380/2001, nel prevedere l’acquisizione dell’area ulteriore rispetto a quella di sedime (<<necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive>> e che <<non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita>>), pone tuttavia un preciso obbligo di motivazione a carico dell’amministrazione procedente in ordine alle ragioni che rendono necessario disporre l'ulteriore acquisto, nonché alla precisa indicazione dell'ulteriore area di cui viene disposta l'acquisizione.
La circostanza che il legislatore non abbia predeterminato l'ulteriore area acquisibile, ma si sia limitato a prevedere che tale area <<non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita>>, si giustifica per il fatto che l'ulteriore acquisto sia funzionale e strumentale rispetto all'acquisto del bene abusivo e della relativa area di sedime.
In altri termini -non potendosi ritenere che la determinazione dell'ulteriore area acquisibile sia affidata al puro arbitrio dell'Amministrazione- la circostanza che sia stata predeterminata solo la superficie massima di tale area (comunque non superiore a dieci volte quella abusivamente costruita) può spiegarsi solo ipotizzando che l'ulteriore acquisto sia necessario al fine di consentire l'uso pubblico del bene abusivo acquisito al patrimonio comunale.
Ne consegue che il nesso funzionale tra i due acquisti implica che l'Amministrazione sia tenuta a specificare, volta per volta, in motivazione le ragioni che rendono necessario disporre l'ulteriore acquisto, nonché ad indicare con precisione l'ulteriore area di cui viene disposta l'acquisizione (cfr. C.d.S., Sez. VI, 05.04.2013, n. 1881, in motivazione, secondo cui: <<… l'individuazione dell'ulteriore area la cui acquisizione è parimenti doverosa secondo la disciplina dettata ….. va motivata, volta per volta, con l'esplicitazione delle modalità di delimitazione della stessa, proprio perché il legislatore non ha predeterminato, se non nel massimo, l'ulteriore area acquisibile, ma ha indicato un criterio per determinarla rapportato alla normativa urbanistica rilevante nel singolo caso; viene, dunque, delineato un procedimento di determinazione della c.d. pertinenza urbanistica da condurre di volta in volta sulla base di criteri di individuazione che tengano conto di quanto previsto dalle vigenti disposizioni urbanistiche "per la realizzazione di opere analoghe a quelle abusive">>; cfr., altresì, in senso analogo, C.d.S., Sez. V, 17.06.2014, n. 3097; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 09.05.2014, n. 2589; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 06.03.2014, n. 1357; TAR Piemonte, Sez. II, 21.07.2014, n. 1288).
Alla luce delle considerazioni che precedono, deve dunque ritenersi illegittimo il provvedimento impugnato laddove con lo stesso si dispone immotivatamente l'acquisizione gratuita al patrimonio del Comune, oltre che dell'area di sedime dei manufatti in questione (pari a complessivi mq. 664), anche dell’intera consistenza delle particelle catastali di proprietà dei ricorrenti (per una superficie complessiva pari a mq. 2174).
Pertanto il provvedimento impugnato risulta illegittimo nella suddetta parte (ossia nella parte in cui è stata disposta l'acquisizione gratuita dell’ulteriore area in questione, corrispondente alla differenza tra l’intera consistenza delle particelle catastali e l’area di sedime complessiva dei manufatti in questione), per violazione dell'art. 31, comma terzo, del D.P.R. n. 380/2001, per omessa indicazione delle ragioni che hanno indotto il Comune all'acquisizione di tale area ulteriore (senza che a tale fine possano valere le deduzioni svolte nella relazione tecnica depositata in giudizio il 05/11/2014, tese ad integrare in via postuma la motivazione dell’impugnato provvedimento e come tali non ammissibili).
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Come affermato pacificamente dalla giurisprudenza, il provvedimento di acquisizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituito unicamente dalla constatata mancata ottemperanza al precedente ordine di demolizione (cfr. C.d.S., sez. IV, 26.02.2013, n. 1179; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 21.06.2013, n. 3203)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.01.2015 n. 230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di volume tecnico, per costante giurisprudenza, presuppone fondamentalmente nel manufatto oggetto di valutazione l’assenza di autonomia funzionale, nel senso che esso deve caratterizzarsi per il nesso di strumentalità necessaria con la res principalis, ossia l’edificio cui accede.
Esso si riferisce alle sole opere edilizie destinate, per esigenze tecnico-funzionali, a contenere impianti serventi di una costruzione principale, ovvero impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione non posizionabili all'interno di questa.

Fondate risultano, altresì, le ulteriori censure secondo le quali la mancata indicazione delle dimensioni e della consistenza degli abusi contestati impedisce anche la loro esatta qualificazione e ogni valutazione sulla sanzione adottata.
Il difetto di istruttoria e di motivazione è ostativo ad ogni valutazione circa la fondatezza delle pretese di parte ricorrente sulla riconducibilità delle opere nell’ambito della nozione dei vani tecnici e della loro specifica disciplina in materia edilizia.
Si osserva in proposito, che la nozione di volume tecnico, per costante giurisprudenza, presuppone fondamentalmente nel manufatto oggetto di valutazione l’assenza di autonomia funzionale, nel senso che esso deve caratterizzarsi per il nesso di strumentalità necessaria con la res principalis, ossia l’edificio cui accede. Esso si riferisce alle sole opere edilizie destinate, per esigenze tecnico-funzionali, a contenere impianti serventi di una costruzione principale, ovvero impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione non posizionabili all'interno di questa (Cons. Stato, Sez. IV, 08.01.2001 n. 812; Sez. IV, 28.01.2011 n. 687; Sez. IV, 08.01.2013 n. 32).
L’aver omesso chiarimenti circa l’esatta consistenza delle opere ritenute abusive non consente di esprimere un giudizio rispetto alla questione dei volumi tecnici (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 15.01.2015 n. 80 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Ai sensi dell’art. 86, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 l’individuazione della soglia di anomalia, che impone l’obbligo di procedere alla verifica dell’offerta, è operazione meccanica, essendo la risultante di un calcolo aritmetico basato esclusivamente sullo scostamento dei punteggi ottenuti dal concorrente per l’offerta tecnica e per quella economica rispetto ai punteggi massimi assegnabili per ciascuna delle due componenti dell’offerta e, per ciò stesso, non presuppone l’esistenza di altre offerte con cui parametrarsi.
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L’attendibilità dell’offerta in una gara d’appalto va valutata nel suo complesso e non con riferimento alle singole voci di prezzo ritenute incongrue e avulse dall’incidenza che potrebbero avere sull’offerta economica nel suo insieme: per questo, il controllo di anomalia si concretizza in un giudizio sull’affidabilità dell’offerta economica complessivamente intesa al fine di verificarne la credibilità, con la conseguenza che il relativo giudizio, costituendo espressione paradigmatica di valutazioni tecniche, è suscettibile di sindacato giurisdizionale solo in caso di deviazione dai canoni di ragionevolezza o di logicità oltre che di vizi procedurali e deficienze motivazionali.
In ogni caso, il giudice non può verificare autonomamente la congruità dell’offerta presentata e delle sue singole voci, sovrapponendo così la sua idea tecnica al giudizio, non erroneo né illogico, formulato dall’organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell’interesse pubblico nell’apprezzamento del caso concreto, poiché, così facendo, invaderebbe la sfera propria dell’Amministrazione.
Il giudizio di anomalia si fonda su nozioni scientifico-economiche e su dati di esperienza di carattere tecnico discrezionale che come tali –come si è detto– sono sottratti al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvi i casi in cui si ravvisi irragionevolezza manifesta o palese travisamento dei fatti: profili di abnormità che non ricorrono nella fattispecie, posto che le contestazioni del ricorrente, nella misura in cui investono la valutazione di anomalia, impongono pur sempre nel merito intrinseco della valutazione.
Né –si evidenzia per completezza– sussistono i presupposti per l’espletamento di una consulenza tecnica, tenuto conto dei limiti che, per costante giurisprudenza, l’utilizzo di questo mezzo istruttorio incontra nel processo amministrativo al cospetto di valutazioni, come quelle di anomalia dell’offerta, che la legge riserva in via esclusiva all’amministrazione: va ribadito, a tal proposito, che nel processo amministrativo di legittimità la possibilità per il giudice di controllare la tenuta delle valutazioni tecniche formulate in sede amministrativa non comporta che questi possa sostituire il proprio apprezzamento a quello dell’amministrazione nemmeno avvalendosi della consulenza tecnica, dovendosi in sede giurisdizionale solo appurare, in base alle deduzioni di parte, se il criterio tecnico concretamente valorizzato in sede procedimentale risulti o meno attendibile.

