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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di MARZO 2015

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aggiornamento al 26.03.2015

aggiornamento al 18.03.2015

aggiornamento al 09.03.2015

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 26.03.2015

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Ecco una fattispecie (oggi) alquanto delicata da affrontare laddove, trenta/quarant'anni fa, il modus operandi dell'U.T.C. (niente affatto corretto) era normale prassi quotidiana...

EDILIZIA PRIVATA: Il punto centrale della controversia attiene alla valenza che assume la conformità del fabbricato realizzato al progetto, contenuta negli atti che attestano l’agibilità dell’immobile, rispetto alla conformità edilizia del fabbricato stesso; si tratta cioè di valutare se tale attestazione contenuta negli atti di agibilità valga come sanatoria implicita, sul piano edilizio, delle difformità riscontrate.
Nella normativa oggi vigente il certificato di agibilità è il documento, rilasciato dal dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale, che attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, giusto il disposto dell’art. 24, D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Nella disciplina previgente, e rilevante in causa, la norma di riferimento era invece rappresentata dall'art. 221, r.d. 27.7.1934, n. 1265 (testo unico delle leggi sanitarie), il quale stabiliva che, in materia di costruzione, ricostruzione, sopraelevazione e modificazione di case urbane o rurali o parti di esse contemplate dal precedente art. 220, tali edifici non potessero “essere abitati senza autorizzazione del sindaco, il quale la concede quando, previa ispezione dell'ufficiale sanitario e di un ingegnere a ciò delegato, risulti che la costruzione sia stata eseguita in conformità del progetto approvato, che i muri siano convenientemente prosciugati e che non sussistano altre cause di insalubrità”.
La dottrina prevalente e la giurisprudenza maggioritaria ritengono che il certificato di agibilità, anche alla luce di tale normativa, fosse finalizzato esclusivamente alla tutela dell'igienicità, salubrità e sicurezza dell'edificio e non fosse diretto anche a garantire la conformità urbanistico-edilizia del manufatto:
- così Cons. Stato, sez. 5, 28.03.1980, n. 327 affermava che "il rilascio del certificato di abitabilità…presuppone l'accertamento dell'inesistenza di cause di insalubrità dell'edificio senza alcun collegamento col conseguimento di fini di carattere edilizio-urbanistico; pertanto, il rilascio di tale certificato non incide sul potere del Sindaco di reprimere gli abusi edilizi eventualmente commessi nella realizzazione del fabbricato dichiarato abitabile";
- Cons. Stato, sez. 5, 19.02.1982, n. 118 affermava, a sottolineare la specifica funzione dell’atto, che "la licenza di abitabilità, rilasciata ai sensi dell'art. 221 t. u. 27.07.1934, n. 1265 (leggi sanitarie), è prescritta per la tutela della pubblica igiene; pertanto, è illegittimo il provvedimento negativo del sindaco fondato su motivi di ordine urbanistico";
- e Cons. Stato, sez. 5, 28.01.1993, n. 178, in Cons. Stato, 1993, I, 64, rilevava che "è illegittima la revoca del certificato di abitabilità -previsto dall'art. 221, comma 1, t.u. 27.07.1934, n. 1265 e finalizzato esclusivamente a scopi di carattere igienico-sanitario- se motivata esclusivamente con la difformità dell'edificio realizzato dal progetto approvato con la licenza di costruzione, in quanto il controllo della rispondenza della costruzione con quanto autorizzato è esercitato dal sindaco mediante i poteri di cui all'art. 32, L. 17.08.1942, n. 1150".
Dunque la giurisprudenza riferita all’art. 221 del r.d. n. 1265 del 1934 è esplicita nell’evidenziare che la funzione della licenza di agibilità, e l’interesse pubblico cui essa ha riguardo, attiene a profili della agibilità/abitabilità e non specificamente al profilo urbanistico.
Ciò non esclude che la valutazione effettuata in sede di agibilità (come anzi sia l’art. 221 cit. che l’art. 20 del Regolamento comunale dell’epoca richiamato dalla ricorrente) presupponesse anche una verifica di conformità edilizia (il citato art. 221 parla di costruzione “eseguita in conformità del progetto approvato”); ma si tratta di una verifica edilizia funzionale al rilascio della agibilità e svolta quindi nei limiti necessari a inferirne l’assentibilità della agibilità; ben diverso e distinto è il profilo della piena conformità edilizia in quanto tale, sul piano dei titoli edilizi, che non appare ricavabile da un incidentale accertamento compiuto in sede di rilascio della licenza di agibilità.
In altre parole, quando il verbale del 23.01.1980 (doc. 5 di parte ricorrente) afferma la corrispondenza ai progetti approvati del fabbricato realizzato, effettua una valutazione funzionale alla sola attestazione della agibilità, ma dalla quale non è ricavabile un riconoscimento della avvenuta sanatoria sul piano edilizio delle opere stesse.
Si aggiunga che all’epoca, prima cioè dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985, l’istituto dell’accertamento di conformità non era ancora stato introdotto dal nostro legislatore, il che rende ancor più illogico voler ritenere manifestata in via implicita una volontà sanante, sul piano strettamente edilizio; d’altra parte quando poi tale istituto è stato introdotto non risulta che il ricorrente abbia provveduto a valersene, per far acclarare in modo pieno e diretto la sanabilità edilizia della difformità realizzata.

Con il primo mezzo parte ricorrente evidenzia come l’esubero volumetrico accertato dall’Amministrazione non può tuttavia dirsi abusivo e non legittimamente assentito, essendo esso già stato rilevato in sede di sopralluogo per il rilascio del certificato di agibilità, con il risultato che l’assentimento della agibilità è da qualificarsi come sanatoria implicita dell’incremento volumetrico stesso.
La censura non è fondata.
La società ricorrente richiama, per elaborare la tesi della sanatoria implicita, il “verbale di visita di abitabilità e agibilità” del 23.01.1980 (doc. 5 di parte ricorrente), l’autorizzazione sindacale di agibilità in pari data (doc. 6) e la annotazione del tecnico comunale del 27.10.1979 di correzione della tavola grafica (doc. 20); il documento da ultimo richiamato rappresenta, secondo parte ricorrente, la constatazione che il tecnico comunale ha effettuato, in sede di sopralluogo, circa la discrepanza tra la larghezza del manufatto risultante dalla tavola grafica e quella da lui accertata (infatti nel doc. 20 si vede una cancellatura della misura di m. 48,30 e la sua sostituzione con m. 49,70); a ciò hanno fatto seguito il verbale di visita e l’autorizzazione di agibilità, in cui si dà espressamente atto della corrispondenza del fabbricato alle licenze edilizie nn. 4880 del 1970, 5151 del 1971, 6207 del 1975, 6896 del 1977 e 7889 del 1978 (cfr. doc. 5).
La tesi è dunque che la difformità realizzativa sia stata accertata dal tecnico comunale e che ciò nonostante si sia sancito il rispetto dei titoli edilizi, in sede di rilascio dell’agibilità, in tal modo sanando la difformità medesima anche sul piano edilizio.
L’Amministrazione resistente contesta la lettura operata dalla ricorrente del doc. 20 richiamato, evidenziando che esso “rappresenterebbe una mera correzione numerica su un elaborato grafico che, però, non trova riscontro in alcuna delle certificazioni e attestazioni rilasciate dal Comune e/o eventuali altri atti e provvedimenti”.
Ritiene il Collegio che il punto centrale della controversia attenga alla valenza che assume la conformità del fabbricato realizzato al progetto, contenuta negli atti che attestano l’agibilità dell’immobile, rispetto alla conformità edilizia del fabbricato stesso; si tratta cioè di valutare se tale attestazione contenuta negli atti di agibilità valga come sanatoria implicita, sul piano edilizio, delle difformità riscontrate. Tale questione deve essere affrontata alla luce della normativa applicabile ratione temporis.
Nella normativa oggi vigente il certificato di agibilità è il documento, rilasciato dal dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale, che attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, giusto il disposto dell’art. 24, D.P.R. 06.06.2001, n. 380. Nella disciplina previgente, e rilevante in causa, la norma di riferimento era invece rappresentata dall'art. 221, r.d. 27.7.1934, n. 1265 (testo unico delle leggi sanitarie), il quale stabiliva che, in materia di costruzione, ricostruzione, sopraelevazione e modificazione di case urbane o rurali o parti di esse contemplate dal precedente art. 220, tali edifici non potessero “essere abitati senza autorizzazione del sindaco, il quale la concede quando, previa ispezione dell'ufficiale sanitario e di un ingegnere a ciò delegato, risulti che la costruzione sia stata eseguita in conformità del progetto approvato, che i muri siano convenientemente prosciugati e che non sussistano altre cause di insalubrità”.
La dottrina prevalente e la giurisprudenza maggioritaria ritengono che il certificato di agibilità, anche alla luce di tale normativa, fosse finalizzato esclusivamente alla tutela dell'igienicità, salubrità e sicurezza dell'edificio e non fosse diretto anche a garantire la conformità urbanistico-edilizia del manufatto:
- così Cons. Stato, sez. 5, 28.03.1980, n. 327 affermava che "il rilascio del certificato di abitabilità…presuppone l'accertamento dell'inesistenza di cause di insalubrità dell'edificio senza alcun collegamento col conseguimento di fini di carattere edilizio-urbanistico; pertanto, il rilascio di tale certificato non incide sul potere del Sindaco di reprimere gli abusi edilizi eventualmente commessi nella realizzazione del fabbricato dichiarato abitabile";
- Cons. Stato, sez. 5, 19.02.1982, n. 118 affermava, a sottolineare la specifica funzione dell’atto, che "la licenza di abitabilità, rilasciata ai sensi dell'art. 221 t. u. 27.07.1934, n. 1265 (leggi sanitarie), è prescritta per la tutela della pubblica igiene; pertanto, è illegittimo il provvedimento negativo del sindaco fondato su motivi di ordine urbanistico";
- e Cons. Stato, sez. 5, 28.01.1993, n. 178, in Cons. Stato, 1993, I, 64, rilevava che "è illegittima la revoca del certificato di abitabilità -previsto dall'art. 221, comma 1, t.u. 27.07.1934, n. 1265 e finalizzato esclusivamente a scopi di carattere igienico-sanitario- se motivata esclusivamente con la difformità dell'edificio realizzato dal progetto approvato con la licenza di costruzione, in quanto il controllo della rispondenza della costruzione con quanto autorizzato è esercitato dal sindaco mediante i poteri di cui all'art. 32, L. 17.08.1942, n. 1150".
Dunque la giurisprudenza riferita all’art. 221 del r.d. n. 1265 del 1934 è esplicita nell’evidenziare che la funzione della licenza di agibilità, e l’interesse pubblico cui essa ha riguardo, attiene a profili della agibilità/abitabilità e non specificamente al profilo urbanistico.
Ciò non esclude che la valutazione effettuata in sede di agibilità (come anzi sia l’art. 221 cit. che l’art. 20 del Regolamento comunale dell’epoca richiamato dalla ricorrente) presupponesse anche una verifica di conformità edilizia (il citato art. 221 parla di costruzione “eseguita in conformità del progetto approvato”); ma si tratta di una verifica edilizia funzionale al rilascio della agibilità e svolta quindi nei limiti necessari a inferirne l’assentibilità della agibilità; ben diverso e distinto è il profilo della piena conformità edilizia in quanto tale, sul piano dei titoli edilizi, che non appare ricavabile da un incidentale accertamento compiuto in sede di rilascio della licenza di agibilità.
In altre parole, quando il verbale del 23.01.1980 (doc. 5 di parte ricorrente) afferma la corrispondenza ai progetti approvati del fabbricato realizzato, effettua una valutazione funzionale alla sola attestazione della agibilità, ma dalla quale non è ricavabile un riconoscimento della avvenuta sanatoria sul piano edilizio delle opere stesse.
Si aggiunga che all’epoca, prima cioè dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985, l’istituto dell’accertamento di conformità non era ancora stato introdotto dal nostro legislatore, il che rende ancor più illogico voler ritenere manifestata in via implicita una volontà sanante, sul piano strettamente edilizio; d’altra parte quando poi tale istituto è stato introdotto non risulta che il ricorrente abbia provveduto a valersene, per far acclarare in modo pieno e diretto la sanabilità edilizia della difformità realizzata (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 28.01.2014 n. 177 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

Ed ancora di interesse ...

EDILIZIA PRIVATA: Sull'impugnazione dell’ordinanza sindacale con la quale è stata disposta la chiusura dell’esercizio commerciale di ristorante in quanto esercitato in locale da ritenersi abusivo e, pertanto, sprovvisto del certificato di abitabilità di cui all’art. 221 del R.D. n. 1265 del 1934.
Tanto il certificato di agibilità dei locali quanto l'autorizzazione sanitaria sono requisiti necessari allo svolgimento dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande; la circostanza che, pertanto, fosse intervenuto, nel caso di specie, il rilascio dell’autorizzazione sanitaria e dell’autorizzazione commerciale –ma non del certificato di abitabilità- non consente di ritenere che la relativa attività potesse essere esercitata nei locali di cui trattasi.
Quanto alla richiamata nota del dirigente sanitario della U.S.L., essa costituisce soltanto un certificato descrittivo dell’immobile di cui trattasi con valenza eventualmente di mero parere preventivo, essendo di competenza esclusiva del Sindaco il rilascio del certificato di agibilità.
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Ciò che rileva è la circostanza che l’impugnata ordinanza sia stata adottata da parte del Comune ai sensi del combinato disposto degli artt. 221 e 222 del T.U.L.S.
Il richiamato articolo 221 dispone che: “Gli edifici o parti di essi indicati nell'articolo precedente non possono essere abitati senza autorizzazione del podestà, il quale la concede quando, previa ispezione dell'ufficiale sanitario o di un ingegnere a ciò delegato, risulti che la costruzione sia stata eseguita in conformità del progetto approvato, che i muri siano convenientemente prosciugati e che non sussistano altre cause di insalubrità. …”.
Il successivo art. 222, dispone a sua volta che: “Il podestà, sentito l'ufficiale sanitario o su richiesta del medico provinciale, può dichiarare inabitabile una casa o parte di essa per ragioni igieniche e ordinarne lo sgombero.“.
Va subito rilevato che l'autorizzazione (o licenza) di agibilità -introdotta dal richiamato articolo 221 in un'epoca in cui le prescrizioni urbanistiche erano pressoché inesistenti- riguarda solo la salubrità "degli ambienti", e quindi l'edificio in sé stesso considerato, ossia il solo manufatto edilizio.
Va rilevato ancora che il rilascio del cosiddetto certificato di agibilità sanitaria è prescritto da tale disposizione con riguardo non soltanto agli immobili ad uso strettamente abitativo, ma anche a quelli adibiti (o da adibire) a scopi diversi, purché l'attività che vi si dovrà svolgere preveda comunque un uso che comporti la frequentazione da parte delle persone: la frase "gli edifici o parti di essi non possono essere abitati senza autorizzazione” va infatti interpretata in senso estensivo, attese le finalità che la legge chiaramente si prefigge, che sono quelle di evitare danni alle persone che si trovino ad intrattenersi in locali che, qualora non sottoposti ad adeguato controllo da parte dell'autorità sanitaria, potrebbero non avere determinate caratteristiche di igienicità, salubrità, sufficiente areazione ecc..
L'indagine che il sindaco è chiamato a svolgere per il rilascio dell'autorizzazione di cui all'art. 221 è, pertanto, finalizzata al solo accertamento della conformità della costruzione al progetto approvato e della mancanza di cause di insalubrità limitate alla costruzione edilizia in sé considerata.
Va poi aggiunto che, secondo l’orientamento della giurisprudenza, l'atto propulsivo per il rilascio della licenza di abitabilità di un immobile deve muovere dal titolare della relativa concessione edilizia e la data della conseguita abitabilità è sempre quella di rilascio del relativo provvedimento autorizzatorio ex art. 221 T.U.L.S..
Tale disposizione, pertanto, legittima il divieto di prosecuzione dell'attività in locali privi di abitabilità; e legittimamente l'amministrazione –ai sensi dell’articolo medesimo- dispone l'ordine di sgombero di un'immobile in caso di mancanza della licenza di agibilità, che costituisce appunto presupposto indispensabile perché un locale possa essere frequentato, a prescindere dalla effettiva salubrità, igienicità ed incolumità del locale stesso.

Con il ricorso in trattazione la società ricorrente ha impugnato l’ordinanza del Sindaco del Comune di Gaeta n. 243/1994, con la quale è stata disposta la chiusura dell’esercizio commerciale di ristorante, ubicato al primo piano del complesso alberghiero denominato “Hotel A.”, sito nel Comune di Gaeta, in quanto esercitato in locale da ritenersi abusivo e, pertanto, sprovvisto del certificato di abitabilità di cui all’art. 221 del R.D. n. 1265 del 1934.
Il ricorso è infondato nel merito per le considerazioni che seguono.
Dall’esame della documentazione versata in atti dalle parti del giudizio emerge come il locale che interessa, ossia il piano primo dell’immobile, fosse da ritenersi, al momento dell’adozione del provvedimento impugnato, abusivo, in quanto realizzato in difformità alla relativa licenza edilizia e non ammesso a concessione edilizia in sanatoria; tanto è vero che il certificato di agibilità è stato rilasciato da parte del Comune, in data 19.06.1989, limitatamente agli altri due piani dell’immobile, ossia il piano seminterrato ed il piano terra, con riguardo ai quali era stato rilasciato il condono.
E’ circostanza incontestata che il piano primo dell’immobile sia privo del relativo certificato di agibilità: risulta infatti che la società ricorrente ha provveduto a richiederne il rilascio soltanto in data 26.07.1994.
Né si può ritenere rilevante, sul punto, il richiamo alla nota del dirigente sanitario della U.S.L. LT/6 di cui al prot. n. 230 dell’11.05.1988, avente ad oggetto il certificato di cui al D.P.R. n. 1437 del 30.12.1970, con il quale, osserva la società ricorrente, è stata attestata l’agibilità dell’immobile nella sua interezza, con riguardo allo svolgimento dell’attività alberghiera. Altrettanto irrilevante deve ritenersi il riferimento sia alla successiva nota, prot. n. 1030 del 03.07.1989, con cui il medesimo dirigente ha espresso parere favorevole -in ordine all’idoneità igienico-sanitaria dei locali e delle attrezzature per la ristorazione- ai fini del rilascio dell’autorizzazione sanitaria (a condizione dell’allaccio del fabbricato alla fognatura dinamica comunale entro sei mesi); sia al conseguente rilascio, da parte del Sindaco del Comune di Gaeta, dell’autorizzazione sanitaria ai fini della ristorazione (n. 223 del 06.07.1989).
Gli atti richiamati non hanno infatti efficacia dirimente nei sensi prospettati da parte della difesa della società ricorrente.
Al riguardo si premette che tanto il certificato di agibilità dei locali, quanto l'autorizzazione sanitaria sono requisiti necessari allo svolgimento dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande; la circostanza che, pertanto, fosse intervenuto, nel caso di specie, il rilascio dell’autorizzazione sanitaria e dell’autorizzazione commerciale –ma non del certificato di abitabilità- non consente di ritenere che la relativa attività potesse essere esercitata nei locali di cui trattasi.
Quanto alla richiamata nota del dirigente sanitario della U.S.L. in data 11.05.1988, essa costituisce soltanto un certificato descrittivo dell’immobile di cui trattasi con valenza eventualmente di mero parere preventivo, essendo di competenza esclusiva del Sindaco il rilascio del certificato di agibilità.
Ciò che invece rileva è la circostanza che l’impugnata ordinanza sia stata adottata da parte del Comune ai sensi del combinato disposto degli artt. 221 e 222 del T.U.L.S.
Il richiamato articolo 221 dispone che: “Gli edifici o parti di essi indicati nell'articolo precedente non possono essere abitati senza autorizzazione del podestà, il quale la concede quando, previa ispezione dell'ufficiale sanitario o di un ingegnere a ciò delegato, risulti che la costruzione sia stata eseguita in conformità del progetto approvato, che i muri siano convenientemente prosciugati e che non sussistano altre cause di insalubrità. …”.
Il successivo art. 222, dispone a sua volta che: “Il podestà, sentito l'ufficiale sanitario o su richiesta del medico provinciale, può dichiarare inabitabile una casa o parte di essa per ragioni igieniche e ordinarne lo sgombero.“.
Va subito rilevato che l'autorizzazione (o licenza) di agibilità -introdotta dal richiamato articolo 221 in un'epoca in cui le prescrizioni urbanistiche erano pressoché inesistenti- riguarda solo la salubrità "degli ambienti", e quindi l'edificio in sé stesso considerato, ossia il solo manufatto edilizio.
Va rilevato ancora che il rilascio del cosiddetto certificato di agibilità sanitaria è prescritto da tale disposizione con riguardo non soltanto agli immobili ad uso strettamente abitativo, ma anche a quelli adibiti (o da adibire) a scopi diversi, purché l'attività che vi si dovrà svolgere preveda comunque un uso che comporti la frequentazione da parte delle persone: la frase "gli edifici o parti di essi non possono essere abitati senza autorizzazione” va infatti interpretata in senso estensivo, attese le finalità che la legge chiaramente si prefigge, che sono quelle di evitare danni alle persone che si trovino ad intrattenersi in locali che, qualora non sottoposti ad adeguato controllo da parte dell'autorità sanitaria, potrebbero non avere determinate caratteristiche di igienicità, salubrità, sufficiente areazione ecc. (Cassazione penale, sez. I, 05.04.1996, n. 5588).
L'indagine che il sindaco è chiamato a svolgere per il rilascio dell'autorizzazione di cui all'art. 221 è, pertanto, finalizzata al solo accertamento della conformità della costruzione al progetto approvato e della mancanza di cause di insalubrità limitate alla costruzione edilizia in sé considerata.
Va poi aggiunto che, secondo l’orientamento della giurisprudenza, l'atto propulsivo per il rilascio della licenza di abitabilità di un immobile deve muovere dal titolare della relativa concessione edilizia e la data della conseguita abitabilità è sempre quella di rilascio del relativo provvedimento autorizzatorio ex art. 221 T.U.L.S. (Consiglio di Stato, sez. IV, 04.08.1986, n. 538).
Tale disposizione, pertanto, legittima il divieto di prosecuzione dell'attività in locali privi di abitabilità (cfr. TAR Sardegna, Cagliari, 06.02.2002, n. 115); e legittimamente l'amministrazione –ai sensi dell’articolo medesimo- dispone l'ordine di sgombero di un'immobile in caso di mancanza della licenza di agibilità, che costituisce appunto presupposto indispensabile perché un locale possa essere frequentato, a prescindere dalla effettiva salubrità, igienicità ed incolumità del locale stesso (TAR Lombardia, Milano, sez. I, 16.11.2001, n. 7283).
Per quanto attiene, poi, alla lamentata commistione di profili diversi, quello commerciale e quello urbanistico-edilizio, è senza dubbio vero che solo l’art. 4 del decreto legge 05.10.1993, n. 398, ha testualmente esteso i controlli da effettuare ai fini del rilascio della licenza di abitabilità all'accertamento della conformità urbanistico-edilizia, mentre l’articolo 221, ai medesimi fini, postulava la verifica dell'inesistenza di cause di insalubrità dell'edificio, senza alcun collegamento con finalità di carattere edilizio-urbanistico, riservando comunque all'Amministrazione comunale il potere di reprimere gli abusi edilizi, ancorché fosse stato rilasciato il certificato di abitabilità.
E’ però da rilevare come, nel caso di specie, il provvedimento impugnato sia stato adottato dopo l’entrata in vigore della richiamata innovativa disciplina. In ogni caso, oggetto d’impugnazione non è il diniego del rilascio del certificato di agibilità ai sensi dell’art. 221 per motivi inerenti interessi edilizi ed urbanistici, bensì l’ordine di sgombero fondato sulla mancanza da parte della società ricorrente del certificato di agibilità.
E la circostanza che la società ricorrente fosse priva del detto certificato è dimostrato ancora di più dall’intervenuta richiesta formulata da parte della stessa al Comune ai predetti fini (e concernente, pertanto, specificatamente il piano primo dell’immobile di cui trattasi) soltanto alla data del 26.07.1994.
Né si ritiene che la semplice presentazione della detta istanza fosse sufficiente non essendosi ancora concluso il relativo procedimento alla data di adozione del provvedimento impugnato.
In tal senso, infatti, non vale il richiamo all’art. 43, co. 2, del D.P.R. 30.05.1989, n. 223, rubricato “Obblighi dei proprietari di fabbricati.”, il quale dispone testualmente che: ”1. Gli obblighi di cui all'art. 42 devono essere adempiuti non appena ultimata la costruzione del fabbricato.
2. A costruzione ultimata e comunque prima che il fabbricato possa essere occupato, il proprietario deve presentare al comune apposita domanda per ottenere sia l'indicazione del numero civico, sia il permesso di abitabilità se trattasi di fabbricato ad uso di abitazione, ovvero di agibilità se trattasi di fabbricato destinato ad altro uso. …
”,
E’ infatti da rilevare che, in forza di quanto previsto dal richiamato articolo, l’assegnazione della numerazione civica presuppone, al pari della abitabilità, l’esistenza di un titolo edilizio in base al quale la costruzione è stata realizzata (TAR Lombardia Milano, sez. II, 20.03.2009, n. 1954).
Per le considerazioni che precedono, peraltro, si ritiene, altresì, infondato il primo motivo di censura con il quale è stata dedotta la violazione dell’art. 7 della L. n. 241 del 1990 per la mancata previa comunicazione dell’avvio procedimentale, atteso che ai sensi dell'articolo 21-octies, comma 2, seconda parte, della legge n. 241 del 1990, “Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
Nel caso di specie –proprio in considerazione della mancanza del certificato di agibilità, circostanza dimostrata in giudizio- il Comune non poteva se non procedere all’adozione del provvedimento di sgombero del locale ai sensi del richiamato art. 222 del T.U.L.S..
Il ricorso va dunque respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 04.02.2011 n. 1074 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Indirizzi applicativi della L.R. 28.11.2014, n. 31 “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato” (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo, circolare 24.03.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Compendio di normativa ambientale. Edizione num. 5 – anno 2015 (ANCE di Bergamo, circolare 20.03.2015 n. 73).

INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto: Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) – Determinazione n. 4/2015 – Linee guida per l’affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria (Consiglio Nazionale degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori, circolare 16.03.2015 n. 36).

EDILIZIA PRIVATA: Regione Lombardia, adozione modulistica edilizia unificata e semplificata.
La Conferenza Unificata Stato Regioni ed Enti Locali ha adottato per gli interventi di edilizia libera i moduli unificati e standardizzati per:
- Comunicazione di Inizio Lavori (CIL)
- Comunicazione di Inizio Lavori Asseverata (CILA)
- Permesso di Costruire
- Segnalazione Certificata di Inizio Attività edilizia (SCIA)
Regione Lombardia ha attivato un Tavolo Regionale di confronto sull’edilizia, al quale partecipano gli ordini professionali, le principali associazioni di categoria e l’ANCI, per adeguare i contenuti di questi moduli in relazione a specifiche normative regionali e di settore, come previsto dagli Accordi della Conferenza Unificata.
A seguito delle attività di valutazione e condivisione delle osservazioni e proposte presentate dai vari soggetti coinvolti, sarà inizialmente approvata la modulistica regionale CIL e CILA, alla quale i Comuni saranno tenuti ad adeguarsi. Nel frattempo proseguiranno i lavori del Tavolo per l’adeguamento del Permesso di Costruire e della Segnalazione Certificata di Inizio Attività edilizia (SCIA).
Regione Lombardia intende infine promuovere l’informatizzazione delle procedure edilizie sopra citate, definendo standard per l’interoperabilità tra sistemi informativi degli enti coinvolti e moduli standard regionali compilabili on-line. I comuni potranno così usufruire di procedure informatizzate con vantaggi in termini di tracciabilità e trasparenza dell’iter amministrativo sia per gli uffici che per i cittadini e forniranno alla Regione alcuni dati di sintesi per consentire il monitoraggio delle variazioni territoriali intervenute a seguito del rilascio dei titoli abilitativi.
A breve Regione Lombardia attiverà una ricognizione on-line sulle modalità di gestione delle procedure edilizie comunali.
I moduli unificati e semplificati adottati dalla Conferenza Unificata Stato Regioni ed Enti Locali sono disponibili on-line al sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
La modulistica regionale per la CIL e per la CILA verrà resa disponibile in seguito all’approvazione da parte della Giunta Regionale,
prevista entro fine aprile 2015 (16.03.2015 - link a www.territorio.regione.lombardia.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAOggetto: Modalità operative per l'attuazione dell'allegato 6 al D.M. 161/2012 "Documento di trasporto". Comunicazioni (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, nota 16.05.2014 n. 14640 di prot.).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Corte Costituzionale - La regola del concorso non vale solo a parole (CGIL-FP di Bergamo, nota 19.03.2015).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

TRIBUTI: G.U. 25.03.2015 n. 70, suppl. ord. n. 15/L, "Testo del decreto-legge 24.01.2015, n. 4, coordinato con la legge di conversione 24.03.2015, n. 34, recante: «Misure urgenti in materia di esenzione IMU. Proroga di termini concernenti l’esercizio della delega in materia di revisione del sistema fiscale»".

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 23.03.2015 n. 68 "Regolamento recante criteri semplificati per la caratterizzazione, messa in sicurezza e bonifica dei punti vendita carburanti, ai sensi dell’articolo 252, comma 4, del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152" (Ministero dell'Ambiente ed elle Tutela del Territorio e del Mare, decreto 12.02.2015 n. 31).

ENTI LOCALI: G.U. 21.03.2015 n. 67 "Differimento dal 31.03.2015 al 31.05.2015 del termine per la deliberazione del bilancio di previsione per l’anno 2015 degli enti locali" (Ministero dell'Interno, decreto 16.03.2015).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 12 del 20.03.2015 "Criteri e modalità per il rilascio dell’autorizzazione per gli interventi di valorizzazione del patrimonio minerario dismesso, ai sensi dell’articolo 6, comma 4, della legge regionale 10.12.2009, n. 28 «Disposizioni per l’utilizzo e la valorizzazione del patrimonio minerario dismesso»" (Regolamento Regionale 17.03.2015 n. 2).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 12 del 20.03.2015 "Regolamento Albo regionale delle cooperative sociali, consorzi e organismi analoghi, ai sensi dell’art. 27 della l.r. n. 1/2008" (Regolamento Regionale 17.03.2015 n. 1).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 12 del 18.03.2015, "Approvazione delle «Linee guida in ordine alle modalità per le autorizzazioni, ai sensi dell’art. 60 del dpr 11.07.1980 n. 753, alla riduzione delle distanze legali dalla linea ferroviaria in concessione» e definizione degli oneri istruttori per il rilascio delle autorizzazioni (L.r. 6/2012, art. 37, comma 13, lettera b) e comma 14)" (deliberazione G.R. 16.03.2015 N. 3284).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni, parla l'ente. Va assicurata la presenza di tutti i gruppi. La materia è rimessa all'autonomia regolamentare dei comuni.
In che modo devono essere rappresentati i gruppi consiliari all'interno delle commissioni consiliari? Deve essere rappresentato il gruppo di minoranza costituitosi successivamente all'insediamento del consiglio comunale? Quali criteri occorre adottare per rispettare la proporzionalità richiamata dall'art. 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (in particolare, art. 38, comma 3; art. 39, comma 4 e art. 125 del citato decreto legislativo). La materia, pertanto, è disciplinata dalle apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa riconosciuta ai consigli dal citato art. 38.
I mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, sono ammissibili. Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme, statutarie e regolamentari, nella materia.
Nella fattispecie in esame, in merito alla costituzione dei gruppi, il regolamento sul funzionamento del consiglio del comune si limita a rinviare a quanto previsto dallo statuto, inoltre stabilisce che «i consiglieri si possono costituire in gruppi composti da uno o più elementi».
Non essendo posto alcun limite da parte del regolamento, i gruppi unipersonali, anche se formati successivamente all'insediamento del consiglio e che non seguano il risultato delle elezioni, sembrano, pertanto, ammissibili.
In base a quanto disposto dall'art. 38, comma 6, del Tuel, anche le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse ne sia riprodotto il peso numerico e di voto.
Il legislatore non precisa come debba essere applicato il citato criterio di proporzionalità. È da ritenersi, pertanto, che spetti al regolamento, cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni, nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Secondo l'univoco e consolidato indirizzo giurisprudenziale, il criterio proporzionale può dirsi rispettato ove sia assicurata, in ogni commissione, la presenza di ciascun gruppo presente in consiglio in modo che, se una lista è rappresentata da un solo consigliere, questi deve essere presente in tutte le commissioni costituite (Tar Lombardia, Brescia, 04.07.1992, n. 796; Tar Lombardia Milano, 03.05.1996, n. 567), assicurando una composizione delle commissioni proporzionata all'entità di ciascun gruppo consiliare.
Ne consegue che gli eventuali mutamenti in corso di consiliatura nel rapporto tra maggioranza e minoranza consiliare, ovvero nella consistenza numerica dei gruppi, dovrebbero implicare una revisione, a cura del consiglio comunale, degli assetti preesistenti nelle commissioni consiliari, al fine di ripristinare il rispetto dei criteri a cui le stesse devono essere conformate.
Resta rimessa all'autonomia organizzativa dell'ente locale l'individuazione, anche mediante opportune integrazioni del vigente regolamento, del meccanismo tecnico, quale voto plurimo, voto ponderato o altro, reputato maggiormente idoneo ad assicurare a ciascun commissario un peso corrispondente a quello del gruppo che rappresenta.
Come rilevato nella citata sentenza del Tar Lombardia, Milano, n. 567/1996, infatti, il criterio proporzionale «è posto dal legislatore come direttiva suscettibile di svariate opzioni applicative, egualmente legittime purché coerenti con la ratio che quel principio sottende, e che consiste nell'assicurare in seno alle commissioni la maggiore rappresentatività possibile» (articolo ItaliaOggi del 20.03.2015).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Oggetto: criteri interpretativi in ordine alle disposizioni dell’artt. 38, comma 2-bis, e 46, comma 1-ter, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (comunicato del Presidente del 25.03.2015 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTIAppalti, varianti da segnalare anche nei settori speciali. Anticorruzione. Le istruzioni dell’Anac.
La comunicazione delle varianti all’Autorità nazionale anticorruzione deve essere dettagliata e accompagnata da tutta la documentazione richiesta, mentre i responsabili di procedimento devono sviluppare la procedura seguendo scrupolosamente le previsioni del Dpr 207/2010.
Il presidente dell’Anac è nuovamente intervenuto sulle modalità attuative dell’articolo 37 della legge 114/2014 (si veda Il Sole 24 Ore del 18 febbraio), rilevando che le comunicazioni effettuate finora hanno evidenziato significative carenze, soprattutto nei documenti allegati, dimostrando una gestione della procedura di variante da parte dei responsabili unici del procedimento non aderente alla normativa.
Il provvedimento precisa l’ambito applicativo, specificando che sono soggette all’obbligo di comunicazione anche le varianti dei lavori nei settori speciali, ossia quelli individuati dall’articolo 206 del Dlgs 163/2006 e realizzati nella quasi totalità dei casi dalle società partecipate che gestiscono i servizi in quei settori (idrico, gas, eccetera).
La nuova disciplina è finalizzata ad assicurare la chiarezza e la coerenza delle informazioni e degli atti da trasmettere, poiché l’Autorità ha rilevato che spesso i dati non sono facilmente desumibili dalla documentazione e non sempre risultano chiaramente organizzati, quando non sono «carenti o assenti». Queste criticità derivano in gran parte dal fatto che la documentazione è organizzata secondo procedure e modelli che si discostano da quelli previsti dal regolamento di attuazione del codice dei contratti.
Per rendere omogenei i contenuti della comunicazione prevista dall’articolo 37 del decreto Pa, quindi, il
comunicato del Presidente 17.03.2015 obbliga le amministrazioni a utilizzare un modulo specifico, ma prescrive anche che ciascuna comunicazione contenga essa stessa in allegato l’elenco generale della documentazione con eventuali codici di lettura e consultazione. Lo stesso elenco dovrà essere riportato nel supporto informatico e ogni documento elettronico dovrà recare un nome idoneo a identificarne i contenuti.
L’Anac ribadisce inoltre che ogni Cig (con relativo Cup) dovrà essere oggetto di una distinta trasmissione di variante, ma scende anche nel dettaglio dei contenuti della comunicazione. Il comunicato richiama i responsabili di procedimento ad applicare rigorosamente la procedura prevista dall’articolo 161, commi 7 e 8, del Dpr 207/2010, chiedendo che gli stessi operino effettivamente le analisi e le valutazioni richieste.
Ogni Rup deve in particolare mettere in relazione le cause della variante con le eventuali inadeguatezze dei dati e degli studi preliminari utilizzati per la progettazione, in tutti i livelli, ed esplicitare la valutazione dei pareri emessi da enti terzi (con eventuale specificazione relativa alle distonie emerse in conferenza di servizi) e valutare i rapporti tra la variante specifica e le eventuali varianti migliorative.
L’Anac evidenzia anche che in molte relazioni i responsabili del procedimento si siano limitati a recepire le indicazioni del direttore lavori, senza effettuare un accertamento concreto delle cause della variante.
Secondo l’Anac, invece, relazione del Rup deve dare puntuale evidenza del percorso logico seguito per accertare autonomamente le cause della variante e il corredo documentale sul quale è basato l’esame motivato dei fatti (in base all’articolo 161, comma 1, del Dpr 207/2010). E il responsabile deve esplicitare questi aspetti dopo aver ricostruito tutte le fasi del procedimento
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Controlli Anac più incisivi sulle varianti. Appalti pubblici. L’Authority detta le linee guida.
Un modello standard per la comunicazione delle varianti in corso d’opera, che impone l’invio di una ricca serie di documenti su tutti gli aspetti dell’appalto e viene espressamente esteso ai cosiddetti “settori speciali” come acqua, gas e rifiuti, quelli regolati dalla parte terza del Codice dei contratti pubblici.
A fissare i nuovi obblighi è l’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, che nel
comunicato del Presidente 17.03.2015 impone un elenco puntuale di vincoli di trasparenza per attuare davvero una norma finora frenata da una resistenza diffusa da parte delle stazioni appaltanti.
Le varianti, si sa, sono una delle patologie più gravi dei contratti pubblici, che spesso sono aggiudicati con il criterio del massimo ribasso ma poi vedono lievitare il loro prezzo in corso d’opera. Per indagare il fenomeno era intervenuto l’anno scorso il decreto Madia (Dl 90/2014, articolo 37) chiedendo alle stazioni appaltanti di comunicare all’Anac i dati sulle varianti.
La regola scritta dal Governo prevedeva un monitoraggio su tutti gli appalti di lavori, ma il Parlamento l’ha cambiata riservando l’obbligo alle variazioni superiori al 10% del prezzo originario negli appalti di valore superiore alla soglia comunitaria (5,2 milioni nei lavori, e 134mila-404mila euro nei servizi, a seconda del settore; per i contratti inferiori alla soglia comunitaria le comunicazioni vanno indirizzate agli osservatori regionali degli appalti pubblici). Anche in questa versione, l’obbligo ha prodotto comunicazioni che l’Anac giudica fumose, caratterizzate da documentazione spesso «carente o assente», e ha deciso di vederci chiaro. In due modi.
Prima di tutto, l’Autorità ridefinisce, ampliandoli, i confini degli appalti interessati dall’obbligo, spiegando per esempio che la comunicazione va inviata anche in caso di “varianti ripetute”, che nel loro insieme superano il 10% del prezzo originario. In questo modo si chiude la strada a tentativi elusivi, realizzati moltiplicando le “correzioni” sullo stesso aspetto all’appalto originario per tenersi sotto il tetto del 10% ed evitare così le verifiche dell’Anac.
Lo stesso accade per il “cumulo di varianti”, creato da interventi di più fattispecie di cui almeno una rientri nel raggio d’azione dell'obbligo di trasparenza. L’Autorità, inoltre, decide espressamente di mettere gli occhi anche sui “settori speciali”, cioè gas, acqua, elettricità, e sui contratti misti (lavori più servizi), quando l’importo della parte relativa ai lavori supera la soglia comunitaria.
La seconda mossa dell'Autorità punta a evitare che le stazioni appaltanti producano un rispetto solo formale degli obblighi di trasparenza, senza mettere in condizione l'Anac di effettuare una verifica effettiva. Per questa ragione, vengono fissati nuovi standard nella comunicazione, che dovrà essere distinta per ogni singola gara (distinta per codice identificativo) e dovrà produrre verbale di consegna e di sospensione dei lavori, pareri del progettista, del verificatore, del collaudatore, insomma tutti i documenti necessari a una radiografia completa della variante.
Sotto esame verranno messe anche le relazioni obbligatorie del responsabile del procedimento che «spesso –come si legge nel documento Anac– riprende acriticamente le motivazioni del direttore dei lavori, facendo venir meno il rigore dell’accertamento»: e se il responsabile non controlla, tocca all'Anac sostituirlo
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.03.2015).

INCARICHI PROGETTUALINelle gare di ingegneria va indicata la parcella.
Nelle gare di ingegneria e di architettura l'amministrazione deve sempre allegare il calcolo della parcella per consentire ai concorrenti di verificare l'esatta determinazione dell'importo; negli affidamenti di valore inferiore a 100.000 euro va applicato il principio di rotazione degli incarichi e rispettato il divieto di cumulo di incarichi al di sopra di un determinato importo; vietato l'affidamento di «consulenze di ausilio alla progettazione».

Sono queste alcune delle indicazioni di maggiore rilievo contenute nella determinazione 25.02.2015 n. 4 dell'Autorità nazionale anticorruzione recante le «Linee guida per l'affidamento dei servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria».
Il provvedimento, che aggiorna e rivede, ma non sostituisce, le linee guida contenute nella determina n. 5 del 27.07.2010 affronta in particolare l'importante aspetto dei corrispettivi da porre a base di gara alla luce delle disposizioni contenute nel dm 143 del 2013, disciplina che nel 2010 non era ancora stata emanata e che era stata preceduta dall'abrogazione delle tariffe professionali disposta nel 2012 (art. 9 dl 1/2012).
Su questo punto l'Anac ribadisce non soltanto l'obbligo per ogni stazione appaltante di applicare il decreto ministeriale, sia per le gare di servizi di ingegneria e architettura, sia per gli «appalti integrati» (appalti di progettazione ed esecuzione), ma anche che l'amministrazione «è obbligata a riportare nella documentazione di gara il procedimento adottato per il calcolo dei compensi posti a base di gara».
Ciò deve avvenire per «motivi di trasparenza e correttezza» in maniera da consentire «ai potenziali concorrenti di verificare la congruità dell'importo fissato, l'assenza di eventuali errori di interpretazione o calcolo» e, non ultimo, che non sia violato l'obbligo di definire un importo a base di gara che non sia superiore al valore delle abrogate tariffe professionali. La rilevanza dell'indicazione risiede nel fatto che molto spesso il dm 143 non viene applicato e, quando lo è, il calcolo del corrispettivo molto più basso (si arriva a sottostime anche del 40%).
Un altro profilo di interesse attiene agli incarichi al di sotto dei 100.000 euro: in questo caso le stazioni appaltanti devono rispettare il principio di rotazione degli incarichi, fare rispettare il divieto di cumulo «al di sopra di un certo importo» e correlare l'esperienza pregressa richiesta al progettista con le tipologie progettuali individuate (articolo ItaliaOggi del 20.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA: Riflessi a 360° sugli ecoreati.
Appare tecnicamente applicabile alla maggior parte delle attuali fattispecie di eco-reato il nuovo istituto sulla non punibilità degli illeciti dall'impatto giudicato irrilevante, previsto dal dlgs 16.03.2015 n. 28.

Il provvedimento (pubblicato sulla G.U. del 18.03.2015 n. 64 e in vigore dal prossimo 2 aprile) sancisce, sussistendo la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità della condotta, l'esclusione della punibilità per i reati sanzionati con pena pecuniaria o detentiva non superiore a cinque anni e interessa potenzialmente la quasi totalità degli illeciti previsti da Codice ambientale e altri provvedimenti di settore nonché ad alcuni reati previsti dal Codice penale e declinati in via giurisprudenziale sull'eco-sistema.
Il nuovo istituto. Il decreto arricchisce le «cause di esclusione della punibilità» previste dal sistema penale, quali circostanze che inibiscono l'applicazione delle sanzioni previste per la commissione di una determinata condotta illecita pur non escludendo l'antigiuridicità della stessa (che resta, quindi, reato); e ciò a differenza delle più note «cause di giustificazione» (come la legittima difesa) che escludono invece proprio l'illiceità del fatto compiuto (il quale, dunque, non costituisce reato).
Quando è applicabile. Il nuovo istituto, inserito direttamente nel codice penale (nuovo articolo 131-bis, dalla rubrica «Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto»), è applicabile concorrendo due insiemi di condizioni, ossia: il reato è sanzionato con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni ovvero con pena pecuniaria, sola o congiunta alla prima (dunque, sempre dentro il predetto periodo temporale); sussistano congiuntamente le caratteristiche (che il giudice dovrà valutare utilizzando i parametri stabiliti dall'articolo 133, c.p.) di «particolare tenuità dell'offesa» e non abitualità della condotta.
Fissate tali condizioni base, il Legislatore stabilisce però una serie di «contro condizioni» che valgono a ritagliare ulteriormente il campo di applicazione della disciplina deflativa. In primo luogo, ai fini della determinazione della effettiva pena detentiva irrogabile, si dovrà comunque tener conto delle circostanze aggravanti (ex articolo 63, c.p.) che stabiliscono pene di specie diversa (tra cui per esempio quelle previste dal comma 2, articolo 635 c.p.) come delle circostanze a effetto speciale (che impongono un aumento di pena superiore a un terzo), e questo senza possibilità di bilanciarle con le attenuanti.
Ancora, la «particolare tenuità dell'offesa» dovrà considerarsi ex lege esclusa per gli illeciti integrati con crudeltà (anche in danno ad animali), sevizie, commessi per motivi abietti o futili, ovvero approfittando della minorata difesa della vittima, così come nel caso in cui dalla condotta siano derivate, anche quali conseguenze non volute, la morte o la lesione gravissima di persone. La stessa «non abitualità» dovrà infine essere esclusa in presenza di delinquenti dichiarati tali, professionali o per tendenza, in caso di recidiva o di commissione di reati che abbiano a oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.
Le conseguenze. Ove ritenuta sussistente già all'esito delle indagini preliminari, la nuova causa di esclusione della punibilità potrà portare alla chiusura del procedimento già prima del processo: la richiesta di archiviazione del Pubblico ministero sarà infatti sì opponibile sia dall'indagato (evidentemente per dimostrare la propria totale innocenza, ed evitare l'iscrizione del potenziale provvedimento di non punibilità nel casellario giudiziario con valenza sulle eventuali recidive) che dalla persona offesa (interessata al prosieguo del procedimento, anche per l'eventuale costituzione di parte civile), ma al di fuori del provocare la necessaria udienza di valutazione, non ne inibirà l'accoglimento da parte al giudice, con la conseguenza della piena impunità dell'indagato (salvo l'emergere di nuovi elementi idonei alla riapertura delle indagini).
Ove, invece, la sussistenza delle citate condizioni di non punibilità dovesse essere accertata in esito di rituale processo dibattimentale, essa sfocerà (in luogo di un decreto o ordinanza di archiviazione) in una sentenza di proscioglimento che non avrà però carattere assolutorio ma (per espressa disposizione del nuovo articolo 651-bis inserito nel Codice di procedura penale) di accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità e della riconducibilità della condotta all'imputato, con la conseguenza (una volta irrevocabile) di lasciare aperta la strada a risarcimento del danno e restituzioni in successivi ed eventuali giudizi civili e amministrativi. In virtù del principio del «favor rei» ex articolo 2 del codice penale, il nuovo meccanismo interesserà anche gli illeciti commessi prima della sua entrata in vigore ancora non oggetto di giudizio definitivo.
I riflessi sugli attuali reati ambientali... Come accennato, il nuovo istituto promette ampie ripercussioni sulla platea dei reati ambientali. A parte i delitti di combustione illecita di rifiuti pericolosi ex 256-bis e di attività organizzata per il traffico illecito dei rifiuti ex articolo 260 del dlgs 152/2006, sono infatti astrattamente riconducibili sotto il nuovo istituto le altre condotte punite dallo stesso Codice ambientale in materia di autorizzazione integrata ambientale, valutazione di impatto ambientale, tutela di suolo, acque e aria, gestione rifiuti (Sistri compreso), bonifica siti inquinati.
Così come potranno finire nell'ingranaggio deflativo gli illeciti previsti da alcuni provvedimenti satellite del dlgs 152/2006 (si pensi a quelli ex dlgs 49/2014 sulla gestione dei tecno-rifiuti) e da altre norme di settore, come quelle a tutela di vincoli paesaggistici e ambientali, contenimento dell'inquinamento sonoro e tutela delle aree protette. Parallela sorte è prevedibile per i più generali reati di «getto pericoloso di cose» (articolo 674) e «danneggiamento» (635) previsti dal codice penale.
... E sui (probabili) futuri eco-delitti. A spostare nuovamente l'ago della bilancia potrà tuttavia contribuire la riforma degli eco-reati prevista dal già noto disegno di legge in itinere recante «Disposizioni in materia di delitti contro l'ambiente». Il provvedimento, già licenziato con modifiche dal senato il 03.03.2015 e ora di nuovo all'esame della camera, prospetta un cambio di marcia nella lotta agli eco-reati, affiancando alle attuali ipotesi contravvenzionali previste dal codice ambientale nuove figure delittuose collocate direttamente nel codice penale, alcune delle quali sfuggiranno, per la pena edittale prevista, al nuovo istituto.
In base all'attuale schema di ddl in corso di approvazione, non rientrerebbero nel campo di applicazione del meccanismo deflativo i delitti di «inquinamento ambientale» doloso (punito con la reclusione fino a 6 anni e multa fino a 100 mila euro), «disastro ambientale» (fino a 15 anni), traffico o abbandono materiale ad alta radioattività (reclusione fino a 6 anni e multa fino a 50 mila euro); mentre potrebbero goderne (ricorrendone le condizioni) quelli di impedimento di controlli ambientali (reclusione fino a 3 anni), omessa bonifica (reclusione fino a 4 anni e multa fino a 80 mila euro), utilizzo della tecnica «air gun» o altra esplosiva per l'ispezione dei fondali marini (reclusione fino a 3 anni) (articolo ItaliaOggi Sette del 23.03.2015).

EDILIZIA PRIVATACambi d’uso, leggi in tre Regioni. Al di fuori di Liguria, Umbria e Toscana i mutamenti sono liberi entro la stessa categoria. Sblocca Italia. Il punto sul recepimento del decreto che liberalizza le modifiche di destinazione ma fa salvi i limiti dei Prg.
Solo tre Regioni -Liguria, Toscana e Umbria- hanno risposto all’appello e adeguato la propria legislazione ai principi dettati dall’articolo 23-ter del Testo unico dell’edilizia, rispettando così il termine del 10 febbraio previsto dall’articolo 17, comma 1, lettera a), del Dl 133/2014 (Sblocca Italia).
Il recepimento parziale permette di fare il punto sullo stato di attuazione della riforma sul cambio di destinazione d’uso e di capire cosa succede nelle 19 Regioni che non si sono mosse e in quelle che si dovessero adeguare tardivamente.
Secondo lo Sblocca Italia è mutamento d’uso “urbanisticamente rilevante” «ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati a una diversa categoria funzionale tra le seguenti»:
a) residenziale;
a-bis) turistico-ricettiva;
b) produttiva e direzionale;
c) commerciale;
d) rurale».
L’articolo 23-ter fa espressamente salve le diverse previsioni delle leggi regionali, specificando che le Regioni sono chiamate ad adeguare la propria legislazione entro 90 giorni. Decorso questo termine, «trovano applicazione diretta le disposizioni del presente articolo». L’articolo 23-ter precisa infine che, salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d’uso all’interno delle cinque categorie funzionali appena indicate è sempre consentito.
Si è già avuto modo di osservare che, in questo modo, della riforma del cambio d’uso resta poca cosa (si veda «Il Sole 24 Ore» del 15.12.2014). Lo Sblocca Italia, infatti, rimette comunque alla disciplina regionale, e in definitiva agli strumenti urbanistici comunali, il compito di stabilire nel dettaglio quali siano le destinazioni d’uso ammissibili in ogni singolo edificio.
La conclusione pare valere anche per le Regioni che dovessero legiferare tardivamente, perché l’articolo 23-ter, mentre afferma che decorso il termine la normativa nazionale diviene automaticamente efficace, non dice che da quel dì la potestà legislativa regionale si esaurisce, cosa che del resto la norma non potrebbe fare senza ledere le prerogative costituzionali delle Regioni.
Per le Regioni, dunque, non è dunque mai troppo tardi per intervenire. Non solo, rispetto all’individuazione dei casi concreti in cui il cambio d’uso è ammesso, la disciplina statale è comunque recessiva rispetto a quella regionale e comunale previgente all’articolo 23-ter. Nella materia del governo del territorio in cui allo Stato compete l’individuazione dei principi fondamentali, la disposizione dell’articolo 23-ter per cui restano salve le diverse previsioni «delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali» sembrerebbe prevalere sulla disposizione in base alla quale, una volta decorso il termine dell’adeguamento, «trovano applicazione diretta le disposizioni del presente articolo».
Quanto appare, invece, immediatamente prevalere sulla disciplina locale è l’indicazione (che si trae dall’epigrafe della norma in commento) per cui non sono cambi d’uso “urbanisticamente rilevanti” i mutamenti che avvengono tra le destinazioni collocate nella stessa categoria funzionale. Tali cambi d’uso non modificano il carico urbanistico (in termini di necessità di aree a servizi pubblici, il cosiddetto standard urbanistico) dell’edificio cui accedono, con la conseguenza che per essi i Comuni non potrebbero richiedere la cessione o la monetizzazione di nuove aree a standard.
La non necessità di adeguare lo standard per i cambi d’uso entro le medesime categorie nazionali pare allora valere quale principio dettato dal legislatore nazionale. La previsione si pone in linea con il favor che la normativa statale, anche dietro impulso comunitario, riconosce alla rigenerazione del patrimonio edilizio esistente. Resta invece dovuto il pagamento dell’ordinario contributo di costruzione qualora il cambio d’uso avvenga con interventi di per sé onerosi.
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Possibilità limitate a livello locale. Sul territorio. Classificazioni più articolate.
Tutte e tre le Regioni che hanno legiferato entro il termine stabilito dallo Sblocca-Italia hanno introdotto categorie funzionali ulteriori rispetto a quelle del Dl, così limitando le possibilità di cambio d’uso previste dal legislatore nazionale. L’equiparazione tra direzionale e produttivo è stata rispettata solo in Liguria. Nessuna delle leggi ha preso espressamente posizione rispetto al carico urbanistico indotto dal cambio d’uso rispetto alle funzioni ricadenti nelle medesima delle categorie funzionali delineate dallo Sblocca Italia.
La Liguria, (lr 41/2014) ha stabilito che «costituiscono mutamenti della destinazione d’uso rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio le forme di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare comportanti il passaggio a una diversa categoria funzionale tra le seguenti, anche se non accompagnate da opere edilizie: a) residenza; b) turistico-ricettiva; c) produttiva e direzionale; d) commerciale; e) rurale; f) autorimesse e rimessaggi; g) servizi pubblici anche convenzionati».
È sempre ammesso «il passaggio all’interno di una delle categorie funzionali di cui al comma 1 ad una delle forme di utilizzo ivi indicate» (articolo 13, comma 2). I piani urbanistici comunali possono limitare gli interventi comportanti il passaggio da una forma di utilizzo all’altra all’interno della stessa categoria funzionale solo in caso di sostituzione edilizia e nuova costruzione, oppure per assicurare la compatibilità ambientale degli interventi.
La Toscana (lr 65/2014) prevede all’articolo 99 queste destinazioni d’uso: a) residenziale; b) industriale e artigianale; c) commerciale al dettaglio; d) turistico-ricettiva; e) direzionale e di servizio; f) commerciale all’ingrosso e depositi; g) agricola e funzioni connesse. Il comma 2 dell’articolo 99 stabilisce che il mutamento all’interno della stessa categoria è consentito e che il mutamento da una all’altra delle categorie è mutamento rilevante della destinazione.
L’Umbria (lr 1/2015) ha stabilito all’articolo 155 che costituiscono mutamento di destinazione d’uso i “passaggi” tra le seguenti categorie: a) residenziale; b) produttiva, compresa l’agricola; c) attività di servizi a carattere socio-sanitarie, direzionale, pubbliche o private atte a supportare i processi insediativi e produttivi, comprese le attività commerciali, di somministrazione di cibi e bevande, turistico-produttive, ricreative, sportive e culturali
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.03.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIADa aprile sanzioni Sistri. Fino a 93 mila euro per mancata iscrizione. Dal primo del mese via alle multe per chi elude la tracciabilità rifiuti.
Dal 1° aprile scatterà l'applicazione delle sanzioni legate alla mancata iscrizione del sistema della tracciabilità dei rifiuti (Sistri) e all'omesso versamento del contributo Sistri.

È con l'articolo 1 della legge 27.02.2015 n. 11 di conversione al decreto legge 31.12.2014, n. 192 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 28.02.2015 n. 49 che viene fissata la data per l'applicazione delle sanzioni relative al Sistri. L'articolo 206-bis (commi 1 e 2) del dlgs n. 152/2006 prevede che per l'omessa iscrizione nei termini previsti si applichi la sanzione amministrativa pecuniaria da 15.500 euro a 93.000 mila euro nel caso di rifiuti pericolosi.
Nel caso di rifiuti non pericolosi si applichi la sanzione amministrativa da 2.660 euro a 15.500 euro. Per l'omesso pagamento, nei termini previsti, del contributo Sistri viene stabilita una sanzione amministrativa pecuniaria da 15.500 euro a 93.000 euro nel caso di rifiuti pericolosi. Per i rifiuti non pericolosi la sanzione va da 2.660 euro a 15.500 euro. Al contrario non si applicheranno dal 01.01.2015 al 31.12.2015, le sanzioni relative alle omissioni e violazioni in materia di Sistri (articoli 260-bis commi da 3 a 9 del dlgs. n. 152/2006), e le sanzioni amministrative accessorie (articolo 260-ter del dlgs. n. 152/2006).
Sono obbligati a aderire al Sistri gli enti e imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi con più dieci dipendenti, le imprese che raccolgono o trasportano rifiuti speciali pericolosi a titolo professionale, i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi che effettuano attività di stoccaggio, gli enti e imprese che effettuano operazioni di trattamento, recupero, smaltimento, commercio e intermediazione di rifiuti urbani e speciali pericolosi.
Fino al 31.12.2015 le aziende obbligate al sistema Sistri saranno tenute a osservare una doppia registrazione dei rifiuti (prodotti, trasportati o ricevuti) sia cartacea, basata su registri e formulari, sia informatica, senza incorrere in sanzioni per eventuali irregolarità (articolo ItaliaOggi del 20.03.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Minambiente. Movimento terra, basta una info.
Snellite le procedure per il trasporto delle terre e rocce da scavo. Basterà una comunicazione unica giornaliera per il trasporto delle terre e rocce da scavo, da inviare a inizio giornata, e non sarà più necessario redigere una dichiarazione per ogni trasporto. In caso di modifiche e integrazioni, sarà possibile fare dei cambiamenti successivi.

Queste le importanti indicazioni contenute nella nota 16.05.2014 n. 14640 di prot. del Ministero dell'ambiente in risposta a un quesito posto dal mondo imprenditoriale.
Con la nota di prassi viene di fatto semplificata la procedura disciplinata dal dm n. 161/2012 che ha regolato l'utilizzo delle terre e rocce da scavo, cioè dei materiali estratti durante gli scavi nei cantieri. Ricordiamo che con il decreto n. 161 del 2012, oltre a regolare le condizioni per il riutilizzo dei materiali estratti con l'allegato n. 6, ha disciplinato gli step per il trasporto di questi materiali da un sito a un altro.
Prima della nota dei tecnici dell'ambiente, per ogni trasporto doveva essere redatto un apposito documento contenente le generalità della stazione appaltante, della ditta appaltatrice dei lavori, della ditta incaricata del trasporto del materiale, della ditta che riceveva il materiale, il sito di provenienza, il luogo di destinazione, la quantità e la tipologia del materiale trasportato, la targa del mezzo utilizzato, la data e l'ora del carico. Il documento doveva viaggiare insieme al materiale e, una volta finito il trasporto, doveva essere conservato in originale dal responsabile del sito di utilizzo e in copia dal produttore, dal proponente e responsabile del trasporto.
Tale procedura era stata considerata troppo gravosa per le imprese. Il ministero dell'ambiente ha così provveduto alla semplificazione della procedura. Oggi, le imprese invece di compilare un documento per ogni trasporto, ne predisporranno solamente uno, da preparare all'inizio della giornata e inviare anche solo online, contenente il cronoprogramma dei trasporti programmati per la giornata (articolo ItaliaOggi del 20.03.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Da gennaio. Tra privati il Durc vale 90 giorni.
Dal 01.01.2015 la durata del Durc per lavori edili privati si è ridotta da 120 a 90 giorni.

A ricordarlo è l'Inps nel messaggio 16.03.2015 n. 1984.
La regolarità contributiva. Per regolarità contributiva s'intende la correntezza di un'impresa nei pagamenti e adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi (Inps, Inail e casse edili per le imprese di tale settore). Dal 02.09.2013, il Durc viene richiesto e recapitato esclusivamente tramite Pec (posta elettronica certificato) agli indirizzi indicati dagli utenti nel modulo telematico di richiesta (su internet all'indirizzo http://www.sportellounicoprevidenziale.it/).
Dalla stessa data, inoltre, la validità del Durc è fissata a 120 giorni per tutti i tipi di certificati (contratti, appalti, benefici ecc.), con un'unica eccezione: i lavori edili tra soggetti privati. In tal caso, infatti, la validità di 120 giorni è rimasta per i certificati emessi entro il 31.12.2014; per quelli emessi dal 01.01.2015 è scesa invece a 90 giorni.
Da 120 a 90 giorni. L'Inps, in particolare, ricorda che è stato l'art. 31 del dl n. 69/2013, convertito dalla legge n. 98/2013, ad aver fissato la validità del Durc a 120 giorni e aver disposto che fino allo scorso 31 dicembre tale validità rimaneva valida anche ai «lavori edili per i soggetti privati».
Con nota del 05.03.2015, la direzione generale per l'attività ispettiva del ministero del lavoro ha spiegato che, decorso il termine e in attesa dell'emanazione del decreto attuativo previsto dall'art. 4, comma 1, del dl n. 34/2014 (Durc online), la validità del Durc riferito ai lavori edili per i soggetti privati torna a essere di 90 giorni con effetto dal 01.01.2015.
Infine, l'Inps comunica che l'applicativo dello sportello unico previdenziale è stato aggiornato al fine di riportare a 90 giorni il periodo di validità dei Durc per lavori privati in edilizia e, pertanto, tali documenti recheranno in calce la dicitura «Il presente certificato è valido 90 giorni dalla data di emissione» (articolo ItaliaOggi del 18.03.2015).

GIURISPRUDENZA

LAVORI PUBBLICI: Nelle procedure di affidamento di lavori i partecipanti alla gara devono indicare nell’offerta economica i costi interni per la sicurezza del lavoro, pena l’esclusione dell’offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara.
-a) le stazioni appaltanti, nella predisposizione degli atti di gara per lavori e al fine della valutazione dell’anomalia delle offerte, devono determinare il valore economico degli appalti includendovi l’idonea stima di tutti i costi per la sicurezza con l’indicazione specifica di quelli da interferenze; i concorrenti, a loro volta, devono indicare nell’offerta economica sia i costi di sicurezza per le interferenze (quali predeterminati dalla stazione appaltante) che i costi di sicurezza interni che essi determinano in relazione alla propria organizzazione produttiva e al tipo di offerta formulata;
-b) la ratio del puntuale richiamo, nell’art. 87, comma 4, secondo periodo del Codice, della specifica indicazione dei costi per la sicurezza per le offerte negli appalti di servizi e forniture appare individuabile, in questo quadro, in relazione alla particolare tipologia delle prestazioni richieste per questi appalti rispetto a quelli per lavori e alla rilevanza di ciò nella fase della valutazione dell’anomalia (cui la norma è espressamente riferita); il contenuto delle prestazioni di servizi e forniture può infatti essere tale da non comportare necessariamente livelli di rischio pari a quelli dei lavori, rilevando l’esigenza sottesa alla norma in esame, pur ferma la tutela della sicurezza del lavoro, di particolarmente correlare alla entità e caratteristiche di tali prestazioni la giustificazione dei relativi, specifici costi in sede di offerta e di verifica dell’anomalia.

Da quanto sopra consegue che,
ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice, l’omessa specificazione nelle offerte per lavori dei costi di sicurezza interni configura un’ipotesi di <<mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice>> idoneo a determinare <<incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta>>” per difetto di un suo elemento essenziale, e comporta perciò, anche se non prevista nella lex specialis, l’esclusione dalla procedura dell’offerta difettosa per l’inosservanza di un precetto a carattere imperativo che impone un determinato adempimento ai partecipanti alla gara (cfr. Cons. Stato, A.P. sentenza n. 9 del 2014), non sanabile con il potere di soccorso istruttorio della stazione appaltante, di cui al comma 1 del medesimo articolo, non potendosi consentire di integrare successivamente un’offerta dal contenuto inizialmente carente di un suo elemento essenziale.
1. L’ordinanza di rimessione e il relativo quesito.
Nell’ordinanza di rimessione della V Sezione si indicano le due tipologie di costi per la sicurezza previste ai sensi della normativa, si richiamano le interpretazioni dell’art. 87, comma 4, del Codice date in giurisprudenza e si pone quindi il quesito per l’Adunanza Plenaria.
1.1. Le due tipologie di costi per la sicurezza.
I costi in questione sono:
- quelli da interferenze, contemplati dagli articoli 26, commi 3, 3-ter e 5, del d.lgs. 09.04.2008, n. 81 (Attuazione dell'articolo 1 della legge 03.08.2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro) e 86, comma 3-ter, 87, comma 4, e 131 del Codice, che:
   a) servono a eliminare i rischi da interferenza, intesa come contatto rischioso tra il personale del committente e quello dell’appaltatore, oppure tra il personale di imprese diverse che operano nella stessa sede aziendale con contratti differenti;
   b) sono quantificati a monte dalla stazione appaltante, nel D.U.V.R.I (documento unico per la valutazione dei rischi da interferenze, art. 26 del d.lgs. n. 81 del 2008) e, per gli appalti di lavori, nel PSC (piano di sicurezza e coordinamento, art. 100 D.Lgs. n. 81/2008);
   c) non sono soggetti a ribasso, perché ontologicamente diversi dalle prestazioni stricto sensu oggetto di affidamento;
- quelli interni o aziendali, cui si riferiscono l’art. 26, comma 3, quinto periodo, del d.lgs. n. 81 del 2008 e gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, secondo periodo, del Codice, che:
   a) sono quelli propri di ciascuna impresa connessi alla realizzazione dello specifico appalto, sostanzialmente contemplati dal DVR, documento di valutazione dei rischi;
   b) sono soggetti a un duplice obbligo in capo all’amministrazione e all’impresa concorrente.
Per ciò che concerne la stazione appaltante, gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del Codice si riferiscono necessariamente agli oneri di sicurezza aziendali, poiché considerano eventuali anomalie delle offerte e giudizi di congruità incompatibili con i costi di sicurezza da interferenze, fissi e non soggetti a ribasso. Ne deriva che per tali oneri la valutazione che si impone all’amministrazione non è la relativa predeterminazione rigida ma il dovere di stimarne l’incidenza, secondo criteri di ragionevolezza e di attendibilità generale, nella determinazione di quantità e valori su cui calcolare l’importo complessivo dell’appalto.
Quanto alle imprese che partecipano alle gare, invece, esse devono specificamente indicare gli oneri di sicurezza aziendali, dato che trattasi di valutazioni soggettive rimesse alla loro esclusiva sfera valutativa. Tale tipologia di oneri, infatti, varia da un’impresa all’altra ed è influenzata dalla singola organizzazione produttiva e dal tipo di offerta formulata da ciascuna impresa.
1.2. La questione interpretativa.
L’art. 87, comma 4, del Codice, relativo agli oneri aziendali, dispone che <<Non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all'articolo 131, nonché al piano di sicurezza e coordinamento di cui all'articolo 12, decreto legislativo 14.08.1996, n. 494 e alla relativa stima dei costi conforme all'articolo 7, decreto del Presidente della Repubblica 03.07.2003, n. 222. Nella valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture>>
La questione che si pone è se questa disposizione riguardi soltanto gli appalti di servizi e di forniture, cui si riferisce espressamente l’inciso finale del testo.
Dalla lettura del comma emerge infatti che mentre il primo periodo ribadisce per tutti gli appalti che gli oneri della sicurezza non sono soggetti a ribasso d’asta in relazione al piano di sicurezza e coordinamento, il secondo periodo precisa che l’indicazione relativa ai costi della sicurezza deve essere sorretta da caratteri di specificità e di congruità ai fini della valutazione dell’anomalia dell’offerta, facendo però riferimento esplicito, questa volta, solo ai settori dei servizi e delle forniture.
1.3. La giurisprudenza.
Secondo una prima lettura, di matrice estensiva, la ratio della norma, che impone ai concorrenti di indicare già nell’offerta l’incidenza degli oneri di sicurezza aziendali, risponde a finalità di tutela della sicurezza dei lavoratori e, quindi, a valori sociali e di rilievo costituzionale che assumono rilevanza anche nel settore dei lavori pubblici. Anzi, proprio in quest’ultimo settore il ripetersi di infortuni gravi, dovuto all’utilizzo di personale non sempre qualificato, porta a ritenere che l’obbligo di indicare sin dall’offerta detti oneri debba valere ed essere apprezzato con particolare rigore. Inoltre, depone in tal senso anche la collocazione sistematica della norma citata, che è appunto inserita nella parte del Codice dedicata ai “Contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture” (Cons. Stato, sez. III, 03.10.2011, n. 5421; sez. V, 19.07.2013, n. 3929).
Si è poi osservato (Cons. Stato, sez. III, 03.07.2013, n. 3565) che “tale indicazione costituisce sia nel comparto dei lavori che in quelli dei servizi e delle forniture un adempimento imposto dagli artt. 86, comma 3-bis e 87, comma 4, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 all'evidente scopo di consentire alla stazione appaltante di adempiere al suo onere di verificare il rispetto di norme inderogabili a tutela dei fondamentali interessi dei lavoratori in relazione all'entità ed alle caratteristiche del lavoro, servizio o fornitura da affidare; stante la natura di obbligo legale rivestita dall'indicazione, è irrilevante la circostanza che la lex specialis di gara non abbia richiesto la medesima indicazione, rendendosi altrimenti scusabile una ignorantia legis; poiché la medesima indicazione riguarda l'offerta, non può ritenersene consentita l'integrazione mediante esercizio del potere/dovere di soccorso da parte della stazione appaltante, ex art. 46, comma 1-bis, cit. d.lgs. n. 163 del 2006, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti”.
Tuttavia, recentemente, la giurisprudenza amministrativa (in particolare Cons. Stato, sez. V: 07.05.2014, n. 2343; 09.10.2013, n. 4964) ha dato una lettura diversa ritenendo che l’obbligo di indicare nell’offerta gli oneri di sicurezza aziendali riguardi solo gli appalti di servizi o di forniture in ragione della “speciale disciplina normativa riservata agli appalti di lavori, che appunto si connota per l’analisi preventiva dei costi della sicurezza aziendale, che sua volta si spiega alla luce della maggiore rischiosità insita nella predisposizione di cantieri”, affermandosi che “l’obbligo di dichiarare, a pena di esclusione, i costi per la sicurezza interna previsto dall’art. 87, comma 4, d.lgs. n. 163/2006 si applica alle sole procedure di affidamento di forniture e di servizi. Per i lavori, al contrario, la quantificazione è rimessa al piano di sicurezza e coordinamento ex art. 100 d.lgs. n. 81/2008, predisposto dalla stazione appaltante ai sensi dell’art. 131 cod. contratti pubblici”.
Non si può infatti trascurare, si sostiene, che è comunque obbligatoria la valutazione, ai fini della congruità dell’offerta, del costo del lavoro e della sicurezza in forza del comma 3-bis dell’art. 86 del Codice secondo cui: <<…nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture>>, essendosi così indicate espressamente tutte le possibili tipologie di appalti pubblici, compresi i lavori, per cui si deve ritenere, a contrario, che, non avendo utilizzato la medesima locuzione estensiva nel comma 4 dell’art. 87, tale ultima norma va riferita ai soli contratti pubblici presi espressamente in considerazione, ossia quelli aventi ad oggetto servizi e forniture.
1.4. Il quesito per l’Adunanza Plenaria.
Su questa base viene rimessa all’Adunanza Plenaria la soluzione della questione preliminare dell’estensione dell’articolo 87, comma 4, del Codice anche ai contratti pubblici relativi a lavori.
Si chiede in particolare di verificare se, in ogni caso, la sanzione dell’esclusione debba essere comminata anche laddove l’obbligo di specificazione degli oneri non sia stato prescritto dalla normativa di gara; e se, ai fini della soluzione, possa avere rilievo la peculiarità della fattispecie, data dalla circostanza che viene in rilievo un appalto integrato, caratterizzato dall’affidamento congiunto della progettazione esecutiva e dell’esecuzione dei lavori sulla scorta di un progetto definitivo predisposto dalla stazione appaltante.
2. La soluzione del quesito.
L’Adunanza Plenaria ritiene che nelle procedure di affidamento relative ai contratti pubblici di lavori i concorrenti debbano indicare nell’offerta economica i costi per la sicurezza interni o aziendali.
2.1. La giurisprudenza contraria è motivata, come visto, ritenendo che per i lavori la quantificazione dei detti costi è rimessa al piano di sicurezza e coordinamento di cui agli articoli 100 del d.lgs. n. 81 del 2008 e 131 del Codice (in seguito PSC), venendo integrati questi riferimenti normativi con il richiamo di quanto disposto dal d.P.R. 05.10.2010, n. 207 (recante il regolamento di attuazione del Codice), in particolare negli articoli 24, comma 3, 32 e 39 (Cons. Stato, Sez. V: n. 3056 del 2015; n. 4964 del 2013).
2.2. La tesi non è condivisibile poiché, come precisato nell’ordinanza di rimessione, il PSC è riferito ai costi di sicurezza quantificati a monte dalla stazione appaltante, specialmente in relazione alle interferenze, e non alla quantificazione dei costi aziendali delle imprese.
Il d.lgs. n. 81 del 2008, il cui art. 100 individua il contenuto del PSC (con la stima dei costi della sicurezza quali indicati nell’allegato XV), dispone infatti che <<Il committente o il responsabile dei lavori trasmette il piano di sicurezza e di coordinamento a tutte le imprese invitate a presentare offerte per l'esecuzione dei lavori>> e, quanto agli appalti pubblici di lavori, che <<In caso di appalto di opera pubblica si considera trasmissione la messa a disposizione del piano a tutti i concorrenti alla gara di appalto. >> (art. 101, comma 1), essendo stato anche previsto che durante la progettazione dell’opera <<e comunque prima della richiesta di presentazione delle offerte>> deve essere redatto il PSC da parte del coordinatore per la progettazione che il committente designa nei cantieri in cui è prevista la presenza di più imprese esecutrici (articoli 91 e 90).
L’art. 131 del Codice dispone, per la fase dell’intervenuta aggiudicazione, che entro i trenta giorni successivi e comunque prima della consegna dei lavori, l’appaltatore o il concessionario, redige e consegna alle amministrazioni aggiudicatrici e ai soggetti aggiudicatori, in ogni caso, un piano operativo di sicurezza (POS, di cui al punto 3.2.1. del citato allegato XV), <<per quanto attiene alle proprie scelte autonome e relative responsabilità nell'organizzazione del cantiere e nell'esecuzione dei lavori, da considerare come piano complementare di dettaglio del piano di sicurezza e di coordinamento…>> (comma 2, lett. c), in riferimento perciò alla specifica organizzazione del cantiere da parte delle imprese esecutrici nel quadro dato dal PSC. L’articolo dispone poi, nel comma 3, che i piani in esso citati “…formano parte integrante del contratto di appalto o di concessione; i relativi oneri vanno evidenziati nei bandi di gara e non sono soggetti a ribasso d'asta.>>.
2.3. Neppure appaiono risolutive, a sostegno della tesi che qui si discute, le ulteriori norme del d.P.R. n. 207 del 2010 sopra citate: l’art. 24, comma 3, dispone infatti che il progetto definitivo, se posto a base di gara, deve essere corredato dal PSC, sulla cui base si determina il costo per la sicurezza <<nel rispetto dell’allegato XV>> del d.lgs. n. 81 del 2008; l’art. 32 include tra le spese generali a carico dell’esecutore le spese di adeguamento del cantiere in osservanza del detto d.lgs. <<di cui è indicata la quota di incidenza sul totale delle spese generali, ai fini degli adempimenti previsti dall'articolo 86, comma 3-bis>> del Codice; l’art. 39, infine, dispone nel comma 2 che <<I contenuti del piano di sicurezza e di coordinamento sono il risultato di scelte progettuali ed organizzative conformi alle misure generali di tutela di cui all' articolo 15 del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81, secondo quanto riportato nell' allegato XV al medesimo decreto in termini di contenuti minimi. In particolare la relazione tecnica, corredata da tavole esplicative di progetto, deve prevedere l'individuazione, l'analisi e la valutazione dei rischi in riferimento all'area e all'organizzazione dello specifico cantiere, alle lavorazioni interferenti ed ai rischi aggiuntivi rispetto a quelli specifici propri dell'attività delle singole imprese esecutrici o dei lavoratori autonomi>>.
Non emergono perciò da nessuna di queste norme prescrizioni o elementi preclusivi dell’indicazione dei costi interni nelle offerte per l’affidamento di lavori.
2.4. Assume invece rilievo decisivo la circostanza che l’obbligo di procedere alla previa indicazione di tali costi, pur se non dettato expressis verbis dal legislatore, si ricava in modo univoco da un’interpretazione sistematica delle norme regolatrici della materia date dagli articoli 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008 e 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del Codice.
2.5. Gli articoli 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008 e 86, comma 3-bis, del Codice, recano nel primo periodo il seguente identico testo: <<Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture.>>.
L’art. 87, comma 4, secondo periodo, del Codice dispone, come già visto, che <<Nella valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture. >>.
2.6. Nelle norme non risulta prescritto in modo espresso l’obbligo dei concorrenti di esporre i costi della sicurezza nelle offerte per lavori, poiché gli articoli 26, comma 6, e 86, comma 3-bis, sembrano prima facie riguardare, per l’indicazione dei costi in tutti i tipi di appalti, soltanto gli enti aggiudicatori mentre l’art. 87, comma 4, del Codice, richiama l’indicazione nelle offerte dei costi per la sicurezza soltanto per gli appalti di servizi e forniture, ai fini della valutazione dell’anomalia.
2.7. Questa lettura, per quanto basata sulla formulazione testuale delle norme, risulta però illogica.
Non appare coerente, infatti, imporre alle stazioni appaltanti di tenere espresso conto nella determinazione del valore economico di tutti gli appalti dell’insieme dei costi della sicurezza, che devono altresì specificare per assicurarne la congruità, e non imporre ai concorrenti, per i soli appalti di lavori, un identico obbligo di indicazione nelle offerte dei loro costi specifici, il cui calcolo, infine, emergerebbe soltanto in via eventuale, nella non indefettibile fase della valutazione dell’anomalia; così come non si rinviene la ratio di non prescrivere la specificazione dei detti costi per le offerte di lavori, nella cui esecuzione i rischi per la sicurezza sono normalmente i più elevati.
2.8. Si tratterebbe in definitiva di una normativa che, incidendo negativamente sulla completezza della previsione dei costi per la sicurezza per le attività più rischiose, risulterebbe incoerente con la prioritaria finalità della tutela della sicurezza del lavoro, che ha fondamento costituzionale negli articoli 1, 2 e 4 e, specificamente, negli articoli 32, 35 e 41 della Costituzione, e <<trascende i contrapposti interessi delle stazioni appaltanti e delle imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici, rispettivamente di aggiudicare questi ultimi alle migliori condizioni consentite dal mercato, da un lato, e di massimizzare l’utile ritraibile dal contratto dall’altro>> (Sez. V, n. 3056 del 2014, citata).
Per evitare una soluzione ermeneutica irragionevole e incompatibile con le coordinate costituzionali si deve allora accedere ad una interpretazione degli articoli 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008 e 86, comma 3-bis, del Codice, nel senso che l’obbligo di indicazione specifica dei costi di sicurezza aziendali non possa che essere assolto dal concorrente, unico in grado di valutare gli elementi necessari in base alle caratteristiche della realtà organizzativa e operativa della singola impresa, venendo altrimenti addossato un onere di impossibile assolvimento alla stazione appaltante, stante la sua non conoscenza degli interna corporis dei concorrenti. Si aggiunga che un approccio ermeneutico che non imponesse la specificazione dei costi interni nell’offerta per lavori priverebbe il giudizio di anomalia delle previe indicazioni al riguardo da sottoporre a verifica così inficiando l’attendibilità del giudizio finale.
2.9. Per quanto considerato, a presidio di diritti fondamentali dei lavoratori sanciti nella stessa Costituzione, si deve allora fare capo ad una lettura delle norme costituzionalmente orientata, unica idonea a ricomporre le incongruenze rilevate, che porta a ritenere l’obbligo dei concorrenti di presentare i costi interni per la sicurezza del lavoro anche nelle offerte relative agli appalti di lavori, ricostruendosi il quadro normativo, in sintesi, nel modo seguente:
-a) le stazioni appaltanti, nella predisposizione degli atti di gara per lavori e al fine della valutazione dell’anomalia delle offerte, devono determinare il valore economico degli appalti includendovi l’idonea stima di tutti i costi per la sicurezza con l’indicazione specifica di quelli da interferenze; i concorrenti, a loro volta, devono indicare nell’offerta economica sia i costi di sicurezza per le interferenze (quali predeterminati dalla stazione appaltante) che i costi di sicurezza interni che essi determinano in relazione alla propria organizzazione produttiva e al tipo di offerta formulata;
-b) la ratio del puntuale richiamo, nell’art. 87, comma 4, secondo periodo del Codice, della specifica indicazione dei costi per la sicurezza per le offerte negli appalti di servizi e forniture appare individuabile, in questo quadro, in relazione alla particolare tipologia delle prestazioni richieste per questi appalti rispetto a quelli per lavori e alla rilevanza di ciò nella fase della valutazione dell’anomalia (cui la norma è espressamente riferita); il contenuto delle prestazioni di servizi e forniture può infatti essere tale da non comportare necessariamente livelli di rischio pari a quelli dei lavori, rilevando l’esigenza sottesa alla norma in esame, pur ferma la tutela della sicurezza del lavoro, di particolarmente correlare alla entità e caratteristiche di tali prestazioni la giustificazione dei relativi, specifici costi in sede di offerta e di verifica dell’anomalia.

2.10. Da quanto sopra consegue che,
ai sensi dell’art. 46, comma 1-bis, del Codice, l’omessa specificazione nelle offerte per lavori dei costi di sicurezza interni configura un’ipotesi di <<mancato adempimento alle prescrizioni previste dal presente codice>> idoneo a determinare <<incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta>>” per difetto di un suo elemento essenziale, e comporta perciò, anche se non prevista nella lex specialis, l’esclusione dalla procedura dell’offerta difettosa per l’inosservanza di un precetto a carattere imperativo che impone un determinato adempimento ai partecipanti alla gara (cfr. Cons. Stato, A.P. sentenza n. 9 del 2014), non sanabile con il potere di soccorso istruttorio della stazione appaltante, di cui al comma 1 del medesimo articolo, non potendosi consentire di integrare successivamente un’offerta dal contenuto inizialmente carente di un suo elemento essenziale.
3. Il principio di diritto.
L’Adunanza Plenaria afferma pertanto il seguente principio di diritto: “
Nelle procedure di affidamento di lavori i partecipanti alla gara devono indicare nell’offerta economica i costi interni per la sicurezza del lavoro, pena l’esclusione dell’offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara” (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 20.03.2015 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell'art. 16 del d.P.R. 380/2001, il contributo afferente al permesso di costruire, commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, e quindi per entrambe le componenti, è determinato e liquidato all'atto del rilascio del titolo edilizio, onde non può ammettersi, peraltro in mancanza dell'inserimento nel permesso di costruite di una clausola che ne riservi la rideterminazione, che l'Amministrazione comunale possa, in epoca successiva, e a distanza di alcuni anni, in relazione all'aggiornamento delle due componenti, provvedere ad una nuova liquidazione, richiedendo somme a conguaglio.
In specie, è stato chiarito come la riliquidazione possa consentirsi solo quando vi sia rilascio di nuovo titolo edilizio in relazione alla scadenza dell'efficacia temporale del precedente e per il completamento con mutamento di destinazione d'uso delle opere assentite in origine.

... per la riforma della sentenza del TAR per la Puglia, Sezione staccata di Lecce, Sezione III, n. 1103 del 15.05.2013, non notificata, resa tra le parti, con cui è stato accolto il ricorso in primo grado n.r. 927/2012, proposto per l'annullamento della determinazione dirigenziale n. 4497 di prot. del 23.03.2012 e ogni ulteriore atto presupposto, connesso e/o consequenziale, ivi compresa la deliberazione di Giunta Municipale n. 21 del 07.02.2012, nonché i successivi motivi aggiunti, recanti impugnativa della successiva determinazione dirigenziale n. 14487 di prot. dell'08.10.2012, e atti presupposti, e per l'accertamento del diritto del ricorrente a non corrispondere al Comune di Campi Salentina la somma determinata a titolo di aggiornamento del contributo di costruzione, con condanna al pagamento delle spese del giudizio di primo grado liquidate in complessivi € 1.000,00.
...
Nel merito i rilievi del giudice amministrativo salentino sono esatti e condivisibili, dovendosi al riguardo confermare l'orientamento già espresso con le sentenze n. 3009 e n. 3010 del 12.06.2014, intervenute su analoghi appelli proposti dal Comune di Campi Salentina.
Infatti, ai sensi dell'art. 16 del d.P.R. 380/2001, il contributo afferente al permesso di costruire, commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, e quindi per entrambe le componenti, è determinato e liquidato all'atto del rilascio del titolo edilizio, onde non può ammettersi, peraltro in mancanza dell'inserimento nel permesso di costruite di una clausola che ne riservi la rideterminazione -non potendo assumere alcun rilievo la nota richiamata sub 3.1-, che l'Amministrazione comunale possa, in epoca successiva, e a distanza di alcuni anni, in relazione all'aggiornamento delle due componenti, provvedere ad una nuova liquidazione, richiedendo somme a conguaglio (cfr. in tal senso tra le più recenti Cons. Stato, Sez. IV, 30.07.2012, n. 4320 e 27.04.2012, n. 2471, che ha in specie chiarito come la riliquidazione possa consentirsi solo quando vi sia rilascio di nuovo titolo edilizio in relazione alla scadenza dell'efficacia temporale del precedente e per il completamento con mutamento di destinazione d'uso delle opere assentite in origine) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.03.2015 n. 1504 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATATra la demolizione dell’edificio e la istanza del titolo edilizio tesa alla sua ricostruzione (o dichiarazione tesa alla sua formazione) occorre sussista una continuità anche temporale tale da non interrompere la ontologica continuità che caratterizza l’intervento di cui si tratta. Ma nella fattispecie l’edificio risultava demolito, per effetto di ordinanza comunale, sin dal 1984, mentre la dichiarazione di inizio di attività risale al successivo 2004, in forte ritardo anche sulla introduzione nell’ordinamento dell’istituto (art. 19 l. n. 241/1990).
Né può trascurarsi che detta continuità temporale risponde anche a particolari esigenze di speditezza cui assolve l’istituto, volto a non comprimere lo “ius aedificandi” in forza di tempi burocratici ordinariamente lunghi, esigenze con le quali, in tutta evidenza, mal si concilia una DIA tesa alla ricostruzione di un edificio demolito molti anni prima.
A ciò va aggiunto che la necessaria ragionevole contiguità temporale tra demolizione e DIA di ricostruzione si impone per ragioni di certezza della normativa urbanistica applicabile, la cui funzione normo-pianificatrice, per natura evolvente nel tempo, deve svolgersi secondo principi di certezza del diritto e non può perciò essere condizionata dall’inerzia del titolare dello "ius aedificandi” che nel presentare le proprie istanze, pretenda l’applicazione delle norme vigenti al tempo della demolizione.
Legittimamente, pertanto, l’amministrazione ha proceduto a dichiarare la decadenza della DIA non per il mancato inizio o compimento dei lavori (di demolizione e ricostruzione) nel termine della sua validità, bensì per l’eccessivo lasso di tempo corso tra la demolizione dell’edificio (1984) e la dichiarazione (2004) di inizio di attività edilizia volta alla sua ricostruzione.