Considerato che:
- ai sensi dell’art. 86, comma 2, del d.lgs. n. 163 del 2006 l’individuazione della soglia di anomalia, che impone l’obbligo di procedere alla verifica dell’offerta, è operazione meccanica, essendo la risultante di un calcolo aritmetico basato esclusivamente sullo scostamento dei punteggi ottenuti dal concorrente per l’offerta tecnica e per quella economica rispetto ai punteggi massimi assegnabili per ciascuna delle due componenti dell’offerta e, per ciò stesso, non presuppone l’esistenza di altre offerte con cui parametrarsi: è conseguentemente infondato il primo motivo di ricorso;
- come è noto, l’attendibilità dell’offerta in una gara d’appalto va valutata nel suo complesso e non con riferimento alle singole voci di prezzo ritenute incongrue e avulse dall’incidenza che potrebbero avere sull’offerta economica nel suo insieme (cfr., da ultimo, C.d.S., V, 27.05.2014 n. 2752): per questo, il controllo di anomalia si concretizza in un giudizio sull’affidabilità dell’offerta economica complessivamente intesa al fine di verificarne la credibilità, con la conseguenza che il relativo giudizio, costituendo espressione paradigmatica di valutazioni tecniche, è suscettibile di sindacato giurisdizionale solo in caso di deviazione dai canoni di ragionevolezza o di logicità oltre che di vizi procedurali e deficienze motivazionali (C.d.S., IV, 29.04.2014 n. 2220).
In ogni caso, il giudice non può verificare autonomamente la congruità dell’offerta presentata e delle sue singole voci, sovrapponendo così la sua idea tecnica al giudizio, non erroneo né illogico, formulato dall’organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell’interesse pubblico nell’apprezzamento del caso concreto, poiché, così facendo, invaderebbe la sfera propria dell’Amministrazione (cfr. C.d.S., V 17.01.2014 n. 162).
Il giudizio di anomalia si fonda su nozioni scientifico-economiche e su dati di esperienza di carattere tecnico discrezionale che come tali –come si è detto– sono sottratti al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvi i casi in cui si ravvisi irragionevolezza manifesta o palese travisamento dei fatti: profili di abnormità che non ricorrono nella fattispecie, posto che le contestazioni del ricorrente, nella misura in cui investono la valutazione di anomalia, impongono pur sempre nel merito intrinseco della valutazione.
Né –si evidenzia per completezza– sussistono i presupposti per l’espletamento di una consulenza tecnica, tenuto conto dei limiti che, per costante giurisprudenza, l’utilizzo di questo mezzo istruttorio incontra nel processo amministrativo al cospetto di valutazioni, come quelle di anomalia dell’offerta, che la legge riserva in via esclusiva all’amministrazione: va ribadito, a tal proposito, che nel processo amministrativo di legittimità la possibilità per il giudice di controllare la tenuta delle valutazioni tecniche formulate in sede amministrativa non comporta che questi possa sostituire il proprio apprezzamento a quello dell’amministrazione nemmeno avvalendosi della consulenza tecnica, dovendosi in sede giurisdizionale solo appurare, in base alle deduzioni di parte, se il criterio tecnico concretamente valorizzato in sede procedimentale risulti o meno attendibile.
Nel caso di specie, peraltro –in disparte le puntuali e circostanziate osservazioni formulate dall’organo verificatore in ordine alle rilevate criticità- appare sintomatico dell’incongruità dell’offerta il sopravvenuto incremento dei costi, ammesso dalla ricorrente (nella misura del 2,3% pari a € 90.000/anno: cfr. il ric., pag. 17), a causa del notevole lasso temporale intercorso tra la data di presentazione dell’offerta (30.05.2012) e il momento di verifica della congruità della stessa (marzo 2014): incremento nonostante il quale la concorrente ha confermato la validità della propria offerta (cfr. la nota 13.11.2013) presentata, come si è detto, nel maggio 2012, con la quale prevedeva un utile di € 50.000 (oltre ad un margine di sicurezza di € 35.000) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 09.01.2015 n. 6 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIORisarcito il furto dai ponteggi. L’appaltatore è responsabile se non ha usato tutte le precauzioni. Parti comuni. Il condomino o l’inquilino hanno diritto al rimborso dei danni subiti durante i lavori
Se chi abita (proprietario, conduttore, o anche persona convivente con costoro) in un’unità immobiliare in un edificio condominiale subisce un furto di beni conservati nel proprio appartamento, commesso da ladri che vi si introducano servendosi dei ponteggi e delle impalcature installati dall’impresa appaltatrice dei lavori di manutenzione della facciata del fabbricato, si può individuare la responsabilità a fini risarcitori sia dello stesso appaltatore, sia del condominio (sul tema si è espressa di recente la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 19.12.2014 n. 26900).
L’impresa
La responsabilità dell’impresa appaltatrice che utilizzi impalcature per l’espletamento di lavori edili, in caso di furto negli appartamenti, discende dall’articolo 2043 del Codice civile, se siano state trascurate le ordinarie norme di diligenza che impediscano l’uso anomalo del ponteggio, ed emerga il nesso causale fra l’esistenza di questo e l’ingresso agevolato dei malviventi nell’appartamento svaligiato.
Le cautele che l’appaltatore deve adottare per non facilitare i furti negli appartamenti consistono, per esempio, nell’illuminazione notturna dell’impalcatura, nella sorveglianza dell’edificio, nell’installazione di sistemi antifurto, nell’allestimento di porte da cantiere, nella rimozione alla fine di ciascuna giornata di lavoro della scala di collegamento tra il piano terra e il primo piano del ponteggio, nel non apporre corrimano sovrapposti alle ringhiere dei balconi.
La responsabilità dell’appaltatore nei confronti del singolo condòmino o inquilino derubato (terzo danneggiato) ha natura «extracontrattuale»: committente delle opere è il condominio unitariamente inteso come soggetto contraente autonomo e non i singoli condòmini.
L’affermazione della responsabilità extracontrattuale in capo all’appaltatore, per il furto subito dal condòmino, comporta quindi l’applicabilità della relativa disciplina in tema di onere della prova, danni risarcibili, termini di prescrizione eccetera.
Il condominio
Non è facile ravvisare una responsabilità del condominio per violazione di regole di cautela su esso incombenti in base all’articolo 2043 del Codice civile, in relazione ai ponteggi installati dall’appaltatore. Possono farsi al riguardo solo gli esempi della scelta da parte del condominio di un’impresa inidonea, o del condominio committente che, sebbene reso edotto dall’appaltatore della precarietà degli accorgimenti seguiti per scongiurare indesiderati accessi agli appartamenti, abbia insistito per proseguire i lavori senza darsi cura di quell’allarme.
È invece possibile individuare la responsabilità del condominio nella presunzione di colpa prevista dall’articolo 2051 del Codice civile per i danni cagionati dalle cose in custodia, perché tale è la relazione intercorrente tra il condominio e il bene comune ingabbiato dall’impalcatura. La responsabilità del condominio come custode non dovrebbe escludersi nemmeno per effetto dell’imputabilità dei danni alla negligenza dell’appaltatore della manutenzione dei beni comuni, negligenza comportante, piuttosto, la concorrente responsabilità dell’imprenditore, essendo comunque il condominio tenuto, proprio quale custode, a eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa propria.
Il «condominio-custode», per liberarsi da responsabilità, dovrebbe provare che il fatto del ladro sia del tutto estraneo alla sua sfera soggettiva, presentando i caratteri del fortuito, ovvero l’imprevedibilità e l’assoluta eccezionalità. Non rileva, invece, al fine di escludere o affermare la responsabilità del condominio committente, che questo sia incorso in una culpa in eligendo nell’individuazione dell’appaltatore, del progettista o del direttore dei lavori, ovvero che lo stesso abbia lasciato loro piena autonomia.
Un’eventuale clausola del contratto di appalto che accolli all’impresa ogni obbligo e conseguente responsabilità in relazione ai danni subiti da terzi (come, appunto, il condòmino derubato) spiega i suoi effetti soltanto nei rapporti fra il condominio e l’appaltatore, nel senso che il primo può rivalersi sul secondo per gli eventuali risarcimenti cui sia condannato in dipendenza dell’esecuzione delle opere, ma non esonera il condominio dall’obbligo di rispondere nei confronti del singolo condòmino o inquilino danneggiato.
L’amministratore
Non è invece ravvisabile una distinta responsabilità personale dell’amministratore per il furto subito dal singolo condòmino fondata sull’omessa custodia dei ponteggi.
Una responsabilità per la mancata custodia dell’impalcatura sarebbe incompatibile con l’abituale qualifica di mandatario che si attribuisce all’amministratore: questi rimane, piuttosto, soggetto solo all’azione di rivalsa eventualmente esercitata dal condominio stesso per il recupero delle somme che questo abbia versato al condòmino derubato, ove la mancata adozione delle cautele con riguardo ai ponteggi sia addebitabile alla negligenza o al cattivo uso dei poteri dell’amministratore.