... per la riforma della sentenza del TAR Campania-Napoli: Sezione IV, n. 5418/2013, resa tra le parti, concernente il provvedimento recante la comunicazione della decadenza della d.i.a. inoltrata per ricostruzione immobile.
...
1.- L’appello in esame controverte della legittimità di una determinazione comunale con la quale è stata dichiarata decaduta la DIA in fatto specificata, tesa alla ricostruzione di un edificio danneggiato da evento sismico e poi, per effetto di questo, demolito a seguito di ordinanza sindacale.
1.1.- Con la sentenza impugnata, il TAR ha accolto il ricorso ed ha annullato la dichiarazione di decadenza, ritenendo fondate sia le censure di difetto di motivazione (sotto il profilo della contraddittorietà del provvedimento rispetto alla variante ed alla proroga della DIA), che quelle volte a dimostrare la piena assentibilità del proposto intervento di demolizione e ricostruzione, con modifiche di sagoma e posizione all’interno del lotto, dovendo essere il medesimo qualificato come ristrutturazione “pesante”, ed assentibile, in base alla normativa urbanistica locale vigente al momento della presentazione della D.I.A. (25.03.2004).
...
3.1.- Così ricostruita e precisata la fattispecie provvedimentale, assume valenza decisiva ed assorbente il motivo d’appello (riepilogato sub 2.f) con cui il Comune fa rilevare che i danti causa dell’odierna appellata presentarono la DIA in questione a distanza di oltre venti anni dalla demolizione dell’edificio interessato, quindi quando questo risultava fisicamente inesistente da molto tempo. Ed invero il TAR, dopo aver richiamato i principi generali in proposito ha valorizzato alcune circostanze di fatto (demolizione operata dal Comune in base alla normativa emergenziale del sisma de 1980, possibilità di ricostruire la consistenza del preesistente manufatto in base a C.T.U. postuma).
Ha poi deciso in senso opposto alla prevalente giurisprudenza ritenendo possibile una ristrutturazione in base a D.I.A. dell’edificio de quo.
Al riguardo il Collegio ritiene tuttavia che, tra la demolizione dell’edificio e la istanza del titolo edilizio tesa alla sua ricostruzione (o dichiarazione tesa alla sua formazione) occorre sussista una continuità anche temporale tale da non interrompere la ontologica continuità che caratterizza l’intervento di cui si tratta (Cons. St., IV, 07.09.2004 n. 5791; Idem, V, 08.08.2003 n. 4593). Ma nella fattispecie l’edificio risultava demolito, per effetto di ordinanza comunale, sin dal 1984, mentre la dichiarazione di inizio di attività risale al successivo 2004, in forte ritardo anche sulla introduzione nell’ordinamento dell’istituto (art. 19 l. n. 241/1990).
Né può trascurarsi che detta continuità temporale risponde anche a particolari esigenze di speditezza cui assolve l’istituto, volto a non comprimere lo “ius aedificandi” in forza di tempi burocratici ordinariamente lunghi, esigenze con le quali, in tutta evidenza, mal si concilia una DIA tesa alla ricostruzione di un edificio demolito molti anni prima.
A ciò va aggiunto che la necessaria ragionevole contiguità temporale tra demolizione e DIA di ricostruzione si impone per ragioni di certezza della normativa urbanistica applicabile, la cui funzione normo-pianificatrice, per natura evolvente nel tempo, deve svolgersi secondo principi di certezza del diritto e non può perciò essere condizionata dall’inerzia del titolare dello "ius aedificandi” che nel presentare le proprie istanze, pretenda l’applicazione delle norme vigenti al tempo della demolizione.
Legittimamente, pertanto, l’amministrazione ha proceduto a dichiarare la decadenza della DIA non per il mancato inizio o compimento dei lavori (di demolizione e ricostruzione) nel termine della sua validità, bensì per l’eccessivo lasso di tempo corso tra la demolizione dell’edificio (1984) e la dichiarazione (2004) di inizio di attività edilizia volta alla sua ricostruzione.
3.2.- Né, infine, questa conclusione può essere contrastata argomentando su un presunto effetto preclusivo che il decorso del tempo avrebbe sul potere dell’amministrazione di pronunziare la decadenza della DIA rispetto ad una demolizione molto “datata”. Osta a ciò (e palesa la fondatezza per derivazione dei motivi d’appello 2c e 2e) che gli atti espressione di autotutela dell’amministrazione, tra i quali si annovera la decadenza in esame, non incontrano limiti temporali essendo tipicamente volti a rimuovere gli effetti che non potevano prodursi per carenza dei necessari presupposti, ripristinando la legalità.
Per contro, nella stessa materia, sono inapplicabili i principi della motivazione circa il pubblico interesse in correlazione all’affidamento allorché il lungo tempo trascorso tra la demolizione e la dichiarazione sia imputabile al comportamento del dichiarante. Invero gli eredi P. come ricordato in punto di fatto avrebbero potuto chiedere di ricostruire l’immobile già dopo la sua demolizione e certamente dopo la decisione del TAR Campania n. 52/1985. Invero deve ritenersi del tutto irrilevante a questi fini la pendenza del giudizio civile risarcitorio dal quale poi sono decorsi altri due anni di inerzia.
Pertanto l’appello deve essere accolto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.03.2015 n. 1426 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Il diritto al rimborso delle spese legali relative ai giudizi di responsabilità civile, penale o amministrativa a carico di dipendenti di amministrazioni statali o di enti locali per fatti connessi all'espletamento del servizio o comunque all'assolvimento di obblighi istituzionali, conclusi con l'accertamento dell'esclusione della loro responsabilità, non compete all'assessore comunale, né al consigliere comunale o al sindaco, non essendo configurabile tra costoro (i quali operano nell'amministrazione pubblica ad altro titolo) e l'ente un rapporto di lavoro dipendente, non potendo estendersi nei loro confronti la tutela prevista per i dipendenti, né trovare applicazione la disciplina privatistica in tema di mandato.
Si deve preliminarmente valutare se la norma invocata dal ricorrente (artt. 16 del d.P.R. 01.06.1979 n. 191 e 67 d.P.R. 15.05.1987 n. 268, successivamente abrogati dal dl. 09.02.2012 n. 5, conv. in legge 04.04.2012 n. 35), che pone a carico degli enti locali "anche a tutela dei propri diritti ed interessi" l'onere delle spese per la difesa dei propri dipendenti nei procedimenti civili e penali "per fatti o atti direttamente connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei compiti d'ufficio a condizione che non sussista conflitto di interessi", sia applicabile nei confronti di coloro, come i consiglieri e gli assessori comunali nonché i sindaci, che non siano legati al Comune da un rapporto d'impiego pubblico.
Tale questione non é stata affrontata direttamente dal Tribunale il quale ha ritenuto che "laddove si voglia ritenere estensibile analogicamente agli amministratori pubblici il principio contenuto nell'art. 67" il Comune di Turbigo non potesse comunque essere chiamato a rispondere per le spese legali sostenute dall'O. nel processo penale che lo ha riguardato. Analogamente, la Corte d'appello ha deciso la causa sulla base di altri e diversi profili impeditivi dell'applicabilità della norma, concernenti in particolare l'esistenza di un conflitto di interessi con l'ente e la mancanza di concerto nella scelta del legale.
Si deve quindi ritenere che entrambi i giudici di merito abbiano fatto applicazione del principio della cd. "ragione più liquida", avendo rigettato la domanda sulla base della soluzione di una o più questioni assorbenti, senza avere esaminato specificamente e direttamente la questione dell'applicabilità della norma agli amministratori locali. Su tale questione di diritto non si è formato un giudicato neppure implicito, il quale infatti non si forma sugli aspetti del rapporto che non abbiano costituito oggetto di specifica disamina e valutazione da parte del giudice, cioè di un accertamento effettivo, specifico e concreto (v. Cass. n. 11356/2006, n. 21266/2007).
Di conseguenza, la questione dell'ambito soggettivo di applicabilità del citato art. 67 del d.P.R. del 1987, non trattata dal Tribunale né rilevata dalla Corte d'appello, non può essere considerata nuova e il suo esame non è precluso a questa Corte, dal momento che sono nuove e quindi inammissibili in sede di legittimità solo le questioni che presuppongano o comunque richiedano un nuovo accertamento o apprezzamento in fatto e non quelle che lascino immutati i fatti controversi come accertati dai giudici di merito, sempre che non siano state decise, nei termini anzidetti, dal giudice di primo o di secondo grado senza essere riproposte in fase di impugnazione sino a quella di legittimità (v. Cass. n. 9297/2007), ipotesi questa che non ricorre nella fattispecie in esame.
Il giudice ha l'obbligo di rilevare d'ufficio l'esistenza di una norma di legge idonea ad escludere, alla stregua delle circostanze di fatto già allegate ed acquisite agli atti di causa, il diritto vantato dalla parte, e ciò anche in sede di legittimità, senza che abbia rilievo la circostanza che, nei gradi di merito, le questioni controverse abbiano investito altri e diversi profili di possibile infondatezza della pretesa in contestazione e che la statuizione conclusiva del giudizio di merito si sia limitata solo a tali diversi profili, atteso che la disciplina legale inerente al fatto giuridico costitutivo del diritto è di per sé sottoposta al giudice di grado superiore.
Al quesito circa l'applicabilità del citato art. 67 del d.P.R. n. 268/1987 agli amministratori degli enti locali deve darsi risposta negativa, conformemente alla giurisprudenza di questa Corte. Infatti
il diritto al rimborso delle spese legali relative ai giudizi di responsabilità civile, penale o amministrativa a carico di dipendenti di amministrazioni statali o di enti locali per fatti connessi all'espletamento del servizio o comunque all'assolvimento di obblighi istituzionali, conclusi con l'accertamento dell'esclusione della loro responsabilità, non compete all'assessore comunale, né al consigliere comunale o al sindaco, non essendo configurabile tra costoro (i quali operano nell'amministrazione pubblica ad altro titolo) e l'ente un rapporto di lavoro dipendente, non potendo estendersi nei loro confronti la tutela prevista per i dipendenti, né trovare applicazione la disciplina privatistica in tema di mandato (v. Cass. n. 25690/2011, n. 20193/2014).
In tal senso la motivazione in diritto della sentenza impugnata dev'essere corretta, a norma dell'art. 384, coma 4, c.p.c., ma il ricorso è rigettato, essendo il dispositivo conforme a diritto. Il ricorso incidentale condizionato di Unipol è assorbito.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo (Corte di Cassazione Sez. I civile, sentenza 17.03.2015 n. 5264).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 28 del D.P.R. 16.12.1992 n. 495 stabilisce che le "- distanze dal confine stradale all'interno dei Centri abitati, da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle demolizioni integrali e conseguenti ricostruzioni o negli ampliamenti fronteggianti le strade, non possono essere inferiori a: a) 30 m. per le strade di Tipo A”.
Il vincolo di rispetto stradale –contemplato dagli art. 18 del d.lgs. n. 285/1992 e 28 del succitato D.P.R.- secondo la costante giurisprudenza deve ritenersi inderogabile, comportando l’inedificabilità assoluta. Ed invero il vincolo autostradale, stante la sua natura e gli interessi pubblici per la cui tutela esso è previsto, opera indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale.
In particolare deve ricordarsi che, secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale ha carattere assoluto, in quanto il divieto di costruzione sancito dall'art. 9 della legge n. 729 del 1961 e dal successivo D.M. 01.04.1968 n. 1404 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare un'area contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori ivi compresi quelli di ampliamento senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.

... per l'annullamento della disposizione dirigenziale n. 126 del 21.03.2012 del Comune di Napoli di diniego del permesso di costruire un parcheggio interrato pertinenziale di cui alla pratica 33/08 in Napoli, via S. Domenico n. 78;
...
1. Il ricorso non merita apprezzamento.
1.2. La questione nodale della presente controversia attiene alla corretta determinazione della fascia di rispetto autostradale, la cui sussistenza ha rappresentato la ragione del diniego del permesso di costruire del parcheggio pertinenziale nell’area dei ricorrenti.
2. Vale premettere che il vincolo di rispetto autostradale, che non risulta derogato al momento del rilascio delle concessioni edilizie relativa al manufatto insistente su una parte dell’area, deve ritenersi operativo ed applicabile ai parcheggi, quali opere edilizie suscettibili di arrecare pregiudizio alla sicurezza stradale.
In fatto vale evidenziare che dalla nota rilasciata da tangenziale di Napoli s.p.a. emerge nitidamente che il progetto del parcheggio interrato riguarda una zona sita nell’arco dei trenta metri dalla proprietà della Tangenziale, come confermato dalla circostanza che il fondo confina con la recinzione del viadotto.
Tuttavia, secondo la tesi del ricorrente, il computo della fascia di rispetto autostradale andrebbe calcolato non dalla fine della proprietà del terreno di Tangenziale di Napoli s.p.a., ma dalla proiezione del viadotto (sito a 40 metri di altezza) che rappresenta propriamente la striscia stradale rispetto cui è preordinato il vincolo. In altri termini il parcheggio pertinenziale fuoriuscirebbe dalla fascia d rispetto di 30 metri dal ciglio stradale, così inteso.
2.1. L’art. 28 del D.P.R. 16.12.1992 n. 495, invocato, stabilisce che le "- distanze dal confine stradale all'interno dei Centri abitati, da rispettare nelle nuove costruzioni, nelle demolizioni integrali e conseguenti ricostruzioni o negli ampliamenti fronteggianti le strade, non possono essere inferiori a: a) 30 m. per le strade di Tipo A”.
Il vincolo di rispetto stradale –contemplato dagli art. 18 del d.lgs. n. 285/1992 e 28 del succitato D.P.R.- secondo la costante giurisprudenza (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 08.06.2011 n. 3498) deve ritenersi inderogabile, comportando l’inedificabilità assoluta. Ed invero il vincolo autostradale, stante la sua natura e gli interessi pubblici per la cui tutela esso è previsto, opera indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale. In particolare deve ricordarsi che, secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il vincolo di inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto stradale ha carattere assoluto, in quanto il divieto di costruzione sancito dall'art. 9 della legge n. 729 del 1961 e dal successivo D.M. 01.04.1968 n. 1404 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare un'area contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori ivi compresi quelli di ampliamento senza limiti connessi alla presenza di costruzioni (ex plurimis Cassazione civile, III, 21.02.2013, n. 4346; II, 03.11.2010, n. 22422; Consiglio di Stato, IV, 15.04.2013, n. 2062; 12.02.2010, n. 772; 30.09.2008, n. 4719).
3. Alla luce delle considerazioni svolte si rileva infondato il motivo con il quale si deduce che la misurazione avrebbe dovuto essere fatta dal ciglio stradale e non dalla recinzione.
Essendo il vincolo di inedificabilità assoluta in questione correlato alla più ampia esigenza di assicurare un'area contigua all'arteria stradale utilizzabile in qualsiasi momento dall'Ente proprietario o gestore per l'esecuzione di lavori ivi compresi quelli di ampliamento senza limiti connessi alla presenza di costruzioni, deve ritenersi che la distanza minima vada calcolata dal confine della proprietà autostradale e non dal ciglio della tangenziale e tanto meno dalla sua proiezione.
Tale circostanza è, peraltro, confermata dall’art. 3, comma 1, punto 10, del nuovo codice della strada approvato con D.Lgs.vo n. 285/1992, che identifica il confine stradale con il limite della proprietà (cfr. Tar Sicilia – Palermo, n. 1375 del 2014) (TAR Campania, Sez. IV, sentenza 17.03.2015 n. 1593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti a rischio negli enti. Gli incarichi senza concorso sono una piaga di tutta la p.a.. La decisione della Consulta sulle agenzie smonta anche la recente sentenza del Tar Lazio.
Gli incarichi dirigenziali ai funzionari sono incostituzionali e illegittimi.

Gli effetti della sentenza 17.03.2015 n. 37 della Corte Costituzionale non possono considerarsi limitati alle sole agenzie, ma investono tutte le pubbliche amministrazioni, colpendo la pratica inveterata e abusata di attribuire ai funzionari, anche per lunghi anni, la «promozione sul campo», in assenza del necessario concorso.
La Consulta sul punto è più che drastica: «Nessun dubbio può nutrirsi in ordine al fatto che il conferimento di incarichi dirigenziali nell'ambito di un'amministrazione pubblica debba avvenire previo esperimento di un pubblico concorso, e che il concorso sia necessario anche nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio».
Anche il passaggio a una fascia funzionale superiore comporta «l'accesso a un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso» (sentenza n. 194 del 2002; ex plurimis, inoltre, sentenze n. 217 del 2012, n. 7 del 2011, n. 150 del 2010, n. 293 del 2009)».
Questo passaggio della sentenza sostanzialmente smonta anche l'impianto della recente sentenza del Tar Lazio Sezione I-ter, 03.03.2015 n. 3670, secondo la quale i funzionari sarebbero da coinvolgere nell'escussione per la verifica delle professionalità interne, prima di affidare incarichi a termine, ai sensi dell'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001.
La sentenza della Corte costituzionale chiarisce una volta e per sempre che per ascendere dalla qualifica di funzionari a quella di dirigenti occorre il concorso. Non è possibile, infatti, considerare la funzione dirigenziale come una mansione superiore: «L'illegittimità di questa modalità di copertura delle posizioni dirigenziali deriva dalla sua non riconducibilità, né al modello dell'affidamento di mansioni superiori a impiegati appartenenti a un livello inferiore, né all'istituto della cosiddetta reggenza. Il primo modello, disciplinato dall'art. 52 del dlgs. n. 165 del 2001, prevede l'affidamento al lavoratore di mansioni superiori, nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di sei mesi prorogabili fino a dodici, qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti, ma è applicabile solo nell'ambito del sistema di classificazione del personale dei livelli, non già delle qualifiche, e in particolare non è applicabile (ed è illegittimo se applicato) laddove sia necessario il passaggio dalla qualifica di funzionario a quella di dirigente (sentenza di questa Corte n. 17 del 2014; nella giurisprudenza di legittimità, ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 12.04.2006, n. 8529, e 26.03.2010, n. 7342)».
Quindi, immaginare di assegnare ai funzionari incarichi dirigenziali nell'ambito delle procedure interne di interpello, ai sensi dei commi 1 e 1-bis, dell'articolo 19 del dlgs 165/2001, risulta incostituzionale e improponibile.
I funzionari, spiega la Consulta, possono eventualmente ricevere incarichi dirigenziali solo ricorrendo «all'istituto della reggenza, regolato in generale dall'art. 20 del dpr 08.05.1987, n. 266 (Norme risultanti dalla disciplina prevista dall'accordo del 26.03.1987 concernente il comparto del personale dipendente dai ministeri)», la quale ha il precipuo scopo di colmare vacanze nell'ufficio determinate da cause imprevedibili, straordinarie e di brevissima durata.
Il sistema, dunque, per coprire le vacanze di organico dirigenziale è esclusivamente quello dei concorsi.
La sentenza della Consulta non prende di mira direttamente l'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001, ma implicitamente ne sancisce l'incostituzionalità nella parte in cui consente alle amministrazioni di acquisire dirigenti a tempo determinato «esterni», attribuendo, invece, l'incarico proprio a funzionari interni, per altro nella gran parte dei casi senza verificare che questi dispongano delle particolarissime ed elevatissime competenze e dei titoli che impone la norma citata (articolo ItaliaOggi del 20.03.2015).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, da parte delle norme secondarie, in quanto il rinvio contenuto nella seconda parte del suddetto articolo ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una 'distanza maggiore'.
Pertanto, è illegittima, e va dunque disapplicata, la norma tecnica d'attuazione del P.R.G. del comune in materia di distanze delle costruzioni dal confine, sia nella sua formulazione vigente, secondo cui i muri di contenimento con altezza inferiore a m. 1,50 a sostegno di terrapieni o rampe fino a 45° possono essere costruiti nel solo rispetto delle distanze previste dal codice civile, sia nella sua formulazione anteriore, in base alla quale i muri con altezza inferiore a m. 1,50 a sostegno di terrapieni, o rampe fino a 45° (pendenza 100%), non costituiscono costruzione e pertanto non debbono rispettare le distanze dai confini.
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Distanze legali, anche terrapieni e rampe sono costruzioni.
Cassazione: il rinvio ai regolamenti locali, contenuto nell'art. 873 del Codice civile, è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una "distanza maggiore".

Con la sentenza 16.03.2015 n. 5163, la II Sez. civile della Corte di Cassazione ha stabilito l'illegittimità e la conseguente disapplicazione di una norma tecnica di attuazione del P.R.G. di un comune in materia di distanze nelle costruzioni dal confine. 
Nella formulazione precedente, la norma suddetta prevedeva che i muri con altezza inferiore a 1,50 metri a sostegno di terrapieni, o rampe fino a 45° (pendenza 100%), non costituiscono costruzione e pertanto non devono rispettare le distanze dai confini. Nella formulazione vigente, la norma prevede che i muri di contenimento con altezza inferiore a 1,50 metri a sostegno di terrapieni o rampe fino a 45° possono essere costruiti nel solo rispetto delle distanze previste dal Codice civile.
NOZIONE DI COSTRUZIONE. La norma, in entrambe le formulazioni, è stata bocciata dalla suprema Corte in base al principio secondo cui la nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 del Codice civile, è unica e non è soggetta a deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, da parte di norme secondarie; infatti il rinvio ai regolamenti locali, contenuto nella seconda parte del predetto articolo, è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una "distanza maggiore"
(commento tratto da www.casaeclima.com).
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3. - Col terzo motivo è dedotta, in relazione al n. 3 dell'art. 360 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell'art. 4.2. delle N.T.A. del P.R.G. del comune di Pergine Valsugana.
Tale norma, sostiene parte ricorrente, disciplina unicamente tre ipotesi: quella dei muri di sostegno di terrapieni, le rampe con pendenza sino al 100% e la serie di muri a gradoni. Tutte e tre le ipotesi si riferiscono ad un elemento naturalistico costituito dalla presenza di terreni a forte dislivello, e non anche, pertanto, ai terrapieni che, come quello di specie, è d'origine artificiale.
4. - Il quarto motivo espone, in relazione al n. 4 dell'art. 360 c.p.c., la nullità del procedimento (rectius, della sentenza impugnata) per l'omesso esame del quarto motivo d'appello, col quale era stato dedotto che la norma regolamentare suddetta, interpretata nel senso che i manufatti in essa considerati non costituivano costruzione, si poneva in contrasto con l'art. 873 c.c. e con la nozione di costruzione in essa contenuta, che non ammette deroghe da parte dei regolamenti locali ai fini del computo delle distanze.
...
6. - Complementari e anch'essi perciò da esaminare insieme, il terzo e il quarto motivo sono invece fondati.
6.1. - Essi involgono l'interpretazione della normativa locale in materia, che soggiace, in virtù della posizione recessiva che il sistema gerarchico delle fonti del diritto le assegna rispetto alla legge, ai risultati dell'attività ermeneutica svolta sull'art. 873 c.c..
In particolare, la nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, da parte delle norme secondarie, in quanto il rinvio contenuto nella seconda parte del suddetto articolo ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una "distanza maggiore" (Cass. n. 19530/05, che in applicazione di questo principio ha cassato la sentenza del giudice di merito che, sulla base di una disposizione del regolamento edilizio comunale, aveva negato la qualità di costruzione ad un determinato manufatto; conforme, Cass. n. 1556/2005).
Orbene, la giurisprudenza di questa Corte è del tutto costante nel ritenere che ai fini dell'applicazione delle norme sulle distanze dettate dagli artt. 873 e ss. c.c. o dalle diposizioni regolamentari integrative del codice civile, per "costruzione" deve intendersi qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo (cfr. ex pluribus, Cass. nn. 5753/2014, 23189/2012, 15972/2011, 22127/2009, 25837/2008, S.U. 7067/1992 e 3199/2002), indipendentemente dalla tecnica costruttiva adoperata e, segnatamente, dall'impiego di malta cementizia (Cass. n. 4196/1987).
Ed è altrettanto costantemente affermato, in tema di distanze legali, che mentre il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi "costruzione" agli effetti della disciplina di cui all'art. 873 c.c. per la parte che adempie alla sua specifica funzione, devono ritenersi soggetti a tale norma, perché costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente (cfr. Cass. nn. 1217/2010, 145/2006, 8144/2001, 4511/1997, 7594/1995 e 1467/1994).
A tale indirizzo, cui va assicurata continuità, deve solo aggiungersi, per evitare fraintendimenti, una precisazione di carattere terminologico sulle espressioni di "terrapieno naturale" e di "terrapieno artificiale" o antropico.
La prima, infatti, consiste in un ossimoro, poiché ogni terrapieno, consistendo in un riporto di terra (contro un muro o) sostenuto da un muro è per definizione opera dell'uomo, e dunque artificiale, mentre naturale può essere soltanto il dislivello del terreno, originario ovvero prodotto o accentuato da movimenti franosi o da altre cause non immediatamente riferibili all'attività dell'uomo. Dunque, a termini dell'art. 873 c.c. i muri di sostegno di terrapieni sono costruzioni.
6.2. - La norma tecnica del P.R.G. del comune di Pergine Valsugana dettata in tema di distanze dai confini ed applicata dalla Corte d'appello nella sentenza impugnata recita(va) per la parte che qui interessa: "4.2 (...) Muri con altezza inferiore a m. 1,50 a sostegno di terrapieni, o rampe fino a 45° (pendenza 100%), non costituiscono costruzione e pertanto non debbono rispettare le distanze dai confini (Dc) trattate dal presente comma"; distanza che il medesimo articolo fissa in m. 5,00.
La sopravvenuta nuova disciplina del medesimo P.R.G. approvata nel 2006, di cui parte controricorrente invoca l'applicazione in quanto a suo giudizio renderebbe ad ogni modo legittima l'opera di cui si discute, dispone: "4.5.1. Muri di contenimento con altezza inferiore a m. 1,50 a sostegno di terrapieni o rampe fino a 45° possono essere costruiti nel solo rispetto delle distanze previste dal Codice Civile"; e dunque per essi non opera la distanza di m. 5,00 dal confine.
Nonostante in quest'ultima norma sia stato espunto il riferimento espresso al concetto di "costruzione", contenuto nella formulazione precedente, il precetto che ne deriva è tutt'altro che diverso. Infatti, affermare che i muri di contenimento di altezza inferiore a m. 1,50 a sostegno di terrapieni siano soggetti solo alle norme civilistiche, e dunque non debbano rispettare la distanza dal confine altrimenti valevole in base al medesimo P.R.G. ove il muro ecceda la predetta altezza, vale ugualmente a derubricare a "non costruzione", sia pure e sempre al limitato scopo del computo della distanza dal confine, il muro non superiore a m. 1,50 eretto a sostegno di un terrapieno.
La nuova e la precedente norma producono il medesimo effetto di sottrarre alla distanza di m. 5,00 dal confine un muro di altezza non superiore a m. 1,50 destinato a sostenere un riempimento di terra effettuato a scopi edilizi, e non già per contenere un dislivello naturale del terreno.
E poiché un tale muro ha natura di costruzione, entrambe le disposizioni esaminate violano allo stesso modo l'art. 873 c.c., derogando al concetto di costruzione ivi richiamato, e pertanto vanno disapplicate.
...
8. - La sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Trento, che nel decidere il merito si atterrà al seguente principio di diritto: "
La nozione di costruzione, agli effetti dell'art. 873 c.c., è unica e non può subire deroghe, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, da parte delle norme secondarie, in quanto il rinvio contenuto nella seconda parte del suddetto articolo ai regolamenti locali è circoscritto alla sola facoltà di stabilire una 'distanza maggiore'.
Pertanto, è illegittima, e va dunque disapplicata, la norma tecnica d'attuazione del P.R.G. del comune di Pergine Valsugana in materia di distanze delle costruzioni dal confine, sia nella sua formulazione vigente, secondo cui i muri di contenimento con altezza inferiore a m. 1,50 a sostegno di terrapieni o rampe fino a 45° possono essere costruiti nel solo rispetto delle distanze previste dal codice civile, sia nella sua formulazione anteriore, in base alla quale i muri con altezza inferiore a m. 1,50 a sostegno di terrapieni, o rampe fino a 45° (pendenza 100%), non costituiscono costruzione e pertanto non debbono rispettare le distanze dai confini
".

APPALTIQualora un soggetto partecipante alla gara d'appalto abbia reso una dichiarazione del tutto conforme a quella risultante dal modulo predisposto dall'amministrazione, l'eventuale omissione di una dichiarazione non può in ogni caso portare all'esclusione del concorrente, vertendosi in ipotesi di clausole della lex specialis contraddittorie, equivoche e ambigue, tali da ingenerare un legittimo affidamento in capo al ricorrente che ha reso le dichiarazioni richieste dal bando a pena di esclusione.
Come evidenziato in giurisprudenza, qualora un soggetto partecipante alla gara d'appalto abbia reso una dichiarazione del tutto conforme a quella risultante dal modulo predisposto dall'amministrazione, l'eventuale omissione di una dichiarazione non può in ogni caso portare all'esclusione del concorrente, vertendosi in ipotesi di clausole della lex specialis contraddittorie, equivoche e ambigue, tali da ingenerare un legittimo affidamento in capo al ricorrente che ha reso le dichiarazioni richieste dal bando a pena di esclusione (TAR Lombardia, Milano, 27.12.2013, 2768, TAR Sardegna, Sez. I, 16.10.2013 n. 644, C.S., Sez. V, 22.05.2012 n. 2973)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 16.03.2015 n. 725 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Per giurisprudenza costante, il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell'aggiudicazione impugnata e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questi dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa.
In difetto, si presume invece che l'impresa abbia riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori a titolo di aliunde perceptum, coerentemente con quanto previsto in via generale dall'art. 1227 c.c.. In mancanza di prova contraria, deve pertanto ritenersi che l'impresa abbia comunque impiegato proprie risorse e mezzi in altre attività, dovendosi quindi sottrarre al danno subito per la revoca dell’aggiudicazione l'aliunde perceptum, calcolato forfettariamente nella misura del 50%.
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Per giurisprudenza costante, il risarcimento del danno curriculare, ontologicamente non diverso da quello legato al mancato perseguimento dell'interesse positivo, e derivante dalla mancata esecuzione dell'appalto, va risarcito in caso di illegittima revoca dell’aggiudicazione.

Una volta chiarito che la base su cui quantificare i danni subiti dalla ricorrente è l’utile dalla stessa dichiarato in sede di giustificazione dei prezzi, osserva il Collegio che, per giurisprudenza costante, il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell'aggiudicazione impugnata e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questi dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa. In difetto, si presume invece che l'impresa abbia riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori a titolo di aliunde perceptum, coerentemente con quanto previsto in via generale dall'art. 1227 c.c.. In mancanza di prova contraria, deve pertanto ritenersi che l'impresa abbia comunque impiegato proprie risorse e mezzi in altre attività, dovendosi quindi sottrarre al danno subito per la revoca dell’aggiudicazione l'aliunde perceptum, calcolato forfettariamente nella misura del 50% (C.S., Sez. IV, 11.11.2014 n. 5531, Sez. III, 12.11.2014 n. 5567, Sez. V, 08.08.2014 n. 4248).
Secondo la ricorrente “i tempi strettissimi di avvio e conclusione del servizio previsti dalla lex specialis (60 giorni dall’aggiudicazione), e la circostanza che la ricorrente fosse risultata aggiudicataria”, l’avrebbero indotta ad organizzare la propria struttura aziendale “in modo del tutto orientato all’esecuzione del servizio”. Inoltre, poiché l’appaltatore era tenuto a mettere a disposizione della stazione appaltante, in particolare, un dirigente tecnico, tenuto conto che nell’organico della ricorrente è presente un solo dipendente con tale qualifica, conseguirebbe “che la struttura aziendale era sostanzialmente ferma in attesa dell’imminente avvio delle prestazioni di bonifica oggetto della gara”.
Il Collegio osserva che dette affermazioni sono tuttavia prive di qualunque supporto probatorio documentale, risultando pertanto apodittiche, e conseguentemente inidonee a dar luogo in favore della stessa l’integrale riconoscimento del danno, nella misura dell’utile dichiarato in sede di offerta, dovendosi invece ridurre il medesimo del 50%, in conformità alla giurisprudenza precedentemente citata.
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La ricorrente richiede altresì il danno curriculare, nella misura del 2%, in considerazione del mancato arricchimento delle proprie referenze aziendali.
Osserva il Collegio che, per giurisprudenza costante, detto danno, ontologicamente non diverso da quello legato al mancato perseguimento dell'interesse positivo, e derivante dalla mancata esecuzione dell'appalto (C.S. Sez. V, 29.12.2014 n. 6406), vada risarcito in caso di illegittima revoca dell’aggiudicazione (C.S. Sez. IV, 14.01.2013 n. 156)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 16.03.2015 n. 725 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa stazione appaltante ha previsto nel bando di gara l’apertura dei plichi esterni contenenti la documentazione di gara (Busta A) e le offerte (Busta B) alle ore 12:00 del giorno 03.09.2014. In tal giorno, senza alcuna preventiva comunicazione nei confronti dei tre operatori partecipanti, i plichi esterni sono stati aperti alle ore 10:00, quindi con un anticipo di due ore rispetto all’orario prefissato, alla sola presenza del personale della “Commissione Acquisti” ed in assenza del Presidente oltre che del segretario verbalizzante, come da verbale depositato in giudizio.
In buona sostanza quindi la Commissione, peraltro a composizione dimidiata, ha provveduto all’apertura dei plichi generali esterni contenenti la busta B (offerta economica) e la Busta A (documentazione di gara) in seduta non pubblica, non avendo di fatto consentito ai partecipanti di presenziare alle operazioni, come da verbale della Commissione.
Tale modus procedendi ha palesemente violato il fondamentale principio di pubblicità delle sedute di gara, oggi codificato dall’art. 12 del D.L. 07.05.2012 n. 5 convertito in L. 06.07.2012, n. 84, strettamente correlato all'esigenza di garantire che la documentazione inserita nei plichi delle offerte trovi regolare ingresso nella procedura di evidenza pubblica, in ossequio alla par condicio tra concorrenti, ai quali deve essere sempre permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere la sicurezza che non siano intervenute indebite alterazioni, e rispetto dell'interesse pubblico alla trasparenza ed imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato.
Ed invero, l’iniziale e fondamentale operazione di apertura dei plichi esterni contenenti le due buste si è svolta in una seduta non pubblica, della quale, peraltro, nessun concorrente aveva avuto formale avviso da parte della stazione appaltante.
Giova ribadire che il principio di pubblicità delle sedute di gara, quale espressione del principio di trasparenza, trova sicura applicazione anche nei settori esclusi ovvero nelle concessioni di servizi pubblici -a cui è pacificamente riconducibile il servizio de quo- dovendo la scelta del concessionario avvenire, tra l’altro, nel rispetto dei principi di trasparenza e adeguata pubblicità (art. 30 c. 3, Codice contratti pubblici).
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L’apertura dei “soli” plichi generali esterni riveste carattere fondamentale a garanzia della regolarità e trasparenza delle operazioni di gara poiché, in caso contrario, non vi è certezza in merito alla presenza o meno delle buste contenenti l’offerta economica e l’offerta tecnica e alla eventuale manomissione da parte della Commissione o di terzi, senza necessità -ai fini della legittimità della gara- della prova della effettiva manipolazione della documentazione prodotta.
Mette conto rilevare poi la assoluta rilevanza della verifica dell’integrità dei plichi anche ai sensi del principio di c.d. tassatività delle cause di esclusione di cui all’art. 46, c. 1-bis, del Codice contratti pubblici, poiché costituiscono motivo tipizzato di esclusione, tra l’altro, “le irregolarità relative alla chiusura dei plichi tali da far ritenere violato il principio di segretezza delle offerte” irregolarità che non sono appunto apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi.
In tale situazione non si comprende quale garanzia di regolarità e trasparenza per le operazioni di gara possa essere ravvisata, laddove nessun concorrente ha avuto la possibilità di conoscere l’effettiva ora di svolgimento della seduta nella quale i plichi esterni sono stati aperti.
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In caso di annullamento dell’intera gara, con conseguente necessità di rinnovare la procedura, consegue l’inefficacia del contratto, senza che occorra una specifica valutazione comparativa degli elementi stabiliti dall’art. 122 cod. proc. amm. a tutela anche dell’interesse pubblico alla conservazione del contratto.

4.1. La stazione appaltante ha previsto nel bando di gara l’apertura dei plichi esterni contenenti la documentazione di gara (Busta A) e le offerte (Busta B) alle ore 12:00 del giorno 03.09.2014. In tal giorno, senza alcuna preventiva comunicazione nei confronti dei tre operatori partecipanti, i plichi esterni sono stati aperti alle ore 10:00, quindi con un anticipo di due ore rispetto all’orario prefissato, alla sola presenza del personale della “Commissione Acquisti” ed in assenza del Presidente oltre che del segretario verbalizzante, come da verbale depositato in giudizio.
In buona sostanza quindi la Commissione, peraltro a composizione dimidiata, ha provveduto all’apertura dei plichi generali esterni contenenti la busta B (offerta economica) e la Busta A (documentazione di gara) in seduta non pubblica, non avendo di fatto consentito ai partecipanti di presenziare alle operazioni, come da verbale della Commissione.
4.2. Tale modus procedendi ha palesemente violato il fondamentale principio di pubblicità delle sedute di gara, oggi codificato dall’art. 12 del D.L. 07.05.2012 n. 5 convertito in L. 06.07.2012, n. 84, strettamente correlato all'esigenza di garantire che la documentazione inserita nei plichi delle offerte trovi regolare ingresso nella procedura di evidenza pubblica, in ossequio alla par condicio tra concorrenti, ai quali deve essere sempre permesso di effettuare gli opportuni riscontri sulla regolarità formale degli atti prodotti e di avere la sicurezza che non siano intervenute indebite alterazioni, e rispetto dell'interesse pubblico alla trasparenza ed imparzialità dell'azione amministrativa, le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi, in mancanza di un riscontro immediato (ex multis Consiglio di Stato, Ad. Pl. 28.07.2001, n. 13; id. sez. V, 17.09.2010, n. 6939; id. 10.11.2010, n. 8006; id. 04.03.2008, n. 901; id. sez. VI, 22.04.2008, n. 1856; id. sez. V, 03.12.2008, n. 5943; id. sez. IV, 11.10.2007, n. 5354; id. sez. V, 18.03.2004, n. 1427; TAR Lazio sez. III, 03.06.2014 n. 5874; TAR Umbria 11.07.2012, n. 274).
Ed invero, l’iniziale e fondamentale operazione di apertura dei plichi esterni contenenti le due buste si è svolta in una seduta non pubblica, della quale, peraltro, nessun concorrente aveva avuto formale avviso da parte della stazione appaltante.
4.3. Giova ribadire che il principio di pubblicità delle sedute di gara, quale espressione del principio di trasparenza, trova sicura applicazione anche nei settori esclusi (Consiglio di Stato sez. V, 05.10.2011, n. 5454) ovvero nelle concessioni di servizi pubblici -a cui è pacificamente riconducibile il servizio de quo (ex multis TAR Lazio Latina 07.03.2012, n. 195)- dovendo la scelta del concessionario avvenire, tra l’altro, nel rispetto dei principi di trasparenza e adeguata pubblicità (art. 30 c. 3, Codice contratti pubblici).
4.4. Né meritevoli di alcun pregio si palesano gli argomenti spesi dall'Avvocatura erariale per sostenere che la documentata conservazione dei plichi in cassaforte sino alle ore 12:00 costituisca garanzia della regolarità e trasparenza della procedura, quale forma sostanzialmente equipollente all’omessa pubblicità.
L’apertura dei “soli” plichi generali esterni, infatti, riveste carattere fondamentale a garanzia della regolarità e trasparenza delle operazioni di gara poiché, in caso contrario, non vi è certezza in merito alla presenza o meno delle buste contenenti l’offerta economica e l’offerta tecnica e alla eventuale manomissione da parte della Commissione o di terzi, senza necessità -ai fini della legittimità della gara- della prova della effettiva manipolazione della documentazione prodotta (ex multis TAR Abruzzo L’Aquila 28.02.2013, n. 176).
Mette conto rilevare poi la assoluta rilevanza della verifica dell’integrità dei plichi anche ai sensi del principio di c.d. tassatività delle cause di esclusione di cui all’art. 46, c. 1-bis, del Codice contratti pubblici, poiché costituiscono motivo tipizzato di esclusione, tra l’altro, “le irregolarità relative alla chiusura dei plichi tali da far ritenere violato il principio di segretezza delle offerte” irregolarità che non sono appunto apprezzabili ex post una volta rotti i sigilli ed aperti i plichi.
In tale situazione non si comprende quale garanzia di regolarità e trasparenza per le operazioni di gara possa essere ravvisata, laddove nessun concorrente ha avuto la possibilità di conoscere l’effettiva ora di svolgimento della seduta nella quale i plichi esterni sono stati aperti.
5. L'accertata fondatezza del IV motivo di gravame, di natura chiaramente assorbente, comporta l'accoglimento del ricorso e l'annullamento degli atti del procedimento di gara impugnati, ivi compreso il nuovo bando, parimenti impugnato, per l’affidamento del servizio nel plesso Primario S. Rocco, ad essi consequenziale.
6. Deve essere accolta anche la domanda di declaratoria di inefficacia dei contratti eventualmente già stipulati dall'Amministrazione con i controinteressati.
Come già rilevato dall’adito Tribunale (TAR Umbria 30.01.2013, n. 61) in caso di annullamento dell’intera gara, con conseguente necessità di rinnovare la procedura, consegue l’inefficacia del contratto, senza che occorra una specifica valutazione comparativa degli elementi stabiliti dall’art. 122 cod. proc. amm. a tutela anche dell’interesse pubblico alla conservazione del contratto (Cons. Stato, Ad. Plen., 28.07.2011, n. 13; in termini anche TAR Lazio, Latina, 07.06.2012, n. 448) (TAR Umbria, sentenza 14.03.2015 n. 113 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: L'assimilazione dei rifiuti impone la Tarsu.
Se il consiglio comunale ha assimilato i rifiuti speciali agli urbani, il contribuente è tenuto a pagare integralmente la Tarsu perché il servizio di smaltimento viene svolto dall'ente. Il comune ha il potere di assimilare i rifiuti non pericolosi a quelli ordinari. In questi casi il sevizio di raccolta e smaltimento viene svolto dall'amministrazione comunale e il contribuente non ha diritto a alcuna riduzione tariffaria, anche nel caso in cui abbia sostenuto dei costi per smaltire autonomamente i rifiuti prodotti tramite operatori privati.

È quanto ha affermato la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 13.03.2015 n. 5047.
Per i giudici di legittimità non si tratta di «una doppia tassazione», poiché è stata una scelta della società ricorrente di affidare a ditta esterna la raccolta degli imballaggi. Se nel regolamento Tarsu è prevista l'assimilazione dei rifiuti speciali a quelli ordinari non può essere opposta alcuna «limitazione al pagamento integrale della tassa, avendo attivato, come rilevato dalla Ctr, il comune il servizio di raccolta e smaltimento».
Dunque, per i rifiuti assimilati i contribuenti erano soggetti al pagamento della Tarsu e non avevano alcuna chance di smaltirli direttamente avvalendosi di operatori privati. Nessuno dei rifiuti speciali è assimilato per legge a quelli urbani. I rifiuti speciali, anche se di origine industriale, artigianale, commerciale o connessi a servizi, possono infatti essere assimilati agli urbani, ad eccezione di quelli pericolosi.
Per esempio, la Cassazione (sentenza 27057/2007) ha sempre ritenuto legittima l'assimilazione degli imballaggi ai rifiuti urbani. Il potere regolamentare di assimilare agli urbani i rifiuti speciali, è stato mantenuto fermo dal cosiddetto «decreto Ronchi» (decreto legislativo 22/1997). Questa scelta, però, poteva essere esercitata anche prima e indipendentemente dall'approvazione da parte dello stato dei nuovi criteri di assimilabilità, risultando già applicabili i criteri di cui alla delibera del Comitato interministeriale del 27.07.1984, intervenuta in attuazione della previsione contenuta nell'articolo 5 del dpr 915/1982.
Locali e aree sono normalmente soggette a tassazione, tranne rare eccezioni espressamente individuate dalla legge. Il presupposto della tassa rifiuti solidi urbani è l'occupazione o la detenzione di locali e aree scoperte a qualsiasi uso adibiti. L'articolo 62, comma 2, del decreto legislativo 507/1993, nel testo all'epoca vigente, dispone che non sono soggetti alla tassa i locali e le aree che non possono produrre rifiuti o per la loro natura o per il particolare uso cui sono stabilmente destinati o perché risultino in obiettive condizioni di non utilizzabilità nel corso dell'anno, qualora tali circostanze siano indicate nella denuncia originaria o di variazione e debitamente riscontrate in base ad elementi obiettivi direttamente rilevabili o a idonea documentazione.
Tra i locali e le aree che non possono produrre rifiuti rientrano quelli situati in luoghi impraticabili, interclusi o in stato di abbandono (articolo ItaliaOggi del 19.03.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il timbro non fa fede.
La data dell'avviso di ricevimento della raccomandata è l'unica che fa fede per l'accertamento del perfezionamento della notificazione, e l'onere di produzione in giudizio grava sulla parte notificante. Non fa, invece, fede il timbro postale sulla busta poiché indica semplicemente la data di smistamento del plico presso l'ufficio postale.

La Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con la sentenza 11.03.2015 n. 4891 osserva che per quanto riguarda la notificazioni a mezzo posta, nel caso in cui si debba accertare il perfezionamento della notificazione nei confronti del destinatario, posto che la data del timbro postale sulla busta corrisponde a quella di smistamento del plico presso l'ufficio postale e non all'effettivo recapito al destinatario, che può anche avvenire in data successiva, l'unico documento attestante la consegna a questi e la sua data è, di regola, l'avviso di ricevimento della raccomandata, la cui produzione in giudizio è onere che grava sulla parte notificante.
Deve inoltre rammentarsi l'orientamento della stessa Cassazione (da ultimo Cass. ord. n. 19387 dell'08/11/2012), secondo cui ai fini della dimostrazione dell'avvenuta notifica del ricorso per cassazione, se avvenuta a mezzo del servizio postale, il ricorrente ha l'onere, a pena di inammissibilità del ricorso, di produrre, non oltre l'udienza di discussione, l'avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso, ovvero l'avviso di ricevimento della raccomandata con la quale l'ufficiale giudiziario da notizia al destinatario dell'avvenuto compimento delle formalità di cui all'art. 140 cod. proc. civ.; il deposito del suddetto avviso non può essere surrogato dal deposito dalla stampa di una pagina del servizio «online» dell'amministrazione postale, la quale attesti l'avvenuta consegna della raccomandata, poiché solo il timbro postale fa fede ai fini della regolarità della notificazione (articolo ItaliaOggi Sette del 23.03.2015).

URBANISTICA: Per giurisprudenza costante, le scelte compiute dall’Amministrazione in sede di variante sono espressione dell’ampia discrezionalità tecnica di cui essa dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità arbitrarietà ed evidente travisamento dei fatti.
E’ principio oramai pacifico che le scelte pianificatorie dell’Amministrazione sono di difficile censurabilità, stante il carattere di ampia discrezionalità affidato alle stesse.
E il primo giudice riferisce appunto che: “…il Collegio ha ben presente che per giurisprudenza costante (ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 27.12.2007, n. 6686) le scelte compiute dall’Amministrazione in sede di variante sono espressione dell’ampia discrezionalità tecnica di cui essa dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità arbitrarietà ed evidente travisamento dei fatti…” (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.02.2015 n. 962 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIARumore, non sempre c'è reato. L'impianto deve essere funzionale all'attività d'impresa. La Cassazione sul disturbo della quiete ha stabilito il confine con l'illecito amministrativo.
Non siamo in presenza del reato di inquinamento acustico (articolo 659 c.p.), ma solo di illecito amministrativo, quando l'utilizzo del condizionatore d'aria ubicato all'esterno dell'immobile è funzionale all'attività dell'impresa.
L'inquinamento acustico conseguente all'esercizio di mestieri rumorosi, che si concretizza nel mero superamento dei limiti massimi o differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia, integra l'illecito amministrativo (legge 26.10.1995, n. 447, art. 10, comma 2, legge quadro sull'inquinamento acustico) e non la contravvenzione di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone (art. 659 c.p.).

Queste le indicazioni contenute nella sentenza 23.02.2015 n. 7912 della Corte di Cassazione, III Sez. penale.
Il fatto in sintesi. Il tribunale condannava la titolare di una sala giochi a un'ammenda di 200 euro, ritenendola colpevole del reato di cui all'art. 659 c.p. (disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone).
Il giudice sottolineava che le rilevazioni fonometriche avevano accertato che «in orario notturno il rumore misurato nell'abitazione del denunciante a finestre aperte si innalzava da 37 decibel (dB) a 43 decibel (dB) per effetto dell'immissione sonora provocata dai rumori dei condizionatori. Tale incremento si poneva in contrasto con i dettati dell'articolo 4 del Dpcm 14.11.2007, il quale fissa i valori limite differenziali di immissione di 5dB in orario diurno e in 3dB in orario notturno. Inoltre le rilevazioni fonometriche evidenziavano livelli significativi di rumorosità prossimi al limite assoluto».
Il limite notturno previsto per le zone residenziali (II) è di 45 dB, per le aree di tipo misto (III) è di 50 dB e per le aree a intensa attività umana (IV) è di 55 dB, e che l'immobile in questione risultava «inquadrabile nell'area III, o al più nell'area IV».
L'imputata ricorreva in Cassazione, evidenziando, tra le altre censure, che secondo l'orientamento giurisprudenziale «il solo superamento dei limiti massimi o differenziali nell'esercizio di mestieri rumorosi integra l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma 2, della legge 447/1995
».
Posizione della Cassazione. In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, la condotta costituita dal superamento dei limiti di accettabilità di emissioni sonore derivanti dall'esercizio di professioni o mestieri rumorosi non configura l'ipotesi di reato di cui all'articolo 659, 2 comma, c.p., ma l'illecito amministrativo di cui alla legge 26.10.1995, n. 447 (art. 10, comma 2, legge quadro sull'inquinamento acustico), in applicazione del principio di specialità contenuto nell'articolo 9 legge 24.11.1981, n. 689.
Ancor più recentemente la Cassazione (sezione. 3, sent. del 18/09/2014, n. 42026) ha precisato che «in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone nell'ambito di una attività legittimamente autorizzata, è configurabile:
- l'illecito amministrativo di cui alla legge 26.10.1995, n. 447, articolo 10, comma 2, ove si verifichi solo il mero superamento dei limiti differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia;
- il reato di cui all'articolo 659, 1 comma, c.p., ove il fatto costituivo dell'illecito sia rappresentato da qualcosa di diverso dal mero superamento dei limiti di rumore, per effetto di un esercizio del mestiere che ecceda le sue normali modalità o ne costituisca un uso smodato;
- il reato di cui all'articolo 659, 2 comma, c.p., qualora la violazione riguardi altre prescrizioni legali o della autorità, attinenti all'esercizio del mestiere rumoroso, diverse da quelle impositive di limiti di immissioni acustica
» .
Nel caso in esame, sottolineano gli ermellini, il giudice avrebbe innanzitutto dovuto accertare se il denunciato inquinamento acustico proveniva o meno dell'esercizio di un mestiere rumoroso. Dalla sentenza impugnata risulta che si trattava di una sala giochi amministrata dall'imputata e che i rumori provenivano dai condizionatori d'aria che servivano il locale e che erano stati installati all'esterno, al di sotto del balcone dell'abitazione, posta al secondo piano del palazzo, di un condomino che se ne era lamentato e aveva fatto la denuncia. Doveva perciò accertarsi se i condizionatori erano uno strumento indispensabile per l'esercizio dell'attività autorizzata, o se erano indipendenti da tale esercizio.
Si tratta di un accertamento di fatto che spetta al giudice del merito e che non può essere compiuto in questa sede di legittimità, anche per la mancanza di qualsiasi elemento di valutazione. Sia pure nella giurisprudenza non proprio recente, sono rinvenibili alcune massime riferite a casi in cui i rumori provenienti dall'impianto di condizionamento sono stati ritenuti, in quelle specifiche situazioni, estranei all'esercizio dell'attività autorizzata (Cass. sez. 1, 21/12/2006, n. 7962 del 2007, in relazione a un laboratorio di sartoria, Cass. sez. 1, 17/12/1998, n. 4820 del 1999, in relazione a una discoteca). Si tratta comunque di una valutazione di merito che va compiuta in riferimento al singolo caso.
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Da motivare gli elementi costitutivi.
Se dovesse essere accertato che nella specie l'impianto di condizionamento era strumentalmente necessario per l'esercizio dell'attività autorizzata (sicché tale attività era da qualificarsi come rumorosa) e che erano stati superati i limiti assoluti o differenziali fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia, allora sarà configurabile l'illecito amministrativo.
Se invece dovesse essere accertato che nella specie si trattava di rumori non emessi nell'ambito dell'esercizio di una attività autorizzata rumorosa, allora potrebbe essere configurabile il reato di cui all'art. 659, 1 comma, c.p., sempre che ne sussistano gli elementi costitutivi e che di ciò sia data congrua e adeguata motivazione. La sentenza impugnata è invece totalmente priva di qualsiasi motivazione sulla sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato.
Secondo la giurisprudenza, invero, per integrare il reato di cui all'articolo 659, comma 1, è necessario che il fastidio non sia limitato agli appartamenti attigui alla sorgente rumorosa (Cass. sez. 3, sent. 13/05/2014, n. 23529), o agli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante alla fonte di propagazione. Occorre invece che la propagazione delle onde sonore sia estesa quanto meno a una consistente parte degli occupanti l'edificio, in modo da avere una diffusa attitudine offensiva e una idoneità a turbare la pubblica quiete.
Difatti, la rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l'incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l'interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete, sicché i rumori devono avere una tale diffusività che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo a essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare (articolo ItaliaOggi Sette del 23.03.2015).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza distingue, in proposito, tra varianti in senso proprio, varianti essenziali e varianti minime:
   a) Per quanto riguarda le c.d. varianti in senso proprio, deve rilevarsi che non tutte le modifiche alla progettazione originaria possono definirsi varianti e che queste si configurano solo allorquando il progetto già approvato non risulti sostanzialmente e radicalmente mutato dal nuovo elaborato.
La nozione di variante deve, cioè, ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto originario, e gli elementi da prendere in considerazione, al fine di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, sono la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.
Il nuovo provvedimento –da rilasciarsi col medesimo procedimento previsto per il rilascio del permesso di costruire– rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario, e in questo rapporto di complementarità e di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso di costruire in variante, che giustifica, tra l'altro, le peculiarità del regime giuridico cui esso soggiace sul piano sostanziale e procedimentale (in particolare, restano salvi tutti i diritti quesiti, e ciò specialmente a fronte di una contrastante normativa sopravvenuta, che, se non fosse ravvisata l'anzidetta situazione di continuità, potrebbe rendere irrealizzabile l'opera).
   b) Costituisce, poi, c.d. variante essenziale ogni modifica incompatibile col disegno globale ispiratore dell’originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo.
Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata dall’art. 32 del d.p.r. n. 380/2001, la quale ricomprende il mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione degli standards, l’aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Le domande di esecuzione di varianti essenziali sono, dunque, come tali, da considerarsi sostanzialmente volte al rilascio di un nuovo ed autonomo permesso di costruire e, conseguentemente, assoggettate alle disposizioni vigenti nel momento in cui sono presentate, non trattandosi, con esse, solo di modificare il progetto iniziale, ma di realizzare un'opera diversa, nelle sue caratteristiche essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.
   c) Caratteri peculiari presentano, infine, le c.d. varianti minori.
In proposito, l’art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 prevede che sono subordinate a d.i.a. (ora s.c.i.a.) le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la d.i.a. costituisce "parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale" e può essere presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori, purché si tratti –come si è visto– di ‘varianti leggere’.

1.1. Innanzitutto, giova rammentare che la vigente normativa edilizia riconosce la possibilità di assentire varianti al progetto approvato.
La giurisprudenza distingue, in proposito, tra varianti in senso proprio, varianti essenziali e varianti minime (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.04.2007 n. 1572; Cass. pen., sez. III, 24.03.2010 n. 24236; 25.09.2012 n. 49290).
   a) Per quanto riguarda le c.d. varianti in senso proprio, deve rilevarsi che non tutte le modifiche alla progettazione originaria possono definirsi varianti e che queste si configurano solo allorquando il progetto già approvato non risulti sostanzialmente e radicalmente mutato dal nuovo elaborato.
La nozione di variante deve, cioè, ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto originario, e gli elementi da prendere in considerazione, al fine di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, sono la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.
Il nuovo provvedimento –da rilasciarsi col medesimo procedimento previsto per il rilascio del permesso di costruire– rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario, e in questo rapporto di complementarità e di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso di costruire in variante, che giustifica, tra l'altro, le peculiarità del regime giuridico cui esso soggiace sul piano sostanziale e procedimentale (in particolare, restano salvi tutti i diritti quesiti, e ciò specialmente a fronte di una contrastante normativa sopravvenuta, che, se non fosse ravvisata l'anzidetta situazione di continuità, potrebbe rendere irrealizzabile l'opera).
   b) Costituisce, poi, c.d. variante essenziale ogni modifica incompatibile col disegno globale ispiratore dell’originario progetto edificatorio, sia sotto l'aspetto qualitativo sia sotto l'aspetto quantitativo.
Ai fini della configurazione dell'ambito di tale istituto, soccorre la definizione di variazione essenziale enunciata dall’art. 32 del d.p.r. n. 380/2001, la quale ricomprende il mutamento della destinazione d'uso implicante alterazione degli standards, l’aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica, mentre non ricomprende le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Le domande di esecuzione di varianti essenziali sono, dunque, come tali, da considerarsi sostanzialmente volte al rilascio di un nuovo ed autonomo permesso di costruire e, conseguentemente, assoggettate alle disposizioni vigenti nel momento in cui sono presentate, non trattandosi, con esse, solo di modificare il progetto iniziale, ma di realizzare un'opera diversa, nelle sue caratteristiche essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.
   c) Caratteri peculiari presentano, infine, le c.d. varianti minori.
In proposito, l’art. 22, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 prevede che sono subordinate a d.i.a. (ora s.c.i.a.) le varianti a permessi di costruire che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio qualora sottoposto a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tali ipotesi, la d.i.a. costituisce "parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruzione dell'intervento principale" e può essere presentata prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori: la formulazione dell'art. 22 consente, pertanto, la possibilità di dare corso alle opere in difformità dal permesso di costruire e poi regolarizzarle entro la fine dei lavori, purché si tratti –come si è visto– di ‘varianti leggere’ (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.02.2015 n. 1154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato.
La gravata misura repressivo-ripristinatoria rimane affrancata dalla ponderazione discrezionale dell’interesse privato al mantenimento in loco della res, in quanto costituisce –come più volte evidenziato– atto dovuto e rigorosamente vincolato, dove il preminente interesse pubblico risiede in re ipsa nell’eliminazione dell’abuso e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti.
2.1. Sotto il primo profilo, deve osservarsi che, l’ordinanza di demolizione, per la sua natura di atto urgente dovuto e rigorosamente vincolato, non implicante valutazioni discrezionali, ma risolventesi in meri accertamenti tecnici, fondato, cioè, su un presupposto di fatto rientrante nella sfera di controllo dell’interessato, non richiede apporti partecipativi di quest’ultimo, il quale, in relazione alla disciplina tipizzata dei procedimenti repressivi, contemplante la preventiva contestazione dell'abuso, ai fini del ripristino di sua iniziativa dell'originario assetto dei luoghi, viene, in ogni caso, posto in condizione di interloquire con l'amministrazione prima di ogni definitiva statuizione di rimozione d'ufficio delle opere abusive; tanto più che, in relazione ad una simile tipologia provvedimentale, può trovare applicazione l’art. 21-octies della l. n. 241/1990, che statuisce la non annullabilità dell’atto adottato in violazione delle norme su procedimento, qualora, per la sua natura vincolata, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente enucleato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 03.03.2007, n. 1021; sez. IV, 01.10.2007, n. 5050; 10.08.2011, n. 4764; TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 17.01.2007, n. 357; sez. VI, 08.02.2007, n. 961; sez. IV, 22.03.2007, n. 2725; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; 08.06.2007, n. 6038; Salerno, sez. II, 13.08.2007, n. 900; Napoli, sez. IV, 06.11.2007, n. 10676; 06.11.2007, n. 10679; sez. VII, 12.12.2007, n. 16226; sez. IV, 17.12.2007, n. 16316; sez. VII, 28.12.2007, n. 16550; sez. IV, 24.01.2008, n. 367; 21.03.2008, n. 1460; sez. VII, 21.03.2008, n. 1474; 04.04.2008, n. 1883; sez. III, 16.04.2008, n. 2207; sez. IV, 18.04.2008, n. 2344; sez. VI 18.06.2008, n. 5973; TAR Umbria, Perugia, 26.01.2007, n. 44; TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 08.02.2007, n. 52; TAR Molise, Campobasso, 20.03.2007, n. 178; TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 20.04.2007, n. 709; sez. VII, 09.05.2007, n. 4859; TAR Basilicata, Potenza, sez. I, 16.02.2008, n. 33; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 26.02.2008, n. 454; 13.03.2008, n. 605; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 20.09.2008, n. 2651).
2.2. Sotto il secondo profilo, occorre rimarcare che la gravata misura repressivo-ripristinatoria rimane affrancata dalla ponderazione discrezionale dell’interesse privato al mantenimento in loco della res, in quanto costituisce –come più volte evidenziato– atto dovuto e rigorosamente vincolato, dove il preminente interesse pubblico risiede in re ipsa nell’eliminazione dell’abuso e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 11.01.2011, n. 79; sez. IV, 04.05.2012, n. 2592; TAR Campania, sez. VI, 06.09.2010, n. 17306; sez. VII, 03.11.2010, n. 22291; sez. VIII, 05.01.2001, n. 4; 06.04.2011, n. 1945; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 10.09.2010, n. 1962; 09.11.2010, n. 2631; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 19.11.2010, n. 4164; TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.12.2010, n. 35404; TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.03.2011, n. 432)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.02.2015 n. 1154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I ricorrenti lamentano che l’impugnata ordinanza di demolizione non sarebbe stata notificata ad altri proprietari delle unità immobiliari da essa riguardate.
Una simile doglianza è inammissibile, oltre che infondata nel merito:
a) Inammissibile per carenza di interesse ad agire, in quanto l’omessa notificazione del provvedimento monitorio sarebbe censurabile esclusivamente dai soggetti nel cui interesse la comunicazione stessa è posta (nella specie, gli altri proprietari dei sottotetti contestati), e non da quelli che l’hanno regolarmente ricevuta, stante la funzione dell’istituto, consistente nella esigenza di portare a conoscenza dell’atto il suo destinatario onde ottenerne la personale collaborazione procedimentale.
b) Infondata, altresì, in quanto la mancata notificazione ai terzi proprietari non inficia, di per sé, la fase di formazione, e, quindi, la legittimità del provvedimento impugnato, bensì incide, semmai, sulla relativa fase integrativa dell’efficacia, e, quindi, sulla sua conoscibilità da parte degli interessati.
Invero, ai fini della legittimità dell’iter procedimentale posto in essere dall’amministrazione per il ripristino dei valori giuridici offesi dalla realizzazione di un opera abusiva, il proprietario pretermesso, da un lato, può, comunque, autonomamente gravarsi nei confronti del provvedimento sanzionatorio, facendo valere le proprie ragioni entro il termine decorrente dalla piena conoscenza dell'ingiunzione, e, d’altro lato, mantiene appieno tutelata la propria posizione, dacché l'acquisizione gratuita dell’immobile in sua titolarità per abusi edilizi non potrebbe verificarsi, ove non gli fosse stata notificata la previa ingiunzione di demolizione.

3. I ricorrenti lamentano, infine, che l’impugnata ordinanza di demolizione n. 10 del 18.02.2014 non sarebbe stata notificata ad altri proprietari delle unità immobiliari da essa riguardate.
Una simile doglianza è inammissibile, oltre che infondata nel merito.
a) Inammissibile per carenza di interesse ad agire, in quanto l’omessa notificazione del provvedimento monitorio sarebbe censurabile esclusivamente dai soggetti nel cui interesse la comunicazione stessa è posta (nella specie, gli altri proprietari dei sottotetti contestati), e non da quelli che l’hanno regolarmente ricevuta (nella specie, i nominativi in epigrafe), stante la funzione dell’istituto, consistente nella esigenza di portare a conoscenza dell’atto il suo destinatario onde ottenerne la personale collaborazione procedimentale (cfr. TAR Lazio, Latina, 03.01.2008, n. 1).
b) Infondata, altresì, in quanto la mancata notificazione ai terzi proprietari non inficia, di per sé, la fase di formazione, e, quindi, la legittimità del provvedimento impugnato, bensì incide, semmai, sulla relativa fase integrativa dell’efficacia, e, quindi, sulla sua conoscibilità da parte degli interessati (TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 25.03.2009, n. 1607): ed invero, ai fini della legittimità dell’iter procedimentale posto in essere dall’amministrazione per il ripristino dei valori giuridici offesi dalla realizzazione di un opera abusiva, il proprietario pretermesso, da un lato, può, comunque, autonomamente gravarsi nei confronti del provvedimento sanzionatorio, facendo valere le proprie ragioni entro il termine decorrente dalla piena conoscenza dell'ingiunzione, e, d’altro lato, mantiene appieno tutelata la propria posizione, dacché l'acquisizione gratuita dell’immobile in sua titolarità per abusi edilizi non potrebbe verificarsi, ove non gli fosse stata notificata la previa ingiunzione di demolizione (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 19.10.2006, n. 8673; sez. VI, 04.10.2007, n. 8921; 12.02.2008, n. 742; sez. II, 18.11.2008, n. 19800; sez. VIII, 24.06.2009, n. 3503; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 17.01.2007, n. 34; TAR Lazio, Roma, sez. II, 03.07.2007, n. 5968; TAR Abruzzo, Pescara, 05.07.2007, n. 672; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 25.06.2009, n. 1171)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 19.02.2015 n. 1154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIE' pacifico in giurisprudenza che il dovere di astensione degli amministratori locali sussiste in tutti i casi in cui essi versino in situazioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano idonee anche solo in via potenziale a minare l'imparzialità dei medesimi, rendendo quindi del tutto irrilevante sia il superamento dell'eventuale prova di resistenza del voto, sia anche il mancato raggiungimento del risultato sperato e del pregiudizio dell'amministrazione.
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Questo Collegio osserva preliminarmente che, trattandosi di atto avente carattere generale, in base a quanto disposto dall’art. 78 del D.Lgs. n. 267 del 2000, l’obbligo di astensione degli amministratori debba ravvisarsi solo nel caso in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.
Ciò premesso, questo Collegio osserva che anche se si dovesse ravvisare tale immediata e diretta correlazione, alla luce di quanto disposto dal quarto comma dell’art. 78 del D.Lgs. n. 267 del 2000 nonché del generale principio di conservazione degli atti giuridici, ciò determinerebbe l’annullamento solo della parte della deliberazione de qua che costituisce oggetto della correlazione.
L'art. 78 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 ha infatti legislativamente tipicizzato le conseguenze della violazione dell'obbligo di astensione nell'ipotesi di provvedimenti di carattere generale quali i piani urbanistici, individuandole non nell'annullamento in toto dello strumento urbanistico, ma nell'annullamento delle sole parti dello strumento urbanistico che costituiscono oggetto di correlazione con gli specifici interessi degli amministratori locali; tale norma ha nella sostanza limitato il potere di annullamento del giudice amministrativo in relazione alla violazione dell'obbligo di astensione, nel senso cioè che il vizio in parola incide solo parzialmente sull'atto assunto in violazione di tale obbligo.
Se tale è la conseguenza nell’ipotesi in cui il vizio dedotto sia fondato, sembra a questo Collegio che con riferimento a tale possibile effetto, i ricorrenti avrebbero necessariamente dovuto dimostrare di trarre una qualche utilità da tale limitato annullamento, pena l’inammissibilità del motivo, non ritenendosi possibile attribuire in capo a qualsiasi componente di una comunità, una sorta di interesse generalizzato all’impugnativa.

1. - Con il primo motivo di ricorso il Sig. D.N. deduce l’illegittimità della deliberazione impugnata in quanto alcuni amministratori aventi, a parere dei ricorrenti, interesse diretto al contenuto dell’atto medesimo, non si sarebbero astenuti, contravvenendo a quanto previsto dall’art. 78 del D.Lgs. n. 267 del 2000.
Più nello specifico, i ricorrenti sostengono –allegando documentazione dimostrativa- che tra i territori costruiti perimetrati con gli elaborati grafici censurati, sarebbero state ricomprese aree in comproprietà di amministratori del Comune, con parenti entro il quarto grado (aree in comproprietà del Sindaco, con fratello e sorella germani ed aree in comproprietà tra quest’ultimi).
Tale circostanza, a parere dei ricorrenti, avrebbe dovuto indurre gli amministratori ad astenersi dal partecipare all’approvazione degli elaborati grafici predisposti dall’Ufficio Tecnico Comunale di perimetrazione dei “Territori Costruiti”.
L’art. 78, comma secondo, del D.Lgs. n. 267 del 2000, in proposito recita “Gli amministratori di cui all'articolo 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L'obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado”.
Il Comune di Vieste, nella memoria di costituzione, sul punto ha osservato che la Deliberazione impugnata aveva natura meramente ricognitiva e che pertanto non era applicabile nel caso in esame l’art. 78 suddetto.
L’Amministrazione resistente sostiene anche che i ricorrenti avrebbero dovuto fornire la prova di resistenza: provare pertanto che senza l’intervento degli amministratori de quibus il contenuto della Deliberazione sarebbe stato diverso.
Sul punto ci si limita a ricordare quanto affermato dal Consiglio di Stato in proposito: “è pacifico in giurisprudenza che il dovere di astensione degli amministratori locali sussiste in tutti i casi in cui essi versino in situazioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano idonee anche solo in via potenziale a minare l'imparzialità dei medesimi, rendendo quindi del tutto irrilevante sia il superamento dell'eventuale prova di resistenza del voto (Consiglio di Stato, sez. V, 17.11.2009 n. 7151), sia anche il mancato raggiungimento del risultato sperato e del pregiudizio dell'amministrazione (Consiglio di Stato, sez. IV, 28.01.2011, n. 693)” (Cons. Stato, sez. IV, 20.12.2013, n. 6177).
Questo Collegio osserva preliminarmente che, trattandosi di atto avente carattere generale, in base a quanto disposto dall’art. 78 del D.Lgs. n. 267 del 2000, l’obbligo di astensione degli amministratori debba ravvisarsi solo nel caso in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado.
Ciò premesso, questo Collegio osserva che anche se si dovesse ravvisare tale immediata e diretta correlazione, alla luce di quanto disposto dal quarto comma dell’art. 78 del D.Lgs. n. 267 del 2000 –che si ritiene applicabile anche alla fattispecie in esame– nonché del generale principio di conservazione degli atti giuridici, ciò determinerebbe l’annullamento solo della parte della deliberazione de qua che costituisce oggetto della correlazione.
L'art. 78 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 ha infatti legislativamente tipicizzato le conseguenze della violazione dell'obbligo di astensione nell'ipotesi di provvedimenti di carattere generale quali i piani urbanistici, individuandole non nell'annullamento in toto dello strumento urbanistico, ma nell'annullamento delle sole parti dello strumento urbanistico che costituiscono oggetto di correlazione con gli specifici interessi degli amministratori locali; tale norma ha nella sostanza limitato il potere di annullamento del giudice amministrativo in relazione alla violazione dell'obbligo di astensione, nel senso cioè che il vizio in parola incide solo parzialmente sull'atto assunto in violazione di tale obbligo (TAR Lombardia, sez. II, 31.07.2014, n. 2180; TAR Abruzzo-Pescara, 22.02.2002, n. 271).
Se tale è la conseguenza nell’ipotesi in cui il vizio dedotto sia fondato, sembra a questo Collegio che con riferimento a tale possibile effetto, i ricorrenti avrebbero necessariamente dovuto dimostrare di trarre una qualche utilità da tale limitato annullamento, pena l’inammissibilità del motivo (TAR Abruzzo-Pescara, 22.02.2002, n. 271), non ritenendosi possibile attribuire in capo a qualsiasi componente di una comunità, una sorta di interesse generalizzato all’impugnativa (così TAR Abruzzo-Pescara, 09.11.2001, n. 910).
Ciò posto, deve rilevarsi che nel caso di specie dagli atti di causa non si rileva quale sia l’utilità che i ricorrenti (cui incombe il relativo onere della prova) possano trarre dall’eventuale annullamento in parte qua della deliberazione di che trattasi.
In estrema sintesi il motivo in parola –così come dedotto– appare inammissibile per difetto di interesse atteso che i ricorrenti non hanno dimostrato quale utilità potrebbero conseguire dall’annullamento in parte qua della deliberazione di che trattasi
(TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 19.02.2015 n. 322 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVII pareri previsti per l'adozione delle deliberazioni comunali (prima ai sensi dell’ art. 53 della legge 08.06.1990, n. 142, e poi ai sensi dell’ art. 49 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267) non costituiscono requisiti di legittimità delle deliberazioni cui si riferiscono, in quanto sono preordinati all'individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile, così che la loro eventuale mancanza costituisce una mera irregolarità che non incide sulla legittimità e la validità delle deliberazioni stesse.
Con il secondo motivo di ricorso (inserito peraltro nel motivo di ricorso n. 1) il Sig. D.N. deduce l’assenza del parere di regolarità tecnica del sostituto del Dirigente tecnico dell’U.T.C.
Sul punto si osserva che agli atti il parere di regolarità tecnica risulta essere apposto dal Responsabile del Servizio, Geom. M.F., sulla relazione tecnica allegata alla Deliberazione impugnata.
Sul punto, questo Collegio rinvia al consolidato indirizzo giurisprudenziale a mente del quale i pareri previsti per l'adozione delle deliberazioni comunali (prima ai sensi dell’ art. 53 della legge 08.06.1990, n. 142, e poi ai sensi dell’ art. 49 del D.Lgs. 18.08.2000, n. 267) non costituiscono requisiti di legittimità delle deliberazioni cui si riferiscono, in quanto sono preordinati all'individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile, così che la loro eventuale mancanza costituisce una mera irregolarità che non incide sulla legittimità e la validità delle deliberazioni stesse (ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 08.04.2014, n. 1663; Cons. Stato, sez. V, 26.09.2013, n. 4766).
Il secondo motivo di ricorso pertanto deve essere respinto perché infondato
(TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 19.02.2015 n. 322 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il mancato rispetto del termine per la conclusione del procedimento non vizia l'atto conclusivo sopravvenuto alla scadenza di questo.
All'indirizzo ora richiamato deve essere data continuità, perché “esso si fonda sull'applicazione di consolidate categorie di teoria generale di diritto, in base alla quale vanno tenute distinte le norme di comportamento dalle norme di validità degli atti giuridici e le conseguenze rispettivamente discendenti dalla violazione dell'une o delle altre, nel senso che solo in quest'ultimo caso la sanzione ricade sull'atto medesimo, determinandone a seconda dei casi la nullità o l'annullabilità, laddove nella prima ipotesi sorgono conseguenze esclusivamente di carattere risarcitorio".

Con il quarto motivo di ricorso (motivo di ricorso n. 3 per il ricorrente) il Sig. D.N. deduce l’illegittimità degli atti impugnati in quanto non sarebbe stato rispettato dal Sindaco il termine di 180 giorni dall’entrata in vigore del P.U.T.T. previsto dall’art. 5.05 delle N.T.A. del P.U.T.T. ai n. 1.1. e 1.2. per riportare, sulla cartografia dello strumento urbanistico generale vigente, la perimetrazione degli ambiti territoriali estesi, distinti e dei territori costruiti e per inviare tale documentazione all’Assessorato Regionale all’Urbanistica.
Non sarebbe stato altresì rispettato dal Consiglio il termine di novanta giorni dalla entrata in vigore del piano per adottare le deliberazioni volte a perimetrare su cartografia catastale quelle aree che, ancorché non tipizzate come zone omogenee “B” dagli strumenti urbanistici vigenti, o ne abbiano di fatto le caratteristiche, o siano zone intercluse.
In merito, ci si limita ad osservare che il mancato rispetto dei termini di che trattasi non determina l’illegittimità dei provvedimenti impugnati (per quanto riguarda la censura relativa al non aver provveduto a riportare la perimetrazione sulla cartografia dello strumento urbanistico generale vigente si rinvia al punto 5).
Per costante orientamento del Consiglio di Stato, infatti, il mancato rispetto del termine per la conclusione del procedimento non vizia l'atto conclusivo sopravvenuto alla scadenza di questo (ex plurimis: Sez. IV, 12.06.2012, n. 2264; 10.06.2010 n. 3695; Sez. VI, 01.12.2010, n. 8371; 14.01.2009, n. 140; 25.06.2008 n. 3215).
All'indirizzo ora richiamato deve essere data continuità, perché “esso si fonda sull'applicazione di consolidate categorie di teoria generale di diritto, in base alla quale vanno tenute distinte le norme di comportamento dalle norme di validità degli atti giuridici e le conseguenze rispettivamente discendenti dalla violazione dell'une o delle altre, nel senso che solo in quest'ultimo caso la sanzione ricade sull'atto medesimo, determinandone a seconda dei casi la nullità o l'annullabilità, laddove nella prima ipotesi sorgono conseguenze esclusivamente di carattere risarcitorio (cfr. Cass., Sez. Un., 19.12.2007, n. 26724 e 26725)” (Cons. Stato, sez. V, 11.10.2013, n. 4980).
Anche il quarto motivo di ricorso pertanto deve essere respinto perché infondato
(TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 19.02.2015 n. 322 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla differenza tra la tettoia e il pergolato.
La differenza fra “pergolato” e “tettoia” appare riconducibile al linguaggio comune, che individua la tettoia come una struttura pensile, addossata al muro o interamente sorretta da pilastri, di possibile maggiore consistenza e impatto visivo rispetto al pergolato (normalmente costituito, quest’ultimo, da una serie parallela di pali collegati da un’intelaiatura leggera, idonea a sostenere piante rampicanti o a costituire struttura ombreggiante, senza chiusure laterali).
L’opera realizzata infatti –in base alla documentazione fotografica depositata– si presenta come un volume chiuso in muratura, realizzato sul lastrico solare di un edificio, con copertura lignea a falde spioventi, sormontata da tegole, delle dimensioni di m. 6.50 x 4.70 circa ed altezza al colmo di m. 3.55 circa.
Tale struttura, realizzata in sopraelevazione del lastrico solare, ovvero all’esterno della sagoma esistente dell’edificio, potrebbe configurarsi senz’altro come “nuova costruzione”, ove realizzata “ex novo”, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera e).1, del d.P.R. n. 380 del 06.06.2001 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia).
Nel caso di specie, tuttavia, la sentenza appellata recepisce l’asserita natura “meramente conservativa” dell’intervento, con punti di riferimento distinti e, a ben vedere, difficilmente conciliabili fra loro: si richiamano infatti, da una parte, il preesistente pergolato ligneo, debitamente autorizzato e, dall’altra, “emergenze architettoniche…oltremodo diffuse nella zona ottocentesca della città di Bari”, sotto forma di volumi realizzati sui lastrici solari “con funzione di deposito/mansarda, detti suppigne”.
Sotto il primo profilo, tuttavia, l’intervento edilizio di cui si discute non appare conciliabile con la lettura riduttiva, secondo cui sarebbe stata effettuata la mera “copertura di un pergolato già autorizzato con tegole in cotto”. La parte appellata, in effetti, non ha depositato materiale fotografico, relativo al precedente stato dei luoghi, che tuttavia –tenuto conto della non contestata legittimità della struttura, in un primo tempo realizzata– deve ritenersi conforme alla disciplina urbanistica, che consentiva l’installazione di “pergole in legno” e vietava sia “verande chiuse”, sia “tettoie” sui lastrici solari del centro storico.
La differenza fra “pergolato” e “tettoia” appare riconducibile al linguaggio comune, che individua la tettoia come una struttura pensile, addossata al muro o interamente sorretta da pilastri, di possibile maggiore consistenza e impatto visivo rispetto al pergolato (normalmente costituito, quest’ultimo, da una serie parallela di pali collegati da un’intelaiatura leggera, idonea a sostenere piante rampicanti o a costituire struttura ombreggiante, senza chiusure laterali).
Nella situazione in esame, la cartografia versata in atti rende già piuttosto evidente la maggiore leggerezza del pergolato autorizzato, rispetto alla pesante struttura in travi di legno e copertura in cotto, successivamente realizzata, così come emerge dalla documentazione fotografica l’effettiva costruzione di un “casotto” finestrato in muratura, con tetto a falde inclinate, in nessun modo assimilabile ad un “pergolato”, anche al di là della più consistente copertura.
Emerge da quanto sopra, pertanto, l’avvenuta realizzazione di un’opera nuova, che la stessa parte appellata tenta di ricondurre a risanamento conservativo (ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera c del citato d.P.R. n. 380 del 2001 e all’art. 10 delle N.T.A. al P.P. per la Città Vecchia), con riferimento non già alla pergola (di cui non appaiono più sussistenti i tratti identificativi), ma ad un manufatto denominato “suppigna” (intesa come costruzione presente, in genere, proprio su lastrici solari e terrazzi, adibita a soffitta o anche abitabile, a seconda dell’altezza).
Quest’ultima prospettazione –che è stata positivamente valutata in primo grado di giudizio– non appare tuttavia convincente, in quanto fondata su foto d’epoca, che indubbiamente mostrano la presenza di tali tipiche strutture architettoniche nel centro storico di Bari, già nei primi anni del 1900, senza tuttavia che emergano rappresentazioni chiaramente leggibili, riferite all’immobile di cui trattasi.
Nella documentazione prodotta dalla parte interessata, infatti, si delineano meri indizi di ipotetica preesistenza, quali un “livello di pavimentazione sopraelevato, rispetto alle restanti porzioni del lastrico solare”, ovvero la “presenza di scalini a scendere per accedere ad altri terrazzi”, o ancora “muri di parapetto, delimitanti la suddetta porzione di lastrico solare sopraelevata, aventi uno spessore sovradimensionato per essere normali muretti d’attico, rimandando piuttosto ad una pregressa funzione portante”; nella stessa sentenza appellata, infine, detta preesistenza è ritenuta non accertata, ma “altamente verosimile”.
Tale situazione di fatto non può ritenersi idonea a qualificare l’intervento effettuato come “risanamento conservativo”, quale intervento edilizio di maggior “peso”, consentito nell’area di cui trattasi. Detto intervento, implicante “rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali” dell’organismo edilizio, ai sensi del citato art. 3, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001, non era evidentemente configurabile in rapporto ad un manufatto, di cui è incerta persino la preesistenza e le cui (presunte) caratteristiche restano del tutto ignote.
Il Collegio ritiene, pertanto, che sia stata legittimamente negata una sanatoria, che la stessa parte interessata aveva richiesto in termini ambigui, quale “trasformazione in tettoia di una pergola” (come indicato –senza smentita di controparte– negli atti di istruttoria tecnica dell’Amministrazione comunale).
Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello debba essere accolto, con gli effetti precisati in dispositivo; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, il Collegio stesso ritiene di poterne disporre la compensazione, tenuto conto delle valutazioni della Soprintendenza che –pur non incidendo sulle valutazioni, da effettuare in base alla normativa urbanistica– riconoscevano caratteristiche accettabili dell’intervento edilizio in questione, nel contesto urbanistico di riferimento (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.02.2015 n. 825 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto al comodato, si tratta di contratto che attribuisce la detenzione del bene, posizione che, analogamente alla locazione, costituisce una forma di disponibilità del medesimo sufficiente ad ottenere il titolo edilizio (salva l’opposizione del proprietario).
L’altro assunto urta col rilievo che da tempo la giurisprudenza formatasi in relazione a detta disposizione di legge, ha affermato il principio per cui la concessione edilizia può essere rilasciata al soggetto che dimostri di avere la disponibilità dell’area di riferimento in base a diritto reale o di obbligazione (v. ad es., Cass., Sez. III, sent. n. 6005 del 15.03.2007).
E non v’è dubbio che, quanto al comodato, si tratta di contratto che attribuisce la detenzione del bene, posizione che, analogamente alla locazione, costituisce una forma di disponibilità del medesimo sufficiente ad ottenere il titolo edilizio (salva l’opposizione del proprietario) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.02.2015 n. 648 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti, il personale si pesa. Un’interpretazione letterale della nuova disciplina sarebbe distorsiva. Tar Torino. Nell’aggiudicazione al prezzo più basso, l’offerta migliore si valuta con il costo del lavoro.
Per evitare «effetti distorsivi» sulla gara o «un’indebita compressione dell’autonomia imprenditoriale dei concorrenti», l’offerta migliore col criterio del prezzo più basso va valutata senza scorporare il costo del personale dal totale del prezzo indicato, al contrario di quanto fissato da una recente norma del Codice degli appalti introdotta nel 2013 dal Decreto del fare e con «rilevanti problemi applicativi».
Lo ha stabilito il TAR Piemonte, Sez. I, nella sentenza 06.02.2015 n. 250.
La norma in questione del Codice (Dlgs n. 163/2006) è il comma 3-bis dell’articolo 82. È stata introdotto dall’articolo 32 del decreto (Dl n. 6/2013), convertito dalla legge n. 98/2013.
I giudici hanno bocciato il ricorso di un’azienda che, per i costi del personale «esorbitanti» rispetto a quelli della vincitrice, era stata esclusa da un bando per il servizio di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti di una Asl. Ciò, secondo la ricorrente, sarebbe avvenuto violando il comma 3-bis, art. 82, il quale stabilisce che «il prezzo più basso è determinato al netto delle spese relative al costo del personale, valutato sulla base dei minimi salariali definiti dalla contrattazione collettiva nazionale di settore…, delle voci retributive previste dalla contrattazione integrativa di secondo livello e delle misure di adempimento alle disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro».
Tale norma, a detta del Tar, ha «rilevanti problemi applicativi» quando viene interpretata in senso letterale. Lo scorporo, in particolare, se fatto “a monte” può comportare, secondo il collegio, fino alla «impossibilità per la stazione appaltante di conoscere l’effettivo costo del personale della singola azienda», al contrario, in sede di valutazione dell’offerta, può avere «un effetto totalmente distorsivo sulla procedura di gara, dal momento che l’aggiudicazione dovrebbe avvenire sulla base di un ribasso offerto relativamente a quote di prezzo differenti, derivanti dalla diversità delle stesse».
Sono le stesse criticità che, come i giudici hanno ricordato in sentenza, avevano interessato anche l’analogo comma 3-bis dell’articolo 81 del Codice degli appalti (relativo ai «criteri per la scelta dell’offerta migliore»), che non a caso è stato abrogato dal decreto Salva Italia (Dl n. 201/2011, convertito dalla legge n. 214/2011).
La soluzione, secondo i giudici, è dare alla norma «un’interpretazione sostanziale e logico-sistematica». Una tesi che è stata espressa nel 2013 dall’Istituto per la trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale (Itaca) e nel 2014 dall’ex Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (Avcp). La sentenza quest’interpretazione con l’obbligo di «accertare la congruità delle offerte sulla base della verifica della compatibilità delle scelte organizzative effettuate dal concorrente con la normativa concernente i minimi salariali contrattuali della manodopera». Perciò, afferma ancora la sentenza, «il ribasso offerto può essere giustificato, in fase di verifica dell’anomalia dell’offerta, da una organizzazione imprenditoriale più efficiente e dall’impiego di attrezzature che rendano il lavoro della manodopera più produttiva, ma tutelando nel contempo il costo del personale».
Al contrario, nota il Tar, si ha –come nel caso di specie- «l’effetto paradossale di premiare un’offerta meno vantaggiosa di altre e frutto di un’organizzazione di impresa meno efficiente (a pensar bene) o di una precisa strategia distorsiva della gara (a pensar male)».
Il prezzo più basso, quindi, è dato valutando il «totale del prospetto di offerta, risultante dalla sommatoria dei prezzi unitari offerti, cui sono aggiunti i costi del personale e gli oneri della sicurezza aziendali» e «la sostenibilità economica del ribasso anche in relazione alla tutela dei diritti inderogabili dei lavoratori».
      (articolo Il Sole 24 Ore del 19.03.2015).

SICUREZZA LAVORO: Coordinatore per l'esecuzione: la sua vigilanza vale fino al collaudo.
La Corte di Cassazione, Sez. IV penale, con la sentenza 27.01.2015 n. 3809 si affermata responsabilità di un coordinatore per l'esecuzione di un cantiere, in cui erano appaltatrici più imprese in subappalto, per il decesso di un operaio, nel corso delle operazioni di sistemazione e di allaccio di una struttura industriale ormai in via di completamento.
Secondo la Corte
il coordinatore deve assistere ogni fase della lavorazione, nessuna esclusa e fino al collaudo, comprese quelle complementari al pieno funzionamento di macchinari o strutture industriali.
Il Fatto
Durante le operazioni per la realizzazione di un nuovo impianto di laminazione oggetto di una complessa rete di appalti e subappalti a più imprese, un lavoratore di una ditta subappaltatrice era rimasto schiacciato in seguito all'accensione di un impianto in una prova di funzionamento: il lavoratore era stato incaricato insieme ad un collega, da un dipendente della ditta appaltatrice, di cambiare un tubo di gomma sotto la piattaforma del macchinario di formazione fasci; mentre eseguiva tale intervento, la macchina era stata messa in funzione e lo aveva schiacciato contro una base in ferro posta sopra la sua testa, causandone il decesso.
In appello fu ascritto al coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione nominato dalla ditta appaltante di aver omesso nel Piano di Sicurezza e Coordinamento indicazioni specifiche circa la fase di prove tecniche di impianto e di non aver previsto, per la fase di messa a punto dell'impianto, particolari disposizioni e dispositivi di prevenzione e di tutela rispetto ai rischi di infortunio benché, in quella fase, l'impianto non disponesse ancora di un sistema di protezione collettiva dei lavoratori, non fossero state messe in atto misure di sicurezza oggettive e collettive a tutela dei lavoratori, non fosse stata predisposta segregazione delle aree interessate alle prove, non vi fossero segnali che indicassero l'effettuazione delle prove, tanto meno segnali di avvertimento del pericolo, non fosse prevista, né in essere, sorveglianza degli accessi alle aree coinvolte dalle prove, basandosi il sistema di protezione dei lavoratori adottato solamente sul coordinamento delle operazioni, sulla comunicazione verbale e su una verifica visiva dell'area interessata e non più presidiata.
Il ricorso
Il ricorso per Cassazione ha riguardato l'erronea applicazione dell'art. 89, lett. a) e dell'All. X d.lgs. 81/2008, ritenendo che la posizione di garanzia del coordinatore della sicurezza nella fase di esecuzione perdurasse anche dopo la cessazione del cantiere temporaneo o mobile da lui coordinato.
Posto che tutte le attività lavorative elencate nell'All. X devono ritenersi assoggettate alla disciplina del Titolo IV del d.lgs. n. 81/2008 solo laddove vengano svolte all'interno di un cantiere edile o di genio civile, secondo la difesa nel caso concreto sarebbero state erroneamente ricomprese nel perimetro del cantiere temporaneo o mobile anche le attività di taratura dell'impianto effettuate dopo la conclusione dei lavori edili o di ingegneria civile.
Tutti gli interventi sull'impianto di laminazione da realizzare dopo la fine dei lavori edili, si assume, rientravano nella disciplina del luogo di lavoro fisso rappresentata dall'art. 26 d.lgs. n. 81/2008, a norma del quale il committente assume la direzione di tutte le lavorazioni strettamente connesse allo svolgimento del ciclo produttivo, estranee al cantiere temporaneo o mobile e quindi alle competenze del coordinatore della sicurezza in fase esecutiva.
Secondo la Corte
Secondo la Corte l'attività di posa e regolazione delle tubazioni ed opere idrauliche era oggetto dell'appalto in quanto parte del revamping (ossia dell'intervento di ristrutturazione generale) dell'impianto di laminazione perché l'opera di ammodernamento di un impianto può dirsi completata solo ove lo stesso sia di nuovo idoneo al funzionamento, previo collaudo.
Appare, poi chiaro che il coordinatore per l'esecuzione riveste un ruolo di vigilanza che riguarda la generale configurazione delle lavorazioni e non la puntuale e stringente vigilanza, momento per momento, demandata alle figure operative, ossia al datore di lavoro, al dirigente, al preposto. Ed è proprio in relazione al primario compito di coordinamento delle attività di più imprese nell'ambito di un medesimo cantiere, normativamente attribuito a tale figura professionale, che deve trovare fondamento la definizione della sua posizione di garanzia nel cantiere temporaneo o mobile.
Risulta dunque, infondato l'assunto in base al quale sull'imputato non incombesse alcun obbligo di garanzia in ragione del fatto che le opere edili fossero terminate e che, con esse, fosse cessato il cantiere temporaneo da lui coordinato, posto che l'opera alla cui realizzazione il cantiere era preordinato non era stata consegnata al committente e nel cantiere si dovevano ancora svolgere attività di regolazione degli impianti strumentali alle prove di funzionamento, a loro volta preliminari al collaudo (commento tratto da www.insic.it).

EDILIZIA PRIVATAA mente dell'art. 9 del d.p.r. n. 380/2001 costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongono, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio e che sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo.
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
a) che, quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, vale a dire solo dopo che il relativo procedimento sia concluso;
b) che, in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa;
c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio.
La mera esistenza di infrastrutture (strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, ecc.) all’interno, e, vieppiù, all’esterno, del comparto attinto dall’attività edificatoria assentita senza previa approvazione dello strumento attuativo non implica, dunque, di per sé, anche quell’adeguatezza e quella proporzionalità delle opere in parola rispetto all’aggregato urbano formatosi, la quale soltanto sarebbe idonea a soddisfare le esigenze della collettività, pari agli standards urbanistici minimi prescritti, ed esimerebbe, quindi, da ulteriori interventi per far fronte all'ulteriore aggravio derivante da nuove costruzioni.
Ed invero, i piani particolareggiati e i piani di lottizzazione hanno lo scopo di garantire che all'edificazione del territorio a fini residenziali corrisponda l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, le quali, a loro volta, garantiscono la normale qualità del vivere in un aggregato urbano.
Diversamente opinando, col rilascio di singoli permessi di costruire in area non urbanizzata, gli interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera proprietà a fini privati, scaricando interamente sulla collettività i costi conseguenti alla realizzazione di infrastrutture per i nuovi insediamenti.
Ciò posto, è evidente che, ove si tratti di asservire per la prima volta ad insediamenti edilizi aree non ancora urbanizzate –che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione o il potenziamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria volte a soddisfare le esigenze della collettività– si rende necessario un piano esecutivo, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire.

2.2.2. In rapporto alla situazione oggettiva sopra descritta, il Collegio intende dare seguito alla giurisprudenza in base alla quale, a mente dell'art. 9 del d.p.r. n. 380/2001 costituisce regola generale ed imperativa, in materia di governo del territorio, il rispetto delle previsioni del p.r.g. che impongono, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio e che sono vincolanti e idonee ad inibire l'intervento diretto costruttivo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 30.12.2008, n. 6625).
Corollari immediati di tale principio fondamentale sono:
a) che, quando lo strumento urbanistico generale prevede che la sua attuazione debba aver luogo mediante un piano di livello inferiore, il rilascio del titolo edilizio può essere legittimamente disposto solo dopo che lo strumento esecutivo sia divenuto perfetto ed efficace, vale a dire solo dopo che il relativo procedimento sia concluso (cfr. Cons. Stato sez. V, 01.04.1997, n. 300);
b) che, in presenza di una normativa urbanistica generale che preveda per il rilascio del titolo edilizio in una determinata zona l'esistenza di un piano attuativo, non è consentito superare tale prescrizione facendo leva sulla situazione di sufficiente urbanizzazione della zona stessa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 03.11.2008, n. 5471);
c) l'insurrogabilità dell'assenza del piano attuativo con l'imposizione di opere di urbanizzazione all'atto del rilascio del titolo edilizio (Cons. Stato, sez. IV, 10.06.2010, n. 3699).
La mera esistenza di infrastrutture (strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, scuole, ecc.) all’interno, e, vieppiù, all’esterno, del comparto attinto dall’attività edificatoria assentita senza previa approvazione dello strumento attuativo non implica, dunque, di per sé, anche quell’adeguatezza e quella proporzionalità delle opere in parola rispetto all’aggregato urbano formatosi, la quale soltanto sarebbe idonea a soddisfare le esigenze della collettività, pari agli standards urbanistici minimi prescritti, ed esimerebbe, quindi, da ulteriori interventi per far fronte all'ulteriore aggravio derivante da nuove costruzioni.
Ed invero, i piani particolareggiati e i piani di lottizzazione hanno lo scopo di garantire che all'edificazione del territorio a fini residenziali corrisponda l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, le quali, a loro volta, garantiscono la normale qualità del vivere in un aggregato urbano. Diversamente opinando, col rilascio di singoli permessi di costruire in area non urbanizzata, gli interessati verrebbero legittimati ad utilizzare l’intera proprietà a fini privati, scaricando interamente sulla collettività i costi conseguenti alla realizzazione di infrastrutture per i nuovi insediamenti (Cons. Stato, sez. V, 03.03.2004, n. 1013), così come per l’appunto rappresentato dall’amministrazione locale nell’impugnato provvedimento del 23.09.2013, prot. n. 12020.
2.2.3. Ciò posto, è evidente che, ove si tratti di asservire per la prima volta ad insediamenti edilizi aree non ancora urbanizzate –che obiettivamente richiedano, per il loro armonico raccordo col preesistente aggregato abitativo, la realizzazione o il potenziamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria volte a soddisfare le esigenze della collettività– si rende necessario un piano esecutivo, quale presupposto per il rilascio del permesso di costruire (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 22.05.2006, n. 3001; 04.12.2007, n. 6171; TAR Campania, sez. IV, 02.03.2000, n. 596; 08.05.2003, n. 5330; TAR Lazio, Latina, 27.10.2006, n. 1375; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 02.02.2005, n. 4403; aprile 2007, n. 1501; 15.03.2007, n. 1037)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.01.2015 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAIl piano esecutivo, previsto dallo strumento urbanistico generale come presupposto dell'edificazione, non ammette, cioè, equipollenti, nel senso che, in sede amministrativa o giurisdizionale, non possono essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile realizzare costruzioni, che, ad avviso del legislatore, incidono negativamente sul razionale assetto del territorio, vanificando la funzione del piano attuativo, la cui approvazione può essere stimolata dall'interessato con i mezzi apprestati dal sistema.
L’indefettibilità dello strumento urbanistico attuativo neppure viene meno nelle ipotesi di zone edificate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto; zone nelle quali si prospetti, quindi, l'esigenza di raccordare armonicamente le nuove costruzioni col preesistente aggregato urbano e di potenziare le opere di urbanizzazione esistenti, tanto più quando il nuovo intervento edilizio, per le sue dimensioni, abbia un consistente impatto sull' assetto territoriale; e nelle quali la preventiva redazione di un piano esecutivo per il rilascio del titolo abilitativo edilizio si ponga, in definitiva, come imprescindibile.
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di urbanizzazione di fatto per eludere il principio fondamentale della pianificazione e per eventualmente aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già compromesse o edificate.