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In sintesi
01 - LE CAUTELE
L’impresa che esegue i lavori di manutenzione della facciata dell’edificio deve adottare ogni cautela per non facilitare l’accesso dei ladri di appartamenti attraverso i ponteggi. Tali cautele sono, ad esempio: l’illuminazione notturna dell’impalcatura, la sorveglianza dell’edificio, l’installazione di antifurti e di porte da cantiere, la rimozione della scala di collegamento tra piano terra e primo piano del ponteggio
02 - L’AZIONE
Il condomino derubato può comunque agire, in unico processo o anche separatamente, nei confronti dell’appaltatore e nei confronti del condominio per ottenere il risarcimento dei danni
03 - LE RESPONSABILITÀ
Il condominio, per liberarsi da responsabilità, deve provare che l’azione posta in essere dal ladro risultava imprevedibile e assolutamente eccezionale.
Non è opponibile al condomino vittima del furto la clausola di esonero del condominio da ogni responsabilità inserita nel contratto d’appalto
04 - L’AMMINISTRATORE
Non è ravvisabile un’autonoma responsabilità dell’amministratore per il furto subito dal singolo condomino fondata sull’omessa custodia dei ponteggi
05 - LA POLIZZA
Anche se il rischio per il furto negli appartamenti durante i lavori condominiali risulti coperto dalla «Polizza fabbricato», il singolo condomino non è legittimato ad agire nei confronti della compagnia assicuratrice
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ASSICURAZIONI - Responsabilità civile, agisce il contraente.
È possibile che il condominio abbia stipulato un contratto di assicurazione del fabbricato, per neutralizzare le ricadute patrimoniali conseguenti alla responsabilità della custodia delle parti comuni dell’edificio. Poiché il fondamento della responsabilità del condominio per i furti negli appartamenti agevolati dalle impalcature dei lavori condominiali risiede proprio nella relazione «custodiale» coi beni di cui all’articolo 1117 del Codice civile, è probabile che vi sia la copertura assicurativa per effetto della «Polizza fabbricato» (in difetto di espresse clausole di esclusione). Il singolo condomino derubato non è, comunque, legittimato ad agire, nel proprio interesse, nei confronti della compagnia assicuratrice, perché spetta solo al condominio la veste di «contraente della polizza nell’interesse di tutti i partecipanti» (Cassazione, sentenza 4245/2009).
D’altro canto, l’eventuale assicurazione della responsabilità civile, stipulata, senza limitazioni, dall’impresa scelta dal condominio per i rischi inerenti all’esecuzione dell’appalto per la manutenzione della facciata, deve ritenersi identicamente estesa ai rischi riguardanti l’ingresso negli appartamenti di ladri agevolati dalle modalità di installazione e di vigilanza dei ponteggi
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.03.2015).

EDILIZIA PRIVATASecondo la giurisprudenza più persuasiva, l’articolo 31 della legge urbanistica del 1942 ha disciplinato in via generale l'obbligo di munirsi della licenza edilizia nei centri abitati, ma non ha comportato l'abrogazione tacita di eventuali disposizioni speciali più rigorose per le costruzioni al di fuori dei centri abitati, esistenti nei regolamenti edilizi in ragione della particolare disciplina che l'ente locale avesse inteso introdurre ai fini della regolamentazione dell'attività costruttiva sul proprio territorio.
Conclusione che trova conferma nell’ultimo comma dell’art. 31 L. n. 47/1985 (“per le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto, ai sensi dell'art. 31, primo comma, della L. 17.08.1942, n. 1150, e dei regolamenti edilizi comunali, il rilascio della licenza di costruzione, i soggetti di cui ai commi primo e terzo del presente articolo conseguono la concessione in sanatoria previo pagamento, a titolo di oblazione, della somma determinata a norma dell'articolo 34 della presente legge”), laddove, nel prevedere la condonabilità degli abusi, li individua con riferimento anche all’obbligo del titolo edilizio previsto dai regolamenti comunali.

Il ricorso è fondato, sotto l’assorbente profilo dedotto con il primo motivo di ricorso.
Con esso la società ricorrente sostiene:
- che i manufatti oggetto del provvedimento impugnato sono stati edificati prima dell’entrata in vigore della L. n. 765/1967 (che ha esteso a tutto il territorio comunale l’obbligo di chiedere la licenza edilizia per le nuove costruzioni, un tempo limitato ai centri abitati ed alle zona di espansione);
- che, essendo ubicati fuori dal centro abitato, al momento della loro realizzazione gli stessi non necessitavano di alcun titolo edilizio; che, conseguentemente, non potrebbero essere oggi sanzionati alla stregua di manufatti abusivi.
La prima circostanza (edificazione ante 1967) può dirsi provata.
In effetti, da un lato la scrittura privata 15.03.1958, di costituzione della società per la gestione del campeggio in questione (doc. 6 delle produzioni 10.6.2013 di parte ricorrente), fa esplicita menzione delle costruzioni adibite a servizi igienici, dall’altro la prima autorizzazione igienico-sanitaria per l’esercizio del campeggio risale al 25.06.1958 (doc. 7 delle produzioni 10.06.2013 di parte ricorrente).
In ogni caso, si tratta di un fatto (la realizzazione in data antecedente il 1967) ammesso dalla stessa amministrazione.
Quanto alla seconda circostanza, sostiene l’amministrazione comunale che, nel caso di specie, sussistesse l’obbligo di munirsi di preventiva autorizzazione della soprintendenza ai monumenti della Liguria e del parere della commissione edilizia comunale, in virtù di quanto disposto dal piano regolatore generale approvato con deliberazione del consiglio comunale 10.10.1959, n. 149 (doc. 9 delle produzioni 10.6.2013 di parte comunale).
Orbene, anche a voler prescindere dal fatto che la deliberazione in questione appare già di per sé successiva alla realizzazione dei manufatti in questione, è dirimente il rilievo che, ai sensi degli artt. 8 ultimo comma e 10 della L. n. 1150/1942, il piano regolatore comunale è approvato con decreto del Ministero per i lavori pubblici, ed entra in vigore con la pubblicazione del decreto sulla Gazzetta ufficiale.
Dunque, l’amministrazione non ha provato –né nel corpo del provvedimento amministrativo impugnato, né nella presente sede giurisdizionale– che, antecedentemente alla realizzazione dei manufatti in questione, vigesse nel comune di Celle Ligure una normativa regolamentare che, in forza del richiamo contenuto negli artt. 3 e 6 del regio decreto legge 22.11.1937, n. 2105, imponesse di munirsi della preventiva licenza edilizia comunale per realizzare nuove costruzioni.
E’ noto infatti che, secondo la giurisprudenza più persuasiva, l’articolo 31 della legge urbanistica del 1942 ha disciplinato in via generale l'obbligo di munirsi della licenza edilizia nei centri abitati, ma non ha comportato l'abrogazione tacita di eventuali disposizioni speciali più rigorose per le costruzioni al di fuori dei centri abitati, esistenti nei regolamenti edilizi in ragione della particolare disciplina che l'ente locale avesse inteso introdurre ai fini della regolamentazione dell'attività costruttiva sul proprio territorio (Cons. di St., IV, 21.10.2008, n. 5141).
Conclusione che trova conferma nell’ultimo comma dell’art. 31 L. n. 47/1985 (“per le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto, ai sensi dell'art. 31, primo comma, della L. 17.08.1942, n. 1150, e dei regolamenti edilizi comunali, il rilascio della licenza di costruzione, i soggetti di cui ai commi primo e terzo del presente articolo conseguono la concessione in sanatoria previo pagamento, a titolo di oblazione, della somma determinata a norma dell'articolo 34 della presente legge”), laddove, nel prevedere la condonabilità degli abusi, li individua con riferimento anche all’obbligo del titolo edilizio previsto dai regolamenti comunali.
Anche la seconda circostanza dedotta dalla società ricorrente (non essere i manufatti in oggetto, al tempo della loro realizzazione, soggetti a licenza comunale) appare dunque provata.
Più precisamente, è l’amministrazione che non ha fornito le ragioni di diritto sulle quali si fonda l’ordinanza di demolizione ex art. 45, comma 1, L.R. n. 16/2008: donde la dedotta violazione di legge, nonché l’eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione.
Posto infatti che i manufatti risultano edificati in un’epoca in cui, nel comune di Celle Ligure, non vigeva l’obbligo di munirsi di licenza edilizia per le costruzioni al di fuori dei centri abitati, ne consegue de plano la non abusività dei manufatti e la non sanzionabilità con l’ingiunzione di demolizione (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 18.12.2014 n. 1902 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Il camion-vela è pubblicità ordinaria.
L’imposta di pubblicità sui camion-vela non è riconducibile alle disposizioni sulla pubblicità eseguita con i veicoli, e osserva, invece, le regole della pubblicità ordinaria; conseguentemente, relativamente all’imposta di pubblicità, la legittimazione passiva è in capo a colui che ha avuto a disposizione il mezzo per la diffusione pubblicitaria e non al proprietario del veicolo.

Sono le motivazioni della sentenza 18.12.2014 n. 914/10/14 emessa dalla sezione decima della Commissione tributaria provinciale di Bergamo.