In tale fattispecie, nella quale l’originaria integrità del territorio non è sostanzialmente vulnerata, deve essere rigorosamente rispettata la cadenza, in ordine successivo, dell'approvazione del piano regolatore generale e dello strumento urbanistico attuativo, in modo da garantire una pianificazione razionale e ordinata del futuro sviluppo del territorio dal punto di vista urbanistico.
Il piano esecutivo, previsto dallo strumento urbanistico generale come presupposto dell'edificazione, non ammette, cioè, equipollenti, nel senso che, in sede amministrativa o giurisdizionale, non possono essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile realizzare costruzioni, che, ad avviso del legislatore, incidono negativamente sul razionale assetto del territorio, vanificando la funzione del piano attuativo, la cui approvazione può essere stimolata dall'interessato con i mezzi apprestati dal sistema (Cons. Stato, sez. V, 03.03.2004, n. 1013; 10.12.2003, n. 7799; sez. IV, 19.02.2008, n. 531).
L’indefettibilità dello strumento urbanistico attuativo neppure viene meno nelle ipotesi di zone edificate, esposte al rischio di compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l'effetto di correggere e compensare il disordine edificativo in atto (Cons. Stato, sez. V, 01.12.2003, n. 7799); zone nelle quali si prospetti, quindi, l'esigenza di raccordare armonicamente le nuove costruzioni col preesistente aggregato urbano e di potenziare le opere di urbanizzazione esistenti, tanto più quando il nuovo intervento edilizio, per le sue dimensioni, abbia un consistente impatto sull' assetto territoriale; e nelle quali la preventiva redazione di un piano esecutivo per il rilascio del titolo abilitativo edilizio si ponga, in definitiva, come imprescindibile (TAR Veneto, Venezia, sez. II, 31.03.2003, n. 2171; 08.09.2006, n. 2893; TAR Lazio, Roma, sez. II, 13.09.2006, n. 8463).
Ed invero, non è sufficiente un qualsiasi stadio di urbanizzazione di fatto per eludere il principio fondamentale della pianificazione e per eventualmente aumentare i guasti urbanistici già verificatisi, essendo la pianificazione dell'urbanizzazione doverosa fino a quando essa conservi una qualche utile funzione anche in aree già compromesse o edificate (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 18.01.2005, n. 164)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.01.2015 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza amministrativa, nell’enucleare i principi che governano l'esercizio del potere di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi ha statuito che:
- i presupposti del potere in parola sono costituiti dalla illegittimità originaria del provvedimento e dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari;
- l'esercizio del potere di autotutela è espressione di rilevante discrezionalità, che non esime, tuttavia, l'amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei summenzionati presupposti;
- l'ambito della motivazione esigibile è integrato dall’allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono (ambiente, paesaggio, salute, sicurezza, beni storici e culturali), che, quasi sempre, sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché della eventuale negligenza o della malafede del privato che ha indotto in errore l'amministrazione o ha approfittato di un suo errore (ad es. rappresentando in modo erroneo la situazione di fatto in base alla quale è stato rilasciato il titolo o sono stati individuati i legittimati attivi);
- pur non riscontrandosi un termine di decadenza del potere di auto-annullamento del titolo edilizio, la caducazione che intervenga ad una notevole distanza di tempo e dopo che le opere sono state completate, esige una più puntuale e convincente motivazione a tutela del legittimo affidamento.

2.5.1. Circa la presunta violazione della disciplina in materia di revoca degli atti amministrativi, è agevole replicare che –come, d’altronde, già desumibile dal tenore letterale dello stesso provvedimento impugnato (“annullamento in autotutela”)– si versa in ipotesi di annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies della l. n. 241/1990, fondato sull’illegittimità originaria del permesso di costruire rilasciato in violazione del vigente strumento urbanistico generale, il quale, per la zona F3, richiede la previa adozione di un piano esecutivo ad iniziativa comunale.
2.5.2. Orbene, la giurisprudenza amministrativa, nell’enucleare i principi che governano l'esercizio del potere di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24.09.2003 n. 5445; 12.11.2003 n. 7218; 06.12.2007 n. 6252; sez. IV, 21.12.2009 n. 8529; 27.11.2010 n. 8291), ha statuito che:
- i presupposti del potere in parola sono costituiti dalla illegittimità originaria del provvedimento e dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari;
- l'esercizio del potere di autotutela è espressione di rilevante discrezionalità, che non esime, tuttavia, l'amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei summenzionati presupposti;
- l'ambito della motivazione esigibile è integrato dall’allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono (ambiente, paesaggio, salute, sicurezza, beni storici e culturali), che, quasi sempre, sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché della eventuale negligenza o della malafede del privato che ha indotto in errore l'amministrazione o ha approfittato di un suo errore (ad es. rappresentando in modo erroneo la situazione di fatto in base alla quale è stato rilasciato il titolo o sono stati individuati i legittimati attivi);
- pur non riscontrandosi un termine di decadenza del potere di auto-annullamento del titolo edilizio, la caducazione che intervenga ad una notevole distanza di tempo e dopo che le opere sono state completate, esige una più puntuale e convincente motivazione a tutela del legittimo affidamento
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.01.2015 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione costituisce –per ius receptum– atto dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa nell’eliminazione dell’abuso e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti.
Ciò vale anche allorquando l’abusività dell’opera non sia immediata, ma derivi dalla rimozione della relativa fonte di legittimazione (in forza di annullamento d’ufficio o giurisdizionale).
La regola immanente all’art. 38, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001 è, infatti, rappresentata dall’operatività della sanzione reale, la quale, in quanto effetto primario e naturale derivante dall’annullamento del permesso di costruire (così come dalla sua mancanza ab origine: cfr. art. 31, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 cit.), non richiede all’amministrazione un particolare impegno motivazionale, ma rinviene nella legalità violata la sua giustificazione in re ipsa.
Ed invero, nel caso di annullamento del titolo abilitativo edilizio, in disparte l'ipotesi di vizi di ordine meramente procedurale e formale, non ricorrente nella fattispecie in esame, il modello legale tipico di atto consequenziale è proprio quello dell'ordine di ripristino dello stato dei luoghi, in quanto unico atto idoneo ad arrecare una piena soddisfazione all'interesse pubblico alla rimozione delle opere in contrasto con la disciplina urbanistica; cosicché, ove lo sviluppo attuativo del pregresso annullamento della concessione si incanali nell’alveo naturale della riduzione in pristino, alcun onere di specifica motivazione ricade sull’amministrazione procedente, il cui operato è obbligatoriamente scandito dallo stesso legislatore; mentre, solo in presenza di circostanze peculiari ed eccezionali, idonee ad accreditare l’oggettiva impossibilità di attuare la misura ordinaria della riduzione in pristino, sarà possibile accedere alla misura residuale della sanzione pecuniaria, occorrendo, però, in siffatta evenienza giustificare la deroga alla soluzione di ‘tutela reale’ privilegiata dal legislatore mediante una congrua motivazione che dia adeguatamente conto delle valutazioni effettuate.

A questo punto, può procedersi a scrutinare i motivi aggiunti proposti unicamente avverso l’ordinanza di demolizione n. 7 del 31.01.2014.
Trattasi, segnatamente, della denunciata violazione dell’obbligo di motivazione circa l’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi, nonché della denunciata violazione dell’affidamento nella conservazione di un fabbricato realizzato in forza del rilasciato permesso di costruire.
A confutazione di un simile ordine di doglianze, occorre rimarcare che la gravata misura repressivo-ripristinatoria costituisce –per ius receptum– atto dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione discrezionale del confliggente interesse al mantenimento in loco della res, dove l’interesse pubblico risiede in re ipsa nell’eliminazione dell’abuso e, stante il carattere permanente di quest’ultimo, non viene meno per il mero decorso del tempo, insuscettibile di ingenerare affidamenti (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 11.01.2011, n. 79; sez. IV, 04.05.2012, n. 2592; TAR Campania, sez. VI, 06.09.2010, n. 17306; sez. VII, 03.11.2010, n. 22291; sez. VIII, 05.01.2001, n. 4; 06.04.2011, n. 1945; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 10.09.2010, n. 1962; 09.11.2010, n. 2631; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 19.11.2010, n. 4164; TAR Lazio, Roma, sez. II, 06.12.2010, n. 35404; TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.03.2011, n. 432).
Ciò vale anche allorquando l’abusività dell’opera non sia immediata, ma derivi dalla rimozione della relativa fonte di legittimazione (in forza di annullamento d’ufficio o giurisdizionale).
La regola immanente all’art. 38, comma 1, del d.p.r. n. 380/2001 è, infatti, rappresentata dall’operatività della sanzione reale, la quale, in quanto effetto primario e naturale derivante dall’annullamento del permesso di costruire (così come dalla sua mancanza ab origine: cfr. art. 31, comma 2, del d.p.r. n. 380/2001 cit.), non richiede all’amministrazione un particolare impegno motivazionale, ma rinviene nella legalità violata la sua giustificazione in re ipsa.
Ed invero, nel caso di annullamento del titolo abilitativo edilizio, in disparte l'ipotesi di vizi di ordine meramente procedurale e formale, non ricorrente nella fattispecie in esame, il modello legale tipico di atto consequenziale è proprio quello dell'ordine di ripristino dello stato dei luoghi, in quanto unico atto idoneo ad arrecare una piena soddisfazione all'interesse pubblico alla rimozione delle opere in contrasto con la disciplina urbanistica; cosicché, ove lo sviluppo attuativo del pregresso annullamento della concessione si incanali nell’alveo naturale della riduzione in pristino, alcun onere di specifica motivazione ricade sull’amministrazione procedente, il cui operato è obbligatoriamente scandito dallo stesso legislatore; mentre, solo in presenza di circostanze peculiari ed eccezionali, idonee ad accreditare l’oggettiva impossibilità di attuare la misura ordinaria della riduzione in pristino, sarà possibile accedere alla misura residuale della sanzione pecuniaria, occorrendo, però, in siffatta evenienza giustificare la deroga alla soluzione di ‘tutela reale’ privilegiata dal legislatore mediante una congrua motivazione che dia adeguatamente conto delle valutazioni effettuate (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 21.03.2006, n. 3124)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.01.2015 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il provvedimento amministrativo (anche discrezionale) “non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”: la norma, nella parte in cui, con riferimento al caso di mancata comunicazione di avvio del procedimento, prevede che il provvedimento non è annullabile qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, non si riferisce, infatti, solo all'attività vincolata, ma è applicabile anche in caso di attività discrezionale, quale, appunto, quella esercitata in sede di autotutela
Così come è appena il caso di soggiungere –sempre anche ai fini dello scrutinio della domanda risarcitoria– che, nel merito, è parimenti privo di pregio l’ordine di doglianze incentrato sull’omessa comunicazione di avvio del procedimento in autotutela nei confronti dei ricorrenti, in qualità di proprietari acquirenti delle unità immobiliari cedute dalla società beneficiaria del permesso di costruire annullato d’ufficio.
Ed invero, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990, “il provvedimento amministrativo” (anche discrezionale) “non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”: la norma, nella parte in cui, con riferimento al caso di mancata comunicazione di avvio del procedimento, prevede che il provvedimento non è annullabile qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, non si riferisce, infatti, solo all'attività vincolata, ma è applicabile anche in caso di attività discrezionale, quale, appunto, quella esercitata in sede di autotutela (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 25.05.2012, n. 3083)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 21.01.2015 n. 374 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: I vigili possono multare i poliziotti in borghese. Il chiarimento giunge dalla Corte d'appello di Venezia.
La polizia locale può controllare anche gli altri poliziotti in borghese ed elevare verbali per mancato rispetto delle regole stradali. Senza rischiare di passare da organo controllore a organo controllato.
Lo ha chiarito la Corte d'appello di Venezia, Sez. I penale, con la sentenza 15.01.2015 n. 43.
Si conclude, finalmente, dopo oltre 12 anni, una insolita vertenza che vede contrapposti agenti in divisa. Durante un normale servizio di polizia stradale alcuni operatori di polizia locale hanno fermato un'autovettura senza insegne sanzionando i conducenti, carabinieri in borghese, per mancato uso della cintura di sicurezza.
Alla successiva richiesta dei militari di fornire patente e libretto dei vigili gli agenti non hanno dato seguito venendo per questo denunciati e condannati in primo grado dal tribunale. A parere del primo giudicante gli agenti della polizia municipale avrebbero abusato della loro qualità interrompendo un delicato compito di polizia giudiziaria.
Secondo la Corte d'appello le cose sono andate diversamente. Innanzitutto i due vigili non avevano alcuna consapevolezza del delicato compito di polizia giudiziaria svolto dai militari che si sono limitati a declinare la loro qualità di carabinieri. L'art. 651 del codice penale punisce il soggetto che ometta di dichiarare al pubblico ufficiale le proprie generalità.
Nel caso esaminato dal collegio i carabinieri hanno richiesto agli operatori di polizia locale di esibire la propria patente e non di declinare le generalità che erano già state indicate in chiaro nella multa. La mancata ottemperanza di questo obbligo non costituisce un reato ma è sanzionata dal codice stradale, specifica la sentenza. Siccome l'incarico di polizia giudiziaria svolto dai carabinieri non è stato alterato dal controllo di polizia stradale dei vigili manca anche ogni elemento per qualificare come interruzione di pubblico servizio il comportamento degli operatori.
Restano vigili molto ligi al dovere che hanno ottemperato all'obbligo di contestazione immediata delle infrazioni, conclude la sentenza. Senza però fare distinzione tra conducenti di servizi urgenti potenzialmente esenti dall'obbligo di legge (articolo ItaliaOggi Sette del 23.03.2015).

EDILIZIA PRIVATAIl Consiglio di Stato ha affermando che “Il rilascio della sanatoria edilizia ai sensi degli artt. 31 e segg. L. 47/1985, se da un lato rende legittimo l’edificio che era, strutturalmente e funzionalmente, abusivo, dall’altro non conferisce alcun ulteriore beneficio automatico o vantaggio, attuale o potenziale; pertanto non può essere variata automaticamente la destinazione urbanistica del terreno ove insiste l’edificio condonato e nemmeno può ritenersi mutata la relativa normativa urbanistica”.
Tale assunto appare assolutamente condivisibile, sol che si pensi che il contrario significherebbe ammettere che qualsiasi soggetto possa ottenere una destinazione urbanistica dei propri fondi più favorevole, o quantomeno più confacente alle proprie esigenze, semplicemente passando per le vie di fatto e confidando sulla periodica riapertura dei termini per presentare la sanatoria di cui agli artt. 31 e segg. L. 47/1985; oltre a ciò tale automatica variazione della destinazione urbanistica, conseguente alla sanatoria “straordinaria,” si tradurrebbe in un vantaggio ingiustificabile in quanto rivolto a favore di un soggetto che ha scelto di porsi in contrasto con l’ordinamento giuridico.
E’ chiaro, dunque, che i titoli autorizzativi “in sanatoria” rilasciati in base a tale speciale normativa non hanno alcun potere di rendere l’opera abusiva “conforme” alla normativa urbanistica vigente: essi conseguono, invece, il solo effetto di impedire che all’opera abusiva vengano applicate le varie sanzioni previste dalla legge, tra cui la demolizione e la nullità degli atti di vendita, consentendo così ai beni stessi di poter circolare liberamente in modo legale.

Il secondo motivo di ricorso, seppure larvatamente, sottende la seguente questione giuridica: se il rilascio della sanatoria ai sensi della L. 326/2003 –così come quelle già rilasciate ai sensi del capo IV della L. 47/1985- comporti mutamento della precedente destinazione del fondo sul quale l’abuso sanato è stato realizzato.
Come si è già detto, questa tipologia di sanatoria per definizione riguarda abusi non sanabili ai sensi degli artt. 13 e segg. L. 47/1985, ora artt. 36 e segg. DPR 380/2001: si tratta quindi di una sanatoria che regolarizza abusi che hanno una destinazione incompatibile con quella impressa, sull’area oggetto dell’illecito, dal PRG vigente all’epoca della realizzazione e/o all’epoca di proposizione della domanda di condono.
Ci si chiede, pertanto, se il rilascio di tale sanatoria implichi di per sé un “adeguamento” del PRG, nel senso di imprimere all’area oggetto dell’abuso sanato la diversa destinazione urbanistica compatibile con l’abuso: riferendosi al caso di specie, ci si chiede se il rilascio della sanatoria del 16/03/2006, per il fatto di aver regolarizzato un manufatto destinato ad uso commerciale, al quale sembrerebbe essere stato asservito l’intero mappale 27, possa aver sortito l’effetto di imprimere al fondo su cui insiste il fabbricato nonché all’area ad asso asservita una destinazione commerciale, indipendentemente da un formale recepimento di tale destinazione nelle tavole di PRG.
Su tale questione si è pronunciato il Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 01/10/2002 n. 5117, affermando che “Il rilascio della sanatoria edilizia ai sensi degli artt. 31 e segg. L. 47/1985, se da un lato rende legittimo l’edificio che era, strutturalmente e funzionalmente, abusivo, dall’altro non conferisce alcun ulteriore beneficio automatico o vantaggio, attuale o potenziale; pertanto non può essere variata automaticamente la destinazione urbanistica del terreno ove insiste l’edificio condonato e nemmeno può ritenersi mutata la relativa normativa urbanistica”.
Tale assunto appare assolutamente condivisibile, sol che si pensi che il contrario significherebbe ammettere che qualsiasi soggetto possa ottenere una destinazione urbanistica dei propri fondi più favorevole, o quantomeno più confacente alle proprie esigenze, semplicemente passando per le vie di fatto e confidando sulla periodica riapertura dei termini per presentare la sanatoria di cui agli artt. 31 e segg. L. 47/1985; oltre a ciò tale automatica variazione della destinazione urbanistica, conseguente alla sanatoria “straordinaria,” si tradurrebbe in un vantaggio ingiustificabile in quanto rivolto a favore di un soggetto che ha scelto di porsi in contrasto con l’ordinamento giuridico.
E’ chiaro, dunque, che i titoli autorizzativi “in sanatoria” rilasciati in base a tale speciale normativa non hanno alcun potere di rendere l’opera abusiva “conforme” alla normativa urbanistica vigente: essi conseguono, invece, il solo effetto di impedire che all’opera abusiva vengano applicate le varie sanzioni previste dalla legge, tra cui la demolizione e la nullità degli atti di vendita, consentendo così ai beni stessi di poter circolare liberamente in modo legale.
Ciò premesso, è evidente che, ove pure fosse vero -il che non è- quanto sostiene il ricorrente, e cioè che la sanatoria del 16/03/2006 avrebbe regolarizzato anche l’utilizzazione a scopo commerciale del piazzale, ciò non significherebbe affatto che l’area avrebbe assunto, in via definitiva, una destinazione commerciale.
Da quanto sopra detto discende, viceversa, che l’area ha mantenuto la propria originaria destinazione agricola e quindi ogni intervento che su detta area voglia realizzarsi dovrà tenere conto di tale vocazione. La sanatoria, ove si fosse effettivamente riferita anche alla utilizzazione del piazzale quale esposizione di auto per la rivendita, avrebbe sortito il solo effetto di legittimare tale utilizzazione dell’area, di per sé contrastante con la destinazione agricola e quindi soggetta ad autorizzazione a prescindere dalla realizzazione di opere permanenti, senza implicitamente consentire alcuna altra e diversa opera.
Non a caso la sanatoria rilasciata il 16/03/2006 precisa che essa “…riguarda solo le opere specificamente richieste; non estende i suoi effetti né comporta alcuna valutazione su altre parti dell’immobile pur descritte negli elaborati allegati alla domanda” (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 30.01.2008 n. 100 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl rilascio della sanatoria edilizia, ai sensi degli artt. 31 e segg. della legge n. 47 del 1985, se da un lato rende legittimo l’edificio che era, strutturalmente e funzionalmente, abusivo, dall’altro non conferisce nessun ulteriore automatico beneficio o vantaggio, attuale potenziale.
In particolare, con la sanatoria edilizia non può automaticamente essere variata la destinazione urbanistica del terreno dove insiste l’edificio condonato e nemmeno può ritenersi mutata la relativa normativa urbanistica.

Le censure sono infondate e l’appello va respinto.
Rileva il Collegio che la concessione edilizia n. 7323 del 03.05.1988, annullata dall’impugnata sentenza, aveva per oggetto opere di ristrutturazione dell’edificio di proprietà dell’appellante al fine di adibirlo a sede della società.
Le opere come notato in precedenza erano dirette, precisamente, a realizzare: uffici, servizi del personale, magazzino, ricovero automezzi, riparazioni e alloggio del custode.
Al riguardo la Sezione condivide il presupposto decisionale del Tribunale secondo cui il rilascio della sanatoria edilizia, ai sensi degli artt. 31 e segg. della legge n. 47 del 1985, se da un lato rende legittimo l’edificio che era, strutturalmente e funzionalmente, abusivo, dall’altro non conferisce nessun ulteriore automatico beneficio o vantaggio, attuale potenziale.
In particolare, con la sanatoria edilizia non può automaticamente essere variata la destinazione urbanistica del terreno dove insiste l’edificio condonato e nemmeno può ritenersi mutata la relativa normativa urbanistica.
In tale contesto sono infondate le prospettate censure in quanto giustamente il Tribunale ha escluso che il Comune di San Michele al Tagliamento potesse autorizzare ulteriori interventi edilizi (nella specie, di ristrutturazione complessiva) sull’edificio condonato, situato in zona agricola ed in fascia di rispetto stradale, secondo quanto presupposto dall’apposito parere della Commissione edilizia comunale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.10.2002 n. 5117 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 18.03.2015

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Compatibilità paesaggistica dei "volumi tecnici": ecco altre pronunce (demolitrici) del totem "circolare 26.06.2009 n. 33 del Segretario generale MIBACT" (ex ante nonché ex post di Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.01.2015 n. 12):

tale circolare -come rilevato anche dalla Soprintendenza- costituisce “espressione di un potere di mero indirizzo, ma non certo normativo (si tratta di atto interno, privo di efficacia precettiva autonoma) o di ordine, per cui va applicata nei limiti in cui sia conforme alla legge od al regolamento”; sicché essa “non costituisce documento decisivo ai fini del decidere, ancorché contenga un'interpretazione diversa da quella sostenuta dalla difesa dell'Amministrazione nel giudizio".
Anche la Cassazione ha ritenuto “
del tutto irrilevante che la circolare amministrativa citata dalla ricorrente abbia espresso un giudizio diverso … mai è stato messo in discussione il principio basilare che una legge non possa essere modificata o abrogata che da un’altra legge e non invece da un atto amministrativo quale è la circolare amministrativa, avente il solo scopo di fornire chiarimenti e delucidazioni operative agli uffici dipendenti”.

EDILIZIA PRIVATAL’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 preclude l’accertamento di compatibilità paesaggistica postuma in caso di creazione di superfici utili “o” -congiunzione disgiuntiva- volumi, senza distinzioni di sorta; segnatamente, “senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume” atteso che “la natura del volume edilizio realizzato non rileva sul giudizio di compatibilità paesaggistica ex post delle opere, in cui la nuova volumetria, quale che sia la sua natura, impone una valutazione di compatibilità con i valori paesaggistici dell'area ex ante, essendo precluse autorizzazioni postume di opere che abbiano comportato nuovi volumi ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. n. 42 del 2004”.
Il comma 4 dell’art. 167, dunque, “vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica quando l'abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura”.
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La diversa opzione contenuta nella circolare n. 33/2009 del MIBACT non preclude l’interpretazione sopra enunciata, atteso che tale atto -come rilevato anche dalla Soprintendenza- costituisce “espressione di un potere di mero indirizzo, ma non certo normativo (si tratta di atto interno, privo di efficacia precettiva autonoma) o di ordine, per cui va applicata nei limiti in cui sia conforme alla legge od al regolamento”; sicché essa “non costituisce documento decisivo ai fini del decidere, ancorché contenga un'interpretazione diversa da quella sostenuta dalla difesa dell'Amministrazione nel giudizio".
Anche la Cassazione ha ritenuto “del tutto irrilevante che la circolare amministrativa citata dalla ricorrente abbia espresso un giudizio diverso … mai è stato messo in discussione il principio basilare che una legge non possa essere modificata o abrogata che da un’altra legge e non invece da un atto amministrativo quale è la circolare amministrativa, avente il solo scopo di fornire chiarimenti e delucidazioni operative agli uffici dipendenti”.
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In relazione a una fattispecie del tutto analoga, nello stesso comune, questo Tribunale (con sent. n. 1540/2013) aveva accolto il ricorso dell’interessato, sul presupposto che il manufatto contestato realizzasse in concreto “un volume tecnico, di carattere pertinenziale e destinato esclusivamente ad impianti tecnologici (legnaia, serbatoio idrico con annesso autoclave)”, e ritenendo “irrilevante la circostanza che i locali tecnici … non siano immediatamente contigui alla casa di abitazione ma da essa separati”.
Al riguardo, tuttavia, il Consiglio di Stato (sez. VI, sent. n. 12/2015), nel riformare la pronuncia di primo grado ha ribadito che “gli unici interventi dei quali è possibile l’accertamento postumo di conformità paesaggistica, a sua volta presupposto del rilascio della sanatoria edilizia [sono]: quelli che non hanno determinato creazione di superfici utili o di volumi, e quelli configurabili in termini di manutenzione ordinaria o straordinaria. Da ciò, per tornare alla fattispecie in esame, deriva, innanzitutto, l’ininfluenza della definizione, invece enfatizzata dal primo giudice, degli interventi in discorso, realizzati senza titolo, in termini di volumi tecnici”.
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Nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall'art. 146, comma 5, così come del termine fissato dall'art. 167, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, il potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dal richiamato comma 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma l'interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l'illegittimo silenzio-inadempimento dell'organo statale.
La perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l'obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice…)”; “nel caso di superamento del termine in questione il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo".

... per l'annullamento del parere contrario al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica in sanatoria n. 15946 del 16/06/2014 a firma del Soprintendente per i B.A.P. delle province di Salerno e Avellino.
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Il ricorso è infondato.
In primo luogo, deve essere rilevato che l’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 preclude l’accertamento di compatibilità paesaggistica postuma in caso di creazione di superfici utili “o” -congiunzione disgiuntiva- volumi, senza distinzioni di sorta; segnatamente, “senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume” atteso che “la natura del volume edilizio realizzato non rileva sul giudizio di compatibilità paesaggistica ex post delle opere, in cui la nuova volumetria, quale che sia la sua natura, impone una valutazione di compatibilità con i valori paesaggistici dell'area ex ante, essendo precluse autorizzazioni postume di opere che abbiano comportato nuovi volumi ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. n. 42 del 2004” (Cons. di Stato, II, parere 06.06.2012, n. affare 04814/2011); il comma 4 dell’art. 167, dunque, “vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica quando l'abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura” (sez. VI, sent. n. 4503/2013).
La diversa opzione contenuta nella Circolare n. 33/2009 non preclude l’interpretazione sopra enunciata, atteso che tale atto -come rilevato anche dalla Soprintendenza- costituisce “espressione di un potere di mero indirizzo, ma non certo normativo (si tratta di atto interno, privo di efficacia precettiva autonoma) o di ordine, per cui va applicata nei limiti in cui sia conforme alla legge od al regolamento”; sicché essa “non costituisce documento decisivo ai fini del decidere, ancorché contenga un'interpretazione diversa da quella sostenuta dalla difesa dell'Amministrazione nel giudizio” (TAR Umbria, I, n. 388/2011).
Anche la Cassazione ha ritenuto “del tutto irrilevante che la circolare amministrativa citata dalla ricorrente abbia espresso un giudizio diverso … mai è stato messo in discussione il principio basilare che una legge non possa essere modificata o abrogata che da un’altra legge e non invece da un atto amministrativo quale è la circolare amministrativa, avente il solo scopo di fornire chiarimenti e delucidazioni operative agli uffici dipendenti” (Cass. pen., III, sent. n. 25197/2008).
Sul punto, la conformità del provvedimento impugnato a precedenti giurisprudenziali esclude ogni profilo di eccesso di potere da parte dell’Amministrazione procedente.
Deve aggiungersi che in relazione a una fattispecie del tutto analoga, nello stesso comune di Pisciotta, questo Tribunale (con sent. n. 1540/2013) aveva accolto il ricorso dell’interessato, sul presupposto che il manufatto contestato realizzasse in concreto “un volume tecnico, di carattere pertinenziale e destinato esclusivamente ad impianti tecnologici (legnaia, serbatoio idrico con annesso autoclave)”, e ritenendo “irrilevante la circostanza che i locali tecnici … non siano immediatamente contigui alla casa di abitazione ma da essa separati”.
Al riguardo, tuttavia, il Consiglio di Stato (sez. VI, sent. n. 12/2015), nel riformare la pronuncia di primo grado ha ribadito che “gli unici interventi dei quali è possibile l’accertamento postumo di conformità paesaggistica, a sua volta presupposto del rilascio della sanatoria edilizia [sono]: quelli che non hanno determinato creazione di superfici utili o di volumi, e quelli configurabili in termini di manutenzione ordinaria o straordinaria. Da ciò, per tornare alla fattispecie in esame, deriva, innanzitutto, l’ininfluenza della definizione, invece enfatizzata dal primo giudice, degli interventi in discorso, realizzati senza titolo, in termini di volumi tecnici”.
Il Collegio non ritiene sussistano ragioni per discostarsi dalle conclusioni raggiunte dal Giudice d’appello, che in coerenza con la ratio delle norme danno rilievo alla intrusione di un’opera abusiva nell’ambiente tutelato, anziché alla (mancata) incidenza sul carico urbanistico.
In ogni caso -anche a voler accedere a ricostruzioni più favorevoli all’ipotesi della ricorrente- non sono stati forniti, nella fattispecie in esame, argomenti sufficienti in ordine alla essenzialità del manufatto rispetto alla costruzione principale, alla impossibilità di collocarne diversamente il contenuto, alla insussistenza di qualunque impatto visivo. L’Amministrazione ha anzi ritenuto l’intervento concretamente pregiudizievole per l’ambiente circostante, con motivazione non censurabile sotto il profilo della legittimità, laddove ha affermato che “il manufatto in argomento -costituito da un corpo edilizio separato dall'abitazione principale, dotato di propria autonomia anche strutturale”- risulta, “stante la sua collocazione, ampiamente visibile da spazi e strade accessibili al pubblico”.
In ordine alla asserita insufficienza di tale motivazione -e fermo restando quanto ritenuto in ordine alla preclusione derivante dalla costruzione di un nuovo volume- osserva il Collegio che le pronunce richiamate da parte ricorrente hanno ad oggetto ipotesi di diniego di nulla osta preventivo per la costruzione in area soggetta a vincolo paesaggistico, nelle quali è sicuramente vero che l’Amministrazione è tenuta a esternare le specifiche ragioni per le quali ritenga l’opera inidonea a inserirsi nell’ambiente.
Nel caso in esame, invece, deve rilevarsi la minore intensità dell’onere motivazionale, dovendosi porre a carico dell’istante la prova della concreta sussistenza sia delle condizioni per l’applicazione della deroga al generale divieto di sanabilità postuma degli abusi paesaggistici sia della mancanza di qualsiasi pregiudizio per il contesto ambientale di riferimento.
Nemmeno convince il Collegio la censura relativa alla asserita violazione degli artt. 10 e 10-bis della legge n. 241/1990, per non avere la Soprintendenza sufficientemente motivato, nel provvedimento finale, in merito alle controdeduzioni prodotte dalla ricorrente in riscontro alla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.
Per vero, il parere della Soprintendenza argomenta in ordine a tutte le questioni ivi sollevate e sostanzialmente corrispondenti ai motivi di ricorso.
Non può del pari trovare accoglimento la doglianza relativa alla asserita tardività dei provvedimenti ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
Come più volte chiarito dal Consiglio di Stato, dal quadro normativo di riferimento si evince che “nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall'art. 146, comma 5, così come del termine fissato dall'art. 167, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, il potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dal richiamato comma 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma l'interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l'illegittimo silenzio-inadempimento dell'organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l'obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice…)”; “nel caso di superamento del termine in questione il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio qualificato o significativo” (sez. VI, sent., n. 4914/2013).
Quanto infine alla lamentata disparità di trattamento, per avere l’Amministrazione -secondo quanto asserisce parte ricorrente- reso pareri favorevoli alla sanatoria, in aree adiacenti, di interventi edilizi simili a quello in esame, il Collegio richiama quanto già chiarito da questo Tribunale “con riguardo al predicato vizio di disparità di trattamento, essendo sufficiente osservare che una più elastica valutazione della compatibilità paesaggistica di altri interventi non preclude all'amministrazione di adeguare successivamente l'esercizio dei suoi poteri di controllo a canoni di giudizio più rigorosi e meglio rispondenti alle finalità di tutela sottese all'imposizione del vincolo” (sent. n. 1116/2012).
La legittimità del provvedimento impugnato esclude altresì ogni ipotesi di risarcimento del danno (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 09.02.2015 n. 298 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl punto fondamentale ai fini del decidere è se il volume tecnico rientri nella previsione dell’art. 167, comma 4, lett. a), del codice dei beni culturali e del paesaggio, alla stregua del quale l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria è consentita, tra l’altro, «per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati».
Non ignora il Collegio come il tema sia complesso, ed oggetto di pronunce di primo grado anche contrarie, ma appare più corretto ritenere che il volume tecnico, che ha un senso ed una connotazione nella disciplina urbanistica ed edilizia, non possa assumere portata derogatoria in materia di tutela del paesaggio.
La nozione di “volume” ed, ancora di più, quella di “superficie utile” non appartengono alla tutela paesaggistica, che fa perno, piuttosto, sulla “percettibilità visiva”.
Se così è, risulta evidente come non possa essere automaticamente estesa la disciplina urbanistico-edilizia ad un bene paesaggistico, e cioè ad un particolare “bene ad uso controllato”.
D’altronde, tale ontologica separatezza di regime si desume, a livello sistematico, dalla stessa disciplina ordinaria della autorizzazione paesaggistica, che l’art. 146, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004 configura come atto “autonomo” e “presupposto” rispetto al permesso di costruire od agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio, che non può essere rilasciato in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi.
Si impone, dunque, ad avviso del Collegio, un’interpretazione restrittiva dell’art. 167, comma 4, lett. a), il cui fondamento di razionalità è quello di consentire, in deroga al già indicato divieto generale, l’autorizzazione paesaggistica ex post solamente per i c.d. abusi minori, tra i quali non può essere contemplata alcuna opera comportante un aumento di volumetria.
Una diversa interpretazione, oltre che in frontale contrasto con la littera legis, principale canone ermeneutico ai sensi dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile, verrebbe a legittimare il fatto compiuto, privando della tutela, anche di rango costituzionale, i beni paesaggistici, come appare particolarmente evidente nella presente fattispecie controversa, in cui la società ricorrente ha prima inutilmente esperito la via dell’ordinaria autorizzazione paesaggistica per la variante al permesso di costruire, per poi rinunciarvi “per mutate esigenze” dopo che gli era stato opposto il parere negativo, ed attivando successivamente il procedimento di sanatoria paesaggistica.
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Osserva il Collegio che la circolare n. 33 in data 26.06.2009 del Segretario Generale del Mi.B.A.C. è espressione di un potere di mero indirizzo, ma non certo normativo (si tratta di atto interno, privo di efficacia precettiva autonoma) o di ordine, per cui va applicata nei limiti in cui sia conforme alla legge od al regolamento.
Corollario del carattere meramente interpretativo della circolare, come è stato condivisibilmente rilevato in giurisprudenza, è che non costituisce documento decisivo ai fini del decidere, ancorché contenga un’interpretazione diversa da quella sostenuta dalla difesa dell’Amministrazione nel giudizio.

... per l'annullamento dei parziali pareri negativi di compatibilità paesaggistica per variante ai permessi di costruire adottati dalla Soprintendenza in data 23.09.2010, relativamente alle sole opere realizzate a livello della copertura degli edifici, ovvero ai piani sottotetto degli edifici per civile abitazione plurifamiliare e negozi siti in Magione, Viale Umbria, Foglio n. 30, part. varie, zona dichiarata di notevole interesse paesaggistico ai sensi della legge n. 1497 del 1939, nonché di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale, nonché per il risarcimento dei consequenziali danni.
...
1. - Con i primi due motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente, in quanto tra loro complementari, si lamenta l’illegittimità degli impugnati pareri negativi di compatibilità paesaggistica in sanatoria (per variante al permesso di costruire), limitatamente alla modifica del piano sottotetto, asseritamente concretantesi nella realizzazione di nuovi volumi e nella sopraelevazione dei timpani, nell’assunto che gli interventi edilizi siano consistiti, invece, nella creazione di meri volumi tecnici, non preclusi dall’art. 167, comma 4, lett. a), del d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Le censure non appaiono meritevoli di positiva valutazione.
Giova premettere che non è contestata la circostanza di fatto per cui l’intervento edilizio in questione ha comportato una “sopraelevazione delle quote assolute dei colmi delle rispettive coperture di ml. 1,40 e del timpano”, quanto, piuttosto, la rilevanza di tale incremento di superficie e di volume, che, ad avviso di parte ricorrente, deve configurarsi alla stregua di “volume tecnico”, indifferente ai fini urbanistico-edilizi ed anche ai fini dell’autorizzazione paesaggistica.
Anche ad ammettere, pur trattandosi di circostanza contestata dall’Amministrazione statale, che la variante del sottotetto sia finalizzata esclusivamente all’installazione di impianti tecnologici (extracorsa degli ascensori, installazione di impianti di energia rinnovabile, pannelli solari), come risulta affermato anche dalla perizia giurata versata in atti da parte ricorrente, il punto fondamentale ai fini del decidere è se il volume tecnico rientri nella previsione dell’art. 167, comma 4, lett. a), del codice dei beni culturali e del paesaggio, alla stregua del quale l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria è consentita, tra l’altro, «per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati».
Non ignora il Collegio come il tema sia complesso, ed oggetto di pronunce di primo grado anche contrarie (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 03.11.2009, n. 6827; Sez. IV, 21.09.2010, n. 17491; TAR Emilia Romagna, Parma, 15.09.2010, n. 435), ma appare più corretto ritenere che il volume tecnico, che ha un senso ed una connotazione nella disciplina urbanistica ed edilizia, non possa assumere portata derogatoria in materia di tutela del paesaggio.
La nozione di “volume” ed, ancora di più, quella di “superficie utile” non appartengono alla tutela paesaggistica, che fa perno, piuttosto, sulla “percettibilità visiva”.
Se così è, risulta evidente come non possa essere automaticamente estesa la disciplina urbanistico-edilizia ad un bene paesaggistico, e cioè ad un particolare “bene ad uso controllato”.
D’altronde, tale ontologica separatezza di regime si desume, a livello sistematico, dalla stessa disciplina ordinaria della autorizzazione paesaggistica, che l’art. 146, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004 configura come atto “autonomo” e “presupposto” rispetto al permesso di costruire od agli altri titoli legittimanti l’intervento urbanistico-edilizio, che non può essere rilasciato in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi.
Si impone, dunque, ad avviso del Collegio, un’interpretazione restrittiva dell’art. 167, comma 4, lett. a), il cui fondamento di razionalità è quello di consentire, in deroga al già indicato divieto generale, l’autorizzazione paesaggistica ex post solamente per i c.d. abusi minori, tra i quali non può essere contemplata alcuna opera comportante un aumento di volumetria.
Una diversa interpretazione, oltre che in frontale contrasto con la littera legis, principale canone ermeneutico ai sensi dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile, verrebbe a legittimare il fatto compiuto, privando della tutela, anche di rango costituzionale, i beni paesaggistici, come appare particolarmente evidente nella presente fattispecie controversa, in cui la società ricorrente ha prima inutilmente esperito la via dell’ordinaria autorizzazione paesaggistica per la variante al permesso di costruire, per poi rinunciarvi “per mutate esigenze” dopo che gli era stato opposto il parere negativo, ed attivando successivamente il procedimento di sanatoria paesaggistica.
Quanto all’asserito contrasto con le circolari ministeriali, ed in particolare con la circolare n. 33 in data 26.06.2009 del Segretario Generale del Mi.B.A.C., osserva il Collegio che detto atto è espressione di un potere di mero indirizzo, ma non certo normativo (si tratta di atto interno, privo di efficacia precettiva autonoma) o di ordine, per cui va applicata nei limiti in cui sia conforme alla legge od al regolamento; corollario del carattere meramente interpretativo della circolare, come è stato condivisibilmente rilevato in giurisprudenza, è che non costituisce documento decisivo ai fini del decidere, ancorché contenga un’interpretazione diversa da quella sostenuta dalla difesa dell’Amministrazione nel giudizio (tra le tante, TAR Campania, Napoli, Sez. III, 02.03.2004, n. 2570).
2. - Con il terzo ed il quarto mezzo, che, pure, possono essere esaminati congiuntamente, si deduce il vizio motivazionale dei provvedimenti gravati che non avrebbero adeguatamente ponderato l’interesse pubblico con quello privato alla sanatoria, in quanto l’intervento edilizio in questione non comprometterebbe il paesaggio, anche nella proiezione più significativa della veduta del Castello dei Cavalieri di Malta e della Torre dei Lambardi.
Anche tali censure devono essere disattese.
I gravati pareri negativi di compatibilità paesaggistica sono sufficientemente motivati nella considerazione che le opere realizzate a livello della copertura «modificano la percezione del complesso naturale paesaggistico tutelato ed è evidente l’alterazione delle masse che costituiscono l’immobile, causate dalla realizzazione di nuovi volumi e sopraelevazione dei timpani».
Il corredo motivazionale, pur nella sua essenzialità, spiegabile anche in considerazione dell’accertato incremento di volumetria, in violazione della norma di legge, è dunque presente nel parere, e consiste proprio nella valutazione della compatibilità dell’intervento edilizio con le caratteristiche del bene che ne richiedono la protezione. Va aggiunto che una siffatta valutazione di compatibilità rispetto ai vincoli sussistenti in loco è espressione di valutazioni tecniche non sindacabili in sede di giurisdizione di legittimità, se non manifestamente irragionevoli; si tratta inoltre, come già esposto, di valutazioni che prescindono dalla conformità urbanistica dell’opera ed anche dal rispetto degli stilemi tecnico-costruttivi della lottizzazione.
Va, infine, aggiunto che nel regime autorizzatorio di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 il parere della Soprintendenza non è più limitato ad un controllo di legittimità (come nella disciplina transitoria di cui all’art. 159 dello stesso corpus normativo), essendole consentito di formulare un parere che è espressione di un potere decisorio complesso facente capo a due distinti apparati amministrativi (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 11.01.2011, n. 53) (TAR Umbria, sentenza 29.11.2011 n. 388 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Ed altre pronunce, ancora, contro la compatibilità paesaggistica dei "volumi tecnici":

EDILIZIA PRIVATA: Il Consiglio di Stato ha statuito che l’art. 167, comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica a sanatoria quando il manufatto realizzato in assenza di valutazione di compatibilità abbia determinato la creazione o l’aumento di superfici utili o di volumi e che la lettera di tale norma non consente ulteriori interpretazioni.
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La giurisprudenza in materia è orientata a ritenere che "il divieto di incremento di volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume…”.
Anche questo Tribunale si è pronunciato in subiecta materia, precisando testualmente che non “può sostenersi, come pretende parte ricorrente, che l’attività edilizia di ampliamento compiuta in maniera difforme dal titolo edilizio possa essere apprezzata quale volumetria tecnica, in quanto realizzerebbe, tramite una copertura del tetto e le mura perimetrali, uno strumento di isolamento termico.
La tesi è ardita ma non è accettabile perché sconvolgerebbe il senso stesso della nozione di volume tecnico che si aggancia ai seguenti tre parametri.
- il primo, di tipo funzionale, secondo cui l’opera che costituisce volume tecnico deve assumere un rapporto di strumentalità necessaria rispetto alla costruzione principale perché ne consente un migliore e più efficiente utilizzo;
- il secondo ed il terzo di tipo strutturale, nel senso che, da un lato, la collocazione esterna del volume tecnico appare l’unica soluzione praticabile per impossibilità di ricorrere a soluzioni progettuali diverse e, dall’altro, deve esistere un rapporto di necessaria proporzionalità tra volume tecnico e costruzione principale.
Nella nozione di volume tecnico non rientrano, ad esempio, le soffitte, gli stenditoio chiusi e quelli di sgombero, i piani di copertura qualora, impropriamente considerati sottotetti, costituiscano in realtà mansarde perché dotate di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda. Devono invece considerarsi gli impianti serventi connessi a condotte idrica, termica o all’ascensore.
Il tentativo di parte ricorrente di dilatare la nozione di volume tecnico per includere anche gli ampliamenti delle murature perimetrali e della copertura del tetto, resisi necessari al presunto scopo di creare un isolamento termico, non trova alcuna giustificazione né nella normativa sopra menzionata né nell’elaborazione giurisprudenziale ed in quella ministeriale volte ad individuare la predetta nozione. Se, al contrario, si aderisse alla tesi dei ricorrenti, non sarebbe più necessario alcun rapporto di strumentalità tra opera servente a fini tecnici ed opera principale, il che sovvertirebbe la portata stessa di volume tecnico.
Le norme di tutela paesaggistica che hanno lo scopo di salvaguardare la sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali, impongono il divieto di realizzare qualsiasi volume edilizio.... e quindi anche quei volumi che non sono considerati normalmente rilevanti secondo le norme che regolano l'attività edilizia".
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Non appaiono pertinenti le regole di “tolleranza” (2%), introdotte dall’art. 5, comma 2, d.l. 70/2011 (decreto sviluppo) ai fini della compatibilità paesaggistica.
Questa disposizione aggiunge all’art. 34 del d.lgs. 380/2001, il comma 2-ter secondo cui “ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali.”.
La disposizione, tuttavia, non può che riferirsi, per dato letterale e per collocazione sistematica, alle sole ricadute urbanistiche ma non può incidere sugli aspetti paesaggistici che trovano nel d.lgs. 42/2004 la propria disciplina inderogabile di settore.

... per l'annullamento:
- del provvedimento di cui alla nota prot. n. 15835 del 03.06.2013 con la quale la Soprintendenza ai B.A.P. di Salerno ed Avellino ha espresso parere contrario in merito sull'istanza di compatibilità paesaggistica, ex art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004, per opere realizzate nel comune di Centola;
- del provvedimento di cui alla nota prot. n. 7881 del 03.07.2013 con il quale l Comune i Centola, sulla base del citato parere contrario, ha respinto l’istanza di accertamento di conformità e compatibilità paesaggistica dei ricorrenti;
...
Le censure non colgono nel segno.
8.- Può essere respinto anche il secondo motivo di ricorso, con il quale si deduce che solo nel caso di incremento congiunto di volumi e superfici sarebbe giustificabile il diniego di valutazione di compatibilità paesaggistica.
Contrariamente a quanto dedotto, deve ricordarsi che la giurisprudenza amministrativa ha inteso escludere l’opzione cumulativa. Basterà ricordare che il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 3373/2013, riformando la pronuncia n. 1942/2012 di questo Tar, orientata in senso conforme a quanto sostenuto dai ricorrenti, ha statuito che l’art. 167, comma 4, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, non consente il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica a sanatoria quando il manufatto realizzato in assenza di valutazione di compatibilità abbia determinato la creazione o l’aumento di superfici utili o di volumi e che la lettera di tale norma non consente ulteriori interpretazioni (in senso conforme Cons. St. n. 5066/2012 del 24.09.2012; n. 3578/2012 del 20.06.2012).
9.- Anche il terzo motivo di ricorso, con il quale parte ricorrente tenta di escluderà dal concetto di volumetria i volumi tecnici, sulla base delle indicazioni contenute nella circolare n. 33 del 2009 del Ministero B.A.C., è infondato sulla scorta della giurisprudenza in materia, orientata a ritenere che "il divieto di incremento di volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume…” (in termini Cons. Stato, sez. IV, 28.03.2011, n. 1879; cfr., inoltre, Cons. Stato, sez. VI, 12.01.2011, n. 110; sez. IV, 11.05.2005, n. 2388; Tar Campania n. 832 del 2009).
Anche questo Tribunale si è pronunciato (n. 464/2014) in subiecta materia, precisando testualmente che non “può sostenersi, come pretende parte ricorrente, che l’attività edilizia di ampliamento compiuta in maniera difforme dal titolo edilizio possa essere apprezzata quale volumetria tecnica, in quanto realizzerebbe, tramite una copertura del tetto e le mura perimetrali, uno strumento di isolamento termico.
La tesi è ardita ma non è accettabile perché sconvolgerebbe il senso stesso della nozione di volume tecnico che si aggancia ai seguenti tre parametri.
- il primo, di tipo funzionale, secondo cui l’opera che costituisce volume tecnico deve assumere un rapporto di strumentalità necessaria rispetto alla costruzione principale perché ne consente un migliore e più efficiente utilizzo;
- il secondo ed il terzo di tipo strutturale, nel senso che, da un lato, la collocazione esterna del volume tecnico appare l’unica soluzione praticabile per impossibilità di ricorrere a soluzioni progettuali diverse e, dall’altro, deve esistere un rapporto di necessaria proporzionalità tra volume tecnico e costruzione principale (TAR Campania, Napoli, sez. III, 09.11.2010, n. 23699; sez. IV, 10.05.2010, n. 3433).
Nella nozione di volume tecnico non rientrano, ad esempio, le soffitte, gli stenditoio chiusi e quelli di sgombero, i piani di copertura qualora, impropriamente considerati sottotetti, costituiscano in realtà mansarde perché dotate di rilevante altezza media rispetto al piano di gronda (Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2011, n. 687). Devono invece considerarsi gli impianti serventi connessi a condotte idrica, termica o all’ascensore.
Il tentativo di parte ricorrente di dilatare la nozione di volume tecnico per includere anche gli ampliamenti delle murature perimetrali e della copertura del tetto, resisi necessari al presunto scopo di creare un isolamento termico, non trova alcuna giustificazione né nella normativa sopra menzionata né nell’elaborazione giurisprudenziale ed in quella ministeriale volte ad individuare la predetta nozione. Se, al contrario, si aderisse alla tesi dei ricorrenti, non sarebbe più necessario alcun rapporto di strumentalità tra opera servente a fini tecnici ed opera principale, il che sovvertirebbe la portata stessa di volume tecnico.
Le norme di tutela paesaggistica che hanno lo scopo di salvaguardare la sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali, impongono il divieto di realizzare qualsiasi volume edilizio.... e quindi anche quei volumi che non sono considerati normalmente rilevanti secondo le norme che regolano l'attività edilizia
" (nello stesso senso, con riferimento anche ai volumi interrati, v. TAR Napoli, 04.03.2009 n. 1267).
10.- Anche la penultima e l’ultima censura -con la quale i deducenti, per un verso deducono l’insussistenza di un manufatto avente autonoma rilevanza e, per altro verso, invocano la circostanza che il massetto sarebbe ampiamente inferiore al 2% dell’altezza assentita, per cui sarebbe irrilevante ex art. 34, comma 2-ter, del DPR n. 380/2001, applicabile anche in materia paesaggistica- devono stimarsi infondate alla luce delle precisazioni rese dal Collegio al punto 8) che precede, atteso che la pronuncia di questo TAR posta a sostegno delle proprie tesi difensive è stata riformata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 3373 del 2013.
A ciò aggiungasi che anche la giurisprudenza di questo TAR propende per escludere l’invocata disposizioni a fini paesaggistici.
Basterà ricordare che, giusta precisazione contenuta nella sentenza n. 464/2014, è stato chiarito che “… al caso di specie appaiono non pertinenti le regole di “tolleranza”, introdotte dall’art. 5, comma 2, d.l. 70/2011 (decreto sviluppo). Questa disposizione, invocata dal ricorrente, aggiunge all’art. 34 del d.lgs. 380/2001, il comma 2-ter secondo cui “ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali.”. La disposizione, tuttavia, non può che riferirsi, per dato letterale e per collocazione sistematica, alle sole ricadute urbanistiche ma non può incidere sugli aspetti paesaggistici che trovano nel d.lgs. 42/2004 la propria disciplina inderogabile di settore” (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 03.03.2015 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, siano essi interrati o meno.
Ossia –detto altrimenti– “il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.L.vo 42 del 2004) preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche “interrati”), pur quando ai fini urbanistici-edilizi non andrebbero ravvisati volumi in senso tecnico … in quanto la disciplina di tutela prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio si estende anche alle opere interrate che non risultino immediatamente percepibili all’occhio umano”.
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A’ sensi dell’art. 167, comma 5, del D.L.vo 42 del 2004 il parere reso al riguardo dalla Soprintendenza è testualmente definito come “vincolante”: circostanza, questa, che rende atto del tutto vincolato il provvedimento di accertamento negativo della conformità paesaggistica emesso dal Comune.
E, a tale riguardo, va ricordato che la violazione dell’obbligo di preventiva comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda, imposto dall’art. 10-bis della L. 241 del 1990 è di per sé inidonea a giustificare l’annullamento di un atto vincolato, non essendo consentito a’ sensi del successivo art. 21-octies l’annullamento dei provvedimenti amministrativi il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Né può essere fondatamente dedotto il difetto di motivazione del provvedimento comunale di accertamento negativo della conformità paesaggistica con riguardo alla mancata confutazione in esso degli argomenti addotti in contrario dalla richiedente l’accertamento medesimo: proprio la natura vincolata del provvedimento medesimo ragionevolmente esonera di per sé, infatti, l’amministrazione comunale da una motivazione diffusa al riguardo, essendo del tutto sufficiente in proposito il rinvio ob relationem ai pareri acquisiti nell’istruttoria, e in particolare a quello vincolante reso dalla Soprintendenza per i beni paesaggistici.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con istanza sospensiva, proposto a’ sensi dell’art. 8 e ss. del D.P.R. 24.11.1971 n. 1199 da Adelina Santonicola, contro il Comune di Pollica (Sa), la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Salerno e di Avellino e il Parco nazionale del Cilento e della Valle di Diano, avverso:
1) il provvedimento del Comune di Pollica Prot. n. 1931 dd. 08.03.2012 recante, in conformità ai pareri resi al riguardo dall’Ente Parco nazionale del Cilento e della Valle di Diano e dalla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Salerno e di Avellino, il diniego di accertamento della compatibilità paesaggistica per opere realizzate in un fabbricato rurale ubicato nel territorio comunale di Pollica, località Manche;
2) il provvedimento Prot. n. 4059 dd. 09.02.2012, con il quale la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Salerno e Avellino ha espresso al medesimo riguardo “parere contrario in ordine alla positiva conclusione dell’accertamento di compatibilità paesaggistica per le opere eseguite abusivamente che hanno comportato aumento di volume e superficie utile”;
3) il parere negativo reso dal Parco Nazionale del Cilento e Valle di Diano Prot. n. 19066 dd. 02.11.2011 “in quanto l’intervento è incompatibile con le disposizioni normative” vigenti;
4) il provvedimento Prot. n. 1935 dd. 09.02.2012 con il quale il Parco Nazionale del Cilento e Valle di Diano, in riscontro all’istanza di riesame presentata dall’attuale ricorrente, ha confermato il proprio diniego alla richiesta di accertamento di conformità paesaggistica Prot. n. 19066 dd. 02.11.2011;
...
Le opere realizzate dalla Santonicola non consistono soltanto nella demolizione e ricostruzione del fabbricato rurale anzidetto, ma anche nella realizzazione di un locale interrato con evidente incremento di volumetria; e, se è ben vero che tali opere sono state assentite dal Comune mediante il rilascio del titolo edilizio n. 32/2010 dd. 19.04.2010, a tutt’oggi formalmente non annullato o revocato, risulta con altrettanta evidenza che tale provvedimento è stato comunque emesso in difetto di atti che sono ad esso presupposti, ossia l’autorizzazione paesaggistica da emanarsi previo parere dell’Ente Parco e della Soprintendenza: il che -per l’appunto– non è avvenuto, con ben evidente violazione dell’art. 20, comma 7, del T.U. approvato con D.P.R. 380 del 2001 (anche nel testo vigente all’epoca dei fatti di causa) e dell’art. 146 del D.L.vo 42 del 2004.
Posto ciò, a’ sensi dell’art. 167, comma 4, del D.L.vo 42 del 2004, l’accertamento di conformità paesaggistica –all’evidenza, preliminare e pregiudicante rispetto a quello urbanistico-edilizio di cui all’art. 36 del T.U. approvato con D.P.R. 380 del 2001- può avvenire soltanto nelle seguenti, tassative ipotesi:
a) per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
b) per l'impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
c) per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del D.P.R. 380 del 2001.
Nel caso in esame è sufficiente evidenziare che la realizzazione del vano interrato contravviene ex se l’ipotesi di cui alla surriportata lett. a).
Al riguardo la ricorrente sostiene l’irrilevanza del volume da lei realizzato agli effetti paesaggistici in quanto non visibile dall’esterno.
La Sezione richiama in proposito la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo la quale il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, siano essi interrati o meno (così, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 05.08.2013 n. 4079); ossia –detto altrimenti– “il vigente art. 167, comma 4, del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.L.vo 42 del 2004) preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria, quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura (anche “interrati”), pur quando ai fini urbanistici-edilizi non andrebbero ravvisati volumi in senso tecnico … in quanto la disciplina di tutela prevista dal Codice dei beni culturali e del paesaggio si estende anche alle opere interrate che non risultino immediatamente percepibili all’occhio umano” (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 20.06.2012 n. 3578).
Invero, nella propria istanza di accertamento di conformità la ricorrente afferma di eliminare il vano seminterrato mediante “cementificazione del vuoto presente in ipogeo” (così, testualmente, a pag. 3 dell’atto introduttivo del presente giudizio).
A ragione la Soprintendenza ha evidenziato nella relazione tecnica da essa formata che la valutazione delle opere abusive va fatta nella situazione nella quale esse si trovano e non già in quella –assolutamente teorica– che potrebbe determinarsi rispetto ai prospettati interventi modificativi e/o riduttivi di quanto contra legem realizzato.
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La ricorrente ha –altresì- dedotto che il provvedimento adottato dal Comune non sarebbe stato preceduto dalla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda, a’ sensi dell’art. 10-bis della L. 241 del 1990 e che neppure potrebbe configurarsi in tal senso un adempimento a’ sensi del medesimo art. 10-bis l’avvenuta comunicazione dei motivi ostativi da parte della Soprintendenza in quanto la stessa atterrebbe ad un procedimento diverso, ancorché collegato a quello che si è concluso.
La ricorrente afferma anche che il Comune, nell’emettere il diniego di accertamento di conformità, avrebbe inoltre meramente riferito della relazione integrativa prodotta da lei prodotta, senza peraltro esplicitare le ragioni per la quale la relazione medesima non era considerata idonea ai fini dell’accertamento di conformità.
La Sezione, a sua volta, rileva che la ricorrente ha potuto compiutamente svolgere le proprie prerogative di parte del procedimento, a’ sensi dell’art. 7 e ss. della L. 241 del 1990, sia nei riguardi dell’Ente Parco, sia nei confronti della Soprintendenza.
Per quanto attiene invece al Comune, va rimarcato che a’ sensi dell’art. 167, comma 5, del D.L.vo 42 del 2004 il parere reso al riguardo dalla Soprintendenza è testualmente definito come “vincolante”: circostanza, questa, che rende atto del tutto vincolato il provvedimento di accertamento negativo della conformità paesaggistica emesso dal Comune.
E, a tale riguardo, va ricordato che la violazione dell’obbligo di preventiva comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda, imposto dall’art. 10-bis della L. 241 del 1990 è di per sé inidonea a giustificare l’annullamento di un atto vincolato, non essendo consentito a’ sensi del successivo art. 21-octies l’annullamento dei provvedimenti amministrativi il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (così, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 16.02.2012 n. 823).
Né, da ultimo, può essere fondatamente dedotto il difetto di motivazione del provvedimento comunale di accertamento negativo della conformità paesaggistica con riguardo alla mancata confutazione in esso degli argomenti addotti in contrario dalla richiedente l’accertamento medesimo: proprio la natura vincolata del provvedimento medesimo ragionevolmente esonera di per sé, infatti, l’amministrazione comunale da una motivazione diffusa al riguardo, essendo del tutto sufficiente in proposito il rinvio ob relationem ai pareri acquisiti nell’istruttoria, e in particolare a quello vincolante reso dalla Soprintendenza per i beni paesaggistici
(Consiglio di Stato, Sez. II, parere 11.09.2014 n. 2908 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer la pacifica giurisprudenza, anche costituzionale, la disciplina unitaria di tutela del bene ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato, viene a prevalere su quella dettata dalle Regioni e dalle Province autonome, in materia di competenza propria, che riguardano l’utilizzazione dell’ambiente e, quindi, altri interessi.
Le disposizioni del Codice del paesaggio, approvato con il d.lgs. n. 42 del 2004, ha previsto l’indubbia prevalenza del Piano paesaggistico sugli altri strumenti di regolazione del territorio, avendo il medesimo Piano la funzione conservativa degli ambiti reputati meritevoli di tutela, che non può essere subordinata a scelte di tipo urbanistico, per loro natura orientate allo sviluppo edilizio e infrastrutturale.
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Quanto al rilievo dei volumi seminterrati o interrati (che ad avviso delle originarie ricorrenti e del TAR non rilevebbero ai fini paesaggistici), la Sezione richiama e ribadisce in questa sede la propria consolidata giurisprudenza, per la quale –come si desume dall’articolo 167, comma 4, del medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica quando l’abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza paesaggistica per le opere da realizzare.
Pertanto, per tali volumi (e per le relative superfici) si applicano i divieti di realizzare nuove opere (divieti disposti per l’area in questione dal Piano paesaggistico) ovvero, in loro assenza, l’autorità statale competente può valutare se la modifica dello stato dei luoghi abbia una negativa incidenza dei valori paesaggistici coinvolti.

... per la riforma della sentenza breve del TAR CAMPANIA–NAPOLI, Sezione VII, n. 4788/2012, resa tra le parti, concernente un parere negativo in merito all'autorizzazione paesaggistica relativa alla realizzazione di un garage pertinenziale interrato;
...  
L’appello è infondato e va respinto.
Per la pacifica giurisprudenza, anche costituzionale, la disciplina unitaria di tutela del bene ambiente, rimessa in via esclusiva allo Stato, viene a prevalere su quella dettata dalle Regioni e dalle Province autonome, in materia di competenza propria, che riguardano l’utilizzazione dell’ambiente e, quindi, altri interessi (Corte Cost., 18.04.2008, n. 108; Cons. Stato, VI, 19.01.2011, n. 371; IV, 05.07.2010, n. 4244; VI, 10.09.2009, n. 5459).
Le disposizioni del Codice del paesaggio, approvato con il d.lgs. n. 42 del 2004, ha previsto l’indubbia prevalenza del Piano paesaggistico sugli altri strumenti di regolazione del territorio, avendo il medesimo Piano la funzione conservativa degli ambiti reputati meritevoli di tutela, che non può essere subordinata a scelte di tipo urbanistico, per loro natura orientate allo sviluppo edilizio e infrastrutturale.
Correttamente, pertanto, la competente Soprintendenza ha fondato le proprie negative determinazioni sulla violazione del Piano paesaggistico che prevede, nella zona A1 della Penisola Sorrentina, ove ricade l’immobile di cui è causa, solo gli interventi di restauro, manutenzione e consolidamento.
Le previsioni del medesimo Piano paesaggistico non risultano in alcun modo incise dalle leggi della Regione Campania 05.01.2011, n. 1 e 27.01.2012, n. 1, le quali hanno riguardato la materia urbanistica nei suoi rapporti con la connessa materia edilizia.
Quanto al rilievo dei volumi seminterrati o interrati (che ad avviso delle originarie ricorrenti e del TAR non rilevebbero ai fini paesaggistici), la Sezione richiama e ribadisce in questa sede la propria consolidata giurisprudenza, per la quale –come si desume dall’articolo 167, comma 4, del medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica quando l’abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza paesaggistica per le opere da realizzare.
Pertanto, per tali volumi (e per le relative superfici) si applicano i divieti di realizzare nuove opere (divieti disposti per l’area in questione dal Piano paesaggistico) ovvero, in loro assenza, l’autorità statale competente può valutare se la modifica dello stato dei luoghi abbia una negativa incidenza dei valori paesaggistici coinvolti (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.09.2013 n. 4503 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per consolidati principi, il divieto di incremento dei volume edilizi imposto ai fini della tutela del paesaggio preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra “volume tecnico” ed altro tipo di volume.
Ai sensi dell’art. 146, comma 4, D.Lgs. n. 42 del 2004, l'autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere, al di fuori dai casi tassativamente previsti dall'art. 167, commi 4 e 5.
Con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l'esame di compatibilità paesaggistica possa essere postergato all'intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato), così tutelando più rigorosamente i beni sottoposti al vincolo paesaggistico, ad eccezione delle opere tassativamente indicate nello stesso art. 167 del D.Lgs. n. 42 del 2004 riguardanti lavori che, pur se realizzati in assenza o difformità dell'autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
---------------
Non può condividersi l'approccio interpretativo dell'appellante, che mira a neutralizzare il profilo dell'aumento volumetrico determinato dai vani ospitanti impianti tecnici, richiamando la normativa sui cosiddetti volumi tecnici.
Nella prospettiva della tutela del paesaggio, in cui assume preminenza l’impatto visivo ed estetico dell’insieme architettonico dei volumi, alla nozione di “volume tecnico”, come volume destinato ad ospitare un impianto o parte di esso che, per ragioni di funzionalità, di igiene o di sicurezza non potrebbe essere allocato nella volumetria assentita o comunque assentibile, non può essere riconosciuto il medesimo rilievo assegnato sul piano del carico urbanistico.
Pertanto, la natura del volume edilizio realizzato (sia o meno qualificabile come volume tecnico) non rileva sul giudizio di compatibilità paesaggistica ex post delle opere, in cui la nuova volumetria, quale che sia la sua natura, impone una valutazione di compatibilità con i valori paesaggistici dell'area (che deve compiersi da parte della autorità preposta alla tutela del vincolo, ovvero dalla competente Soprintendenza in sede di redazione di un suo parere) ex ante, essendo precluse autorizzazioni postume di opere che abbiano comportato nuovi volumi ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. n. 42 del 2004.

Con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, il ricorrente in oggetto ha chiesto l’annullamento, previa sospensione, del parere della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per la Provincia di Lecce, Brindisi e Taranto in data 13.10.2008, con cui la sua richiesta di autorizzazione in sanatoria alla realizzazione di volumi tecnici su fabbricato di sua proprietà, eretti in assenza di titolo abilitativo, è stata giudicata non rientrante nei casi di sanatoria postuma previsti dall’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004.
...
Il motivo è infondato.
Per consolidati principi (Cons. St. Sez. VI, 20.06.2012, n. 3578, Sez. IV, 28.03.2011, n. 1879; 04.05.2010, n. 2565), il divieto di incremento dei volume edilizi imposto ai fini della tutela del paesaggio preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra “volume tecnico” ed altro tipo di volume.
Ai sensi dell’art. 146, comma 4, D.Lgs. n. 42 del 2004, l'autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere, al di fuori dai casi tassativamente previsti dall'art. 167, commi 4 e 5.
Con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l'esame di compatibilità paesaggistica possa essere postergato all'intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato), così tutelando più rigorosamente i beni sottoposti al vincolo paesaggistico, ad eccezione delle opere tassativamente indicate nello stesso art. 167 del D.Lgs. n. 42 del 2004 riguardanti lavori che, pur se realizzati in assenza o difformità dell'autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Tuttavia, nel caso in esame, correttamente la Soprintendenza ha escluso la ricorrenza della fattispecie derogatoria appena richiamata, atteso che i vani realizzati sul terrazzo di copertura (tre vani, per una superficie complessiva di 30 mq. ed un’altezza di cm. 250) hanno comportato un aumento delle volumetrie dell'edificio e, per di più, un'opera rilevante sul piano della sua percezione visiva nel contesto paesaggistico di riferimento.
A tal proposito, non può condividersi l'approccio interpretativo dell'appellante, che mira a neutralizzare il profilo dell'aumento volumetrico determinato dai vani ospitanti impianti tecnici, richiamando la normativa sui cosiddetti volumi tecnici.
Nella prospettiva della tutela del paesaggio, in cui assume preminenza l’impatto visivo ed estetico dell’insieme architettonico dei volumi, alla nozione di “volume tecnico”, come volume destinato ad ospitare un impianto o parte di esso che, per ragioni di funzionalità, di igiene o di sicurezza non potrebbe essere allocato nella volumetria assentita o comunque assentibile, non può essere riconosciuto il medesimo rilievo assegnato sul piano del carico urbanistico.
Pertanto, la natura del volume edilizio realizzato (sia o meno qualificabile come volume tecnico) non rileva sul giudizio di compatibilità paesaggistica ex post delle opere, in cui la nuova volumetria, quale che sia la sua natura, impone una valutazione di compatibilità con i valori paesaggistici dell'area (che deve compiersi da parte della autorità preposta alla tutela del vincolo, ovvero dalla competente Soprintendenza in sede di redazione di un suo parere) ex ante, essendo precluse autorizzazioni postume di opere che abbiano comportato nuovi volumi ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. n. 42 del 2004 (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 06.09.2012 n. 3807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non può nascondersi che la realizzazione di un parcheggio benché interrato (che occupa una superficie di circa 2.120 mq. e prevede quattro livelli interrati), determina una rilevante alterazione dello stato dei luoghi anche a voler considerare tutte le opere di mitigazione dell’impatto ambientale che comunque sono state studiate e che potrebbero essere realizzate.
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Circa il divieto di realizzazione di nuovi volumi si deve ricordare che, come già affermato da questo TAR, occorre distinguere il concetto di volume rilevante ai fini edilizi dal concetto di volume rilevante ai fini paesaggistici.
Mentre ai fini edilizi un volume per le sue caratteristiche può anche non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili (ad esempio perché ritenuto volume tecnico), viceversa ai fini paesaggistici un volume può assumere comunque una sua rilevanza e determinare una possibile alterazione dello stato dei luoghi che le norme di tutela vogliono impedire.
Pertanto le norme di tutela, al fine di salvaguardare la sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali, possono anche vietare la realizzazione di qualsiasi volume edilizio (anche interrato) e quindi anche di quei volumi che non sono considerati normalmente rilevanti secondo le norme che regolano l’attività edilizia.
Ne consegue, per restare al caso in esame, che anche la realizzazione di volumi sotterranei, della rampa di accesso e del suo conseguente muro di contenimento laterale, la posa in opera di rilevanti superfici e delle griglie di areazione dei sottostanti locali possono essere considerate rilevanti ai fini paesaggistici e come tali si pongono in contrasto con quelle disposizioni volte ad impedire l’alterazione dello stato dei luoghi attraverso la realizzazione di nuove strutture.
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Anche il Consiglio di Stato sul punto ha precisato che il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume, ed è stato ritenuto che costituisce opera valutabile come aumento di volume anche la realizzazione di un garage interrato con accesso all’esterno tramite rampa in zona sottoposta a vincolo paesaggistico in quanto <<ogni tipo di volume determina una alterazione dello stato dei luoghi: proprio quello che nel caso di specie le norme di tutela vogliono impedire>>.

... per l'annullamento, previa sospensione dell'efficacia, quanto al ricorso n. 1377 del 2008:
- del provvedimento, in data 27.12.2007, con il quale il Soprintendente per i Beni Architettonici e per il Paesaggio e per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico di Napoli e Provincia ha annullato il provvedimento n. 481 del 30.10.2007 con il quale il Comune di Napoli aveva rilasciato l’autorizzazione paesaggistica alla realizzazione di un parcheggio pertinenziale interrato in via Discesa Marechiaro – Via Salvator Giacomo nel Comune di Napoli.
...
9.- Né è possibile sostenere, come fa il ricorrente, che tali opere non determinano l’alterazione dell’area in questione o la realizzazione di nuovi volumi.
Quanto all’alterazione dell’area non può nascondersi che la realizzazione di un parcheggio benché interrato (che occupa una superficie di circa 2.120 mq. e prevede quattro livelli interrati), determina una rilevante alterazione dello stato dei luoghi anche a voler considerare tutte le opere di mitigazione dell’impatto ambientale che comunque sono state studiate e che potrebbero essere realizzate.
Il punto è che, secondo le norme del piano paesistico, le aree vegetazionali naturali ricadenti nella zona di Protezione Integrale non possono in alcun modo essere urbanizzate tanto che è vietato finanche l’espianto della vegetazione arbustiva (fatti salvi i limitati casi che si sono su indicati), la costruzione di strade rotabili e di qualsiasi tipo ed addirittura la realizzazione di strade tagliafuoco (art. 11 del P.T.P.).
10.- Per quanto riguarda poi il divieto di realizzazione di nuovi volumi si deve ricordare che, come già affermato da questo TAR nella citata sentenza n. 494 del 27.01.2004, occorre distinguere il concetto di volume rilevante ai fini edilizi dal concetto di volume rilevante ai fini paesaggistici. Mentre ai fini edilizi un volume per le sue caratteristiche può anche non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili (ad esempio perché ritenuto volume tecnico), viceversa ai fini paesaggistici un volume può assumere comunque una sua rilevanza e determinare una possibile alterazione dello stato dei luoghi che le norme di tutela vogliono impedire.
Pertanto le norme di tutela, al fine di salvaguardare la sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali, possono anche vietare la realizzazione di qualsiasi volume edilizio (anche interrato) e quindi anche di quei volumi che non sono considerati normalmente rilevanti secondo le norme che regolano l’attività edilizia.
Ne consegue, per restare al caso in esame, che anche la realizzazione di volumi sotterranei, della rampa di accesso e del suo conseguente muro di contenimento laterale, la posa in opera di rilevanti superfici e delle griglie di areazione dei sottostanti locali possono essere considerate rilevanti ai fini paesaggistici e come tali si pongono in contrasto con quelle disposizioni volte ad impedire l’alterazione dello stato dei luoghi attraverso la realizzazione di nuove strutture.
11.- Anche il Consiglio di Stato sul punto ha precisato che il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume (Consiglio di. Stato, Sezione IV, n. 102 del 1997), ed è stato ritenuto che costituisce opera valutabile come aumento di volume anche la realizzazione di un garage interrato con accesso all’esterno tramite rampa in zona sottoposta a vincolo paesaggistico in quanto <<ogni tipo di volume determina una alterazione dello stato dei luoghi: proprio quello che nel caso di specie le norme di tutela vogliono impedire>> (Consiglio di Stato sentenza n. 2388 dell’11.05.2005 citata).
A ciò si deve aggiungere che le rigorosissime norme di tutela che si sono richiamate (art. 11, commi 4 e 5, del P.T.P.) non consentono nel territorio di Posillipo nemmeno l’ampliamento delle grotte e delle cavità esistenti e quindi, si deve ritenere, anche la creazione di nuovi volumi sotterranei (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 17.02.2009 n. 832 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon è possibile sostenere, come fa la ricorrente, che tali opere determinano solo volumi tecnici, che non si pongono quindi in contrasto con il PTP.
Il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude infatti qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume (cfr., Cons. Stato, IV, n. 102/1997, in cui proprio in una fattispecie simile alla presente è stato ritenuto che costituisce opera valutabile anche come aumento di volume la realizzazione di un garage interrato con accesso all’esterno tramite rampa in zona sottoposta a vincolo paesaggistico).
Ogni tipo di volume determina una alterazione dello stato dei luoghi; proprio quello che nel caso di specie le norme di tutela vogliono impedire.
Pertanto, la realizzazione di un ascensore, con relativo torrino, e la copertura con una struttura di un vano scale devono essere considerati nuovi volumi ai fini paesaggistici e come tali si pongono in contrasto con quelle disposizioni del PTP volte ad impedire la realizzazione di nuove strutture stabili che comunque risultano rilevanti ai fini paesaggistici.

Con ulteriore censura la ricorrente sostiene che erroneamente la Soprintendenza ha rilevato il contrasto con il PTP in quanto né le coperture dei corpi scala del parcheggio, né l’ascensore a vista configurano la creazione di nuovi volumi ovvero l’incremento di quelli esistenti. Anzi la realizzazione dell’ascensore deve, in particolare, ritenersi consentita dall’art. 9, lettera e) del P.T.P. costituendo un intervento volto al superamento delle barriere architettoniche.
Anche tale motivo è privo di fondamento.
Il progetto presentato dalla ricorrente prevede la realizzazione di un parcheggio interrato per un totale di n. 80 posti auto, con struttura in cemento armato su tre livelli ed accesso da rampa carrabile, la realizzazione di due scale e di due ascensori, con relativi torrini di sbarco, e la sistemazione del soprasuolo con la piantumazione di essenze arboree e la realizzazione di aiuole, percorsi pedonali ed aree pavimentate.
Secondo la Soprintendenza, le coperture dei gruppi scale sostenute da pilastrini e l’ascensore a vista non sono compatibili con la normativa del P.T.P. dell’area di Posillipo in quanto si configurano come volumi, non consentiti dal piano.
In effetti, il P.T.P. dell’area di Posillipo, approvato con D.M. 14.12.1995 (in G.U. n. 47 del 26.02.1996), sottopone a disposizioni di tutela particolarmente rigorose una delle aree di maggiore rilevanza, sotto il profilo naturalistico, ambientale e paesistico della città di Napoli.
Secondo le disposizioni contenute nel P.T.P., anche nelle aree R.U.A., di Recupero urbanistico edilizio e di Restauro paesistico-ambientale, in cui è collocata l’area in questione, sono consentiti, oltre agli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e risanamento conservativo, di bonifica e ripristino ambientale del sistema vegetale, previsti in generale dall’art. 9, solo interventi volti alla conservazione del verde agricolo residuale, per la ricostituzione del verde, per la riqualificazione di strade, piazze e marciapiedi nonché interventi di ristrutturazione edilizia che non comportino incrementi dei volumi edilizi esistenti e nei limiti dettati dal precedente art. 7 (art. 12).
In tale zona risulta comunque vietato <<qualsiasi intervento che comporti incremento dei volumi esistenti… gli attraversamenti di elettrodotti o di altre infrastrutture aeree… la coltivazione delle cave…l’ampliamento delle grotte e delle cavità esistenti>> (art. 12, comma 3).
Come rilevato dal Tar, l’indicata normativa, nell’ammettere alcuni limitatissimi interventi nella zona in questione, non consente invece, in modo rigoroso, la possibile realizzazione di nuovi volumi o, comunque, di nuove opere edilizie, tra cui rientrano quelle opere (copertura delle scale esterne, realizzazione di ascensori esterni a vista) che si configurano come volumi rilevanti ai fini paesaggistici.
Né è possibile sostenere, come fa la ricorrente, che tali opere determinano solo volumi tecnici, che non si pongono quindi in contrasto con il PTP.
Il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude infatti qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume (cfr., Cons. Stato, IV, n. 102/1997, in cui proprio in una fattispecie simile alla presente è stato ritenuto che costituisce opera valutabile anche come aumento di volume la realizzazione di un garage interrato con accesso all’esterno tramite rampa in zona sottoposta a vincolo paesaggistico).
Ogni tipo di volume determina una alterazione dello stato dei luoghi; proprio quello che nel caso di specie le norme di tutela vogliono impedire.
Pertanto, la realizzazione di un ascensore, con relativo torrino, e la copertura con una struttura di un vano scale devono essere considerati nuovi volumi ai fini paesaggistici e come tali si pongono in contrasto con quelle disposizioni del PTP volte ad impedire la realizzazione di nuove strutture stabili che comunque risultano rilevanti ai fini paesaggistici.
Il divieto di creazione di nuovi volumi non può ritenersi non operante nel caso in esame in virtù dell’articolo 9, lett. e), del P.T.P. che consentirebbe la realizzazione dell’ascensore in quanto intervento volto al superamento delle barriere architettoniche, considerato che la norma prevede la possibile realizzazione di interventi di adeguamento alle norme di sicurezza e per il superamento delle barriere architettoniche esclusivamente <<per gli edifici a destinazione pubblica e turistico-ricettiva esistenti>> e, quindi certamente non può ritenersi applicabile per un caso, come quello in esame, riguardante la realizzazione di una nuova struttura (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 11.05.2005 n. 2388 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Ma anche di segno opposto:

EDILIZIA PRIVATANon determina incremento volumetrico rilevante ai fini paesaggistici l’intervento che non abbia comportato l’alterazione dei parametri esteriori che caratterizzano l’edificio. La preclusione di cui agli artt. 146 e 167 presuppone, perciò, l’accertata esorbitanza del volume aggiuntivo rispetto alla sagoma autorizzata.
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Secondo la previsione normativa, così come interpretata dalla circolare ministeriale 33/2009, per il termine “volumi” utilizzato dall’art. 167, co. 4 lett. a), “si intende qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente”.
E’ da ritenere che la definizione si riferisca tanto all’ipotesi di creazione di nuovi volumi quanto all’incremento di quelli autorizzati e che perciò in entrambi i casi il tratto caratterizzante sia dato dal carattere “emergente” dell’opera, vale a dire dalla sua percepibilità dall’esterno. L’interpretazione ministeriale porta cioè a ritenere non automaticamente preclusivi gli incrementi volumetrici contenuti nell’ambito della sagoma del fabbricato autorizzato.
Come infatti la stessa circolare presuppone (“è infatti necessario evitare che, in assenza di specifiche indicazioni, i Comuni facciano riferimento ai parametri urbanistici dei propri regolamenti edilizi”), un volume rilevante ai fini paesaggistici non necessariamente lo è a fini edilizi, e viceversa (cfr. TAR Lombardia-Brescia, n. 14/2015: "Il concetto di utilità del volume può divergere nelle valutazioni urbanistiche e in quelle paesistiche. Ai fini urbanistici è utile il volume (o la superficie) che consuma gli indici edificatori. … Ai fini paesistici è invece rilevante la percepibilità dell’opera come volume collocato in uno scenario”).
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Le opere interne, non producendo impatti sul paesaggio, devono ritenersi escluse dalle sanzioni ripristinatorie di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42 del 2004, norma posta ad esclusiva tutela dei valori paesaggistici.
La stessa previsione dell’art. 146 TUBC (“1. I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge (...) non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione”) implica la possibilità di modificazioni che non recano pregiudizio all’oggetto della protezione.
Analogamente, l’art. 149 [“non è comunque richiesta l’autorizzazione …: a) per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”] introduce un diverso regime di interventi di analogo rilievo urbanistico in base alle diverse ripercussioni sull’aspetto esteriore.

... per l'annullamento del provvedimento prot. n. 139948 del 19.10.2012 con il quale il Comune di Pescara ha negato l'autorizzazione paesaggistica richiesta dalla società ricorrente; della relazione tecnica illustrativa del 24.03.2012 redatta dal tecnico istruttore del Comune di Pescara; di tutti gli atti prodromici, presupposti e connessi in particolare del provvedimento n. 15061 del 24.09.2012 con cui la Soprintendenza per i Beni Archietettonici e Paesaggistici d'Abruzzo ha reso il parere sul rilascio di detta Autorizzazione.
...
Il Collegio ritiene fondato l’assorbente primo motivo, con cui la ricorrente deduce che il diniego è espressione di un vizio motivazionale ed istruttorio, non essendo stato considerato che le modifiche apportate erano “contenute nella già vagliata ed autorizzata sagoma di ingombro del fabbricato”.
La relazione comunale evidenzia che il diniego ha inteso adeguarsi alla previsione normativa così come interpretata dalla circolare ministeriale 33/2009, secondo cui per il termine “volumi” utilizzato dall’art. 167, co. 4 lett. a), “si intende qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente”.
E’ da ritenere che la definizione si riferisca tanto all’ipotesi di creazione di nuovi volumi quanto all’incremento di quelli autorizzati e che perciò in entrambi i casi il tratto caratterizzante sia dato dal carattere “emergente” dell’opera, vale a dire dalla sua percepibilità dall’esterno. L’interpretazione ministeriale porta cioè a ritenere non automaticamente preclusivi gli incrementi volumetrici contenuti nell’ambito della sagoma del fabbricato autorizzato.
Come infatti la stessa circolare presuppone (“è infatti necessario evitare che, in assenza di specifiche indicazioni, i Comuni facciano riferimento ai parametri urbanistici dei propri regolamenti edilizi”), un volume rilevante ai fini paesaggistici non necessariamente lo è a fini edilizi, e viceversa (cfr. TAR Lombardia-Brescia, sez. I, 08.01.2015 n. 14: "Il concetto di utilità del volume può divergere nelle valutazioni urbanistiche e in quelle paesistiche. Ai fini urbanistici è utile il volume (o la superficie) che consuma gli indici edificatori. … Ai fini paesistici è invece rilevante la percepibilità dell’opera come volume collocato in uno scenario”).
La tendenziale irrilevanza delle opere non incidenti sugli aspetti esteriori che hanno giustificato il vincolo può trovare conferma nell’affermazione secondo cui le opere interne, non producendo impatti sul paesaggio, devono ritenersi escluse dalle sanzioni ripristinatorie di cui all’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42 del 2004, norma posta ad esclusiva tutela dei valori paesaggistici (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 26.05.2014 n. 1351).
La stessa previsione dell’art. 146 TUBC (“1. I proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge (...) non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione”) implica la possibilità di modificazioni che non recano pregiudizio all’oggetto della protezione. Analogamente, l’art. 149 [“non è comunque richiesta l’autorizzazione …: a) per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”] introduce un diverso regime di interventi di analogo rilievo urbanistico in base alle diverse ripercussioni sull’aspetto esteriore.
Il Collegio ritiene di trarne la conclusione che non determina incremento volumetrico rilevante ai fini paesaggistici l’intervento che non abbia comportato l’alterazione dei parametri esteriori che caratterizzano l’edificio. La preclusione di cui agli artt. 146 e 167 presuppone, perciò, l’accertata esorbitanza del volume aggiuntivo rispetto alla sagoma autorizzata.
La questione non risulta essere stata considerata nel corso del procedimento, il che manifesta il difetto di motivazione censurato dalla ricorrente (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 12.02.2015 n. 72 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Le novità sui bonus casa e arredi (articolo ItaliaOggi Sette del 16.03.2015).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: G.U. 14.03.2015 n. 61 "Disposizioni relative all’esercizio degli ascensori in servizio pubblico destinati al trasporto di persone" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 09.03.2015).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: R. D'Isa, Il contratto d'appalto (09.03.2015 - tratto da http://renatodisa.com).

ESPROPRIAZIONE: I. Pagano, Sussiste l’obbligo dell’Ente intimato di provvedere sulla istanza del proprietario di adozione di un provvedimento di acquisizione sanante delle aree oggetto di occupazione ovvero di restituzione delle stesse (03.03.2015 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: I. Pagano, In caso di vecchio abuso edilizio, realizzato da soggetto diverso dal proprietario attuale, il privato è titolare di una situazione di affidamento, tutelata attraverso l’obbligo dell’Ente locale di motivare in ordine alla esistenza di un interesse pubblico (02.03.2015 - link a www.diritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Concas, Il significato della locuzione latina “ne bis in idem (02.03.2015 - link a www.diritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. G. Fasulo, Controinteressati Legge 241/1990 - Limiti alla privacy e prevalenza del pubblico intesse nell’ambito delle procedure concorsuali - Diniego arbitrario della P.A. (02.03.2015 - link a www.diritto.it).

APPALTI: G. Patti, Il controllo dei requisiti di ordine morale negli appalti pubblici deve essere effettuato anche nei confronti del direttore tecnico non direttamente implicato nell’esecuzione dell’appalto? (Cons. Stato, Sez. V, Sent. 12/01/2015 n. 35) (12.02.2015 - link a www.diritto.it).

ESPROPRIAZIONE: D. Di Meo, L’espropriazione per pubblica utilità: dall’occupazione usurpativa all’acquisizione sanante - Nota a Consiglio di Stato –Sez. IV– sentenza 03.09.2014 n. 4490 (12.02.2015 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: G. Romano, Abuso edilizio tra D.I.A. e doverosità della tutela demolitoria (10.02.2015 - tratto da www.diritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: F. Guida, Il requisito della pregressa esperienza nella p.a. per l’accesso alla qualifica dirigenziale (nota a sentenza Tar Lazio n. 13121/2014) (09.02.2015 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La trascrizione dell’accordo conciliativo accertativo dell’usucapione (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 31.01.2014 n. 718-2013/C).
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Sommario: 1. Le novità del decreto del fare in tema di accordi di mediazione accertativi dell’usucapione; 2. Gli orientamenti della giurisprudenza che hanno preceduto la nuova disposizione; 3. La qualificazione giuridica dell’atto di accertamento. Presupposti dell’atto di accertamento; 4. Rapporti tra usucapente ed usucapiti. L’usucapione come titolo di acquisto originario; 5. L’accordo conciliativo accertativo dell’usucapione come negozio con causa transattiva in senso lato; 6. Conclusioni.

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Determinazione ANAC n. 1/2015 sul nuovo soccorso istruttorio: la sanzione si paga solo in caso di regolarizzazione (ANCE di Bergamo, circolare 13.03.2015 n. 67).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Durc per i lavori privati – Ministero del Lavoro n. 3899/2015 (ANCE di Bergamo, circolare 13.03.2015 n. 62).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Mutamento d'uso urbanisticamente rilevante, a seguito dell'introduzione dell'art. 23-ter del testo unico dell'edilizia, con particolare riguardo alle attività commerciali (Regione Emilia Romagna, nota 11.03.2015 n. 151451 di prot.).

APPALTI: OGGETTO: Decreto 03.04.2013, n. 55, in tema di fatturazione elettronica - Circolare interpretativa (MEF e Dipartimento Funzione Pubblica, circolare 09.03.2015 n. 1).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Consulenza giuridica - Centro di assistenza fiscale per gli artigiani e le piccole imprese – Fornitura di beni significativi nell’ambito degli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria su immobili a prevalente destinazione abitativa – Art. 7, comma 1, lett. b), della Legge 23.12.1999, n. 488 (Agenzia delle Entrate, risoluzione 06.03.2015 n. 25/E).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 – art. 5, comma 2, L. n. 68/1999 – personale con tasso di rischio INAIL pari o superiore al 60 per mille (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 06.03.2015 n. 4/2015).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: durata del DURC in relazione ai lavori edili per soggetti privati (Ministero del Lavoro ed elle Politiche Sociali, nota 05.03.2015 n. 3899 di prot.).

COMMERCIO - SUAP: Oggetto: Scadenza termini di avvio delle attività soggette a SCIA – Quesito (Ministero dello Sviluppo Economico, risoluzione 10.11.2014 n. 197841 di prot.).