L’imposta sui veicoli, infatti, viene determinata sulla base della portata in chilogrammi e, spesso, è più favorevole di quella calcolata secondo i canoni della pubblicità ordinaria che tiene in considerazione la superficie complessiva dei mezzi pubblicitari. In tal caso, secondo quanto stabilito anche dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 5858/12 del 13.04.2012, «avuto riguardo alla particolare peculiarità del mezzo, deve ritenersi che si verta in tema di pubblicità ordinaria e che trovi applicazione la relativa disciplina».
Ne deriva che, quando l’attività pubblicitaria sia eseguita con mezzi e strumentazione installata su veicoli costruiti o strutturalmente trasformati per l’esercizio esclusivo o prevalente di tale attività (come nel caso dei camion-Vela) la stessa attività non può essere ricondotta alle disposizioni riguardanti la pubblicità effettuata con i veicoli.
Questa particolarità comporta che la legittimazione passiva e la imputazione degli accertamenti relativi all’imposta di pubblicità in base al comma primo dell’articolo 6 del dlgs n. 507/1993 devono essere rivolti nei confronti del soggetto destinatario della pubblicità che ha avuto a disposizione il camionvela e non nei confronti dell’intestatario del veicolo.
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
La sentenza di cui al commento, la n. 914/10/14 emessa dalla sezione decima della Commissione tributaria provinciale di Bergamo, ci offre lo spunto per trattare la questione relativa all’imposta di pubblicità a carico dei c.d. camion-vela.
Il fatto riguarda alcuni avvisi di accertamento per il periodo relativo all’anno 2013 emessi dalla I.C.A. srl (Imposte Comunali Affini) per la pubblicità nel territorio dei comuni di Carobbio degli Angeli (Bg) e Cenate Sotto (Bg) imputata (erroneamente secondo la Ctp di Bergamo) agli intestatari del Camion-Vela. Secondo la società emittente gli accertamenti, l’automezzo sostava per lunghi periodi, anche per giorni, per cui non poteva, ai fini delle pubbliche affissioni, essere ritenuto un mezzo circolante.
Il calcolo dell’imposta di pubblicità ordinaria si determina in base alla superficie della minima figura piana geometrica in cui è circoscritto il mezzo pubblicitario indipendentemente dal numero dei messaggi in esso contenuti. Le superfici inferiori a un metro quadro, si arrotondano, per eccesso al metro quadrato e le frazioni di esso, oltre il primo, a mezzo metro quadrato e non si fa luogo ad applicazione di imposta per superfici inferiori a 300 centimetri quadrati. Per i mezzi pubblicitari aventi dimensioni volumetriche l’imposta è calcolata in base alla superficie complessiva risultante dallo sviluppo del minimo solido geometrico in cui può essere circoscritto il mezzo stesso.
Diverso è il caso della pubblicità effettuata con i veicoli; è il caso per esempio dei veicoli a uso pubblico o privato, per esempio autobus o taxi che pagano l’imposta in maniera più conveniente rispetto all’imposta ordinaria. La ricorrente, proprietaria dell’autocarro «a vela» opponeva gli accertamenti palesando che la società ha per oggetto sociale il noleggio dei veicoli senza conducente ai fini pubblicitari, e che l’automezzo oggetto dell’asserita trasgressione era stato concesso in locazione a una «tale» società, che doveva essere la destinataria dell’accertamento secondo i canoni «ordinari» dell’imposta sulla pubblicità.
Precisava che il comma 1 dell’articolo 6 del dlgs n. 507/93 dispone che «il soggetto passivo dell’imposta sulla pubblicità tenuto al pagamento in via principale, è colui che dispone a qualsiasi titolo del mezzo attraverso il quale il messaggio pubblicitario viene diffuso» e che, nel caso di specie (se la pretesa fosse risultata fondata) il soggetto tenuto a corrispondere l’imposta di pubblicità doveva essere colui che ha avuto a disposizione il mezzo con cui il messaggio è stato diffuso; pertanto esiste una carenza di legittimazione passiva in capo alla ricorrente, proprietaria del Camion-Vela e destinatario degli accertamenti.
Il collegio provinciale lombardo non ha avuto dubbi e ha accolto i ricorsi della società ricorrente con la condanna alle spese di lite nella misura di Euro cinquecento a carico della società I.C.A. che ha emesso gli accertamenti illegittimi (articolo ItaliaOggi Sette del 30.03.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Sull'accertamento se per opere realizzate fuori dal centro abitato e dalle zone di espansione prima del 01.09.1967 (entrata in vigore della legge ponte) la presenza di un regolamento edilizio che imponesse un titolo edilizio possa essere idoneo a fondare oggi un giudizio di abusività e la conseguente applicazione delle relative sanzioni.
Preliminare appare delineare il quadro normativo in subiecta materia.
Tralasciando normative anteriori che pure contemplavano i regolamenti comunali senza, tuttavia, dettare un specifica disciplina occorre prendere le mosse dall’art. 3 r.d. 22.11.1937 n. 2105 (che ai sensi dell’art. 1 sostituiva le disposizioni di cui al rd 25.03.1935 n. 640) che statuiva “In tutti i comuni del regno nei quali non è prescritta l’osservanza delle norme contenute negli articoli 7 e successivi le amministrazioni comunali devono provvedere a che nei regolamenti edilizi di cui all’art. 3 del testo unico della legge comunale e provinciale vigente sia resa obbligatoria osservanza delle disposizioni contenute nei seguenti articoli 4, 5 e 6”.
Il successivo articolo 6 stabiliva che “coloro che intendono fare nuove costruzioni ovvero modificare od ampliare quelle esistenti debbono chiedere al podestà apposita autorizzazione, obbligandosi ad osservare le norme particolari dei regolamenti di edilizia e d’igiene comunali”. Lo stesso articolo contemplava poi la possibilità di irrogare la demolizione in caso di costruzione in assenza di autorizzazione.
Dall’esame della normativa di cui sopra si evince come la potestà regolamentare trovasse il proprio fondamento nella legge, fosse prevista a tutela di interessi sostanziali e fosse altresì presidiata dalla sanzione della demolizione. Anzi la legge imponeva alle amministrazioni comunali il recepimento delle norme di cui sopra.
Successivamente l’art. 31, comma 1, l. 1150/1942 nel testo originario ha previsto che: “Chiunque intenda eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7, deve chiedere apposita licenza al podestà del comune”.
La legge 1150/1942, inoltre, disciplinava all’art. 33 il contenuto dei regolamenti edilizi comunali prevedendo che “I comuni debbono con regolamento edilizio provvedere, in armonia, con le disposizioni contenute nella presente legge e nel Testo unico delle leggi sanitarie approvato con R.D. 27.07.1934, n. 1265, a dettare norme precipuamente sulle seguenti materie, tenendo, se ne sia il caso, distinte quelle riguardanti il nucleo edilizio esistente da quelle riguardanti la zona di ampliamento e il restante territorio comunale”.
La legge urbanistica stabiliva l’obbligo cogente di richiedere la licenza edilizia nel centro abitato e nelle zone di espansione e ciò senza la mediazione di regolamenti edilizi comunali mentre rimetteva ai regolamenti edilizi la valutazione in ordine alla necessità della licenza edilizia nella restante parte del territorio comunale. Pertanto ove le amministrazioni comunali avessero già provveduto ai sensi della normativa previgente i regolamenti emessi in ottemperanza delle disposizioni del rd. 22.11.1937 n. 2105 venivano fatti salvi, rientrando nella potestà discrezionale del Comune intervenire o meno su di essi. Del pari il Comune avrebbe potuto, nell’esercizio della propria discrezionalità, introdurre o meno l’obbligo delle licenza edilizia nelle zone diverse dal centro abitato e dalla zone di espansione.
La legge urbanistica, da un lato, superava il precedente sistema di autorizzazione e, al contempo, dall’altro lato, fondava il potere dei regolamenti edilizi comunali, legittimando altresì i regolamenti previgenti.
Ne conseguiva la legittimità dei regolamenti edilizi che avessero inteso imporre l’obbligo delle licenza edilizia a tutto il territorio comunale irrilevante essendo la circostanza che tali regolamenti fossero anteriori o successivi all’entrata in vigore del r.d. 22.11.1937 n. 2105 e della legge 1150/1942, atteso che il primo decreto obbligando i Comuni ad adottare i regolamenti non poteva che fare salvi i regolamenti già adottati (che fossero conformi alle sue disposizioni) e atteso altresì che la legge 1150/1942 rimettendo alla amministrazione comunale tali valutazioni, ne faceva salve le determinazioni precedentemente assunte. In altre parole nel momento in cui la legge attribuiva ai regolamenti la valutazione discrezionale in ordine alla necessità di licenza edilizia comunale al di fuori delle zone in cui la stessa era obbligatoria per legge, al contempo legittimava, ratificandoli, i regolamenti che tale scelta avessero già in precedenza compiuto.
Conseguiva a tale sistema l’obbligo di munirsi del titolo edilizio per tutte le costruzioni in qualunque zona fossero state edificate, ove tale obbligo fosse previsto dai regolamenti edilizi comunali e l’applicazione delle relative sanzioni per il caso di inosservanza.