COMMERCIO - SUAP: Oggetto: Richiesta di parere in ordine alla possibilità di esigere "diritti di istruttoria" in relazione ai procedimenti amministrativi di competenza del SUAP (Ministero dello Sviluppo Economico, nota 08.10.2014 n. 175214 di prot.).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSpaccatura sulle ricollocazioni. Sulle assunzioni in mobilità divisi Corte conti e governo. PROVINCE/ La funzione pubblica dice no, i giudici contabili sono di avviso opposto.
Corte dei conti contro Funzione pubblica sull'attuazione della legge di stabilità ai fini della ricollocazione dei dipendenti provinciali in sovrannumero.
Il tema del contendere (che tocca da vicino una platea di 20 mila persone) è se, nel regime di blocco delle assunzioni imposto dall'articolo 1, commi 422-425, della legge 190/2014, siano possibili assunzioni in mobilità «neutra» tra amministrazioni.
Sul punto, la circolare interministeriale di Funzione pubblica e affari regionali 1/2015 è drastica: non è possibile.
Le amministrazioni, se vogliono assumere per mobilità, possono farlo nelle more dell'attivazione della piattaforma informativa prevista dalla legge, riservando gli avvisi ai dipendenti provinciali in via esclusiva.
La Corte dei conti, Sez. regionale di controllo per la Sicilia, col parere 27.02.2015 n. 119, e Sez. regionale di controllo per la Lombardia, col parere 24.02.2015 n. 85, è invece di avviso opposto.
Secondo il giudice contabile siciliano la procedura di mobilità volontaria «neutra», relativa agli enti sottoposti ai medesimi vincoli assunzionali è ancora possibile, perché la sua neutralità finanziaria non comporta il consumo delle risorse per assunzioni provenienti dal turnover, in assenza di una diversa ed espressa previsione normativa. La Sezione Lombardia addirittura «corregge» la circolare 1/2015, ritenendo che le procedure di mobilità riservata ai dipendenti sovrannumerari riguardi solo le mobilità non neutre, quali sarebbero quelle con provenienza dalle province.
La presenza di due contemporanee tesi opposte, ovviamente, spiazza gli enti e presta il fianco a rischi. La Corte dei conti, a differenza della Funzione pubblica, non pare aver preso in considerazione la circostanza decisiva che ogni assunzione effettuata dalle amministrazioni in violazione dei commi 424 e 425 è radicalmente nulla.
Il parere della Corte dei conti della Sicilia risponde affermativamente ad un quesito posto da un comune sulla possibilità di «assumere in deroga» dalle previsioni dell'articolo 424. À questo un punto debole che inficia irrimediabilmente la pronuncia. Il comma 424, come ricordato, sanziona con l'irrimediabile sanzione della nullità la violazione alle sue disposizioni; andare «in deroga» a tale comma, significa proprio violarlo. Attenersi al parere della Corte dei conti, dunque non mette gli enti affatto al riparo dalla conseguenza della nullità delle assunzioni.
La Sezione Lombardia ha affermato che i dipendenti provinciali in sovrannumero non potrebbero partecipare alle procedure di mobilità «neutra» loro non riservate, perché «nella provincia vi è una correlata riduzione di posti in organico e ciò esclude che tale mobilità possa essere considerata finanziariamente neutra». Ma, questa affermazione contrasta frontalmente con l'articolo 14, comma 7, del dl 95/2012. I dipendenti provinciali possono, invece, certamente aderire a procedure di mobilità «neutre», visto che le province sono soggette a restrizioni assunzionali molto forti. Se, allora a una mobilità neutra partecipa un dipendente provinciale in sovrannumero, sarebbe proprio al riparo da nullità l'assunzione di un altro partecipante alla procedura, dato che il regime speciale di blocco delle assunzioni imposto dalla legge 190/2014 ha lo scopo di assicurare la ricollocazione di tutto il personale provinciale in sovrannumero?
Il parere della Sezione Sicilia prende atto che «l'operatività della mobilità neutra, ancor prima che si avvii la procedura di ricollocazione del personale soprannumerario, potrebbe concretamente condizionare la successiva sistemazione del personale già in servizio presso gli enti provinciali impedendo l'inserimento dei predetti dipendenti presso gli enti territorialmente più prossimi agli enti disciolti». Se così è, allora, la soluzione corretta al contrasto interpretativo non può che essere quella proposta dalla Funzione pubblica (articolo ItaliaOggi del 06.03.2015).

PATRIMONIO - URBANISTICA: Sula realizzazione, e relativa cessione al Comune, di opere di urbanizzazione secondaria, realizzate a scomputo degli oneri derivanti dal permesso a costruire nell’attuazione di specifica convenzione con soggetti privati.
Se l’immobile, frutto dell’eventuale realizzazione a scomputo di opere di urbanizzazione, possa essere oggetto di concessione o cessione alle associazioni cittadine a titolo gratuito o in diritto di superficie.

Attualmente
non è più vigente la precedente norma preclusiva che, nel 2013, ha vietato l’acquisto di beni immobili, contenuta nel successivo comma 1-quater dell’indicato art. 12 del d.l. 98/2011, anch’essa introdotta dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012.

Pertanto, dal 2014, è stato introdotto un regime che, al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, consente operazioni di acquisto di beni immobili solo in caso di comprovata indispensabilità ed indilazionabilità, presupposti necessariamente oggetto di esplicitazione nella motivazione del provvedimento adottato dall’Amministrazione, non passibile di valutazione, da parte della Sezione regionale di controllo, in sede di esercizio della funzione consultiva.
Elemento discretivo per l’applicabilità della descritta disciplina limitativa è dato dalla presenza di un contratto in cui “l’effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del rapporto giuridico, determini comunque un esborso finanziario a carico del soggetto pubblico”.
La formulazione della norma disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, ai soli acquisti a titolo derivativo iure privatorum”.
La specifica questione posta dal comune trova risposta nella deliberazione della Sezione n. 220/2013/PAR, nella quale,
scrutinando l’eventuale soggezione dell’acquisizione al patrimonio comunale di opere di urbanizzazione a scomputo all’esposta disciplina limitativa, è stato precisato che la realizzazione di tali opere (sia primarie che secondarie) avviene a seguito di un contratto assimilato all’appalto di lavori pubblici (cfr. art. 32, comma 1, lett. g, e art. 122, comma 8, d.lgs. n. 163/2006). Tanto che al privato titolare del permesso di costruire è imposto di seguire le procedure di evidenza pubblica
(cfr. sentenza della Corte di Giustizia europea, 12.07.2001 C399/1998, "Scala 2001", poi recepita dal legislatore nazionale). Ne deriva che la riferita disciplina legislativa all’acquisto di beni immobili non appare conferente nei limiti in cui concerne un contratto di compravendita, e non di appalto.
E’ vero, infatti, che l’ente locale acquisisce al patrimonio un’opera pubblica, e quindi un bene immobile, ma l’art. 12 del d.l. n. 98/2011 vieta(va) l’acquisto di immobili a titolo oneroso, non la diversa ipotesi (in cui l’acquisto è mera conseguenza, differito nel tempo, dell’operazione) dell’appalto di lavori pubblici.
Anche la disciplina limitativa attualmente vigente (richiedente l’attestazione dell’indispensabilità e indilazionabilità dell’acquisto; la congruità del prezzo da parte dell’Agenzia del Demanio; la pubblicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito sul sito internet dell’ente)
appare riferita alla fattispecie civilistica della compravendita, non a quella dell’appalto.
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E' possibile richiamare i principi generali che devono presidiare eventuali attribuzioni patrimoniali a terzi, in particolare il conseguimento di finalità conformi alle missioni istituzionali di un ente locale
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Si è avuto modo di precisare che
se un’eventuale attribuzione (in termini finanziari o di concessione di diritti personali di godimento) è motivata dalla soddisfazione di esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dall’Ente, anche se apparentemente a fondo perduto, non equivale ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che percepisce il contributo.
Si è ricordato, sotto questo profilo, come l’art. 118 della Costituzione impone espressamente ai Comuni di favorire l’autonoma iniziativa di cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività d’interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
Naturalmente,
se un ente locale, al pari di ogni altro ente pubblico, ricorre a soggetti terzi per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale, deve adottare specifiche cautele, anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di buon andamento, parità di trattamento e non discriminazione, che devono caratterizzare l’attività amministrativa.
Sotto questo profilo, è necessario evidenziare i presupposti di fatto ed il percorso logico alla base dell’attribuzione di un contributo o altro beneficio a sostegno dell’attività svolta dal destinatario. Tale attribuzione, in ogni caso, deve risultare conforme al principio di congruità, mediante una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale.

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Il Sindaco del comune di Bottanuco, con nota del 13/11/2014, ha formulato una richiesta di parere avente ad oggetto l’eventuale ricorrenza del divieto di acquisto di immobili nel caso di convenzione urbanistica prevedente, a carico del privato, quale opera di urbanizzazione, la realizzazione di un’opera da destinare a uso pubblico.
Il Comune intende addivenire ad una convenzione urbanistica con un soggetto privato, ai sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, e dell’art. 46 della legge regionale 11.03.2005, n. 12. A scomputo degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, intende fare eseguire al soggetto attuatore opere di urbanizzazione secondaria, di importo inferiore alla soglia comunitaria, con le modalità previste dal combinato disposto degli artt. 32, comma 1, lett. g), e 122, comma 8, del d.lgs. n. 163/2006.
L’Amministrazione riferisce di aver individuato, quale opera di urbanizzazione a carico del privato, la realizzazione, su area di proprietà comunale, di una struttura da concedere ad associazioni locali a titolo gratuito a fronte di prestazioni rivolte a conseguire fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile della comunità locale (quali la manutenzione e gestione di un parco in cui si inserisce la struttura stessa).
L’immobile, in relazione alle sue caratteristiche morfologiche, sarebbe classificato quale opera di urbanizzazione secondaria, secondo la definizione dall’art. 4 della legge n. 847/1964, come integrato dall’art. 44 della legge n. 865/1971, dall’art. 17 della legge n. 67/1988, dall’art. 26 della legge n. 38/1990 e dall’art. 58 del d.lgs. n. 22/1997.
Il sindaco precisa che la questione ha notevole incidenza sul bilancio dell’ente e sulla sua corretta formazione, attenendo ai principi ed ai limiti anche temporali imposti per l'obiettivo del contenimento della spesa pubblica. Pone pertanto i seguenti quesiti:
1) con il primo, articolato in tre istanze, chiede lumi sulla portata dell’art. 1, comma 138, della legge 24.12.2012 n. 228, laddove prevede che, a decorrere dal 01.01.2014, gli enti territoriali possano effettuare operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l’indilazionabilità, attestate dal responsabile del procedimento. In particolare chiede se:
   a) devono ritenersi rientranti nella disciplina limitativa ora esposta, la realizzazione, e relativa cessione al Comune, di opere di urbanizzazione secondaria, a scomputo degli oneri urbanistici, realizzate nell’attuazione di specifica convenzione con i soggetti privati;
   b) qualora la realizzazione dell’opera in premessa fosse compatibile con i vigenti dettami normativi, se l’immobile possa essere oggetto di concessione o cessione alle associazioni cittadine a titolo gratuito o in diritto di superficie;
2) con il secondo quesito, chiede se il Comune possa affidare al privato la realizzazione, in nome e per conto dell’amministrazione, dei lavori di cui trattasi.
...
Con il primo quesito il comune chiede lumi sulla portata dell’art. 1, comma 138, della legge di stabilità n. 228/2012, nella parte in cui prevede che, a decorrere dal 01.01.2014, gli enti territoriali possano effettuare operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate l'indispensabilità e l’indilazionabilità, attestate dal responsabile del procedimento.
Il quesito involge la corretta interpretazione del disposto di cui all’art. 12 del d.l. n. 98/2011, convertito con legge n. 111/2011, come novellato dall'art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012. La disposizione in commento è stata varie volte scrutinata dalla Sezione, da ultimo nelle deliberazioni n. 299/2014/PAR e n. 97/2014/PAR, ove è stato appunto chiarito come, a decorrere dal 01.01.2014, gli enti locali possano effettuare operazioni di acquisto di beni immobili nei limiti e con le modalità previste dal comma 1-ter del citato art. 12 del d.l. n. 98/2011, introdotto dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012.
Attualmente, quindi, non è più vigente la precedente norma preclusiva che, nel 2013, ha vietato l’acquisto di beni immobili, contenuta nel successivo comma 1-quater dell’indicato art. 12 del d.l. 98/2011, anch’essa introdotta dall’art. 1, comma 138, della legge n. 228/2012.
Il comma 1-ter dell’art. 12 del d.l. 98/2011 dispone infatti che, “a decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l’indispensabilità e l’indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall’Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l’indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell’ente”.
Pertanto, dal 2014, è stato introdotto un regime che, al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, consente operazioni di acquisto di beni immobili solo in caso di comprovata indispensabilità ed indilazionabilità, presupposti necessariamente oggetto di esplicitazione nella motivazione del provvedimento adottato dall’Amministrazione, non passibile di valutazione, da parte della Sezione regionale di controllo, in sede di esercizio della funzione consultiva.
In particolare, il Sindaco chiede se devono ritenersi rientranti nella disciplina legislativa limitativa ora esposta, la realizzazione, e relativa cessione al Comune, di opere di urbanizzazione secondaria, realizzate a scomputo degli oneri derivanti dal permesso a costruire nell’attuazione di specifica convenzione con soggetti privati.
Con riferimento all’ambito oggettivo di applicazione della disposizione, la Sezione, con la deliberazione n. 164/2013/PAR, ha precisato, in linea generale, che
elemento discretivo per l’applicabilità della descritta disciplina limitativa è dato dalla presenza di un contratto in cui “l’effetto traslativo, conseguenza immediata e diretta del rapporto giuridico, determini comunque un esborso finanziario a carico del soggetto pubblico”.
In aderenza, la Sezione regionale per il Veneto, con deliberazione n. 148/2013/PAR, ha ritenuto che “
la formulazione della norma disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto, e quindi, ai soli acquisti a titolo derivativo iure privatorum” (in tal senso si è pronunciata, altresì, la Sezione regionale per la Puglia, con deliberazione n. 89/PAR/2013).
La specifica questione posta dal comune di Bottanuco trova risposta nella deliberazione della Sezione n. 220/2013/PAR, nella quale,
scrutinando l’eventuale soggezione dell’acquisizione al patrimonio comunale di opere di urbanizzazione a scomputo all’esposta disciplina limitativa, è stato precisato che la realizzazione di tali opere (sia primarie che secondarie) avviene a seguito di un contratto assimilato all’appalto di lavori pubblici (cfr. art. 32, comma 1, lett. g, e art. 122, comma 8, d.lgs. n. 163/2006). Tanto che al privato titolare del permesso di costruire è imposto di seguire le procedure di evidenza pubblica (cfr. sentenza della Corte di Giustizia europea, 12.07.2001 C399/1998, "Scala 2001", poi recepita dal legislatore nazionale). Ne deriva che la riferita disciplina legislativa all’acquisto di beni immobili non appare conferente nei limiti in cui concerne un contratto di compravendita, e non di appalto.
E’ vero, infatti, che l’ente locale acquisisce al patrimonio un’opera pubblica, e quindi un bene immobile, ma l’art. 12 del d.l. n. 98/2011 vieta(va) l’acquisto di immobili a titolo oneroso, non la diversa ipotesi (in cui l’acquisto è mera conseguenza, differito nel tempo, dell’operazione) dell’appalto di lavori pubblici.
Anche la disciplina limitativa attualmente vigente (richiedente l’attestazione dell’indispensabilità e indilazionabilità dell’acquisto; la congruità del prezzo da parte dell’Agenzia del Demanio; la pubblicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito sul sito internet dell’ente) appare riferita alla fattispecie civilistica della compravendita, non a quella dell’appalto.
Nell’ultima parte del quesito, il sindaco chiede se l’immobile, frutto dell’eventuale realizzazione a scomputo di opere di urbanizzazione, possa essere oggetto di concessione o cessione alle associazioni cittadine a titolo gratuito o in diritto di superficie.
Sul punto, come ricordato nella deliberazione n. 92/2014/PAR, la Sezione non può esprimere valutazioni preventive in merito ad una fattispecie concreta riguardante la disciplina dei rapporti, finanziari o patrimoniali, fra l’Ente ed altri soggetti, pubblici o privati. Tale verifica viene infatti effettuata nell’esercizio delle funzioni di controllo sulla gestione finanziaria, demandate dall’art. 148-bis del d.lgs. n. 267/2000 e dall’art. 1, commi 166 e 167, della legge n. 266/2005.
Tuttavia, come di recente affermato nella deliberazione n. 262/2014/PAR,
è possibile richiamare i principi generali che devono presidiare eventuali attribuzioni patrimoniali a terzi, in particolare il conseguimento di finalità conformi alle missioni istituzionali di un ente locale. Si rinvia, in generale, alle deliberazioni della Sezione n. 9/2006, n. 10/2006, n. 18/2006, n. 26/2007, n. 35/2007, n. 59/2007, n. 39/2008, n. 75/2008, n. 1138/2009, n. 1/2010, n. 981/2010, n. 530/2011, n. 262/2012, n. 218/2014/PAR.
In quelle occasioni si è avuto modo di precisare che
se un’eventuale attribuzione (in termini finanziari o di concessione di diritti personali di godimento) è motivata dalla soddisfazione di esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dall’Ente, anche se apparentemente a fondo perduto, non equivale ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che percepisce il contributo.
Si è ricordato, sotto questo profilo, come l’art. 118 della Costituzione impone espressamente ai Comuni di favorire l’autonoma iniziativa di cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività d’interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
Naturalmente,
se un ente locale, al pari di ogni altro ente pubblico, ricorre a soggetti terzi per raggiungere i propri fini e, conseguentemente, riconosce loro benefici di natura patrimoniale, deve adottare specifiche cautele, anche al fine di garantire l’applicazione dei principi di buon andamento, parità di trattamento e non discriminazione, che devono caratterizzare l’attività amministrativa.
Sotto questo profilo, è necessario evidenziare i presupposti di fatto ed il percorso logico alla base dell’attribuzione di un contributo o altro beneficio a sostegno dell’attività svolta dal destinatario. Tale attribuzione, in ogni caso, deve risultare conforme al principio di congruità, mediante una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale
(Corte dei conti, Sez. controllo Lombardia, parere 26.01.2015 n. 21).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Ipab e comuni senza conflitti. È la regione a vigilare e ad indirizzare l'attività degli istituti. Non c'è incompatibilità per il consigliere comunale chiamato a presiederne il cda.
Sussiste un causa di incompatibilità, ex artt. 60 e 63 del dlgs n. 267/2000, nei confronti di un consigliere comunale che, nel corso del mandato elettivo, è stato nominato consigliere e presidente del consiglio di amministrazione di una Ipab?

Nella fattispecie, l'Ipab, per la realizzazione dei propri scopi, utilizza i corrispettivi dei servizi erogati, le rendite derivanti dal proprio patrimonio, nonché donazioni e contributi provenienti da soggetti pubblici e privati, mentre il comune non dispone di alcuna partecipazione al capitale dei tale istituzione né eroga in via continuativa sovvenzioni facoltative, limitandosi ad integrare le rette di ricovero, come prescrive l'art. 6 della legge n. 328/2000, per i soggetti residenti per i quali si renda necessario il ricovero stabile presso strutture residenziali.
Nel caso in esame, potrebbero astrattamente venire in considerazione sia l'ipotesi ostativa di cui al richiamato art. 63, comma 1, n. 1) sia quella derivante dal combinato disposto degli artt. 60, comma 1, n. 11) e 63, comma 1, n. 7) del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
La prima delle disposizioni citate presuppone che il consigliere comunale sia l'amministratore o il dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di ente, istituto o azienda soggetti a vigilanza in cui vi sia almeno il venti per cento di partecipazione da parte del comune o che riceva dal comune medesimo, in via continuativa, una sovvenzione in tutto o in parte facoltativa, quando la parte facoltativa superi nell'anno il 10% del totale delle entrate dell'ente.
Posto che il comune non ha alcuna partecipazione nella Ipab, si tratta di verificare se si possa parlare di ente sovvenzionato nei termini indicati dalla norma. A tal fine, occorre che la sovvenzione erogata dal comune abbia i caratteri della facoltatività, nel senso che non deve trovare origine in un obbligo stabilito dalla legge, della continuità e di un'apprezzabile consistenza quantitativa, obiettivamente rapportata all'entità complessiva delle entrate annuali dell'ente sovvenzionato (cfr. Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 27.06.1986, n. 4260).
Se effettivamente la contribuzione da parte dell'amministrazione comunale consiste nella sola integrazione delle rette di ricovero, non è ravvisabile il requisito della facoltatività, nel senso sopra precisato, atteso che tale tipo di contribuzione è espressamente prevista dall'art. 6, comma 4, della legge 08.11.2000, n. 328, ai sensi del quale «per i soggetti per i quali si renda necessario il ricovero stabile presso strutture residenziali, il comune nel quale essi hanno la residenza prima del ricovero, previamente informato, assume gli obblighi connessi all'eventuale integrazione economica»; non sembra neppure configurabile il requisito della continuità, il quale postula una duratura e stabile partecipazione alle risorse finanziarie dell'ente sovvenzionato, tale da consentire a quest'ultimo di farvi ragionevole affidamento per il perseguimento dei propri scopi.
Sembra possibile, pertanto, escludere che la situazione prospettata possa integrare l'incompatibilità di cui al più volte citato art. 63, comma 1, n. 1). Parimenti deve dirsi con riferimento alla seconda delle cause ostative sopra considerate. Sotto tale profilo, deve essere verificato se l'Ipab in questione possa rientrare nel concetto di «istituto dipendente dal comune», al quale fa riferimento il menzionato art. 60, comma 1, n. 11).
Con orientamento ormai consolidato, la giurisprudenza ha individuato i tratti distintivi del rapporto di dipendenza di un ente rispetto ad un altro «nella esistenza di un potere di vera e propria ingerenza tale da incidere sul processo formativo della volontà dell'organismo dipendente e nella finalità di cura dell'interesse pubblico perseguito, che esiti nell'esercizio di poteri di informazione, di ispezione, di posizione di indirizzi gestionali, di preposizione e rimozione di tutti gli amministratori o di parte di essi».
«L'ente dipendente, in siffatta condizione, si configura come mero strumento della volontà direttiva dell'ente sovraordinato, titolare della funzione amministrativa affidata alla cura della struttura subordinata, nei cui riguardi si determina un vero e proprio obbligo di adempiere i compiti fissatile». In tal senso, vanno qualificati come dipendenti «pure gli enti che godono di autonomia amministrativa, patrimoniale e contabile ove siano comunque preposti a compiti inclusi in quelli istituzionali dell'ente territoriale e siano soggetti all'ingerenza e alle scelte di quest'ultimo con riguardo alla loro costituzione e persistenza in vita» (ex multis, Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 21.11.2013, n. 26123; Id., sentenza 16.01.2012, n. 438; Id., sentenza 11.12.2012, n. 25944; Id., sentenza 18.07.2008, n. 20055; Id., sentenza 18.10.2006, n. 22346; Corte di cassazione, sezione feriale, sentenza 28.09.1994, n. 7886).
Peraltro, il decreto legislativo 04.05.2001, n. 207 ha provveduto a riordinare il sistema delle Ipab, già disciplinate dalla legge 17.07.1890, n. 6972 (c.d. legge Crispi), abrogata dall'art. 30 della legge delega 08.11.2000, n. 328 e dall'art. 21 del predetto decreto legislativo. La nuova normativa ha sancito l'inserimento di tali istituzioni nel sistema integrato di interventi e servizi sociali e ne ha previsto il riordino attraverso la loro trasformazione in aziende pubbliche o in persone giuridiche di diritto privato ovvero attraverso la loro estinzione, demandando la puntuale attuazione del processo di riforma all'iniziativa legislativa delle singole regioni.
Non tutte le regioni hanno ancora approvato una legge organica di riordino delle Ipab mediante il percorso di aziendalizzazione previsto dalla legislazione nazionale. Pertanto, si sensi dell'art. 21 del menzionato decreto legislativo n. 207 del 2001, nel periodo transitorio previsto per il riordino delle istituzioni di che trattasi, continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti, nonché le relative leggi regionali.
Nel caso di specie, la regione di riferimento ha disciplinato la materia stabilendo che spettano alla regione stessa la programmazione, l'indirizzo, la vigilanza ed il coordinamento dei servizi sociali e socio-sanitari in conformità alle leggi di settore, e al dirigente del dipartimento competente il riconoscimento giuridico, la classificazione, il controllo e la vigilanza sugli organi, le modifiche statutarie, le fusioni, le trasformazioni nonché le estinzioni e la conseguente devoluzione del patrimonio delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza di cui alla legge 17.07.1890, n. 6972 e successive modificazioni ed integrazioni e che operino nell'ambito della regione.
Il legislatore regionale ha inoltre previsto che le Ipab provvedano alla revisione del proprio statuto, demandando agli enti locali interessati l'individuazione dell'organo competente alle nomine, nel rispetto comunque delle volontà del fondatore. La rimozione e la revoca degli amministratori rimangono di esclusiva competenza dell'autorità tutoria regionale che, nel rispetto comunque delle volontà del fondatore, vi può provvedere anche su proposta dell'organo competente alle nomine.
La norma regionale demanda, infine, alla medesima regione il controllo sugli organi delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza e prevede che la stessa possa procedere allo scioglimento del consiglio di amministrazione ed alla nomina di un commissario straordinario in caso di gravi violazioni di legge, di statuto o di regolamento ovvero in caso si rilevanti irregolarità nella gestione amministrativa e patrimoniale dell'ente, dettando specifiche norme in materia di contabilità, nonché di liquidazione ed estinzione delle Ipab.
Nel complesso, risulta evidente come il delineato regime giuridico sia tale da riservare all'amministrazione regionale penetranti poteri di ingerenza nella vita delle istituzioni in argomento. Pertanto, la nomina, da parte del comune, del consiglio di amministrazione della Ipab ed i connessi poteri di gestione, per quanto di indubbia incisività, non sono di per sé sufficienti a concretare un rapporto di dipendenza con l'ente e la conseguente ipotizzata condizione di incompatibilità.
Ciò anche per la considerazione che le situazioni previste dagli artt. 60 e 63 del decreto legislativo n. 267 del 2000, sostanziandosi in una limitazione al diritto di elettorato passivo, costituzionalmente garantito, sono di stretta interpretazione ed applicazione (ex multis, Corte costituzionale, sentenza 20.02.1997, n. 44; Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 22.12.2011, n. 28504; Id., sentenza 11.03.2005, n. 5449) (articolo ItaliaOggi del 13.03.2015).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Documenti su cd o dvd. Diritto d'accesso ampio per i consiglieri. Un'analisi della disciplina tra prassi, norme e giurisprudenza.
In che modo un consigliere comunale può esercitare il diritto di accesso?

Il «diritto di accesso» e il «diritto di informazione» dei consiglieri comunali nei confronti della p.a, trovano la loro disciplina specifica nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/00 il quale riconosce il «diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato».
Così come affermato anche dal Consiglio di stato con la recente sentenza n. 4525 del 05.09.2014 «... deve ricordarsi che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale (Cons. stato, sez. V, 17.09.2010, n. 6963; 09.10.2007, n. 5264), i consiglieri comunali hanno un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento delle loro funzioni, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale».
Il diritto di accesso loro riconosciuto ha, in realtà, una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini (ex articolo 10 del richiamato decreto legislativo n. 267/2000) ovvero a chiunque sia portatore di un «interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso» (ex art. 22 e ss. della legge 07.08.1990, n. 241); infatti, mentre in linea generale il diritto di accesso è finalizzato a permettere ai singoli soggetti di conoscere atti e documenti per la tutela delle proprie posizioni soggettive eventualmente lese, quello riconosciuto ai consiglieri comunali è strettamente funzionale all'esercizio delle loro funzioni, alla verifica e al controllo del comportamento degli organi istituzionali decisionali dell'ente locale (Cons. stato, sez. IV, 21.08.2006, n. 4855) ai fini della tutela degli interessi pubblici (piuttosto che di quelli privati e personali) e si configura come peculiare espressione del principio democratico dell'autonomia locale e della rappresentanza esponenziale della collettività (Cons. stato, sez. V, 08.09.1994, n. 976).
Gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali possono rinvenirsi nel fatto che lo stesso deve essere espletato in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali, attraverso modalità che ragionevolmente sono fissate nel regolamento dell'ente, ed inoltre non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero meramente emulative, fermo restando, tuttavia, che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso (C.d.S., sez. V n. 6993/2010).
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con parere D.I.C.A. n. 18368 P-2.4.5.2.4 del 05.10.2010, ha osservato che il diritto si esercita con l'unico limite di potere esaudire la richiesta (qualora essa sia di una certa gravosità) secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente e ciò in ragione del fatto che il consigliere comunale non può abusare del diritto all'informazione riconosciutogli dall'ordinamento, pregiudicando la corretta funzionalità amministrativa dell'ente civico con richieste non contenute entro i limiti della proporzionalità e della ragionevolezza.
Proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale, la citata Commissione ha riconosciuto la possibilità, per il consigliere comunale, di avere accesso diretto al sistema informatico interno (anche contabile) dell'ente attraverso l'uso della password di servizio (cfr. parere del 29/11/2009).
Pertanto, qualora si tratti di esibire documentazione complessa e voluminosa, è legittimo il rilascio di supporti informatici (cd o dvd) al consigliere, o la trasmissione mediante posta elettronica, in luogo delle copie cartacee. Tale modalità di riscontro, è in linea con la decisione del Consiglio di stato, sez. V (sent. n. 6742/2007) -che ha richiamato il parere del Ministero dell'interno in merito alla possibile riproduzione di planimetrie su cd rom, nel caso in cui il consigliere chieda l'estrazione di copie di atti la cui fotoriproduzione comporti costi elevati- ed è conforme alla vigente normativa in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione (decreto legislativo n. 82 del 07.03.2005) che, all'articolo 2, prevede che anche «le autonomie locali assicurano la disponibilità, la gestione, l'accesso, la trasmissione, la conservazione e la fruibilità dell'informazione in modalità digitale e si organizzano e agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell'informazione e della comunicazione» (articolo ItaliaOggi del 06.03.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi di co.co.co. a personale in quiescenza.
In materia di incarichi a personale collocato in quiescenza, come chiarito dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, la disciplina di cui all'art. 5, comma 9, del d.l. 95/2012, come modificato dall'art. 6 del d.l. 90/2014, pone puntuali norme di divieto, per le quali vale il criterio di stretta interpretazione ed è esclusa l'interpretazione estensiva o analogica. Lo stesso Ministro ha precisato che detta disciplina si aggiunge, senza modificarle, alle altre discipline vigenti che pongono simili divieti, richiamando, in particolare, quanto disposto dall'art. 25, comma 1, della l. 724/1994.
Un consigliere comunale ha posto la questione relativa alla possibilità di conferire un incarico di servizi di ingegneria e architettura, con un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, a dipendente collocato in quiescenza, al fine di portare a termine alcune opere pubbliche, delle quali l'interessato era progettista e direttore lavori.
Preliminarmente si osserva che la prospettata tipologia di incarico non rientra fra le fattispecie contenute all'articolo 5, comma 9, del d.l. 95/2012, come modificato dall'articolo 6 del d.l. 90/2014.
Detta disposizione impone il divieto, alle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001 (enti locali compresi) di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza.
Alle richiamate amministrazioni è, altresì, fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni sopra indicate e degli enti e società da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti di cui all'articolo 2, comma 2-bis
[1], del d.l. 101/2013, convertito, con modificazioni, dalla l. 125/2013.
Come chiarito dal Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione
[2], gli incarichi vietati dalla citata norma sono solo quelli espressamente contemplati, nello specifico incarichi di studio e consulenza, incarichi dirigenziali o direttivi, cariche di governo nelle amministrazioni e negli enti e società controllati. Si è inoltre precisato che 'la disciplina in esame pone puntuali norme di divieto, per le quali vale il criterio di stretta interpretazione ed è esclusa l'interpretazione estensiva o analogica' [3].
Nella stessa sede si è pertanto rimarcato come tutte le ipotesi di incarico o collaborazione non rientranti nelle categorie sopra elencate debbano ritenersi sottratte ai divieti di cui alla disciplina in esame.
Si evidenzia tuttavia che nella predetta circolare si è rilevato che la disciplina su illustrata si aggiunge, senza modificarle, alle altre discipline vigenti che pongono simili divieti, richiamando, in particolare, quanto disposto dall'articolo 25 della l. 724/1994.
Occorre pertanto esaminare la questione sottoposta sotto questo ulteriore profilo, rappresentando le considerazioni (di cui l'Amministrazione istante dovrà tenere debito conto, qualora nel caso concreto ne ricorrano i presupposti) espresse in proposito dalla Corte dei conti
[4] in ordine all'ambito applicativo dell'art. 25, comma 1, della l. 724/1994 (finanziaria 1995).
La richiamata disposizione, al fine di garantire la piena e effettiva trasparenza e imparzialità dell'azione amministrativa, stabilisce che, al personale delle pubbliche amministrazioni che cessa volontariamente dal servizio pur non avendo il requisito previsto per il pensionamento di vecchiaia dai rispettivi ordinamenti previdenziali ma che ha tuttavia il requisito contributivo per l'ottenimento della pensione anticipata di anzianità previsto dai rispettivi ordinamenti, non possono essere conferiti incarichi di consulenza, collaborazione, studio e ricerca da parte dell'amministrazione di provenienza o di amministrazioni con le quali ha avuto rapporti di lavoro o impiego nei cinque anni precedenti a quello della cessazione dal servizio.
La Corte dei conti ha affermato che 'nel contesto dell'art. 25 della legge n. 724/1994, dunque, la trasparenza' e l'imparzialità' passano da attributi generali dell'azione amministrativa a specifici beni-valori da tutelare, in relazione agli abusi intrinsecamente presenti nel conferimento di incarichi a chi, già dipendente dall'Amministrazione che attribuisce gli incarichi stessi, ha volontariamente posto fine al suo rapporto di servizio con l'Amministrazione medesima, così manifestando un chiaro disinteresse all'espletamento di ulteriori attività lavorativa con essa (Corte Conti, Sezione Giurisdizionale Umbria, n. 235/2006).
Risulterebbe infatti contraddittorio, e perciò in contrasto con i canoni di giustificatezza e ragionevolezza che presiedono alla trasparenza ed all'imparzialità amministrativa, ex artt. 3 e 97 della Costituzione, affidare incarichi ai dipendenti pubblici che volontariamente cessino dal servizio, dimostrando così di non volere più prestare il proprio operato a vantaggio della loro ex Amministrazione di appartenenza.
E' evidente infatti l'irrazionalità, anche economica, del conferimento di un incarico in simili condizioni, ove si consideri che l'attività commissionata con l'incarico stesso sarebbe stata remunerata con il solo stipendio, se il dipendente fosse rimasto ancora in servizio, laddove -dopo le dimissioni- il compenso per il ripetuto incarico si aggiunge alla pensione, ossia alla retribuzione differita 'dall'ex dipendente medesimo, con un sensibile aumento dei costi complessivi generali e, soprattutto, senza assicurare una nuova professionalità di ricambio, alla conclusione dell'incarico'.
La citata Sezione della Corte dei conti ha infine ritenuto che il divieto posto dall'art. 25 richiamato si riferisca ad ogni forma di incarico e collaborazione.
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[1] Gli ordini, i collegi professionali, i relativi organismi nazionali e gli enti aventi natura associativa.
[2] Cfr. circolare n. 6/2014.
[3] Vedasi, in proposito, Corte dei conti, Sezione centrale del controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle amministrazioni dello Stato, deliberazione n. 23/2014/PREV del 30.09.2014.
[4] Cfr. Corte dei conti, sez. Puglia, deliberazione n. 167/PAR/2010
(04.03.2015 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI: Modifica dell'appaltatore (raggruppamento temporaneo di concorrenti) nel corso di esecuzione del contratto.
Benché la giurisprudenza sia unanime nel ritenere che il principio di immodificabilità soggettiva della compagine in corso di gara, o dopo l'aggiudicazione -sancito dall'art. 37, c. 9, del D.Lgs. 163/2006- mira a garantire il controllo preliminare e compiuto dei requisiti dei concorrenti che intendono contrarre con la P.A., impedendo situazioni che vanifichino o eludano tale verifica, essa giunge a conclusioni diverse.
Infatti, mentre l'orientamento 'restrittivo' afferma che, al di fuori delle eccezioni espressamente previste dai cc. 18 e 19 del medesimo art. 37, non è consentita alcuna modifica del raggruppamento prospettato in sede di offerta, l'orientamento 'estensivo' -cui ha aderito anche l'A.V.C.P.- sostiene che dopo l'aggiudicazione sarebbe possibile ammettere il recesso di una o più imprese dal raggruppamento, a condizione che quelle rimanenti siano in possesso, da sole, dei requisiti di partecipazione e di qualificazione per eseguire le prestazioni oggetto dell'appalto.

Il Comune, che ha aggiudicato il servizio di trasporto scolastico ad un raggruppamento temporaneo di concorrenti, è stato informato dal mandatario che una delle imprese mandanti ha segnalato, alla competente amministrazione provinciale, la messa in liquidazione, richiedendo la cancellazione dal registro e la revoca dell'autorizzazione inerente all'attività di trasporto viaggiatori.
Poiché, ai sensi dell'art. 37, comma 9
[1], del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, è vietata, salvo quanto disposto ai commi 18 [2] e 19 [3], qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti temporanei di concorrenti rispetto a quella risultante dall'impegno presentato in sede di offerta, l'Ente chiede di conoscere se, non ricorrendo alcuna delle situazioni di cui al predetto comma 19, l'originario raggruppamento possa essere comunque oggetto di modificazione, considerato che la mandataria ha dichiarato il proprio interesse a subentrare nella posizione della ditta recedente, con esecuzione diretta della percentuale di servizio facente carico a quest'ultima.
Occorre, anzitutto, ricordare che la violazione delle previsioni di cui all'art. 37, comma 9, del D.Lgs. 163/2006 è sanzionata, dal comma 10 della stessa disposizione, il quale stabilisce -per quanto qui rileva- che «L'inosservanza dei divieti di cui al precedente comma comporta l'annullamento dell'aggiudicazione o la nullità del contratto [...]».
Si evidenzia, sin d'ora, che la giurisprudenza non è univoca circa l'interpretazione della norma che preclude 'qualsiasi modificazione' alla composizione dei raggruppamenti temporanei di concorrenti rispetto a quella dichiarata all'atto dell'offerta, prevedendo espressamente i casi che consentono di derogare al divieto, casi che attengono, comunque, «a vicende patologiche che colpiscono il mandante o il mandatario»
[4].
Pur ammettendo, unanimemente, che il principio di immodificabilità soggettiva della compagine in corso di gara, o dopo l'aggiudicazione, sancito dall'art. 37, comma 9, del D.Lgs. 163/2006
[5] mira a garantire, alle amministrazioni aggiudicatrici, una conoscenza piena dei soggetti che intendono contrarre con esse, al fine di consentire un controllo preliminare e compiuto dei requisiti di idoneità morale, tecnico-organizzativa ed economico-finanziaria dei concorrenti ed all'ulteriore scopo di impedire che tale verifica venga vanificata o elusa con modificazioni soggettive, in corso di gara, delle imprese candidate, i giudici amministrativi pervengono a conclusioni diverse.
Un primo orientamento, che propende per una lettura particolarmente rigorosa del dato normativo, afferma che non è consentita alcuna modifica del raggruppamento prospettato in sede di offerta, al di fuori delle eccezioni espressamente previste dai commi 18 e 19 del medesimo art. 37
[6], le quali «sono ammissibili in quanto riguardano motivi indipendenti dalla volontà del soggetto partecipante alla gara e trovano giustificazione nell'interesse della stazione appaltante alla continuazione della stessa» [7].
Secondo una diversa impostazione, invece, dopo l'aggiudicazione sarebbe possibile ammettere il recesso di una o più imprese del raggruppamento, a condizione che quelle rimanenti siano in possesso, da sole, dei requisiti di partecipazione e di qualificazione per eseguire le prestazioni oggetto dell'appalto, in quanto il divieto legislativo, il cui rigore va temperato in ragione dello scopo che persegue, riguarderebbe solo l'aggiunta o la sostituzione di componenti, non anche il venir meno, senza sostituzione, di taluno dei componenti originariamente indicati
[8].
È stato, infatti, rilevato che, attesa la funzione della disposizione, risulta evidente che le uniche modifiche soggettive elusive del dettato legislativo sono quelle volte all'aggiunta o alla sostituzione di imprese e non anche quelle che riguardano il recesso di una delle imprese del raggruppamento poiché, in tal caso, l'amministrazione, all'atto del mutamento soggettivo, ha già provveduto a verificare i requisiti di capacità e di moralità dell'impresa o delle imprese che restano, cosicché i rischi che il divieto mira ad impedire non possono verificarsi
[9].
La giurisprudenza che aderisce a tale orientamento osserva, inoltre, che esso:
- non penalizza né la stazione appaltante, non creando incertezze, né le imprese, le cui dinamiche possono imporre modificazioni soggettive di consorzi e raggruppamenti, per ragioni che prescindono dalla singola gara e che non possono precluderne la partecipazione, «se nessun nocumento ne deriva per la stazione appaltante»
[10];
- non incide nemmeno sulla par condicio dei concorrenti, perché non si tratta di consentire l'introduzione di nuovi soggetti in corsa, ma solamente di permettere a qualcuno degli associati o consorziati il recesso, «mediante utilizzo dei requisiti dei soggetti residui, già comunque posseduti»
[11].
Deve, comunque, osservarsi che la prospettiva in esame è ritenuta percorribile «purché la modifica della compagine soggettiva in senso riduttivo avvenga per esigenze organizzative proprie dell'a.t.i. o consorzio, e non invece per eludere la legge di gara e, in particolare, per evitare una sanzione di esclusione dalla gara per difetto dei requisiti in capo al componente dell'a.t.i. che viene meno per effetto dell'operazione riduttiva»
[12].
La tesi interpretativa più restrittiva è avallata da una più recente pronuncia
[13], che motiva la propria posizione con ulteriori argomenti.
Il giudice afferma, infatti, che il divieto imposto dalla norma riguarda 'qualsiasi modificazione', «con ciò impedendosi all'interprete di escludere alcune delle modificazioni dal 'totale' di esse, complessivamente vietato dal legislatore», tanto più se si considera che lo stesso legislatore ha indicato analiticamente le eccezioni al regime di divieto.
[14]
Ne consegue, perciò, che «una volta che un raggruppamento temporaneo di imprese abbia partecipato ad una gara e ne abbia ottenuto l'aggiudicazione, non è possibile alcuna modifica, tanto meno soggettiva, in ordine alla composizione del raggruppamento ed a quanto dichiarato in sede di gara».
E ciò vale, a maggior ragione, qualora un'impresa dichiari di non voler più partecipare al raggruppamento, o di non avere più intenzione di eseguire le prestazioni cui era obbligata in ragione dell'offerta, o ancora di 'rinunciare' -anche solo in proprio- agli effetti dell'aggiudicazione o del contratto, giacché in ognuna di tali evenienze «si realizza una differente composizione (per sottrazione/riduzione) del raggruppamento per come esso si è presentato, quale concorrente, in sede di gara, di modo che deve procedersi ai sensi dell'art. 37, comma 10, all'annullamento dell'aggiudicazione o alla declaratoria di nullità del contratto, fermo ogni ulteriore profilo di (eventuale) responsabilità dell'impresa nei confronti della amministrazione appaltante».
Con riferimento alle modifiche del raggruppamento che si collocano in una fase temporale successiva a quella della stipula del contratto, si è espressa anche l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp), aderendo all'orientamento più estensivo
[15] e ritenendo, perciò, ammissibile il solo mutamento soggettivo in senso riduttivo del raggruppamento [16], con assunzione del servizio in capo al/ai rimanente/i componente/i dello stesso, purché l'esecutore sia singolarmente in possesso dei requisiti a tal fine richiesti dalla lex specialis.
In conclusione, il Comune dovrà effettuare, alla luce degli orientamenti di cui si è dato conto, la valutazione della soluzione più appropriata al caso concreto, anche considerando l'esigenza di garantire la prosecuzione del servizio.
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[1] «È vietata l'associazione in partecipazione. Salvo quanto disposto ai commi 18 e 19, è vietata qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti rispetto a quella risultante dall'impegno presentato in sede di offerta.».
[2] «In caso di fallimento del mandatario ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente codice purché abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire; non sussistendo tali condizioni la stazione appaltante può recedere dall'appalto.».
[3] «In caso di fallimento di uno dei mandanti ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, il mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione, direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché questi abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire.».
[4] Così Consiglio di Stato - Ad. Plen., 04.05.2012, n. 8.
[5] Già affermato, in precedenza, dall'art. 13, comma 5-bis, della legge 11.02.1994, n. 109.
[6] Cfr. Consiglio di Stato - Sez. V, 07.04.2006, n. 1903; 30.08.2006, n. 5081; 20.04.2012, n. 2328; Sez. IV, 14.12.2012, n. 6446.
[7] Così Consiglio di Stato - Sez. V, n. 2328/2012, cit..
[8] Cfr. Consiglio di Stato - Sez. IV, 23.07.2007, n. 4101; Sez. VI, 13.05.2009, n. 2964.
[9] Cfr. Consiglio di Stato - Sez. IV, n. 4101/2007, cit.; Sez. VI, n. 2964/2009, cit..
[10] Così Consiglio di Stato - Sez. VI, 16.02.2010, n. 842.
[11] Così Consiglio di Stato - Sez. VI, n. 842/2010, cit..
[12] Così Consiglio di Stato - Sez. VI, n. 842/2010, cit..
Il Consiglio di Stato - Ad. Plen., n. 8/2012, cit., riassumendo le diverse posizioni assunte dal supremo Consesso sulla questione, afferma di condividere la tesi secondo la quale «il recesso dell'impresa componente di un raggruppamento nel corso della procedura di gara non vale a sanare ex post una situazione di preclusione all'ammissione alla procedura sussistente al momento dell'offerta in ragione della sussistenza di cause di esclusione riguardanti il soggetto recedente, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti [Cons. St., ad. plen., 15.04.2010, n. 2155; Cons. St., sez. V, 10.09.2010, n. 6546]», posto che «una diversa soluzione ermeneutica, che intendesse impedire il controllo sui requisiti di ammissione delle imprese recedenti, consentirebbe l'elusione delle prescrizioni legali che impongono il possesso dei requisiti stessi in capo ai soggetti originariamente facenti parte del raggruppamento all'atto della scadenza dei termini per la presentazione delle domande di partecipazione [Cons. St., sez. V, 28.09.2011, n. 5406]».
[13] Consiglio di Stato - Sez. IV, n. 6446/2012, cit..
[14] Pertanto, un'interpretazione 'meno rigida' della disposizione non risulta ammissibile giacché essa, a fronte di un chiaro (e complessivo) divieto imposto dalla legge, con l'escludere un caso da tale divieto, «compie una operazione non già di interpretazione normativa, bensì di (non consentita) integrazione della norma, di per sé compiutamente disciplinante il caso considerato».
[15] V., in particolare, la determinazione 12.11.2013, n. 5 concernente «Linee guida su programmazione, progettazione ed esecuzione del contratto nei servizi e nelle forniture» il cui par. 5 tratta delle 'Modifiche soggettive del raggruppamento in corso di esecuzione'.
V. anche la deliberazione 22.07.2011, n. 68, che si esprime sulla modifica della compagine aggiudicataria in epoca successiva alla stipula del contratto ed alla consegna del servizio.
[16] Tranne qualora emerga che l'operazione sia avvenuta per evitare una sanzione di esclusione dalla gara, per difetto dei requisiti in capo al soggetto recedente
(03.03.2015 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Interpretazione di una norma del regolamento del consiglio comunale. Gruppi consiliari.
Quando un consigliere esce dal gruppo di appartenenza e non intende aderire ad altri gruppi non può che entrare a far parte del gruppo misto qualora esistente oppure costituirlo. Il gruppo misto potrà essere formato anche da un solo componente; tale è la denominazione che assumerà il gruppo, sia esso composto da uno o da più consiglieri.
Il consigliere comunale che entra a far parte del gruppo misto mantiene inalterate le prerogative che gli spettano quale amministratore locale e partecipa alle sedute consiliari quale componente del gruppo di riferimento. Fino a quando il gruppo misto è composto da un solo membro, lo stesso assume automaticamente la veste di capogruppo.

Il Consigliere comunale chiede di conoscere un parere in merito all'interpretazione ed all'applicazione di una norma del regolamento del consiglio comunale riguardante la costituzione dei gruppi consiliari.
In particolare, riferisce che l'articolo 6 dell'indicato regolamento prevede che : 'Il Consigliere che si distacca dal gruppo in cui è stato eletto e non aderisce ad altri gruppi non acquisisce le prerogative spettanti ad un gruppo consiliare. Qualora più Consiglieri vengano a trovarsi nella predetta condizione, essi costituiscono un gruppo misto che elegge al suo interno il Capogruppo. Della costituzione del gruppo misto deve essere data comunicazione per iscritto al Segretario Comunale da parte dei Consiglieri interessati'. Atteso il tenore della disposizione regolamentare citata, nel caso di un consigliere comunale che esce dal proprio gruppo di appartenenza, e non aderisce ad altri gruppi consiliari esistenti, desidera sapere:
1. quali prerogative gli spettino quale amministratore locale e se acquisisce o meno le funzioni di capogruppo;
2. se lo stesso possa partecipare o meno alle sedute del consiglio comunale;
3. come debba denominarsi il gruppo consiliare costituto da un solo consigliere.
D'intesa con il Servizio elettorale, si formulano le seguenti considerazioni.
In via preliminare, si osserva che l'interpretazione del regolamento del consiglio comunale spetta unicamente all'organo che lo ha posto in essere. In questa sede, pertanto, si forniranno delle considerazioni giuridiche generali sulla natura giuridica dei gruppi consiliari e, per quel che in questa sede rileva, sui gruppi misti, utili a fornire degli strumenti interpretativi per la corretta esegesi delle norme regolamentari.
In linea generale, si osserva che, quando un consigliere esce dal gruppo di appartenenza e non intende aderire ad altri gruppi esistenti, non può che costituire il gruppo misto, il quale potrà essere formato anche da un solo componente. Ciò anche qualora il regolamento dell'Ente richieda un numero minimo di componenti dello stesso: reputando diversamente, si determinerebbe l'ingiustificata e inammissibile compressione del diritto di autodeterminazione del consigliere e si violerebbe il principio costituzionalmente garantito del divieto di mandato imperativo.
Il gruppo misto è, infatti, un gruppo consiliare con carattere residuale, nel quale confluiscono i consiglieri, anche di diverso orientamento, che non si riconoscono negli altri gruppi costituiti, o che non possono costituire un proprio gruppo per mancanza delle condizioni previste dallo statuto o dal regolamento per il funzionamento del consiglio, e la cui costituzione non può logicamente essere subordinata alla presenza di un numero minimo di componenti.
Tale gruppo, pertanto, potrebbe essere costituito anche da un solo componente, che risulterebbe, altrimenti, penalizzato dalla mancata incardinazione in un gruppo consiliare.
Che il consigliere comunale debba necessariamente fare parte di un gruppo si desume da diverse previsioni di legge, quale, a titolo di esempio, l'articolo 39, comma 4, TUEL il quale dispone che il presidente del consiglio comunale assicuri una adeguata e preventiva informazione ai gruppi consiliari sulle questioni sottoposte al consiglio.
Alla luce delle osservazioni sopra evidenziate, si ritiene che non sia possibile che si presenti il caso di un consigliere che non faccia parte di un gruppo consiliare, in quanto quando un consigliere esce dal suo gruppo di appartenenza e non aderisce ad altri gruppi consiliari entra automaticamente a far parte del c.d. gruppo misto.
Segue che la citata norma del regolamento consiliare, nella parte in cui ammette la possibilità che un consigliere comunale non aderisca ad alcun gruppo consiliare debba essere disapplicata, con la conseguenza che il consigliere che esce dal proprio gruppo e che non intende aderire ad altri gruppi, andrà a costituire il gruppo misto, se il gruppo non esiste ancora, o a farne parte se già esiste. Tale è, quindi, la denominazione che assumerà il gruppo, sia esso composto da uno o da più consiglieri.
Ulteriore considerazione è che il consigliere comunale che entra a far parte del gruppo misto mantiene inalterate le prerogative che gli spettano quale amministratore locale e parteciperà alle sedute consiliari quale componente del gruppo di riferimento.
Si precisa, infine, che fino a quando il gruppo misto è composto da un solo membro, lo stesso assume automaticamente la veste di capogruppo.
Alla luce delle considerazioni sopra espresse, il Comune dovrà valutare l'opportunità di procedere alla modifica delle disposizioni regolamentari sulla composizione del gruppo misto, al fine di adeguarle ai principi sopra esposti
(03.03.2015 - link a www.regione.fvg.it).

SICUREZZA LAVORO: Personale degli enti locali. Individuazione dirigente e preposto ai sensi del d.lgs. 81/2008.
Competono al 'dirigente' individuato ai sensi del d.lgs. n. 81/2008 gli specifici obblighi imposti dal legislatore in materia di sicurezza, in stretta collaborazione con il 'datore di lavoro'.
Il 'preposto' è il soggetto al quale siano attribuiti, anche di fatto, poteri di sovraordinazione sugli altri dipendenti operanti in un determinato settore, che vigila concretamente sull'attività lavorativa degli stessi, per garantire che la medesima si svolga nel rispetto delle regole prevenzionali.

Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla corretta individuazione della figura del 'dirigente' e del 'preposto', come definiti dal d.lgs. 81/2008, all'interno della struttura organizzativa dell'Ente medesimo e sulla base del regolamento di organizzazione.
Preliminarmente è doveroso precisare che esula dalle competenze dello scrivente Servizio ingerirsi nelle scelte discrezionali che le amministrazioni locali, in piena autonomia, sono tenute ad effettuare per ottemperare ai dettami imposti da specifiche disposizioni legislative.
Si osserva, infatti, che l'individuazione dei soggetti previsti dalle vigenti norme a tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro presuppone il concreto riferimento, nell'ambito dei singoli enti locali, alla ripartizione interna delle specifiche competenze, così come definite e disciplinate dagli atti di autorganizzazione e regolamentazione adottati dalle medesime amministrazioni.
Premesso un tanto, in via collaborativa e in termini generali, si forniscono le seguenti indicazioni, dalle quali l'Amministrazione istante potrà ricavare le determinazioni da assumere.
L'art. 2, comma 1, lett. b), del d.lgs. 81/2008 definisce la figura del 'datore di lavoro' nell'ambito delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 (enti locali compresi).
La citata disposizione precisa che, per datore di lavoro, si intende 'il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa'. Il legislatore ha peraltro previsto che, in caso di omessa individuazione o di individuazione non conforme ai criteri indicati, il datore di lavoro coincida con l'organo di vertice medesimo
[1].
Lo stesso comma 1, alla lett. d) definisce poi, ai fini applicativi del decreto stesso, 'dirigente' la persona che, in ragione delle competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, attua le direttive del datore di lavoro organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa.
La figura del 'preposto', come indicato dalla lett. e) del comma in argomento, è da rinvenirsi invece nella 'persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa'.
Preliminarmente si osserva che il ruolo centrale, nella applicazione delle disposizioni introdotte dal d.lgs. 81/2008, è riservato comunque alla figura del 'datore di lavoro', col quale il 'dirigente' è tenuto a collaborare e a condividere determinate responsabilità. Il 'dirigente' pertanto, assume una posizione di responsabilità intermedia, tra 'datore di lavoro' e 'preposto', in quanto ha l'onere di organizzare in modo adeguato e sicuro le strutture e i mezzi messi a disposizione dal 'datore di lavoro', a prescindere da eventuali poteri di spesa.
Proprio dalla disamina, di quanto previsto all'art. 18 del citato d.lgs. 81/2008, emerge la stretta connessione tra l'attività esercitata dal 'datore di lavoro' dell'ente e quella dei 'dirigenti', in quanto detti soggetti hanno il compito precipuo di organizzare e dirigere le stesse attività, secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite e sono parimenti destinatari di specifici obblighi imposti dal legislatore.
Il 'dirigente' non si sostituisce al 'datore di lavoro', ma con questo condivide, secondo le reali incombenze, oneri e responsabilità in materia di sicurezza del lavoro.
Con particolare riferimento alla realtà delle autonomie locali, acclarato che, ai fini applicativi del d.lgs. 81/2008 la figura del 'dirigente' non deve necessariamente corrispondere ad una rigida individuazione di tipo giuridico/contrattualistico
[2], i comuni privi di dirigenti nella propria discrezionalità possono attribuire ai soggetti che, per legge e contratto, svolgono comunque funzioni dirigenziali (i titolari di posizione organizzativa) anche gli obblighi specifici derivanti dal d.lgs. 81/2008 in materia di sicurezza, in relazione agli adempimenti connessi, compresa l'attuazione di tutte le funzioni che eventualmente il datore di lavoro riterrà di delegare nei limiti previsti dalla legge.
In relazione poi alla distinzione tra la figura del 'dirigente' e quella del 'preposto' nell'ambito della prevenzione, appare utile riportare le considerazioni espresse in proposito dalla Suprema Corte
[3]. Si è, in tale contesto, affermato che l'apprestamento e la dotazione dei mezzi di sicurezza costituiscono compito e responsabilità del 'datore di lavoro' e del 'dirigente'.
Nel confermare, inoltre, la linea di confine tra programmazione ed apprestamento della sicurezza, affidata al 'datore di lavoro' e al 'dirigente', e la sorveglianza, affidata invece al 'preposto', la Corte di Cassazione con la medesima sentenza ha identificato in particolare, ai fini degli obblighi di prevenzione, la figura del 'preposto'.
Si è, infatti, precisato che il 'preposto' è colui che sovraintende a determinate attività lavorative e si è affermato che la specifica competenza prevenzionale attribuita a detta figura consiste nel controllare l'ortodossia antinfortunistica dell'esecuzione delle prestazioni lavorative e non si estende quindi anche alla scelta dei dispositivi di sicurezza, che rientra, invece, nelle attribuzioni del 'datore di lavoro' (o anche dei 'dirigenti' nel caso in cui costoro abbiano un potere di spesa appropriato).
Per 'dirigenti', pertanto, devono intendersi, ai fini che ci occupano e al di là della mera classificazione contrattuale, i dipendenti che hanno il compito di impartire ordini ed esercitare la necessaria vigilanza, in conformità alle scelte di politica adottate dagli organi di vertice che formano la volontà dell'ente (essi rappresentano quindi l'alter ego del 'datore di lavoro', nell'ambito delle competenze loro attribuite e nei limiti dei poteri decisionali e di spesa loro conferiti).
I 'preposti' sono invece i soggetti che vigilano concretamente sull'attività lavorativa degli altri dipendenti, per garantire che la medesima si svolga nel rispetto delle regole prevenzionali, e sono forniti di un limitato potere di impartire ordini e istruzioni, peraltro di natura tendenzialmente (a volte meramente) esecutiva
[4].
Conseguentemente ne deriva un 'doppio binario' di responsabilità. In pratica, accanto ad una responsabilità di organizzazione e programmazione della sicurezza spettante al 'datore di lavoro' ed al 'dirigente', si riscontra una tipologia di responsabilità di gestione e controllo quotidiano, che fa capo ai 'preposti'.
La Corte di Cassazione ha sottolineato inoltre che il 'preposto', in quanto delegato alla diretta sorveglianza dei lavoratori a lui affidati, è certamente tenuto 'ad una attenta ed assidua vigilanza e specialmente a dare istruzioni anche per lavori che possono ritenersi di semplice esecuzione'
[5]. Ed ancora: 'il caposquadra va inquadrato nella figura del preposto perché rientra nei suoi compiti dirigere e sorvegliare il lavoro dei componenti la squadra' [6].
Il 'preposto', inoltre, deve essere un soggetto qualificato per tale mansione. A tal proposito, sempre la Suprema Corte ha evidenziato che 'per istituire una posizione di garanzia individuabile nella qualità di preposto non è sufficiente che il lavoratore abbia una qualifica superiore a quella degli altri dipendenti ma è necessario che gli siano attribuiti, anche di fatto, poteri di sovraordinazione sugli altri dipendenti operanti in un determinato settore'
[7].
---------------
[1] Con riferimento alla specifica realtà dei Comuni, 'datore di lavoro' è il Sindaco.
[2] Inquadramento nella categoria dirigenziale.
[3] Cfr. Corte di Cass. pen., sentenza n. 21593 del 2007. Nella fattispecie esaminata, in occasione di un grave infortunio subito dal lavoratore, il datore di lavoro aveva affermato la responsabilità, in sua vece, del preposto.
[4] Il preposto, in sostanza, in ragione della propria posizione professionale, ha un potere limitato al proprio campo di operatività, per controllare e verificare lo svolgimento del lavoro in sicurezza.
[5] Cfr. Cassaz. Pen., sez. IV, sentenza n. 4412 del 2012. 'Tra i preposti è da annoverarsi il soggetto avente qualifica e funzioni di capo-squadra'.
[6] Cfr. Cass. pen. Sez. IV, sentenza n. 14192 del 2006.
[7] Cfr. Cass. pen., sez. IV, sentenza n. 40939 del 2002
(03.03.2015 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Pignorabilità dell'indennità di carica degli amministratori locali.
Sul tema della pignorabilità dell'indennità di carica degli amministratori locali non esiste un orientamento univoco: secondo una prima tesi, tale indennità potrebbe essere equiparata, sotto il profilo della corrispettività, alle retribuzioni dei pubblici dipendenti con la conseguente possibilità del pignoramento dei crediti che l'amministratore vanta nei confronti dell'ente in ragione del mandato, con i limiti previsti per gli stessi dipendenti pubblici.
Per un diverso orientamento, invece, l'indennità di funzione è pignorabile senza limiti. 

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito alla pignorabilità dell'indennità di carica degli amministratori locali. Più in particolare, desidera sapere se sia o meno applicabile la misura della pignorabilità di un quinto dello stipendio, prevista dall'articolo 545 c.p.c..
Sentito il Servizio finanza locale si esprimono le seguenti considerazioni.
L'articolo 545 c.p.c., al terzo comma, stabilisce che: 'Le somme dovute dai privati a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego comprese quelle dovute a causa di licenziamento, possono essere pignorate per crediti alimentari nella misura autorizzata dal presidente del tribunale o da un giudice da lui delegato'. Il successivo quarto comma prevede, poi, che: 'Tali somme possono essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni, ed in eguale misura per ogni altro credito'.
Per quanto riguarda il pignoramento di stipendi, salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni è necessario fare riferimento al D.P.R. 05.01.1950, n. 180,
[1] il quale all'articolo 1, primo comma, stabilisce che: 'Non possono essere sequestrati, pignorati o ceduti, salve le eccezioni stabilite nei seguenti articoli ed in altre disposizioni di legge, gli stipendi, i salari, le paghe, le mercedi, gli assegni, le gratificazioni, le pensioni, le indennità, i sussidi ed i compensi di qualsiasi specie che lo Stato, le province, i comuni, [...] corrispondono ai loro impiegati, salariati e pensionati [ed a qualunque altra persona, per effetto ed in conseguenza dell'opera prestata nei servizi da essi dipendenti. [...]'.
Il successivo articolo 2, al primo comma, prevede che: 'Gli stipendi, i salari e le retribuzioni equivalenti, nonché le pensioni, le indennità che tengono luogo di pensione e gli assegni di quiescenza corrisposti dallo Stato e dagli altri enti, aziende [...] sono soggetti a sequestro ed a pignoramento nei seguenti limiti: [...] 3) fino alla concorrenza di un quinto valutato al netto di ritenute, per tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni, facenti carico, fin dalla loro origine, all'impiegato o salariato. [...]'.
In via generale, si osserva che sulla questione posta non si rinviene una soluzione univoca.
Secondo un primo orientamento, l'indennità di funzione, ai fini che in questa sede rilevano, potrebbe essere equiparata, sotto il profilo della corrispettività, alle retribuzioni dei pubblici dipendenti con la conseguente proponibilità del pignoramento dei crediti che l'amministratore vanta nei confronti dell'ente in ragione del mandato elettivo conferito, con i limiti previsti per gli stessi dipendenti pubblici. La dottrina, al riguardo, ha affermato che 'l'indennità di funzione sarebbe pignorabile nei limiti di un quinto, data la sussistenza fra l'ente e l'amministratore di un «vincolo di dipendenza» di natura funzionale'.
[2]
Tale orientamento è stato fatto proprio anche da certa giurisprudenza. In particolare, si cita una sentenza della Corte costituzionale la quale afferma che: 'Sussiste, d'altra parte, nell'ordinamento la garanzia generale di cui è espressione l'art. 545 del codice di procedura civile, che limita il pignoramento delle retribuzioni a un quinto: garanzia che vale anche per le indennità di carica, nelle quali è certo presente una funzione retributiva, insieme con le ulteriori connotazioni che si riconnettono al libero svolgimento del mandato elettivo.'.
[3]
In tal senso, degna di rilievo è, altresì, una sentenza del Supremo giudice amministrativo la quale, relativa ad un caso di pignorabilità dell'assegno vitalizio degli ex parlamentari ha affermato che: '[...] l'assegno vitalizio [...], non essendo per esso prevista una disciplina apposita in materia,
[4] deve, allo stesso modo di ogni altro emolumento dei dipendenti pubblici, considerarsi aggredibile nella misura del quinto a seguito di pignoramento o sequestro'. [5]
Secondo un diverso orientamento l'indennità di funzione è, invece, pignorabile senza limiti. La motivazione addotta a sostegno di tale tesi è che tale indennità non figura fra le cose dichiarate impignorabili dal codice di procedura civile (art. 514 e segg.) o da speciali disposizioni di legge. Si tratterebbe di un 'emolumento qualificabile quale indennizzo per carica elettiva e non lavoro dipendente o assimilato per cui [...] si è tenuti al pegno dell'intero importo e non al riferimento del quinto'. [6]
Quanto, in particolare, all'articolo 1 del D.P.R. 180/1950, che dispone l'impignorabilità degli stipendi, con le eccezioni espressamente stabilite, si rileva che il relativo regolamento di esecuzione, approvato con D.P.R. 28.07.1950, n. 895,
[7] all'articolo 1, delimita l'ambito di applicazione del testo unico 180/1950, stabilendo che le relative disposizioni 'non si applicano alle somme che dallo Stato e dagli altri enti od imprese pubbliche siano dovute in compenso di prestazioni eseguite in base a rapporti che non implicano un vincolo di dipendenza'.
A sostegno di tale tesi depone una sentenza del Supremo giudice civile, relativa ad un caso di pignorabilità dell'assegno vitalizio di un consigliere regionale, la quale afferma che: 'L'assegno vitalizio di cui trattasi non ricollegandosi ad alcuna prestazione di lavoro espletata con vincolo di subordinazione, bensì all'esercizio di funzioni proprie di una carica pubblica elettiva, esorbita per ciò stesso dall'area di operatività della disciplina intesa a sottrarre totalmente o parzialmente, all'azione esecutiva dei creditori, i compensi corrisposti dalle Amministrazioni Pubbliche ai propri collaboratori'.
[8]
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[1] Recante 'Approvazione del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle Pubbliche Amministrazioni'.
[2] ANCI, parere del 25.01.2006.
[3] Corte costituzionale, sentenza del 16.06.1995, n. 245.
[4] Si precisa che l'indennità mensile spettante ai membri del Parlamento è disciplinata dalla legge 31.10.1965, n. 1261, che all'articolo 5, quarto comma, prevede che: 'L'indennità mensile e la diaria non possono essere sequestrate o pignorate'.
[5] Cassazione penale, sez. VI, sentenza del 21.03.1995, n. 1044.
[6] Così, Paolo Gros, in 'Gli enti locali', sito professionale per responsabili dei servizi finanziari, tributi e personale, segretari comunali, revisori dei conti degli enti locali, a cura di Paolo Gros, Lucio Guerra e Marco Lombardi, consultabile sul seguente sito internet: www.paologros.net
[7] Recante 'Regolamento per l'esecuzione del testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la cessione degli stipendi, salari e pensioni dei dipendenti dalle pubbliche Amministrazioni, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 05.01.1950, n. 180'.
[8] Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza dell'08.10.1996, n. 8789
(27.02.2015 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIMininterno. Consigliere deve pagare le multe.
L'amministratore comunale non può richiedere neppure la rateizzazione delle multe elevate dei vigili perché ogni debito con l'ente di appartenenza determina una causa di incompatibilità con l'incarico politico.

Lo ha evidenziato il Ministero dell'interno con il parere 24.02.2015.
Un consigliere comunale ha ricevuto la notifica di atti ingiuntivi per mancato pagamento di imposte, tasse e verbali del proprio comune. Avendo provveduto a richiedere la rateizzazione degli importi delle multe lo stesso ha ritenuto di aver sanato la sua posizione in relazione alle incompatibilità previste dall'art. 63 del Tuel. Niente di più sbagliato.
A parere del Viminale la rateizzazione delle multe è soltanto una diversa modalità di pagamento di un debito che si è già consolidato. Quindi non serve a nulla rateizzare i verbali. Solo pagando integralmente i debiti residui con il comune viene a cessare la causa di incompatibilità che comunque deve essere sempre dichiarata dal consiglio comunale (articolo ItaliaOggi del 06.03.2015).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

LAVORI PUBBLICI: Art. 37, decreto-legge 24.06.2014, n. 90 convertito in legge n. 114/2014 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari). Riordino e aggiornamento delle modalità di trasmissione all’A.N.AC. delle varianti in corso d’opera (comunicato del Presidente 17.03.2015 - link a http://www.autoritalavoripubblici.it).
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Varianti in corso d’opera
In un comunicato i chiarimenti sulle informazioni e la documentazione da trasmettere all’Autorità.

Pubblicato il Comunicato del Presidente del 17.03.2015: Art. 37, decreto-legge 24.06.2014, n. 90 convertito in legge n. 114/2014 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari). Riordino e aggiornamento delle modalità di trasmissione all’A.N.AC. delle varianti in corso d’opera.
Il Comunicato fornisce dei chiarimenti sulla qualità degli accertamenti del Responsabile del procedimento in tema di varianti. Al comunicato è allegato un modulo per assicurare la chiarezza e la coerenza delle informazioni e degli atti da trasmettere.

APPALTISegnalazioni ampie sulle gare. La precisazione. L’Autorità chiarisce che i limiti riguardano i concorsi per il personale.
I nuovi limiti alle segnalazioni all’Autorità anticorruzione riguardano solo i bandi di concorso per l’assunzione di personale, mentre per quel che riguarda gli appalti si continuano a seguire le vecchie abitudini. L’indicazione arriva dalla stessa Autorità, che con un comunicato diffuso ieri «precisa» le istruzioni dei giorni scorsi.
Per capire il problema bisogna partire proprio dal primo comunicato del Presidente 03.03.2015 in cui l’Anac aveva «ritenuto opportuno che l’attività di vigilanza dell’Autorità non afferisce alla valutazione della legittimità dei requisiti di partecipazione delle procedure concorsuali», e di conseguenza si chiedeva di non inviare più «segnalazioni concernenti avvisi di selezione e bandi di concorso che conterebbero requisiti di partecipazione ingiustificatamente restrittivi».
Vista l’ampiezza dell’attività svolta dall’Autorità anticorruzione anche nel campo degli affidamenti, l’avviso era stato interpretato come riferito anche a questo ambito, ma così non è. Il punto fondamentale è rappresentato dall’indicazione relativa ad «avvisi di selezione» e «bandi di concorso» che, come chiarito ieri dal nuovo comunicato, riguarda «esclusivamente le procedure volte all’assunzione di personale, con particolare riguardo ai requisiti di partecipazione»: non è coinvolto, invece, «il settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture».
In pratica, significa che in questi mesi l’Autorità guidata da Raffaele Cantone è stata inondata anche di segnalazioni relativi a bandi di concorso considerati dai potenziali concorrenti troppo rigidi nei requisiti, magari con l’intenzione di ritagliare il concorso su misura di alcuni partecipanti.
Questo problema, però, esula dalle competenze dell’Anac, che non può che archiviare la segnalazione quando non riguarda «specifiche irregolarità riferibili alla corretta adozione e attuazione delle misure di prevenzione della corruzione» scritte nella legge Severino e nei decreti attuativi: norme che, invece, nel caso degli appalti di lavori, servizi e forniture hanno impatti ampi anche sulla funzione consultiva dell’Anac, a cui possono accedere tutti i soggetti precisati dalla stessa Autorità nel comunicato del 24 febbraio.
Nel tentativo di ordinare il traffico delle segnalazioni è intervenuta in questi giorni anche la Funzione pubblica, chiedendo di inviare all’Anac, e non al ministero, le comunicazioni in fatto di trasparenza e anticorruzione
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAnac, controlli selettivi e solo sulla corruzione.
Se la denuncia presentata all'Anac di un bando di gara restrittivo della concorrenza non contiene specifiche irregolarità in tema di prevenzione della corruzione, sarà archiviata.

E' quanto afferma il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, nel
comunicato del Presidente 03.03.2015 in cui si forniscono alcune precisazioni relative all'attività di vigilanza dell'Autorità sulle misure di prevenzione della corruzione.
Il comunicato riguarda in particolare le «numerose segnalazioni concernenti avvisi di selezione e bandi di concorso che conterebbero requisiti di partecipazione ingiustificatamente restrittivi, con ciò limitando la platea dei possibili concorrenti».
Si tratta delle segnalazioni che, da quando è stata istituita l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (assorbita dall'Anac), vengono trasmesse da operatori del settore relativamente ai bandi di gara di appalto che, in violazione delle norme del codice e del regolamento, limitano la partecipazione alle gare, elemento che a volte precede o segue l'insorgere di fenomeni corruttivi.
Su queste segnalazioni il comunicato precisa che queste segnalazioni non rientrano nelle competenze dell'Autorità. Il comunicato chiarisce infatti che «l'attività di vigilanza dell'Autorità non afferisce alla valutazione della legittimità dei requisiti di partecipazione delle procedure concorsuali e, pertanto, le relative segnalazioni saranno archiviate». Se quindi le segnalazioni non contengono doglianze relative a specifiche irregolarità riferibili alla corretta adozione ed attuazione delle misure di prevenzione della corruzione esse saranno archiviate o trasmesse «ai soggetti competenti».
Va peraltro segnalato come, in base al Codice dei contratti pubblici, l'Autorità, ancorché frutto della fusione di Avcp e Anac, dovrebbe vigilare non soltanto in tema di prevenzione della corruzione, ma in generale sulla materia di contratti pubblici per fare rispettare i principi di economicità efficacia, tempestività e correttezza, nonché di libera concorrenza, trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione. Qualcosa di più, quindi, della sola prevenzione della corruzione (articolo ItaliaOggi del 07.03.2015).

INCARICHI PROGETTUALILavori pubblici, conta la qualità. Offerta di servizi e requisiti professionali al centro. Le linee dettate dall'Autorità nazionale anticorruzione rendono il mercato più trasparente.
Nel mercato dei lavori pubblici torna l'attenzione sulla qualità dell'offerta dei servizi e sul ruolo del professionista invece che solo sui requisiti economici e sulla consistenza dello studio professionale.

Per i periti industriali, l'Autorità nazionale anticorruzione, recependo nelle nuove linee guida (determinazione 25.02.2015 n. 4) le osservazioni segnalate più volte dalla Rete delle professioni tecniche, rende il mercato della progettazione nei servizi di ingegneria e architettura di nuovo trasparente e competitivo. E offre nello stesso tempo la possibilità di valorizzare i giovani professionisti, fino ad ora discriminati da una serie di norme lesive della concorrenza.
Dunque stop ai massimi ribassi, alla logica dei supersconti che, come denunciato più volte dai periti industriali, avevano portato ad aggiudicare servizi con ribassi superiori anche al 90%. Stop anche al criterio dimensionale degli studi e del fatturato per poter partecipare alle gare, sì invece all'offerta economicamente più vantaggiosa e all'obbligo di determinare il valore degli incarichi rifacendosi al decreto parametri (dm 143/2013) pressoché ignorato in tutti gli appalti. Dunque da ora in poi per stabilire il corrispettivo da porre a base di gara sarà obbligatorio far riferimento al decreto parametri bis (dm 143/2013).
L'obbligo riguarda non solo le gare per servizi di ingegneria e architettura, ma anche la quota di progettazione inclusa negli appalti integrati. L'importo a base di gara, ricordano le linee guida, non deve essere superiore a quello derivante dall'applicazione delle tariffe professionali previgenti. E non solo, perché come si legge correttamente nelle linee guida, «per motivi di trasparenza e correttezza è obbligatorio riportare nella documentazione il procedimento adottato per il calcolo dei compensi posti a base di gara». Un passaggio che servirà ai partecipanti, che potranno verificare la congruità dell'importo stabilito.
Quanto ai requisiti di fatturato da richiedere ai partecipanti nel caso di importi superiori a 100 mila euro, uno dei temi più a cuore delle professioni tecniche, l'Anac considera congruo fissare un fatturato in misura pari al doppio dell'importo a base di gara, ma eventuali requisiti più stringenti devono essere debitamente motivati. Mentre sui criteri arriva il corretto stop al massimo ribasso, le linee guida confermano il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa quale il più idoneo a garantire una corretta valutazione della qualità delle prestazioni offerte dai concorrenti (facendo riferimento all'art. 266 del Regolamento).
Un altro dei passaggi più significativi delle nuove linee guida è quello relativo ai requisiti sul personale, fino ad ora così stringenti da impedire a circa il 90% dei professionisti di rimanere fuori dal mercato degli appalti. In questo caso l'Anac, rileva il Cnpi, fa delle corrette osservazioni operando una distinzione tra società e professionisti.
È così specificato che per i soggetti organizzati in forma societaria (società di professionisti e società di ingegneria) va considerato l'organico medio annuo negli ultimi tre anni, mentre per i liberi professionisti che «proprio per la loro natura giuridica non dispongono di un organico di personale/tecnici», il requisito va inteso come possesso delle unità minime stimate nel bando. Non solo perché i liberi professionisti potranno raggiungere il numero minimo di unità fissate nel bando di gara mediante la costituzione di un raggruppamento temporaneo di professionisti.
«Apprezziamo l'apertura dell'Autorità che nelle sue linee guida ha recepito moltissime richieste fatte dalla Rete delle professioni tecniche. Questa nuova determina è un ottimo punto di partenza per fare chiarezza in un settore dove si sono affastellate negli anni molteplici provvedimenti legislativi e per elaborare un moderno sistema di riferimento normativo nel settore dei lavori pubblici» (articolo ItaliaOggi del 13.03.2015).

INCARICHI PROGETTAZIONEProgettazione, requisiti più morbidi per gli appalti. Tetto sul fatturato al doppio dei contratti Compensi sempre in base ai parametri.
Anticorruzione. Linee guida Anac sull’assegnazione dei servizi di ingegneria e architettura.
Asticella più bassa per partecipare alle gare di progettazione, in modo da aprire le porte a giovani professionisti e piccoli studi. Compensi da determinare sempre con i parametri stabiliti dal decreto 143/2013, dopo l’abolizione delle vecchie tariffe.
Sono le due indicazioni chiave delle Linee guida per l’affidamento dei servizi di ingegneria e architettura licenziate ieri dall’Anac.

Il documento, atteso da mesi e su cui avevano cominciato a lavorare i vertici della soppressa Avcp, dopo la fase di consultazione, diventa ufficiale e prende la forma della determinazione 25.02.2015 n. 4.
Come prima cosa le linee guida spazzano via ogni dubbio sulla necessità che il valore degli incarichi da porre a base delle gare debba essere determinato facendo leva sui parametri introdotti dal decreto interministeriale 143/2013. L’obbligo riguarda non solo le gare per servizi di ingegneria e architettura, ma anche la quota di progettazione inclusa negli appalti integrati. Un vincolo finora poco rispettato dalle amministrazioni, che ora invece non potranno fare a meno di tenere conto delle indicazioni dell’Autorità guidata da Raffaele Cantone.
Anche sui requisiti arrivano indicazioni molto attese dai professionisti, che hanno a più riprese contestato la tendenza delle amministrazioni a prevedere nei bandi criteri di partecipazione talmente stringenti da tagliare fuori un’ampia fetta del mercato. La prima precisazione riguarda le soglie di fatturato. Il regolamento appalti (Dpr 207/2010) indica la possibilità di chiedere a studi e società di progettazione la dimostrazione di un fatturato (ottenuto nei 5 esercizi precedenti alla gara) compreso tra due e quattro volte l’importo dell'incarico da assegnare.
L’indicazione dell’Anac è di attestarsi sempre sul valore più basso della forbice, imponendo di motivare scelte diverse. Quindi mai richieste di fatturato superiori al doppio del valore della gara. Un parametro, sottolinea l’Autorità, in linea anche con le direttive Ue «secondo cui il requisito non dovrebbe di norma superare, al massimo, il doppio del valore stimato dell’appalto, salvo in circostanze debitamente giustificate». Per la dimostrazione dell'organico medio («da fissarsi in misura variabile tra 2 e 3 volte le unità stimate nel bando di gara») arriva la differenziazione tra liberi professionisti e società. Per queste ultime, più strutturate, il requisito va «inteso come organico medio annuo negli ultimi tre anni».
Per gli studi si dovrà fare riferimento alle unità minime del bando da raggiungere anche «mediante la costituzione di un raggruppamento temporaneo». Sempre puntando «a bilanciare opportunamente l’esigenza di avere un organico idoneo per l’espletamento dell'incarico con la necessità di garantire la più ampia partecipazione alla gara».
Il provvedimento prova anche a a districare i nodi legati alla diversa catalogazione dei progetti tra Dm parametri e vecchie tariffe. Mentre sui criteri di aggiudicazione arriva lo stop al massimo ribasso. Le linee guida confermano la preferenza dell’offerta più vantaggiosa che oltre al prezzo valuta le modalità di svolgimento dell’incarico, chiedendo alle Pa di abbandonare la logica dei super sconti che hanno portato ad aggiudicare servizi con ribassi-monstre, in alcuni casi superiori al 90 per cento
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROGETTUALILavori pubblici aperti ai giovani. Per l'affidamento dei servizi conterà la qualità del progetto. L'Autorità anticorruzione rivede i criteri di partecipazione dei professionisti tecnici
Il mercato dei lavori pubblici apre le porte ai giovani professionisti, anche titolari di singoli studi. Nelle gare per l'affidamento dei servizi di architettura e ingegneria, d'ora in poi, non varrà più il criterio dimensionale degli studi e del fatturato, ma la selezione di progetti di qualità: il singolo professionista potrà partecipare alle gare di appalto partecipando in raggruppamento temporaneo con altri liberi professionisti o con altri soggetti con cui può raggiungere la capacità organizzativa minima richiesta.
Nella gare poi varrà il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa e sarà obbligatorio determinare i compensi rifacendosi al, fino ad ora disatteso, decreto parametri (dm n. 143/2013) anche nell'appalto integrato.

Con la determinazione 25.02.2015 n. 4 in materia di nuove «Linee guida per l'affidamento dei servizi attinenti all'architettura e all'ingegneria», l'Autorità nazionale anticorruzione decide, così, di ridurre quelle barriere di fatturato e di curriculum che fino a ora avevano impedito l'accesso alle gare a oltre il 90% dei giovani professionisti. E accoglie nello stesso tempo parte delle richieste della Rete delle professioni tecniche che ritenevano necessario rivedere il quadro normativo dei lavori pubblici perché «frammentato da una serie di interventi legislativi». Non si fa attendere il plauso delle professioni tecniche che accolgono con grande favore le nuove disposizioni e minacciano di portare al Tar gli enti che non applicheranno le indicazioni sui requisiti o sul calcolo dei compensi.
Da oggi quindi si cambia e con la pronuncia dell'autorità guidata da Raffaele Cantone, che aggiorna e sostituisce la precedente (determinazione 07.07.2010, n. 5), si mette la parola fine alle gare affidate con il massimo ribasso con una scarsa qualità della progettazione e criticità in fase di realizzazione dell'opera, ma anche a richieste di fatturato oltre al doppio del valore della gara. Non solo, quindi, si legge nella determina «si considera congruo fissare un fatturato in misura pari al doppio dell'importo di gara» (...) ma anche «eventuali requisiti più stringenti devono essere debitamente motivati in relazione a specifiche e circostanziate esigenze».
Uno degli altri punti su cui si sofferma l'Autorità è quello relativo alle difficoltà di accesso al mercato da parte dei giovani professionisti, «soprattutto» ricorda l'Anac, «a causa di alcune norme, quali quella sul c.d. “organico minimo”, che impongono requisiti stringenti per la partecipazione alle gare». Secondo l'interpretazione dell'autorità mentre le società dovranno essere in possesso dell'organico medio annuo, «i professionisti, dovranno disporre di un organico, per lo specifico appalto, almeno pari al numero di unità stimate nel bando di gara per lo svolgimento dell'incarico».
Il singolo professionista inoltre potrà soddisfare tale requisito partecipando in raggruppamento temporaneo con altri professionisti per raggiungere la capacità richiesta (articolo ItaliaOggi dell'11.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTICentrale unica con esenzioni limitate.
L'obbligo per i comuni non capoluogo di ricorrere a una centrale unica di committenza non si applica ai contratti esclusi dal campo di applicazione del codice dei contratti e neppure alle concessioni di servizi. Rientrano, invece, le concessioni di lavori pubblici.

È uno dei chiarimenti forniti dall'Anac nella determinazione 25.02.2015 n. 3, che ha risolto alcuni dubbi interpretativi in merito alla disciplina di cui all'art. 33, comma 3-bis, del dlgs 163/2006.
Tale disposizione, come noto, impone ai comuni non capoluogo di provincia di acquisire lavori, servizi e forniture nell'ambito delle unioni di comuni (ove esistenti) ovvero facendo ricorso ad apposito accordo consortile o ancora ricorrendo a un soggetto aggregatore o alle province. Dopo la proroga sancita dal dl 192/2014, tale obbligo scatterà a partire dal prossimo 1° settembre.
Con riguardo all'ambito oggettivo di applicazione della disciplina in esame, l'Anac evidenzia come in esso rientrino tutte le acquisizioni di lavori, servizi e forniture, sia nei settori ordinari (ivi compresi i servizi di cui all'allegato IIA), che (in virtù dell'art. 206 del codice) nei settori speciali. Essa, invece, non si applica ai contratti esclusi dal campo di applicazione del codice, ai quali è riferito un numero limitatissimo di disposizioni delle stesso (v. parte I, titolo II del Codice) e alle concessione di servizi (art. 30 del codice).
Va tuttavia considerato che la disciplina giuridica di queste ultime unitamente a quella dei servizi dell'allegato IIB, subirà diverse modifiche per effetto del recepimento delle nuove direttive 2014/23/Ue e 2014/24/Ue. Per quanto concerne la concessione di lavori pubblici, l'art. 33, compreso il comma 3-bis, deve ritenersi operante, in forza di quanto disposto dall'art. 142, comma 3, del codice.
Secondo quest'ultima disposizione, infatti, «alle concessioni di lavori pubblici, nonché agli appalti di lavori pubblici affidati dai concessionari che sono amministrazioni aggiudicatrici, si applicano, salvo che non siano derogate nel presente capo, le disposizioni del presente codice», tra le quali è contenuto l'art. 33, la cui applicazione non viene derogata da nessun'altra disposizione. Per i lavori, comunque, si può adempiere alla previsione attraverso il conferimento da parte di un'unione di comuni o di un accordo consortile tra più comuni delle funzioni di stazione appaltante al provveditorato, eventualmente già individuato anche come soggetto che svolge le funzioni di stazione unica appaltante (Sua).
Altri chiarimenti importanti riguardano le centrali di acquisto costituite dagli stessi comuni. Secondo l'Anac, in tal caso, non si ravvisano elementi normativi che limitino territorialmente la formazione delle unioni, ovvero degli accordi consortili tra gli stessi, che, naturalmente dovrà avvenire nel rispetto delle disposizioni del Tuel. Inoltre, ai comuni associati è consentito comunque procedere all'acquisto secondo modalità alternative, purché contemplate dalla norma.
Ad esempio, un comune di popolazione inferiore a 10.000 abitanti può avvalersi delle funzioni di stazione appaltante di due enti distinti tra quelli contemplati al comma 3-bis, rispettivamente per l'acquisto di lavori, beni e servizi di importo inferiore o superiore a 40.000 euro. Infine, l'Anac ha affrontato la questione delle clausole, contenute nei bandi di gara o nelle lettere di invito, che prevedono a carico dell'aggiudicatario il pagamento di un corrispettivo a favore di alcune centrali di committenza fissato in percentuale rispetto al valore del prezzo di aggiudicazione, pena la revoca di quest'ultima ovvero impongono al concorrente di allegare espressa dichiarazione, con la quale si obbliga ad effettuare il suddetto pagamento in caso di aggiudicazione, a pena di esclusione.
L'Autorità ha adottato un atto di segnalazione al governo e al parlamento con cui sollecitare un intervento chiarificatore che precluda tale possibilità (articolo ItaliaOggi dell'11.03.2015).

INCARICHI PROGETTUALIIl rimborso spese? Non basta. Ai progettisti compensi adeguati al rilievo dell'opera. Delibera dell'Autorità nazionale anticorruzione smonta la procedura di un comune.
Il professionista che redige un progetto di un'opera pubblica non può essere remunerato con un semplice rimborso spese; illegittima la previsione di rimborsi perché violano i principi civilistici del decoro della professione e dell'adeguatezza all'importanza dell'opera.

È quanto afferma l'Autorità nazionale anticorruzione, presieduta da Raffaele Cantone, nella deliberazione 18.02.2015 n. 19 che prende in esame una complessa procedura amministrativa disposta da un comune delle Marche, relativa all'affidamento diretto di incarichi professionali per lavori di recupero edilizio e funzionale di una ex scuola media, finanziati con il piano nazionale di edilizia abitativa.
In particolare era stato conferito a tre professionisti l'incarico di progettazione preliminare per la realizzazione di alloggi per studenti fuori sede, per l'importo forfetario lordo totale di 2.000 euro, specificando che al pagamento degli onorari si sarebbe provveduto una volta finanziata l'opera e che «in caso contrario» si sarebbe «riconosciuto al professionista un rimborso spese di 2 mila euro».
Successivamente, finanziata l'opera, il comune sceglieva senza gara (e ad avviso dell'Anac senza motivazione congrua e adeguata) cinque professionisti (peraltro frazionando illegittimamente, sempre secondo l'Anac, in tre incarichi gli ulteriori livelli progettuali) per importi compresi fra 10 mila e 30 mila euro. La delibera dell'Autorità boccia in toto l'operato della stazione appaltante chiarendo che la corresponsione di un semplice rimborso spese, pari a 2 mila euro a fronte dell'espletamento di servizi di ingegneria (progettazione preliminare) «non è conforme alla normativa vigente in tema di affidamenti di servizi tecnici».
La delibera, oltre all'illegittimità della previsione per violazione della normativa vigente, sottolinea il fatto che si sia anche stabilito un rimborso veramente esiguo e incongruo rispetto al valore dell'intervento stimato con il progetto inizialmente proposto (stimato in 2.176.529 euro) e poi finanziato per 1.487.865 euro. Inoltre, l'esiguo rimborso spese previsto per la prestazione (progettazione preliminare) «potrebbe ritenersi in contrasto col principio stabilito dall'art. 2233, comma 2, del Codice civile secondo cui la misura del compenso deve essere adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione».
Rispetto poi al fatto che il comune abbia previsto che ai professionisti verrà riconosciuto il corrispettivo se l'opera verrà finanziata, l'Anac ribadisce (in aderenza alla determina 5/2010) che si tratta di clausola in palese violazione dell'articolo 91, comma 1 del codice.
La delibera Anac stabilisce quindi l'illegittimità di ogni bando di gara che, non soltanto subordina il pagamento dei corrispettivi all'avvenuto finanziamento dell'opera, ma prevede che si possa corrispondere per una progettazione un mero rimborso spese (nel caso specifico 2 mila euro per studio di fattibilità/progetto preliminare), invece del compenso derivante dalla negoziazione o dall'esito dell'offerta presentata in una procedura di gara (articolo ItaliaOggi del 05.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA:
... In base a quanto sopra considerato, DELIBERA:
• che non risulta coerente con le disposizioni di cui all’art. 92, comma 1, del d.lgs. 163/2006 la corresponsione di un semplice rimborso spese, pari ad € 2.000,00 a fronte dell’espletamento di servizi di ingegneria (progettazione preliminare);
•che la mancata indicazione della motivazione del ricorso a professionisti esterni, previo accertamento e certificazione del responsabile del procedimento, risulta in contrasto con l’art. 90, comma 6, del d.lgs.163/2006,
• che non sono state indicate dalla S.A. le modalità di selezione dei professionisti affidatari e le motivazioni di scelta dei professionisti stessi, in contrasto coi principi generali di trasparenza, parità di trattamento, libera concorrenza e pubblicità di cui all’art. 2 del Codice dei Contratti;
• che il frazionamento dell’unitarietà dell’incarico, con il conseguente ricorso all’affidamento diretto di servizi di ingegneria per una somma complessiva superiore al limite di € 100.000,00, appare violare quanto disposto dall’art. 91, comma 1, del d.lgs 163/2006;
• che risulta la non rispondenza delle nuove statuizioni introdotte nel regolamento di ripartizione dell’incentivo per la progettazione, direzione lavori, contabilità e collaudo a criteri di trasparenza ed economicità oltre alla non coerenza con quanto previsto dall’art. 92, comma 5, del Codice dei Contratti.

APPALTINell’appalto anche senza tassa. Manca il contributo all’Anac ma esclusione illegittima. Parere dell’Authority anticorruzione fa chiarezza su un bando di gara controverso.
È illegittimo escludere il concorrente di un appalto pubblico che non abbia versato all’Anac il contributo per la partecipazione alla gara, se il bando di gara aveva precisato che non era dovuto; prevale il principio del legittimo affidamento.

È quanto afferma l’Autorità nazionale anticorruzione con il parere di precontenzioso 22.12.2014 n. 114, reso disponibile in questi giorni.
La vicenda esaminata in sede di precontenzioso concerneva l’esclusione di un concorrente che non aveva pagato il contributo necessario per partecipare a gare pubbliche di cui alla deliberazione Anac del 05.03.2014, dal momento che il bando di gara aveva precisato che «nessun contributo è dovuto dai partecipanti a favore dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici».
Ciononostante la stazione appaltante lo aveva comunque escluso per violazione di un adempimento necessario (effettivamente l’importo della gara, superiore a 150 mila euro, avrebbe richiesto il pagamento del contributo). Come regola generale, infatti, l’omesso versamento all’Anac della «tassa» prevista ai fini della partecipazione alle gare costituisce causa di esclusione rientrante in una delle fattispecie tassative di cui all’articolo 46, comma 1-bis del codice dei contratti pubblici, come mancato adempimento alle prescrizioni previste dal Codice, dal regolamento attuativo e da altre disposizioni di legge vigenti.
L’Autorità, investita del «precontenzioso» da parte del concorrente escluso, boccia però l’operato della stazione appaltante affermando che in presenza di una clausola secondo cui non è dovuto alcun contributo all’Autorità, il concorrente che non abbia versato il contributo, confidando nella legittimità della clausola, non può essere poi escluso dalla partecipazione alla procedura per tale mancato versamento.
Prevale quindi la tutela del legittimo affidamento ingenerato dall’erronea clausola del bando e della massima partecipazione alle gare, secondo cui l’errore commesso dalla stazione appaltante non può produrre effetti lesivi sul concorrente, né può determinarne l’esclusione dalla partecipazione alla gara.
Irrilevante è poi il fatto che nella stessa gara altri concorrenti abbiano corrisposto il contributo è proprio questo ulteriore elemento a confermare la capacità di indurre in errore insita nella clausola del bando e la conseguente inapplicabilità della causa di esclusione (articolo ItaliaOggi del 04.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA: Il nuovo Ape avrà tutti i servizi. Certificati climatizzazione, ventilazione e illuminazione. Lo Sviluppo economico cambia modello e contenuti dell'Attestato di prestazione energetica.
L'attestato di prestazione energetica sta per cambiare volto sia nel modello sia nei contenuti. Saranno introdotti nuovi metodi di calcolo delle prestazioni energetiche degli edifici e l'indice di prestazione energetica globale dell'edificio e la conseguente classe saranno finalmente determinati in funzione di tutti i servizi presenti nell'edificio (climatizzazione estiva, climatizzazione invernale, illuminazione, ventilazione e acqua calda sanitaria).