Deve notarsi, come già in precedenza evidenziato, come in questo sistema i regolamenti edilizi comunali trovassero il fondamento nella legge, rispondessero ad esigenze di tutela non meramente formale ma sostanziale e fossero presidiati dalla sanzione della demolizione.
La giurisprudenza prevalente ha, pertanto, evidenziato l’assoggettamento alla sanzione della demolizione per le costruzioni realizzate in assenza di titolo edilizio anche se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di espansione ove l’obbligo del titolo edilizio fosse previsto dai regolamenti edilizi comunali. La giurisprudenza contraria che pure esiste fonda il proprio assunto su una efficacia abrogatrice della l. 1150/1942 sulle previsioni dei regolamenti edilizi precedenti che ad avviso del Collegio non è riscontrabile alla luce delle disposizioni legislative precedentemente trascritte.
La conclusione sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria del resto è conforme a quanto previsto dall’ultimo comma dell’art. 31 l. 47/1985, che prevede: “Per le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto, ai sensi dell'art. 31, primo comma, della L. 17.08.1942, n. 1150, e dei regolamenti edilizi comunali, il rilascio della licenza di costruzione, i soggetti di cui ai commi primo e terzo del presente articolo conseguono la concessione in sanatoria previo pagamento, a titolo di oblazione, della somma determinata a norma dell'articolo 34 della presente legge”.
La norma nel prevedere la condonabilità degli abusi li individua con riferimento anche all’obbligo del titolo edilizio previsto dai regolamenti comunali.

Il ricorso è rivolto avverso un ordine di demolizione.
Con il primo motivo si sostiene che essendo i manufatti oggetto del provvedimento impugnato stati edificati prima dell’entrata in vigore della l. 765/1967, circostanza questa ammessa anche dalla stessa amministrazione, ed essendo gli stessi manufatti ubicati fuori dal centro abitato, gli stessi non necessitavano al momento della loro realizzazione di alcun titolo edilizio e, conseguentemente, non potrebbero essere sanzionati oggi alla stregua di manufatti abusivi.
Il Comune ha replicato, già in sede di contraddittorio procedimentale, con la nota 17.01.2013 n. prot. 1260, con cui si rilevava come per il territorio comunale vigesse il regolamento edilizio approvato con provvedimento della Prefettura di Savona 20.07.1931 n. 6117 che imponeva l’obbligo del titolo edilizio per ogni intervento edilizio da realizzarsi in tutto il territorio del Comune di Albisola.
In questa sede occorre pertanto accertare se per opere realizzate fuori dal centro abitato e dalle zone di espansione prima del 01.09.1967 (entrata in vigore della legge ponte) la presenza di un regolamento edilizio che imponesse un titolo edilizio possa essere idoneo a fondare oggi un giudizio di abusività e la conseguente applicazione delle relative sanzioni. In fatto occorre ulteriormente precisare che le costruzioni, oggetto di contestazione, sono state edificate negli anni ’60 quindi successivamente all’entrata in vigore della l. 1150/1942.
Preliminare appare delineare il quadro normativo in subiecta materia.
Tralasciando normative anteriori che pure contemplavano i regolamenti comunali senza, tuttavia, dettare un specifica disciplina occorre prendere le mosse dall’art. 3 r.d. 22.11.1937 n. 2105 (che ai sensi dell’art. 1 sostituiva le disposizioni di cui al rd 25.03.1935 n. 640) che statuiva “In tutti i comuni del regno nei quali non è prescritta l’osservanza delle norme contenute negli articoli 7 e successivi le amministrazioni comunali devono provvedere a che nei regolamenti edilizi di cui all’art. 3 del testo unico della legge comunale e provinciale vigente sia resa obbligatoria osservanza delle disposizioni contenute nei seguenti articoli 4, 5 e 6”.
Il successivo articolo 6 stabiliva che “coloro che intendono fare nuove costruzioni ovvero modificare od ampliare quelle esistenti debbono chiedere al podestà apposita autorizzazione, obbligandosi ad osservare le norme particolari dei regolamenti di edilizia e d’igiene comunali”. Lo stesso articolo contemplava poi la possibilità di irrogare la demolizione in caso di costruzione in assenza di autorizzazione.
Dall’esame della normativa di cui sopra si evince come la potestà regolamentare trovasse il proprio fondamento nella legge, fosse prevista a tutela di interessi sostanziali e fosse altresì presidiata dalla sanzione della demolizione. Anzi la legge imponeva alle amministrazioni comunali il recepimento delle norme di cui sopra.
Successivamente l’art. 31, comma 1, l. 1150/1942 nel testo originario ha previsto che: “Chiunque intenda eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7, deve chiedere apposita licenza al podestà del comune”.
La legge 1150/1942, inoltre, disciplinava all’art. 33 il contenuto dei regolamenti edilizi comunali prevedendo che “I comuni debbono con regolamento edilizio provvedere, in armonia, con le disposizioni contenute nella presente legge e nel Testo unico delle leggi sanitarie approvato con R.D. 27.07.1934, n. 1265, a dettare norme precipuamente sulle seguenti materie, tenendo, se ne sia il caso, distinte quelle riguardanti il nucleo edilizio esistente da quelle riguardanti la zona di ampliamento e il restante territorio comunale”.
La legge urbanistica stabiliva l’obbligo cogente di richiedere la licenza edilizia nel centro abitato e nelle zone di espansione e ciò senza la mediazione di regolamenti edilizi comunali mentre rimetteva ai regolamenti edilizi la valutazione in ordine alla necessità della licenza edilizia nella restante parte del territorio comunale. Pertanto ove le amministrazioni comunali avessero già provveduto ai sensi della normativa previgente i regolamenti emessi in ottemperanza delle disposizioni del rd. 22.11.1937 n. 2105 venivano fatti salvi, rientrando nella potestà discrezionale del Comune intervenire o meno su di essi. Del pari il Comune avrebbe potuto, nell’esercizio della propria discrezionalità, introdurre o meno l’obbligo delle licenza edilizia nelle zone diverse dal centro abitato e dalla zone di espansione.
La legge urbanistica, da un lato, superava il precedente sistema di autorizzazione e, al contempo, dall’altro lato, fondava il potere dei regolamenti edilizi comunali, legittimando altresì i regolamenti previgenti.
Ne conseguiva la legittimità dei regolamenti edilizi che avessero inteso imporre l’obbligo delle licenza edilizia a tutto il territorio comunale irrilevante essendo la circostanza che tali regolamenti fossero anteriori o successivi all’entrata in vigore del r.d. 22.11.1937 n. 2105 e della legge 1150/1942, atteso che il primo decreto obbligando i Comuni ad adottare i regolamenti non poteva che fare salvi i regolamenti già adottati (che fossero conformi alle sue disposizioni) e atteso altresì che la legge 1150/1942 rimettendo alla amministrazione comunale tali valutazioni, ne faceva salve le determinazioni precedentemente assunte. In altre parole nel momento in cui la legge attribuiva ai regolamenti la valutazione discrezionale in ordine alla necessità di licenza edilizia comunale al di fuori delle zone in cui la stessa era obbligatoria per legge, al contempo legittimava, ratificandoli, i regolamenti che tale scelta avessero già in precedenza compiuto.
Conseguiva a tale sistema l’obbligo di munirsi del titolo edilizio per tutte le costruzioni in qualunque zona fossero state edificate, ove tale obbligo fosse previsto dai regolamenti edilizi comunali e l’applicazione delle relative sanzioni per il caso di inosservanza.
Deve notarsi, come già in precedenza evidenziato, come in questo sistema i regolamenti edilizi comunali trovassero il fondamento nella legge, rispondessero ad esigenze di tutela non meramente formale ma sostanziale e fossero presidiati dalla sanzione della demolizione.
La giurisprudenza prevalente ha, pertanto, evidenziato l’assoggettamento alla sanzione della demolizione per le costruzioni realizzate in assenza di titolo edilizio anche se eseguite al di fuori del centro abitato o delle zone di espansione ove l’obbligo del titolo edilizio fosse previsto dai regolamenti edilizi comunali (CS 5141/2008, CS 287/1980, TAR Marche 2011 n. 634, TAR Emilia Romagna, Parma 2010 n. 5). La giurisprudenza contraria che pure esiste (TAR Friuli Venezia Giulia 553/2014) fonda il proprio assunto su una efficacia abrogatrice della l. 1150/1942 sulle previsioni dei regolamenti edilizi precedenti che ad avviso del Collegio non è riscontrabile alla luce delle disposizioni legislative precedentemente trascritte.
La conclusione sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria del resto è conforme a quanto previsto dall’ultimo comma dell’art. 31 l. 47/1985, che prevede: “Per le opere ultimate anteriormente al 01.09.1967 per le quali era richiesto, ai sensi dell'art. 31, primo comma, della L. 17.08.1942, n. 1150, e dei regolamenti edilizi comunali, il rilascio della licenza di costruzione, i soggetti di cui ai commi primo e terzo del presente articolo conseguono la concessione in sanatoria previo pagamento, a titolo di oblazione, della somma determinata a norma dell'articolo 34 della presente legge”.