Queste le novità contenute nelle nuove linee guida nazionali (Mise, Infrastrutture e Ambiente) per l'attestato di prestazione energetica che sostituirà il decreto dello Sviluppo economico del 26.06.2009 (si veda ItaliaOggi del 24/01/2015).
Applicazione uniforme. Le nuove linee guida si applicheranno alle regioni e province autonome che non avranno ancora recepito la direttiva 2010/31/Ue. Una delle finalità delle nuove linee guida sarà rendere più omogenea e coordinata l'applicazione delle norme per l'efficienza energetica su tutto il territorio nazionale, a oggi estremamente frastagliata a causa dell'autonomia regionale .
Esclusione obbligo Ape. Sarà eliminata la possibilità da parte del proprietario di autocertificare l'appartamento se di cattiva qualità energetica al momento della compravendita. Conseguentemente è stata maggiormente dettagliata la casistica degli edifici esentati dalla certificazione energetica escludendo dagli obblighi quegli edifici per cui risulta tecnicamente non possibile o non significativo procedere alla certificazione energetica. Saranno esclusi dall'obbligo di certificazione energetica i ruderi, gli immobili invenduti nello stato di «scheletro strutturale», i box, le cantine, le autorimesse, i parcheggi multipiano, depositi e strutture stagionali a protezione degli impianti sportivi. Nell'atto notarile di trasferimento della proprietà dovrà essere inserita esplicita dichiarazione dello stato di rudere.
Scostamento massimo. Gli strumenti di calcolo, o software commerciali per l'applicazione delle metodologie, dovranno garantire che i valori degli indici di prestazione energetica, calcolati attraverso il loro utilizzo, abbiano uno scostamento massimo del 5% rispetto ai corrispondenti parametri determinati con l'applicazione dello strumento nazionale di riferimento. Il comitato termotecnico italiano predisporrà lo strumento nazionale di riferimento sulla cui base verrà fornita una apposita garanzia.
Indice di prestazione energetica. L'indice di prestazione verrà sempre valutato in kWh/m2 di superficie climatizzata, sia per gli edifici residenziali sia per i non residenziali. L'attestato di prestazione energetica conterrà quindi gli indici per la climatizzazione estiva e per l'illuminazione degli ambienti e verrà chiaramente l'energia esportata alla rete. Al termine della certificazione energetica si aggiungerà un'apposita sezione dedicata alle opportunità legate all'esecuzione di diagnosi energetiche e interventi di riqualificazione energetica al fine di rendere più concrete le raccomandazioni già dichiarate sul certificato (articolo ItaliaOggi del 17.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

COMMERCIO - SUAP: Aperture, ora la Scia vale doppio.
La segnalazione certificata di inizio di attività (Scia) è un istituto che consente al soggetto interessato non solo di attestare il possesso dei requisiti richiesti dalla disciplina di settore ai fini dell'avvio e dell'esercizio dell'attività, ma anche di segnalare che, sulla base appunto di dette certificazioni, l'attività è contestualmente avviata.

Sono questi i chiarimenti contenuti nella risoluzione 10.11.2014 n. 197841 di prot. del Ministero dello sviluppo economico emanata in risposta a un quesito posto da una regione in merito al rispetto dei termini di avvio delle attività soggette a Scia.
Anche se l'attività oggetto della Scia può essere iniziata dal giorno della presentazione della segnalazione stessa all'amministrazione competente, ciò non rappresenta un obbligo in quanto, stante il dettato normativo, la decisione è rimessa all'imprenditore.
Tuttavia, secondo i tecnici MiSe anche in assenza di previsione espressa, l'attività oggetto della Scia deve essere avviata entro un termine congruo, tale da consentire l'attività di controllo da parte dell'amministrazione competente prevista dal comma 3, dell'art. 19, della legge n. 241/1990.
Ricordiamo, infatti, che secondo quanto stabilito al citato comma 3, l'amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti previsti, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della Scia, è tenuta ad adottare «motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo che, ove ciò sia possibile, l'interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività e i suoi effetti entro un termine fissato dall'amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta giorni».
Secondo il MiSe in caso di avvio dell'attività non contestuale alla presentazione della Scia, il limite dei sessanta giorni, indicato al citato comma 3 dell'articolo 19, deve essere calcolato a partire dall'avvio dell'attività (articolo ItaliaOggi del 17.03.2015).

APPALTI: Appalti, dati sui prezzi all’Anac entro giovedì. Acquisti. Obbligo di invio per tutte le Pa.
Le amministrazioni pubbliche hanno tempo sino al 19 marzo per inviare all’Anac i dati su un’ampia serie di acquisti di beni e servizi, finalizzati all’elaborazione dei prezzi di riferimento.
Con un comunicato di ieri, l’Autorità ha fissato il termine definitivo entro il quale devono essere trasmesse le informazioni necessarie per la composizione dei valori destinati a costituire i parametri orientativi per le acquisizioni di forniture e di prestazioni, secondo le previsioni della deliberazione 22/2014.
L’adempimento riguarda tutte le Pa che abbiano proceduto ad affidamenti dal 01.01.2013, fatta eccezione per quelle che, dalla stessa data, hanno aderito a convenzioni o accordi-quadro per le stesse tipologie di beni e servizi.
Ogni soggetto pubblico deve comunicare gli acquisti relativi a forniture abbastanza eterogenee, tuttavia caratterizzate da un elemento comune: l’elevato livello di standardizzazione. Rientrano infatti nella rilevazione, per esempio, le forniture di risme di carta, le stampanti, le fotocopiatrici e gli autoveicoli, i servizi di facility management, i Pc e le licenze per programmi informatici.
Peraltro, molte tipologie di beni e servizi tra quelle sottoposte al riscontro sono oggetto di convenzioni Consip o delle centrali di committenza, nonché rientrano nei bandi abilitanti del Mepa, per cui è probabile che il dato complessivo dia stato inciso dall’adozione di queste soluzioni di acquisto, in molti enti ormai prevalenti sulle procedure tradizionali.
Gli appalti oggetto della comunicazione devono essere individuati mediante il Cig o lo smart Cig, e il soggetto tenuto all’adempimento è il responsabile unico del procedimento
Molte delle tipologie di acquisti sono riferite alle categorie assoggettate ad acquisto obbligatorio in base all’articolo 1, comma 7, della legge 135/2012, come le forniture di carburante e di energia elettrica, tanto che la rilevazione diventa per le Pa anche l’occasione di una verifica della piena rispondenza alla norma delle proprie procedure d’acquisto.
Una volta acquisiti i dati, l’Anac elaborerà i prezzi di riferimento per le singole categorie di bandi, che costituiranno elemento vincolante per le stazioni appaltanti, sia con riguardo alle procedure più complesse (si pensi agli appalti di global service) sia per gli affidamenti mediante procedure semplificate. L’elaborazione dell’Anac sarà anche un valido strumento di benchmarking per le amministrazioni.
Sempre ieri, l’Anac ha chiarito che le candidature per entrare nell’elenco dei soggetti aggregatori, disciplinate dalla determinazione 2/2015, possono essere presentate solo da chi rispetta il requisito di aver gestito bandi per almeno 200 milioni (non 20 milioni, come scritto per errore nel comunicato) nel triennio 2011/2013 e per almeno 50 milioni all’anno. Il termine per la presentazione delle candidature scade il 16 aprile
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parafulmini con valutazione di necessità. Sicurezza. Prevenzione e tecnologie.
Un fulmine che colpisce un «volume edilizio» può causare danni all’edificio, ai suoi occupanti e al suo contenuto, in particolare agli impianti interni e alle apparecchiature elettriche ed elettroniche. I danni possono estendersi anche nelle vicinanze e talvolta, possono interessare l’ambiente (terreno circostante, infrastrutture eccetera).
Il principale riferimento legislativo è costituito dal Dm del 22.01.2008. Il comma 2.d dell’articolo 5 chiarisce che gli impianti di protezione dalle scariche atmosferiche sono soggetti a progettazione obbligatoria, da parte di professionista iscritto agli albi professionali, quando sono installati in edifici di volume superiore a 200 metri cubi. La normativa tecnica (Cei En 62305 - 1 - 2 – 3 – 4 eccetera) prevede due tipi di protezione e cioè: un impianto di protezione esterno (captatori, calate, dispersori) e un impianto di protezione interno (scaricatori di tensione, collegamenti equipotenziali).
La decisione di proteggere un edificio o un servizio, contro i fulmini, e la scelta del tipo di protezione deve essere stabilita in base alla valutazione del rischio, che prende in considerazione:
a) identificazione dell’oggetto da proteggere e le caratteristiche;
b) individuazione di tipi di perdita e i corrispondenti rischi (nel caso di edifici pregevoli trattasi di rischio materiale ovvero di patrimonio insostituibile);
c) valutazione della necessità di protezione confrontando il rischio derivante con quello tollerabile;
d) valutazione della convenienza economica della protezione confrontando il costo della perdita con o senza protezione.
Se il rischio derivante è minore del rischio tollerabile, la protezione contro i fulmini può non essere necessaria e la struttura è definita «autoprotetta». Invece, se il rischio derivante è maggiore del rischio tollerabile, la protezione contro i fulmini è necessaria e bisogna installare un adeguato impianto per ridurre il rischio a valori accettabili. Le relative spese vengono deliberate dall’assemblea condominiale e sono detraibili dall’Irpef dei singoli condòmini al 50% in rate decennali.
È evidente che tutte le «strutture» devono essere comunque sottoposte a verifica e valutazione del rischio da parte di professionista iscritto all’albo professionale e che nell’ipotesi (come è molto verosimile per gli edifici pregevoli) che l’edificio debba essere «protetto», il sistema di protezione adottato deve essere conforme alla regola d’arte ovvero alle norme tecniche del Ce i.
Effettivamente la «progettazione» deve essere preceduta da una relazione di valutazione del rischio, redatta da un tecnico abilitato, sulla base dell’analisi dei danni che possono essere provocati dal fulmine (danni agli esseri viventi, danni materiali all’edificio, guasti agli impianti e apparati elettici ed elettronici) e alle relative perdite che questi possono produrre. La valutazione del danno è fatta su base probabilistica, anche in base a predeterminati coefficienti che, in funzione delle caratteristiche dell’edificio e del servizio, vengono assunti dal «tecnico abilitato».
Bisogna ancora segnalare che gli edifici sottoposti a tutela in base al decreto legislativo 22/2004, aperti al pubblico, destinati a contenere biblioteche e archivi, musei, gallerie, esposizioni e mostre, rientrano nelle attività destinate al controllo di prevenzione incendi di cui al Dpr 151/2011 e come tali soggette alle specifiche norme che sistematicamente prevedono la valutazione del rischio di fulminazione e l’adozione di misure per la protezione contro i fulmini.
Inoltre, quando nell’edificio si svolgono attività soggette alle vigenti norme di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, ai sensi dell’articolo 84 del Dlgs 81/2008, il datore di lavoro ha l’obbligo di provvedere affinché gli edifici, gli impianti, le strutture, le attrezzature, siano protetti dagli effetti dei fulmini realizzati secondo le norme tecniche
 (articolo Il Sole 24 Ore del 17.03.2015).

APPALTI: Fatture alla p.a., al traguardo il passaggio da carta a online. Dal 31 marzo andrà a regime l'obbligo per tutti fornitori (tranne quelli stabiliti all'estero).
Addio alla carta per la fatturazione alle pubbliche amministrazioni: dal 31 marzo prossimo andrà a regime l'obbligo della fattura elettronica per tutti i fornitori, con la sola eccezione di quelli stabiliti all'estero.
Giunge così a completamento il lungo percorso avviato oltre otto anni fa dalla legge n. 244/2007, svoltosi nel solco dell'evoluzione tecnologica e del passaggio all'amministrazione digitale. Un cammino segnato da varie tappe, la penultima delle quali è datata 06.06.2014, quando la fattura elettronica divenne obbligatoria nei rapporti con ministeri, agenzie fiscali e enti nazionali di previdenza e assistenza. A meno di un anno siamo ora al traguardo definitivo della generalizzazione della fattura elettronica nelle transazioni che vedono come destinatario un soggetto pubblico individuabile in base agli specifici riferimenti normativi, oppure incluso nell'elenco compilato dall'Istat ai fini del conto economico consolidato.
La platea è dunque molto più ampia rispetto a quella interessata dallo speciale meccanismo Iva dello «split payment», includendo anche numerosi soggetti di diritto privato (es. Sogei Spa, Equitalia, fondazioni lirico-sinfoniche ecc.). Come sottolinea la circolare congiunta 09.03.2015 n. 1 finanze-funzione pubblica, questa platea deriva dalla somma dei destinatari individuati dalle diverse norme di legge, spesso sovrapponibili in quanto il medesimo ente rientra in più disposizioni, mentre non è limitata ai soggetti compresi nell'elenco Istat, il quale rappresenta soltanto una delle fonti.
L'ambito dei soggetti pubblici destinatari della fattura elettronica, consultabile all'indirizzo web indicepa.gov.it, comprende al momento quasi 22 mila enti, articolati in oltre 68 mila unità organizzative. A fare la parte del leone i comuni e loro consorzi (oltre 8 mila) e gli istituti scolastici (oltre 9 mila). E si tratta di un elenco ancora incompleto, tanto che il ministro Padoan lunedì scorso ha inviato una lettera ai sindaci e ai presidenti di regioni e province, per sollecitare, in vista del termine di fine marzo, l'esecuzione delle attività tecnico-amministrative necessarie alla fatturazione elettronica, inclusa l'informazione ai fornitori. Ma rivediamo le peculiari caratteristiche della fattura elettronica alla pubblica amministrazione.
Specialità della «fattura elettronica p.a.». Secondo l'art. 1, comma 209, della legge n. 244/2007, l'emissione, la trasmissione, la conservazione e l'archiviazione delle fatture emesse nei rapporti con le amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, della legge n. 196/2009, nonché con le amministrazioni autonome, deve avvenire esclusivamente in forma elettronica. Il regolamento con le disposizioni di attuazione è stato adottato con dm n. 55 del 03.04.2013.
Questo regolamento, discostandosi sotto più aspetti dalla norma generale dell'art. 21 del dpr 633/1972, che definisce fattura elettronica il documento emesso e ricevuto in qualsiasi formato elettronico e prevede che l'autenticità della fattura possa essere garantita anche mediante controlli di gestione, stabilisce invece che le fatture elettroniche emesse nei confronti delle pubbliche amministrazioni devono essere rappresentate in file Xml; nell'allegato B al regolamento, contenente le regole tecniche, viene precisato che il file deve essere sottoscritto con firma elettronica qualificata o digitale.
Le fatture devono contenere le indicazioni riportate nell'allegato A al dm, nonché i seguenti elementi prescritti dall'art. 25 del dl n. 66/2014:
- il Codice identificativo di gara (Cig), tranne i casi di esclusione dall'obbligo di tracciabilità di cui alla legge n. 136/2010
- il Codice unico di progetto (Cup), in caso di fatture relative a opere pubbliche, interventi di manutenzione straordinaria, interventi finanziati da contributi comunitari, nonché quando previsto ai sensi dell'art. 11 della legge n. 3/2003.
In mancanza di detti codici, le pubbliche amministrazioni non possono procedere al pagamento delle fatture elettroniche.
Anche l'emissione, trasmissione e ricevimento delle fatture elettroniche alla p.a. seguono regole particolari, definite nel già citato allegato B al regolamento. È previsto, tra l'altro, che la trasmissione del file deve effettuarsi tramite uno dei seguenti canali:
- sistema Pec o analogo sistema basato su tecnologie che certifichino data e ora dell'invio e della ricezione, nonché integrità del contenuto delle fatture;
- sistema di cooperazione applicativa su rete internet attraverso protocollo Https;
- sistema di cooperazione applicativa tramite porte di dominio su rete Spc (Sistema pubblico connettività);
- sistema di trasmissione dati tra terminali remoti basato su protocollo FTP all'interno di circuiti chiusi e garantiti;
- sistema di trasmissione telematica su rete internet attraverso protocollo Https per i soggetti accreditati.
La fattura elettronica p.a. si considera trasmessa e ricevuta solo a fronte del rilascio della ricevuta di consegna da parte del sistema di interscambio (Sdi) gestito dall'agenzia delle entrate per il tramite della Sogei, al quale le fatture elettroniche devono essere inviate per il successivo inoltro agli enti destinatari, ognuno dei quali è identificato da un codice univoco.
Secondo la circolare congiunta 09.03.2015 n. 1 finanze-funzione pubblica, qualora il fornitore, non avendo ricevuto alcuna comunicazione da parte dell'amministrazione, abbia rilevato l'assenza della stessa in Ipa (indice pubbliche amministrazioni), il codice ufficio da inserire in fattura può assumere il valore di default indicato nelle specifiche allegate al dm 55/2013. In proposito, le specifiche allegate al decreto ricordano che «la mancata comunicazione degli elementi necessari al completamento dell'indice e del loro aggiornamento è valutata ai fini della responsabilità dirigenziale e dell'attribuzione della retribuzione di risultato ai dirigenti responsabili».
La citata circolare evidenzia poi l'opportunità di individuare disgiuntamente le condizioni alle quali la fattura elettronica può ritenersi emessa dal fornitore e ricevuta dal destinatario, in considerazione della particolarità rappresentata dalla frapposizione, fra i due soggetti, del Sdi; di conseguenza, per quanto riguarda il fornitore, la fattura può considerarsi emessa ai sensi della normativa fiscale (quindi agli effetti del rispetto del termine previsto dalla legge Iva) anche nel caso in cui il Sdi notifichi all'emittente un messaggio di mancata consegna del documento.
Gli operatori economici possono avvalersi di intermediari per la trasmissione, la conservazione e l'archiviazione delle fatture elettroniche. Al fine di evitare che l'obbligo gravi economicamente in modo eccessivo sugli assoggettati, il regolamento ha imposto al ministero dell'economia di predisporre e mettere gratuitamente a disposizione delle piccole e medie imprese, sul proprio portale elettronico, i servizi e gli strumenti informatici di supporto per la generazione delle fatture elettroniche; inoltre, l'agenzia per l'Italia digitale mette a disposizione, sempre gratuitamente, il supporto per lo sviluppo di strumenti informatici «open source» per la fatturazione elettronica. Questi servizi sono disponibili nel portale degli acquisti della pubblica amministrazione, all'indirizzo www.acquistinretepa.it. Possono avvalersene coloro che dichiarano di appartenere alla categoria delle piccole e medie imprese (pmi) secondo i requisiti previsti dalla raccomandazione della Commissione europea 2003/361/Ce del 6 maggio 2003, ossia:
- numero di dipendenti non superiore a 250;
- fatturato dell'ultimo bilancio chiuso non superiore a 50 milioni di euro;
- totale di bilancio (attivo patrimoniale) non superiore a 43 milioni di euro.
Le informazioni normative e tecniche sulla fatturazione elettronica sono reperibili sul sito www.fatturapa.gov.it, nel quale è possibile, tra l'altro, effettuare il controllo dei file di fattura elettronica, visualizzare i messaggi del Sdi, accreditare il canale di trasmissione che si intende utilizzare, inviare la fattura via web e di monitorarla dopo l'emissione. Dal sito è inoltre scaricabile il «modulo di fatturazione attiva» reso disponibile dalla Regione Lazio.
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Conservazione gravosa per i più piccoli.
L'art. 39, terzo comma, del dpr 633/1972 stabilisce che le fatture elettroniche «sono conservate in modalità elettronica», secondo le disposizioni del dm 17.06.2014. Questo obbligo, che pure si inquadra nella gestione naturale, completamente automatizzata, dei documenti immateriali, finisce per rappresentare, allo stato attuale, un aggravio per molti contribuenti, soprattutto di piccole dimensioni, che alla fatturazione elettronica verso la p.a. continueranno ad affiancare quella cartacea nei confronti degli altri clienti.
In tal caso, infatti, si renderà opportuno, se non necessario, adottare distinte serie di numerazione delle due tipologie di fatture; si dovrà inoltre monitorare «manualmente» la fatturazione elettronica, ai fini delle liquidazioni periodiche dell'Iva.
Se la fatturazione elettronica è affidata all'esterno, inoltre, parrebbe obbligatorio darne comunicazione all'agenzia delle entrate mediante una variazione dati, ai sensi dell'art. 35, dpr 633/1972, onde segnalare l'incaricato del servizio quale depositario del registro elettronico delle fatture emesse. Su tali aspetti non risultano al momento indicazioni ufficiali aggiornate (articolo ItaliaOggi Sette del 16.03.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti, imprese all'appello Mud. Tenuto alla comunicazione anche chi opera con il Sistri. Si avvicina l'appuntamento annuale (30 aprile) con la dichiarazione ambientale.
Si avvicina il termine del 30.04.2015 entro il quale produttori, commercianti e gestori di rifiuti, compresi quelli che operano in Sistri, nonché i fornitori di apparecchiature elettriche ed elettroniche dovranno effettuare la rituale comunicazione annuale Mud in relazione, rispettivamente, a residui e beni oggetto delle loro attività nel corso del 2014.
Le regole procedurali e la modulistica per adempiere all'obbligo in scadenza sono quelle dettate dal dpcm 17.12.2014 (pubblicato S.o. n. 97 alla G.U. del 27/12/2014 n. 299), provvedimento che ha confermato l'impianto della precedente comunicazione (ex dpcm 12.12.2013) seppur ritoccando in alcuni punti il modello unico di dichiarazione da utilizzare.
Soggetti obbligati. Le categorie dei soggetti tenuti alla denuncia sono scandite dalle sei sezioni previste dal nuovo dpcm 2014 (sulla base dei rispettivi provvedimenti di settore che declinano l'obbligo istituito dalla legge 70/1994), ossia: «Comunicazione rifiuti» (ex dlgs 152/2006 e dlgs 182/2003), «Veicoli fuori uso» (ex dlgs 209/2003), «Imballaggi» (ex dlgs 152/2006), «Raee» (ex Dlgs 49/2014), «Rifiuti urbani, assimilati e raccolti in convenzione» (ex dlgs 152/2006), «Produttori di Aee» (ex dlgs 49/2014).
Obbligati, in particolare, alla comunicazione rifiuti sono (ex articolo 189 del dlgs 152/2006, nella formulazione precedente alle modifiche introdotte dal dlgs 205/2010, come più avanti precisato):
- enti e imprese produttori iniziali di rifiuti pericolosi (ad eccezione di imprese agricole con fatturato annuo ? 8 mila euro) e, qualora aventi più di 10 dipendenti, produttori iniziali di rifiuti non pericolosi ex articolo 184, comma 3, lettere c), d), g) del dlgs 152/2006 (ossia, da lavorazioni industriali e artigianali, da attività di recupero/smaltimento di residui prodotti da trattamento acque e abbattimento fumi);
- soggetti che effettuano raccolta e trasporto rifiuti a titolo professionale (ossia prodotti da terzi); enti ed imprese che effettuano operazioni di recupero e smaltimento rifiuti (compresi i «nuovi produttori», ossia coloro che ex articolo 183 effettuano operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che modificano natura o composizione dei rifiuti); commercianti e intermediari di rifiuti senza detenzione.
Tenuti alla stessa comunicazione rifiuti sono, in base al dlgs 182/2003, i gestori degli impianti portuali di raccolta e del servizio di raccolta dei rifiuti prodotti dalle navi e dei residui del carico.
Esclusi dalla comunicazione, invece i produttori che conferiscono i rifiuti speciali al servizio pubblico di raccolta previa convezione, gli operatori del settore estetico (articolo 40 della legge 214/2011), i distributori e gestori di centri assistenza Aee che ritirano «uno contro uno» gli analoghi Raee e i relativi trasportatori incaricati individuati dal decreto 65/2010.
Obbligati alla comunicazione veicoli sono invece i responsabili degli impianti di trattamento di mezzi fuori uso e relativi componenti contemplati dal dlgs 209/2003 (mentre i veicoli rientranti nel campo di applicazione del decreto legislativo 152/2006 vanno denunciati nella comunicazione rifiuti).
La comunicazione imballaggi interessa invece il Conai (Consorzio nazionale imballaggi) nonché gli organismi ex articolo 221, comma 3, dlgs 152/2006 che effettuano gestione di rifiuti di imballaggio e gli impianti autorizzati alla gestione di rifiuti di imballaggio ex medesimo Codice ambientale.
Alla specifica comunicazione Raee soggiacciono i titolari di impianti di trattamento e recupero dei tecno-rifiuti nonché i gestori dei relativi centri di raccolta ex articolo 19, comma 6, dlgs 49/2014 (gli analoghi materiali rientranti nel campo di applicazione del dlgs 152/2006 devono invece essere dichiarati nella comunicazione rifiuti).
La comunicazione rifiuti urbani è appannaggio dei soggetti istituzionali responsabili servizio di gestione integrata rifiuti, che devono ivi dichiarare anche i Raee raccolti nei propri centri di raccolta. La comunicazione «produttori Aee» riguarda, infine, i produttori di Aee individuati dall'articolo 29, comma 6, dlgs 49/2014.
La modulistica. Sostanzialmente allineata a quella dell'edizione 2013 la modulistica prevista dal dpcm 17.12.2014, con alcune novità compilatorie.
Tra le più rilevanti, l'obbligo di dichiarare separatamente in base alla destinazione finale (recupero o smaltimento) i rifiuti ancora in giacenza presso la struttura al 31.12.2014 (novità prevista nei moduli delle comunicazioni rifiuti, veicoli fuori uso, imballaggi e Raee) e una maggiore analiticità nella descrizione dello stato fisico dei residui prodotti o gestiti, con l'esordio della nuova voce «vischioso e sciropposo» nella scheda comunicazione rifiuti.
Gli operatori Sistri. Qualora rientranti tra i più sopra evidenziati soggetti, tenuti alla corrente dichiarazione Mud sono anche coloro che utilizzano, per obbligo di legge o su base volontaria (ex articolo 188-ter del dlgs 152/2006 o dlgs 209/2003), il nuovo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti.
La prescrizione deriva dal dl 101/2013 (come, da ultimo, modificato dal dl 192/2014), provvedimento che obbliga fino al 31.12.2015 i soggetti operanti in Sistri a osservare anche le regole sul tradizionale tracciamento dei rifiuti imposte dagli articoli 189 (Mud), 190 (registri di carico/scarico) e 193 (formulario di trasporto) del dlgs 152/2006 nella versione precedente alle modifiche introdotte dal dlgs 205/2010 (modifiche, queste ultime, disposte per allineare le regole del Codice ambientale alle nuove regole telematiche ma la cui effettiva vigenza scatterà solo dal 01.01.2016).
Modalità di comunicazione. La presentazione della dichiarazione dovrà essere effettuata per via telematica secondo le istruzioni del dpcm 17.12.2014, con l'opzione di una modalità «semplificata» (inoltro della modulistica cartacea) per i piccoli produttori iniziali di rifiuti (non più di sette tipologie di rifiuti per unità locale, con utilizzo fino a tre trasportatori e fino a tre destinatari finali) (articolo ItaliaOggi Sette del 16.03.2015).

SICUREZZA LAVORO: Prevenzione degli infortuni. I criteri fissati dalla Cassazione sul documento.
Solo la data certa «blinda» la delega sulla sicurezza. Il trasferimento di funzioni dal datore impone requisiti specifici.

La delega di funzioni in materia di sicurezza sul lavoro deve risultare da un atto scritto, con data certa, e avere una serie di requisiti che sono essenziali per poter liberare il datore di lavoro da responsabilità rilevanti in caso di danno alla salute.
La delega può aiutare a organizzare meglio i compiti legati alla sicurezza sul lavoro e, allo stesso tempo, sgravare il datore per la sicurezza: infatti non è solo un efficace strumento di organizzazione per tutte le strutture con un minimo di complessità, ma anche un atto con effetti giuridici rilevanti.
Vediamo, dunque, quali sono i “paletti” fissati dalla Cassazione per evitare errori e rischi nel predisporre la delega.
Il significato organizzativo
Considerando dapprima la prospettiva di management, una delega consiste nel trasferimento, da parte di un manager e verso un dipendente, di proprie attività, espresse in termini di obiettivi da raggiungere e di ambiti decisionali. Nel management safety, in particolare, i benefici organizzativi di questa attribuzione sono potenzialmente molteplici: ad esempio, distribuire compiti e obiettivi in una specifica sotto-materia, creare un’organica struttura per la sicurezza, promuovere una gestione attenta della prevenzione in determinate aree aziendali, responsabilizzare i capi, ridurre il carico decisionale e di controllo diretto del vertice della sicurezza.
I confini giuridici
La delega di funzioni è presa in considerazione anche dal diritto, soprattutto nella tutela della salute lavorativa. Gli articoli 16 e 17 del decreto legislativo 81/2008 riconoscono l’efficacia del suo utilizzo, le danno una denominazione specifica e ne regolano alcuni aspetti di base.
La giurisprudenza, poi, ne rafforza l’utilità, precisando che, se lo strumento rispetta i canoni di legge, determina effetti sulla responsabilità penale sia del datore-delegante sia del delegato.
Le conseguenze
Attraverso un’idonea delega di funzioni il datore, come puntualizza la Cassazione penale (sezione quarta, sentenza 41063/2012), «ha la possibilità (...) di trasferire in capo ad altro soggetto poteri ed obblighi originariamente appartenenti al delegante in materia di sicurezza sul lavoro», con l’effetto giuridico rilevantissimo di «sollevarlo dall’obbligo di prevenzione, altrimenti su di lui gravante» (Cassazione penale, sentenza 38111/2010).
Un atto di delega, tuttavia, non annulla il ruolo di protezione del datore-delegante per la sicurezza, dal momento che permane in lui, comunque, parte dell’originaria posizione di garanzia ai fini della sicurezza lavorativa, con eventuali conseguenze sul piano della responsabilità.
La delega gestoria
La delega di funzioni è adatta a qualsiasi organizzazione complessa e regolata dal decreto legislativo 81/2008, ma è uno strumento differente, in senso giuridico e organizzativo, dalla «delega gestoria» prevista dall’articolo 2381 del Codice civile, strumento esclusivo delle società di capitali.
In questo ambito organizzativo, il primo tipo di delega, infatti, può essere utilizzato, come in tutte le organizzazioni, per modellare l’organigramma dirigenziale ed esecutivo posto sotto il datore di lavoro per la sicurezza (che nelle società di capitali è, originariamente, l’intero consiglio di amministrazione).
La seconda delega, propria solo delle società di capitali, incide invece sull’assetto organizzativo del consiglio di amministrazione, suddividendo le macro-attribuzioni amministrative all’interno di quell’organo.
Così, la delega gestoria, ove riguardi deleghe di attribuzioni in materia di sicurezza sul lavoro, produce conseguenze sulla concreta individuazione del datore di lavoro per la sicurezza (si veda la sentenza della Cassazione, quarta sezione penale, n. 21628/2013), quindi a monte dell’altra delega.
La delega di secondo livello
Il legislatore (articolo 16, comma 3-bis del Dlgs 81/2008), ha previsto anche la «sub-delega» di funzioni, vale a dire la possibilità di un trasferimento di attività anche da parte del delegato.
Quest’ultimo, d’intesa con il datore, può delegare, a sua volta, parte delle funzioni che gli sono state delegate, nel rispetto, però, della disciplina legislativa prevista per la delega primaria.
Come dispone l’articolo 16, comma 3, ultimo periodo, del Dlgs 81/2008, dopo la sub-delega, la catena organizzativa, tuttavia, non può ulteriormente allungarsi, almeno in senso giuridico, con ulteriori deleghe.
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È necessaria l’accettazione esplicita dell’incarico. La forma da seguire. La persona nominata deve essere consapevole degli effetti penali della scelta.
Una parziale “dismissione” di attribuzioni da parte del datore per la sicurezza si può realizzare solo con una delega idonea, che sia, cioè, in linea con quanto stabilito dal legislatore. I giudici (Cassazione penale, quarta sezione, sentenza n. 25535/2012) hanno espresso efficacemente questo concetto, stabilendo che è essenziale «l’esistenza di una valida ed efficace delega di funzioni in materia di sicurezza, formalmente adottata ed espressamente accettata dal delegato».
I requisiti di legge
Le caratteristiche della delega sono elencate, principalmente ai commi 1 e 2 dell’articolo 16 del Dlgs 81/2008, che “assorbono” requisiti elaborati dalla giurisprudenza. La delega, pertanto, deve:
risultare da atto scritto; avere data certa; essere resa pubblica, adeguatamente e tempestivamente.
Per quanto riguarda altri profili, specie soggettivi, l’articolo 16 esige:
- un delegato con i requisiti di professionalità e di esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate. Questo presuppone che il delegante effettui, prima dell’attribuzione, una congrua valutazione delle conoscenze e competenze del potenziale delegato (e, se ha svolto ciò con cura, magari evidenzi il tutto nell’atto di delega);
- la messa a disposizione di tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla natura delle funzioni delegate. Questo requisito, ovvio in termini di safety management, non è, invece, scontato nelle prassi ed è soggetto dunque ad attenta valutazione dei giudici (si veda la sentenza della Cassazione, quarta sezione penale, n. 47136/2007);
- la concessione di autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate. In caso contrario, secondo i giudici, il datore non si libera da responsabilità (Cassazione, sezione terza, sentenza n. 1855/2011). Si può ritenere che il requisito incorpori due elementi: un bugdet adeguato e una piena discrezionalità di sua utilizzazione in capo al delegato. Per quanto riguarda la congruità dell’importo dato, può essere utile un criterio valutativo, sia pure elaborato per fini diversi ma analoghi: «disponibilità finanziarie adeguate ad effettuare gli adempimenti prescritti dalla legge» (Cassazione, sezione quarta, sentenza n. 16311/2011);
- l’accettazione per iscritto del delegato. Dati i rilevanti effetti penali, la norma mira a rendere il delegato consapevole del ruolo che va assumendo. Restano, d’altra parte, noti alcuni problemi applicativi di questa norma: dare luogo a rifiuti pretestuosi (da ritenere, eventualmente rilevanti, ove effettivamente tali, sul piano del diritto del lavoro) o essere aggirata da datori privi di scrupoli che costringono persone inadatte a firmare.
Gli altri requisiti
La Cassazione, dunque, individua, in sede interpretativa, una serie di requisiti per la delega di funzioni. A parte quelli ormai compresi nel decreto legislativo 81/2008, ce ne sono altri non recepiti ma da tenere presenti. In particolare, i giudici chiedono che la delega sia inequivoca nel contenuto (ex plurimis, si veda la sentenza della Cassazione, quarta sezione, n. 8604/2008) e la presenza nell’atto di un’adeguata specifica dei compiti attribuiti (così, Cassazione, terza sezione penale, sentenza n. 11442/2013).
Al di là delle indicazioni fornite dai giudici, per una delega ben fatta bisogna considerare anche altri elementi: che ci sia l’attribuzione di funzioni giuridicamente trasferibili dal datore (e non di quelle indelegabili, su cui si veda l’articolo in basso) e che l’utilizzo della delega avvenga in un’azienda con una certa complessità di funzionamento organizzativo (senza che ciò significhi, come richiesto in passato dai giudici, anche medio o grandi dimensioni).
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La valutazione dei rischi non è trasferibile. I limiti. Le norme indicano alcuni compiti che il vertice della sicurezza aziendale non può attribuire ad altri.
Il vertice della sicurezza può trasferire, attraverso un’idonea delega, molte attribuzioni di sicurezza sul lavoro, a cominciare da quelle previste dall’articolo 18 del Dlgs 81/2008. Tuttavia, non si libera del tutto da compiti e responsabilità in materia.
In via generale, resta, in base all’articolo 2087 del Codice civile, il garante della sicurezza e, più specificatamente, a lui sono devoluti, indissolubilmente, gli obblighi di garanzia con natura strettamente personale, in parte fissati da norme.
Alcune funzioni non sono delegabili. L’articolo 17 del Dlgs 81/2008 esclude, espressamente dal trasferimento due adempimenti: la valutazione dei rischi, che è la base progettuale della sicurezza aziendale, e la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, cioè la nomina del soggetto principale nella struttura tecnica della sicurezza.
Sul delegante, inoltre, permane (articolo 16, comma 3, del Dlgs 81) il dovere di vigilanza sul corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite (un principio confermato dalla sentenza 15028/2014 della Cassazione, quarta sezione penale).
A questo proposito i giudici (Cassazione, quarta sezione penale, sentenza 28187/2013) hanno ricordato che, in base all’ultimo periodo del comma citato, la vigilanza può essere svolta, in aziende «di maggiori dimensioni», attraverso il modello organizzativo e gestionale previsto dall’articolo 30, comma 4 dello stesso Dlgs.
Secondo la giurisprudenza, il vertice della sicurezza mantiene per sé l’obbligo di intervenire anche ove il rischio si riconnetta a scelte di carattere generale di politica aziendale ovvero a carenze strutturali, rispetto alle quali nessuna capacità di intervento possa realisticamente attribuirsi al delegato (così, da ultimo, Cassazione, quarta sezione penale, sentenza 38100/2014) o quando venga a conoscenza di «pericolose prassi» (Cassazione, sezione quarta, sentenza 46769/2009).
Secondo i giudici, poi, è necessario che il datore per la sicurezza agisca, esercitando un proprio intervento sostitutivo, nel caso in cui il delegante non eserciti la delega che gli è stata affidata (Cassazione, quarta sezione penale, sentenza 4968 del 31.01.2014)
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fai-da-te anche per il libretto. Manutenzione. Il modello non è unico.
I nuovi libretti di impianto, compilati secondo le disposizioni del Dpr 74/2013 e del successivo decreto ministeriale del 10.02.2014, sono entrati in vigore a livello nazionale meno di sei mesi fa, il 15.10.2014. E ad oggi, sono già cinque i diversi modelli predisposti per la compilazione del modulo: uno statale e quattro particolari, imposti da Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Veneto per i territori di propria pertinenza.
Il nodo è, ancora una volta, quello dei poteri concorrenti fra Stato e Governi locali, in materia di energia e dei diritti acquisiti con la cosiddetta clausola di cedevolezza dell’articolo 17 del Dlgs 192/2005. Le Regioni hanno varato normative per organizzarsi da sé in materia di manutenzione e controllo degli impianti termici, nonostante che il Dm 10.02.2014 lascerebbe sulla carta ai territori solo la possibilità di aggiungere eventuali schede peculiari a uno strumento che, nel suo complesso, è fatto proprio per essere ovunque uniforme.
La prima Regione a distinguersi è la Lombardia. Con un decreto del direttore generale, che attua la delibera X/1118 del 20.12.2013, l’amministrazione ha predisposto un proprio modello di libretto, scaricabile dal sito del Catasto regionale unico degli impianti termici (www. curit.it) e moduli diversi da quelli nazionali anche per i rapporti di efficienza, e in numero di cinque anziché quattro, perché la Regione tratta a parte i dispositivi a biomassa.
Corre per sé anche il Veneto, dove il libretto è stato introdotto dalla delibera n. 1363 del 28.07.2014. Lo strumento è corredato da un vademecum di istruzioni alla compilazione e viene richiesta a livello locale l’integrazione obbligatoria della periodicità delle manutenzioni.
Il Piemonte ha istituito con la recente delibera 13-381/2014 il catasto degli impianti, che mancava, e ha adottato un modello locale di libretto.
In Emilia Romagna, dove il catasto degli impianti è ancora in itinere, il nuovo libretto contiene 15 schede al posto delle 14 stabilite dal ministero dello Sviluppo: la Regione, infatti, richiede una serie di dettagli aggiuntivi, non previsti a livello centrale.
Se le Regioni in molti casi decidono da sole, non sono da meno alcuni enti locali. Singolare e recente (di inizio gennaio) la comunicazione trasmessa dal Comune di Venezia a tutti i manutentori. La Città, pur prendendo atto di come, a livello regionale, sia entrato in vigore il Castasto Circe per la trasmissione automatica e telematica del rapporto di controllo, precisa che questa nuova procedura si aggiunge, ma non sostituisce in alcun modo la pratica di autocertificazione già in uso sul territorio municipale e che prevede l’apposizione di un bollino sulla copia cartacea del rapporto stesso, che continua a dover essere prodotta
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Passaggio al digitale/1. I punti critici. Fatture elettroniche a corto di istruzioni nei casi di irregolarità.
Rispetto ai dati fiscali, la fattura Pa risulta gravata di ulteriori contenuti amministrativi, il che comporta nuovi e inevitabili problemi applicativi.
Si consideri, ad esempio, il caso di ricevimento di fatture cartacee emesse dal 31 marzo in poi. Secondo la circolare 1/2014 del Dipartimento delle Finanze, in tali casi «non è consentita l’emissione di una seconda fattura in formato elettronico. Non sarebbe in effetti possibile emettere note di accredito a storno delle fatture cartacee già emesse perché queste ultime non presentano alcuni dei vizi che ne permettono una rettifica ai fini Iva».
Resta peraltro il fatto che la fattura cartacea non potrà essere pagata, dal momento che –per esplicita previsione della norma istitutiva dalla fattura Pa (articolo 1, comma 210, della legge 244/2007)– le pubbliche amministrazioni non potranno più accettare fatture cartacee, né effettuare alcun pagamento sino all’invio della fattura stessa in forma elettronica.
Rispetto alle indicazioni della circolare 1/2014, la riemissione in forma elettronica della fattura sembra dunque imporsi per forza di cose. Anche qui, tuttavia, occorre fare i conti con l’articolo 21, comma 1, ultimo periodo del decreto Iva, secondo cui la fattura si intende emessa all’atto della sua spedizione o trasmissione telematica. Rispetto alla fattura cartacea emessa per errore, la nuova fattura elettronica verrà con ogni probabilità inviata in un momento successivo, in violazione dell’articolo 21: da qui l’opportunità di un chiarimento ministeriale volto a precisare la non sanzionabilità della riemissione di una fattura elettronica che fa seguito a una precedente fattura erroneamente emessa in forma cartacea.
Resta poi da chiarire il significato del termine «accettazione» delle fatture Pa riportato nell’articolo 1 della legge 244/07, oltre che del suo simmetrico –il rifiuto della fattura Pa– cui fa cenno la circolare 1/2014 per il caso di fatture elettroniche non attribuibili all’amministrazione.
Per la sua stessa natura di documento destinato a produrre effetti simmetrici e opposti rispetto alle controparti, una fattura può essere annullata o rettificata attraverso un successivo documento di accredito. Per l’ipotesi di rifiuto resterebbero a questo punto da chiarire i riflessi Iva in capo al fornitore che si vedesse respingere la fattura: dovrebbe emettere una nota di accredito a uso interno?
Ulteriori chiarimenti si rendono necessari per l’ipotesi di ricevimento di fatture elettroniche irregolari sotto il profilo amministrativo, perché ad esempio sprovviste del codice Cig o Cup; nell’evenienza, le Pa non possono procedere al pagamento delle fatture (Dl 66/2014, art. 25).
Se il fornitore fosse informato dell’irregolarità entro 15 giorni dal momento della ricezione della fattura da parte della Pa, potrebbe inviare un nuovo file con la stessa data di emissione e lo stesso numero della fattura rifiutata (sempreché l’Agenzia non riscontri una violazione dell’articolo 21 circa la contestualità dell’emissione e dell’invio delle fatture).
In tal caso, l’emissione di nota di accredito seguita da una nuova fattura corretta, di per sé semplice e ragionevole, potrebbe risultare problematica per due ordini di motivi:
perché, come precisato dalla circolare 1/14, una fattura che sotto il profilo fiscale risulta corretta non può essere successivamente oggetto di (nota di) variazione;
perché la nota di accredito vale ad annullare (o rettificare) una precedente fattura, non anche a giustificare l’emissione di una fattura successiva, la quale risulterà inevitabilmente tardiva rispetto al momento in cui l’operazione (che aveva dato origine alla prima fattura) è avvenuta.
Da qui l’opportunità (meglio: la necessità) di un intervento ministeriale volto a confermare la non sanzionabilità di fatture riemesse tardivamente, in quanto carenti di dati non fiscali.
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Passaggio al digitale/2. Aspetti contabili e fiscali. Riorganizzazione necessaria per il flusso dei documenti.
La fatturazione elettronica nei confronti degli enti pubblici –obbligatoria a partire dal 31 marzo prossimo– comporta profonde modificazioni nella struttura organizzativa e nei comportamenti concreti da adottare nelle prossime settimane.
Le amministrazioni interessate –recentemente individuate dalla circolare 1/15 del Dipartimento delle Finanze in tutte le amministrazioni pubbliche, diverse dai ministeri, dalle agenzie fiscali e dagli enti di previdenza (per i quali l’obbligo è già scattato il 06.06.2014) ma incluse quelle individuate come amministrazioni locali nell’elenco pubblicato ogni anno dall’Istat– stanno in questi giorni ultimando il censimento dei contratti in essere, i cui estremi vanno comunicati ai fornitori insieme ai relativi Uffici di destinazione delle fatture Pa.
Rispetto alla scadenza del 31 marzo, poi, occorrerà valutare con attenzione tutta una serie di situazioni in cui –ad oggi– il pagamento ha preceduto la fattura: contratti che prevedono il pagamento prima della fattura, «Sal» pagati sulla base dei documenti controfirmati dai tecnici, avvisi di parcelle di professionisti, pagamenti di abbonamenti, di inserzioni e così via.
Situazioni del genere non potranno più ripetersi, dal momento che lo stesso articolo 1, comma 210, della 244/2007 dispone che le pubbliche amministrazioni non potranno né accettare fatture cartacee, né effettuare alcun pagamento, neppure parziale, sino all’invio della fattura elettronica. A questo proposito, con riferimento alle fatture emesse in forma cartacea a tutto il 30 marzo prossimo, la circolare 1/2014 del Dipartimento delle Finanze ha precisato che il relativo pagamento potrà avvenire anche oltre la scadenza del 30.06.2015, in un primo tempo fissata dall’articolo 6 del Dm 55/2013 come termine ultimo di pagamento.
A livello organizzativo, l’obiettivo di base delle pubbliche amministrazioni resta quello di avvicinare quanto più possibile le fatture agli uffici incaricati della loro liquidazione. A tale risultato si può giungere attraverso l’attivazione di diversi uffici di destinazione delle fatture Pa, oppure attraverso il ricorso ad altri driver –quali il Cig, il Cup, l’ordine di acquisto, il numero di impegno– in grado di smistare in modo efficiente le fatture (già) pervenute all’unico ufficio di fatturazione elettronica centrale dell’ente.
L’ufficio –o gli uffici– di destinazione delle fatture Pa vanno poi presi in considerazione a proposito della piattaforma per la certificazione dei crediti (Pcc). A partire dal 31 marzo, in effetti, le fatture Pa acquisite dal Sistema di Interscambio verranno automaticamente caricate sulla Pcc, che evidenzierà la data di invio e di ricevimento di ogni fattura nonché le eventuali notifiche di esito negativo.
Si renderà a questo punto necessario associare i codici ufficio Pcc (a suo tempo individuati dall’ente pubblico per la gestione delle fatture) al codice (o ai codici) ufficio di fatturazione elettronica; l’abbinamento può essere effettuato attraverso la funzione messa a disposizione dal sito della piattaforma. Da segnalare che non è consentito che ad uno stesso codice ufficio Ipa corrispondano più codici Pcc.
Quanto alla gestione delle fatture Pa sotto il profilo fiscale, si renderà necessaria l’attivazione di nuovi registri sezionali Iva. In base alla circolare 36/2006, in effetti, qualora il contribuente (la pubblica amministrazione, nel nostro caso) conservi con modalità elettroniche le sole fatture elettroniche, viene consentita la conservazione con modalità tradizionali delle fatture cartacee, a condizione che queste ultime siano annotate in un apposito sezionale sulla base di una specifica numerazione cronologica progressiva.
A dire il vero, la circolare 36/2006 va anche oltre, là dove precisa che, in caso di compresenza di fatture elettroniche e cartacee, per ogni singolo cliente o fornitore si deve adottare un’unica modalità di conservazione per l’intero periodo d’imposta in modo che le fatture emesse o ricevute risultino annotate tutte nello stesso registro. Il che costringerebbe tutte le pubbliche amministrazioni a conservare in formato elettronico tutte le fatture cartacee (d’acquisto o di vendita) registrate nel 2015; alla luce del nuovo scenario normativo l’indicazione appare tuttavia superata
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.03.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Negli enti rischio di nuovi precari. La legge di stabilità ha chiuso gli spazi assunzionali ma non i contratti flessibili.
Personale. Il Dl 90 aveva ampliato il turn-over ma la manovra ha invertito la rotta per assorbile gli esuberi delle Province.

Il legislatore del giugno scorso ha “illuso” gli enti locali prospettando loro un’apertura significativa in tema di assunzioni. Il decreto sulla Pubblica amministrazione (Dl 90/2014) ha infatti portato le percentuali di sostituzione del personale cessato, allora fissate nel 40% della relativa spesa, al 60% per il 2015, all’80% per il biennio 2016-207 per arrivare al turn-over pieno nel 2018. E per gli enti virtuosi il 100% era garantito già dal 2015. Ma questa illusione è durata sei mesi.
Il Governo ha infatti presto ingranato la retromarcia e, nella legge di stabilità 2015, le esigenze dei Comuni hanno dovuto cedere il passo all’«interesse superiore» rappresentato dal riassorbimento dei dipendenti delle Province e delle Città metropolitane dichiarati in soprannumero a seguito dei tagli alle rispettive dotazioni organiche. L’obiettivo è chiaro e si identifica nei risparmi di spesa (un miliardo di euro nel 2015, due miliardi nel 2016 e tre miliardi a partire dal 2017). E tale obiettivo deve essere perseguito, a nulla rilevando se questo comporta notevoli incertezze interpretative in ordine all’applicazione della nuova normativa.
Dubbi che portano, inevitabilmente, a lasciare il peso delle decisioni, e la relativa responsabilità, in capo ai dirigenti e ai responsabili di servizio, che sono chiamati ad applicare concretamente le disposizioni della legge di stabilità. Parimenti indifferente rispetto al traguardo da raggiungere può essere considerata la creazione di nuovo precariato, al fine di eludere i vincoli sulla ricollocazione del personale in esubero.
Nuovi spazi si sono infatti aperti con l’abrogazione del vincolo del 50% della spesa del 2009 per il lavoro flessibile, con riguardo agli enti in regola con la spesa di personale e con il Patto di stabilità. Rimane, comunque, il tetto di spesa pari all’importo sostenuto nel 2009 per il medesimo titolo come, dopo parecchie incertezze sollevate dalla norma, ha chiarito la sezione Autonomie della Corte dei Conti nella delibera 2/2015.
 
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Come gestire ingressi, uscite e mobilità. Domande & risposte.
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Esuberi con obbligo di ricollocazione
La destinazione delle facoltà assunzionali al riassorbimento dei dipendenti provinciali è un obbligo?
La circolare 1/2015 dei ministeri di Pa e Affari regionali ha chiarito che, prioritariamente, le facoltà assunzionali devono essere destinate al reperimento di categorie infungibili, all’immissione in ruolo dei vincitori di concorso, le cui graduatorie sono in essere al 01.01.2015, e alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno dei dipendenti assunti a part-time (articolo 3 della Legge 244/2007). Le risorse rimanenti devono essere riservate al riassorbimento del personale soprannumerario. Nella legge il legislatore ha usato l’indicativo presente («gli enti destinano…») e questo, secondo la Consulta, fa sorgere un obbligo in capo agli enti ai quali la norma è diretta.
Vincoli estesi al nuovo turn over
È obbligatorio destinare la restante percentuale della spesa relativa al personale cessato nel 2014-2015 al riassorbimento dei dipendenti della provincia?
Come per le facoltà assunzionali, anche per l’ulteriore 40% per l’anno 2015 e 20% per il 2016 della spesa relativa alle cessazioni dell’anno precedente, che non rappresentano facoltà assunzionali, il legislatore ha usato il verbo all’indicativo («destinano»). Si deve però segnalare che la Corte dei Conti per la Lombardia, con la delibera 85/2015, abbraccia la tesi contraria affermando, relativamente al riassorbimento, che «le Regioni e gli enti locali possono destinare la restante percentuale di spesa relativa al personale di ruolo cessato negli anni 2014 e 2015», prospettando, quindi, una facoltà.
A rischio anche gli spazi aggiuntivi
La spesa di personale a disposizione in base al comma 557 della legge 296/2006, che ecceda la spesa relativa alle cessazioni dell’anno precedente, considerata nella misura del 100%, può essere destinata ad assunzioni discrezionali?
Dalla circolare 1/2015 sembra evincersi che, in capo a Regioni ed enti locali, sussista un obbligo di riservare tutta la spesa di personale a disposizione per il riassorbimento dei dipendenti in soprannumero. Di conseguenza, non ci sarebbe spazio per ulteriori assunzioni. La posizione sembra andare oltre la norma, che destina al riassorbimento degli esuberi solo le facoltà assunzionali e la restante percentuale della spesa relativa al personale cessato nel biennio 2014-2015, lasciando alla discrezionalità dell’ente la gestione della restante spesa di personale a disposizione (Corte dei Conti Lombardia, la delibera 85/2015).
Possibile assumere a tempo determinato
Nelle more della ricollocazione degli esuberi delle Province, il Comune può procedere a un’assunzione a tempo determinato, a fronte della cessazione di un dipendente avvenuta nel 2014?
Questa procedura appare corretta. Infatti, il Comune è obbligato a comunicare alla Funzione pubblica la facoltà assunzionale derivante dalla cessazione avvenuta nel 2014 e il dipartimento farà incontrare questa offerta con la domanda degli esuberi di Province e Città metropolitane. L’operazione, però, richiederà tempo. A fronte della necessità di sostituire immediatamente il dipendente mancante, l’ente può ricorrere a un contratto di lavoro a tempo determinato,sussistendo le esigenze temporanee richieste dall’articolo 36, comma 2, del Dlgs 165/2001.
Incarichi a contratto
Nel 2015 e nel 2016 è possibile stipulare un contratto individuale a tempo determinato in base all’articolo 110, comma 1, del Tuel?
È necessario distinguere se la vacanza del posto deriva dalla cessazione di un dipendente di ruolo oppure sia determinata da altre cause. Nella prima ipotesi, si esclude la possibilità di stipulare un contratto ex articolo 110 fino alla scadenza del mandato del sindaco, in quanto la cessazione che si colloca a monte darà origine alle facoltà assunzionali da destinare al riassorbimento del personale delle Province. Si deve considerare come se il posto non fosse disponibile. Qualora il posto sia vacante per altri motivi (cessazione di un precedente contratto di lavoro stipulato sempre in base all’articolo 110, comma 1 del Tuel, nuova istituzione, eccetera) si può ipotizzare la copertura mediante un contratto ex articolo 110.
Istruzioni incerte sulla mobilità
È legittimo procedere a una mobilità volontaria fra enti?
La circolare 1/2015 nega la possibilità di ricorrere all’istituto della mobilità volontaria aperta a tutti i dipendenti della Pa nel 2015 e 2016, mentre consente, nelle more dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro, procedure di mobilità riservate ai dipendenti provinciali, non limitandole alla Provincia dell’ente che intende attivare la procedura. La posizione appare un po’ debole, tanto che alcune sezioni regionali della Corte dei Conti (Sicilia – delibera 119/2015; Lombardia, delibera 85/2015) si sono già espresse in senso contrario, evidenziando come la norma disponga solo per l’intero budget corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente, mentre le mobilità sono neutre come affermato dalla stessa Funzione Pubblica (circolare 4/2008). La sezione Puglia (66/2015) invece si allinea alle istruzioni della circolare 1/2015.
Il nodo dei profili assenti in Provincia
È possibile seguire le ordinarie modalità di assunzione se un profilo professionale non sia presente nella Provincia di appartenenza?
Come chiarito nella circolare 1/2015, le Province e le Città metropolitane devono comunicare alla Funzione pubblica il personale in soprannumero mentre le Regioni e gli enti locali devono trasmettere al dipartimento le facoltà assunzionali e la restante percentuale della spesa relativa al personale cessato nel biennio 2014-2015. La Funzione pubblica gestirà l’incontro fra domanda e offerta di lavoro. Di conseguenza, non rientra nelle attribuzioni riconosciute agli enti locali quella di verificare l’esistenza di un determinato profilo professionale nell’amministrazione della provincia di appartenenza, la cui presenza ovvero la cui assenza non ha nessuna conseguenza per il Comune.
Scelte libere solo dopo gli esuberi
Una volta riassorbiti tutti i dipendenti dell’amministrazione provinciale di appartenenza, è legittimo tornare alle ordinarie modalità di assunzione?
Con l’operazione disegnata nella legge di stabilità 2015 appare evidente che lo scopo del legislatore consiste nell’esperire tutti i tentativi per ricollocare il personale soprannumerario delle amministrazioni provinciali e delle Città metropolitane, risultante a seguito delle riduzioni delle dotazioni organiche. Questi tentativi coinvolgono, in primis, le Regioni e gli enti locali e, qualora le facoltà assunzionali di questi non bastino, si fa ricorso al ricollocamento presso gli uffici periferici delle amministrazioni dello Stato. In questa logica, è evidente che, prima di tornare alle normali regole sulle assunzioni, devono essere ricollocati tutti i dipendenti in soprannumero delle amministrazioni provinciali e non solo quelli della Provincia di appartenenza, anche se tale riassorbimento dovesse comportare il superamento dei 50 chilometri in termini di distanza.
Sì alle trasformazioni dei part time
È concessa la trasformazione a tempo pieno solo dei dipendenti assunti a part-time ovvero anche per i dipendenti che, assunti full time, hanno chiesto la trasformazione del rapporto di lavoro a part-time?
La trasformazione del rapporto a tempo pieno, per i dipendenti assunti a part-time, viene riconosciuta non dalla disposizione normativa, che non ne parla, ma dalla circolare 1/2015. Il riferimento legislativo è individuato nell’articolo 3, comma 101, della legge 244/2007, che consente questa trasformazione nell’ambito delle facoltà assunzionali dell’ente. Condizione che non rappresenta un problema nel caso di specie in quanto si stanno destinando le facoltà assunzionali. La previsione non è estensibile, in via analogica, al personale assunto a tempo pieno che, successivamente ha chiesto il part-time e, dopo il biennio, intende tornare nuovamente a tempo pieno. Questa trasformazione non è considerata nuova assunzione e, quindi, non sembra essere consentita nel biennio 2015-2016.
Nulle le assunzioni fuori dai vincoli
Quali sono le conseguenze per le assunzioni effettuate nel mancato rispetto di quanto disposto dalla legge di stabilità per l’anno 2015?
Come già evidenziato, dalla disposizione normativa emerge in maniera forte la volontà del legislatore di esperire tutti i tentativi per ricollocare i dipendenti delle Province e delle Città metropolitane dichiarati in soprannumero a seguito del taglio delle dotazioni organiche. Per tale motivo, anche la sanzione, nel caso di mancato rispetto delle nuove regole, risulta particolarmente pesante. È lo stesso comma 424 della legge di stabilità che prevede la nullità delle assunzioni effettuate nel mancato rispetto della norma. Come si ricorderà, la nullità non è soggetta a prescrizione e può essere fatta valere da chiunque. L’atto nullo comporta la responsabilità diretta da parte del soggetto che lo sottoscrive, il quale non ha, in ogni caso, impegnato l’amministrazione ma solamente il dipendente stesso (articolo Il Sole 24 Ore del 16.03.2015).

ENTI LOCALI - VARIParere Mit. Il no ai camper in città deve essere ben motivato.
Sono fuorilegge le ordinanze sindacali che vietano la circolazione ad alcune categorie di veicoli ingombranti senza evidenziare particolari motivazioni tecniche e discriminando in tal modo tra camper, camion e altri mezzi.

Lo ha evidenziato il Ministero dei trasporti con il parere n. 507/2015 di prot..
L'associazione dei camperisti di Firenze ha richiesto chiarimenti sull'apposizione della segnaletica di divieto di transito dedicata al popolo dei vacanzieri nel comune di Dorgali. In particolare circa l'ordinanza di divieto di transito in alcune strade comunali, limitatamente ad alcune tipologie di veicoli ingombranti, ma non a tutti. Queste determinazioni, specifica innanzitutto il ministero, possono essere adottate solo dopo approfondite valutazioni tecniche che evidenzino le reali complessità dell'infrastruttura.
In ogni caso le limitazioni al transito dei veicoli aventi una certa dimensione non possono essere riservate solo ad alcune categorie di veicoli similari. Nel caso sottoposto all'esame del ministero l'ordinanza vieta infatti la circolazione solo ad autobus, autocaravan e autocarri dimenticandosi di autoarticolati a autotreni (articolo ItaliaOggi del 13.03.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProvince, la mobilità è al palo. Funzione pubblica in ritardo su criteri e piattaforma online. Senza decreto non può scattare il censimento dei posti vacanti e delle risorse disponibili.
Ancora al palo le procedure per la ricollocazione dei dipendenti delle province. È trascorso ormai da oltre dieci giorni il termine entro il quale, ai sensi dell'articolo 1, comma 423, la Funzione pubblica avrebbe dovuto adottare il decreto per fissare i criteri finalizzati alle procedure di mobilità del personale soprannumerario.
Tali criteri sono fondamentali ai fini della realizzazione da parte del dicastero guidato da Marianna Madia della piattaforma informatica di cui parlano lo stesso comma 423 e la circolare 1/2015, cui sarà affidato il compito di realizzare l'incontro domanda/offerta di mobilità tra i dipendenti provinciali in sovrannumero e gli enti coinvolti nella loro ricollocazione.
Niente criteri, niente piattaforma, evidentemente.
I tempi, dunque, per l'attivazione a pieno regime del complicatissimo iter per ricollocare i circa 20 mila dipendenti soprannumerari sono destinati a slittare, poiché senza decreto e piattaforma informatica tutto è sostanzialmente lasciato alla buona volontà delle amministrazioni.
La strada alternativa è quella indicata dalla circolare 1/2015: procedure di mobilità interamente riservate al personale provinciale. Quello che manca, tuttavia, è proprio la buona volontà, anche a causa dell'assenza di chiarezza delle disposizioni sin qui emanate.
Molti ritengono che la mobilità riservata di cui parla la circolare 1/2015 riguardi tutti i dipendenti di ruolo delle province, perché si sono fermati sulla specifica frase della circolare, che non contiene espressamente il riferimento ai dipendenti soprannumerari. Ma è una lettura evidentemente erronea: la circolare, infatti, indica la mobilità riservata come alternativa nelle more della realizzazione della piattaforma, che sarà il sistema di ricollocazione dei dipendenti provinciali in sovrannumero. Non è evidentemente possibile che la mobilità riservata possa riguardare, allora, dipendenti provinciali diversi da quelli che verrebbero gestiti dalla piattaforma informatica. A parte che l'articolo 1, comma 422, della legge 190/2014 è chiarissimo nel limitare le procedure di ricollocazione al solo personale soprannumerario.
Tuttavia, a causa di questo equivoco interpretativo, gli enti locali che hanno avviato i bandi di mobilità non si curano di controllare che i dipendenti provinciali rientrino tra quelli soprannumerari, mentre molte province non si fanno scrupolo di concedere nullaosta anche a dipendenti non inseriti nelle liste.
L'assenza del decreto, si accompagna anche all'assenza del censimento dei posti vacanti e delle disponibilità finanziarie delle pubbliche amministrazioni. Le quali procedono un po' in ordine sparso, anche grazie all'ulteriore confusione ingenerata dai pareri della Corte dei conti Sicilia e Lombardia, sulla possibilità di continuare a effettuare mobilità «neutre», non riservate al personale provinciale. Così, si sta vedendo di tutto: mobilità riservate ma non esclusivamente ai dipendenti soprannumerari; mobilità neutre aperte a tutti; concorsi, come quello indetto dall'Agenzia delle entrate; mobilità che non considerano la priorità dei dipendenti soprannumerari come loro collocazione in testa a ogni altro interessato, ma solo come punteggio di favore, come nel caso del bando da 1031 posti del ministero della giustizia.
Il risultato è il caos più totale e l'assenza di un coordinamento nel processo di ricollocazione, che mette molto in forse la sicurezza con la quale gli esponenti del governo insistono ad affermare che nessuno dei 20 mila dipendenti (dei quali, circa 600 dirigenti, dalla ricollocazione estremamente complicata) perderà il lavoro.
Tuttavia, mentre il governo rassicura a piene mani, la camera il 9 marzo ha respinto, proprio su parere contrario del governo, l'ordine del giorno presentato da Sel volto a impegnare l'esecutivo a garantire piena occupazione a tutto il personale delle province, per evitare la sua collocazione in disponibilità (l'apertura della porta verso il licenziamento) al termine del 2016, come attualmente prevede la legge 190/2014.
Insomma, i ritardi, l'assenza di indirizzi chiari, nonché di controlli e sanzioni (salva la nullità che incombe su tutte le assunzioni effettuate disinvoltamente in violazione dei commi 424 e 425) fanno già partire in salita il processo di ricollocamento (articolo ItaliaOggi del 13.03.2015).

EDILIZIA PRIVATACatasto, atti online da giugno. Soltanto procedura telematica per gli aggiornamenti. Provvedimento dell'Agenzia delle entrate destinato ai professionisti. Si userà il Muic.
A partire dal prossimo 1° giugno, gli atti di aggiornamento catastali dovranno essere inviati dai professionisti iscritti con procedura telematica. Il comma 374, dell'art. 1, della legge 311/2004 (Finanziaria 2005), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale il 25/03/2005 (n. 70/2005), dispone la possibilità di presentare gli atti di aggiornamento catastale con procedure informatiche, utilizzando il modello unico informatico catastale-Muic, come indicato con apposito provvedimento dell'Agenzia delle entrate.

Con il
provvedimento direttoriale 11.03.2015 n. 2015/35112 di prot., destinato al potenziamento dell'informatizzazione dell'amministrazione finanziaria, l'Agenzia delle entrate ha disposto che tale procedura è obbligatoria a decorrere dal prossimo 1° giugno, a cura dei professionisti iscritti negli ordini e/o collegi professionali, utilizzando le modalità indicate con il provvedimento del Territorio del 22/03/2005.
Si tratta, essenzialmente e tra le altre, delle dichiarazioni per l'accertamento delle unità immobiliari, delle dichiarazioni di variazione dello stato, della consistenza e della destinazione di unità immobiliari già censite e delle dichiarazioni di immobili non produttivi di reddito urbano.
Il modello unico informatico catastale è sottoscritto dal professionista con firma digitale e per la compilazione e l'invio il provvedimento rimanda ai vari provvedimenti già emanati dal 2005 al 2009, pubblicati nella Gazzetta Ufficiale o sul sito istituzionale dell'Agenzia, che hanno a mano a mano esteso a tutto il territorio nazionale il servizio telematico di trasmissione.
Sul tema, il Territorio aveva emanato numerosi documenti di prassi, evidenziando che l'invio telematico dei documenti catastali deve essere eseguito attraverso il sistema telematico, denominato Sister, utilizzando una specifica funzione, alla quale si accede attraverso l'inserimento del codice fiscale e della password del professionista (Agenzia del territorio, circolare 2/T/2007) e il professionista deve risultare preventivamente abilitato con le modalità indicate dallo stesso Territorio (tra le altre, circolare 4/T/2005).
Il professionista, dopo aver predisposto il modello unico informatico catastale, deve apporvi la firma elettronica, prima dell'invio al sistema telematico e, terminata la compilazione dei modelli con le informazioni richieste e accettato l'importo calcolato dal sistema, lo stesso esegue l'invio telematico del modello unico informatico catastale; il provvedimento del 22/12/2006, richiamato dal provvedimento di ieri, fissa anche termini, condizioni e modalità per la conservazione dei documenti originali Pregeo, su supporto cartaceo.
Come indicato nel provvedimento per le dichiarazioni (accertamento, variazione e dichiarazione di beni immobili non produttivi di reddito urbano) si deve far riferimento al provvedimento del 15/10/2009, mentre per i restanti (mappali, frazionamento e particellari) si deve far riferimento al provvedimento del 23/06/2006.
Come indicato all'art. 3, del provvedimento direttoriale in commento, in caso di mancato o irregolare funzionamento del servizio telematico, il modello deve essere presentato all'ufficio competente territorialmente, a mezzo supporto informatico (articolo ItaliaOggi del 12.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATACatasto verso l’invarianza locale. Dal 1° giugno obbligatorio l’invio dei moduli Docfa e Pregeo solo in via telematica.
Fisco e immobili. Alla ricerca della soluzione per evitare l’aumento del carico fiscale - Sembra prevalere l’ipotesi territoriale.

Sull’invarianza di gettito si va verso la scelta “locale”. Lo ha anticipato il direttore dell’agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, nel corso del convegno dedicato al catasto digitale, organizzato ieri a Roma dagli ordini di architetti, ingegneri e geometri della capitale. Dove è stato anche illustrato il Sit (sistema integrato del territorio) che renderà presto fruibile la banca dati integrata con tutte le informazioni catastali. Ed è stato annunciato il provvedimento direttoriale 11.03.2015 n. 2015/35112 di prot. che, dal 1° giugno, vincolerà i professionisti a inviare i modelli Docfa e Pregeo solo per via telematica.
Rossella Orlandi, direttore dell’agenzia delle Entrate, parlando della riforma del catasto, ha evidenziato che si vuole arrivare «a far emergere valori oggettivi, con lo stesso metodo per tutti, e allo stesso modo trasparente, perché comprensibile e uguale». Il tutto a invarianza di gettito: il direttore delle Entrate ha parlato di «discussione ampia, in vista di un arrivo a breve del decreto legislativo alle Commissioni parlamentari. E in questo momento sembrerebbe che la scelta sia più sul livello locale. Non siamo noi, però –ha precisato- che decidiamo».
Ritorna, quindi, di prepotenza il tema cruciale, che in queste settimane ha avuto un percorso carsico, dell’invarianza di gettito. I nuovi valori catastali (sia patrimoniali che reddituali) aumenteranno, infatti, le basi imponibili da due a tre volte e di conseguenza, per affermare il principio che le tasse non debbano aumentare, le aliquote delle varie imposte dovrebbero diminuire in proporzione, fatto salvo il principio della perequazione: se cioè alcuni immobili hanno valori troppo bassi rispetto a quelli di mercato, le loro basi imponibili attuali, oggi basate sul valori catastali in vigore, aumenteranno più della media; altri che invece già ora si avvicinano o sono addirittura sopra i valori di mercato avranno un vantaggio dalla riforma. Ma mentre alcune imposte sono nazionali (registro, ipocatastali, imposte sui redditi), quindi non è difficile adeguarle in modo che il gettito resti uguale, altre sono locali (Imu e Tasi) e quindi una perequazione nazionale avrebbe effetti molto diversi.
Mentre nella delega fiscale (legge 23/2014), almeno nell’interpretazione data da molti parlamentari (anzitutto il presidente della commissione Finanze e relatore della norma alla Camera, Daniele Capezzone) e da Confedilizia l’invarianza di gettito va realizzata a livello comunale, nella bozza di decreto legislativo predisposta dalle Entrate questo aspetto virava chiaramente verso un’invarianza a livello generale. In soldoni, questo potrebbe voler dire che le imposte locali, che sono tanta parte del gettito fiscale immobiliare (quasi 24 miliardi di euro su 42 totali) verrebbero ricalcolate sulle nuove basi imponibili con aliquote poco adattabili a livello locale e tutto il peso ricadrebbe solo sui contribuenti che abbiano avuto gli aumenti più forti dei loro valori catastali, indipendentemente dal Comune.
In alcuni Comuni, poi, si pagherebbe complessivamente molto di meno e in altri molto di più, quindi occorrerebbe ridistribuire il gettito ottenuto complessivamente. Una scelta “locale” rimetterebbe invece la scelta delle aliquote nelle mani dei Comuni e la perequazione resterebbe nell’ambito dei confini municipali, con esiti di un’equità decisamente più individualizzata. Questa scelta, del resto, era stata ventilata da Luigi Casero, vice ministro dell’Economia già nelle scorse settimane e le parole di Rossella Orlandi fanno capire che la strada è ormai tracciata. Anche se il decreto sul catasto sembra scomparso dalle priorità del Governo.
«In ogni caso, però –ha proseguito Rossella Orlandi– con la riforma ci sarà una fotografia aggiornata e completa del patrimonio, con una valenza strategica anche per scelte di politica economica e non solo ambientale e urbanistica. La collaborazione con i professionisti è quindi centrale».
Il direttore delle Entrate ha poi annunciato che dal 01.06.2015 sarà obbligatorio per tutti i professionisti abilitati (soprattutto architetti, ingegneri e geometri) inviare i moduli Docfa (aggiornamento catastale dei fabbricati) e Pregeo (terreni) solo in via telematica. Il provvedimento è stato poi diramato nella giornata di ieri. «È una scelta mia: oggi, dato che Docfa e Pregeo arrivano al 70% e in certi luoghi al 95%, non si capisce perché qualcuno debba ancora arrivare un ufficio con le carte in mano. Se funziona a Varese dovrà funzionare anche a Crotone»
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIDagli enti locali agli Ordini. L’obbligo vale per tutti. Gli ultimi chiarimenti. La circolare Mef-Funzione pubblica.
A ridosso della scadenza del 31 marzo per l’avvio a regime della fatturazione elettronica obbligatoria nei confronti delle amministrazioni pubbliche, con la circolare 09.03.2015 n. 1, a firma congiunta della presidenza del Consiglio dei ministri–Dipartimento Funzione pubblica e del ministero dell’Economia si chiarisce in maniera definitiva l’ambito di applicazione dell’adempimento.
La circolare conferma quanto anticipato con la nota 1858 del 27.10.2014, con cui il Dipartimento delle Finanze aveva ricompreso tra i destinatari anche le Federazioni e gli Ordini professionali in quanto enti pubblici non economici. Nel dettaglio, la normativa primaria è quella dell’articolo 1, comma 209, della legge 244/2007 che, nell’introdurre l’obbligo, individua quali destinatari le amministrazioni pubbliche disciplinate all’articolo 1, comma 2, della legge 196/2009.
Si tratta dei soggetti, anche autonomi, che concorrono al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica definiti in ambito nazionale e che sono inseriti nel conto economico consolidato e individuati entro il 30 settembre di ciascun anno nell’elenco pubblicato dall’Istat. Le precisazioni rese con la circolare n. 1/2015 eliminano ogni incertezza sottolineando come le classi di amministrazioni destinatarie non sono solo quelle dell’elenco Istat ma anche le autorità indipendenti e, comunque, le amministrazioni disciplinate all’articolo 1, comma 2 del decreto legislativo 165/2001.
Si tratta di tutte le amministrazioni dello Stato comprese, tra le altre, le aziende e amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, Regioni, Province, Comuni, Comunità montane, istituzioni universitarie, Camere di commercio, aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale e tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, compreso il Coni.
Il documento ricorda come numerose sono le aree di sovrapposizione tra le diverse classi di amministrazioni individuate. Peraltro, viene precisato come destinatarie dell’obbligo sono anche le amministrazioni locali. Ciò in quanto l’articolo 25 del decreto legge 66/2014 ha fissato anche per tali amministrazioni l’avvio dell’obbligo al 31.03.2015 nonostante la norma originaria dettata dall’articolo 1, comma 214, della legge 244/2007 richieda ancora un decreto ministeriale per la fissazione della tempistica. Tuttavia il riferimento alle amministrazioni locali è contenuto nell’elenco Istat e, di conseguenza, tali enti sono oramai prossimi destinatari di flussi elettronici di fatturazione.
Considerata in ogni caso l’ampiezza delle categorie dei destinatari, quando non puntualmente individuati, ci si può avvalere delle indicazioni rese dalla circolare congiunta del Mef e della Presidenza del Consiglio n. 1 del 31.03.2014 con cui è stato precisato che nell’indice delle Pubbliche amministrazioni (Ipa), consultabile al sito www.indicepa.gov.it, individua per ogni ufficio destinatario di fatturazione elettronica la data dalla quale il servizio di fatturazione elettronica è attivo.
In altri termini, la consultazione del sito dell’Ipa diviene un elemento di cui avvalersi per la puntuale individuazione dei destinatari
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATACambia la valutazione energetica. Rivoluzione in vista con nuove linee guida e attestato di prestazione. Riscaldamento. Attesi giovedì all’esame della Conferenza unificata due decreti del ministero dello Sviluppo.
Le regole per il risparmio energetico stanno per cambiare ancora. Giovedì 12 marzo dovrebbe riunirsi la Conferenza unificata per l’approvazione definitiva del Decreto “requisiti minimi” e forse anche del decreto sulle nuove linee guida per la redazione dell’attestato di prestazione energetica degli edifici.
I due decreti sono previsti dal Dlgs 192/2005 (come modificato, soprattutto, dalla legge 90/2013) in attuazione della Direttiva 2010/31/Ue. Il Sole 24 Ore è in grado di anticipare i contenuti delle bozze che verranno presentate in Conferenza unificata.
I requisiti minimi
Il primo decreto, noto come “decreto requisiti minimi”, fissa i criteri e le metodologie di calcolo della prestazione energetica degli edifici, precisando quali strumenti di calcolo si possono utilizzare, previa verifica e validazione da parte del Comitato Termotecnico Italiano.
La novità più rilevante di questo decreto è la modalità di verifica delle prescrizioni di legge, che utilizza l’edificio di riferimento. L’edificio di riferimento (fabbricato con più impianti) è un edificio identico in termini di geometria (sagoma, volumi, superficie calpestabile, superfici degli elementi costruttivi e dei componenti) orientamento, ubicazione, destinazione d’uso e situazione al contorno e avente caratteristiche termiche e parametri energetici predeterminati conformemente alle indicazioni dell’appendice A all’allegato 1 al decreto.
I calcoli
Le verifiche di legge richiedono quindi due calcoli: il primo consiste nel calcolo della prestazione energetica dell’edificio di riferimento con le sue caratteristiche edili e impiantistiche prescritte dal decreto. Il secondo è il calcolo della prestazione energetica dell’edificio reale, per il quale il progettista potrà prevedere componenti edili e impiantistici di sua libera scelta purché la prestazione energetica risulti non inferiore a quella calcolata sull’edificio di riferimento.
L’allegato 1 descrive il quadro comune generale per il calcolo della prestazione energetica degli edifici e fornisce la tabella dei fattori di conversione in energia primaria dei vari vettori energetici, specificando per ognuno il contenuto di energia primaria rinnovabile, non rinnovabile e totale.
Fornisce inoltre le prescrizioni comuni e specifiche per gli edifici di nuova costruzione, oggetto di ristrutturazioni importanti e sottoposti a riqualificazione energetica.
L’appendice B all’allegato 1 fornisce i valori dei parametri caratteristici degli elementi edilizi e degli impianti tecnici negli edifici esistenti sottoposti a riqualificazione energetica; nell’allegato 2 c’è l’elenco delle norme per il calcolo della prestazione energetica.
La nuova classe energetica
Il secondo decreto, relativo alle linee guida nazionali per l’attestato di certificazione energetica, sostituisce il decreto dello Sviluppo economico del 26.06.2009.
Le novità rilevanti sono:
1. La modalità di classificazione energetica degli edifici e il modello di attestazione della prestazione energetica uniformi su tutto il territorio nazionale. Le Regioni che hanno già provveduto a recepire la direttiva 2010/31/Ue con proprio strumento regionale sono invitate a intraprendere misure atte a garantire, entro due anni dall’entrata in vigore del decreto, un graduale adeguamento dei propri strumenti regionali di attestazione della prestazione energetica, nonché i requisiti essenziali elencati nel decreto alle Linee Guida.
2. La prestazione energetica è espressa in termini di energia primaria non rinnovabile per la fornitura dei servizi presenti nell’edificio e la classificazione è funzione del rapporto fra la prestazione energetica dell’edificio e quella dell’edificio di riferimento prevista per gli anni 2019/2021. Sono previste 10 classi: la classe migliore (A4) richiede una prestazione EP inferiore a 0,4 EPgl, nr, Lst (2019/2021). La peggiore (G) è assegnata agli edifici con prestazione EP maggiore di 3,5 EPgl, nr, Lst (2019/2021).
L’attestato riguarda la prestazione e la classe energetica dell’edificio o dell’unità immobiliare, ovvero la quantità di energia necessaria ad assicurare il comfort attraverso i diversi servizi erogati dai sistemi tecnici presenti, in condizioni convenzionali d’uso. Per individuare le potenzialità di miglioramento della prestazione energetica, l’attestato riporta, oltre alla prestazione energetica globale, informazioni specifiche sulle prestazioni energetiche parziali: del fabbricato (involucro edilizio), degli impianti di climatizzazione e ventilazione, di produzione di acqua calda sanitaria, di illuminazione (per il settore non residenziale) e di produzione di energia da fonti rinnovabili in loco. Viene altresì indicata la classe energetica più elevata raggiungibile in caso di realizzazione delle misure migliorative consigliate, così come descritte nella sezione “raccomandazioni”.
Forse, l’indicazione più importante per l’utente, che invece manca, sarebbe l’indicazione delle quantità dei vari vettori energetici necessari per i vari servizi presenti (quanti metri cubi di gas, quanti kwh di energia elettrica, quanti quintali di legna, eccetera). Sarebbe opportuno che in Conferenza unificata venisse fatta questa modifica
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICILeasing in costruendo bloccato dalla riforma.
Il leasing in costruendo esce molto ridimensionato dalla nuova contabilità di Regioni ed enti locali, come emerge dal principio contabile (allegato 4/2, punto 3.25, al Dlgs 118/2011).
Il leasing finanziario, al quale appartiene il leasing in costruendo, è stato infatti espressamente inserito tra le forme di indebitamento di cui all'articolo 3, comma 17, della legge 350/2003. Il principio contabile afferma anche che il bene concesso in locazione finanziaria deve essere suscettibile di formare oggetto di proprietà privata.
Così stando le cose, l'ostacolo più grave all'uso di questa forma di leasing proviene dal Patto di stabilità, considerato che, trattandosi di indebitamento, al momento della consegna del bene, che avviene all'esito favorevole del collaudo, l'ente deve emettere un mandato di pagamento imputato tra le spese in conto capitale (conteggiato nel Patto) e una reversale imputata alle entrate per accensioni di prestiti (non conteggiata nel Patto). È chiaro che così operando, per opere di un certo rilievo, nell'anno di consegna dell'opera il rispetto del Patto diverrà problematico, se non impossibile.
Il nuovo principio contabile frena il leasing in costruendo anche dove dispone che le opere debbano essere suscettibili di formare oggetto di proprietà privata, visto che i beni di regioni ed enti locali appartengono quasi totalmente al demanio e al patrimonio indisponibile e pertanto non sono adatti ad essere oggetto di proprietà privata.
Ma quanto sopra è in linea con il Codice dei contratti pubblici e con precedenti pronunce della Corte dei conti e di Autorità governative?
Rispetto al problema dell'indebitamento, il comma 15-ter dell'articolo 3 del Codice considera escluse dall'indebitamento le operazioni in partenariato pubblico privato, delle quali fa parte la locazione finanziaria, con allocazione dei rischi ai sensi delle prescrizioni Eurostat.
Ebbene, la decisione Eurostat 11.02.2004 prevede che i beni oggetto di queste operazioni non costituiscano indebitamento se il soggetto privato assume il rischio di costruzione e almeno uno dei due rischi di disponibilità o di domanda.
Si esprimono in tal senso anche la circolare della Presidenza del consiglio dei ministri del 27.03.2009 e la Corte dei conti (sezioni riunite, parere 49/2011, sezione Lombardia, parere 439/2012). La Corte dei conti Puglia (parere 66/2012) ha affermato che nei casi in cui l'allocazione dei rischi come sopra definiti porti a conclusioni non chiare occorre tener conto anche della decisione Eurostat pubblicata nell'ottobre 2010, secondo cui va preso in considerazione anche l'eventuale conferimento o l'erogazione di contributi diretti di capitali pubblici o il rilascio di garanzie pubbliche sulla copertura del debito o sul rendimento del capitale investito: solo se ciò avvenisse in misura prevalente significherebbe che la maggior parte dei rischi graverebbero sul settore pubblico.
Sulle opere realizzabili tramite leasing, l'articolo 160-bis del Codice indica «la realizzazione, l'acquisizione e il completamento di opere pubbliche o di pubblica utilità». La circolare di Palazzo Chigi indica opere riguardanti la sanità, le scuole, la sicurezza, i trasporti, l'edilizia residenziale pubblica, gli uffici pubblici, i tribunali e gli istituti penitenziari. Una vasta gamma di opere pubbliche dunque, e non certo non tutte suscettibili di formare oggetto di proprietà privata.
Si è pertanto al momento in una situazione di incertezza, che occorre eliminare per non peggiorare ulteriormente la già pesante caduta degli investimenti pubblici
 (articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATALa casa si divide senza permessi. Per frazionare o accorpare immobili è sufficiente la comunicazione di inizio lavori. Pagamento dovuto soltanto se l'intervento fa aumentare il carico urbanistico e la superficie calpestabile.
Per dividere o accorpare un immobile non servono più permessi, Basta una comunicazione asseverata da un tecnico al Comune.
Questa è la conseguenza della norma del Dl 133/2014, il cosiddetto decreto Sblocca Italia, che ha ampliato gli interventi rientranti nella categoria della manutenzione straordinaria, ricomprendendovi anche il frazionamento o l’accorpamento di unità immobiliari. Prima i frazionamenti erano ricondotti alla categoria della ristrutturazione edilizia, spesso limitata in alcune zone e con la necessità di acquisire il permesso di costruire.
Oggi lo scenario è completamente mutato, perché il frazionamento rientra a pieno titolo nella manutenzione straordinaria, regolata dall’articolo 3 del Dpr 380/2001 con rilevanti conseguenze.
Il via libera
Innanzitutto per eseguire questi interventi non è più necessario acquisire un titolo abilitativo, bensì è sufficiente presentare una comunicazione inizio lavori asseverata(Cila). Le opere possono essere avviate subito dopo aver trasmesso al Comune la comunicazione a firma del proprietario dell’immobile o di colui che vanta un diritto reale sullo stesso (superficiario, titolare diritto di abitazione e così via).
La comunicazione va accompagnata da un elaborato progettuale e asseverata (senza relazione tecnica come prima previsto) da un tecnico abilitato (ad esempio, ingegnere o geometra) che attesti sotto la propria responsabilità:
- la conformità agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi;
- la compatibilità con la normativa in materia sismica e sul rendimento energetico;
- la non incidenza sulle parti strutturali dell'edificio(pilastri, travi).
Devono essere altresì riportati i dati identificativi dell’impresa affidataria dei lavori.
Relativamente alla documentazione, è opportuno ricordare che sono stati approvati i modelli unificati per la Cila, che possono essere rinvenuti nei rispettivi siti istituzionali alla voce edilizia.
La Cila è onerosa solo se la manutenzione straordinaria comporta aumento del carico urbanistico purché ne derivi un aumento della superficie calpestabile: in questo caso deve essere corrisposta la quota del contributo di costruzione relativa alle opere di urbanizzazione. Da ciò discende che il contributo è dovuto per realizzare soppalchi abitabili, ma non per il passaggio di locali accessori a superfici utili, in quanto ciò non comporta aumento della superficie calpestabile (si veda la circolare della Regione Emilia Romagna n. 442803/2014).
I limiti
Non può essere alterata la volumetria complessiva degli edifici (con alcuni distinguo per balconi e tipologie di copertura) e deve essere mantenuta l’originaria destinazione d’uso. Se l’intervento riguarda le parti strutturali, deve essere presentata la segnalazione certificata di inizio attività(Scia). È invece ammessa la variazione delle superfici delle singole unità immobiliari nonché del carico urbanistico. Le nuove unità immobiliari derivanti dal frazionamento dovranno rispettare le condizioni di agibilità, quali superfici minime, altezze, illuminazione.
Gli interventi abusivi ricompresi nella Cila non sono soggetti a sanzioni penali, ma ad una sanzione pecuniaria di mille euro, ridotta a 333 euro nel caso di comunicazione spontanea in corso di esecuzione dei lavori.
L’articolo 3 del Dpr 380/2001 (Testo unico edilizia) prescrive che le definizioni degli interventi edilizi (compresa la manutenzione straordinaria che è in genere ammessa dai piani) prevalgono in modo automatico sugli strumenti urbanistici senza necessità di un provvedimento di recepimento.
L’unico limite potrebbe essere quello di prescrizioni di dettaglio che inibiscano alcuni interventi per la tutela di particolari costruzioni indipendentemente dalla classificazione delle opere
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAPratiche catastali al Comune, ma si rischia il caos. Le variazioni. Aggiornamenti in attesa.
Il decreto Sblocca Italia non è intervenuto soltanto sulla fase preventiva di autorizzazione degli interventi di frazionamento o accorpamento di un immobile. Con il decreto legge 133/2014 (convertito dalla legge 164) anche le operazioni successive a questi lavori sono state semplificate dal decreto Sblocca Italia.
Le nuove norme
L’intervento consiste in una modifica all’articolo 6, comma 5, del Testo unico dell’edilizia (Dpr n. 380/2001).
Finora nei casi di attività di edilizia libera, disciplinati dall’articolo 6 del Testo unico, era previsto che entro 30 giorni dal termine dei lavori l’interessato provvedesse, nei casi necessari, alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale.
Per effetto della semplificazione del Dl Sblocca Italia, in tale casistica, l’aggiornamento catastale non è più obbligatoriamente dovuto dalla proprietà: la nuova norma prevede infatti che la comunicazione di inizio dei lavori, laddove integrata con la comunicazione di fine dei lavori, sia tempestivamente inoltrata da parte dell’amministrazione comunale ai competenti uffici dell’agenzia delle Entrate, precisando che la stessa è valida anche ai fini delle variazioni catastali obbligatoriamente previste dalla legge.
Le ricadute operative
Questa semplificazione normativa, finora non accompagnata da istruzioni o direttive di prassi crea, però, una notevole impasse operativa negli aggiornamenti catastali: la comunicazione inoltrata dal Comune all’agenzia delle Entrate, infatti, non è immediatamente utilizzabile per aggiornare gli atti catastali.
Dal 1997 (anno di attivazione della procedura informatica Docfa), gli aggiornamenti catastali sono eseguiti con un procedimento automatico sulla base di un file (contenente anche la rappresentazione planimetrica aggiornata), prodotto dal professionista incaricato dalla proprietà, senza alcun intervento manuale da parte dell’ufficio, se non una verifica formale di correttezza.
Successivamente, il catasto, a campione, provvede, entro un anno alla verifica della coerenza dei dati di classamento (categoria, classe, consistenza, rendita).
L’automatismo del flusso di aggiornamento ha finora impedito la formazione di giacenza di pratiche in arretrato presso l’ufficio catastale.
Con la nuova norma lo scenario dovrebbe essere quello di un massiccio invio di comunicazioni da parte dei Comuni verso l’agenzia delle Entrate, accompagnate da una ancora più cospicua allegazione documentale cartacea (copia progetto). L’invio esonera i cittadini dal precedente obbligo di predisposizione dell’accatastamento (Docfa), adempimento che passa a carico dei Comuni e delle Entrate. Tuttavia, senza alcuna ripartizione precisa dei compiti tra i due enti, non si può escludere che -in prospettiva- la semplificazione, in sé positiva, si traduca in un ritardo nell’aggiornamento della banca dati catastale
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Le soluzioni. A carico del proprietario. Procedura Docfa ancora possibile.
La normativa catastale prevede che in caso di mutazione oggettiva di una unità immobiliare si provveda ad aggiornare la base informativa sia ai fini fiscali sia ai fini civilistici di pubblicizzazione dell’avvenuta variazione. La precedente normativa poneva quest’obbligo dichiarativo sempre in capo alla proprietà; ora, in alcuni casi, l’adempimento rimane in carico ai Comuni (si veda l’articolo in alto).
Ai fini pubblicistici, nella prassi catastale, per individuare l'immobile è stato previsto che nei casi in cui muti il perimetro dell’unità immobiliare (come con il frazionamento e la fusione di unità immobiliari) siano soppressi gli identificativi (numeri di subalterno) delle unità immobiliari originarie e costituiti nuovi identificativi.
Ovviamente deve essere depositato in catasto il nuovo stato di rappresentazione planimetrica dal quale deriva la nuova consistenza e a volte anche una nuova categoria e classe e quindi una diversa rendita. Attività che comunque va svolta, anche alla luce della nuova norma, altrimenti, di fatto, viene sminuita la funzione ed efficacia dell’istituto catastale.
Di fatto, il rischio è che le nuove norme -nell’intento di semplificare la vita ai cittadini- facciano venir meno l’aggiornamento tempestivo dell’istituto catastale. Fino ad arrivare, nei casi limite, all’assenza nella base dati catastale di ogni traccia informativa (ad esempio: annotazione) della variazione oggettiva in itinere.
Ciò potrebbe comportare notevoli disguidi per il cittadino, il quale non avrebbe più certezza sui dati di rendita da utilizzare ai fini fiscali oltre all’impossibilità di procedere alla vendita dell’immobile la cui planimetria catastale non risulti aggiornata allo stato reale dell’immobile. Di fatto, l’articolo 19, comma 4, del Dl n. 78/2010, convertito nella legge 30.07.2010, n. 122, per la libera commerciabilità di un immobile impone che la planimetria presente in catasto sia conforme allo stato reale.
In conclusione, se non verranno fornite indicazioni operative chiare agli uffici è probabile che l’agevolazione prevista dalla nuova norma non si traduca in una reale semplificazione per i cittadini. Soprattutto nei casi in cui ha urgenza di stipula, il proprietario si vedrà costretto a presentare volontariamente un aggiornamento catastale (Docfa) e si spera, almeno, che in questa eventualità non vengano applicate sanzioni per tardivo accatastamento rispetto alla data di ultimazione dei lavori.
Gli stessi professionisti tecnici -geometri in primis- hanno evidenziato i rischi connessi con un’attuazione parziale e non uniforme di una semplificazione che, per quanto lodevole, rischia di non raggiungere gli obiettivi che si è proposta.
Appare perciò necessario che il processo di aggiornamento catastale sia adeguatamente delineato nei ruoli e compiti dei soggetti coinvolti ed informatizzato in maniera da consentire il suo completo espletamento. Si tratta in sostanza, di dare completa attuazione al processo di realizzazione del Modello unico per l’edilizia di cui all’articolo 34-quinquies del decreto-legge 10.01.2006, n. 4, come convertito nella legge 80/2006
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATASugli infissi in serie si applica il 10% di Iva.
Anche l'impresa artigiana che produce infissi in serie e li cede con posa in opera, si applicano le regole per l'applicazione dell'aliquota Iva agevolata del 10% sulle forniture di beni significativi nell'ambito degli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria su immobili a prevalente destinazione abitativa.