La norma nel prevedere la condonabilità degli abusi li individua con riferimento anche all’obbligo del titolo edilizio previsto dai regolamenti comunali.
Ne consegue l’abusività delle opere oggetto del provvedimento impugnato.
Né sul punto assume rilevanza la successione di regimi sanzionatori nel tempo. E ciò per due ragioni. In primo luogo la demolizione era già prevista come sanzione dal regolamento edilizio, in secondo luogo in quanto stante la permanenza dell’abuso lo stesso deve ritenersi assoggettato volta a volta alle successive discipline sanzionatorie per lo stesso previste.
Deve, pertanto, farsi riferimento al complesso normativo previsto dal d.p.r. 380/2001 e dalla l.r. 16/2008.
Ne consegue l’infondatezza del motivo (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 17.12.2014 n. 1851 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Spetta al comune il pagamento della quota annuale di iscrizione nell’elenco speciale annesso all'albo degli avvocati per l’esercizio della professione forense nell'interesse del datore di lavoro.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dall’avvocato Luigi Sorgente, contro il Comune di Bitonto, avverso la richiesta di pagamento della quota annuale di iscrizione nell’elenco speciale annesso all'albo degli avvocati per l’esercizio della professione forense nell'interesse del datore di lavoro;
...
Il ricorso deve essere accolto.
Analoga questione è stata oggetto del parere di questa Sezione n. 678/2010, le cui motivazioni di accoglimento, essendo strettamente attinenti ai motivi proposti con il presente ricorso, possono qui richiamarsi: “Ritiene la Sezione di non condividere la giurisprudenza contabile che ha qualificato l’obbligo di corresponsione della tassa per l’iscrizione come strettamente personale, essendo legato all’integrazione del requisito professionale necessario per svolgere il rapporto con l’ente pubblico (ex plurimis: Corte Conti, sez. controllo Toscana, n. 11 del 2008; Corte Conti, sez. controllo Puglia, n. 29 del 2008; Corte Conti, sez. controllo Veneto, n. 128 del 2008).
Secondo tale orientamento a nulla rileva l’esclusività del rapporto di lavoro dipendente dell’avvocato comunale, non potendosi, in difetto di un’espressa previsione di legge o contrattuale, accollare al comune oneri finanziari che spettano, per loro natura, al dipendente essendo il presupposto per la valida assunzione.
La Sezione, in difformità dall’orientamento della giurisprudenza contabile sopra richiamata, ritiene irragionevole e viziata da eccesso di potere la decisione impugnata.
Con essa l’amministrazione ha ignorato la circostanza fattuale secondo la quale, dopo l’assunzione, il rapporto si configura come un rapporto di durata nel quale la prestazione professionale del componente dell’avvocatura civica è resa continuativamente, anno dopo anno, nell’interesse dell’ente di appartenenza in via esclusiva, dovendo gli interessati, per patrocinare innanzi le varie Autorità giudiziarie, essere iscritti al relativo Ordine professionale.
Pertanto, l’iscrizione è funzionale allo svolgimento di un’attività professionale svolta quando sussista il vincolo di esclusività, nell’ambito di una prestazione di lavoro dipendente.
Ne consegue che i costi per lo svolgimento di detta attività dovrebbero, in via normale, al di fuori dei casi in cui è permesso svolgere altre attività lavorative, gravare sull’amministrazione che beneficia in via esclusiva dei risultati di detta attività.
Ciò risponde ad un principio generale ravvisabile anche nell’esecuzione del contratto di mandato, ai sensi dell’art. 1719 cod. civ. secondo cui il mandante è obbligato a tenere indenne il mandatario da ogni diminuzione patrimoniale che questi abbia subito in conseguenza dell’incarico, fornendogli i mezzi patrimoniali necessari.
Nel lavoro dipendente si riscontra comunque l’assunzione, analoga a quella che sussiste nel mandato, a compiere un’attività per conto e nell’interesse altrui.
In senso analogo a quello ritenuto dalla Sezione è la giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo la quale il pagamento della quota annuale di iscrizione all'elenco speciale annesso all'albo degli avvocati per l'esercizio della professione forense nell'interesse esclusivo del datore di lavoro è rimborsabile dal datore di lavoro, non rientrando né nella disciplina positiva dell'indennità di toga (art. 14, comma 17, d.P.R. n. 43 del 1990) a carattere retributivo, con funzione non restitutoria e un regime tributario incompatibile con il rimborso spese, né attenendo a spese nell'interesse della persona, quali quelle sostenute per gli studi universitari e per l'acquisizione dell'abilitazione alla professione forense (principio affermato in controversia proposta da un avvocato dipendente dell'Inail, ruolo legale; Cassazione civile, sez. lav., 20.02.2007, n. 3928).
Non va poi dimenticato che l’Avvocatura dello Stato fruisce di un’apposita previsione che consente di patrocinare all’avvocato dell’erario anche in assenza dell’iscrizione all’Ordine; circostanza che depone nel senso che l’onere dell’iscrizione non debba, quando l’iscrizione sia necessaria, sia pure solo limitatamente all’albo speciale, gravare sul professionista dipendente dell’Avvocatura civica
" (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 26.11.2014 n. 3673  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl concetto di disponibilità dell’area, ai fini del rilascio del titolo edilizio, “non è circoscritto alla dimostrazione della proprietà dell’immobile, ma indica l’esistenza di una situazione giuridica che abilita il titolare a sfruttare pienamente la potenzialità edificatoria dell’immobile”, con la conseguenza che “la disponibilità manca non solo quando il richiedente non è proprietario del terreno, ma anche nei casi in cui la proprietà è limitata da diritti reali di godimento che incidono sulla possibilità di edificazione del suolo”.
Tuttavia, poiché la legittimità del provvedimento amministrativo va essenzialmente valutata con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione, è evidente che la pur riscontrata pendenza di una domanda di accertamento di un diritto di servitù di passaggio su di un’area destinata dal suo proprietario all’apposizione di una recinzione non può, di per sé, costituire un idoneo presupposto affinché l’Amministrazione Comunale neghi il rilascio del relativo titolo edilizio.
La mera pendenza di una lite giudiziaria, infatti, non configura un definitivo assetto dei diritti e degli obblighi delle parti assoggettate all’azione amministrativa; né va obliterata la circostanza che il rilascio del titolo edilizio avviene sempre con la salvezza dei diritti dei terzi (cfr., per l’epoca dei fatti di causa l’art. 4, sesto comma, della L. 28.01.1977 n. 10 e, ora, l’art. 11, comma 3, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380).

5.1. Tutto ciò premesso, il ricorso va respinto.
5.2. Il Collegio non può che concordare con il principio, puntualmente enunciato dalla stessa difesa della parte ricorrente (cfr. pagg. 2 e 3 della memoria defensionale dd. 08.06.2004), secondo cui “il concetto di disponibilità dell’area”, ai fini del rilascio del titolo edilizio, “non è circoscritto alla dimostrazione della proprietà dell’immobile, ma indica l’esistenza di una situazione giuridica che abilita il titolare a sfruttare pienamente la potenzialità edificatoria dell’immobile”, con la conseguenza che “la disponibilità manca non solo quando il richiedente non è proprietario del terreno, ma anche nei casi in cui la proprietà è limitata da diritti reali di godimento che incidono sulla possibilità di edificazione del suolo” (così Cons. Stato, Sez. V, 22.06.2000 n. 3525).
Tuttavia, poiché la legittimità del provvedimento amministrativo va essenzialmente valutata con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 30.09.2002 n. 4994), è evidente che la pur riscontrata pendenza di una domanda di accertamento di un diritto di servitù di passaggio su di un’area destinata dal suo proprietario all’apposizione di una recinzione non può, di per sé, costituire un idoneo presupposto affinché l’Amministrazione Comunale neghi il rilascio del relativo titolo edilizio.
La mera pendenza di una lite giudiziaria, infatti, non configura un definitivo assetto dei diritti e degli obblighi delle parti assoggettate all’azione amministrativa; né va obliterata la circostanza che il rilascio del titolo edilizio avviene sempre con la salvezza dei diritti dei terzi (cfr., per l’epoca dei fatti di causa l’art. 4, sesto comma, della L. 28.01.1977 n. 10 e, ora, l’art. 11, comma 3, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Deve dunque concludersi nel senso che il soddisfacimento dell’interesse qui fatto valere dalla ricorrente potrà avvenire, se del caso, innanzi alla giurisdizione ordinaria e mediante i mezzi di tutela ivi esperibili.
Tali notazioni di fondo consentono, allo stesso tempo, di escludere che il contributo della parte qui ricorrente apportato nell’ambito del procedimento di rilascio del titolo edilizio in questione potesse, a quel momento, ragionevolmente comportare una determinazione contraria alla richiesta di Valmer: e ciò, pertanto, consente pure di respingere le censure di violazione dell’art. 10 della L. 241 del 1990 e di eccesso di potere per difetto di motivazione formulate dalla ricorrente (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 20.10.2004 n. 3752 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il proprietario di un fondo ha la facoltà di recintarlo in qualunque tempo (art. 841 c.c.) posto che la recinzione comunque rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente pure lo jus excludendi alios, e che -fermo restando l’esercizio della facoltà medesima- soltanto la natura delle opere in concreto realizzate consente di acclarare se ciò comporti, o meno, una trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio.
Neppure sussiste la violazione della surriportata disciplina di piano.
Il Collegio concorda sulla notazione della parte ricorrente circa la sua “non perspicua formulazione letterale” (cfr. pag. 5 dell’atto introduttivo del giudizio), ma reputa che l’interpretazione del disposto in esame non possa, comunque, avvenire contra legem, ossia –nella specie– ablando la facoltà del proprietario di chiudere in qualunque tempo il fondo (art. 841 cod. civ.), posto che la recinzione comunque rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente pure lo jus excludendi alios, e che -fermo restando l’esercizio della facoltà medesima- soltanto la natura delle opere in concreto realizzate consente di acclarare se ciò comporti, o meno, una trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio (cfr. sul punto, ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 15.06.2000 n. 3320 e la sentenza 14.01.2002 n. 62 di questa stessa Sezione) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 20.10.2004 n. 3752 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer costante giurisprudenza, soggetto legittimato a richiedere la concessione edilizia è, non solo, il titolare del diritto di proprietà sul fondo ma anche chi, pur essendo titolare di altro diritto, reale o di obbligazione, abbia, per effetto di questo obbligo, la facoltà di eseguire i lavori per i quali chiede la concessione.
Tuttavia, va rilevato che se da un lato la giurisprudenza riconosce anche al promittente compratore la legittimazione a richiedere la concessione edilizia, dall’altro non può essere esclusa la necessità che, in ragione degli effetti propri del preliminare di compravendita, siano assicurate le dovute garanzie in ordine all’effettiva disponibilità dell’immobile da parte del promettente acquirente.

... per l’annullamento della nota prot. n. 14081 del 09.07.2002 con la quale il Responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune di Porto Cesareo ha significato al ricorrente la sospensione della pratica edilizia afferente il rilascio della concessione edilizia per la realizzazione di una civile abitazione su un lotto di terreno distinto in Catasto al foglio n. 27, part. n. 1963 ...
...
Il ricorso è infondato.
L’art. 4, comma secondo della L. n. 10/1977 statuisce espressamente che la concessione edilizia è rilasciata “al proprietario dell’area o a chi abbia titolo per richiederla”.
E’ noto al Collegio che per costante giurisprudenza, soggetto legittimato a richiedere la concessione edilizia è, non solo, il titolare del diritto di proprietà sul fondo ma anche chi, pur essendo titolare di altro diritto, reale o di obbligazione, abbia, per effetto di questo obbligo, la facoltà di eseguire i lavori per i quali chiede la concessione (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. IV,11.06.2002 n. 3253; Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 1227 del 04.11.1997; Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 965 del 28.09.1993).
Tuttavia, va rilevato che se da un lato la giurisprudenza riconosce anche al promittente compratore la legittimazione a richiedere la concessione edilizia, dall’altro non può essere esclusa la necessità che, in ragione degli effetti propri del preliminare di compravendita, siano assicurate le dovute garanzie in ordine all’effettiva disponibilità dell’immobile da parte del promettente acquirente.
Nella fattispecie in esame, viceversa, è possibile riscontrare vari elementi che fanno dubitare della sussistenza in capo al richiedente la concessione edilizia dell’effettiva disponibilità del bene in questione.
Innanzitutto, va rilevato che nonostante il notevole lasso di tempo trascorso dall’avvio della pratica edilizia non risulta che sia stato mai stipulato il contratto definitivo di compravendita dell’area de qua. In secondo luogo, dubbi ed incertezze permangono in ordine all’effettiva titolarità del diritto di proprietà in capo al promittente alienante sig. Z. e alla reale sussistenza di qualsivoglia diritto reale o di possesso sull’area in questione nella quale, peraltro, è presente una fontanina posseduta da oltre vent’anni dall’ente Acquedotto Pugliese.
Ne consegue, che la descritta situazione di incertezza consente di ritenere legittimo l’impugnato diniego, attesa l’assenza, nel caso di specie, di un titolo idoneo a supportare la richiesta di concessione edilizia (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 11.10.2004 n. 7165 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’esecuzione di opere di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio è sottoposta ad una disciplina complessa, che riguarda, rispettivamente, la definizione degli assetti della proprietà immobiliare ed il controllo pubblicistico sulla conformità alle regole ed ai piani di derivazione pubblicistica. Gli ambiti delle due discipline, finalizzate alla tutela di interessi di consistenza disomogenea, non sono pienamente sovrapponibili.
È quindi possibile che un determinato intervento edilizio, astrattamente conforme alle prescrizioni urbanistiche, si ponga in contrasto con la normativa di derivazione civilistica, costituendo la violazione di diritti reali di godimento o di altre facoltà dei soggetti interessati.
Tuttavia, la necessaria distinzione tra gli aspetti civilistici e quelli pubblicistici dell’attività edificatoria non impedisce di rilevare la presenza di significativi punti di contatto fra i due diversi profili.
Da una parte, la normativa edilizia di carattere regolamentare è idonea a fondare pretese sostanziali nei rapporti interprivati, che assumono la consistenza ed il grado di protezione del diritto soggettivo.
Dall’altra parte, alcuni elementi di origine civilistica assumono una rilevanza qualificata nel procedimento di rilascio della concessione edilizia.
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Non è seriamente contestabile che nel procedimento di rilascio della concessione edilizia l’amministrazione ha il potere di verificare l’esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, interessato dal progetto di trasformazione urbanistica. Si tratta di un’attività istruttoria che non è diretta, in via principale, a risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario degli immobili interessati, ma che risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente.
In termini generali, la funzione autorizzatoria dell’amministrazione richiede un livello minimo di istruttoria, che comprende, comunque, l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza ed il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione.
E, d’altra parte, l’esame del titolo di godimento operata dall’amministrazione non costituisce una sorta di eccezionale intrusione in un ambito privatistico, ma rappresenta la coerente applicazione del principio secondo cui l’autorità pubblica deve sempre verificare la legittimazione del soggetto che propone un’istanza. In questa prospettiva si spiegano le numerose norme di settore in materia di licenze e di autorizzazioni commerciali, che impongono all’istante di fornire la prova del titolo di godimento dei locali destinati all’esercizio.
Questa elementare esigenza di verifica sull’ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio risulta presente anche nell’ambito del procedimento di rilascio della concessione edilizia.
Non solo, ma la notevole incidenza della concessione edilizia sugli interessi pubblici e privati coinvolti impone, in modo ancora più stringente, un adeguato esame sulla corrispondenza sostanziale tra la richiesta ed i presupposti fattuali che la giustificano, anche in relazione alla titolarità della necessaria posizione legittimante.
È vero che la valutazione delle richieste di concessione edilizia mira, essenzialmente, ad assicurare la conformità con gli strumenti di pianificazione urbanistica. Ma non si può negare all’amministrazione comunale il compito di assicurare, comunque, un ordinato svolgimento dell’attività urbanistica, conforme all’assetto dei rapporti interprivati relativi all’area interessata dall’intervento.
Assentire la realizzazione di opere edilizie a soggetti certamente privi del necessario titolo di godimento sull’immobile significherebbe alimentare il contenzioso tra le parti, con grave danno anche per l’interesse pubblico all’armonico sviluppo dell’attività di trasformazione urbanistica.
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Si tratta di stabilire l’ampiezza e la profondità dei poteri istruttori spettanti all’amministrazione in sede di verifica del titolo di proprietà sull’immobile.
Al riguardo, si deve premettere che l’affermazione del potere di verifica del titolo di proprietà non significa affatto che l’amministrazione abbia l’obbligo incondizionato di effettuare complessi e laboriosi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l’immobile considerato. Anzi, il principio generale del divieto di aggravamento del procedimento consente all’amministrazione di semplificare ed accelerare tutte le attività di verifica sul titolo, valorizzando gli elementi documentali forniti dalla parte interessata.
In ogni caso, non può gravare sull’amministrazione l’onere probatorio di appurare l’inesistenza di servitù o di altri vincoli reali che incidono, limitandola, sull’attitudine edificatoria dell’immobile, trattandosi di attività istruttoria eccessivamente difficile e lunga.
Peraltro, qualora sia acquisita la prova della esistenza di servitù di non edificare (totale o parziale), gravanti sull’immobile oggetto della richiesta di concessione edilizia, l’amministrazione ha l’obbligo di valutare tale elemento ai fini del diniego del provvedimento.
Infatti, la servitù costituisce un peso imposto al fondo che conforma, limitandolo, il diritto di proprietà del titolare, anche in relazione alla pretesa edificatoria vantata nei confronti della amministrazione.