È questo il parere espresso dall'Agenzia delle entrate nella risoluzione 06.03.2015 n. 25/E in risposta al quesito formulato da un'associazione che sollevava il problema di come determinare il valore dei beni significativi nel caso di imprese artigiane che, sulla base di contratti di appalto commissionati dagli utenti finali, producono infissi su misura per poi installarli in loco. Secondo le Entrate dunque una tale tipologia di attività non può usufruire di alcuna variante nell'applicazione della norma agevolativa introdotta per la prima volta nel nostro ordinamento dalla legge n. 488 del 1999 e oggi a regime.
Anche tali imprese artigiane determineranno quindi il valore dei beni significativi, tassativamente individuati nel dm 29.12.1999, tra i quali sono ricompresi sia gli infissi interni che quelli esterni, con gli stessi criteri previsti nella circolare del 07.04.2000, n. 71/E. In presenza di beni significativi quali gli infissi, si legge nella risoluzione di ieri, l'aliquota ridotta del 10% si applicherà soltanto fino a concorrenza del valore della prestazione, considerato al netto del valore dei predetti beni.
Tale limite di valore, ribadisce la risoluzione in commento, deve essere individuato sottraendo dall'importo complessivo della prestazione, rappresentato dall'intero corrispettivo dovuto dal committente, il valore dei beni significativi. Il valore delle materie prime e semilavorate, nonché degli altri beni necessari per l'esecuzione dei lavori, forniti nell'ambito della prestazione agevolata, non deve invece essere individuato autonomamente poiché confluisce in quello della manodopera.
E tutto ciò a prescindere dal fatto che le prestazioni in oggetto siano riconducibili a un contratto di cessione con posa in opera oppure a un contratto di appalto. In entrambi i casi infatti, conclude la risoluzione n. 25/e, ai fini dell'individuazione dell'aliquota Iva applicabile, la fornitura degli infissi rileva come fornitura di beni significativi (articolo ItaliaOggi del 07.03.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONo all'autocertificazione per le p.a.. Disabili, esoneri secondo la legge.
Gli enti pubblici non possono autocertificare il proprio esonero dal collocamento obbligatorio di disabili.

Lo precisa il Ministero del lavoro nell'interpello 06.03.2015 n. 4/2015, rispondendo a un quesito dell'Anci (associazione nazionale comuni italiani) in merito al campo di applicazione dell'art. 5, comma 2, della legge n. 68/1999 (diritto al lavoro dei disabili).
La richiamata norma (art. 5), si ricorda, disciplina i casi di esonero del personale dal computo della c.d. quota di riserva (cioè le assunzioni riservate a soggetti disabili); l'ultimo capoverso prevede che «fermo restando l'obbligo del versamento del contributo di cui al comma 3 al Fondo regionale per l'occupazione dei disabili, per le aziende che occupano addetti impegnati in lavorazioni che comportano il pagamento di un tasso di premio ai fini Inail pari o superiore al 60 per mille, la procedura di esonero prevista dal presente articolo è sostituita da un'autocertificazione del datore di lavoro che attesta l'esclusione dei lavoratori interessati dalla base di computo». L'Anci ha chiesto di sapere se quest'ultimo capoverso si possa intendere riferito anche agli enti pubblici.
La risposta è negativa. Il ministero muove dalla lettura dell'art. 5, il quale stabilisce:
• nella prima parte che i datori di lavoro, sia pubblici che privati, ove operino in determinati settori (trasporto aereo, marittimo o terrestre, edile e degli impianti a fune, autotrasporto e minerario) sono sottratti dall'osservanza degli obblighi di assunzione (di cui all'art. 3), con esclusivo riferimento al personale identificato dalla stessa disposizione;
• nell'ultimo periodo (prima riportato) che «(...) le aziende che occupano addetti impegnati in lavorazioni che comportano il pagamento di un tasso di premio ai fini Inail ( .)», la procedura di esonero prevista dal presente articolo è sostituita da un'autocertificazione.
Per il ministero l'ultima previsione non può intendersi riferita agli enti pubblici, perché il dato testuale fa esplicito riferimento alle «aziende» contrariamente a quanto avviene in altre parti dello stesso art. 5 dove il legislatore ha preso espressamente in considerazione i «datori di lavoro privati e gli enti pubblici» (articolo ItaliaOggi del 07.03.2015).

EDILIZIA PRIVATAAggiornamento catastale possibile sotto 20 kiloWatt.
No all'esclusione tout court dall'aggiornamento catastale di tutti gli impianti fotovoltaici di potenza inferiore a 20 kiloWatt, a prescindere dal valore catastale dell'immobile sui quali sono installati. In quanto ciò finirebbe per accordare il medesimo trattamento di favore anche a interventi la cui realizzazione risponde a finalità più chiaramente commerciali.

Questa la risposta fornita il 4 marzo scorso dal viceministro dello sviluppo economico Claudio De Vincenti a un'interrogazione presenta alla camera dal deputato Walter Rizzetto (M5s).
Nell'interrogazione il deputato Rizzetto ha chiesto al governo l'esenzione dalla rivalutazione della rendita catastale per i piccoli impianti con potenza inferiore ai 20 kilowatt picco e non solo per quelli fino a 3 kiloWatt picco. De Vincenti sottolinea che il requisito della potenza a 3 kiloWatt picco non determina automaticamente l'obbligo di aggiornamento catastale dal momento che la disciplina fiscale lo impone solo se il valore dell'impianto supera il 15% del valore capitale, o la relativa redditività ordinaria dell'edificio, a cui accede.
Questo limite consente di salvaguardare gli interventi più mirati all'autoconsumo e quindi più virtuosi, escludendoli dall'obbligo di aggiornamento catastale, che viceversa opera soltanto con riferimento a quelle installazioni realizzate a fini più direttamente commerciali e che quindi superano il 15% del valore capitale. Il meccanismo sopra delineato può perciò comportare, anche a normativa vigente, l'esclusione dall'aggiornamento catastale degli impianti fino a 20 kiloWatt come auspicato dagli interpellanti.
Il viceministro sostiene che si può condividere, l'esigenza posta nell'interpellanza, che l'amministrazione fiscale fornisca dei chiarimenti maggiori sui criteri da utilizzare per verificare il superamento o meno del predetto limite del 15%, rendendo quindi semplice il calcolo per chi voglia installare impianti di potenza maggiore della fascia esentata (articolo ItaliaOggi del 06.03.2015).

EDILIZIA PRIVATAEdifici, prestazione energetica ad hoc.
Nuovi metodi di calcolo della prestazione energetica degli edifici adeguati alla normativa europea. La classificazione degli edifici avverrà in base alla destinazione d'uso con format specifici e nuove norme per il monitoraggio e il controllo della regolarità amministrativa e tecnica della prestazione degli edifici. Dal 01.07.2015 i requisiti minimi saranno sempre più stringenti (nuove trasmittanze per strutture opache e trasparenti) rispetto agli attuali. Saranno aggiornati almeno ogni cinque anni, prevedendo che dal 01.01.2021 tutti gli edifici nuovi o sottoposti a ristrutturazioni importanti dovranno essere a energia quasi zero. L'ape conterrà anche gli indici di climatizzazione estiva, di illuminazione, l'indicazione dell'energia prelevata dalla rete e i vantaggi legati alle diagnosi energetiche e agli interventi di riqualificazione energetica, con lo scopo di rendere più reali le raccomandazioni già oggi presenti sull'attestato.

Queste alcune delle novità contenute nel decreto Mise (emanato di concerto con il ministero dell'ambiente e dei trasporti) di prossima pubblicazione che ridefinirà le modalità di applicazione della metodologia di calcolo delle prestazioni energetiche e dell'utilizzo delle fonti rinnovabili negli edifici, e i requisiti minimi in materia di prestazioni energetiche degli edifici.
Il decreto entrerà in vigore il prossimo 01.07.2015 ed è attuativo dell'articolo 5 del decreto legge 04.06.2013 n. 63 (cosiddetto decreto fare) convertito nella legge 03.08.2013 n. 90.
Applicazione - Il dettato normativo in commento aggiornerà i contenuti del dpr 59/2009 e del dm 26.06.2009 (linee guida nazionali in ambito energetico) e si applicherà alle regioni e province autonome che non avranno ancora recepito la direttiva 2010/31/Ue. Una delle finalità delle nuove linee guida sarà rendere più omogenea e coordinata l'applicazione delle norme per l'efficienza energetica su tutto il territorio nazionale, a oggi estremamente frastagliata a causa dell'autonomia regionale.
Per la prima volta, avremo una definizione tecnica di «edificio a energia quasi zero» e la prestazione energetica riguarderà sia gli edifici pubblici sia quelli privati esistenti sottoposti a ristrutturazione, o di nuova costruzione. Saranno inoltre introdotte quattro tipologie di interventi, ognuna caratterizzata da prescrizioni specifiche diverse, in funzione della percentuale di superficie disperdente dell'involucro interessata e del coinvolgimento o meno dell'impianto termico.
Edificio a energia zero - Per la prima volta, all'interno del decreto una definizione tecnica di «edificio a energia quasi zero. L'indice di prestazione energetica globale dell'edificio e la conseguente classe saranno determinati in funzione di tutti i servizi presenti nell'edificio (climatizzazione invernale, climatizzazione estiva, acqua calda sanitaria, illuminazione e ventilazione).
Vi sarà una definizione più chiara dei consumi energetici così da permettere all'utente di individuare il consumo totale di energia e la quota di energia rinnovabile utilizzata, la qualità dell'involucro e degli impianti (articolo ItaliaOggi del 06.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - VARIParere Mit. Autovelox segnalato e visibile.
Il controllo elettronico della velocità dei veicoli può essere effettuato dalla pattuglia su qualunque tratto di strada nel rispetto dei vincoli di visibilità e segnaletica preventiva. Anche senza obbligo di contestazione immediata.

Lo ha confermato il Ministero dei trasporti con il parere n. 2842/2014 di prot..
Il controllo automatico della velocità dei veicoli è disciplinato dal dl 121/2002 ed è di fatto ammesso solo in determinate condizioni. Nel centro abitato solo sulle strade di scorrimento individuate dal prefetto possono essere attivati autovelox automatici, specifica il parere centrale. Ma questo non impedisce agli organi di polizia stradale di effettuare dei controlli, anche senza obbligo di contestazione immediata.
Specifica infatti il ministero che il controllo elettronico della velocità può essere effettuato anche sulle strade urbane e di quartiere previa idonea segnalazione e con strumentazione ben visibile. E per la regolarità degli accertamenti non rileva se la postazione autovelox sia fissa o mobile. L'importante è che sia presidiata dagli agenti (articolo ItaliaOggi del 06.03.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOCompetenze. Polizia e vigili pari sono.
Le competenze di polizia stradale sono le stesse per tutti i corpi di vigilanza. Nessuna disposizione stabilisce infatti in questa campo una posizione di privilegio della Polstrada rispetto agli altro organi di polizia.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere n. 47/2015 di prot..
Un comune ha richiesto chiarimenti sulle competenze della prefettura e della polizia di stato in relazione all'attività di controllo stradale dei vigili urbani. Le pattuglie della polizia municipale possono effettuare qualsiasi tipo di controllo su ogni categoria di strada, eccetto le autostrade, specifica innanzitutto il ministero.
Sia dentro che fuori al centro abitato. L'autorizzazione del rappresentante governativo è necessaria solo per l'attivazione degli autovelox fissi e automatici. Ed è sempre il prefetto che ha facoltà di coordinare i servizi. Per il resto nessuna disposizione evidenzia una posizione di privilegio di un organo rispetto all'altro (articolo ItaliaOggi del 06.03.2015).

ENTI LOCALI - VARIInvalidi. Parcheggio senza catenelle.
Il titolare di un box personalizzato per autisti invalidi non può recintare lo spazio riservato per garantirsi il posto al suo rientro.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere n. 1732/2014 di prot..
Un cittadino romano munito di contrassegno invalidi ha ottenuto dall'amministrazione capitolina la possibilità ammessa dalla legge di istituire sotto casa un parcheggio riservato con tanto di targa identificativa del veicolo. Su questo spazio però non è possibile installare dei dissuasori di sosta, specifica l'organo tecnico centrale, «in modo da consentire al titolare stesso l'attivazione o la disattivazione del dispositivo stradale».
In buona sostanza non possono essere installate catenelle o altri sistemi perché questi sistemi oltre a rendere ulteriormente complesse le manovre di guida interferirebbero con la possibilità degli utenti di utilizzare lo spazio per una semplice fermata, quando libero. Oltre a costituire un ostacolo, inoltre, si tratterebbe di una vera e propria occupazione di suolo pubblico diversamente disciplinata dalla norma (articolo ItaliaOggi del 06.03.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAReati ambientali, arriva la stretta. Riconosciuta come attenuante l’azione di chi inquina ma poi rimedia al danno.
Diritto dell’economia. Il Senato approva il testo che ora passa alla Camera - Cinque nuove figure di delitto tra cui il disastro.

Cinque nuovi reati, sanzioni a carico delle imprese quando hanno tratto vantaggio dal delitto, ampio ricorso alla confisca, possibilità di un ravvedimento operoso. Questi i cardini del disegno di legge sui reati ambientali approvato ieri mattina dal Senato a larghissima maggioranza (165 sì, 49 no e 18 astenuti).
Il testo ora passa alla Camera, ma l’ampio consenso registrato sembra essere un buon viatico per un’approvazione in tempi rapidi. Esulta il ministro della Giustizia Andrea Orlando: «Come ministro dell’Ambiente, mi sono recato, come primo atto, nella Terra dei fuochi e allora mi sono impegnato a procedere verso una riforma complessiva dei reati ambientali in ambito penale». E sull’impianto del provvedimento Orlando chiarisce che «questo non è un provvedimento che inasprisce semplicemente le sanzioni; ci sono procedure che tengono conto anche di condotte per il recupero dei siti inquinati. Un equilibrio che ci consente di dire che qui c’è non solo un segnale politico: mi pare che ci sia equilibrio anche perché permette ad alcuni reati minori di estinguersi in determinati casi con forme di collaborazione e il risanamento».
Più nel dettaglio, viene inserito nel Codice penale un nuovo titolo dedicato ai reati contro l’ambiente, all’interno del quale sono introdotti i nuovi delitti di inquinamento ambientale, di disastro ambientale, di traffico e abbandono di materiale radioattivo e di impedimento di controllo.
Spazio poi al ravvedimento operoso, prevedendo una considerevole diminuzione di pena (dalla metà a due terzi) nei confronti di chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, o aiuta concretamente l’autorità di polizia o la magistratura nella ricostruzione dei fatti, nell’individuazione dei colpevoli e nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione di delitti oppure di chi provvede, prima del dibattimento, alla messa in sicurezza e alla bonifica e, se possibile, al ripristino dello stato dei luoghi. Se, per compiere tali attività, l’imputato chiede la sospensione del procedimento penale, il giudice può accordare al massimo tre anni di sospensione, durante il quale il corso della prescrizione è sospeso.
Nel testo licenziato dalle Commissioni parlamentari del Senato si prevedeva che in caso di reati di inquinamento e disastro commessi in forma colposa, il ravvedimento operoso costituisse causa di non punibilità. Sul punto è intervenuto un emendamento governativo soppressivo della speciale causa di non punibilità, in modo che l’eventuale messa in sicurezza, bonifica e ripristino agiscano soltanto come specifiche attenuanti di pena e non come causa di non punibilità.
Si prevede la confisca, anche per equivalente, del prodotto o profitto del reato (questo non solo per i delitti ora introdotti ma anche per il traffico di rifiuti). La confisca è esclusa, invece, nel caso in cui l’imputato abbia provveduto alla messa in sicurezza e, se necessario, all’attività di notifica e di ripristino dello stato dei luoghi.
Per il reato di disastro ambientale, per quello di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti e per l’ipotesi aggravata di associazione per delinquere è prevista anche la confisca come misura di prevenzione dei valori ingiustificati o sproporzionati rispetto al proprio reddito
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente, autorizzazione unica. Dai fanghi ai rifiuti, sostituiti sette diversi via libera. Dopo l'ok in Conferenza unificata è pronto il dm per interventi produttivi ed energia.
In arrivo il modello semplificato e unificato per la richiesta di Autorizzazione unica ambientale (Aua) riguardante gli interventi sugli impianti produttivi e per la produzione di energia da fonti rinnovabili di piccole dimensioni. L'autorizzazione unica potrà sostituire fino a sette autorizzazioni: l'autorizzazione all'uso dei fanghi di depurazione, la comunicazione sullo smaltimento e il recupero dei rifiuti, l'autorizzazione sugli scarichi, la comunicazione per l'utilizzo delle acque reflue, l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera e la documentazione previsionale di impatto acustico. Le regioni, entro il 30.06.2015, dovranno adeguarsi alla nuova modulistica nazionale. Le regioni e le province autonome potranno comunque individuare ulteriori tipologie di autorizzazioni, comunicazioni e notifiche in materia ambientale da ricomprendere all'interno dell'autorizzazione unica.

Lo prevede lo schema di decreto ambiente-semplificazione-sviluppo economico che ha ricevuto il parere favorevole della conferenza unificata il 26 febbraio scorso e attende ora la pubblicazione.
Richiesta Autorizzazione unica
L'Autorizzazione unica ambientale deve essere richiesta allo sportello unico per le attività produttive (Suap), il quale fa da tramite e referente unico con le singole autorità competenti per il rilascio. In questo modo le imprese possono avere un solo interlocutore per il rilascio «in un'unica soluzione» di più autorizzazioni, permessi, nullaosta, contenuti in un unico provvedimento della durata di 15 anni, senza dover interloquire in momenti diversi con le singole autorità competenti, con le quali invece «dialoga» lo sportello unico.
Il Suap cura la trasmissione delle domande, della documentazione e delle informazioni necessarie ai fini del rilascio del provvedimento unico, occupandosi dell'acquisizione dei pareri, degli atti di assenso e simili previsti dalla normativa attraverso, se necessario, la conferenza di servizi.
È stata inoltre prevista una procedura semplificata anche per il rinnovo dell'autorizzazione unica ambientale: se le condizioni di esercizio dell'impianto interessato sono rimaste immutate, è infatti sufficiente la presentazione di un'istanza con una dichiarazione sostitutiva. Durante il tempo necessario per il rinnovo dell'autorizzazione, l'esercizio dell'attività può proseguire sulla base dell'autorizzazione precedente.
Soggetti interessati
L'Autorizzazione unica può essere richiesta da tutte le imprese non soggette ad Autorizzazione integrata ambientale (Aia) e a Valutazione d'impatto ambientale (Via) che abbiano necessità di ottenere almeno uno dei seguenti titoli: l'autorizzazione agli scarichi di acque reflue, la comunicazione preventiva per l'utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento, delle acque di vegetazione dei frantoi oleari e delle acque reflue provenienti dalle aziende ivi previste, l'autorizzazione alle emissioni in atmosfera, l'autorizzazione di carattere generale alle emissioni in atmosfera, la documentazione previsionale di impatto acustico, l'autorizzazione all'utilizzo dei fanghi derivanti dal processo di depurazione in agricoltura, le comunicazioni in materia di rifiuti (articolo ItaliaOggi del 03.03.2015).

EDILIZIA PRIVATALibretti di caldaia integrabili entro dicembre. Riscaldamento. La misura nel milleproroghe.
Per il nuovo libretto della caldaia c’è tempo sino a fine 2015.
La legge 11/2015, che ha convertito il Dl 192/2014 (il “milleproroghe“) ha differito al 31.12.2015 il termine, scaduto il 25.12.2014, per gli adempimenti relativi all’integrazione dei libretto di centrale per gli impianti termici civili da 35 kW in su.
Il Dlgs 152/2006 (Codice dell’ambiente) prevede che gli impianti termici con potenza nominale superiore o uguale al valore di soglia di 35 kW devono essere muniti di un libretto di centrale. Questo deve essere conservato presso l’edificio o l’unità immobiliare in cui è collocato l’impianto termico. La compilazione per le verifiche periodiche dell’impianto è effettuata dal responsabile dell’esercizio e della manutenzione dell’impianto termico. In caso di nomina del terzo responsabile e successiva rescissione contrattuale, il terzo responsabile è tenuto a consegnare al proprietario o all’eventuale subentrante, l’originale del libretto, ed eventuali allegati, il tutto debitamente aggiornato.
L’articolo 284, comma 2, del Dlgs 152/2006 prevedeva, tra l’altro, che per gli impianti termici civili di potenza termica nominale superiore al valore di soglia (35 kW), il libretto di centrale avrebbe dovuto essere integrato, entro il 31.12.2012, da un atto in cui si dichiara che l’impianto è conforme alle caratteristiche tecniche (di cui all’articolo 285) ed è idoneo a rispettare i valori limite di emissione (di cui all’articolo 286) previsti dallo stesso decreto.
L’articolo 11, comma 7, del Dl 91/2014 ha differito il termine precedente , consentendo di ottemperare agli adempimenti entro sei mesi dall’entrata in vigore del medesimo decreto legge, quindi entro il 25.12.2014. Il differimento si era reso necessario perché tra gli adempimenti integrativi da presentare, in base al comma 2 dell’articolo 284 del Codice dell’ambiente, figura un atto in cui si dichiara che l’impianto è conforme alle caratteristiche tecniche di cui all’articolo 285, caratteristiche che però erano scomparse, in seguito all’entrata in vigore del comma 52 dell’articolo 34 del Dl 179/2012.
Le caratteristiche tecniche, però, sono state reinserite con l’articolo 11, comma 9 del Dl 91/2014. Si era reso perciò necessario fissare il nuovo termine al 25.12.2014. Il milleproroghe, al comma 2-bis dell’articolo 12, ha infine differito il termine al 31.12.2015.
Il libretto di centrale deve essere inoltre integrato con l’indicazione delle manutenzioni ordinarie e straordinarie necessarie ad assicurare il rispetto dei valori limite di cui all’articolo 286 del Codice dell’ambiente.
È punito con la sanzione amministrativa da 516 a 2.582 euro il responsabile dell’esercizio e della manutenzione dell’impianto che non redige, o redige in modo incompleto questo documento con l’indicazione delle manutenzioni, come descritto all’articolo 284, comma 2 del Dlgs 152/2006, o non lo trasmette all’autorità competente. La stessa sanzione è prevista nel caso in cui venga mantenuto in esercizio un impianto termico non conforme
 (articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti, Sistri ad ampio raggio. Dall'1 aprile scattano le sanzioni per omessa iscrizione. Le nuove regole sui codici Cer estendono i soggetti obbligati al tracciamento telematico.
Sistri piglia tutto. Lo scattare dal prossimo 01.04.2015 delle sanzioni per omessa iscrizione al Sistri si innesta sulle nuove regole del dlgs 152/2006 per la classificazione dei rifiuti in vigore dallo scorso 18 febbraio, promettendo di far crescere il numero delle imprese che, producendo o gestendo rifiuti speciali pericolosi, sono obbligate a utilizzare il sistema di tracciamento telematico dei residui.
Lo scenario è disegnato da due provvedimenti: la legge di conversione del dl 192/2014 (c.d. «Milleproroghe») approvata in via definitiva dal Senato giovedì 26 febbraio, che conferma l'operatività delle citate sanzioni Sistri (prevedendone solo uno slittamento di due mesi rispetto all'originaria data del 01.02.2015) e il dl 91/2014 (c.d. «Competitività), che, introducendo nel Codice ambientale l'obbligo di adottare il principio di precauzione nell'attribuzione dei codici Cer ai rifiuti, allarga di fatto il novero di quelli da identificare come pericolosi.
Sanzioni Sistri. Dal 01.04.2015 scatta l'applicabilità delle sanzioni ex commi 1 e 2, articolo 260-bis del dlgs 152/2006, che puniscono a titolo amministrativo (con importi fino a 93 mila euro), rispettivamente, l'omessa iscrizione al Sistri e il mancato pagamento del relativo contributo. A fissare la nuova data di operatività delle suddette sanzioni, come accennato, è l'approvata legge di conversione del decreto legge 31.12.2014, n. 192 (provvedimento, a sua volta, di novella del dl 101/2013, decreto che aveva fissato il precedente calendario Sistri).
La legge di conversione del Milleproroghe non tocca invece il termine iniziale di applicabilità delle sanzioni previste dai commi dal 3 al 9 dell'articolo 260-bis del dlgs 152/2006 per la violazione delle altre regole Sistri (quelle relative al vero e proprio tracciamento telematico dei rifiuti: registrazione delle movimentazioni tramite il sistema informatico nazionale, tenuta della documentazione annessa, controllo satellitare dei mezzi di trasporto, videosorveglianza degli impianti).
L'operatività di queste ultime sanzioni scatterà infatti, come previsto dall'originario dl 192/2014, solo dal 01.01.2016, insieme alla cessazione del c.d. «regime transitorio del doppio binario» che obbliga i soggetti Sistri a effettuare il tradizionale tracciamento dei rifiuti. In base all'attuale assetto normativo, lo ricordiamo, l'adesione al Sistri è obbligatoria per i seguenti soggetti: enti/imprese produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi (a eccezione, se non stoccano i propri rifiuti, delle aziende agricole che li conferiscono a propri sistemi di raccolta e delle piccole strutture individuate dal dm 24.04.2014); enti/imprese di raccolta/trasporto a titolo professionale, di trattamento, recupero, smaltimento, commercio, intermediazione di rifiuti speciali pericolosi; nuovi produttori di rifiuti pericolosi; operatori del trasporto intermodale affidatari di rifiuti speciali pericolosi; comuni e imprese di trasporto rifiuti urbani della regione Campania.
Tra i produttori iniziali di rifiuti speciali pericolosi obbligati all'iscrizione al Sistri ex articolo 188-ter, dlgs 152/2006 figurano, come chiarito anche dalla circolare Minambiente 31.10.2013, anche quelli che provvedono poi al trasporto in proprio degli stessi residui. E tra questi, il dm 52/2011 (cd. «Testo unico Sistri») stabilisce altresì come gli enti e le imprese individuati dall'articolo 212, comma 8 del dlgs 152/2006 (tra cui quelli ammessi a regime semplificato d'iscrizione Albo gestori per trasporto di piccole quantità di rifiuti pericolosi) debbano versare sia il contributo Sistri relativo alla categoria di produttori di appartenenza sia il contributo relativo al numero di veicoli adibiti al trasporto rifiuti.
A titolo generale, l'iscrizione al Sistri deve essere formalizzata: prima di dare avvio alle attività, o comunque al verificarsi dei presupposti per i quali la disciplina in materia dispone l'obbligo di iscrizione (dm 52/2011, articolo 10); in caso di produzione accidentale di tali rifiuti, entro tre giorni lavorativi dall'accertamento della pericolosità degli stessi (articolo 188-ter, comma 10, dlgs 152/2006).
Per i nuovi iscritti il contributo annuale previsto dal dm 52/2011 («a copertura degli oneri derivanti dalla costituzione e dal funzionamento del Sistri) deve essere contestualmente versato, per i soggetti già iscritti la regolarizzazione è richiesta entro il 30 aprile dell'anno in corso. La proroga al 01.04.2015 dell'applicabilità delle (prime) sanzioni Sistri allunga però anche il termine entro cui esercitare il «ravvedimento operoso» previsto dal comma 9-ter, articolo 260-bis, che assicura l'immunità dalle sanzioni in caso di adempimento entro 30 giorni dalla commissione dell'illecito, o la riduzione delle stesse ad 1/4 in caso di definizione della controversia entro 60 giorni dalla contestazione.
La nuova classificazione dei rifiuti. A fare da «volano» al Sistri, come accennato, potranno ben concorrere le nuove regole per la classificazione dei rifiuti in vigore dal 18.02.2015 ex dl 91/2014 (come convertito in legge 11.08.2014, n. 116). Le riformulate istruzioni dell'allegato D, Parte IV del Codice ambientale (recante l'Elenco dei rifiuti) per la corretta attribuzione ai residui dei codici identificativi (c.d. «Cer») impongono infatti agli operatori due precise condotte: in primo luogo, laddove non siano noti i composti specifici dei rifiuti, per individuare le caratteristiche di pericolo del rifiuto devono essere presi come riferimento quelli peggiori; in secondo luogo, qualora le sostanze presenti non siano note o determinate, i rifiuti devono essere classificati come pericolosi.
Tale declinazione nazionale del «principio di precauzione ambientale» di matrice comunitaria indirizzerà verosimilmente le imprese (guidate da una pedissequa finalità di tutela, anche dalle sanzioni per gestione di rifiuti non autorizzata) ad identificare senz'altro come pericolosi quei rifiuti classificabili tra i pericolosi solo in presenza di determinate caratteristiche (c.d. rifiuti con «codici a specchio»).
Sulla prospettiva di una «crescita» dei rifiuti da classificare come pericolosi alla luce delle nuove disposizioni si sono nei giorni scorsi pronunciati sia l'Ordine nazionale dei chimici che le associazioni degli operatori del settore (Fise Assoambiente, Fise Unire, Federambiente e Atia-Iswa), le quali con paralleli comunicati stampa hanno sottolineato le criticità per produttori, gestori di impianti e consulenti.
Le ricadute sul sistema. A cascata, la prospettata (ri)classificazione dei rifiuti promette dunque di allargare fin da subito il novero delle aziende che, producendo o gestendo rifiuti (speciali) da identificare come pericolosi saranno obbligate ad iscriversi al Sistri. Questo, almeno, fino al prossimo e nuovo appuntamento del 01.06.2015, termine a partire dal quale saranno direttamente applicabili sul territorio nazionale (anche senza un tempestivo adeguamento del dlgs 152/2006, poiché «self executing») le nuove norme Ue previste dal regolamento 1357/2014 sulle caratteristiche di pericolo dei rifiuti e dalla decisione 2014/995/Ce recante il nuovo Elenco europeo dei rifiuti (articolo ItaliaOggi Sette del 02.03.2015).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIOL’articolo 31, comma 21, della legge 23.12.1998 n. 448 dispone che in sede di revisione catastale, è data facoltà agli enti locali, con proprio provvedimento, di disporre l'accorpamento al demanio stradale delle porzioni di terreno utilizzate ad uso pubblico, ininterrottamente da oltre venti anni, previa acquisizione del consenso da parte degli attuali proprietari.
Sicché, la deliberazione comunale senza il preventivo atto unilaterale di assenso all'accorpamento è illegittima.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con istanza sospensiva, proposto, con presentazione diretta, ex art. 11 d.P.R. n. 1199/1971, dalle signore F.C. e M.B. per l’annullamento della deliberazione n. 21 del 28.04.2011 del Comune di Castel di Casio avente ad oggetto l’accorpamento al demanio stradale comunale di aree assoggettate ad uso pubblico ultraventennale.
...
Premesso:
Le ricorrenti impugnano la delibera consiliare del Comune di Castel di Casio n. 21 del 28.04.2011 con la quale è stato deciso, ai sensi dell’art. 31, commi 21 e 22, della legge 23.12.1998 n. 448, di accorpare al demanio stradale comunale aree assoggettate ad uso pubblico ultraventennale.
Le ricorrenti sottolineano che, giusta la predetta norma legislativa, tale accorpamento può essere deliberato unicamente nei casi in cui i proprietari acconsentano e loro non hanno sottoscritto alcun atto unilaterale né hanno mai prestato il loro preliminare consenso all’accorpamento.
Il Ministero conclude per l’inammissibilità del ricorso perché il Comune di Castel di Casio ha sempre inteso acquisire solo la quota parte dei proprietari delle aree che hanno prestato il loro consenso lasciando impregiudicata la quota delle ricorrenti per la quale sarà, comunque, avviata la procedura di acquisizione dei terreni a titolo originario.
Considerato:
L’articolo 31, comma 21, della legge 23.12.1998 n. 448 dispone che in sede di revisione catastale, è data facoltà agli enti locali, con proprio provvedimento, di disporre l'accorpamento al demanio stradale delle porzioni di terreno utilizzate ad uso pubblico, ininterrottamente da oltre venti anni, previa acquisizione del consenso da parte degli attuali proprietari.
Dalla delibera impugnata non risultano i proprietari che hanno espresso con atto unilaterale il loro consenso all’accorpamento dei loro terreni al demanio stradale comunale e nella parte dispositiva può essere desunto che tale accorpamento riguarda tutto il tratto della strada comunale.
Per queste considerazioni il ricorso merita accoglimento con annullamento della deliberazione impugnata nella parte in cui non esclude dall’accorpamento i terreni delle ricorrenti (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 16.03.2015 n. 768 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTISmaltimento in proprio con riduzione della Tarsu. Rifiuti. Sulle superfici produttive.
Spetta la riduzione proporzionale della Tarsu alla società che ha provveduto in proprio allo smaltimento dei rifiuti.
È quanto emerge dalla sentenza 13.03.2015 n. 5047 della Corte di Cassazione, Sez. tributaria civile.
Il contenzioso scaturisce da un accertamento comunale per il periodo 2002-2004 relativo alla Tarsu sulle superfici che una Spa utilizzava ai fini produttivi. La società interessata si è opposta prima in Ctp e poi in Ctr ritenendo non dovuta la Tarsu in quanto risulta «possibile per l'operatore economico privato sottrarsi alla privativa comunale provvedendo in via autonoma allo smaltimento dei rifiuti», anche in presenza dell’effettuazione da parte del Comune del servizio di raccolta differenziata dei rifiuti non pericolosi assimilati a quelli urbani.
In entrambi i gradi del giudizio di merito la società risulta soccombente e ricorre così in Cassazione insistendo per la non debenza. E la Suprema corte le dà ragione.
In primo luogo, per i due anni il Comune ha deliberato l'assimilazione dei rifiuti speciali prodotti dalla contribuente ai rifiuti urbani. E, in base al Dpr 158/1999, questo impone l’applicazione sulla parte variabile della tariffa di una riduzione proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati recuperati. Pertanto nel caso di inadempienza del Comune tale coefficiente di riduzione può essere individuato dal giudice tributario risultando così possibile, secondo la pronuncia di legittimità, sottrarsi alla privativa comunale.
In secondo luogo, anche se il Comune aveva attivato il servizio di raccolta, in base al decreto Ronchi (Dlgs 22/1997) la contribuente ha «il diritto a una riduzione tariffaria rispetto alla quantità avviata al recupero» in quanto, nella fase transitoria, tale disposizione poteva essere applicato dai Comuni anche ai fini della Tarsu
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.03.2015).

APPALTIPer giurisprudenza pacifica, il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal giudice amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale.
Il giudice amministrativo può, quindi, sindacare le valutazioni compiute dalla Stazione appaltante sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad una autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione della sfera propria dell’amministrazione.
Si è pertanto aggiunto che, in sede di verifica delle offerte anomale, l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a dimostrazione della non anomalia della propria offerta, rientra nella discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione o valutazioni abnormi o inficiate da evidenti errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l’impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell’amministrazione.
Quel che rileva, facendo applicazione dei principi che si sono ricordati, è che, a giudizio dell’amministrazione, l’offerta risulti nel suo complesso affidabile (o non affidabile) e che l’aggiudicatario dia quindi garanzia (o non dia tale garanzia) di una seria esecuzione del contratto.

8.- Il motivo non è fondato.
Come ha già correttamente affermato il TAR, non vi è stato, preliminarmente, un vizio, nel procedimento seguito dall’apposita Commissione, nominata ai sensi dell'art. 88, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, che possa far ritenere illegittimo il giudizio di anomalia formulato sull’offerta presentata dall’appellante.
E’ vero, infatti, che nella fattispecie non è stato seguito esattamente il percorso dettato dall’art. 88 del codice dei contratti, essendo stata l’appellante convocata (ed ascoltata) dopo la presentazione delle giustificazioni scritte, che le erano state richieste sulla sua offerta, ed avendo l’interessata conosciuto proprio in sede di audizione, in data 08.05.2013, i motivi per i quali la Commissione aveva ritenuto che la sua offerta presentasse possibili profili di anomalia che non risultavano superati dalle giustificazioni presentate il 19.06.2012, tuttavia l’interessata ha avuto modo di inviare successivamente, in data 20 e 21.05.2013, le proprie ulteriori deduzioni sui profili di anomalia rilevati dalla Commissione e tali deduzioni sono state oggetto di esame da parte della Commissione prima di giungere al giudizio conclusivo di anomalia, come risulta chiaramente dall’atto, inviato dalla stessa Commissione al RUP, in data 09.10.2013.
Come ha evidenziato il TAR, non era stata quindi in alcun modo pregiudicata «l’effettività del contraddittorio, che si svolgeva comunque in modo del tutto pieno, in tre diverse e progressive fasi» ed inoltre «sin dalla nota in data 06.06.2012, prot. n. 3530, la ASL indicava analiticamente … gli elementi rispetto ai quali l’offerta suscitava perplessità, così ponendo la ditta nelle condizioni migliori per una proficua difesa».
Peraltro, come pure ha evidenziato il TAR, dagli atti non emerge «alcun concreto profilo di congruità dell’offerta rimasto inesplorato», né si può ritenere che «una diversa articolazione del procedimento avrebbe potuto modificare il giudizio della Commissione».
8.1.- Non risulta, in particolare, condivisibile l’affermazione fatta dall’appellante secondo cui non sarebbe stata concessa all’impresa la possibilità di precisare o documentare quanto ritenuto insufficientemente motivato o non adeguatamente comprovato dalla Commissione.
Risulta, invece, chiaramente dagli atti che l’impresa ha avuto modo di giustificare la sua offerta con tutti gli elementi di cui poteva disporre (con le giustificazioni presentate il 19.06.2012 e le successive ulteriori giustificazioni presentate il 20 e 21.05.2013) e che tali elementi non sono stati ritenuti sufficienti, a giudizio della Commissione, per escludere l’anomalia dell’offerta presentata.
8.2.- Né la Commissione ha ritenuto inammissibile, per un profilo meramente formale, la rimodulazione delle originarie giustificazioni, avendo invece evidenziato che tali (seconde) giustificazioni (che la Commissione ha comunque esaminato nel merito) avevano condotto ad una complessiva rivisitazione delle voci di costo costituenti l’offerta «nel tentativo di fornire dimostrazione di attendibilità e congruità della medesima».
La Commissione ha peraltro concluso, per le ragioni che sono state ampiamente esposte nella citata relazione inviata al RUP in data 09.10.2013, che l’offerta dell’appellante Chemi Pul doveva ritenersi anomala.
9.- Per quanto riguarda il merito del giudizio formulato, si deve ricordare che, per giurisprudenza pacifica, il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal giudice amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale (Consiglio di Stato, Sez. III n. 5196 del 21.10.2014; n. 1487 del 27.03.2014; Sez. V, n. 3737 del 26.06.2012).
Il giudice amministrativo può, quindi, sindacare le valutazioni compiute dalla Stazione appaltante sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad una autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione della sfera propria dell’amministrazione (Consiglio di Stato, sez. V, n. 974 del 18.02.2013).
9.1.- Si è pertanto aggiunto che, in sede di verifica delle offerte anomale, l’esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti, a dimostrazione della non anomalia della propria offerta, rientra nella discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, con la conseguenza che soltanto in caso di macroscopiche illegittimità, quali gravi ed evidenti errori di valutazione o valutazioni abnormi o inficiate da evidenti errori di fatto, il giudice di legittimità può esercitare il proprio sindacato, ferma restando l’impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell’amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. III n. 5196 del 21.10.2014, Sez. V, n. 3340 del 06.06.2012).
9.2.- Quel che rileva, facendo applicazione dei principi che si sono ricordati, è che, a giudizio dell’amministrazione, l’offerta risulti nel suo complesso affidabile (o non affidabile) e che l’aggiudicatario dia quindi garanzia (o non dia tale garanzia) di una seria esecuzione del contratto (in termini Consiglio di Stato, Sez. III, n. 1487 del 27.03.2014) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 13.03.2015 n. 1337 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Corte rimette la causa al Primo Presidente, affinché ne valuti l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della seguente questione: se, nel caso in cui il regolamento edilizio determini solo la distanza fra le costruzioni, in assenza di qualunque indicazione circa il distacco delle stesse dal confine, il principio della prevenzione deve ritenersi operativo, non ostandovi alcun divieto di costruire in aderenza o sul confine, o se, invece, allorquando i regolamenti edilizi comunali stabiliscano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prevista dal codice civile, detta prescrizione debba intendersi comprensiva di un implicito riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo deve osservare una distanza non inferiore alla metà di quella prescritta, con conseguente esclusione della possibilità di costruire sul confine e, quindi, dell’operatività del criterio cosiddetto “della prevenzione”. 
 - Punto di partenza nell’esame della fattispecie, il principio di diritto enunciato da Cass. n. 13338/06 nella precedente fase di legittimità, secondo cui le limitazioni previste dall’art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942, introdotto dall’art. 17 della legge n. 765/1967, riguardanti la distanza tra edifici vicini nei comuni sprovvisti di piano regolatore o di programma di fabbricazione, si estendono anche ai comuni dotati di regolamento edilizio, se esso è privo di norme disciplinanti i distacchi tra costruzioni, mentre prevalgono nel caso in cui il regolamento contenga tali disposizioni. Come appunto è il caso del comune di Ottaviano, munito di un regolamento edilizio approvato in epoca anteriore all’entrata in vigore della c.d. ‘legge ponte’, il quale all’art. 26 pone un divieto di spazi vuoti inferiori a 8 metri tra casa e casa.
Nulla ha stabilito, invece, detta sentenza quanto alle conseguenze di tale prevalenza dell’art. 26 del regolamento comunale, limitandosi a stabilire che la Corte d’appello avrebbe dovuto verificarne in concreto l’applicabilità.
- Il giudice di rinvio è pervenuto alla propria decisione coordinando in sequenza due proposizioni, ossia a) che la costruzione degli eredi Gu. è posta ad una distanza da quella di proprietà D.G. inferiore agli otto metri prescritti dall’art. 26 regolamento edilizio del comune di Ottaviano; e b) che preveniente nell’edificazione è da ritenersi la D.G. e non il Gu. .
Poiché la prima delle suddette affermazioni dipende in realtà dalla seconda, è quest’ultima a costituire il fulcro della ratio decidendi.
Ed essendo censurato anche l’accertamento della prevenzione, occorre soffermarsi sul relativo presupposto.
- Nella giurisprudenza di questa Corte è pacifica l’inoperatività del criterio della prevenzione allorquando la disciplina regolamentare imponga il rispetto di una distanza inderogabile delle costruzioni dai confini (cfr. Cass. Cass. nn. 23693/2014, 18728/2005, 627/2003, 12561/2002, 4895/2002, 4366/2001, 10600/1999, 4438/1997, 3737/1994, 7747/1990 e 4737/1987, tutte precedute dall’incipit di S.U. n. 2846/1967). Meno univoca, invece, è la soluzione concernente l’ipotesi in cui le disposizioni locali prevedano solo una distanza tra costruzioni maggiore di quella codicistica.
A tale ultimo riguardo nella giurisprudenza di questa seconda sezione si registra un contrasto sincrono.
Un primo indirizzo afferma che nel caso in cui il regolamento edilizio determini solo la distanza fra le costruzioni, in assenza di qualunque indicazione circa il distacco delle stesse dal confine, il principio della prevenzione deve ritenersi operativo, non ostandovi alcun divieto di costruire in aderenza o sul confine (Cass. nn. 25401/2007, 8283/2005, 6101/1993, 5474/1991, 3859/1988, 8543/1987 e 4352/1983).
In base al secondo orientamento, invece, allorquando i regolamenti edilizi comunali stabiliscano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prevista dal codice civile, detta prescrizione deve intendersi comprensiva di un implicito riferimento al confine, dal quale chi costruisce per primo deve osservare una distanza non inferiore alla metà di quella prescritta, con conseguente esclusione della possibilità di costruire sul confine e, quindi, dell’operatività del criterio cosiddetto ‘della prevenzione’ (Cass. nn. 4199/2007, 16574/2006, 5953/1996, 5062/1992, 5055/1984 e 4246/1981; in posizione intermedia, Cass. n. 1282/99, la quale pur affermando che non opera la prevenzione ove i regolamenti edilizi comunali stabiliscano una distanza minima assoluta tra costruzioni maggiore di quella prevista dal codice civile, detta prescrizione dovendosi intendere comprensiva di un implicito riferimento al confine, precisa che il metodo di misurazione dei distacchi –metà della distanza dal confine per ciascun proprietario– non è incompatibile con la previsione della facoltà di edificare sul confine ove lo spazio antistante sia libero fino alla distanza prescritta, oppure in aderenza o in appoggio a costruzioni preesistenti, con conseguente applicabilità del criterio della prevenzione).
- In ordine alla specifica incidenza sul criterio della prevenzione delle norme regolamentari locali che in materia edilizia stabiliscano una distanza non espressamente collegata al confine, le S.U. di questa Corte si sono pronunciate una sola volta, allorché hanno affermato che nel caso di norma regolamentare che determina la distanza fra costruzioni non dal confine, ma in via assoluta, commisurandola alla maggiore altezza di uno dei corpi di fabbrica, rimane esclusa la possibilità di costruire sul confine e l’applicabilità del criterio della prevenzione, onde colui che costruisce per primo deve osservare, rispetto al confine, una distanza pari alla meta dell’altezza dell’erigendo fabbricato (Cass. S.U. n. 3873/1974).
Mentre una ben più recente sentenza ha affrontato, risolvendolo in senso affermativo, il diverso problema della compatibilità del principio codicistico della prevenzione con la disciplina sulle distanze tra fabbricati vicini dettata dall’art. 41-quinquies, primo comma, lettera c), della legge 17.08.1942, n. 1150 (aggiunto dall’art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765); e ne ha tratto la conseguenza che quando il fabbricato del preveniente si trovi a una distanza dal confine inferiore alla metà del distacco tra fabbricati prescritto dalla citata norma speciale, il prevenuto ha, ai sensi dell’art. 875 c.c., la facoltà di chiedere la comunione forzosa del muro allo scopo di costruirvi contro (Cass. S.U. n. 11489/2002).
- Ricorrono, dunque, ad avviso di questo Collegio, le condizioni per rimettere la relativa questione alle S.U. per la soluzione del contrasto, ai sensi dell’art. 374, 2 comma c.p.c.
(Corte di Cassazione, Sez. II, ordinanza 12.03.2015 n. 4965 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATAPoiché non è necessaria una pronuncia giudiziale perché possa dirsi costituito un diritto di uso pubblico, spetta a chi contesta l’esistenza del diritto l’onere di promuovere presso l’autorità giudiziaria ordinaria un’eventuale controversia volta ad accertare con efficacia di giudicato la fondatezza o meno delle proprie pretese, mentre in questa sede, nei limiti propri dell’accertamento incidentale di cui all’art. 8 cod. proc. amm., è possibile svolgere una ricognizione del diritto al solo fine di valutare la legittimità o meno del diniego oggetto di impugnazione.
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La dicatio ad patriam, come modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, si perfeziona già con l’inizio dell’uso pubblico quando sia verificato il comportamento del proprietario che denoti la volontà di mettere l’area di proprietà privata a disposizione, vi sia la messa a disposizione dell’area in favore della collettività indifferenziata, e questa sia utilizzata per il soddisfacimento di un interesse comune della collettività, e un analogo risultato di adibizione dell’area all’uso pubblico si verifica quando l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata sia protratto per un periodo di almeno venti anni.

Nel presente giudizio è impugnato il diniego di rilascio del permesso di costruire volto ad ottenere l’apertura di un passo carraio dalla proprietà privata all’area parimenti privata catastalmente identificata come mappale 289, ed il diniego è motivato con riferimento alla presenza di un parcheggio ad uso pubblico sul predetto mappale.
Orbene, rispetto a tale controversia gli altri comproprietari del mappale non sono titolari di un interesse attuale qualificato analogo e contrario a quello dei ricorrenti, volto alla conservazione del diniego impugnato, dato che il loro interesse al mantenimento della destinazione a parcheggio pubblico non è differenziato rispetto a quello della generalità dei consociati.
Nel merito il ricorso è infondato.
Va premesso che, poiché non è necessaria una pronuncia giudiziale perché possa dirsi costituito un diritto di uso pubblico, spetta a chi contesta l’esistenza del diritto l’onere di promuovere presso l’autorità giudiziaria ordinaria un’eventuale controversia volta ad accertare con efficacia di giudicato la fondatezza o meno delle proprie pretese, mentre in questa sede, nei limiti propri dell’accertamento incidentale di cui all’art. 8 cod. proc. amm., è possibile svolgere una ricognizione del diritto al solo fine di valutare la legittimità o meno del diniego oggetto di impugnazione (cfr. Tar Trentino-Alto Adige, Trento, 14.05.2014, n. 187; Consiglio di Stato, Sez. V, 14.02.2012, n. 728).
Delimitati in tal modo i termini della controversia, vi è da osservare che risulta priva di lacune istruttorie o da vizi logici la conclusione cui è pervenuto il Comune circa l’esistenza di un uso pubblico di parcheggio per due titoli tra loro autonomi, per dicatio ad patriam perché per volontà degli originari proprietari è stato destinato all’uso pubblico come parcheggio, ed inoltre per usucapione, dato che l’uso pubblico dell’area con la destinazione a parcheggio si è protratta per un periodo superiore al ventennio con i requisiti propri di tale modo di acquisto del diritto reale.
La dicatio ad patriam, come modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, si perfeziona già con l’inizio dell’uso pubblico quando sia verificato il comportamento del proprietario che denoti la volontà di mettere l’area di proprietà privata a disposizione, vi sia la messa a disposizione dell’area in favore della collettività indifferenziata, e questa sia utilizzata per il soddisfacimento di un interesse comune della collettività (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 21.06.2007, n. 3316; Cassazione civile, Sez. I, 16.03.2012 n. 4207; Cassazione civile, Sez. II, 21.05.2001 n. 6924; id. 13.02.2006 n. 3075), e un analogo risultato di adibizione dell’area all’uso pubblico si verifica quando l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata sia protratto per un periodo di almeno venti anni.
Nel caso all’esame la servitù ad uso pubblico appare essere sorta, antecedentemente alla data in cui i ricorrenti hanno acquisito la proprietà dell’area, per entrambi i modi di costituzione.
Infatti il Comune, ricostruendo le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, ha acquisito le dichiarazioni degli allora proprietari dell’area Sigg.ri G.P. e R.B. che affermano che fin dal 1979 l’area è stata volontariamente e coscientemente lasciata a disposizione della collettività come parcheggio pubblico senza interruzioni (cfr. docc. 6 e 7 allegati alle difese del Comune), mentre dei commercianti che esercitano la loro attività nelle immediate vicinanze, hanno dichiarato che fin dalla fine degli anni ’70 l’area è stata utilizzata come parcheggio non solo dai frontisti, ma anche da chi si recava nella vicina piazza (dove sono presenti negozi, strutture pubbliche e la chiesa) senza interruzioni e senza contestazioni (cfr. docc. 8 e 9 allegati alle difese del Comune), e sotto altro profilo, il Comune ha sottolineato che ogni intervento di manutenzione di asfaltatura e di apposizione della segnaletica a parcheggio sull’area è stato sempre svolto con oneri a carico proprio senza contestazioni da parte dei proprietari.
Ciò denota che è irrilevante che non si tratti di una strada che colleghi due vie pubbliche, in quanto è pacifico e non oggetto di contestazione che l’area sia stata utilizzata come parcheggio e non come strada, è altresì chiaro che la medesima sia stata utilizzata come parcheggio dalla collettività e non solo dai frontisti, e che l’utilizzo del parcheggio è avvenuto in modo evidente e permanente, con interventi i cui oneri sono stati assunti interamente a carico del Comune.
In un tale contesto gli argomenti proposti dai ricorrenti per contrastare le conclusioni cui è pervenuto il Comune non appaiono fondati.
Infatti non risulta rilevante la mancata acquisizione in contraddittorio, mediante verbalizzazione, delle dichiarazioni rese dagli originari proprietari dell’area, perché il contraddittorio procedimentale deve avvenire non su ogni singolo elemento acquisito nell’attività istruttoria, ma solo sulle conclusioni cui perviene l’Amministrazione, e il Comune ha ottenuto l’apporto procedimentale dei ricorrenti a seguito del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della legge 07.08.1990, n. 241 (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 12.03.2015 n. 305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASull’invocata tutela dell’affidamento a conservare l’edificio abusivo, il Collegio non si discosta dal risalente e dominante orientamento che reputa inconfigurabile tale affidamento in quanto l’abuso edilizio costituisce un illecito amministrativo permanente, che si rinnova ogni giorno con l’illegittima mancata rimozione dell’abuso.
Tutelare l’affidamento nel perpetuarsi dell’illegalità sarebbe incompatibile con i principi dell’ordinamento giuridico positivo e, in specie, con la Carta Costituzionale e con il diritto comunitario.
Dal carattere permanente dell’illecito consegue che non può imporsi nessun onere motivazionale ulteriore per all’Amministrazione, che, una volta accertato un abuso edilizio, ha comunque il dovere di rimuoverlo indipendentemente dalla tempestività o tardività dell’accertamento.
Diversamente opinando, tra l’altro, sarebbe inconfigurabile ogni legge eccezionale di condono edilizio quando si riferisce ad abusi realizzati da lungo tempo, essendo tali abusi già sanati o sanabili dal tempo trascorso, e senza alcun aggravio economico per ottenere la sanatoria.

Oggetto del giudizio è la sanzionata (ex art. 34, 1° comma, e art. 34, 2° comma, D.P.R. 380/2001) parziale difformità di opere edilizie rispetto a quanto autorizzato con alcune licenze di costruzione negli anni 1964, 1965 e 1967, difformità inoltre in contrasto con lo strumento urbanistico vigente sulle distanze tra i confini e tra i fabbricati.
Non è, quindi, ragionevole richiamare la non necessità di titoli edilizi all’epoca degli abusi, perché realizzati prima della c.d. “legge ponte” o della c.d. legge Bucalossi: chi ha realizzato gli abusi aveva anche chiesto i titoli edilizi e li aveva ottenuti.
Comunque, nei provvedimenti impugnati è sufficientemente provata la sussistenza, all’epoca, di un regolamento edilizio che prescriveva la necessità della licenza edilizia, nonché l’ultimazione degli abusi dopo il 1967.
E’ appena il caso di rimarcare, poi, che l’abusività non viene meno dando la prevalenza allo stato di fatto rispetto al progetto edilizio o invocando autorizzazioni implicite o la trascurabilità della traslazione per alcuni metri del sedime o la precarietà di abusi pluridecennali.
Sull’invocata tutela dell’affidamento a conservare l’edificio abusivo, il Collegio non si discosta dal risalente e dominante orientamento che reputa inconfigurabile tale affidamento in quanto l’abuso edilizio costituisce un illecito amministrativo permanente, che si rinnova ogni giorno con l’illegittima mancata rimozione dell’abuso. Tutelare l’affidamento nel perpetuarsi dell’illegalità sarebbe incompatibile con i principi dell’ordinamento giuridico positivo e, in specie, con la Carta Costituzionale e con il diritto comunitario.
Dal carattere permanente dell’illecito consegue che non può imporsi nessun onere motivazionale ulteriore per all’Amministrazione, che, una volta accertato un abuso edilizio, ha comunque il dovere di rimuoverlo indipendentemente dalla tempestività o tardività dell’accertamento.
Diversamente opinando, tra l’altro, sarebbe inconfigurabile ogni legge eccezionale di condono edilizio quando si riferisce ad abusi realizzati da lungo tempo, essendo tali abusi già sanati o sanabili dal tempo trascorso, e senza alcun aggravio economico per ottenere la sanatoria.
Per la giurisprudenza sul punto, si ricordano: C.d.S., VI, 17.01.2014, n. 225; 28.04.2013, n. 496; 05.04.2012, n. 2038; 27.03.2012, n. 1813; 27.03.2012, n. 1793; 11.05.2012, n. 2781; C.d.S. V, 27.04.2011, n. 2497; C.d.S., IV, 28.12.2012, n. 6702; 04.05.2012, n. 2592; 16.04.2012, n. 2185; 27.10.2011, n. 5758; 03.08.2010, n. 3955; C.d.S., I, 30.06.2011, n. 4160.
Quanto all’invocata licenza di agibilità del 1976, questa, in ogni caso, non è sufficiente a sostituire il permesso di costruire. Altro è sostenere che la agibilità non debba essere rilasciata in mancanza di permesso di costruire, altro che, se rilasciata, il permesso di costruzione si deve ritenere esistente (ex multis: C.d.S, IV, n. 1220/2014).
Infine, è pacifico che il riconoscimento dell’usucapione con sentenza dell’A.G.O. opera sul piano civilistico e non su quello amministrativo (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 12.03.2015 n. 303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa normativa ex art. 30, comma 3, D.L. 69/2013 convertito in L. 98/2013, contempla un’eccezionale disposizione di favore per la proroga dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori autorizzati, purché “i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione dell’interessato, con i nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati”.
Trattandosi di una normativa speciale è insuscettibile di integrazione analogica o di interpretazione estensiva.
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L’istituto della proroga di cui, in particolare, all’art. 15, comma 2, DPR 380/2001, oltre ad essere a sua volta limitato dal ripetuto limite ex art. 30 D.L. 69/2013, non è comunque applicabile ai casi di sopravvenienza di disciplina urbanistica incompatibile.

Il petitum del giudizio è la decadenza di un permesso di costruzione e la conseguente archiviazione della DIA in variante essenziale.
La causa petendi si incentra sulla interpretazione dell’art. 15 DPR 380/2001 e dell’art. 30, comma 3, D.L. 69/2013, convertito in L. 98/2013.
Tale normativa –si premette– contempla un’eccezionale disposizione di favore per la proroga dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori autorizzati, purché “i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione dell’interessato, con i nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati”.
Trattandosi di una normativa speciale è insuscettibile di integrazione analogica o di interpretazione estensiva.
L’edificio de quo insiste in area che, al solo momento rilevante della richiesta di proroga, ha destinazione TCb2 impressa dal P.I., ove l’art. 104, comma 5.1, N.T.O. vieta inequivocamente nuovi edifici di 5 piani fuori terra, qual è quello in questione.
Inoltre, l’art. 102 N.T.O. del P.I. vieta il progettato superamento della prevista distanza minima tra fabbricati tra i quali sono interposte strade.
Pertanto, l’Amministrazione era vincolata, dei richiamati art. 15 DPR 380/2001 e art. 30 D.L. 69/2013, a pronunciare la decadenza del permesso di costruzione e, di conseguenza, ad archiviare la connessa successiva DIA.
A conferma, si aggiunge, in primo luogo, che la particolare eccezionalità della normativa di favore sopra descritta impedisce, anche in astratto e a prescindere d’altro, di configurare l’applicazione della normativa di favore di carattere relativamente generale, di cui al regionale Piano Casa. Tanto più che questo (vedi art. 2 L.R. 14/2009, come modificato dalla L.R. 32/2013) non consente di derogare a disposizioni, qual è il limite posto dal D.L. 69/2013, statali e non regionali o locali.
Inoltre, l’istituto della proroga di cui, in particolare, all’art. 15, comma 2, DPR 380/2001, oltre ad essere a sua volta limitato dal ripetuto limite ex art. 30 D.L. 69/2013, non è comunque applicabile ai casi di sopravvenienza di disciplina urbanistica incompatibile (cfr. Cass. Penale, III, n. 19101/2008; TAR Abruzzo, n. 694/2012).
Peraltro, nel caso di specie, solo uno dei tre titolari del permesso di costruzione avrebbe potuto, in astratto, integrare l’ipotesi di “forza maggiore” (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 12.03.2015 n. 301 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'effettivo inizio dei lavori deve essere valutato “con specifico e puntuale riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edilizio così come programmato e autorizzato, e ciò al ben evidente scopo di evitare che il termine per l'avvio dell'edificazione possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici, e quindi non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione”.
Alla stregua di tale principio è stata affermata l'insufficienza del semplice sbancamento del terreno e della predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione, ritenendo invece necessaria l'esecuzione almeno dello scavo e del riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna, oppure quantomeno l'effettuazione di uno sbancamento qualora sia riferibile ad un'area di vaste dimensioni.

In relazione alla problematica afferente la decadenza per mancato inizio dei lavori entro il termine previsto dal permesso di costruire la giurisprudenza ha chiarito che l'effettivo inizio dei lavori deve essere valutato “con specifico e puntuale riferimento all'entità ed alle dimensioni dell'intervento edilizio così come programmato e autorizzato, e ciò al ben evidente scopo di evitare che il termine per l'avvio dell'edificazione possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici, e quindi non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione stessa di procedere alla costruzione” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.09.2013, n. 4855; id. 18.05.2012, n. 2915; Consiglio di Stato, Sez. V, 16.11.1998 n. 1615).
Alla stregua di tale principio è stata affermata l'insufficienza del semplice sbancamento del terreno e della predisposizione degli strumenti e materiali da costruzione, ritenendo invece necessaria l'esecuzione almeno dello scavo e del riempimento in conglomerato cementizio delle fondazioni perimetrali fino alla quota del piano di campagna, oppure quantomeno l'effettuazione di uno sbancamento qualora sia riferibile ad un'area di vaste dimensioni (cfr. la già citata sentenza Consiglio di Stato, Sez. IV, 30.09.2013, n. 4855) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 12.03.2015 n. 299 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: L'orientamento dominante nella giurisprudenza del CdS è nel senso che: "l'esistenza della totale copertura della categoria prevalente a legittimare la partecipazione alla gara, pur in carenza dei requisiti nelle categorie scorporabili, purché accompagnata dalla dichiarazione di voler subappaltare le scorporabili. In sintesi, la qualificazione mancante deve essere posseduta in relazione alla categoria prevalente, dal momento che ciò tutela la stazione appaltante circa la sussistenza della capacità economico-finanziaria da parte dell'impresa. Quanto alla identificazione del subappaltatore ed alla verifica del possesso da parte di questi di tutti i requisiti richiesti dalla legge e dal bando, essa attiene solo al momento dell'esecuzione”.
Anche questo Collegio, come già il Consiglio di Stato nella più recente sentenza ora citata, non ravvisa ragione di discostarsi da tale orientamento, che esclude che la verifica del possesso dei requisiti relativi alle lavorazioni speciali subappaltate debba essere effettuato all'epoca dell'offerta. Del resto, da un lato, l'esame della normativa sopra richiamata non consente di giungere alle conclusioni rassegnate dal Consorzio ricorrente, in quanto le esigenze di verifica proprie della fase della qualificazione “appaiono soddisfatte dalla circostanza che la mandataria copra con il surplus di requisiti di qualificazione nella categoria prevalente il deficit della mandante circa la classifica per la categoria scorporabile”.
Diversamente opinando non sarebbe dato comprendere “quale valore possa avere la regola che consente alla mandataria del r.t.i. di coprire il deficit di qualificazione della mandante per la categoria scorporabile con il surplus della propria qualificazione sulla categoria prevalente, se si imponesse l'immediata indicazione del nome del subappaltatore".
Non v'è dubbio, infatti, che nei limiti indicati dall'art. 118, comma 2, D.Lgs. n. 163 del 2006, in ogni caso il r.t.i. verticale, qualora la mandataria non possedesse i requisiti relativi alle lavorazioni scorporabili con riferimento alla categoria prevalente, potrebbe comunque valersi del subappalto. Né si spiegherebbe la differente disciplina contenuta nel comma 7 dell'art. 92, che per le opere specializzate richiede obbligatoriamente che la mandataria abbia il suddetto surplus di qualificazione e, perciò, "deve possedere i requisiti mancanti relativi a ciascuna delle predette categorie di cui all'articolo 107, comma 2, e oggetto di subappalto, con riferimento alla categoria prevalente".
Ancora, va evidenziato come la giurisprudenza richiamata nel gravame in esame non contrasti con l'orientamento del Consiglio sopra illustrato, dal momento che la prima afferma il principio secondo il quale nel caso di subappalto necessario già in sede di offerta deve essere indicato il nome del subappaltatore, ma una simile conclusione, del tutto condivisibile, non è esportabile nell'odierna fattispecie, che, come chiarito, risulta regolata da una disciplina che non richiede l’indicazione del subappaltatore tutte le volte che l'entità delle opere scorporabili trova capienza in un surplus di qualificazione nella categoria principale, prevedendo che il controllo dei requisiti venga operato non al momento della presentazione dell'offerta, ma successivamente al tempo del deposito del contratto di subappalto.

Il ricorso introduttivo non può trovare accoglimento, atteso che la tesi di parte ricorrente ivi dedotta non risulta convincente.
Come ricordato nella sentenza del Consiglio di Stato Sez. V, 21.11.2014, n. 5760 <<l'orientamento dominante nella giurisprudenza di questo Consiglio rappresentato da Cons. St., Sez. V, 25.07.2013, n. 3963, è nel senso che: "l'esistenza della totale copertura della categoria prevalente a legittimare la partecipazione alla gara, pur in carenza dei requisiti nelle categorie scorporabili, purché accompagnata dalla dichiarazione di voler subappaltare le scorporabili. In sintesi, la qualificazione mancante deve essere posseduta in relazione alla categoria prevalente, dal momento che ciò tutela la stazione appaltante circa la sussistenza della capacità economico-finanziaria da parte dell'impresa (in tal senso, cfr. Cons. Stato, sezione quinta, 19.06.2012, n. 3563; 26.03.2012, n. 1726; n. 6708 del 2009; n. 4572 del 2008). Quanto alla identificazione del subappaltatore ed alla verifica del possesso da parte di questi di tutti i requisiti richiesti dalla legge e dal bando, essa attiene solo al momento dell'esecuzione (Cons. Stato, sezione quinta, 19.06.2012, n. 3563)”>>.
Anche questo Collegio, come già il Consiglio di Stato nella più recente sentenza ora citata, non ravvisa ragione di discostarsi da tale orientamento, che esclude che la verifica del possesso dei requisiti relativi alle lavorazioni speciali subappaltate debba essere effettuato all'epoca dell'offerta. Del resto, da un lato, l'esame della normativa sopra richiamata non consente di giungere alle conclusioni rassegnate dal Consorzio ricorrente, in quanto le esigenze di verifica proprie della fase della qualificazione “appaiono soddisfatte dalla circostanza che la mandataria copra con il surplus di requisiti di qualificazione nella categoria prevalente il deficit della mandante circa la classifica per la categoria scorporabile” (Consiglio di Stato Sez. V, 21.11.2014, n. 5760).
Diversamente opinando non sarebbe dato comprendere “quale valore possa avere la regola che consente alla mandataria del r.t.i. di coprire il deficit di qualificazione della mandante per la categoria scorporabile con il surplus della propria qualificazione sulla categoria prevalente, se si imponesse l'immediata indicazione del nome del subappaltatore".
Non v'è dubbio, infatti, che nei limiti indicati dall'art. 118, comma 2, D.Lgs. n. 163 del 2006, in ogni caso il r.t.i. verticale, qualora la mandataria non possedesse i requisiti relativi alle lavorazioni scorporabili con riferimento alla categoria prevalente, potrebbe comunque valersi del subappalto. Né si spiegherebbe la differente disciplina contenuta nel comma 7 dell'art. 92, che per le opere specializzate richiede obbligatoriamente che la mandataria abbia il suddetto surplus di qualificazione e, perciò, "deve possedere i requisiti mancanti relativi a ciascuna delle predette categorie di cui all'articolo 107, comma 2, e oggetto di subappalto, con riferimento alla categoria prevalente".
Ancora, va evidenziato come la giurisprudenza richiamata nel gravame in esame non contrasti con l'orientamento del Consiglio sopra illustrato, dal momento che la prima afferma il principio secondo il quale nel caso di subappalto necessario già in sede di offerta deve essere indicato il nome del subappaltatore, ma una simile conclusione, del tutto condivisibile, non è esportabile nell'odierna fattispecie, che, come chiarito, risulta regolata da una disciplina che non richiede l’indicazione del subappaltatore tutte le volte che l'entità delle opere scorporabili trova capienza in un surplus di qualificazione nella categoria principale, prevedendo che il controllo dei requisiti venga operato non al momento della presentazione dell'offerta, ma successivamente al tempo del deposito del contratto di subappalto (cfr. la sentenza Consiglio di Stato Sez. V, 21.11.2014, n. 5760).
E che questa fosse la lettura da attribuirsi alla lex specialis di gara risulta confermato dalla puntuale risposta data dalla stazione appaltante ad un preciso quesito sul punto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.03.2015 n. 387 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Offerta regolarizzata ma i danni si pagano. Tar Palermo. Va risarcita l’impresa «scavalcata».
Quando le pubbliche amministrazioni regolarizzano le offerte in gare di appalto, resta salvo il diritto al risarcimento dei danni per le imprese illegittimamente scavalcate.
Questo è il principio espresso dal TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, nella sentenza 09.03.2015 n. 639, che applica l’articolo 38 del Codice degli appalti (163/2006), norma modificata nel 2014 e commentata dall’Autorità anticorruzione nella determinazione 1/2015.
Le irregolarità delle domande di partecipazione non intralciano più i tempi di gara, perché vanno regolarizzate d’ufficio, con pagamento di una sanzione pecuniaria. Una volta ammesse anche le domande irregolari, la griglia dei partecipanti rimane tuttavia immutabile e ogni variazione, anche in conseguenza di una pronunzia giurisdizionale, non rileva né ai fini del calcolo della media delle offerte economiche, né per l’individuazione dei limiti di eccessivo, anomalo ribasso nelle offerte.
Nel caso esaminato dal Tar siciliano si discuteva di lavori di risanamento di un ex convento, aggiudicati da un Comune sulla base di una media delle offerte che calcolava anche l’offerta di un concorrente che non avrebbe dovuto essere ammesso. L’errore è stato accertato dopo pochi mesi, su ricorso di un’impresa che sarebbe risultata vincitrice qualora l’aggiudicazione fosse avvenuta sulla base di offerte depurate da quella dell’impresa priva di requisiti.
L’amministrazione si era difesa dalla richiesta di danni richiamando l’articolo 38, comma 2-bis, del Dl 163/2006, modificato nel 2014 dal Dl 90, norma che impedisce modifiche alla platea dei concorrenti ammessi alla gara, e quindi consente di aggiudicare lavori sulla base di una media calcolata tenendo presenti anche offerte di dubbia legittimità.
Il Tar ha riconosciuto legittimo l’operato del Comune, ma ha comunque riconosciuto i danni all’impresa illegittimamente scavalcata a causa della media contaminata dall’offerta illegittima. È quindi avvenuto un ricalcolo delle offerte, con una vittoria “virtuale” dell’impresa ricorrente, ai soli fini giuridici. Sottolinea infatti il Tar che l’articolo 38 tende a eliminare contestazioni durante la gara, declassando le irregolarità a peccati veniali, sanabili con il pagamento di una sanzione pecuniaria: ma quando sopravviene una sentenza che rettifichi l’esito della gara, è possibile il risarcimento danni, se l’opera non è suddivisibile con subentro tra più imprese esecutrici (articoli 121-124 Dlgs 104/2010).
Su questi presupposti, il Tar ha riconsiderato le offerte, eliminando quella illegittima, e sulla base della nuova media ha ritenuto che la ristrutturazione dell’edificio comunale avrebbe dovuto essere affidata all’impresa ricorrente. Quest’ultima ha quindi ottenuto un risarcimento del danno pari al 5% del prezzo a base d’asta (lavori per oltre 3 milioni di euro), ridotto della percentuale di ribasso contenuta nell’offerta della ricorrente.
A ciò si è aggiunto un danno “curriculare”, per riflessi su altre gare, pari ad un ulteriore 1%, con rivalutazione e interessi legali. Pagherà, quindi, il Comune, ma non è esclusa la rivalsa verso l’impresa che ha indotto in errore l’ente generando l’illegittima aggiudicazione a terzi
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIÈ valido il «preliminare del preliminare». Sezioni Unite. Compravendite immobiliari: legittima la proposta accettata che obbliga a un contratto intermedio.
Il “preliminare del preliminare” è legittimo. Questa è la nuova posizione della Cassazione sul contratto preliminare con cui i contraenti si obbligano alla stipula di un successivo e ulteriore contratto preliminare.
La sentenza 06.03.2015 n. 4628 è importante, perché è delle Sezioni Unite civili e rappresenta un’inversione della precedente giurisprudenza della Cassazione, che in passato aveva concluso per la nullità del contratto.
La pronuncia è rilevante anche perché il “preliminare del preliminare” è una fattispecie assai frequente nella contrattazione immobiliare. Fino a ieri, questa prassi doveva fare i conti con l’imbarazzo provocato dalle sentenze n. 8038/2009 e 19557/2009, nelle quali la Cassazione aveva appunto proclamato la nullità del “preliminare del preliminare”. La svolta che si ha con la sentenza n. 4628/2015 è dunque assai opportuna e di notevole impatto applicativo. Infatti, nella contrattazione immobiliare, spessissimo accade che si sia in presenza di una articolazione in tre fasi:
- l’invio di una proposta e la sua conseguente accettazione (il che, per lo più, accade quando l’affare è intermediato da un’agenzia immobiliare), il che comporta la conclusione di un primo contratto (qualificabile, di solito, come contratto preliminare);
- la stipula di un contratto preliminare “vero e proprio”, ciò che spesso accade quando, dopo essersi scambiate proposta e accettazione, le parti contraenti si trovano presso uno studio notarile per riprodurre (di solito, con l’aggiunta di clausole più particolareggiate), in un contratto firmato simultaneamente, il contratto che, nei suoi punti essenziali, avevano già stipulato mediante l’accettazione della proposta;
- la stipula del contratto definitivo (il rogito notarile).
Nell’uso corrente, le tre fasi sono percepite come utili e forse imprescindibili (e pertanto giuridicamente giustificate).
Il primo step è infatti quello che si compie al fine di “bloccare” l’affare nei suoi aspetti cruciali (identificazione dell’immobile, prezzo e tempistiche di pagamento e di rogito), senza tanto curarsi dei dettagli, perché c’è in campo l’idea che sia poi da percorrere un secondo “passaggio”, nel quale appunto l’accordo viene “raffinato” scendendo più nel dettaglio. Anche perché spesso (essendoci “di mezzo” un’agenzia immobiliare) la prima fase si svolge mediante una contrattazione “a distanza” (cioè con l’accettazione di una proposta da parte del soggetto cui la proposta contrattuale era stata diretta) e, talora, senza che le parti contraenti si siano nemmeno mai incontrate; mentre il secondo step rappresenta, nella maggior parte dei casi, la prima occasione nella quale i contraenti si mettono attorno a un tavolo e cioè il primo reale contatto tra i contraenti.
In questo contesto, la Cassazione (sentenza n. 8038/2009) riteneva invece che, nel corso di una trattativa per la compravendita di un immobile, qualora «la proposta irrevocabile di acquisto, seguita dall’accettazione del venditore, preveda che le parti debbano poi concludere un contratto preliminare, prima della conclusione di tale atto, hanno dato vita ad un contratto qualificabile come preliminare del preliminare, del quale deve essere dichiarata la nullità non essendo ravvisabile una causa meritevole di tutela». In altri termini, una nullità discendente da una ritenuta “inutilità” del preliminare del preliminare.
Ora invece la svolta, in quanto la Cassazione riconosce che il “preliminare del preliminare” può avere una sua propria dignità e non deve essere necessariamente relegato al rango di una superfetazione priva di alcun senso pratico: la Suprema corte detta infatti, ai giudici di merito, un principio di diritto secondo il quale deve essere ritenuto «produttivo di effetti l’accordo denominato come preliminare con il quale i contraenti si obblighino alla successiva stipula di un altro contratto preliminare, soltanto qualora emerga la configurabilità dell’interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare»
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.03.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl bar non paga per gli schiamazzi esterni. Rumori notturni. Per la Cassazione il titolare non è punibile per il disturbo arrecato dal cliente davanti al locale.
Sentenza in controtendenza sugli schiamazzi notturni causati dagli avventori di un bar: se il titolare del locale si è attivato con cartelli rivolti ai clienti per chiedere di evitare i rumori molesti non può essere considerato responsabile per gli schiamazzi fatti all'esterno del suo esercizio.
Lo ha deciso la Corte di cassazione con la sentenza 05.03.2015 n. 9633.
Non solo: per la III sezione penale della Cassazione non è neanche lecito il sequestro dell’intero locale per il rumore dell’impianto di amplificazione, invece di limitare il provvedimento all’impianto stesso.
La liberalizzazione, che in sostanza scarica sui soli avventori la responsabilità del frastuono e della violazione dell’articolo 659 del Codice penale, va in senso parzialmente opposto a quello, indicato dalla stessa Cassazione nel 2004. Con la sentenza 45484/2004 aveva confermato l’ammenda di 300 euro per la proprietaria di un locale colpevole di «aver omesso di impedire che gli avventori si producessero in schiamazzi all’esterno del suo locale e fino ad ora tarda».
Per la Corte era dovere del titolare «impedire condotte contrastanti con le norme relative alla polizia di sicurezza, mediante il ricorso all’autorità». In sostanza la donna avrebbe dovuto chiamare il commissariato di zona scoraggiando, in questo modo, il ripetersi di comportamenti molesti da parte dei suoi rumorosi clienti al momento dell'uscita dal pub.
Di tenore ben diverso la sentenza di ieri, che distingue tra schiamazzi all’interno (per i quali il gestore e deve anche rivolgersi alla polizia) e quelli all’esterno, per i quali «bisogna fornire elementi atti a evidenziare che egli non abbia esercitato il potere di controllo» (come del resto aveva detto la stessa sezione III con la sentenza 37196/2014).
Ora, con la sentenza di ieri, un’indicazione precisa c’è per evitare di finire sotto accusa: basta che il gestore metta i cartelli e lasci che gli avventori li leggano. Rimedio infallibile contro il rumore
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.03.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Quando una mail informale (non protocollata) diviene documento amministrativo suscettibile di diritto di accesso.
L’art. 116 cod. proc. amm. dispone che «Contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi, nonché per la tutela del diritto di accesso civico connessa all'inadempimento degli obblighi di trasparenza il ricorso è proposto entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione all’amministrazione e ad almeno un controinteressato».
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che «il termine previsto dalla normativa per la proposizione del ricorso in sede giurisdizionale avverso le determinazioni dell’amministrazione sull’istanza di accesso, stabilito dall'art. 116 c. proc. amm., come già prima dall’art. 25, l. n. 241 del 1990, in trenta giorni dalla conoscenza del diniego o dalla formazione del silenzio significativo, è a pena di decadenza: di conseguenza, la mancata impugnazione del diniego nel termine non consente la reiterabilità dell’istanza e la conseguente impugnazione del successivo diniego laddove a questo possa riconoscersi carattere meramente confermativo del primo; viceversa, quando il cittadino reiteri l’istanza di accesso in presenza di fatti nuovi non rappresentati nell’istanza originaria o prospetti in modo diverso la posizione legittimante all'accesso ovvero l' amministrazione proceda autonomamente ad una nuova valutazione della situazione, è certamente ammissibile l'impugnazione del successivo diniego, perché a questo non può attribuirsi carattere meramente confermativo del primo».
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L’art. 22, lettera d), della legge n. 241 del 1990 prevede che per «documento amministrativo» si intende «ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale».
L’art. 24, comma 7, della stessa legge dispone che «deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici». La norma aggiunge che nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e, in presenza di situazioni giuridiche di pari rango, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.
Nel caso di specie entrambe le norme, contrariamente a questo sostenuto dalla difesa dell’amministrazione appellante, sono state violate.
In relazione alla natura di documento, il contenuto dell’e-mail non può ritenersi corrispondenza privata in quanto il Presidente ha provveduto a rendere edotti gli uffici dell’amministrazione dell’esistenza di tale informativa. Così facendo ha reso egli stesso di rilevanza pubblica il documento. Non è un caso che la parte privata è venuta a conoscenza dell’esistenza dell’e-mail perché il responsabile del procedimento, nell’atto di diniego dell’accesso, ha fatto ad essa riferimento mediante il rinvio all’«allegato 5».
Si trattava dunque di un documento ormai detenuto dall’amministrazione. La tesi dell’appellante sarebbe stata corretta se il Presidente avesse mantenuto in “forma privata” la corrispondenza ricevuta, assegnandole valenza non rilevante ai fini dell’attività istituzionale dell’ente.
In definitiva, deve ritenersi che, per le ragioni esposte, la particolarità della fattispecie concreta assegna valenza di documento all’e-mail inviata al Presidente dell’Istituto.

1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla legittimità del rifiuto di accesso opposto dall’Istituto Nazionale di Astrofisica in relazione al contenuto di una e-mail che un soggetto ha indirizzato al Presidente dell’Istituto al fine di segnalare alcuni episodi relativi all’attività lavorativa svolta dalla parte appellata.
2.– Con un primo motivo l’appellante deduce l’inammissibilità del ricorso di primo grado per tardività, in quanto la ricorrente non avrebbe impugnato la nota del 13.12.2014, con la quale l’amministrazione aveva rigettato l’istanza di accesso. In particolare, l’appellante rileva che il successivo diniego di accesso del 15.01.2014 sarebbe un atto meramente confermativo del precedente e in quanto tale inidoneo a consentire la riapertura dei termini.
Il motivo non è fondato.
L’art. 116 cod. proc. amm. dispone che «Contro le determinazioni e contro il silenzio sulle istanze di accesso ai documenti amministrativi, nonché per la tutela del diritto di accesso civico connessa all'inadempimento degli obblighi di trasparenza il ricorso è proposto entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione all’amministrazione e ad almeno un controinteressato».
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare che «il termine previsto dalla normativa per la proposizione del ricorso in sede giurisdizionale avverso le determinazioni dell’amministrazione sull’istanza di accesso, stabilito dall'art. 116 c. proc. amm., come già prima dall’art. 25, l. n. 241 del 1990, in trenta giorni dalla conoscenza del diniego o dalla formazione del silenzio significativo, è a pena di decadenza: di conseguenza, la mancata impugnazione del diniego nel termine non consente la reiterabilità dell’istanza e la conseguente impugnazione del successivo diniego laddove a questo possa riconoscersi carattere meramente confermativo del primo; viceversa, quando il cittadino reiteri l’istanza di accesso in presenza di fatti nuovi non rappresentati nell’istanza originaria o prospetti in modo diverso la posizione legittimante all'accesso ovvero l' amministrazione proceda autonomamente ad una nuova valutazione della situazione, è certamente ammissibile l'impugnazione del successivo diniego, perché a questo non può attribuirsi carattere meramente confermativo del primo» (Cons. Stato, sez. VI, 04.10.2013, n. 4912; si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 07.06.2006, n. 3431).
Nel caso di specie, l’amministrazione, con la nota del 13.12.2014, ha fatto riferimento, per la prima volta, alla missiva di cui all’allegato 5 di cui non ha però consentito l’integrale visione comprensiva del nominativo del mittente. A fronte di tale nota la parte ha pertanto formulato una nuova richiesta di accesso in data 16.12.2013 alla quale l’Istituto ha risposto con l’atto impugnato.
E’ evidente, pertanto, che si è in presenza dei presupposti –novità degli elementi prospettati cui si unisce anche una risposta espressa da parte dell’amministrazione– che la giurisprudenza amministrativa, sopra riportata, ha individuato al fine di ritenere ammissibile la proposizione del ricorso giurisdizionale avverso il nuovo atto di rigetto della richiesta di accesso.
3.– Con il secondo motivo si deduce l’erroneità della sentenza per avere consentito l’accesso al contenuto di una corrispondenza privata come risulterebbe dalle circostanza che l’e-mail: i) sarebbe stata inviata all’indirizzo personale del Presidente e all’indirizzo istituzionale ad accesso esclusivo del Presidente stesso; ii) non sarebbe stata protocollata; iii) avrebbe un “tono confidenziale”.
Con il terzo motivo, connesso a quello appena esposto, si rileva come non si tratterebbero di un documento amministrativo suscettibile di accesso, non trattandosi di atti concernenti attività di interesse pubblico.
I motivi non sono fondati.
L’art. 22, lettera d), della legge n. 241 del 1990 prevede che per «documento amministrativo» si intende «ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale».
L’art. 24, comma 7, della stessa legge dispone che «deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici». La norma aggiunge che nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e, in presenza di situazioni giuridiche di pari rango, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.
Nel caso di specie entrambe le norme, contrariamente a questo sostenuto dalla difesa dell’amministrazione appellante, sono state violate.
In relazione alla natura di documento, il contenuto dell’e-mail non può ritenersi corrispondenza privata in quanto il Presidente ha provveduto a rendere edotti gli uffici dell’amministrazione dell’esistenza di tale informativa. Così facendo ha reso egli stesso di rilevanza pubblica il documento. Non è un caso che la parte privata è venuta a conoscenza dell’esistenza dell’e-mail perché il responsabile del procedimento, nell’atto di diniego dell’accesso, ha fatto ad essa riferimento mediante il rinvio all’«allegato 5». Si trattava dunque di un documento ormai detenuto dall’amministrazione. La tesi dell’appellante sarebbe stata corretta se il Presidente avesse mantenuto in “forma privata” la corrispondenza ricevuta, assegnandole valenza non rilevante ai fini dell’attività istituzionale dell’ente.
In definitiva, deve ritenersi che, per le ragioni esposte, la particolarità della fattispecie concreta assegna valenza di documento all’e-mail inviata al Presidente dell’Istituto.
In relazione alla esigenza di tutela della riservatezza dell’autore dell’e-mail, la parte appellata ha dimostrato che la conoscenza del suo contenuto e del nome del mittente è necessaria ai fini sia della difesa nell’ambito del giudizio relativo al conferimento dell’incarico sia, soprattutto, per potere agire in giudizio ai fini della tutela del proprio onore e della propria reputazione professionale (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2015 n. 1113 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’e-mail è un documento amministrativo suscettibile di accesso.
Così hanno stabilito i giudici della sesta sezione del Consiglio di Stato, in questa sentenza dello scorso cinque marzo.
Per suffragare questa tesi gli stessi giudici, espongono, innanzitutto, la normativa in materia: l’art. 22, lettera d), della legge n. 241 del 1990 prevede che per «documento amministrativo» si intende «ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale».
L’art. 24, comma 7, della stessa legge dispone che «deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici». La norma aggiunge che nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l'accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e, in presenza di situazioni giuridiche di pari rango, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.
Ebbene, i giudici di Palazzo Spada, hanno stabilito che in questa occasione entrambe le norme sono state violate. Gli appellanti contestavano, nello specifico, l’illegittimità dell’accesso al contenuto di una corrispondenza privata, poiché l’e-mail sarebbe stata inviata all’indirizzo personale del Presidente e all’indirizzo istituzionale (ad accesso esclusivo del Presidente stesso); non sarebbe stata, inoltre, protocollata e avrebbe un “tono confidenziale”.
Si metteva in dubbio, altresì, la natura di documento amministrativo suscettibile di accesso, non trattandosi di atti concernenti attività di interesse pubblico. In relazione alla natura di documento, chiariscono i giudici amministrativi di secondo grado, il contenuto dell’e-mail non può ritenersi corrispondenza privata in quanto il Presidente ha provveduto a rendere edotti gli uffici dell’amministrazione dell’esistenza di tale informativa. Così facendo ha reso egli stesso di rilevanza pubblica il documento.
Non è un caso che la parte privata è venuta a conoscenza dell’esistenza dell’e-mail perché il responsabile del procedimento, nell’atto di diniego dell’accesso, ha fatto ad essa riferimento mediante il rinvio all’«allegato 5». Si trattava dunque di un documento ormai detenuto dall’amministrazione. La tesi dell’appellante sarebbe stata corretta se il Presidente avesse mantenuto in “forma privata” la corrispondenza ricevuta, assegnandole valenza non rilevante ai fini dell’attività istituzionale dell’ente.
In definitiva, deve ritenersi che, concludono gli stessi giudici, “la particolarità della fattispecie concreta assegna valenza di documento all’e-mail inviata al Presidente dell’Istituto. In relazione alla esigenza di tutela della riservatezza dell’autore dell’e-mail, la parte appellata ha dimostrato che la conoscenza del suo contenuto e del nome del mittente è necessaria ai fini sia della difesa nell’ambito del giudizio relativo al conferimento dell’incarico sia, soprattutto, per potere agire in giudizio ai fini della tutela del proprio onore e della propria reputazione professionale” (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 05.03.2015 n. 1113 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Ctu, liquidazione ko se richiesta tardi.
Se il Ctu presenta la domanda per la liquidazione degli onorari e delle spese per l'espletamento del suo ufficio oltre il termine di cento giorni (fissato dall'art. 71, comma 2, dpr n. 115/2002 per il deposito della domanda medesima), perde il diritto al compenso, poiché tale termine è di decadenza.

A sottolinearlo sono stati i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 04.03.2015 n. 4373.
Ai sensi dell'art. 2968 c.c., in caso di impedimento della decadenza il diritto resta soggetto alle disposizioni che regolano la prescrizione, in combinato con l'art. 2966 c.c., per il quale solo il compimento dell'atto previsto impedisce la decadenza, ma solo nel caso in cui il consulente tecnico d'ufficio avesse formulato tempestivamente la propria richiesta di pagamento nei termini di cui all'art. 71 il relativo diritto sarebbe rimasto soggetto agli ordinari termini prescrizionali.
Pertanto, hanno sottolineato gli Ermellini, come tale termine di cento giorni fosse previsto a pena di decadenza, non essendo, quindi, un termine ordinatorio, ma un termine fissato per l'esercizio del diritto alle spettanze dovute. E, inoltre, l'intervenuta decadenza esclude a priori la possibilità di esercitare il diritto al compenso, con conseguente irrilevanza delle questioni concernenti la prescrizione o l'ingiustificato arricchimento.
La Suprema corte ha poi considerato soggette al termine di decadenza dell'art. 71 cit. tutte le spettanze, ivi compresi i rimborsi delle spese autorizzate per remunerare l'attività di soggetti terzi di cui si avvalga l'ausiliario del magistrato nell'espletamento delle sue funzioni: nell'articolo si parla, infatti di «spese per l'espletamento dell'incarico», le quali sono definite dall'art. 56, che comprende (al terzo comma) appunto le spese per avvalersi di prestatori d'opera per attività connesse al caso sottoposto alla sua attenzione (articolo ItaliaOggi Sette del 16.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTIIl Comune non deve motivare la delibera sulle tariffe Tarsu. Cassazione. Decisione in controtendenza rispetto alla giurisprudenza amministrativa prevalente.
Il Comune non ha alcun obbligo di motivare la delibera di determinazione delle tariffe Tarsu.
Lo ha chiarito la Sez. tributaria civile della Corte di Cassazione con la sentenza 04.03.2015 n. 4321, respingendo il ricorso di un esercente l’attività di commercio ambulante al quale era stato notificato un avviso di accertamento Tarsu 2002-2003.
Il contribuente contestava, tra le altre cose, la mancanza di motivazione della delibera tariffaria, ma la censura viene ritenuta inammissibile per difetto del requisito di autosufficienza. La Corte di cassazione si spinge oltre e, ad abundantiam, rileva comunque che non è configurabile alcun obbligo di motivazione della delibera poiché la stessa, al pari di qualsiasi atto amministrativo a contenuto generale, si rivolge ad una pluralità di destinatari, occupanti o detentori di locali ed aree tassabili.
Si tratta tuttavia di una conclusione non condivisa dalla prevalente giurisprudenza amministrativa, che in svariate occasioni ha annullato le delibere tariffarie sfornite di motivazione, in contrasto all’articolo 69 del Dlgs 507/1993. Disposizione che impone ai Comuni di indicare le ragioni dei rapporti stabiliti tra le tariffe, i dati consuntivi e previsionali relativi ai costi del servizio nonché le circostanze che hanno determinato l'aumento per la copertura minima obbligatoria.
Pertanto, l’articolo 69 comporta in materia di Tarsu una deroga giustificata al principio generale della non necessità della motivazione per gli atti a contenuto generale (articolo 3, comma 2, della legge 241/1990), principio invece richiamato dalla Cassazione.
In sostanza, per quanto riguarda la Tarsu, dovrebbe prevalere la norma speciale (articolo 69 del Dlgs 507/1993) rispetto alla regola generale (articolo 3, legge 241/1990). È stato infatti recentemente affermato che in materia di Ici non sussiste l'obbligo di motivare la scelta dell’aliquota (Consiglio di Stato sentenza n. 3930/2014), conclusione che è estensibile anche all’Imu.
Ma per la Tarsu è sempre necessaria una specifica motivazione che indichi le ragioni dei nuovi rapporti che vengono a stabilirsi tra le tariffe e gli elementi che determinano l’aumento della copertura minima del costo. Questo in ottemperanza a quanto previsto dall’articolo 69 del Dlgs 507/1993, nell’interpretazione del Consiglio di Stato (parere 2644/2014; sentenze 5616/2010 e 5037/2009).
Solo se si applica il metodo normalizzato (Dpr 158/1999) è possibile ritenere implicitamente motivate le tariffe Tarsu: in tal senso si è recentemente espresso il Consiglio di Stato, con sentenza 504/2015, ritenendo legittima la delibera comunale contenente il rinvio al Dpr 158/1999. Ciò in quanto il Dlgs 507/1993 deve intendersi integrato dal Dpr 158/1999 e il richiamo di quest’ultimo nella delibera comunale concretizza una motivazione “per relationem” del tutto legittima.
Decisione che, seppure riferita alla Tarsu, finisce per legittimare tutte le delibere tariffarie non motivate ma adottate con i criteri del Dpr 158/1999 (Tia, Tares, Tari)
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.03.2015).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di costruzione, ai fini del rilascio della concessione edilizia (ora permesso di costruire) si configura in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante la realizzazione di opere murarie.
Più in particolare, l’ipotesi di una trasformazione del territorio –soggetta, in quanto tale, all’obbligo del previo rilascio del permesso di costruire- va individuata non in funzione dei materiali usati e della teorica precarietà del manufatto, ma in considerazione della stabilità delle esigenze che si intendono soddisfare e, nel contempo, dell’autonoma utilizzabilità che connota l’opera contestata, in ragione della quale diviene impossibile riscontrare una mera “pertinenza urbanistica”, usualmente identificata con opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un’opera principale.
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Il Collegio conviene con l’Amministrazione circa l’assoggettabilità dell’opera contestata –consistente in “una tettoia con struttura portante in acciaio delle dimensioni di ml 6,00x3,50 con altezza variabile da ml 2,20 a 2,60 circa”, “realizzata in aderenza”, tra l’altro, “ai due confini laterali del giardino di pertinenza con altrui proprietà”, con relativa pavimentazione dell’area interessata e “predisposizione per scarico WC” e “scarico lavandino”- all’obbligo del previo rilascio del permesso di costruire, atteso che si tratta di un’opera:
- affatto destinata a soddisfare esigenze precarie e/o meramente temporanee;
- connotata, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, da una propria autonomia, con chiara incidenza sull’assetto edilizio del territorio in quanto dotata di un proprio impatto volumetrico.

Secondo l’orientamento della giurisprudenza in materia, da cui il Collegio non ravvisa motivi per discostarsi, “la nozione di costruzione, ai fini del rilascio della concessione edilizia” (ora permesso di costruire) “si configura in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante la realizzazione di opere murarie” (cfr., tra le altre, TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 21.12.2012, n. 5294).
Più in particolare, l’ipotesi di una trasformazione del territorio –soggetta, in quanto tale, all’obbligo del previo rilascio del permesso di costruire- va individuata non in funzione dei materiali usati e della teorica precarietà del manufatto, ma in considerazione della stabilità delle esigenze che si intendono soddisfare e, nel contempo, dell’autonoma utilizzabilità che connota l’opera contestata, in ragione della quale diviene impossibile riscontrare una mera “pertinenza urbanistica”, usualmente identificata con opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un’opera principale (cfr., tra le altre, TAR Campania, Sez. VII, 05.12.2014, n. 6381).
Tenuto conto di quanto riportato, il Collegio conviene con l’Amministrazione circa l’assoggettabilità dell’opera contestata –consistente in “una tettoia con struttura portante in acciaio delle dimensioni di ml 6,00x3,50 con altezza variabile da ml 2,20 a 2,60 circa”, “realizzata in aderenza”, tra l’altro, “ai due confini laterali del giardino di pertinenza con altrui proprietà”, con relativa pavimentazione dell’area interessata e “predisposizione per scarico WC” e “scarico lavandino”- all’obbligo del previo rilascio del permesso di costruire, atteso che si tratta di un’opera:
- affatto destinata a soddisfare esigenze precarie e/o meramente temporanee;
- connotata, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, da una propria autonomia, con chiara incidenza sull’assetto edilizio del territorio in quanto dotata di un proprio impatto volumetrico.
In sintesi, si tratta di un’opera soggetta a permesso di costruire, in relazione alla quale –una volta accertata la carenza di quest’ultimo– la sanzione della demolizione risulta correttamente comminata (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 04.03.2015 n. 3731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione dell’istanza di sanatoria dell’abuso edilizio successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione produce l’effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi, improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, e ciò in quanto il riesame dell’abusività dell’opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l’eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta ex se la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa dal momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l’Amministrazione comunale dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi.
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In tema di abusivismo edilizio la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, successivamente all’impugnazione dell’ordine di demolizione, produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa, per sopravvenuta carenza di interesse.

Ciò posto, s’osserva che il presente ricorso può essere definito con sentenza breve, in considerazione dell’intervenuta presentazione, nell’interesse della ricorrente, dopo l’emanazione dell’ordinanza di demolizione impugnata e dopo la notifica dell’atto introduttivo del giudizio, di una domanda di accertamento di conformità che, sia pur congiunta a un’istanza di ripristino parziale dello “status quo ante”, in ogni caso impone al Comune di Celle di Bulgheria di decidere in merito, adottando, all’esito, nell’ipotesi di diniego, un nuovo provvedimento sanzionatorio edilizio; il che comporta, quale conseguenza, l’improcedibilità del ricorso medesimo, per sopravvenuto difetto d’interesse, conformemente a pacifica giurisprudenza, per la quale si leggano, “ex multis”, le massime che seguono: “La presentazione dell’istanza di sanatoria dell’abuso edilizio successivamente all’impugnazione dell’ordinanza di demolizione produce l’effetto di rendere inefficace tale ultimo provvedimento e, quindi, improcedibile l’impugnazione stessa per sopravvenuta carenza di interesse, e ciò in quanto il riesame dell’abusività dell’opera provocato da tale istanza, sia pure al fine di verificare l’eventuale sanabilità di quanto costruito, comporta ex se la necessaria formazione di un nuovo provvedimento (di accoglimento o di rigetto), che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’impugnativa dal momento che, in caso di diniego del richiesto accertamento di conformità, l’Amministrazione comunale dovrebbe emettere una nuova ordinanza di demolizione, con fissazione di nuovi termini per ottemperarvi” (TAR Liguria, Sez. I, 28/11/2014, n. 1748; conforme: Consiglio di Stato, Sez. V, 28/07/2014, n. 3990); “In tema di abusivismo edilizio la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, successivamente all’impugnazione dell’ordine di demolizione, produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa, per sopravvenuta carenza di interesse” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 28/11/2013, n. 5704) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 04.03.2015 n. 476 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAUe, chi inquina paga (ma non se arriva dopo).
La normativa italiana, che non impone misure di prevenzione e di riparazione a carico dei proprietari non responsabili dell'inquinamento dei loro terreni, è compatibile con il diritto dell'Unione.

Lo ha affermato ieri la Corte di giustizia europea con
sentenza 04.03.2015 n. causa C-534/13 (Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e a. /Fipa group srl e a.).
Tutto nasce tra il 2006 e il 2001, quando le società Tws automation, Ivan e Fipa group, divenute proprietarie di diversi terreni situati nella provincia di Massa Carrara, in Toscana, gravemente contaminati da sostanze chimiche in seguito alle attività economiche svolte dai precedenti proprietari, appartenenti al gruppo industriale Montedison, si videro ordinare dalle autorità italiane di realizzare una barriera idraulica di emungimento per la protezione della nappa freatica.
Il Consiglio di stato, adito in appello con ricorsi avverso le corrispondenti decisioni amministrative, ha constatato che la legislazione italiana non consente di imporre al proprietario non responsabile della contaminazione la realizzazione di misure di prevenzione e di riparazione e limita la sua responsabilità patrimoniale al valore del suo terreno. Ha quindi chiesto alla Corte di giustizia se tali norme nazionali siano compatibili con il principio «chi inquina paga» cui dà attuazione la direttiva.
La Corte risponde che la normativa italiana è conforme alla direttiva. Essa ricorda la costante giurisprudenza in base alla quale il principio «chi inquina paga» (articolo 191, paragrafo 2, Tfue), si rivolge all'azione dell'Unione, cosicché tale disposizione non può essere invocata in quanto tale da privati o da autorità amministrative.
La Corte analizza i presupposti della responsabilità ambientale, quali previsti nella direttiva, soffermandosi, in particolare, sulla nozione di «operatore» e sulla necessità della sussistenza di un nesso causale tra l'attività dell'operatore e il danno ambientale.
E precisa che le persone diverse dagli operatori non rientrano nell'ambito di applicazione della direttiva e che, quando non può essere accertato alcun nesso causale tra il danno ambientale e l'attività dell'operatore, tale situazione non rientra nel diritto dell'Unione, bensì nel diritto nazionale (articolo ItaliaOggi del 05.03.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAObbligo di ripristino per chi crea il danno. Corte Ue. La normativa nazionale non può imporre opere riparative all’acquirente ma solo un (limitato) rimborso dei costi.
Se manca il nesso causale tra l’attività del proprietario di un sito e il danno ambientale, gli Stati possono prevedere una normativa interna che imponga sul proprietario, non responsabile delle attività pregresse, unicamente il rimborso delle spese ma non altre misure di riparazione.
Lo ha chiarito la Corte di giustizia dell’Unione europea, Sez. III, con la sentenza 04.03.2015 n. causa C-534/13, con la quale sono stati sciolti alcuni problemi interpretativi sulla direttiva 2004/35 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, recepita in Italia con Dlgs 152/2006.
Le vicende che hanno portato il Consiglio di Stato a rivolgersi alla Corte di Lussemburgo per alcuni chiarimenti interpretativi sulla direttiva riguardavano alcune controversie tra il ministero dell’Ambiente e i nuovi proprietari di terreni, comprati da due società del gruppo Montedison. La bonifica precedente alla vendita non era stata sufficiente.
Il ministero dell’Ambiente aveva adottato un provvedimento nel quale chiedeva ai nuovi proprietari la messa in sicurezza dei suoli. Il Tar aveva annullato il provvedimento invocando il principio Ue “chi inquina paga” e ritenendo, così, che i nuovi proprietari non dovessero provvedere al risanamento o alla riparazione non avendo causato l’inquinamento.
Prima di tutto, gli eurogiudici hanno chiarito che spetta ai tribunali nazionali accertare se, sotto il profilo temporale e sotto quello soggettivo, l’atto Ue risulti applicabile. È necessario –osserva la Corte- che l’attività sia stata svolta da un operatore che è, poi, economicamente responsabile, con la conseguenza che su di lui devono gravare i costi di prevenzione e di riparazione. Nel caso all’attenzione della Corte gli acquirenti non svolgevano le attività elencate nell’allegato III e, quindi -scrivono i giudici- è presumibile che, salvi i casi residuali previsti dalla direttiva, quest’ultima non vada attuata.
Per quanto riguarda il regime di responsabilità, la direttiva ha puntato sul nesso di causalità tra l’attività dell’operatore e il danno ambientale, proprio per realizzare in modo effettivo il principio “chi inquina paga”. Se non è dimostrato il nesso causale tra danno ambientale e attività dell’operatore la direttiva non può essere applicata. Spazio così agli ordinamenti nazionali.
Questo vuol dire che, nel caso di specie, se i giudici nazionali stabiliscono che gli acquirenti non hanno contribuito al danno ambientale, vanno applicate le disposizioni interne che non consentono di imporre misure di riparazione sul proprietario non responsabile della contaminazione, prevedendo unicamente un rimborso dei costi sostenuti dalle autorità nazionali nei limiti del valore del terreno, determinato dopo l’esecuzione degli interventi
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA: La normativa italiana, che non impone misure di prevenzione e di riparazione a carico dei proprietari non responsabili dell’inquinamento dei loro terreni, è compatibile con il diritto dell’Unione.
A loro carico, gli Stati membri sono liberi di prevedere, allorché tali misure sono adottate dalle autorità, una responsabilità solo patrimoniale.
La direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21.04.2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, la quale, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi.

INCARICHI PROFESSIONALI: Limiti tabellari insuperabili. Il giudice deve attenersi alle soglie proprie della lite. ONORARI AVVOCATI/ Una sentenza della Corte di cassazione sulle voci tariffarie.
Se il giudice di merito nel liquidare gli onorari e i diritti all'avvocato riduce le voci tariffarie rispetto a quelle domandate nella notula, non è obbligato a motivare, anche se non potrà assolutamente determinarli in misura superiore ai limiti massimi, o inferiore ai minimi, indicati nelle tabelle in relazione al valore della controversia.

Ad affermarlo sono stati i giudici della VI Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 03.03.2015 n. 4256.
I giudici di piazza Cavour sono stati chiamati a esprimersi su un caso in cui un cittadino veniva sanzionato dall'amministrazione comunale per 89 euro. Il giudice di pace annullava il relativo verbale, ma il Tribunale accoglieva l'impugnazione dell'amministrazione comunale, condannando il soggetto al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio per un totale di 1.793 euro.
Pertanto l'attore ricorreva in Cassazione, contestando la liquidazione delle spese processuali, denunciando, tra l'altro, la liquidazione delle spese in misura superiore ai massimi tariffari in vigore all'epoca della pronuncia della sentenza. Infatti sia per il primo che per il secondo grado il Tribunale liquidava le spese in misura superiore ai massimi tariffari in vigore all'epoca della pronuncia della sentenza, condannando il cittadino a pagare euro 788,00 per il primo grado, avanti il giudice di pace, di cui euro 650,00 a titolo di onorario ed euro 138,00 a titolo di diritti, ed euro 1.005,00 per il grado d'appello, avanti il Tribunale di cui 760,00 a titolo di onorario ed euro 245,06 a titolo di diritti
La Suprema corte ha osservato che il giudice del merito non è tenuto a motivare circa la «diminuzione o riduzione di voci» tariffarie tutte le volte, e per il solo fatto, che liquidi i diritti e/o gli onorari di avvocato in somme inferiori a quelle domandate nella notula, fermo il dovere di non determinarli in misura inferiore ai limiti minimi (o superiore a quelli massimi) indicati nelle tabelle in relazione al valore della controversia» (si veda anche: Cass. 2007 n. 22347; Cass. 2010 n. 21010).
Osservando, quindi, come nel caso in questione, il giudice dell'appello nella relativa liquidazione avesse superato i limiti massimi (articolo ItaliaOggi Sette del 16.03.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Incarichi, largo ai funzionari. Prima i dipendenti di categoria D, poi i dirigenti esterni. Tar Lazio in controtendenza rispetto alla giurisprudenza. Bacchettata la regione.
Coinvolgere i funzionari inquadrati nella categoria D nella verifica della professionalità per l'assegnazione di incarichi dirigenziali, prima di assumere dirigenti a contratto, a tempo determinato.

La sentenza 03.03.2015 n. 3670 del TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, che ha sancito l'illegittimità di assunzioni di dirigenti a tempo determinato nella regione Lazio oltre i limiti percentuali fissati dall'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001 (e dalla propria legge regionale), espone la tesi innovativa secondo la quale nella ricerca dei soggetti cui attribuire incarichi dirigenziali occorre coinvolgere, subordinatamente ai dirigenti di ruolo, i funzionari.
I giudici del Tar, infatti, hanno considerato che le assunzioni di dirigenti esterni operate dalla regione Lazio sono risultate illegittime non solo per il superamento dei limiti numerici imposti dalla legge, ma anche per il «mancato rispetto della procedura volta alla ricognizione delle professionalità interne, nella parte in cui tale ricognizione non è stata rivolta anche a individuare la sussistenza di funzionari direttivi» aggiungendo che «la procedura deve ritenersi viziata in quanto rivolta in via esclusiva nei confronti del personale dirigenziale, e non anche di quello direttivo».
Insomma, la regione Lazio avrebbe dovuto accertare prima l'assenza di professionalità adeguate agli incarichi tra il personale dirigenziale di ruolo; poi, verificare se funzionari di categoria D ne fossero in possesso e solo dopo l'escussione di questi attivare le procedure per assumere dirigenti esterni a contratto. Secondo la sentenza, infatti, «l'impossibilità di rinvenire professionalità nei ruoli dell'amministrazione deve intendersi nel senso che la ricerca all'esterno deve seguire l'accertamento del possesso dei requisiti richiesti in capo a soggetti già appartenenti ai ruoli dell'amministrazione e, quindi, anche tra i funzionari direttivi di cat. D in caso di vacanza in organico di personale dirigenziale».
L'interpretazione è giustificata dalla necessità di contenere la spesa pubblica, evitando nuove assunzioni esterne. Non mancano, tuttavia, perplessità. Il comma 6 dell'articolo 19 consente di attribuire incarichi dirigenziali anche a dipendenti dell'ente conferente inquadrati come funzionari, ma considera tali incarichi come fossero esterni, tanto da consentire la loro collocazione in aspettativa.
Non sembra, allora, che le amministrazioni debbano prima escutere i dirigenti di ruolo e poi i funzionari di categoria D, prima di attivare gli incarichi a contratto. Piuttosto, dimostrato che tra i dirigenti le professionalità sono assenti, si possono avviare le selezioni per assumere dirigenti a contratto esterni e a tali selezioni potranno partecipare, senza quella sorta di «prelazione» indicata dal Tar Lazio, anche i funzionari, purché dispongano dei particolari requisiti di professionalità imposti dal comma 6, dell'articolo 19 (articolo ItaliaOggi del 17.03.2015).

EDILIZIA PRIVATAE’ ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui non assumono la qualità di parti necessarie del giudizio i soggetti terzi, estranei al procedimento repressivo di un abuso edilizio.
Si è, infatti, evidenziato che nell'impugnazione di un'ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso.
Infatti, la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette riflesse, ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica.

E’, invero, ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui non assumono la qualità di parti necessarie del giudizio i soggetti terzi, estranei al procedimento repressivo di un abuso edilizio.
Si è, infatti, evidenziato che nell'impugnazione di un'ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso. Infatti, la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette riflesse, ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica (cfr. TAR L'Aquila (Abruzzo) sez. I n. 429 dell’08/05/2014; TAR sez. I Potenza , Basilicata n. 480 dell’08/11/2012; Consiglio di Stato sez. IV 06.06.2011 n. 3380; TAR Piemonte, I, 21.04.2011, n. 420; TAR Napoli Campania sez. VIII, 01.12.2010 n. 26444)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 03.03.2015 n. 1356 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, per l'attribuzione del carattere di demanialità comunale ad una via privata è necessario che con la destinazione della strada all'uso pubblico concorra l'intervenuto acquisto, da parte dell'ente locale, della proprietà del suolo relativo o (per effetto di un contratto, in conseguenza di un procedimento d'esproprio, per effetto di usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non valendo, in difetto dell'appartenenza della sede viaria al Comune, la mera iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali, giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse con il regime giuridico della medesima; né la natura pubblica di una strada può essere desunta dalla prospettazione della mera previsione programmatica di tale destinazione, dall'espletamento su di essa, di fatto, del pubblico transito per un periodo infraventennale, o dall'intervento di atti di riconoscimento dell'amministrazione medesima circa la funzione assolta da una determinata strada.
Costituisce, parimenti, ius receptum che, per un verso, l'iscrizione delle strade negli appositi elenchi (che richiede l'accertamento dell'uso pubblico e la sua destinazione alla funzione di collegamento di parti del territorio comunale) crea una mera presunzione di appartenenza della strada all'ente cui essa è attribuita, superabile con la prova contraria della sua natura privata e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività, e che, per altro verso, a fronte della natura dichiarativa dell'atto di iscrizione negli appositi elenchi, è irrilevante la mancata inclusione nell'elenco delle strade comunali, se viene provata l'appartenenza della stessa all'ente pubblico territoriale.
Al fine di determinare l'appartenenza di una strada al demanio comunale occorre allora una valutazione complessiva degli indici di riferimento, rappresentati oltre che dall'uso pubblico, cioè l'uso da parte di un numero indeterminato di persone (il quale, isolatamente considerato, potrebbe essere indicativo anche soltanto di una servitù di passaggio), dalle risultanze delle mappe catastali, ovvero dalla sussistenza degli indici presuntivi direttamente fissati dalla disciplina di settore, come ad esempio dalla ubicazione della strada all'interno dei luoghi abitati, dalla natura di aree adiacenti a una strada pubblica (ex articolo 22 l. 20.03.1865 n. 2248, all. F).

A tal riguardo, preliminarmente, mette conto evidenziare che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso da questo Collegio, per l'attribuzione del carattere di demanialità comunale ad una via privata è necessario che con la destinazione della strada all'uso pubblico concorra l'intervenuto acquisto, da parte dell'ente locale, della proprietà del suolo relativo o (per effetto di un contratto, in conseguenza di un procedimento d'esproprio, per effetto di usucapione o dicatio ad patriam, ecc.), non valendo, in difetto dell'appartenenza della sede viaria al Comune, la mera iscrizione della via negli elenchi delle strade comunali, giacché tale iscrizione non può pregiudicare le situazioni giuridiche attinenti alla proprietà del terreno e connesse con il regime giuridico della medesima; né la natura pubblica di una strada può essere desunta dalla prospettazione della mera previsione programmatica di tale destinazione, dall'espletamento su di essa, di fatto, del pubblico transito per un periodo infraventennale, o dall'intervento di atti di riconoscimento dell'amministrazione medesima circa la funzione assolta da una determinata strada (v. sul punto, per tutte, Cass. civ., sez. II, 28.09.2010, n. 20405; Cass. civ., sez. I, 26.08.2002, n. 12540; Cass. civ., Sez. II, 07.04.2006, n. 8204).
Costituisce, parimenti, ius receptum che, per un verso, l'iscrizione delle strade negli appositi elenchi (che richiede l'accertamento dell'uso pubblico e la sua destinazione alla funzione di collegamento di parti del territorio comunale) crea una mera presunzione di appartenenza della strada all'ente cui essa è attribuita, superabile con la prova contraria della sua natura privata e dell'inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività, e che, per altro verso, a fronte della natura dichiarativa dell'atto di iscrizione negli appositi elenchi, è irrilevante la mancata inclusione nell'elenco delle strade comunali, se viene provata l'appartenenza della stessa all'ente pubblico territoriale (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 4952 del 04.06.2013).
Al fine di determinare l'appartenenza di una strada al demanio comunale occorre allora una valutazione complessiva degli indici di riferimento, rappresentati oltre che dall'uso pubblico, cioè l'uso da parte di un numero indeterminato di persone (il quale, isolatamente considerato, potrebbe essere indicativo anche soltanto di una servitù di passaggio), dalle risultanze delle mappe catastali, ovvero dalla sussistenza degli indici presuntivi direttamente fissati dalla disciplina di settore, come ad esempio dalla ubicazione della strada all'interno dei luoghi abitati, dalla natura di aree adiacenti a una strada pubblica (ex articolo 22 l. 20.03.1865 n. 2248, all. F)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 03.03.2015 n. 1356 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza in materia di parere soprintendentizio ex art. 167 d.lgs. 42/2004 è attestata sui principi che di seguito si espongono e cioè che, pur essendo il termine invocato da parte ricorrente (90 gg.) indicato come perentorio, il suo mero decorso non comporta l’estinzione del relativo potere in capo all’amministrazione procedente, non essendovi nella norma invocata alcuna espressa comminatoria di decadenza.
Né per altra via può trarsi l’illegittimità del parere tardivamente reso, invocandone l’inutilità ovvero una determinazione silente in senso positivo, atteso che le peculiari previsioni acceleratorie e di semplificazione contenute negli artt. 16 (attività consultiva) e 20 (silenzio-assenso) della legge n. 241/1990 non trovano applicazione nella materia ambientale e paesaggistica.
Peraltro, non può sottacersi che il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sulla sentenza n. 2263 del 07.12.2012 di questo Tar, è addivenuto alla riforma della stessa, muovendo dalla disamina del quadro normativo di riferimento, precisando che, nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall’art. 146, comma 5, così come del termine fissato dall’art. 167, comma 5, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), il potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
In definitiva, la giurisprudenza in subiecta materia, è ormai consolidata nel ritenere che la mancata osservanza, da parte della Soprintendenza, del termine perentorio previsto ex lege per il rilascio del parere di compatibilità paesaggistica, non determina l'illegittimità del parere reso oltre il termine previsto; quest'ultimo perde il carattere vincolante impresso dalla legge, proprio perché si colloca al di fuori del quadro normativo, ma costituisce sempre un elemento del procedimento che l'amministrazione deve valutare, potendosene motivatamente discostare.
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Trasponendo i menzionati principi, al caso in esame, l’amministrazione comunale è tenuta a concludere il procedimento di accertamento della compatibilità paesaggistica di cui all’istanza attorea con un provvedimento espresso, per cui non resta al Collegio che assegnare alla Soprintendenza il termine di trenta giorni dalla notificazione della presente per esprimere il parere dovuto, onerando, comunque, il Comune ad emettere, entro sessanta giorni dalla notificazione della presente, il provvedimento espresso ex art. 167 d.lgs n. 42/2004, con l’avvertenza che, in mancanza provvederà il Commissario ad Acta che fin d’ora si nomina nella persona del Prefetto territorialmente competente, o funzionario dal medesimo designato, con spese a carico delle amministrazioni inadempienti.

... per l'annullamento:
- della violazione dell'obbligo della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Salerno ed Avellino di emettere il parere di cui all'art. 167 d.lgs 42/2004 in merito alla richiesta di accertamento di conformità paesaggistica per i lavori realizzati dalla ricorrente in difformità ai titoli edilizi rilasciati, di cui all’istanza prot. n. 2997 del 20.03.2013 presentata dalla società ricorrente, trasmessa dal Comune di Pollica alla Soprintendenza n data 08.05.2013 prot. n. 4597;
- della violazione dell’obbligo del Comune di Pollica di concludere, previa acquisizione del parere della Soprintendenza, di concludere il procedimento con un provvedimento espresso.
...
5.- Il ricorso è fondato e va accolto alla stregua delle considerazioni che seguono.
5.a.- A mente delle indicazioni emergenti dal comma 5 dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/20904 “Il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L'autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni. Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore e' tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione.”
5.b.- Preliminarmente occorre precisare che la giurisprudenza in materia è attestata sui principi che di seguito si espongono e cioè che, pur essendo il termine invocato da parte ricorrente indicato come perentorio, il suo mero decorso non comporta l’estinzione del relativo potere in capo all’amministrazione procedente, non essendovi nella norma invocata alcuna espressa comminatoria di decadenza.
Né per altra via può trarsi l’illegittimità del parere tardivamente reso, invocandone l’inutilità ovvero una determinazione silente in senso positivo, atteso che le peculiari previsioni acceleratorie e di semplificazione contenute negli artt. 16 (attività consultiva) e 20 (silenzio-assenso) della legge n. 241/1990 non trovano applicazione nella materia ambientale e paesaggistica (ex multis TAR Campania Salerno Sez. I n. 811/2013)
Peraltro, non può sottacersi che il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sulla sentenza n. 2263 del 07.12.2012 di questo Tar, è addivenuto alla riforma della stessa, muovendo dalla disamina del quadro normativo di riferimento, precisando che, nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall’art. 146, comma 5, così come del termine fissato dall’art. 167, comma 5, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), il potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
In definitiva, la giurisprudenza in subiecta materia, è ormai consolidata nel ritenere che la mancata osservanza, da parte della Soprintendenza, del termine perentorio previsto ex lege per il rilascio del parere di compatibilità paesaggistica, non determina l'illegittimità del parere reso oltre il termine previsto; quest'ultimo perde il carattere vincolante impresso dalla legge, proprio perché si colloca al di fuori del quadro normativo, ma costituisce sempre un elemento del procedimento che l'amministrazione deve valutare, potendosene motivatamente discostare (cfr. da ultimo TAR Puglia, Lecce, sez. I, 12.07.2013, n. 1681).
5.c.- Orbene, trasponendo i menzionati principi, al caso in esame, l’amministrazione comunale è tenuta a concludere il procedimento di accertamento della compatibilità paesaggistica di cui all’istanza attorea prot. n. 2997 del 20.03.2013 con un provvedimento espresso, per cui non resta al Collegio che assegnare alla Soprintendenza il termine di trenta giorni dalla notificazione della presente per esprimere il parere dovuto, onerando, comunque, il Comune di Pollica ad emettere, entro sessanta giorni dalla notificazione della presente, il provvedimento espresso ex art. 167 d.lgs n. 42/2004, con l’avvertenza che, in mancanza provvederà il Commissario ad Acta che fin d’ora si nomina nella persona del Prefetto territorialmente competente, o funzionario dal medesimo designato, con spese a carico delle amministrazioni inadempienti (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 03.03.2015 n. 474 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE’ infondato il primo motivo di ricorso con il quale i deducenti assumono che sia l’ente locale che la Soprintendenza, pronunciandosi oltre i termini indicati ex art. 167, V comma, d.lgs. n. 42/2004, sarebbero decaduti dal potere di emettere gli atti.
Va, invero, evidenziato che, pur essendo il termine invocato da parte ricorrente indicato come perentorio, il suo mero decorso non comporta l’estinzione del relativo potere in capo all’amministrazione procedente, non essendovi nella norma invocata alcuna espressa comminatoria di decadenza.
Né per altra via può trarsi l’illegittimità del parere tardivamente reso, invocandone l’inutilità ovvero una determinazione silente in senso positivo, atteso che le peculiari previsioni acceleratorie e di semplificazione contenute negli artt. 16 (attività consultiva) e 20 (silenzio-assenso) della legge n. 241/1990 non trovano applicazione nella materia ambientale e paesaggistica.
Peraltro, non può sottacersi che il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sulla sentenza n. 2263 del 07.12.2012 di questo Tar, è addivenuto alla riforma della stessa, muovendo dalla disamina del quadro normativo di riferimento, precisando che, nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall’art. 146, comma 5, così come del termine fissato dall’art. 167, comma 5, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), il potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
In definitiva, la giurisprudenza in subiecta materia, è ormai consolidata nel ritenere che la mancata osservanza, da parte della Soprintendenza, del termine perentorio previsto ex lege per il rilascio del parere di compatibilità paesaggistica, non determina l'illegittimità del parere reso oltre il termine previsto; quest'ultimo perde il carattere vincolante impresso dalla legge, proprio perché si colloca al di fuori del quadro normativo, ma costituisce sempre un elemento del procedimento che l'amministrazione deve valutare, potendosene motivatamente discostare.

... per l'annullamento:
- del provvedimento di cui alla nota prot. n. 15835 del 03.06.2013 con la quale la Soprintendenza ai B.A.P. di Salerno ed Avellino ha espresso parere contrario in merito sull'istanza di compatibilità paesaggistica, ex art. 167, comma 5, d.lgs n. 42/2004, per opere realizzate nel comune di Centola;
- del provvedimento di cui alla nota prot. n. 7881 del 03.07.2013 con il quale l Comune i Centola, sulla base del citato parere contrario, ha respinto l’istanza di accertamento di conformità e compatibilità paesaggistica dei ricorrenti;
...
Le censure non colgono nel segno.
7.- E’ infondato il primo motivo di ricorso con il quale i deducenti assumono che sia l’ente locale che la Soprintendenza, pronunciandosi oltre i termini indicati ex art. 167, V comma, d.lgs. n. 42/2004, sarebbero decaduti dal potere di emettere gli atti.
Va, invero, evidenziato che, pur essendo il termine invocato da parte ricorrente indicato come perentorio, il suo mero decorso non comporta l’estinzione del relativo potere in capo all’amministrazione procedente, non essendovi nella norma invocata alcuna espressa comminatoria di decadenza.
Né per altra via può trarsi l’illegittimità del parere tardivamente reso, invocandone l’inutilità ovvero una determinazione silente in senso positivo, atteso che le peculiari previsioni acceleratorie e di semplificazione contenute negli artt. 16 (attività consultiva) e 20 (silenzio-assenso) della legge n. 241/1990 non trovano applicazione nella materia ambientale e paesaggistica (ex multis TAR Campania Salerno Sez. I n. 811/2013).
Peraltro, non può sottacersi che il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sulla sentenza n. 2263 del 07.12.2012 di questo Tar, è addivenuto alla riforma della stessa, muovendo dalla disamina del quadro normativo di riferimento, precisando che, nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall’art. 146, comma 5, così come del termine fissato dall’art. 167, comma 5, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137), il potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
In definitiva, la giurisprudenza in subiecta materia, è ormai consolidata nel ritenere che la mancata osservanza, da parte della Soprintendenza, del termine perentorio previsto ex lege per il rilascio del parere di compatibilità paesaggistica, non determina l'illegittimità del parere reso oltre il termine previsto; quest'ultimo perde il carattere vincolante impresso dalla legge, proprio perché si colloca al di fuori del quadro normativo, ma costituisce sempre un elemento del procedimento che l'amministrazione deve valutare, potendosene motivatamente discostare (cfr. da ultimo TAR Puglia, Lecce, sez. I, 12.07.2013, n. 1681) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 03.03.2015 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza ha ritenuto che un tratto di strada percorso abitualmente non soltanto dagli abitanti ma utilizzato per l’indifferenziato traffico pedonale degli abitanti, in quanto destinato a soddisfare esigenze di pubblico e generale interesse, costituisce una strada pubblica, indipendentemente dal titolo di proprietà, pubblico o privato, della stessa.
Anche questo giudice ha aderito a tale indirizzo, ritenendo, proprio in una controversia mossa nei confronti del Comune attualmente intimato, che l’uso da parte di una collettività, prolungato nel tempo, di un sedime privato a margine di una strada pubblica sia idoneo a configurare, per ciò solo e senza la necessità di un titolo, costituisca una dicatio ad patriam, che autorizza l’autotutela possessoria da parte della P.A., indipendentemente dalla sua titolarità, cioè per mero fatto giuridico.

Nemmeno convince il secondo motivo, che confonde i rapporti fra il Codice della Strada e il regolamento comunale, limitandosi il primo ad attribuire ai Comuni la competenza al rilascio delle autorizzazioni, onde, per disciplinare il relativo procedimento, essi dovranno dotarsi di proprie norme che regolino il procedimento, le quali non possono perciò contrastare con la scarna disciplina codicistica, ma ne costituiscono invece il presupposto per la concessione, il rifiuto, la revoca e il ritiro di dette autorizzazioni.
Non miglior sorte, ad avviso del Collegio, ha il tentativo di restringere la competenza comunale alla sola carreggiata, cioè la parte di strada dedicata allo scorrimento dei veicoli, mentre al Comune compete di regolamentare l’intera strada, che comprende anche i marciapiedi dedicati al transito dei pedoni.
Dev’essere poi sottolineato che la giurisprudenza (cfr. CDS IV Sez. 15.06.2012 n. 3531) ha ritenuto che un tratto di strada percorso abitualmente non soltanto dagli abitanti ma utilizzato per l’indifferenziato traffico pedonale degli abitanti, in quanto destinato a soddisfare esigenze di pubblico e generale interesse, costituisce una strada pubblica, indipendentemente dal titolo di proprietà, pubblico o privato, della stessa.
Anche questo giudice (cfr. TAR Friuli – Venezia Giulia 05.05.2014 n. 182) ha aderito a tale indirizzo, ritenendo, proprio in una controversia mossa nei confronti del Comune attualmente intimato, che l’uso da parte di una collettività, prolungato nel tempo, di un sedime privato a margine di una strada pubblica sia idoneo a configurare, per ciò solo e senza la necessità di un titolo, costituisca una dicatio ad patriam, che autorizza l’autotutela possessoria da parte della P.A., indipendentemente dalla sua titolarità, cioè per mero fatto giuridico (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 02.03.2015 n. 109 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla sanatoria ambientale di volumi interrati.
Il Collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale, fatto proprio in più occasioni anche dal giudice d’appello, secondo cui il divieto di sanatoria paesaggistica postuma previsto dall’art. 167, comma 4, lett. a), del D.Lgs. 42 del 2004 per le opere che abbiano comportato la creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati si estende anche ai volumi interrati.
Tale conclusione muove dalla condivisibile premessa secondo cui, costituendo il “paesaggio” un bene immateriale che si identifica con la percezione da parte delle popolazioni della identità culturale di una determinata parte del territorio in ragione delle sue caratteristiche naturali o indotte dalla presenza dell'uomo, la relativa nozione non può risultare circoscritta al mero aspetto esteriore o immediatamente visibile atteso che ogni modificazione del territorio, anche sotterranea, potrebbe, direttamente o indirettamente (per i suoi riflessi sulla vita di superficie) modificarne le caratteristiche tutelate.
Invero, il fatto che la nozione di paesaggio non coincida più con quella di singolo luogo di particolare bellezza o valenza storica, identificandosi con tutti gli aspetti ed i caratteri peculiari del territorio suscettibili di assumere una “valenza identitaria” per una determinata comunità (art. 138, comma 1, D.Lgs. 42/2004), comporta indubbiamente una notevole estensione dell’ambito della tutela che l’ordinamento appresta a protezione di tale bene.
Tutela, che, in alcuni casi, può riguardare anche il sottosuolo le cui trasformazioni, per questo, non possono essere tout court escluse dal regime autorizzatorio, come, giustamente, afferma la Cassazione penale.
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Ciò di cui qui si discute non è del fatto se il sottosuolo faccia o meno parte del paesaggio (come sopra inteso) ma se i volumi o le superfici abusivamente realizzati al suo interno incorrano o meno nel divieto di sanatoria previsto dal comma 4, lett. a), dell’art. 167 del D.Lgs 42/2004.
Per rispondere a tale domanda occorre muovere da una diversa considerazione e cioè quella che l’uomo vive normalmente in superficie ed è lì che avvengono nella grandissima maggioranza dei casi quelle trasformazioni suscettibili di divenire elementi identitari che legano una certa comunità ad una determinato territorio.
Non si può leggere la previsione del comma 4 dell’art. 167 del codice dei beni culturali senza tener conto di tale dato: l’uomo non vive, normalmente, sotto terra e, pertanto, le modifiche del sottosuolo, a differenza della realizzazione di nuove superfici e nuovi volumi in superficie, non implica alcuna trasformazione di elementi culturalmente rilevanti, salvo in quegli specifici (e non frequenti) casi in cui anche il sottosuolo sia antropizzato o in cui le modifiche in esso realizzate siano di tale entità da potersi riflettere sull’assetto del paesaggio esterno.
Sicché, se è del tutto ragionevole che gli incrementi volumetrici che interessino la superficie siano ex lege considerati insanabili in quanto, nella normalità, pregiudizievoli rispetto all’assetto riconoscibile del territorio antropizzato, altrettanto non lo è il fatto che allo stesso modo vengano considerati gli spazi ricavati nel sottosuolo a cui non può essere riconosciuto il medesimo valore culturale dei luoghi su cui ordinariamente si svolge la vita umana.
Tali considerazioni inducono il Collegio ad aderire all’orientamento giurisprudenziale secondo cui la nozione di volume presa in considerazione dall’art. 167, comma 4, lett. a), del D.Lgs. 42/2004 non coincide con quella urbanistica (che implica il consumo di indici e non si correla necessariamente con una trasformazione visibile ab externo) ma ha una propria connotazione implicante la creazione di manufatti fuori terra o la alterazione della sagoma di quelli già esistenti; con la conseguenza che le trasformazioni che avvengono nel sottosuolo non possono essere considerate tout court insuscettibili di sanatoria, dovendo la relativa rilevanza paesaggistica essere vagliata caso per caso dagli organi competenti.
Peraltro, affermare la assoluta insanabilità di volumi o superfici interrate può condurre a risultati incongrui; e ciò è proprio quanto avviene nel caso di specie in cui la applicazione di tale regola comporterebbe l’attribuzione ex lege al materiale terroso sotterraneo che preesisteva all’intervento della valenza di bene culturale oppure indurrebbe a ritenere suscettibile di potenziale incidenza sul paesaggio esterno l’allargamento (modesto) di uno spazio di manovra relativo una autorimessa che rimane invariata nella sua originaria consistenza.

... per l'annullamento:
- della nota prot. n. 18143 dello 04.11.2013 del Servizio Urbanistica Edilizia Privata del Comune di Fiesole, avente ad oggetto "Comunicazione determinazioni negative al fine del rilascio del titolo in sanatoria" con la quale è stato comunicato alla Diocesi di Fiesole il "diniego al rilascio dell'attestazione di conformità/accertamento di compatibilità paesaggistica prevista dall'art. 140, della Legge Regionale n. 1/2005, e art. 167 e 181 del d.lgs. n. 42/2004 relativo alla pratica edilizia n. 2001/2011 presentata il 03.06.2011 prot. 11783 dalla Diocesi di Fiesole";
- del parere negativo prot. n. 9451 del 13.05.2013 reso dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici con il quale è stato affermato che "Questo Ufficio, in riferimento alle osservazioni della proprietà ricevute in allegato alla nota di codesto Comune n. 2445 del 16.02.2013, non ritiene che gli elementi giustificativi siano tali da poter accogliere l'istanza di sanatoria ai sensi dell'art. 167 del Codice. L'incremento della superficie utile al piano interrato nei limiti previsti dalla Legge n. 122/1989, sebbene escluso dal calcolo convenzionale della volumetria edificabile, non risulta comunque, ricompreso, tra le tipologie previste dall'art. 167, comma 4, per l'attivazione della procedura di compatibilità paesaggistica. Si conferma pertanto quanto già comunicato con la nota n. 193 dello 03.01.2012";
- del parere prot. n. 193 dello 03.01.2012 -richiamato dalla nota prot. n. 18143 dello 04.11.2013 del Servizio Urbanistica Edilizia Privata del Comune di Fiesole- reso dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici;
...
Merita di essere favorevolmente considerato il primo motivo del ricorso principale.
Il Collegio non ignora l’orientamento giurisprudenziale, fatto proprio in più occasioni anche dal giudice d’appello, secondo cui il divieto di sanatoria paesaggistica postuma previsto dall’art. 167, comma 4, lett. a), del D.Lgs. 42 del 2004 per le opere che abbiano comportato la creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati si estende anche ai volumi interrati (Consiglio di Stato sez. VI, 05/08/2013, n. 4079).
Tale conclusione muove dalla condivisibile premessa secondo cui, costituendo il “paesaggio” un bene immateriale che si identifica con la percezione da parte delle popolazioni della identità culturale di una determinata parte del territorio in ragione delle sue caratteristiche naturali o indotte dalla presenza dell'uomo, la relativa nozione non può risultare circoscritta al mero aspetto esteriore o immediatamente visibile atteso che ogni modificazione del territorio, anche sotterranea, potrebbe, direttamente o indirettamente (per i suoi riflessi sulla vita di superficie) modificarne le caratteristiche tutelate (Cass. pen., Sez. III, 16.01.2007, n. 7292).
Invero, il fatto che la nozione di paesaggio non coincida più con quella di singolo luogo di particolare bellezza o valenza storica, identificandosi con tutti gli aspetti ed i caratteri peculiari del territorio suscettibili di assumere una “valenza identitaria” per una determinata comunità (art. 138, comma 1, D.Lgs. 42/2004), comporta indubbiamente una notevole estensione dell’ambito della tutela che l’ordinamento appresta a protezione di tale bene. Tutela, che, in alcuni casi, può riguardare anche il sottosuolo le cui trasformazioni, per questo, non possono essere tout court escluse dal regime autorizzatorio, come, giustamente, afferma la Cassazione penale.
Ciò di cui qui si discute, tuttavia, non è del fatto se il sottosuolo faccia o meno parte del paesaggio come sopra inteso ma se i volumi o le superfici abusivamente realizzati al suo interno incorrano o meno nel divieto di sanatoria previsto dal comma 4, lett. a), dell’art. 167 del D.Lgs 42/2004.
Per rispondere a tale domanda occorre muovere da una diversa considerazione e cioè quella che l’uomo vive normalmente in superficie ed è lì che avvengono nella grandissima maggioranza dei casi quelle trasformazioni suscettibili di divenire elementi identitari che legano una certa comunità ad una determinato territorio.
Non si può leggere la previsione del comma 4 dell’art. 167 del codice dei beni culturali senza tener conto di tale dato: l’uomo non vive, normalmente, sotto terra e, pertanto, le modifiche del sottosuolo, a differenza della realizzazione di nuove superfici e nuovi volumi in superficie, non implica alcuna trasformazione di elementi culturalmente rilevanti, salvo in quegli specifici (e non frequenti) casi in cui anche il sottosuolo sia antropizzato o in cui le modifiche in esso realizzate siano di tale entità da potersi riflettere sull’assetto del paesaggio esterno.
Sicché, se è del tutto ragionevole che gli incrementi volumetrici che interessino la superficie siano ex lege considerati insanabili in quanto, nella normalità, pregiudizievoli rispetto all’assetto riconoscibile del territorio antropizzato, altrettanto non lo è il fatto che allo stesso modo vengano considerati gli spazi ricavati nel sottosuolo a cui non può essere riconosciuto il medesimo valore culturale dei luoghi su cui ordinariamente si svolge la vita umana.
Tali considerazioni inducono il Collegio ad aderire all’orientamento giurisprudenziale secondo cui la nozione di volume presa in considerazione dall’art. 167, comma 4, lett. a), del D.Lgs. 42/2004 non coincide con quella urbanistica (che implica il consumo di indici e non si correla necessariamente con una trasformazione visibile ab externo) ma ha una propria connotazione implicante la creazione di manufatti fuori terra o la alterazione della sagoma di quelli già esistenti (TAR Brescia sez. I, 08/01/2015 n. 14; v. TAR Brescia Sez. I 15.10.2014 n. 1057; TAR Napoli Sez. VII 10.02.2014 n. 930; TAR Torino Sez. II 17.12.2011 n. 1310; circolare del Ministero per i Beni e le Attività Culturali n. 33 del 26.06.2009); con la conseguenza che le trasformazioni che avvengono nel sottosuolo non possono essere considerate tout court insuscettibili di sanatoria, dovendo la relativa rilevanza paesaggistica essere vagliata caso per caso dagli organi competenti.
Peraltro, affermare la assoluta insanabilità di volumi o superfici interrate può condurre a risultati incongrui; e ciò è proprio quanto avviene nel caso di specie in cui la applicazione di tale regola comporterebbe l’attribuzione ex lege al materiale terroso sotterraneo che preesisteva all’intervento della valenza di bene culturale oppure indurrebbe a ritenere suscettibile di potenziale incidenza sul paesaggio esterno l’allargamento (modesto) di uno spazio di manovra relativo una autorimessa che rimane invariata nella sua originaria consistenza.
L’impugnato diniego di accertamento di conformità ed il parere soprintendentizio che ne costituisce il presupposto devono, quindi, essere annullati in quanto fondati su premesse giuridicamente errate.
Ed anche la conseguente ordinanza di demolizione, gravata da motivi aggiunti, deve seguire la stessa sorte in quanto affetta da illegittimità derivata (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.02.2015 n. 338 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio ritiene opportuno rammentare alcuni principi generali che in materia edilizia la giurisprudenza ha ritenuto immanenti nel nostro ordinamento sin dalla entrata in vigore della L. 10/1977 e che sono stati poi recepiti dal D.P.R. 380/2001, che ormai enuncia chiaramente la disciplina da applicarsi nel caso in cui dopo il rilascio del titolo edilizio sopravvenga un mutamento di disciplina:
L’art. 4 della L. 10/1977 già stabiliva che, una volta rilasciata la concessione edilizia, i lavori dovessero essere iniziati entro l’anno ed ultimati entro i tre anni successivi, potendo detti termini essere prorogati solo una volta con provvedimento motivato e solo ove fosse risultato che il mancato rispetto dei termini legislativi fosse dipeso da cause non dipendenti dalla volontà dell’interessato; la norma stabiliva inoltre che ove i termini, originari o prorogati, non fossero stati rispettati l’interessato dovesse richiedere una nuova concessione riguardante la parte della costruzione non ultimata.
La giurisprudenza, valorizzando tale dato normativo, aveva già avuto modo di precisare che l’Autorità comunale, richiesta di rilasciare una nuova concessione per intervenuta perdita di efficacia di quella originaria conseguente a mancato rispetto dei termini di inizio o di fine lavori, disponeva degli stessi poteri e doveva rispettare gli stessi limiti che avrebbe incontrato ove richiesta di un titolo edilizio “originario”, potendo e dovendo, pertanto, opporre all’interessato l’entrata in vigore di eventuali sopravvenute previsioni urbanistiche incompatibili con la concessione edilizia precedentemente rilasciata.
La differenza sostanziale tra proroga della concessione edilizia e rinnovo della concessione edilizia doveva quindi individuarsi –secondo questa giurisprudenza– in ciò: che nel primo caso l’Autorità comunale verificava solo la possibilità di prorogare i termini di inizio e fine lavori fissati dal legislatore, dal che conseguiva un prolungamento nel tempo della efficacia della originaria concessione edilizia e la preclusione, per l’Autorità comunale, di effettuare una nuova istruttoria finalizzata a verificare la compatibilità del progetto con la normativa nel frattempo sopravvenuta; in caso di rinnovo, all’esatto opposto, sul presupposto che i termini di inizio e fine lavori non potevano essere prorogati, il rinnovo della concessione edilizia comportava il dovere della Autorità comunale di effettuare una nuova istruttoria completa, con il dovere di opporre l’eventuale entrata in vigore di norme preclusive dell’intervento edilizio.
La giurisprudenza, peraltro, aveva ampliato la possibilità per la Amministrazione di opporre eventuali nuovi vincoli sopravvenuti, precisando che la concessione edilizia, pur legittimamente rilasciata, poteva e doveva essere ritirata ove una normativa limitativa della attività edificatoria fosse subentrata prima dell’inizio dei lavori.
Le previsioni dell’art. 4 L. 10/1977 ed il portato della giurisprudenza formatasi nel vigore di quella norma sono confluite nell’odierno art. 15 del D.P.R. 380/2001, il quale, al comma 4, precisa anche chiaramente che “Il permesso decade con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori non siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”.
E’ quindi evidente che, ormai da decenni, nel nostro ordinamento vige il principio secondo il quale solo l’effettivo inizio dei lavori mette il titolare di un permesso di costruire al riparo dalla normativa sopravvenuta più limitativa, a condizione che i lavori stessi siano poi ultimati nel triennio successivo o nel maggior termine eventualmente accordato dalla Amministrazione in via di proroga.
Corollario di tale principio è che, una volta che i lavori risultino effettivamente intrapresi, la decadenza del titolo edilizio, con i rischi che essa comporta, è evitata solo dalla “ultimazione” dei lavori, e non dalla realizzazione di un qualsiasi manufatto.
In particolare, neppure la realizzazione del c.d. “rustico”, cioè dell’edificio completo di tutti i muri interni ed esterni, ma privo degli impianti, dei serramenti e degli intonaci, era, ed è, sufficiente, ad evitare l’opponibilità di norme limitative sopravvenute.
Al proposito si ricorda che l’art. 4 della L. 10/1977 individuava la “ultimazione dei lavori” nel momento in cui l’edificio risultava abitabile o agibile; tale precisazione non è stata riprodotta nell’art. 15 del D.P.R. 380/2001, ma non per questo è lecito attribuire ora a tale parola un significato diverso da quello letterale, tanto più che il rilascio del certificato di agibilità continua ad essere, come è sempre stato, chiaramente subordinato all’integrale completamento di tutte le opere licenziate, ivi compresa la prosciugatura dei muri.
Per “completamento dei lavori” ai fini di cui all’art. 15, comma 4, D.P.R. 380/2001 deve quindi intendersi la realizzazione di tute le opere che consentono di abitare o di utilizzare un edificio in condizioni di igiene, salubrità e sicurezza.

7. Prima di procedere alla disamina dei motivi di ricorso il Collegio ritiene opportuno rammentare alcuni principi generali che in materia edilizia la giurisprudenza ha ritenuto immanenti nel nostro ordinamento sin dalla entrata in vigore della L. 10/1977 e che sono stati poi recepiti dal D.P.R. 380/2001, che ormai enuncia chiaramente la disciplina da applicarsi nel caso in cui dopo il rilascio del titolo edilizio sopravvenga un mutamento di disciplina.
7.1. L’art. 4 della L. 10/1977 già stabiliva che, una volta rilasciata la concessione edilizia, i lavori dovessero essere iniziati entro l’anno ed ultimati entro i tre anni successivi, potendo detti termini essere prorogati solo una volta con provvedimento motivato e solo ove fosse risultato che il mancato rispetto dei termini legislativi fosse dipeso da cause non dipendenti dalla volontà dell’interessato; la norma stabiliva inoltre che ove i termini, originari o prorogati, non fossero stati rispettati l’interessato dovesse richiedere una nuova concessione riguardante la parte della costruzione non ultimata.
7.1.1. La giurisprudenza, valorizzando tale dato normativo, aveva già avuto modo di precisare che l’Autorità comunale, richiesta di rilasciare una nuova concessione per intervenuta perdita di efficacia di quella originaria conseguente a mancato rispetto dei termini di inizio o di fine lavori, disponeva degli stessi poteri e doveva rispettare gli stessi limiti che avrebbe incontrato ove richiesta di un titolo edilizio “originario”, potendo e dovendo, pertanto, opporre all’interessato l’entrata in vigore di eventuali sopravvenute previsioni urbanistiche incompatibili con la concessione edilizia precedentemente rilasciata (TAR Napoli, Sez. VI, n. 4328/2011).
La differenza sostanziale tra proroga della concessione edilizia e rinnovo della concessione edilizia doveva quindi individuarsi –secondo questa giurisprudenza– in ciò: che nel primo caso l’Autorità comunale verificava solo la possibilità di prorogare i termini di inizio e fine lavori fissati dal legislatore, dal che conseguiva un prolungamento nel tempo della efficacia della originaria concessione edilizia e la preclusione, per l’Autorità comunale, di effettuare una nuova istruttoria finalizzata a verificare la compatibilità del progetto con la normativa nel frattempo sopravvenuta; in caso di rinnovo, all’esatto opposto, sul presupposto che i termini di inizio e fine lavori non potevano essere prorogati, il rinnovo della concessione edilizia comportava il dovere della Autorità comunale di effettuare una nuova istruttoria completa, con il dovere di opporre l’eventuale entrata in vigore di norme preclusive dell’intervento edilizio.
La giurisprudenza, peraltro, aveva ampliato la possibilità per la Amministrazione di opporre eventuali nuovi vincoli sopravvenuti, precisando che la concessione edilizia, pur legittimamente rilasciata, poteva e doveva essere ritirata ove una normativa limitativa della attività edificatoria fosse subentrata prima dell’inizio dei lavori.
7.2. Le previsioni dell’art. 4 L. 10/1977 ed il portato della giurisprudenza formatasi nel vigore di quella norma sono confluite nell’odierno art. 15 del D.P.R. 380/2001, il quale, al comma 4, precisa anche chiaramente che “Il permesso decade con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori non siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”.
E’ quindi evidente che, ormai da decenni, nel nostro ordinamento vige il principio secondo il quale solo l’effettivo inizio dei lavori mette il titolare di un permesso di costruire al riparo dalla normativa sopravvenuta più limitativa, a condizione che i lavori stessi siano poi ultimati nel triennio successivo o nel maggior termine eventualmente accordato dalla Amministrazione in via di proroga.
Corollario di tale principio è che, una volta che i lavori risultino effettivamente intrapresi, la decadenza del titolo edilizio, con i rischi che essa comporta, è evitata solo dalla “ultimazione” dei lavori, e non dalla realizzazione di un qualsiasi manufatto.
7.2.1. In particolare, neppure la realizzazione del c.d. “rustico”, cioè dell’edificio completo di tutti i muri interni ed esterni, ma privo degli impianti, dei serramenti e degli intonaci, era, ed è, sufficiente, ad evitare l’opponibilità di norme limitative sopravvenute.
Al proposito si ricorda che l’art. 4 della L. 10/1977 individuava la “ultimazione dei lavori” nel momento in cui l’edificio risultava abitabile o agibile; tale precisazione non è stata riprodotta nell’art. 15 del D.P.R. 380/2001, ma non per questo è lecito attribuire ora a tale parola un significato diverso da quello letterale, tanto più che il rilascio del certificato di agibilità continua ad essere, come è sempre stato, chiaramente subordinato all’integrale completamento di tutte le opere licenziate, ivi compresa la prosciugatura dei muri.
Per “completamento dei lavori” ai fini di cui all’art. 15, comma 4, D.P.R. 380/2001 deve quindi intendersi la realizzazione di tute le opere che consentono di abitare o di utilizzare un edificio in condizioni di igiene, salubrità e sicurezza (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 26.02.2015 n. 395 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOltre che per i proprietari di immobili in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da un permesso di costruzione, sussiste, sulla base del criterio della vicinitas, la legittimazione ad agire dei singoli per la tutela del bene ambiente, in particolare a tutela di interessi incisi da atti e comportamenti dell'amministrazione che li ledono direttamente e personalmente.
Quindi il proprietario può tutelare il suo fondo anche sul piano ambientale, in base alla vicinitas, ovvero in base al criterio dello stabile collegamento con il territorio oggetto della potenziale lesione ambientale.
Occorre che la parte ricorrente rappresenti quale bene della vita (il paesaggio, l'acqua, il suolo, il proprio terreno) possa essere ragionevolmente oggetto di potenziale lesione da parte dell'iniziativa dei pubblici poteri.

Invero, secondo un costante e condiviso orientamento giurisprudenziale, “..oltre che per i proprietari di immobili in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da un permesso di costruzione, sussiste, sulla base del criterio della vicinitas, la legittimazione ad agire dei singoli per la tutela del bene ambiente, in particolare a tutela di interessi incisi da atti e comportamenti dell'amministrazione che li ledono direttamente e personalmente. Quindi il proprietario può tutelare il suo fondo anche sul piano ambientale, in base alla vicinitas, ovvero in base al criterio dello stabile collegamento con il territorio oggetto della potenziale lesione ambientale. Occorre che la parte ricorrente rappresenti quale bene della vita (il paesaggio, l'acqua, il suolo, il proprio terreno) possa essere ragionevolmente oggetto di potenziale lesione da parte dell'iniziativa dei pubblici poteri” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 27.08.2014, n. 4384; nello stesso senso, Sez. V, 26.09.2013, n. 4755 e Sez. V, 10.07.2012, n. 4069) (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 26.02.2015 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per il semplice fatto che il porticato, già chiuso su due lati, fosse già qualificato volume a taluni fini (ad es. per il calcolo della cubatura complessiva), non si può ritenere che la completa chiusura dello stesso, sia un intervento edilizio minore o, addirittura, “libero” (perché si risolve in una mera opera interna).
Infatti, l’autorizzazione di un volume edilizio nella forma di un porticato, impone che esso sia utilizzato in quanto tale e non ne consente in alcun modo la “libera” chiusura.
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Il mutamento della qualità del volume edilizio che, da spazio aperto su due lati, diviene superficie interamente coperta è tale da costituire una modifica incidente non solo sui prospetti del fabbricato, ma anche sulla superficie che, completamente chiusa, viene resa potenzialmente abitabile.
L’essenziale mutamento qualitativo del volume edilizio impone, quindi, che esso debba essere assentito mediante permesso di costruire come nuova volumetria.
In merito, la giurisprudenza è pacifica sia per quel che riguarda casi pressoché identici a quello di cui si discute, sia per quel che riguarda il caso, analogo, della chiusura di un terrazzo, già chiuso su due lati, a veranda.
La ricostruzione appena operata nel senso che la chiusura perimetrale del porticato costituisca una nuova volumetria, implica, ad un tempo:
- che l’intervento debba essere qualificato di nuova costruzione;
- che non sia applicabile la sanatoria di cui all’art. 167, D.lgs. n. 42/2004 (il quale prevede una forma di sanatoria ambientale postuma solo per le opere non suscettibili di essere qualificate come aumento volumetrico);
- che, nell’impossibilità di ottenere l’autorizzazione paesaggistica ex post, l’opera non possa essere assentita ex post neppure ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 380/2001.

2.1. In apice, giova rappresentare che le opere di cui si discute consistono nella chiusura perimetrale di un porticato aperto su due lati con la conseguente realizzazione di 7 cantinole, ciascuna di 9 mq.
2.2. Parte ricorrente, con il ricorso principale, muove all’ordinanza di demolizione diverse articolate censure che vanno esaminate singolarmente.
3.1. Con le prime due censure, parte ricorrente svolge molteplici argomenti, logicamente connessi, nel senso della illegittimità della sanzione demolitoria.
3.2. Tutti gli argomenti svolti, peraltro, poggiano su un assunto che, per quanto arguto, non può essere delibato favorevolmente.
3.3. In sostanza, parte ricorrente afferma che la chiusura del porticato in questione, con successiva creazione delle sette cantinole, non potrebbe essere qualificato come aumento volumetrico. Il ragionamento si fonda sulla costatazione che, in giurisprudenza, si afferma che la chiusura su due lati di uno spazio coperto integri un volume ai fini della disciplina edilizia. Ebbene, sostiene parte ricorrente, se il porticato preesistente, chiuso su due lati e coperto, costituiva già volume, la completa chiusura perimetrale dello stesso non può essere qualificata come un aumento di volumetria (era, infatti, già ‘volume’ edilizio). Tanto, sarebbe confermato anche dalla circostanza che, in sede di rilascio del titolo edilizio, l’ingombro volumetrico del fabbricato è stato appunto calcolato includendovi il predetto porticato.
3.4. Da tale affermazione si fanno discendere diverse conseguenze e, in particolare: la qualificazione della costruzione delle cantinole come opera interna o, comunque, pertinenziale o, al più, di ristrutturazione; la sanabilità delle opere ai sensi dell’art. 167 D.lgs. 42/2004 oltre che dell’art. 36 D.P.R. 380/2001; la compatibilità con le previsioni del piano regolatore e del piano paesistico anche in ragione della previsione di coeve opere di riqualificazione ambientale.
3.5. Sennonché l’affermazione che regge tutte le conclusioni appena descritte è fallace. Infatti, per il semplice fatto che il porticato, già chiuso su due lati, fosse già qualificato volume a taluni fini (ad es. per il calcolo della cubatura complessiva), non si può ritenere che la completa chiusura dello stesso, sia un intervento edilizio minore o, addirittura, “libero” (perché si risolve in una mera opera interna).
3.6. Infatti, l’autorizzazione di un volume edilizio nella forma di un porticato, impone che esso sia utilizzato in quanto tale e non ne consente in alcun modo la “libera” chiusura (la tesi è pure adombrata dal ricorrente; v. C.d.S., sez. V, 06/05/1991, n. 732 nonché Consiglio di Stato, sez. V, 26/10/1998, n. 1554).
3.7. Il mutamento della qualità del volume edilizio che, da spazio aperto su due lati, diviene superficie interamente coperta è tale da costituire una modifica incidente non solo sui prospetti del fabbricato, ma anche sulla superficie che, completamente chiusa, viene resa potenzialmente abitabile. L’essenziale mutamento qualitativo del volume edilizio impone, quindi, che esso debba essere assentito mediante permesso di costruire come nuova volumetria.
3.8. In merito, la giurisprudenza è pacifica sia per quel che riguarda casi pressoché identici a quello di cui si discute (v., oltre alle sentenze del Consiglio di Stato già citate, TAR, sez. III Napoli, Campania, 07/09/2012, n. 3789; TAR, sez. I, Latina, Lazio, 07/11/2013, n. 837; TAR, sez. II, Torino, Piemonte, 30/01/2015, n. 169), sia per quel che riguarda il caso, analogo, della chiusura di un terrazzo, già chiuso su due lati, a veranda (ex multis, v. TAR Torino, Piemonte, sez. I 06.03.2014 n. 386; TAR Salerno, Campania, sez. I 01.10.2012 n. 1743).
3.9. La ricostruzione appena operata nel senso che la chiusura perimetrale del porticato costituisca una nuova volumetria, implica, ad un tempo: che l’intervento debba essere qualificato di nuova costruzione; che non sia applicabile la sanatoria di cui all’art. 167, D.lgs. n. 42/2004 (il quale prevede una forma di sanatoria ambientale postuma solo per le opere non suscettibili di essere qualificate come aumento volumetrico); che, nell’impossibilità di ottenere l’autorizzazione paesaggistica ex post, l’opera non possa essere assentita ex post neppure ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 380/2001
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.02.2015 n. 1259 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come si è affermato in numerosissime occasioni, la vincolatezza dell'ordine di demolizione comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione stessa, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato); è, infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto.
Tale conclusione non muta in relazione al tempo trascorso dalla commissione dell’abuso o dall’accertamento del medesimo; in merito, infatti, non è “configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto”: e ciò, ancora una volta, soprattutto ove l’intervento sanzionato incida, come qui accade, su di un territorio particolarmente protetto in cui presenza l’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) in re ipsa.
Neppure è fondata la quarta censura relativa all’omessa comunicazione di avvio del procedimento. Infatti, l’ordine di demolizione ex art. 27 D.P.R. 380/2001 di immobili edificati abusivamente in zona sottoposta a tutela paesaggistica è provvedimento rigidamente vincolato e tale circostanza rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; trova, infatti, applicazione l’art. 21-octies, co. 2, L. 241/1990.

4.1. La terza censura è relativa a un preteso difetto di motivazione, tanto più evidente in rapporto alla risalenza dell’opera che avrebbe imposto un aggravamento del tessuto motivazionale.
4.2. Ebbene, come si è affermato in numerosissime occasioni, la vincolatezza del provvedimento comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato); è, infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VI, n. 9718/2008 e 04037/2013).
4.3. Tale conclusione non muta in relazione al tempo trascorso dalla commissione dell’abuso o dall’accertamento del medesimo; in merito, infatti, non è “configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto” (cfr., da ultimo, Cons. Stato sezione quarta, 16.04.2012, n. 2185 e Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2903 del 05.06.2013 cit., n. 760 del 06.02.2013, n. 5084 del 11.12.2012, n. 2689 del 07.06.2012): e ciò, ancora una volta, soprattutto ove l’intervento sanzionato incida, come qui accade, su di un territorio particolarmente protetto in cui presenza l’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è (e resta) in re ipsa (cfr. la giurisprudenza della Sezione fin qui riportata e, cfr. anche, per il principio generale, Cons. Stato, sezione quinta, sentenza 06.03.2012, n. 1260).
5. Neppure è fondata la quarta censura relativa all’omessa comunicazione di avvio del procedimento. Infatti, l’ordine di demolizione ex art. 27 D.P.R. 380/2001 di immobili edificati abusivamente in zona sottoposta a tutela paesaggistica è provvedimento rigidamente vincolato e tale circostanza rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; trova, infatti, applicazione l’art. 21-octies, co. 2, L. 241/1990 (in giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, VI sez., n. 3706/2012; Consiglio Stato sez. V, 19.09.2008, n. 4530; TAR Napoli Campania sez. IV, 02.12.2008, n. 20794 e Tar Campania, Napoli, sez. IV, 16.06.2000 n. 2147)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.02.2015 n. 1259 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La chiusura completa del porticato (già chiuso su due lati e coperto) costituisce nuova volumetria.
Tale conclusione rende effettivamente inapplicabile la salvezza postuma di cui all’art. 167 d.lgs. 42/2004. La norma, infatti, consente il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica dopo l’avvenuta costruzione solo nel caso in cui l’opera non abbia «determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati», circostanza esclusa nel caso di specie.
7.2. Va premesso che il provvedimento impugnato si basa sul parere della commissione per il paesaggio (reso in data 21.12.2010) che ha ritenuto l’intervento non assentibile ‘ex post’ sul piano paesaggistico, ai sensi dell’art. 167 d.lgs. 42/2004, perché caratterizzato dall’aumento delle superfici e dei volumi.
8.1. Con le prime due censure, parte ricorrente ripropone, in sostanza, le argomentazioni di cui alla prima censura del ricorso principale. L’opera non sarebbe valutabile in termini di “volume” perché il porticato, anche prima della chiusura qui effettuata, era considerato volume con conseguente irrilevanza dell’intervento di completa “chiusura” del medesimo di cui qui si discute.
8.2. Nella prospettazione di parte ricorrente, la non computabilità dell’intervento in termini di aumento di volume avrebbe, quindi, reso pienamente applicabile la speciale salvezza di cui all’art. 167 d.lgs. 42/2004 (cd. mini condono ambientale).
8.3. In proposito, basti richiamare le argomentazioni svolte al capo 3 nel senso della sicura ascrivibilità a nuova volumetria dell’intervento di chiusura del porticato. Tale conclusione rende, come già detto, effettivamente inapplicabile la salvezza postuma di cui all’art. 167 d.lgs. 42/2004. La norma, infatti, consente il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica dopo l’avvenuta costruzione solo nel caso in cui l’opera non abbia «determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati», circostanza esclusa nel caso di specie.
8.4. La conclusione appena raggiunta dimostra l’infondatezza della censura in esame, dovendosi aggiungere che il provvedimento reiettivo appare non solo pienamente conforme a legge ma anche doveroso.
8.5. Non si vede, quindi, come gli interventi di riqualificazione ambientali che i ricorrenti si sono “impegnati” a svolgere con atto di impegno unilaterale –in disparte la questione della vincolatività di un simile atto– possa incidere sulla piana applicazione dell’art. 167 d.lgs. 42/2004 che impedisce la sanatoria di opere valutabili, come nel caso di specie, in termini di aumento delle superfici e dei volumi
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 25.02.2015 n. 1259 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Legali sempre retribuiti. Rapporti con p.a., basta la procura alle liti. Ordinanza della Corte di cassazione favorevole ai professionisti.
Va retribuito l'avvocato al quale un ente pubblico ha conferito una procura alle liti (generale o speciale è indifferente) e se sono stati posti in essere atti conseguenti al mandato ricevuto.

È quanto precisato nell'ordinanza 24.02.2015 n. 3721 emessa dalla III Sez. della Corte di Cassazione.
Il centro della questione sottoposta all'attenzione dei giudici di piazza Cavour verteva sulla necessità o meno della forma scritta ad substantiam dei contratti di patrocinio conclusi dalla pubblica amministrazione.
Il caso specifico
Nel caso analizzato dalla Suprema corte, tra la pubblica amministrazione e l'avvocato era stato stipulato un contratto di patrocinio rispetto al quale era stata firmata solo una procura generali alle liti ai sensi dell'art. 83 c.p.c. con l'esplicita menzione che il professionista legale dovesse difendere l'ente «in tutte le cause attive e passive promosse e da promuoversi ( ) innanzi a qualsiasi autorità giudiziaria, esclusa la Suprema corte, avente a oggetto il solo recupero dei crediti della stessa Camera di commercio mandante ( ) con espressa autorizzazione, a tal fine, di intraprendere azioni esecutive, intervenire in quelle da altri iniziate e dare loro impulso».
L'avvocato, in forza di tale procura, diede seguito a una serie di atti che non vennero mai retribuiti dalla p.a. e pertanto si rivolse al giudice di pace per vedere soddisfatti i propri diritti.
In primo grado l'istanza venne accolta, mentre nel grado successivo venne respinta poiché non si ritenne la procura generale posta a base dell'ingiunzione idonea a soddisfare «in concreto» la forma scritta richiesta dalla legge, in quanto non era presente quel necessario collegamento la procura e i singoli atti posti in essere dal professionista legale.
Pertanto il tribunale da un lato e gli Ermellini dall'altro hanno sposato il principio secondo il quale può dirsi integrato il requisito della forma scritta ad substantiam con riferimento al contratto di patrocinio se esistono da un lato, il rilascio della procura alle liti, non importa se generale o speciale, e dall'altro la redazione di uno o più atti posti in essere in esecuzione del medesimo mandato ricevuto (articolo ItaliaOggi Sette del 09.03.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Per pacifica giurisprudenza, non è ammissibile il rilascio di un titolo abilitativo relativo soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati, ovvero parziale.
Inoltre, l'opera edilizia abusiva va identificata con riferimento all'unitarietà dell'edificio realizzato -o del complesso immobiliare- ove sia stato compiuto dal costruttore in esecuzione di un disegno unitario.

Sulla base di tali elementi, ritiene il Collegio che il diniego di accertamento di conformità sia legittimo e adeguatamente motivato con riferimento alla circostanza, dirimente, che la domanda ha ad oggetto la sanatoria di una parte soltanto di un manufatto unitario, la cui porzione rimanente risulta ricadere –tanto alla data di realizzazione, quanto alla data dell’istanza di accertamento di conformità– su suolo comunale.
E invero, la Sezione ha avuto modo anche di recente di affermare che “Per pacifica giurisprudenza, non è ammissibile il rilascio di un titolo abilitativo relativo soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati, ovvero parziale (Cassazione penale, sez. III 19/09/2013 n. 44189; TAR Veneto, sez. II, 28/11/2011, n. 1770; si veda altresì TAR Lombardia, sez. II Milano,, 24/07/2013, n. 1942). Inoltre, l'opera edilizia abusiva va identificata con riferimento all'unitarietà dell'edificio realizzato -o del complesso immobiliare- ove sia stato compiuto dal costruttore in esecuzione di un disegno unitario (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 22/05/2006, n. 2960)” (così TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 22.10.2014, n. 2523).
Ne discende che la domanda di accertamento di conformità, relativa solo a una parte dell’opera abusiva, non poteva –per ciò solo– essere accolta, come correttamente affermato nella motivazione del provvedimento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.02.2015 n. 544 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Geometri. Cemento armato fuori uso.
I geometri non possono progettare edifici in cemento armato. E, a meno che non si tratti di «piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinate alle industrie agricole», la competenza rimane di ingegneri e architetti.

È la sentenza 23.02.2015 n. 883 del Consiglio di Stato - Sez. V, questa volta, a fissare un altro tassello nella ripartizione delle competenze tra i professionisti di area tecnica in materia di cemento armato.
Oggetto del contendere una delibera del comune di Torri del Benaco secondo la quale i geometri possono progettare e dirigere i lavori di modeste costruzioni fino a 1.500 metri cubi sia pur «con la presenza di cemento armato». La disposizione comunale però non era piaciuta all'ordine degli ingegneri della zona che aveva presentato ricorso al Tar chiedendone l'annullamento. Nulla da fare perché secondo il tribunale amministrativo la normativa vigente (rd 2229/1939) non esclude completamente la competenza dei geometri in materia di progettazione delle costruzioni civili.
L'Ordine degli ingegneri aveva quindi fatto appello al Consiglio di stato che, con questa sentenza, ha rovesciato il disposto del giudice di primo grado, specificando che la progettazione delle strutture in cemento armato sia di competenza esclusiva di ingegneri e architetti iscritti all'albo. Fanno eccezione le piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali e destinati a industrie agricole che, dice il Cds, «non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone».
In particolare in materia di competenze i giudici di palazzo Spada fanno riferimento a una precedente sentenza (n. 2537 del 28.04.2011) secondo la quale «esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato», le «piccole costruzioni accessorie» rientrano, invece, nella loro competenza giacché in questo caso «è ininfluente che il calcolo del cemento armato sia stato affidato a un ingegnere o ad un architetto» (articolo ItaliaOggi del 03.03.2015).

COMPETENZE PROGETTUALISecondo l’art. 117, comma 3, della Costituzione, la materia delle professioni rientra nell’ambito della legislazione concorrente tra Stato e Regioni.
Al riguardo, tuttavia, la Corte Costituzionale ha più volte precisato che la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle professioni deve rispettare il principio invalicabile di ordine generale, secondo cui l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili ed ordinamenti, è riservata allo Stato, potendo la potestà legislativa regionale disciplinare quei soli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale.
Nessun potere normativo in materia, neppure a livello regolamentare, è rinvenibile in capo ai comuni, in quanto la competenza attribuita dall’articolo 42 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, ai consigli comunali si deve intendere circoscritta agli atti fondamentali dell'ente ivi espressamente indicati (laddove la giunta comunale ha una competenza residuale, potendo compiere tutti gli atti che dalla legge non sono riservati al consiglio comunale ovvero che non ricadono, secondo le previsioni legislative o dello statuto, nelle competente del Sindaco).

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A norma dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274, e come si desume anche dalle ll. 05.11.1971, n. 1086, e 02.02.1974, n. 64, che hanno rispettivamente disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone sismiche, nonché dalla l. 02.03.1949, n. 144 (recante la tariffa professionale), esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti nei relativi albi professionali.
Solo le opere in cemento armato relative a piccole costruzioni accessorie rientrano nella competenza dei geometri, risultando ininfluente che il calcolo del cemento armato sia stato affidato ad un ingegnere o ad un architetto.
In buona sostanza, la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato; solo in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo 16, r.d. n. 274 cit., purché si tratti di piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è comunque esclusa nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza è pertanto riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali; sotto tale angolazione deve escludersi che le innovazioni introdotte nei programmi scolastici degli istituti tecnici possano ritenersi avere ampliato, mediante l'inclusione tra le materie di studio di alcuni argomenti attinenti alle strutture in cemento armato, le competenze professionali dei medesimi.
I limiti posti dall'art. 16, lett. m) cit. alla competenza professionale dei geometri:
a) rispondono ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all'interprete ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità;
b) indicano, di contro, un preciso requisito, ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici anche nei casi di impiego di cemento armato.
E’ pertanto esclusa la possibilità di un'interpretazione estensiva o "evolutiva" di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme -art. 2, l. 05.11.1971, n. 1086, e art. 17, l. 02.02.1974, n. 64- che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa professionale.
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione "non modesta" essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. n. 64 cit., la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri.
E' stata inoltre esclusa l'illegittimità e quindi la disapplicabilità delle disposizioni dettate dall'art. 16 r.d. 274/1929, avente natura regolamentare, il quale non contrasta con norme costituzionali o ordinarie, essendo aderente ai criteri della disposizione legislativa cui ha dato attuazione (l'art. 7 l. 24.06.1923, n. 1395) e comportando una razionale delimitazione delle attività professionali consentite ai geometri, in rapporto alla loro preparazione.
In ordine alle prestazioni ulteriori (comprese in astratto nella competenza dei geometri, affidate loro insieme con quella della progettazione di costruzioni civili in cemento armato), si estende -o meno- la nullità del contratto, secondo che siano strumentalmente connesse con l'edificazione e implichino la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, come la redazione di un piano di lottizzazione, oppure siano autonome e distinte dalla realizzazione delle strutture in cemento armato, come l'individuazione dei confini di proprietà, la costituzione di servitù, lo svolgimento di pratiche amministrative.
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Anche secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione l’art. 16 del r.d. 11.02.1929, n. 274, ammette la competenza dei geometri per quanto riguarda le costruzioni in cemento armato solo relativamente a opere con destinazione agricola, che non comportino pericolo per l’incolumità delle persone, mentre per le costruzioni civili, che adottino strutture in cemento armato, sia pure modeste, ogni competenza è riservata, ai sensi del r.d. 16.11.1939, n. 2229, agli ingegneri e agli architetti iscritti all’albo, senza che nulla sia stato modificato dalle leggi 05.11.1971, n. 1086, e 02.02.1974, n. 64, con conseguente nullità del contratto d’opera professionale intercorso con un geometra, che abbia avuto ad oggetto una costruzione per civile abitazione, il cui progetto abbia richiesto l’adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato.
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In ordine alla legittimazione ad agire degli ordini professionali, la giurisprudenza ha più volte affermato che essi sono legittimati ad agire per la tutela di posizioni soggettive proprie o di interessi unitari della collettività da loro istituzionalmente espressa, nel secondo caso potendo sia reagire alla violazione delle norme poste a tutela della professione, sia perseguire vantaggi, anche strumentali, riferibili alla sfera della categoria nel suo insieme, con il solo limite derivante dal divieto di occuparsi di questioni relative ad attività non soggette alla disciplina o potestà degli ordini medesimi, aggiungendo che sussiste, in particolare, in capo all'ordine professionale di appartenenza l'interesse all'impugnazione di un diniego al rilascio di un permesso di costruire, motivato in base alla presunta incompetenza del progettista, dal momento che è apprezzabile la perdurante lesività dell'atto stesso per il credito, il prestigio e l'estimazione sociale della parte ricorrente.
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I limiti posti dall’art. 16, lett. m), del r.d. 11.02.1929, n. 274, alla competenza professionale dei geometri rispondono ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all’interprete ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dall’assenza di implicazioni per la pubblica incolumità, indicando invece un preciso requisito ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici anche nei casi di impiego di cemento armato.
E’ pertanto esclusa la possibilità di un’interpretazione estensiva o “evolutiva” di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendo pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme –art. 2 l. 05.11.1971, n. 1086, e art. 17 l. 02.02.1974, n. 64– che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geometri della vigente normativa professionale.
Ciò rende irrilevante, diversamente da quanto ritenuto dai primi giudici, la disposta abrogazione del r.d. n. 2229 del 1929, dal momento che essa è stata disposta dal D.Lgs. 13.12.2010, n. 212, in attuazione del meccanismo legislativo introdotto dalla legge n. 246 del 2005 volto alla riduzione del numero delle legge presenti nell’ordinamento (c.d. taglia leggi), senza che perciò da detta abrogazione possa ricavarsi una sia pur implicita intenzione del legislatore di equiparare, quanto all’attività edilizia, le competenze dei geometri e quelli degli ingegneri.

... per la riforma della sentenza del TAR VENETO–VENEZIA, Sez. I, n. 1312 del 20.11.2013, resa tra le parti, la delibera della giunta del Comune di Torri del Benaco, n. 96 del 09.07.2012, recante indirizzi operativi relativi alle competenze professionali dei geometri in materia edilizia.
...
5.1. Secondo l’art. 117, comma 3, della Costituzione, la materia delle professioni rientra nell’ambito della legislazione concorrente tra Stato e Regioni.
Al riguardo, tuttavia, la Corte Costituzionale ha più volte precisato che la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle professioni deve rispettare il principio invalicabile di ordine generale, secondo cui l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili ed ordinamenti, è riservata allo Stato, potendo la potestà legislativa regionale disciplinare quei soli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale (Corte Cost. 12.12.2003, n. 353; 26.07.2005, n. 319; 25.11.2005, n. 424; 08.02.2006, n. 40; 23.05.2013, n. 98; 18.06.2014, n. 178).
Nessun potere normativo in materia, neppure a livello regolamentare, è rinvenibile in capo ai comuni, in quanto la competenza attribuita dall’articolo 42 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267, ai consigli comunali si deve intendere circoscritta agli atti fondamentali dell'ente ivi espressamente indicati (laddove la giunta comunale ha una competenza residuale, potendo compiere tutti gli atti che dalla legge non sono riservati al consiglio comunale ovvero che non ricadono, secondo le previsioni legislative o dello statuto, nelle competente del Sindaco): ex multis, tra le più recenti, Cons. St., sez. V, 13.12.2005, n. 7058; sez. V, 23.06.2014, n. 3137; 20.12.2013, n. 6115; 20.08.2013, n. 4192; 15.07.2013, n. 3809; 02.02.2012, n. 539).
5.2. In ordine alla delimitazione delle competenze tra l’attività dei geometri e quella degli ingegneri, possono riportarsi le puntuali e condivisibili cui è giunta la giurisprudenza, come si evincono dalla sentenza di questa stessa Sezione n. 2537 del 28.04.2011, nella quale si precisa quanto segue: “A norma dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274, e come si desume anche dalle ll. 05.11.1971, n. 1086, e 02.02.1974, n. 64, che hanno rispettivamente disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone sismiche, nonché dalla l. 02.03.1949, n. 144 (recante la tariffa professionale), esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti nei relativi albi professionali.
Solo le opere in cemento armato relative a piccole costruzioni accessorie rientrano nella competenza dei geometri, risultando ininfluente che il calcolo del cemento armato sia stato affidato ad un ingegnere o ad un architetto.
In buona sostanza, la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato; solo in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo 16, r.d. n. 274 cit., purché si tratti di piccole costruzioni accessorie nell'ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è comunque esclusa nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza è pertanto riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali; sotto tale angolazione deve escludersi che le innovazioni introdotte nei programmi scolastici degli istituti tecnici possano ritenersi avere ampliato, mediante l'inclusione tra le materie di studio di alcuni argomenti attinenti alle strutture in cemento armato, le competenze professionali dei medesimi.
I limiti posti dall'art. 16, lett. m) cit. alla competenza professionale dei geometri:
a) rispondono ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all'interprete ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dell'assenza di implicazioni per la pubblica incolumità;
b) indicano, di contro, un preciso requisito, ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici anche nei casi di impiego di cemento armato.
E’ pertanto esclusa la possibilità di un'interpretazione estensiva o "evolutiva" di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme -art. 2, l. 05.11.1971, n. 1086, e art. 17, l. 02.02.1974, n. 64- che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa professionale.
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri- consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione "non modesta" essere realizzata senza di esso), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla normativa di cui alla l. n. 64 cit., la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri.
E' stata inoltre esclusa l'illegittimità e quindi la disapplicabilità delle disposizioni dettate dall'art. 16 r.d. 274/1929, avente natura regolamentare, il quale non contrasta con norme costituzionali o ordinarie, essendo aderente ai criteri della disposizione legislativa cui ha dato attuazione (l'art. 7 l. 24.06.1923, n. 1395) e comportando una razionale delimitazione delle attività professionali consentite ai geometri, in rapporto alla loro preparazione.
In ordine alle prestazioni ulteriori (comprese in astratto nella competenza dei geometri, affidate loro insieme con quella della progettazione di costruzioni civili in cemento armato), si estende -o meno- la nullità del contratto, secondo che siano strumentalmente connesse con l'edificazione e implichino la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, come la redazione di un piano di lottizzazione, oppure siano autonome e distinte dalla realizzazione delle strutture in cemento armato, come l'individuazione dei confini di proprietà, la costituzione di servitù, lo svolgimento di pratiche amministrative
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Anche secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione l’art. 16 del r.d. 11.02.1929, n. 274, ammette la competenza dei geometri per quanto riguarda le costruzioni in cemento armato solo relativamente a opere con destinazione agricola, che non comportino pericolo per l’incolumità delle persone, mentre per le costruzioni civili, che adottino strutture in cemento armato, sia pure modeste, ogni competenza è riservata, ai sensi del r.d. 16.11.1939, n. 2229, agli ingegneri e agli architetti iscritti all’albo, senza che nulla sia stato modificato dalle leggi 05.11.1971, n. 1086, e 02.02.1974, n. 64 (Cass. civ., sez. II, 02.09.2011, n. 18038), con conseguente nullità del contratto d’opera professionale intercorso con un geometra, che abbia avuto ad oggetto una costruzione per civile abitazione, il cui progetto abbia richiesto l’adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato (Cass. civ., sez. II, 25.05.2007, n. 12193; 26.07.2006, n. 17028; 25.05.2007).
5.3. In ordine alla legittimazione ad agire degli ordini professionali, la giurisprudenza ha più volte affermato che essi sono legittimati ad agire per la tutela di posizioni soggettive proprie o di interessi unitari della collettività da loro istituzionalmente espressa, nel secondo caso potendo sia reagire alla violazione delle norme poste a tutela della professione, sia perseguire vantaggi, anche strumentali, riferibili alla sfera della categoria nel suo insieme (Cons. St., sez. V, 12.08.2011, n. 4776; Cons. Stato, sez. V, 18.12.2009, n. 8404, e 07.03.2001, n. 1339; Sez. VI, 22.09.2004 n. 6185), con il solo limite derivante dal divieto di occuparsi di questioni relative ad attività non soggette alla disciplina o potestà degli ordini medesimi, aggiungendo che sussiste, in particolare, in capo all'ordine professionale di appartenenza l'interesse all'impugnazione di un diniego al rilascio di un permesso di costruire, motivato in base alla presunta incompetenza del progettista, dal momento che è apprezzabile la perdurante lesività dell'atto stesso per il credito, il prestigio e l'estimazione sociale della parte ricorrente (Cons. St., sez. V, 30.09.2013, n. 4854),
6. Sulla base dei delineati indirizzi giurisprudenziali, dai quali non vi è ragione di discostarsi, i motivi dell’appello principale sono fondati.
6.1. Sussiste innanzitutto il dedotto vizio di incompetenza da cui è affetta la delibera impugnata, giacché, come rilevato nel paragrafo 5.1. gli enti locali non hanno alcun potere normativo, neppure a livello regolamentare, nella materia disciplinare.
Al riguardo deve rilevarsi che, diversamente da quanto ritenuto dai primi giudici ed è stato sostenuto dalle difese del Comune di Torri del Benaco e del Collegio dei geometri e dei geometri laureati della provincia di Verone, oltre che dal Consiglio nazionale dei geometri e dei geometri laureati, la delibera impugnata non impartisce affatto ai competenti uffici comunali alcune ‘mere direttive interne di natura organizzativa’, volte ad agevolare e semplificare, nel rispetto delle vigenti disposizioni normative di rango legislativo, l’istruttoria delle richieste di titoli edilizi ed il loro sollecito rilascio, incidendo invece, limitatamente al campo dell’attività edilizia, proprio sulla disciplina delle professioni di geometra ed ingegnere.
In tal senso è significativo non solo che, come si legge dalla motivazione della predetta delibera, la sua emanazione trova origine nell’annosa contrapposizione tra i rispettivi ordini professionali interessati in ordine alla corretta individuazione della rispettiva competenza sui progetti di opere edili, per quanto l’amministrazione sul dichiarato (ma errato, sulla scorta di quanto osservato al punto 5.2.) presupposto che “…nel quadro normativo vigente nessun provvedimento normativo espresso riserva in favore degli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali la progettazione di costruzioni civili con strutture di cemento armato” e sull’altrettanto errato presupposto (su cui infra par. 6.2.) dell’abrogazione del r.d. 16.11.1939, n. 2229, da parte del d.lgs. 13.12.2010, n. 212, finisce col disciplinare autonomamente (nell’apparente forma di direttiva agli uffici) i limiti della competenza dei geometri in materia edilizia, facendovi rientrare “la progettazione e direzione di modeste costruzioni almeno fino a mc. 1.500, adottando quindi il criterio tecnico–qualitativo in relazione alle caratteristiche dell’opera da realizzare che deve avere caratteristiche strutturali semplici con moduli ripetitivi, sia pur con la presenza del cemento armato, che non richiedano competenze tecniche, particolari e specifiche, riservate per legge ad un diverso professionista”, così sostituendosi inammissibilmente al legislatore statale nell’esercizio di un potere di cui essa non è titolare, neppure nell’ipotesi in cui fosse effettivamente esistito un vuoto normativo (evenienza che non ricorre).
Tali osservazioni rendono prive di rilevanza le deduzioni delle parti appellate sul preteso carattere non vincolante delle predette direttive, dovendosi precisare, per un verso, che a condividere il loro asserito carattere non vincolante per gli uffici comunali non sarebbe neppure comprensibile la necessità e l’opportunità della loro emanazione (venendo meno la stessa finalità di semplificazione e chiarimento cui sarebbero state ispirate), e per altro verso che la violazione di una direttiva da parte degli uffici è quanto meno possibile fonte di una responsabilità disciplinare per i funzionari cui le stesse sono impartite e contemporaneamente può rendere invalido l’atto adottato sotto il profilo dell’eccesso di potere.
6.2. Sussiste poi anche la dedotta violazione dell’articolo 16 del r.d. n. 274 del 1929, che individua l’oggetto ed i limiti dell’esercizio della professione di geometra, potendo al riguardo rinviarsi alle osservazioni già svolte al par. 5.2. e dovendo ancora aggiungersi che “i limiti posti dall’art. 16, lett. m), del r.d. 11.02.1929, n. 274, alla competenza professionale dei geometri rispondono ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all’interprete ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della costruzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dall’assenza di implicazioni per la pubblica incolumità, indicando invece un preciso requisito ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici anche nei casi di impiego di cemento armato. E’ pertanto esclusa la possibilità di un’interpretazione estensiva o “evolutiva” di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendo pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme –art. 2 l. 05.11.1971, n. 1086, e art. 17 l. 02.02.1974, n. 64– che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geometri della vigente normativa professionale” (Cass. civ., sez. II, 07.09.2009, n. 19292).
Ciò rende irrilevante, diversamente da quanto ritenuto dai primi giudici, la disposta abrogazione del r.d. n. 2229 del 1929, dal momento che essa è stata disposta dal D.Lgs. 13.12.2010, n. 212, in attuazione del meccanismo legislativo introdotto dalla legge n. 246 del 2005 volto alla riduzione del numero delle legge presenti nell’ordinamento (c.d. taglia leggi), senza che perciò da detta abrogazione possa ricavarsi una sia pur implicita intenzione del legislatore di equiparare, quanto all’attività edilizia, le competenze dei geometri e quelli degli ingegneri (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.02.2015 n. 883 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTIAvvalimento. Deve essere concreto. Lo dice il cds.
In una gara d'appalto pubblico il trasferimento dei requisiti tecnici tramite avvalimento da una impresa ad un'altra non può essere generico e deve tradursi in concrete modalità operative quali l'affitto d'azienda, la messa a disposizione della dirigenza tecnica o un programma di formazione del personale.