Al contrario, in mancanza di adeguati elementi istruttori, ritualmente acquisiti nel corso del procedimento, la concessione edilizia è legittimamente rilasciata, ancorché sia accertata, successivamente, l’esistenza di vincoli gravanti sulla proprietà del concessionario.
In questo ambito si inserisce l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale l'eventuale mancato rispetto di una servitù pattizia preesistente non è di per sé motivo d'illegittimità della concessione edilizia rilasciata per costruire sul fondo servente, in quanto il comune non è tenuto, in sede di esame delle relative domande di concessione, a ricercare d'ufficio, ne' ad opporre al richiedente la pattuizioni limitative della proprietà che costui o il suo dante causa abbiano concluso con i terzi, tant'è che la concessione stessa viene rilasciata sempre con la clausola di salvezza dei diritti di questi ultimi.
In tal modo, la Sezione ha esaminato una vicenda in certo modo speculare e simmetrica a quella oggetto del presente contenzioso, stabilendo che, in mancanza di elementi, l'amministrazione non ha l'obbligo di verificare l’inesistenza di diritti di servitù che limitino l’ampiezza del titolo di proprietà del richiedente. Pertanto, la concessione edilizia rilasciata in contrasto con i diritti dei terzi, non è di per sé illegittima, a meno che non sia accertato il contrasto con elementi istruttori acquisiti nel corso del procedimento.
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La Sezione ha chiarito che, ai sensi dell'art. 4 l. 28.01.1977 n. 10, la concessione edilizia può essere rilasciata soltanto al proprietario dell'area o a chi abbia altrimenti titolo per richiederla; di conseguenza, pur se il rilascio della concessione avviene salvi i diritti dei terzi, il comune è tenuto a verificare l'esistenza del titolo e -in mancanza di prova di quest'ultimo- legittimamente nega il rilascio della concessione.

La censura è infondata.
3. L’esecuzione di opere di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio è sottoposta ad una disciplina complessa, che riguarda, rispettivamente, la definizione degli assetti della proprietà immobiliare ed il controllo pubblicistico sulla conformità alle regole ed ai piani di derivazione pubblicistica. Gli ambiti delle due discipline, finalizzate alla tutela di interessi di consistenza disomogenea, non sono pienamente sovrapponibili.
È quindi possibile che un determinato intervento edilizio, astrattamente conforme alle prescrizioni urbanistiche, si ponga in contrasto con la normativa di derivazione civilistica, costituendo la violazione di diritti reali di godimento o di altre facoltà dei soggetti interessati.
4. Tuttavia, la necessaria distinzione tra gli aspetti civilistici e quelli pubblicistici dell’attività edificatoria non impedisce di rilevare la presenza di significativi punti di contatto fra i due diversi profili.
Da una parte, la normativa edilizia di carattere regolamentare è idonea a fondare pretese sostanziali nei rapporti interprivati, che assumono la consistenza ed il grado di protezione del diritto soggettivo.
Dall’altra parte, alcuni elementi di origine civilistica assumono una rilevanza qualificata nel procedimento di rilascio della concessione edilizia.
5. In particolare, non è seriamente contestabile che nel procedimento di rilascio della concessione edilizia l’amministrazione ha il potere di verificare l’esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, interessato dal progetto di trasformazione urbanistica. Si tratta di un’attività istruttoria che non è diretta, in via principale, a risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario degli immobili interessati, ma che risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente.
In termini generali, la funzione autorizzatoria dell’amministrazione richiede un livello minimo di istruttoria, che comprende, comunque, l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza ed il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione.
E, d’altra parte, l’esame del titolo di godimento operata dall’amministrazione non costituisce una sorta di eccezionale intrusione in un ambito privatistico, ma rappresenta la coerente applicazione del principio secondo cui l’autorità pubblica deve sempre verificare la legittimazione del soggetto che propone un’istanza. In questa prospettiva si spiegano le numerose norme di settore in materia di licenze e di autorizzazioni commerciali, che impongono all’istante di fornire la prova del titolo di godimento dei locali destinati all’esercizio.
6. Questa elementare esigenza di verifica sull’ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio risulta presente anche nell’ambito del procedimento di rilascio della concessione edilizia.
Non solo, ma la notevole incidenza della concessione edilizia sugli interessi pubblici e privati coinvolti impone, in modo ancora più stringente, un adeguato esame sulla corrispondenza sostanziale tra la richiesta ed i presupposti fattuali che la giustificano, anche in relazione alla titolarità della necessaria posizione legittimante.
È vero che la valutazione delle richieste di concessione edilizia mira, essenzialmente, ad assicurare la conformità con gli strumenti di pianificazione urbanistica. Ma non si può negare all’amministrazione comunale il compito di assicurare, comunque, un ordinato svolgimento dell’attività urbanistica, conforme all’assetto dei rapporti interprivati relativi all’area interessata dall’intervento. Assentire la realizzazione di opere edilizie a soggetti certamente privi del necessario titolo di godimento sull’immobile significherebbe alimentare il contenzioso tra le parti, con grave danno anche per l’interesse pubblico all’armonico sviluppo dell’attività di trasformazione urbanistica.
7. Ciò chiarito, si tratta di stabilire l’ampiezza e la profondità dei poteri istruttori spettanti all’amministrazione in sede di verifica del titolo di proprietà sull’immobile.
Al riguardo, si deve premettere che l’affermazione del potere di verifica del titolo di proprietà non significa affatto che l’amministrazione abbia l’obbligo incondizionato di effettuare complessi e laboriosi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l’immobile considerato. Anzi, il principio generale del divieto di aggravamento del procedimento consente all’amministrazione di semplificare ed accelerare tutte le attività di verifica sul titolo, valorizzando gli elementi documentali forniti dalla parte interessata.
In ogni caso, non può gravare sull’amministrazione l’onere probatorio di appurare l’inesistenza di servitù o di altri vincoli reali che incidono, limitandola, sull’attitudine edificatoria dell’immobile, trattandosi di attività istruttoria eccessivamente difficile e lunga.
8. Peraltro, qualora sia acquisita la prova della esistenza di servitù di non edificare (totale o parziale), gravanti sull’immobile oggetto della richiesta di concessione edilizia, l’amministrazione ha l’obbligo di valutare tale elemento ai fini del diniego del provvedimento.
Infatti, la servitù costituisce un peso imposto al fondo che conforma, limitandolo, il diritto di proprietà del titolare, anche in relazione alla pretesa edificatoria vantata nei confronti della amministrazione.
Al contrario, in mancanza di adeguati elementi istruttori, ritualmente acquisiti nel corso del procedimento, la concessione edilizia è legittimamente rilasciata, ancorché sia accertata, successivamente, l’esistenza di vincoli gravanti sulla proprietà del concessionario.
In questo ambito si inserisce l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale l'eventuale mancato rispetto di una servitù pattizia preesistente non è di per sé motivo d'illegittimità della concessione edilizia rilasciata per costruire sul fondo servente, in quanto il comune non è tenuto, in sede di esame delle relative domande di concessione, a ricercare d'ufficio, ne' ad opporre al richiedente la pattuizioni limitative della proprietà che costui o il suo dante causa abbiano concluso con i terzi, tant'è che la concessione stessa viene rilasciata sempre con la clausola di salvezza dei diritti di questi ultimi (Consiglio Stato sez. V, 08.04.1997, n. 329).
In tal modo, la Sezione ha esaminato una vicenda in certo modo speculare e simmetrica a quella oggetto del presente contenzioso, stabilendo che, in mancanza di elementi, l'amministrazione non ha l'obbligo di verificare l’inesistenza di diritti di servitù che limitino l’ampiezza del titolo di proprietà del richiedente. Pertanto, la concessione edilizia rilasciata in contrasto con i diritti dei terzi, non è di per sé illegittima, a meno che non sia accertato il contrasto con elementi istruttori acquisiti nel corso del procedimento.
9. Nel presente giudizio, invece, è in contestazione la legittimità non già di una concessione edilizia rilasciata, bensì del suo diniego, basato su precisi dati documentali e probatori emersi nel corso dell’istruttoria.
In tali ipotesi, l’accertata carenza degli elementi che dimostrino l’esistenza di un collegamento qualificato tra il richiedente ed il bene immobile oggetto della richiesta di concessione edilizia determina la legittimità del provvedimento di diniego.
Del resto, la Sezione ha chiarito che, ai sensi dell'art. 4 l. 28.01.1977 n. 10 e 3 l. prov. Bolzano 03.01.1978 n. 1 la concessione edilizia può essere rilasciata soltanto al proprietario dell'area o a chi abbia altrimenti titolo per richiederla; di conseguenza, pur se il rilascio della concessione avviene salvi i diritti dei terzi, il comune è tenuto a verificare l'esistenza del titolo e -in mancanza di prova di quest'ultimo- legittimamente nega il rilascio della concessione (Consiglio Stato, Sez. V, 03.09.1985 n. 279) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.06.2000 n. 3525 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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