Lo afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.02.2015 n. 864 che chiarisce secondo quali modalità dovrebbe concretizzarsi il «prestito» dei requisiti tecnici necessari a partecipare a un appalto pubblico.
Nel caso oggetto della sentenza la stazione appaltante aveva omesso la richiesta di fatturato, ma aveva previsto un requisito tecnico di ammissione alla gara consistente nel possesso di precedenti esperienze che consentono di fare affidamento sulla capacità dell'imprenditore di svolgere la prestazione richiesta.
Per tale requisito il Consiglio di stato precisa che l'utilizzo dell'istituto dell'avvalimento, previsto oggi dall'articolo 49 del codice dei contratti pubblici, non può essere generico, cioè non ci si può limitare a un richiamo «meramente cartaceo o dichiarato» allo svolgimento da parte dell'impresa ausiliaria di attività che evidenzino le sue precedenti esperienze. Viceversa, l'avvalimento di un requisito tecnico, deve comportare il trasferimento dall'ausiliario all'ausiliato delle competenze tecniche acquisite con le precedenti esperienze.
Trattandosi quindi di prestito di requisiti tecnici, nella sentenza si richiama espressamente il carattere di «esclusività» del trasferimento dei requisiti e delle relative risorse, per tutto il periodo preso in considerazione dalla gara. I giudici scendono poi nel dettaglio, affermando che nel contratto di avvalimento devono essere previsti i modi attraverso i quali realizzare il trasferimento, e fanno alcuni esempi specifici: «L'affitto d'azienda, la messa a disposizione della dirigenza tecnica, ovvero la predisposizione di un programma di formazione del personale o altro elemento comunque valutabile dalla stazione appaltante perché l'esperienza dell'impresa ausiliaria si possa considerare effettivamente trasferita all'impresa ausiliata».
Se così non fosse il contratto di avvalimento avrebbe un contenuto totalmente astratto, senza dare alcun contributo oggettivo (articolo ItaliaOggi del 06.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante, la legittimità del provvedimento amministrativo va apprezzata con riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio tempus regit actum, con conseguente irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post precedenti atti amministrativi.
Ciò vale anche per il mutamento sopravvenuto del regime vincolistico in senso più favorevole per il privato, posto che “il principio tempus regit actum impone di avere riguardo al regime vincolistico sussistente alla data di esame della domanda di sanatoria, rispetto alla quale eventuali sopravvenienze potrebbero assumere rilievo nella sola ipotesi -ben diversa, e in un certo senso opposta a quella che qui ricorre- del vincolo di inedificabilità assoluta posto in un momento successivo all'edificazione”.
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Costituisce jus receptum quello per cui "l'autorità delegata preposta alla tutela del vincolo deve esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell'opera specificamente assentita, in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria”.
In particolare, va riconosciuto il vizio motivazionale del provvedimento sindacale che abbia autorizzato un intervento in area vincolata "senza dare alcun conto dell'avvenuto apprezzamento comparativo, da un lato, del contenuto del vincolo, dall'altro, di tutte le rilevanti circostanze di fatto relative al manufatto e al suo inserimento nel contesto protetto, tale da giustificare la scelta del Comune di dare prevalenza all'interesse del privato rispetto a quello tutelato, in via primaria, attraverso l'imposizione del vincolo stesso".
Con il che l'insufficienza della motivazione costituisce un vizio autonomo di legittimità del nulla osta, tale da giustificare ex se l'intervento caducatorio.

... per l'annullamento:
a) del provvedimento prot. n. 18773 del 22/06/2012, con il quale la Soprintendenza per le Province di Salerno e Avellino ha espresso parere contrario, ai sensi dell'art. 167 D.lgs. 42/2004, sulla richiesta di compatibilità paesaggistica postuma di alcune opere di sistemazione esterna realizzate dal ricorrente su un fabbricato di sua proprietà, sito nel Comune di San Giovanni a Piro;
b) provvedimento del 30/07/2013, con il quale la Soprintendenza ha annullato, ora per allora, il decreto sindacale n. 876 del 03/06/1991.
...
4.- Il ricorrente contesta, con distinta ragione di doglianza, il rilievo soprintendizio della illegittimità del provvedimento comunale per violazione dell'art. 1-quinquies del D.L. n. 312/1985, sull’argomentato assunto che, segnatamente, la norma in questione, prefigurativa di un regime di inedificabilità assoluta preordinato alla formazione dei piani paesaggistici, sarebbe allo stato superata per effetto dell'approvazione del Piano Territoriale Paesisitico del Cilento Costiero, che ha classificato l'area del ricorrente in zona C.I.R.A. (Conservazione Integrale e Riqualificazione Ambientale).
La doglianza non può essere condivisa.
Per giurisprudenza costante, la legittimità del provvedimento amministrativo va apprezzata con riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio tempus regit actum, con conseguente irrilevanza di provvedimenti successivi che non possono in alcun caso legittimare ex post precedenti atti amministrativi (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2011, n. 2469).
Ciò vale anche per il mutamento sopravvenuto del regime vincolistico in senso più favorevole per il privato, posto che “il principio tempus regit actum impone di avere riguardo al regime vincolistico sussistente alla data di esame della domanda di sanatoria, rispetto alla quale eventuali sopravvenienze potrebbero assumere rilievo nella sola ipotesi -ben diversa, e in un certo senso opposta a quella che qui ricorre- del vincolo di inedificabilità assoluta posto in un momento successivo all'edificazione (con le conseguenze esaminate, ad es., da Cons. Stato, sez. VI, n. 2409 del 2013, ora citata, in relazione appunto alla necessità di acquisire il parere favorevole dell'autorità preposta alla tutela del vincolo)” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.03.2014, n. 1208).
5.- Infondato è, da ultimo, il motivo inteso a lamentare l’illegittimità del provvedimento impugnato nella parte in cui valorizza il difetto di motivazione del decreto sindacale caducato.
Costituisce, invero, jus receptum quello per cui "l'autorità delegata preposta alla tutela del vincolo deve esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell'opera specificamente assentita, in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria” (tra le tante e da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 24.02.2014, n. 856).
In particolare, va riconosciuto il vizio motivazionale del provvedimento sindacale che abbia autorizzato un intervento in area vincolata "senza dare alcun conto dell'avvenuto apprezzamento comparativo, da un lato, del contenuto del vincolo, dall'altro, di tutte le rilevanti circostanze di fatto relative al manufatto e al suo inserimento nel contesto protetto, tale da giustificare la scelta del Comune di dare prevalenza all'interesse del privato rispetto a quello tutelato, in via primaria, attraverso l'imposizione del vincolo stesso" (cfr., ancora di recente, TAR Campania Salerno sez. I, 09.12.2013, n. 2456). Con il che l'insufficienza della motivazione costituisce un vizio autonomo di legittimità del nulla osta, tale da giustificare ex se l'intervento caducatorio.
Nel caso di specie, in effetti, deve convenirsi con il rilievo per cui il provvedimento comunale non contiene alcuna motivazione in ordine alla ritenuta compatibilità paesaggistica delle opere autorizzate. Né risulta sufficiente il contenuto del parere della Commissione Edilizia, richiamato nel provvedimento sindacale, anch'esso, in effetti, privo di concreta e reale motivazione di carattere paesaggistico (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 21.02.2015 n. 418 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe risultanze catastali non hanno alcun rilievo rispetto all’accertamento degli abusi edilizi, in quanto gli uffici del Catasto procedono all’inserimento e alle variazioni dei dati relativi agli immobili sulla sola base delle autodichiarazioni degli interessati, salvo che non emergano evidenti anomalie che possano indurre i funzionari dell’amministrazione finanziaria ad effettuare approfondimenti presso il Comune nel cui territorio ricade l’immobile oppure non intervengano provvedimenti giurisdizionali che impongano rettifiche o, infine, che la non veridicità dei dati risulti in occasione di verifiche fiscali (i dati catastali sono poi utilizzati per la determinazione delle imposte comunali sugli immobili, per cui sono inconferenti le doglianze relative al fatto che il Comune per tutti questi anni ha riscosso le imposte in misura proporzionale alla reale volumetria degli immobili de quibus).
A questo riguardo va preliminarmente evidenziato che, per consolidata giurisprudenza non solo amministrativa, le risultanze catastali non hanno alcun rilievo rispetto all’accertamento degli abusi edilizi, in quanto gli uffici del Catasto procedono all’inserimento e alle variazioni dei dati relativi agli immobili sulla sola base delle autodichiarazioni degli interessati, salvo che non emergano evidenti anomalie che possano indurre i funzionari dell’amministrazione finanziaria ad effettuare approfondimenti presso il Comune nel cui territorio ricade l’immobile oppure non intervengano provvedimenti giurisdizionali che impongano rettifiche o, infine, che la non veridicità dei dati risulti in occasione di verifiche fiscali (i dati catastali sono poi utilizzati per la determinazione delle imposte comunali sugli immobili, per cui sono inconferenti le doglianze relative al fatto che il Comune per tutti questi anni ha riscosso le imposte in misura proporzionale alla reale volumetria degli immobili de quibus).
Tali conclusioni sono a fortiori valide allorquando esistono atti autorizzativi edilizi rilasciati dal competente Comune, perché in questo caso la conformità dell’immobile alla normativa urbanistico-edilizia vigente ratione temporis è verificabile dal semplice raffronto fra lo stato di fatto e il progetto assentito
(TAR Marche, sentenza 20.02.2015 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce principio giurisprudenziale consolidato l’affermazione per cui gli abusi edilizi hanno natura di illeciti permanenti, dal che consegue che gli stessi vanno repressi in base alla legge applicabile nel momento in cui gli abusi medesimi vengono scoperti dall’amministrazione competente.
Quanto all’onere di una più pregnante motivazione nei casi in cui sia decorso un lungo periodo di tempo dalla data di commissione dell’abuso, si tratta per la verità di un’eccezione alla regola generale, la quale presuppone però la presenza di ulteriori elementi rispetto al mero dato temporale.
In effetti, nei rari casi in cui la giurisprudenza annette rilevanza invalidatoria dell’ordinanza di applicazione di una sanzione edilizia al legittimo affidamento del destinatario al mero dato temporale si aggiunge di solito un altro elemento, che può essere la non immediata percepibilità dell’abuso da parte di chi acquista un immobile o una unità immobiliare dal costruttore oppure la preesistenza di un atto autorizzativo che ha in seguito perso la propria efficacia (ed è questo il caso deciso da questo Tribunale con la sentenza n. 312/2012, relativa ad una vicenda in cui le opere abusive, ricadenti in area demaniale marittima, erano state ab initio autorizzate sia pure in via precaria, con conseguente applicazione dell’art. 49 c.n.).
Nella specie, per quanto detto in precedenza, non vi sono le condizioni per derogare ai consolidati principi che la stessa sentenza della Sez. V. n. 3847/2013 ha avuto cura di richiamare (“….La regola di fondo del settore è senz'altro quella che il potere repressivo delle violazioni in materia edilizia, non essendo in quanto tale sottoposto a termini di decadenza né di prescrizione, sia esercitabile in ogni tempo (anche in ragione del carattere permanente degli illeciti edilizi, o per lo meno dei loro effetti"): e a tale principio si riconnette il corollario per cui, ove l'Amministrazione intenda irrogare in concreto la sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, essa non è tenuta a motivare in ordine alle ragioni che la inducono a disporre tale sanzione a distanza di tempo dall'abuso.
Esiste, dunque, un consistente quanto notorio indirizzo giurisprudenziale nel senso che "i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia sono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico che si intendono tutelare, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendosi ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare".
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha tradizionalmente posto l'accento, invero, sulla non configurabilità di un affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva in forza di una legittimazione fondata sul tempo, puntualizzando che "... vale il principio dell'inesauribilità del potere amministrativo di vigilanza e controllo e della sanzionabilità del comportamento illecito dei privati, qualunque sia l'entità dell'infrazione e il lasso temporale trascorso, salve le ipotesi di dolosa preordinazione o di abuso".
E anche di recente è stato ricordato che "La giurisprudenza è costante nel ritenere che l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l'interessato non può dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi".

Si deve ora passare all’esame delle censure inerenti l’asserita violazione del principio di irretroattività delle sanzioni amministrative.
Va al riguardo osservato in primo luogo che non risponde al vero che la sanzione demolitoria edilizia è stata introdotta nell’ordinamento in epoca successiva alla costruzione dell’edificio in parola. In effetti, l’art. 32 della L. n. 1150/1942 prevedeva già nel testo originario che “Nel caso di lavori iniziati senza licenza o proseguiti dopo l'ordinanza di sospensione il podestà può, previa diffida e sentito il parere della sezione urbanistica compartimentale ordinarne le demolizioni a spese del contravventore senza pregiudizio delle sanzioni penali”. Che poi tale sanzione sia irrogata dal Podestà, dal Sindaco o dal dirigente del settore poco importa, ai fini che qui rilevano. Nel caso di specie, poi, non rileva nemmeno la fondamentale riforma introdotta dalla c.d. legge Ponte, visto che l’immobile in parola non ricade al di fuori del centro abitato (il che, del resto, è confermato dal fatto che per la realizzazione dell’abitazione e del garage furono richieste le rispettive licenze edilizie).
In secondo luogo, costituisce principio giurisprudenziale consolidato l’affermazione per cui gli abusi edilizi hanno natura di illeciti permanenti, dal che consegue che gli stessi vanno repressi in base alla legge applicabile nel momento in cui gli abusi medesimi vengono scoperti dall’amministrazione competente.
Quanto all’onere di una più pregnante motivazione nei casi in cui sia decorso un lungo periodo di tempo dalla data di commissione dell’abuso, si tratta per la verità di un’eccezione alla regola generale, la quale presuppone però la presenza di ulteriori elementi rispetto al mero dato temporale.
In effetti, nei rari casi in cui la giurisprudenza annette rilevanza invalidatoria dell’ordinanza di applicazione di una sanzione edilizia al legittimo affidamento del destinatario al mero dato temporale si aggiunge di solito un altro elemento, che può essere la non immediata percepibilità dell’abuso da parte di chi acquista un immobile o una unità immobiliare dal costruttore (ed è questo il caso deciso dal Consiglio di Stato con la richiamata sentenza della Sez. V n. 3847/2013) oppure la preesistenza di un atto autorizzativo che ha in seguito perso la propria efficacia (ed è questo il caso deciso da questo Tribunale con la sentenza n. 312/2012, relativa ad una vicenda in cui le opere abusive, ricadenti in area demaniale marittima, erano state ab initio autorizzate sia pure in via precaria, con conseguente applicazione dell’art. 49 c.n.).
Nella specie, per quanto detto in precedenza, non vi sono le condizioni per derogare ai consolidati principi che la stessa sentenza della Sez. V. n. 3847/2013 ha avuto cura di richiamare (“….La regola di fondo del settore è senz'altro quella che il potere repressivo delle violazioni in materia edilizia, non essendo in quanto tale sottoposto a termini di decadenza né di prescrizione, sia esercitabile in ogni tempo (anche in ragione del carattere permanente degli illeciti edilizi, o per lo meno dei loro effetti"): e a tale principio si riconnette il corollario per cui, ove l'Amministrazione intenda irrogare in concreto la sanzione pecuniaria in luogo della demolizione, essa non è tenuta a motivare in ordine alle ragioni che la inducono a disporre tale sanzione a distanza di tempo dall'abuso (sulla duplice indicazione v. ad es. C.d.S., V, 08.06.1994, n. 614).
Esiste, dunque, un consistente quanto notorio indirizzo giurisprudenziale nel senso che "i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia sono atti vincolati che non richiedono una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico che si intendono tutelare, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendosi ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può legittimare" (C.d.S., VI, 05.04.2012, n. 2038).
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha tradizionalmente posto l'accento, invero, sulla non configurabilità di un affidamento alla conservazione di una situazione di fatto abusiva in forza di una legittimazione fondata sul tempo (cfr. da ultimo C.d.S., IV, 31/08/2010, n. 3955; V, 27/04/2011, n. 2497; VI, 11/05/2011, n. 2781; I, 30/06/2011, n. 4160), puntualizzando che "... vale il principio dell'inesauribilità del potere amministrativo di vigilanza e controllo e della sanzionabilità del comportamento illecito dei privati, qualunque sia l'entità dell'infrazione e il lasso temporale trascorso, salve le ipotesi di dolosa preordinazione o di abuso" (IV, 04.05.2012, n. 2592).
E anche di recente è stato ricordato che "La giurisprudenza è costante nel ritenere che l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l'interessato non può dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (es. Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781)" (VI, 28.01.2013, n. 496)…”)
(TAR Marche, sentenza 20.02.2015 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sul reiterato (legittimo) parere negativo della Soprintendenza alla sanatoria ambientale di otto pannelli fotovoltaici aggiuntivi all’esistente (sul tetto).
Per pacifica giurisprudenza, l’accertamento di compatibilità paesaggistica costituisce espressione di una valutazione di discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, sindacabile soltanto in caso di manifesta illogicità o errore di fatto.
Con specifico riguardo, poi, alla posa di pannelli fotovoltaici, la scrivente Sezione non ignora certo che l’ordinamento ne agevola la diffusione e collocazione, anche per favorire lo sviluppo delle fonti rinnovabili di energia e la riduzione del consumo di combustibili fossili; tuttavia nel caso di specie la posa dei pannelli è avvenuta in violazione di un titolo paesaggistico e la valutazione dell’Amministrazione dei beni culturali, come sarà in seguito meglio illustrato, non ha potuto prescindere dalle particolari caratteristiche di pregio ambientale dei luoghi di montagna dove è avvenuta la posa stessa.

Le doglianze esposte nei motivi aggiunti si indirizzano contro il parere (vincolante, ai sensi di legge), rilasciato della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Milano del 23.09.2014 (cfr. il doc. 10 della ricorrente e il doc. 1 del 24.9.2014 del resistente), emesso in esecuzione dell’ordinanza di riesame della scrivente Sezione, con il quale l’Amministrazione statale ha confermato il proprio orientamento negativo al rilascio della compatibilità paesaggistica (ai sensi degli articoli 167 e 181 del D.Lgs. 42/2004), per talune opere realizzate dalla ricorrente in difformità dell’autorizzazione paesaggistica n. 215/2012 e consistenti nella posa, sulla copertura dell’immobile, di otto pannelli fotovoltaici aggiuntivi all’esistente (cfr. la relazione tecnica con annesse fotografie, doc. 8 della ricorrente, e la domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica, docc. 7 e 7-bis della medesima, oltre al doc. 1 del resistente).
Nei motivi aggiunti, si lamenta il difetto di istruttoria in cui sarebbe incorsa l’Amministrazione Statale, la quale si sarebbe limitata a valutazioni di ordine estetico o visivo, senza però argomentare sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio che sarebbe stato arrecato dalla posa dei pannelli.
Sul punto, occorre ricordare che, per pacifica giurisprudenza, l’accertamento di compatibilità paesaggistica costituisce espressione di una valutazione di discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, sindacabile soltanto in caso di manifesta illogicità o errore di fatto (cfr., fra le tante, Consiglio di Stato, sez. IV, 03.04.2014, n. 1590 e TAR Molise, 04.06.2013, n. 399).
Con specifico riguardo, poi, alla posa di pannelli fotovoltaici, la scrivente Sezione non ignora certo che l’ordinamento ne agevola la diffusione e collocazione, anche per favorire lo sviluppo delle fonti rinnovabili di energia e la riduzione del consumo di combustibili fossili; tuttavia nel caso di specie la posa dei pannelli è avvenuta in violazione di un titolo paesaggistico e la valutazione dell’Amministrazione dei beni culturali, come sarà in seguito meglio illustrato, non ha potuto prescindere dalle particolari caratteristiche di pregio ambientale dei luoghi di montagna dove è avvenuta la posa stessa.
In particolare, nel nuovo parere negativo –assai articolato, a differenza della prima determinazione oggetto del ricorso principale– la Soprintendenza ha avuto modo di specificare che:
- l’edificio è sito ai margini del centro storico di Livigno, vincolato da tempo per le bellezze naturali e i paesaggi che la zona offre;
- la disposizione dei pannelli non è posta in relazione con l’andamento delle falde, ma appare irregolare e disordinata; sulla copertura trovano posto complessivamente venti pannelli, disposti in maniera irregolare e tale collocazione disordinata pare collegarsi ad errori progettuali, visto che l’esponente aveva ottenuto l’autorizzazione alla demolizione e ricostruzione del fabbricato esistente, per cui avrebbe potuto realizzare ex novo una posa regolare e ordinata dei pannelli (peraltro, già in sede di rilascio dell’originaria autorizzazione paesaggistica, la Soprintendenza aveva dettato in data 06.11.2012 prescrizioni sulla posa dei pannelli, cfr. il doc. 2 del resistente);
- la collocazione degli otto pannelli si pone in contrasto anche con la delibera della Giunta Regionale della Lombardia IX/2727 del 2011, che pone in evidenza la criticità della posa di impianti fotovoltaici nelle zone collinari o montane, nelle quali è prevalente la percezione dall’alto;
- il Regolamento edilizio del Comune di Livigno, all’art. 60, impone che i pannelli e i volumi tecnici formino una soluzione ordinata e coerente con la configurazione architettonica dell’edificio, in modo da non essere percepibili dall’esterno e da non incidere sui prospetti (cfr. il doc. 3 del resistente, pag. 49).
Non pare, al Tribunale, che gli argomenti addotti dalla Soprintendenza per negare il parere favorevole alla compatibilità paesistica siano manifestamente illogici o irrazionali, né che siano viziati da palesi errori di fatto.
Per le suesposte ragioni, il ricorso per motivi aggiunti deve essere rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.02.2015 n. 506 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti. Il Durc negativo non basta.
Grazie al decreto Fare la presenza di un Durc negativo non può far revocare l'appalto all'azienda se non le fu concesso il termine di 15 giorni per regolarizzare la sua posizione: non riesce il tentativo della società concorrente, la quale tenta di far stabilire dal giudice che il vincitore della gara non aveva le carte in regola per aggiudicarsela.

È quanto emerge dalla sentenza 16.02.2015 n. 781, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di Stato.
Vizio irredimibile. Il documento unico di regolarità contributiva è rilasciato dalle casse edili, ex articolo 2 comma 2, del decreto del ministero del Lavoro del 24.10.2007 sulla base di una convenzione con l'Inps e l'Inail. Prima dell'emissione o dell'annullamento del documento già rilasciato, in mancanza dei requisiti di regolarità contributiva, le autorità «invitano l'interessato a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a 15 giorni».
Nel frattempo è entrato in vigore il decreto legge 69/2013: il requisito della regolarità contributiva deve sussistere al momento di scadenza del termine di quindici giorni assegnato dall'ente previdenziale all'impresa per mettere a posto la sua posizione. E se il termine all'azienda non viene assegnato, il Durc negativo risulta viziato in modo irrimediabile: non può dunque comportare l'esclusione dell'impresa dalla gara perché la violazione non può ritenersi definitivamente accertata.
Il decreto Fare, in sostanza, ha modificato la norma dell'articolo 38 del codice dei contratti pubblici laddove stabilisce che il requisito della regolarità contributiva deve sussistere alla data di presentazione della domanda di partecipazione alla procedura concorsuale.
È dunque confermata, nella specie, la sentenza del Tar: di fronte al Durc negativo riscontrato in capo all'impresa ausiliaria, la stazione appaltante ben poteva discostarsene e operare una propria valutazione sulla base delle circostanze dedotte dall'impresa aggiudicataria. All'azienda concorrente non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 07.03.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Sull'illegittimo annullamento della DIA e del certificato di agibilità.
Coglie nel segno il motivo incentrato sulla violazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, concernente l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio da parte della p.a..
Il Comune intimato, mediante l’atto impugnato, è infatti incorso in un’evidente violazione delle garanzie che, a norma della citata disposizione di legge, devono assistere l’adozione di un provvedimento di annullamento d’ufficio di un precedente atto favorevole per il privato.
Tale norma, così come introdotta dalla legge n. 15 del 2005, ha declinato le coordinate per il valido esercizio del potere di autotutela espressamente ponendo, quale indefettibile condizione di legalità per l'esercizio del relativo potere, proprio la necessità che l'atto di secondo grado sia sorretto dal rilievo della sussistenza di ragioni di interesse pubblico alla rimozione del provvedimento viziato, nel necessario rispetto di un termine ragionevole entro il quale intervenire e tenendo conto degli interessi dei soggetti privati coinvolti.
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Sia pure richiamando l’interesse pubblico astrattamente sotteso alla classificazione di pericolosità geomorfologica dell’area– l’atto impugnato risulta carente lungo l’intero versante del bilanciamento degli opposti interessi in gioco, sia perché si è mantenuto in una posizione del tutto generica e non circostanziata in ordine all’interesse pubblico sussistente in concreto (posto che non risulta essere mai stata effettuata un’indagine sullo stato dei luoghi, al fine di verificare la concreta incidenza delle opere realizzate con l’assetto geomorfologico del territorio), sia perché non ha dato conto dell’opposto interesse del privato al mantenimento dell’opera, anche in relazione alla consistenza di quest’ultima.
Di rilievo è, inoltre, anche il mancato rispetto di un termine ragionevole entro il quale l’atto di secondo grado avrebbe dovuto essere adottato: a fronte del perfezionamento dell’efficacia della d.i.a., avvenuto nell’aprile del 2004, il Comune è intervenuto per rimuovere quell’efficacia a distanza di quasi dieci anni (in data 13.12.2013), ossia dopo un lasso di tempo manifestamente irragionevole.

... per l'annullamento dell'ordinanza n. 1 del 13.12.2013, notificata il 28.12.2013, con la quale il responsabile del servizio urbanistica associato della Comunità Montana Terre del Giarolo ha annullato in autotutela la D.I.A. prot. 490 del 30.03.2004 ed il certificato di agibilità del 21.09.2010 e ordinato il ripristino dei luoghi entro il termine di 90 giorni;
...
Il ricorso è fondato.
Coglie nel segno il motivo incentrato sulla violazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, concernente l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio da parte della p.a.
Il Comune intimato, mediante l’atto impugnato, è infatti incorso in un’evidente violazione delle garanzie che, a norma della citata disposizione di legge, devono assistere l’adozione di un provvedimento di annullamento d’ufficio di un precedente atto favorevole per il privato.
Tale norma, così come introdotta dalla legge n. 15 del 2005, ha declinato le coordinate per il valido esercizio del potere di autotutela espressamente ponendo, quale indefettibile condizione di legalità per l'esercizio del relativo potere, proprio la necessità che l'atto di secondo grado sia sorretto dal rilievo della sussistenza di ragioni di interesse pubblico alla rimozione del provvedimento viziato, nel necessario rispetto di un termine ragionevole entro il quale intervenire e tenendo conto degli interessi dei soggetti privati coinvolti (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, n. 5609 del 2014; Id., sez. V, n. 4902 del 2014; TAR Campania, Napoli, sez. III, n. 208 del 2012; TAR Piemonte, questa sez. II, n. 609 e n. 1198 del 2012; Cons. Stato, sez. IV, n. 4770 del 2011).
Deve osservarsi, in proposito, che –sia pure richiamando l’interesse pubblico astrattamente sotteso alla classificazione di pericolosità geomorfologica dell’area– l’atto impugnato risulta carente lungo l’intero versante del bilanciamento degli opposti interessi in gioco, sia perché si è mantenuto in una posizione del tutto generica e non circostanziata in ordine all’interesse pubblico sussistente in concreto (posto che non risulta essere mai stata effettuata un’indagine sullo stato dei luoghi, al fine di verificare la concreta incidenza delle opere realizzate con l’assetto geomorfologico del territorio), sia perché non ha dato conto dell’opposto interesse del privato al mantenimento dell’opera, anche in relazione alla consistenza di quest’ultima.
Di rilievo è, inoltre, anche il mancato rispetto di un termine ragionevole entro il quale l’atto di secondo grado avrebbe dovuto essere adottato: a fronte del perfezionamento dell’efficacia della d.i.a., avvenuto nell’aprile del 2004, il Comune è intervenuto per rimuovere quell’efficacia a distanza di quasi dieci anni (in data 13.12.2013), ossia dopo un lasso di tempo manifestamente irragionevole.
Rilevanza, in proposito, assume quanto l’amministrazione ha illustrato in giudizio mediante l’apposita relazione di chiarimenti (predisposta a seguito di ordinanza istruttoria del Collegio). Lungi dal giustificare le ragioni dell’abnorme ritardo, e lungi dall’allegare circostanze di fatto tali da far ritenere sussistente, in concreto, un pericolo per il territorio derivante dalle opere realizzate, l’amministrazione, al contrario, ha confermato l’inesistenza di alcuna ragione giustificatrice del proprio intervento in autotutela.
Per un verso, infatti, essa ha riconosciuto che le opere realizzate nel 2004 non hanno comportato alcun aumento del carico antropico e, soprattutto, hanno mantenuto invariati la superficie ed il volume dell’immobile: onde non si comprende quale incidenza sul territorio esse abbiano potuto apportare, in termini anche di mera compromissione della stabilità geomorfologica, risultando per converso insussistente alcun interesse pubblico attuale alla demolizione. Per altro verso, essa ha affermato che il lungo lasso di tempo intercorso tra la d.i.a. presentata nel 2004 e l’esercizio del potere di annullamento in autotutela nel 2013 è dipeso “dall’avvio del procedimento in data 21.03.2012 da parte della Comunità Montana Terre del Giarolo a seguito di segnalazione da parte di privato”: ma davvero non è dato comprendere il significato di siffatta affermazione, certamente non tale da giustificare le ragioni del mancato esercizio dell’attività di vigilanza edilizia per quasi un decennio, peraltro essendo già disponibili, sin dalla data del deposito della d.i.a., le planimetrie e la relazione del progettista incaricato dei lavori che avevano descritto le opere da eseguirsi; e vieppiù, considerando che nemmeno in occasione della presentazione della successiva d.i.a. del 2010 l’amministrazione ha avuto alcunché da obiettare, tantomeno in ordine agli aspetti geomorfologici, ed ha anzi rilasciato il certificato di agibilità (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 12.02.2015 n. 293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla ricostruzione storica dell'istituto del certificato di agibilità.
Il certificato di agibilità attualmente disciplinato dagli artt. 24 e 25 del D.P.R. 380/2001 corrisponde a quella che un tempo veniva denominata licenza d’uso o di abitabilità, introdotta dal Testo Unico sulle Leggi Sanitarie. L’art. 221 del R.D. 1265/1934, infatti, già prevedeva che le costruzioni di nuove case urbane o extraurbane “non possono essere abitate senza autorizzazione del podestà, il quale la concede quando, previa ispezione di un ufficiale sanitario o di un ingegnere a ciò delegato, risulti che la costruzione sia stata eseguita in conformità del progetto approvato, che i muri siano convenientemente prosciugati e che non sussistano altre cause di insalubrità”.
Detta norma è stata abrogata dall’art. 4 del D.P.R. 425/1994, il quale ha parzialmente innovato la disciplina stabilendo che “Affinché gli edifici o parti di essi, indicati nel’art. 220 del regio decreto 27.07.1934 n. 1265, possano essere utilizzati, è necessario che il proprietario chieda il certificato di abitabilità al sindaco, allegando alla richiesta il certificato di collaudo, la dichiarazione presentata per l’iscrizione al catasto dell’immobile, restituita dagli uffici catastali con l’attestazione dell’avvenuta presentazione, e una dichiarazione del direttore dei lavori che deve certificare, sotto la propria responsabilità, la conformità al progetto approvato, l’avvenuta prosciugatura dei muri e la salubrità dell’ambiente. Entro trenta giorni dalla presentazione della domanda il sindaco rilascia il certificato di abitabilità; entro questo termine può disporre una ispezione da parte degli uffici comunali che verifichi l’esistenza dei requisiti richiesti alla costruzione per essere abitabile…...”.
Alla norma dianzi ricordata è infine succeduto l’art. 24 del D.P.R. 380/2001, attualmente in vigore, a mente del quale “Il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente...”.
La norma prosegue confermando la necessità che alla domanda sia allegata la domanda di iscrizione al catasto e, con disposizione introdotta con D.L. 69/2013, precisa che il certificato di agibilità può, ove esistenti o ultimate le opere di urbanizzazione primaria e concorrendo altre circostanze, essere richiesto per singole porzioni di edifici o per singole unità immobiliari.
Il successivo art. 25 del D.P.R. 380/2001, nel disciplinare il procedimento finalizzato al rilascio del certificato di agibilità, di fatto amplia ulteriormente l’ambito della verifica che l’amministrazione è chiamata ad effettuare ai fini di autorizzare l’utilizzo dell’immobile, prescrivendo che il certificato possa essere rilasciato una volta verificata -oltre alla documentazione attestante l’avvenuto collaudo dell’opera, la sua conformità al progetto licenziato ed alle norme vigenti in materia di salubrità degli edifici, di risparmio energetico e degli edifici e degli impianti, nonché l’avvenuta denuncia in catasto della nuova opera o del cambio d’uso- anche la attestazione di conformità delle opere alla normativa antisismica nonché a quella relativa al superamento delle barriere architettoniche.
L’evoluzione normativa di cui si è testé dato conto evidenzia che il certificato di abitabilità o agibilità degli immobili è sempre stato essenzialmente finalizzato alla verifica della sicurezza, per l’incolumità fisica degli abitanti, delle costruzioni, e ciò nei vari aspetti che la normativa ha preso in considerazione nel corso del tempo.
In particolare, non pare esulare da tale finalità il momento di verifica di conformità della costruzione al progetto licenziato, dacché l’esame del progetto che l’amministrazione è chiamata ad effettuare al fine del rilascio del titolo edilizio implica già una prima valutazione della sussistenza dei requisiti di sicurezza, normalmente attestata dal parere reso sul progetto da organi appositamente preposti a vigilare sul rispetto di specifiche norme tecniche di sicurezza.
Tale, ad esempio: il parere delle autorità sanitarie con riferimento al rispetto dei rapporti aero-illuminanti e della superficie minima dei locali; il parere dei Vigili del Fuoco; il parere delle autorità preposte ai vincoli idrogeologici, e così via dicendo. Si comprende, allora, che per la sicurezza di uno stabile è essenziale che esso sia realizzato in modo conforme al progetto valutato ex ante ed approvato dalle varie autorità interessate, e proprio tale constatazione spiega l’esigenza di effettuare anche un controllo a posteriori della conformità della costruzione realizzata al progetto licenziato.
Siffatto controllo a posteriori, introdotto prima della entrata in vigore della L. 1150/1942, non si giustificava all’origine con l’esigenza di assicurare il rispetto di una normativa urbanistica ed edilizia non ancora esistente, e quindi non può essere stato concepito a tale scopo. Dopo di che non si può sottacere, essendo un dato di fatto, che oggi l’atto di approvazione di un progetto, da parte della Autorità comunale, esprime anche, e soprattutto, un giudizio di conformità del progetto alla normativa edilizia e che quindi, all’attualità, il controllo a posteriori di che trattasi è funzionale anche alla attività di vigilanza e controllo sulla attività edilizia demandata ai comuni.
Ciò non toglie che il momento del rilascio della agibilità rimane pur sempre caratterizzato, in via prevalente, dalla esigenza di verificare la sicurezza e la fruibilità di uno stabile da tutti i punti di vista; non a caso, gli unici accertamenti -tra quelli richiesti in sede di rilascio della agibilità- che non paiono ispirati all’esigenza di garantire l’incolumità di coloro che abitano o utilizzano una costruzione sono quelli che hanno ad oggetto la denuncia di accatastamento e le attestazioni di prestazione energetica degli edifici, cioè documenti che attestano l’avvenuto compimento di adempimenti obbligatori per legge ma che nulla hanno a che vedere con il rispetto della normativa edilizia ed urbanistica, la cui omissione il legislatore ha evidentemente inteso scoraggiare subordinando la concreta utilizzabilità degli immobili al loro compimento; non a caso, come infra meglio si dirà, il certificato di agibilità non risulta subordinato alla esecuzione e/o esistenza di tutte le opere di urbanizzazione, né all’integrale pagamento del relativo contributo, essendo a tal fine necessaria la sola esistenza delle opere di urbanizzazione primaria, che sono solo quelle indispensabili a dotare le costruzioni dei comforts minimi ed a renderle salubri e dignitose.
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Il Collegio non ignora che secondo un nutrito orientamento di giurisprudenza il rilascio del certificato di agibilità sarebbe finalizzato non solo alla verifica della sicurezza della costruzione, ma anche alla verifica della osservanza delle norme urbanistiche ed edilizie.
Per quanto già osservato il Collegio ritiene tuttavia di poter condividere solo parzialmente a tale orientamento, reputando che in occasione del rilascio del certificato di agibilità la verifica di conformità alle norme urbanistiche ed edilizie può e deve ritenersi limitata alla verifica di conformità dell’opera al progetto licenziato, il quale si presume legittimo e, come tale, conforme alla normativa urbanistica ed edilizia.
E’ opinione del Collegio che, mentre l’amministrazione comunale può sempre far valere, in sede di rilascio della agibilità, la difformità dell’opera a norme di sicurezza, essa non può invece opporre le difformità a norme edilizie ed urbanistiche che non si siano anche tradotte in una difformità dell’opera al progetto autorizzato, a meno che nel frattempo l’amministrazione non si sia indotta a sospendere e/o annullare il titolo edilizio già rilasciato.
Opinare diversamente significherebbe conferire alle amministrazioni comunali il potere di bloccare l’utilizzazione di una costruzione già ultimata e rispettosa del progetto autorizzato sulla base (anche solo) di meri sospetti di illegittimità, in violazione dell’affidamento riposto dal privato sulla legittimità del titolo edilizio e compromettendo la certezza delle situazioni giuridiche: il che è inaccettabile.
Laddove una amministrazione comunale abbia ragione di dubitare, ex post, della legittimità di un titolo edilizio già rilasciato ed eseguito, essa non può limitarsi a bloccare il rilascio del certificato di agibilità, ma deve soprattutto prendere una chiara posizione riguardo alla legittimità del titolo edilizio rilasciato, assumendosi se del caso le responsabilità insite nella adozione di atti di autotutela, in difetto dei quali la agibilità non potrà essere negata laddove si riscontri che l’opera è conforme al progetto licenziato.
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Occorre ora verificare se la mancata esecuzione delle opere di urbanizzazione che il privato si sia impegnato a realizzare direttamente o il mancato pagamento del contributo rateizzato possa, o meno, precludere il rilascio del certificato di agibilità.
Al proposito va subito ricordato che già con la L. 765/1967 il legislatore, modificando l’art. 31 della L. 1150/1942, ha introdotto il principio per cui “La concessione edilizia è comunque ed in ogni caso subordinata alla esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da parte dei Comuni dell’attuazione delle stesse nel successivo triennio o all’impegno dei privati di procedere all’attuazione delle medesime contemporaneamente alle costruzioni oggetto di licenza”, e tale previsione, confluita immutata nell’art. 12, comma 2, del D.P.R. 380/2001, da sempre è stata interpretata nel senso che il rilascio della licenza edilizia, o della concessione edilizia, o del permesso di costruire deve ritenersi impossibile nelle zone non servite da opere di urbanizzazione primaria, salvo appunto il caso in cui il privato richiedente non si assuma l’obbligo di realizzarle direttamente e contemporaneamente: l’esistenza di tali opere costituisce, quindi, una condizione la cui mancanza rende financo improcedibile una richiesta di titolo edilizio, e ciò evidentemente per la ragione che dette opere sono funzionali a sopperire a bisogni (e cioè: l’igiene, tramite l’immediata accessibilità all’acqua corrente; lo svolgimento delle attività quotidiane, tramite l’energia elettrica; la salute, la alimentazione, la salubrità degli ambienti, tramite il riscaldamento a gas; ancora l’igiene e la salubrità degli ambienti, tramite il corretto smaltimento delle acque sporche; la possibilità di accedere, tramite una viabilità, alla via pubblica ed ai servizi offerti dal Comune e dagli altri enti; ed infine la possibilità di fruire di parcheggi e di spazi verdi attrezzati) che per gli standards della vita moderna sono da considerarsi primari e irrinunciabili.
Ma se ciò è esatto allora logica vuole che l’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria, così come viene considerata dal legislatore una pre-condizione per il rilascio del titolo edilizio, deve parimenti condizionare anche la possibilità di utilizzare le nuove costruzioni, dovendosi pertanto ritenere precluso il rilascio del certificato di agibilità laddove si constati l’inadempimento del privato all’obbligo di realizzare direttamente ed a scomputo le opere di urbanizzazione primaria.
Tale conclusione, immanente nel sistema sin dalla entrata in vigore della L. 765/1967, risulta avvalorata dal comma 4-bis dell’art. 24 del D.P.R. 380/2001, introdotto con D.L. 69/2013, che consente il rilascio del certificato di agibilità riferito a singoli edifici o parti di edifici, o a singole unità immobiliari solo se risultino completate e collaudate le relative opere di urbanizzazione primaria, oltre che le parti comuni della lottizzazione e le parti strutturali dell’edificio interessato: tale previsione, in particolare, é innovativa non nella parte in cui subordina il rilascio del certificato di agibilità parziale alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria che servono il singolo edificio interessato, quanto piuttosto per aver introdotto la possibilità di concedere la c.d. “agibilità parziale”, cioè la agibilità riferita a singole parti di un edificio o a singoli edifici facenti parte di una lottizzazione.
Essa dimostra, comunque, che la esistenza delle opere di urbanizzazione primaria viene ritenuta dal legislatore come una condizione dalla quale non si può prescindere ai fini di valutare la utilizzabilità di un immobile, ed il riferimento che il citato art. 24, comma 4-bis, effettua alle sole opere di urbanizzazione primaria si giustifica con il fatto che le opere di urbanizzazione secondaria, pur funzionali al soddisfacimento di bisogni ugualmente primari (ad esempio: l’accesso alle cure sanitarie ed alla istruzione), non influiscono in modo diretto sulla fruizione degli immobili e sulla loro salubrità, comodità ed accessibilità.
La norma in esame dimostra dunque, una volta di più, che la funzione essenziale del certificato di agibilità risiede nel controllo delle condizioni che rendono una costruzione realmente fruibile in condizioni di salubrità, sicurezza, comodità, in modo da assicurare che all’interno di essa la persona possa svolgere una vita dignitosa, coerentemente con il valore che la Costituzione assegna alla persona umana.
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Tenuto conto di quanto dianzi esposto il Collegio ritiene che legittimamente un comune possa, e debba, rifiutare il rilascio del certificato di agibilità, totale o parziale, quando risultino mancanti le opere di urbanizzazione primaria che un privato si sia assunto l’obbligo di realizzare direttamente a scomputo del contributo previsto dalla legge: l’agibilità può pertanto essere rilasciata, in tali casi, solo dopo che le opere di urbanizzazione primaria siano realizzate, direttamente dal privato o a cura della amministrazione previo pagamento del relativo contributo.
Alla stessa conclusione non può invece giungersi con riferimento alle opere di urbanizzazione secondaria o quando il privato, richiedente il titolo edilizio prima e l’agibilità poi, non si sia mai assunto l’obbligo di realizzare in via diretta le opere di urbanizzazione, optando invece per il pagamento rateizzato del relativo contributo.
La natura condizionante delle opere di urbanizzazione secondaria deve escludersi a cospetto del chiarissimo tenore dell’art. 31, comma 4, della L. 1150/1942 e degli artt. 12, comma 2, e 24, comma 4-bis, del D.P.R. 380/2001, i quali fanno riferimento solo ed unicamente alle opere di urbanizzazione primaria, evidentemente ritenendo che solo tali opere condizionino direttamente la fruibilità delle costruzioni.
Quanto ai casi in cui il privato abbia potuto accedere al pagamento rateizzato dei c.d oneri di urbanizzazione, omettendo poi di completare tale pagamento, va rammentato che in linea di massima tale situazione suppone già esistenti le opere di urbanizzazione primaria. Pertanto, con riferimento a tali casi il Collegio ritiene che il comune non possa rifiutare il certificato di agibilità a causa dell’omesso integrale pagamento degli oneri di urbanizzazione, perché:
a) ai fini del rilascio del certificato di agibilità è necessario verificare la conformità dell’opera al “progetto” assentito, e non al titolo edilizio: pertanto, anche a voler considerare la determinazione ed il pagamento degli oneri di urbanizzazione quale condizione di legittimità del titolo edilizio, l’omesso pagamento di essi dovrebbe semmai portare il comune ad esercitare l’autotutela nei confronti del titolo edilizio, e non a bloccare soltanto il certificato di agibilità; la decisione di annullare o revocare in autotutela un titolo edilizio per omesso pagamento degli oneri di urbanizzazione appartiene peraltro alla sfera di discrezionalità del comune, che il più delle volte preferisce agire per il recupero delle somme;
b) le opere di urbanizzazione già esistono e quindi la corretta fruizione della nuova costruzione è garantita.
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Ancora diversa è la situazione in cui al mancato pagamento degli oneri di urbanizzazione si accompagni alla inesistenza delle opere di urbanizzazione primaria, ma questa inesistenza sia addebitabile a comportamento del comune, che aveva inizialmente previsto di realizzarle nel triennio successivo al rilascio del titolo edilizio e che però poi non vi ha dato corso: non può che affermarsi, anche in questo caso, la preclusione al rilascio del certificato di abitabilità in dipendenza della mancata realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, valendo quanto già precisato al paragrafo che precede relativamente al mancato pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Anche in questo caso la agibilità può essere attestata solo ad avvenuta realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, ed é chiaro che una simile evenienza può astrattamente comportare, fatte salve le valutazioni specifiche del caso, una responsabilità del comune per il ritardo con cui il privato consegue la agibilità dell’immobile.
11. Passando all’esame del merito del ricorso il Collegio ritiene opportuno, per priorità logica, esaminare il terzo motivo, a mezzo del quale si contesta la violazione degli artt. 24 e 25 del D.P.R. 380/2001 in quanto si assume che il Comune avrebbe indebitamente subordinato il rilascio del certificato di agibilità al pagamento del contributo per oneri di urbanizzazione e comunque alla sottoscrizione di una transazione.
11.1. Il certificato di agibilità attualmente disciplinato dagli artt. 24 e 25 del D.P.R. 380/2001 corrisponde a quella che un tempo veniva denominata licenza d’uso o di abitabilità, introdotta dal Testo Unico sulle Leggi Sanitarie. L’art. 221 del R.D. 1265/1934, infatti, già prevedeva che le costruzioni di nuove case urbane o extraurbane “non possono essere abitate senza autorizzazione del podestà, il quale la concede quando, previa ispezione di un ufficiale sanitario o di un ingegnere a ciò delegato, risulti che la costruzione sia stata eseguita in conformità del progetto approvato, che i muri siano convenientemente prosciugati e che non sussistano altre cause di insalubrità”.
11.2. Detta norma è stata abrogata dall’art. 4 del D.P.R. 425/1994, il quale ha parzialmente innovato la disciplina stabilendo che “Affinché gli edifici o parti di essi, indicati nel’art. 220 del regio decreto 27.07.1934 n. 1265, possano essere utilizzati, è necessario che il proprietario chieda il certificato di abitabilità al sindaco, allegando alla richiesta il certificato di collaudo, la dichiarazione presentata per l’iscrizione al catasto dell’immobile, restituita dagli uffici catastali con l’attestazione dell’avvenuta presentazione, e una dichiarazione del direttore dei lavori che deve certificare, sotto la propria responsabilità, la conformità al progetto approvato, l’avvenuta prosciugatura dei muri e la salubrità dell’ambiente. Entro trenta giorni dalla presentazione della domanda il sindaco rilascia il certificato di abitabilità; entro questo termine può disporre una ispezione da parte degli uffici comunali che verifichi l’esistenza dei requisiti richiesti alla costruzione per essere abitabile…...”.
11.3. Alla norma dianzi ricordata è infine succeduto l’art. 24 del D.P.R. 380/2001, attualmente in vigore, a mente del quale “Il certificato di agibilità attesta la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente...”.
La norma prosegue confermando la necessità che alla domanda sia allegata la domanda di iscrizione al catasto e, con disposizione introdotta con D.L. 69/2013, precisa che il certificato di agibilità può, ove esistenti o ultimate le opere di urbanizzazione primaria e concorrendo altre circostanze, essere richiesto per singole porzioni di edifici o per singole unità immobiliari.
Il successivo art. 25 del D.P.R. 380/2001, nel disciplinare il procedimento finalizzato al rilascio del certificato di agibilità, di fatto amplia ulteriormente l’ambito della verifica che l’amministrazione è chiamata ad effettuare ai fini di autorizzare l’utilizzo dell’immobile, prescrivendo che il certificato possa essere rilasciato una volta verificata -oltre alla documentazione attestante l’avvenuto collaudo dell’opera, la sua conformità al progetto licenziato ed alle norme vigenti in materia di salubrità degli edifici, di risparmio energetico e degli edifici e degli impianti, nonché l’avvenuta denuncia in catasto della nuova opera o del cambio d’uso- anche la attestazione di conformità delle opere alla normativa antisismica nonché a quella relativa al superamento delle barriere architettoniche.
11.4. L’evoluzione normativa di cui si è testé dato conto evidenzia che il certificato di abitabilità o agibilità degli immobili è sempre stato essenzialmente finalizzato alla verifica della sicurezza, per l’incolumità fisica degli abitanti, delle costruzioni, e ciò nei vari aspetti che la normativa ha preso in considerazione nel corso del tempo.
In particolare, non pare esulare da tale finalità il momento di verifica di conformità della costruzione al progetto licenziato, dacché l’esame del progetto che l’amministrazione è chiamata ad effettuare al fine del rilascio del titolo edilizio implica già una prima valutazione della sussistenza dei requisiti di sicurezza, normalmente attestata dal parere reso sul progetto da organi appositamente preposti a vigilare sul rispetto di specifiche norme tecniche di sicurezza.
Tale, ad esempio: il parere delle autorità sanitarie con riferimento al rispetto dei rapporti aero-illuminanti e della superficie minima dei locali; il parere dei Vigili del Fuoco; il parere delle autorità preposte ai vincoli idrogeologici, e così via dicendo. Si comprende, allora, che per la sicurezza di uno stabile è essenziale che esso sia realizzato in modo conforme al progetto valutato ex ante ed approvato dalle varie autorità interessate, e proprio tale constatazione spiega l’esigenza di effettuare anche un controllo a posteriori della conformità della costruzione realizzata al progetto licenziato.
Siffatto controllo a posteriori, introdotto prima della entrata in vigore della L. 1150/1942, non si giustificava all’origine con l’esigenza di assicurare il rispetto di una normativa urbanistica ed edilizia non ancora esistente, e quindi non può essere stato concepito a tale scopo. Dopo di che non si può sottacere, essendo un dato di fatto, che oggi l’atto di approvazione di un progetto, da parte della Autorità comunale, esprime anche, e soprattutto, un giudizio di conformità del progetto alla normativa edilizia e che quindi, all’attualità, il controllo a posteriori di che trattasi è funzionale anche alla attività di vigilanza e controllo sulla attività edilizia demandata ai comuni.
Ciò non toglie che il momento del rilascio della agibilità rimane pur sempre caratterizzato, in via prevalente, dalla esigenza di verificare la sicurezza e la fruibilità di uno stabile da tutti i punti di vista; non a caso, gli unici accertamenti -tra quelli richiesti in sede di rilascio della agibilità- che non paiono ispirati all’esigenza di garantire l’incolumità di coloro che abitano o utilizzano una costruzione sono quelli che hanno ad oggetto la denuncia di accatastamento e le attestazioni di prestazione energetica degli edifici, cioè documenti che attestano l’avvenuto compimento di adempimenti obbligatori per legge ma che nulla hanno a che vedere con il rispetto della normativa edilizia ed urbanistica, la cui omissione il legislatore ha evidentemente inteso scoraggiare subordinando la concreta utilizzabilità degli immobili al loro compimento; non a caso, come infra meglio si dirà, il certificato di agibilità non risulta subordinato alla esecuzione e/o esistenza di tutte le opere di urbanizzazione, né all’integrale pagamento del relativo contributo, essendo a tal fine necessaria la sola esistenza delle opere di urbanizzazione primaria, che sono solo quelle indispensabili a dotare le costruzioni dei comforts minimi ed a renderle salubri e dignitose.
11.6. Il Collegio non ignora che secondo un nutrito orientamento di giurisprudenza (si veda, tra le molte e tra le più recenti: TAR Napoli, sez. III, n. 2191/2014; TAR Lazio, sez. I, n. 749/2013; C.d.S., sez. IV, n. 5450/2012) il rilascio del certificato di agibilità sarebbe finalizzato non solo alla verifica della sicurezza della costruzione, ma anche alla verifica della osservanza delle norme urbanistiche ed edilizie.
Per quanto già osservato il Collegio ritiene tuttavia di poter condividere solo parzialmente a tale orientamento, reputando che in occasione del rilascio del certificato di agibilità la verifica di conformità alle norme urbanistiche ed edilizie può e deve ritenersi limitata alla verifica di conformità dell’opera al progetto licenziato, il quale si presume legittimo e, come tale, conforme alla normativa urbanistica ed edilizia.
E’ opinione del Collegio che, mentre l’amministrazione comunale può sempre far valere, in sede di rilascio della agibilità, la difformità dell’opera a norme di sicurezza, essa non può invece opporre le difformità a norme edilizie ed urbanistiche che non si siano anche tradotte in una difformità dell’opera al progetto autorizzato, a meno che nel frattempo l’amministrazione non si sia indotta a sospendere e/o annullare il titolo edilizio già rilasciato.
Opinare diversamente significherebbe conferire alle amministrazioni comunali il potere di bloccare l’utilizzazione di una costruzione già ultimata e rispettosa del progetto autorizzato sulla base (anche solo) di meri sospetti di illegittimità, in violazione dell’affidamento riposto dal privato sulla legittimità del titolo edilizio e compromettendo la certezza delle situazioni giuridiche: il che è inaccettabile.
Laddove una amministrazione comunale abbia ragione di dubitare, ex post, della legittimità di un titolo edilizio già rilasciato ed eseguito, essa non può limitarsi a bloccare il rilascio del certificato di agibilità, ma deve soprattutto prendere una chiara posizione riguardo alla legittimità del titolo edilizio rilasciato, assumendosi se del caso le responsabilità insite nella adozione di atti di autotutela, in difetto dei quali la agibilità non potrà essere negata laddove si riscontri che l’opera è conforme al progetto licenziato.
11.7. Ciò premesso e chiarito, occorre ora verificare se la mancata esecuzione delle opere di urbanizzazione che il privato si sia impegnato a realizzare direttamente o il mancato pagamento del contributo rateizzato possa, o meno, precludere il rilascio del certificato di agibilità.
11.7.1. Al proposito va subito ricordato che già con la L. 765/1967 il legislatore, modificando l’art. 31 della L. 1150/1942, ha introdotto il principio per cui “La concessione edilizia è comunque ed in ogni caso subordinata alla esistenza delle opere di urbanizzazione primaria o alla previsione da parte dei Comuni dell’attuazione delle stesse nel successivo triennio o all’impegno dei privati di procedere all’attuazione delle medesime contemporaneamente alle costruzioni oggetto di licenza”, e tale previsione, confluita immutata nell’art. 12, comma 2, del D.P.R. 380/2001, da sempre è stata interpretata nel senso che il rilascio della licenza edilizia, o della concessione edilizia, o del permesso di costruire deve ritenersi impossibile nelle zone non servite da opere di urbanizzazione primaria, salvo appunto il caso in cui il privato richiedente non si assuma l’obbligo di realizzarle direttamente e contemporaneamente: l’esistenza di tali opere costituisce, quindi, una condizione la cui mancanza rende financo improcedibile una richiesta di titolo edilizio, e ciò evidentemente per la ragione che dette opere sono funzionali a sopperire a bisogni (e cioè: l’igiene, tramite l’immediata accessibilità all’acqua corrente; lo svolgimento delle attività quotidiane, tramite l’energia elettrica; la salute, la alimentazione, la salubrità degli ambienti, tramite il riscaldamento a gas; ancora l’igiene e la salubrità degli ambienti, tramite il corretto smaltimento delle acque sporche; la possibilità di accedere, tramite una viabilità, alla via pubblica ed ai servizi offerti dal Comune e dagli altri enti; ed infine la possibilità di fruire di parcheggi e di spazi verdi attrezzati) che per gli standards della vita moderna sono da considerarsi primari e irrinunciabili.
Ma se ciò è esatto allora logica vuole che l’esistenza delle opere di urbanizzazione primaria, così come viene considerata dal legislatore una pre-condizione per il rilascio del titolo edilizio, deve parimenti condizionare anche la possibilità di utilizzare le nuove costruzioni, dovendosi pertanto ritenere precluso il rilascio del certificato di agibilità laddove si constati l’inadempimento del privato all’obbligo di realizzare direttamente ed a scomputo le opere di urbanizzazione primaria.
Tale conclusione, immanente nel sistema sin dalla entrata in vigore della L. 765/1967, risulta avvalorata dal comma 4-bis dell’art. 24 del D.P.R. 380/2001, introdotto con D.L. 69/2013, che consente il rilascio del certificato di agibilità riferito a singoli edifici o parti di edifici, o a singole unità immobiliari solo se risultino completate e collaudate le relative opere di urbanizzazione primaria, oltre che le parti comuni della lottizzazione e le parti strutturali dell’edificio interessato: tale previsione, in particolare, é innovativa non nella parte in cui subordina il rilascio del certificato di agibilità parziale alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria che servono il singolo edificio interessato, quanto piuttosto per aver introdotto la possibilità di concedere la c.d. “agibilità parziale”, cioè la agibilità riferita a singole parti di un edificio o a singoli edifici facenti parte di una lottizzazione.
Essa dimostra, comunque, che la esistenza delle opere di urbanizzazione primaria viene ritenuta dal legislatore come una condizione dalla quale non si può prescindere ai fini di valutare la utilizzabilità di un immobile, ed il riferimento che il citato art. 24, comma 4-bis, effettua alle sole opere di urbanizzazione primaria si giustifica con il fatto che le opere di urbanizzazione secondaria, pur funzionali al soddisfacimento di bisogni ugualmente primari (ad esempio: l’accesso alle cure sanitarie ed alla istruzione), non influiscono in modo diretto sulla fruizione degli immobili e sulla loro salubrità, comodità ed accessibilità.
La norma in esame dimostra dunque, una volta di più, che la funzione essenziale del certificato di agibilità risiede nel controllo delle condizioni che rendono una costruzione realmente fruibile in condizioni di salubrità, sicurezza, comodità, in modo da assicurare che all’interno di essa la persona possa svolgere una vita dignitosa, coerentemente con il valore che la Costituzione assegna alla persona umana.
11.7.2. Tenuto conto di quanto dianzi esposto il Collegio ritiene che legittimamente un comune possa, e debba, rifiutare il rilascio del certificato di agibilità, totale o parziale, quando risultino mancanti le opere di urbanizzazione primaria che un privato si sia assunto l’obbligo di realizzare direttamente a scomputo del contributo previsto dalla legge: l’agibilità può pertanto essere rilasciata, in tali casi, solo dopo che le opere di urbanizzazione primaria siano realizzate, direttamente dal privato o a cura della amministrazione previo pagamento del relativo contributo.
11.7.3. Alla stessa conclusione non può invece giungersi con riferimento alle opere di urbanizzazione secondaria o quando il privato, richiedente il titolo edilizio prima e l’agibilità poi, non si sia mai assunto l’obbligo di realizzare in via diretta le opere di urbanizzazione, optando invece per il pagamento rateizzato del relativo contributo.
11.7.3.1. La natura condizionante delle opere di urbanizzazione secondaria deve escludersi a cospetto del chiarissimo tenore dell’art. 31, comma 4, della L. 1150/1942 e degli artt. 12, comma 2, e 24, comma 4-bis, del D.P.R. 380/2001, i quali fanno riferimento solo ed unicamente alle opere di urbanizzazione primaria, evidentemente ritenendo che solo tali opere condizionino direttamente la fruibilità delle costruzioni.
11.7.3.2. Quanto ai casi in cui il privato abbia potuto accedere al pagamento rateizzato dei c.d oneri di urbanizzazione, omettendo poi di completare tale pagamento, va rammentato che in linea di massima tale situazione suppone già esistenti le opere di urbanizzazione primaria. Pertanto, con riferimento a tali casi il Collegio ritiene che il comune non possa rifiutare il certificato di agibilità a causa dell’omesso integrale pagamento degli oneri di urbanizzazione, perché:
a) ai fini del rilascio del certificato di agibilità è necessario verificare la conformità dell’opera al “progetto” assentito, e non al titolo edilizio: pertanto, anche a voler considerare la determinazione ed il pagamento degli oneri di urbanizzazione quale condizione di legittimità del titolo edilizio, l’omesso pagamento di essi dovrebbe semmai portare il comune ad esercitare l’autotutela nei confronti del titolo edilizio, e non a bloccare soltanto il certificato di agibilità; la decisione di annullare o revocare in autotutela un titolo edilizio per omesso pagamento degli oneri di urbanizzazione appartiene peraltro alla sfera di discrezionalità del comune, che il più delle volte preferisce agire per il recupero delle somme;
b) le opere di urbanizzazione già esistono e quindi la corretta fruizione della nuova costruzione è garantita.
11.7.3.3. Ancora diversa è la situazione -che peraltro non interessa ai fini della decisione del caso di specie- in cui al mancato pagamento degli oneri di urbanizzazione si accompagni alla inesistenza delle opere di urbanizzazione primaria, ma questa inesistenza sia addebitabile a comportamento del comune, che aveva inizialmente previsto di realizzarle nel triennio successivo al rilascio del titolo edilizio e che però poi non vi ha dato corso: non può che affermarsi, anche in questo caso, la preclusione al rilascio del certificato di abitabilità in dipendenza della mancata realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, valendo quanto già precisato al paragrafo che precede relativamente al mancato pagamento degli oneri di urbanizzazione.
Anche in questo caso la agibilità può essere attestata solo ad avvenuta realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, ed é chiaro che una simile evenienza può astrattamente comportare, fatte salve le valutazioni specifiche del caso, una responsabilità del comune per il ritardo con cui il privato consegue la agibilità dell’immobile
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 12.02.2015 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICANella convenzione si legge che la società lottizzante “dichiara e riconosce di avere stipulato la presente convenzione per sé ed aventi causa a qualsiasi titolo e, pertanto, mentre si impegna, se del caso, a trasferire ai suoi eventuali aventi causa gli impegni, servitù, vincoli ed oneri reali ad essa portati, ne autorizza la trascrizione a favore e contro il Comune ed a favore e contro essa medesima...”: si deve quindi presumere che con riferimento agli obblighi scaturenti dalla Convenzione e non ancora totalmente adempiuti la società lottizzante ne abbia trasferito il relativo carico sugli aventi causa.
Peraltro, ove pure nei vari atti di vendita la società lottizzante avesse sollevato gli aventi causa da ogni responsabilità inerente l’adempimento degli obblighi afferenti la realizzazione a scomputo delle opere di urbanizzazione, tale manleva non avrebbe alcuna rilevanza nei rapporti con il Comune, giacché per consolidato orientamento giurisprudenziale tali obblighi hanno natura propter rem e quindi si trasmettono automaticamente ai successivi acquirenti della costruzione.
Di conseguenza, ove pure corrispondesse al vero la circostanza che la società lottizzante si è accollata, negli atti di vendita stipulati con i successivi acquirenti, l’obbligo di pagare gli oneri di urbanizzazione, tale pattuizione avrebbe rilevanza solo nei rapporti interni tra la società lottizzante e gli aventi causa da essa, ma non rileverebbe nei rapporti tra questi ultimi ed il Comune.

13. Con il primo motivo i ricorrenti sostengono che illegittimamente il Comune si è rivolto ad essi per ottenere il pagamento del contributo sostitutivo, stante che l’obbligo di realizzare le opere di urbanizzazione a scomputo era stato assunto in via esclusiva dalla società Plan delle Grange s.r.l.: l’assunto non è corretto ed è comunque irrilevante.
13.1. Al punto XIII della Convenzione si legge che la società lottizzante “dichiara e riconosce di avere stipulato la presente convenzione per sé ed aventi causa a qualsiasi titolo e, pertanto, mentre si impegna, se del caso, a trasferire ai suoi eventuali aventi causa gli impegni, servitù, vincoli ed oneri reali ad essa portati, ne autorizza la trascrizione a favore e contro il Comune di Sauze di Cesana ed a favore e contro essa medesima...”: si deve quindi presumere che con riferimento agli obblighi scaturenti dalla Convenzione e non ancora totalmente adempiuti la società lottizzante ne abbia trasferito il relativo carico sugli aventi causa.
13.2. Peraltro, ove pure nei vari atti di vendita la società lottizzante avesse sollevato gli aventi causa da ogni responsabilità inerente l’adempimento degli obblighi afferenti la realizzazione a scomputo delle opere di urbanizzazione, tale manleva non avrebbe alcuna rilevanza nei rapporti con il Comune, giacché per consolidato orientamento giurisprudenziale tali obblighi hanno natura propter rem e quindi si trasmettono automaticamente ai successivi acquirenti (ex multis: Cass. Civ. sez. II, n 16401/2013; TAR Trentino Alto Adige, sez. I, n. 394/2014) della costruzione.
Di conseguenza, ove pure corrispondesse al vero la circostanza che la società Plan delle Grange s.p.a. si è accollata, negli atti di vendita stipulati con i successivi acquirenti, l’obbligo di pagare gli oneri di urbanizzazione, tale pattuizione avrebbe rilevanza solo nei rapporti interni tra la società lottizzante e gli aventi causa da essa, ma non rileverebbe nei rapporti tra questi ultimi ed il Comune
(TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 12.02.2015 n. 273 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Nuovi marciapiedi e piste ciclabili: ok all’Iva del 10%. Appalti pubblici. La ristrutturazione urbanistica.
Gli interventi di ristrutturazione urbanistica che modificano il tessuto urbano con la costruzione di nuovi elementi godono dell’aliquota Iva agevolata del 10 per cento.
Questo, in sintesi, quanto disposto dalla Ctp Ravenna con la sentenza 12.02.2015 n. 93/02/15.
La vicenda trae origine da un avviso di accertamento con il quale l’ufficio contestava la mancata applicazione dell’aliquota Iva ordinaria in due fatture emesse da una società cooperativa nei confronti di due Comuni. In particolare secondo l’amministrazione finanziaria le opere commissionate e svolte riguardavano la manutenzione ordinaria e straordinaria di tratti stradali urbani già esistenti e pertanto non era applicabile l’Iva agevolata al 10%, che trova applicazione solo in caso di prestazioni relative alla realizzazione di opere ex novo o ristrutturazione urbanistica.
La stessa risoluzione 202/2008 precisava che i lavori di pavimentazione delle strade, consistendo in una mera miglioria e non in un’effettiva nuova costruzione, scontano l’Iva ordinaria, salvo che non si tratti di marciapiedi e vialetti costruiti su strade residenziali.
L’atto impositivo veniva impugnato dalla contribuente, la quale eccepiva, tra l’altro, che le lavorazioni eseguite rientravano tra quelle che potevano usufruire dell’Iva agevolata di cui alla tabella A - Parte III del Dpr 633/1972.
La Commissione ha accolto nel merito il ricorso. Nel caso di specie veniva accertato che per la prima fattura contestata -sebbene le opere riguardassero interventi di manutenzione periodica, straordinaria e pronto intervento delle pertinenze stradali e relativa segnaletica- i lavori avevano in effetti comportato la costruzione di marciapiedi, nuova segnaletica stradale e il rifacimento delle fognature: quindi era stata effettuata una «sostituzione dell’esistente tessuto urbano».
La seconda fattura oggetto del giudizio riguardava invece lavori per il rifacimento di tratti stradali già esistenti, ma che avevano comunque «interessato e variato il tessuto urbano» con la costruzione ex novo di marciapiedi, di nuova pavimentazione, di una nuova pista ciclabile, nuovi parcheggi e illuminazione.
La Ctp, in base alla documentazione prodotta dalla contribuente (comprensiva di perizia tecnica), ha ritenuto che le opere di urbanizzazione primaria e secondaria contestate rientrassero nell’ambito del recupero, restauro conservativo e ristrutturazione urbanistica di cui all’articolo 31, comma 1, della legge 457/1978, con conseguente applicazione dell’Iva al 10 per cento. Tale norma, alla lettera e) definisce infatti gli interventi di ristrutturazione urbanistica come quelli «rivolti a sostituire l’esistente tessuto urbanistico-edilizio con altro diverso mediante un insieme sistematico di interventi edilizi anche con la modificazione del disegno dei lotti, degli isolati e della rete stradale».
I giudici hanno anche precisato che in casi del genere è necessario verificare di volta in volta l’esistenza delle caratteristiche indicate dalle norme di riferimento che possano qualificare l’opera come intervento di recupero ad aliquota agevolata
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Opere realizzate nel sottosuolo.
In tema di tutela del paesaggio a nulla rileva il fatto che si tratti di opere realizzate nel sottosuolo, in quanto il reato di cui all'art. 181, comma 1-bis, D.Lgs. n. 4212004, che si pone come tipica ipotesi di reato di pericolo, si configura anche in caso di lavori realizzati, in difetto di autorizzazione, nel sottosuolo di zone sottoposte a determinati vincoli paesaggistici in quanto la norma in parola vieta l'esecuzione di lavori di qualunque genere su beni paesaggistici, dovendosi ritenere realizzata anche in tali casi una modificazione, anche se non immediatamente visibile, dell'assetto del territorio.
La ratio della norma incriminatrice è, infatti, la tutela massima del paesaggio, dovendosi escludere il reato solo nella residuale ipotesi che, nemmeno in via astratta, l'opera realizzata o in corso di esecuzione sia idonea a pregiudicare il bene paesaggistico protetto dalla norma.

3. I giudici salernitani ritengono -ed evidenziano nella motivazione del provvedimento impugnato che appare congrua e logica- che, pur tenendo conto del collaudo statico, nonché dell'autorizzazione dei lavori in sanatoria e dell'autorizzazione sismica in sanatoria depositati dalla difesa (atti che dunque sono stati esaminati, a differenza di quanto si sostiene in ricorso), sussista il fumus degli ipotizzati reati di cui agli artt. 44, lett. c), D.P.R. 380/2001 e 181, comma 1-bis, D.Lgs. 42/2004 di cui ai capì A) e B) della rubrica.
Ciò in quanto, come emerge dall'informativa di P.G. in data 01.4.2014, nonché dagli allegati rilievi planimetrici e fotografici, il Chiacchiaro aveva realizzato, nella parte interrata sita al lato est di un preesistente fabbricato, in assenza dei prescritti titoli abilitativi in zona dichiarata di notevole interesse pubblico, nonché sottoposta a vincolo di tutela del patrimonio artistico storico ed archeologico, le opere edilizie di cui al capo A) della rubrica (e cioè una struttura in cemento armato di circa 175 mq., con altezza interna di circa m. 2,65 interamente piastrellata, munita di tutti gli impianti, all'interno della quale venivano realizzati due depositi, sei celle frigo, una zona destinata al lavaggio delle stoviglie, un ufficio e due locali adibiti a spogliatoi e w.c., il tutto direttamente asservito all'attività di ristorazione esercitata dalla struttura recettiva, a cui si accede attraverso una rampa delimitata da muratura a secco che conduce al varco di accesso realizzato con strutture portanti in cemento armato).
Si tratta di opere -si legge ancora nella motivazione del provvedimento impugnato- che, come correttamente evidenziato dal G.I.P., hanno comportato un'integrale ristrutturazione della preesistente caverna, attuata mediante un invasivo intervento strutturale tale da determinare la creazione di un organismo edilizio del tutto diverso con modifica, quanto meno, della destinazione d'uso.
Sul punto -va qui evidenziato- il Tribunale di Salerno appare fare assoluto buon governo della consolidata giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide e che va qui riaffermata, secondo cui a nulla rileva il fatto che si tratti di opere realizzate nel sottosuolo, in quanto il reato di cui all'art. 181, comma 1-bis, D.Lgs. n. 42/2004, che si pone come tipica ipotesi di reato di pericolo, si configura anche in caso di lavori realizzati, in difetto di autorizzazione, nel sottosuolo di zone sottoposte a determinati vincoli paesaggistici in quanto la norma in parola vieta l'esecuzione di lavori di qualunque genere su beni paesaggistici, dovendosi ritenere realizzata anche in tali casi una modificazione, anche se non immediatamente visibile, dell'assetto del territorio.
La ratio della norma incriminatrice è, infatti, la tutela massima del paesaggio, dovendosi escludere il reato solo nella residuale ipotesi che, nemmeno in via astratta, l'opera realizzata o in corso di esecuzione sia idonea a pregiudicare il bene paesaggistico protetto dalla norma (viene richiamata sul punto la pronuncia 21842 del 17.02.2011, Iacono, non massim. di questa sez. 3) (Cass. Sez. 3A 16.01.2007 n. 7292, Armenise ed altro, Rv. 236080).
Corretto appare anche il richiamo alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, laddove si ricorda che i giudici amministrativi hanno affermato che non appare dubbio che, alla luce dell'individuazione dei beni paesaggistici contenuta negli artt. 136 e segg. del D.Lgs. n. 42 del 2004, con il termine paesaggio il legislatore abbia inteso designare una determinata parte del territorio che, per le sue caratteristiche naturali e/o indotte dalla presenza dell'uomo, è ritenuta meritevole di particolare tutela, che non può ritenersi limitata al mero aspetto esteriore o immediatamente visibile dell'area vincolata, così che ogni modificazione dell'assetto del territorio, attuata attraverso qualsiasi tipo di opera, è soggetta al rilascio della prescritta autorizzazione.
E perciò, da tale nozione ampia di paesaggio, deriva che il vincolo ambientale-paesaggistico sia operante anche con riferimento alle opere realizzate nel sottosuolo, in quanto anche queste ultime implicano una utilizzazione del territorio idonea a modificarne l'assetto, specie quando si tratti di opere di rilevante entità (così la ricordata pronuncia del Consiglio di Stato, sez. 6, 05.08.2013 n. 4079).
Già in precedenza, peraltro, si era affermato, in relazione ad un caso in cui erano stati realizzati dei garage interrati, che in tema di tutela del paesaggio, il reato dì cui all'art. 181 D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 si configura anche relativamente ad opere realizzate, in difetto di autorizzazione, nel sottosuolo di zone sottoposte a vincolo, atteso che il citato art. 181 vieta l'esecuzione di lavori di qualunque genere su beni paesaggistici e che anche per tali opere si realizza una modificazione, anche se non immediatamente visibile, dell'assetto del territorio (così questa sez. 3, n. 7292 del 16.01.2007, Armenise ed altro, rv. 236080).
E in altra pronuncia si era anche ancora precisato che nessun rilievo può avere la natura pertinenziale dell'opera che si va a realizzare (sez. 3, n. 11128 del 16.02.2006, Silvestri, rv. 233675) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.02.2015 n. 5954 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTITar Brescia. Appalti. L’omessa indicazione di condanna non si sana.
Nella verifica dei requisiti per gli appalti, va esclusa per «falsa dichiarazione» l’impresa che non indica la condanna irrevocabile del titolare per omesso versamento di contributi e, poiché si è sottratta al giudizio “esclusivo” dell’appaltante, non può ricorrere al «soccorso istruttorio» anche se è consentito. Né se il reato è stato poi depenalizzato né se l’impresa ha regolarizzato in tempo la propria posizione.

L’ha stabilito il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, nella sentenza 06.02.2015 n. 201.
L’azienda, esclusa come previsto dall’articolo 38 del Codice appalti, aveva eccepito che l’omissione era giustificata da due norme in vigore da poco prima del bando: il comma 2-bis dell’articolo 38 che consente di sanare irregolarità anche «essenziali» con una sanzione; la depenalizzazione dell’omesso versamento fino a 10mila euro annui -nullo per il datore di lavoro se sanato entro tre mesi- stabilita dalla legge 67/2014.
Per il Tar, anche se con tali norme il sostanziale prevale sul formale, la “sanatoria” va esclusa: l’omessa dichiarazione di condanna, «essendo correlata ad un reato strettamente connesso all’esercizio dell’attività imprenditoriale
- ha illegittimamente (a prescindere da ogni valutazione sull’elemento psicologico) sottratto ex ante al giudizio della stazione appaltante la gravità ed incidenza del reato sanzionato, indipendentemente dal giudizio espresso ex post dalla commissione di gara... La dichiarazione di assenza di condanne rilevanti ai sensi della lettera c) dell’art. 38 in parola e la conseguente omessa indicazione della sentenza (…), integrano, dunque, gli estremi del falso in gara» e quindi la decadenza dai benefici come fissato dall’articolo 75 del Dpr 445/2000.
I giudici poi, in linea con la Cassazione (38080/2014), hanno ritenuto «non già operante» la depenalizzazione del reato di omesso versamento: manca il decreto attuativo
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.03.2015).

EDILIZIA PRIVATAQualora il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, sorge in capo all’amministrazione, ex art. 2033 Cod. Civ., l'obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione e conseguentemente il diritto del privato a pretenderne la restituzione.
Il contributo concessorio è, infatti, strettamente connesso all'attività di trasformazione del territorio e quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di dare, cosicché l'importo versato va restituito; il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente.
L’amministrazione è inoltre tenuta a corrispondere gli interessi legali dalla data della domanda, vale a dire dalla data in cui di tali somme è stata chiesta la ripetizione e non dalla data della loro corresponsione
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L'avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie consentite da un permesso di costruire comporta il sorgere, in capo al titolare, del diritto alla rideterminazione del contributo ed alla restituzione della quota di esso che è stata calcolata con riferimento alla porzione non realizzata.
Nel caso specifico, non osta all’integrale restituzione della somma richiesta l’avvenuta realizzazione di alcune opere interrate (pali in breccia di fondazione) che paiono obbiettivamente improduttive di vantaggi economici (o di maggiore capacità contributiva) per chi le ha realizzate, quale presupposto per il pagamento del contributo in questione.
Del resto il Comune resistente non ha mai dedotto che tali opere, singolarmente considerate, andrebbero comunque sottoposte al regime edilizio oneroso (il cui mantenimento richiederebbe, quindi, il pagamento del contributo concessorio), evidenziando solo possibili incompatibilità con l’equilibrio idrogeologico dell’area o comunque con lo stato originario dei luoghi.
Resta quindi fermo, limitatamente a quest’ultimo profilo, l’eventuale potere dell’amministrazione di ordinare il ripristino integrale dello stato dei luoghi, qualora accerti che il mantenimento di quanto realizzato rimanga privo di titolo per effetto della rinuncia integrale al permesso di costruire (applicando, in analogia, le disposizioni dell’art. 38 del DPR n. 380/2001).

... per  la restituzione degli oneri concessori (di urbanizzazione e contributo commisurato al costo di costruzione) a seguito di rinuncia al permesso di costruire.
...
4. Il ricorso va accolto nei limiti che seguono.
5. In via generale il Collegio non intravede ragioni per discostarsi dal principio, ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, secondo cui, qualora il privato rinunci o non utilizzi il permesso di costruire ovvero anche quando sia intervenuta la decadenza del titolo edilizio, sorge in capo all’amministrazione, ex art. 2033 Cod. Civ., l'obbligo di restituzione delle somme corrisposte a titolo di contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione e conseguentemente il diritto del privato a pretenderne la restituzione. Il contributo concessorio è, infatti, strettamente connesso all'attività di trasformazione del territorio e quindi, ove tale circostanza non si verifichi, il relativo pagamento risulta privo della causa dell'originaria obbligazione di dare, cosicché l'importo versato va restituito; il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato solo parzialmente (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 02.02.1988 n. 105; id. 12.06.1995 n. 894 e 23.06.2003 n. 3714; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 18.01.2013; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 24.03.2010 n. 728; TAR Lazio, Roma, Sez. I-bis, 12.03.2008 n. 2294; TAR Abruzzo 15.12.2006 n. 890; TAR Parma 07.04.1998 n. 149).
L’amministrazione è inoltre tenuta a corrispondere gli interessi legali dalla data della domanda, vale a dire dalla data in cui di tali somme è stata chiesta la ripetizione e non dalla data della loro corresponsione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 24.11.2010 n. 8215; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 2.11.2010 n. 4519).
6. Detto principio è certamente applicabile alla somma di € 173.976,80 corrisposta dalla ricorrente quale prima rata del contributo commisurato al costo di costruzione.
Al riguardo va ricordato che l'avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie consentite da un permesso di costruire comporta il sorgere, in capo al titolare, del diritto alla rideterminazione del contributo ed alla restituzione della quota di esso che è stata calcolata con riferimento alla porzione non realizzata (cfr. TAR Lombardia, n. 728/2010 cit.).
Nel caso specifico, tuttavia, non osta all’integrale restituzione della somma richiesta l’avvenuta realizzazione di alcune opere interrate (pali in breccia di fondazione) che paiono obbiettivamente improduttive di vantaggi economici (o di maggiore capacità contributiva) per chi le ha realizzate, quale presupposto per il pagamento del contributo in questione.
Del resto il Comune resistente non ha mai dedotto che tali opere, singolarmente considerate, andrebbero comunque sottoposte al regime edilizio oneroso (il cui mantenimento richiederebbe, quindi, il pagamento del contributo concessorio), evidenziando solo possibili incompatibilità con l’equilibrio idrogeologico dell’area o comunque con lo stato originario dei luoghi.
Resta quindi fermo, limitatamente a quest’ultimo profilo, l’eventuale potere dell’amministrazione di ordinare il ripristino integrale dello stato dei luoghi, qualora accerti che il mantenimento di quanto realizzato rimanga privo di titolo per effetto della rinuncia integrale al permesso di costruire (applicando, in analogia, le disposizioni dell’art. 38 del DPR n. 380/2001).
6.1 Devono invece essere dichiarate inammissibili, così come evidenziato alle parti con ordinanza n. 933/2014 ex art. 73, comma 3, del D.Lgs. n. 104/2010, le domande riconvenzionali proposte dal Comune (v. precedente punto 2 lett. b e b1).
Tali domande ampliano certamente il thema decidendum, sia sotto il profilo del petitum che della causa petendi. Di conseguenza avrebbero dovuto essere proposte, a norma dell’art. 42 del D.Lgs. n. 104/2010, attraverso formale ricorso incidentale notificato alla controparte.
Tale conclusione resta ferma anche a voler distinguere, come deduce l’Amministrazione resistente, tra domanda ed eccezione riconvenzionale, atteso che anche quest’ultima rientra nell’oggetto del ricorso incidentale (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 07.04.2011 n. 4, punto 33 lett. a).
6.2 Il Comune dovrà pertanto concludere il procedimento avviato con comunicazione del 14.9.2013 prot. 18200, dichiarando l’inefficacia dei permessi di costruire per intervenuta rinuncia agli stessi (o la sopravvenuta decadenza), disponendo la consequenziale restituzione della somma di € 173.976,80 maggiorata degli interessi dalla data della domanda fino all’effettivo soddisfo.
A tal fine viene assegnato il termine di 120 giorni, dalla notifica della presente sentenza, per completare la procedura di pagamento, fatti salvi atti di pignoramento della somma in oggetto o altri legittimi provvedimenti di indisponibilità della stessa (TAR Marche, sentenza 06.02.2015 n. 114 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa Soprintendenza è tenuta, nel procedimento disciplinato dagli artt. 167 e 181 del d.lgs. n. 42/2004, a rilasciare il proprio parere che, ai sensi del comma quinto dell’art. 167, è vincolante per il Comune.
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L’art. 167, comma quinto, del codice Beni culturali del 2004 non attribuisce alla Soprintendenza il potere di decidere sull’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica (potere che compete al Comune) e, quindi, è illegittimo il provvedimento soprintendentizio impugnato (diniego) per avere esorbitato dalle proprie competenze.
Invero, la Soprintendenza ha espresso non già un parere, bensì un vero e proprio diniego, con ciò emanando un atto viziato da incompetenza, posto che la legge non le attribuisce, nei procedimenti in questione, il potere che essa ha nel caso in esame esercitato.

... per l'annullamento:
- del provvedimento del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo -Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per le Province di Firenze, Pistoia e Prato, prot. n. 21502 del 11.11.2013- trasmesso alla ricorrente il 16.12.2013; nonché di ogni altro atto presupposto, conseguente o comunque connesso ancorché ignoto alla ricorrente;
- per l'accertamento dell'illegittimità del silenzio serbato dall'amministrazione sul merito della domanda di accertamento di compatibilità paesaggistica presentata dalla ricorrente;
- nonché per l'accertamento dell'obbligo della Soprintendenza di esaminare nel merito tale domanda e di concludere il procedimento con un parere espresso che chiarisca se sussiste, o meno, la compatibilità paesaggistica all'intervento;
- e per la condanna dell'amministrazione ad adempiere ai sensi dell'art. 34, comma 1, lett. c), cod. proc. amm.
...
Il Collegio esamina la domanda avente per oggetto l’accertamento dell’illegittimità del comportamento omissivo della Soprintendenza intimata con riguardo all’emissione del parere richiestole, e la correlata domanda di accertamento dell’obbligo della predetta autorità sulla richiesta di parere ai fini dell’accertamento di compatibilità paesaggistica riguardante i campi da tennis e il parcheggio oggetto della controversia, ovvero opere che rientrano nella previsione dell’art. 167, comma quarto, lett. a), e dell’art. 181, comma 1-ter, lett. a), del decreto legislativo n. 42/2004, in quanto opere realizzate in assenza di autorizzazione paesaggistica, ma che non hanno comportato creazione di superfici e volumi.
La pretesa in esame, nella sua duplice articolazione, è fondata.
La Soprintendenza è tenuta, nel procedimento disciplinato dagli artt. 167 e 181 del decreto legislativo n. 42/2004, a rilasciare il proprio parere che, ai sensi del comma quinto dell’art. 167, è vincolante per il Comune.
Orbene, dall’esame del carteggio intercorso tra la Soprintendenza e il Comune di Bagno a Ripoli emerge che il parere non è stato rilasciato. Il provvedimento finale adottato dalla Soprintendenza −dopo una serie di missive indirizzate al Comune al fine di sollecitare l’adozione di provvedimenti conseguenti all’annullamento dell’autorizzazione edilizia in sanatoria rilasciata a suo tempo da detto ente− contiene da un lato un vero e proprio diniego (espresso in termini di impossibilità di accogliere l’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica, motivato sul rilievo che il Comune non ha provveduto a concludere il procedimento connesso all’istanza di condono), dall’altro omette l’adozione del parere richiesto.
Pertanto, attesa la fondatezza del primo motivo di ricorso (con il quale appunto si lamenta l’omissione del parere), e dichiarata quindi l’illegittimità del comportamento per tale aspetto omissivo della Soprintendenza, è meritevole di accoglimento la domanda con la quale la ricorrente chiede l’accertamento dell’obbligo della predetta autorità di esaminare la pratica secondo le competenze che le sono proprie; l’amministrazione dovrà dunque rilasciare il parere vincolante di cui trattasi, al fine di consentire al Comune di Bagno a Ripoli di definire i procedimenti pendenti.
Il Collegio ritiene di esaminare adesso, per ragioni di priorità logica e di connessione con il già esaminato primo motivo di ricorso, la doglianza di cui al quinto motivo di ricorso, con cui si sostiene che l’art. 167, comma quinto, del codice Beni culturali del 2004 non attribuisce alla Soprintendenza il potere di decidere sull’istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica (potere che compete al Comune) e che quindi è illegittimo il provvedimento soprintendentizio impugnato anche sotto tale profilo, ovvero per avere esorbitato dalle proprie competenze.
La doglianza è fondata. Come si è già avuto poco sopra modo di dire, la Soprintendenza ha espresso non già un parere, bensì un vero e proprio diniego, con ciò emanando un atto viziato da incompetenza, posto che la legge non le attribuisce, nei procedimenti in questione, il potere che essa ha nel caso in esame esercitato.
In conclusione, assorbiti gli ulteriori profili di censura, il ricorso va accolto sia con riguardo all’omissione da parte della Soprintendenza del dovuto parere, sia con riguardo all’incompetenza della stessa ad adottare il provvedimento conclusivo del procedimento avviato con l’istanza della signora B., e, per l’effetto: a) va ordinato alla Soprintendenza di emettere il parere di competenza; b) vanno annullati i provvedimenti impugnati (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 05.02.2015 n. 225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIPorte aperte a società pubbliche coi soci privati di minoranza. Affidamenti in house/parere del consiglio di stato.
Affidamenti in house: il Consiglio di stato apre le porte alle società pubbliche con soci privati di minoranza.

La novità giurisprudenziale è contenuta nel parere 30.01.2015 n. 298 con il quale il Consiglio di Stato risponde al quesito posto dal Ministero dell'Istruzione in merito alla volontà di procedere all'affidamento in house di una commessa per lo sviluppo di soluzioni informatiche ad un Consorzio partecipato dal Ministero stesso, da Università ed Enti di ricerca pubblici e, con quote di minoranza, da alcune Università private.
La II Sez. del Consiglio di stato coglie l'occasione per approfondire e chiarire, anche alla luce degli interventi in materia da parte dell'Unione europea, i presupposti e le condizioni di ammissibilità degli affidamenti in house.
Nell'esprimere parere positivo all'affidamento senza gara al suddetto Consorzio, i giudici amministrativi richiamano più volte la Direttiva europea 2014/24/Ue, la quale allarga il ventaglio delle possibilità di procedere con affidamenti diretti tra società pubbliche. Secondo i giudici del Consiglio di stato, infatti, sebbene la Direttiva non sia stata ancora recepita nell'ordinamento italiano, rileverebbe comunque ai fini del quesito posto dal Ministero, dal momento che le indicazioni in essa contenute appaiono incondizionate e precise, tali da farla ritenere «self-executing».
Nella parte iniziale del parere, il Consiglio di stato riconosce innanzitutto la sussistenza di due delle tre condizioni sine qua non per l'ammissibilità degli affidamenti in house: come noto, si tratta del «controllo analogo» e della «prevalenza delle prestazioni del soggetto affidatario a favore dell'amministrazione appaltante». La prima condizione è soddisfatta, secondo i giudici, non solo dalla presenza di un rappresentante del Ministero in tutti gli organi direttivi del Consorzio, ma anche dalla previsione statutaria secondo la quale il Consorzio necessita del consenso del Ministero per le decisioni più importanti, configurando così una sorta di «diritto di veto» da parte del Ministero stesso sulle attività del consorzio.
Per quanto riguarda, poi, il secondo requisito, il Consiglio fa presente che la suddetta Direttiva Ue, all'articolo 12, quantifica le attività che l'affidataria deve effettuare nello svolgimento dei compiti ad essa assegnata dall'appaltante nella soglia minima dell'80% del fatturato totale, o di un'idonea misura alternativa basata sull'attività (quale, ad esempio, i costi sostenuti dalla persona giuridica o dall'amministrazione aggiudicatrice in questione nei campi dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l'aggiudicazione dell'appalto). Anche questa condizione appare, quindi, soddisfatta: i giudici amministrativi rilevano, infatti, come, secondo i dati forniti dal Consorzio stesso, la quasi totalità del fatturato derivi dai servizi resi nell'interesse dei consorziati.
La principale novità contenuta nel parere risiede nelle considerazioni svolte dai giudici in merito al terzo requisito fondamentale degli affidamenti in house, ovvero la totale partecipazione pubblica nel capitale del soggetto affidatario: sul punto, i giudici amministrativi fanno nuovamente riferimento alla disciplina introdotta dalla Direttiva Ue 2014/24, che prevede, come eccezione alla totale partecipazione pubblica, la presenza nel capitale dell'affidataria in house anche di soggetti privati la cui forma di partecipazione non sia tale da esercitare un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata e, conseguentemente, da non alterare il requisito del «controllo analogo» da parte dell'ente pubblico. La presenza nel capitale del Consorzio di alcune Università private, in misura pari al 2%, non configura, pertanto, secondo i giudici del Consiglio di stato, una fattispecie tale da comportarne un'influenza determinante.
Nel motivare il proprio parere, il Consiglio richiama gli avvisi negativi emessi dalle Autorità indipendenti, in particolare quelli dell'Autorità garante della Concorrenza e del Mercato e dall'Autorità nazionale anticorruzione. Da un lato l'Antitrust, infatti, rilevava come fattispecie incompatibile con l'affidamento in house la presenza nel capitale del Consorzio di alcune Università private, mentre dall'altro l'Autorità nazionale anticorruzione focalizzava la propria attenzione su alcune previsioni statutarie relative alle modalità operative del Consorzio.
In particolare, l'Autorità evidenziava come non fosse in linea con il modello dell'in house la possibilità per il Consorzio di svolgere attività d'impresa attraverso l'acquisizione di partecipazioni in società di capitali o in altri consorzi, oltre alla facoltà di demandare a terzi l'esercizio delle attività affidate, pur mantenendone la titolarità nei confronti del committente. In merito a questo ultimo punto, i giudici di Palazzo Spada sottolineano in aggiunta che le attività che il Consorzio intenderebbe affidare esternamente dovrebbero, comunque, sottostare a procedimenti di evidenza pubblica.
Secondo i giudici, tali pareri, cronologicamente anteriori all'entrata in vigore della Direttiva Ue in questione, risultano essere superati dalla nuova normativa europea, il cui contenuto specifico rende applicabile la Direttiva nonostante il mancato recepimento nel nostro ordinamento e legittima, quindi, l'affidamento in house oggetto del quesito posto al loro esame (articolo ItaliaOggi del 06.03.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIl dovere di diligenza che fa capo al titolare di un fondo non può arrivare al punto di richiedere una costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad estranei di invadere l'area e, per quanto riguarda la fattispecie regolata dall'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006, di abbandonarvi i rifiuti.
La richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe, oltremodo, gli ordinari canoni della diligenza media (e del buon padre di famiglia), che è alla base della nozione di colpa, quando questa è indicata in modo generico, come nella specie, senza ulteriori specificazioni.
Ai titolari del diritto di proprietà dell’area su cui insistono i rottami non è in alcun modo soggettivamente imputabile l’evento che ha dato luogo all’incidente aeronautico in questione. Non colgono nel segno, quindi, le argomentazioni contenute nei motivi aggiunti, con conseguente infondatezza della censura di illegittimità per avere, l’ordinanza, omesso il coinvolgimento degli stessi proprietari.
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E’ inconferente l’argomentazione circa l’eccessiva onerosità dell’operazione di recupero per la ricorrente. I
l terzo comma dell’art. 192 del Codice dell’Ambiente su cui si fonda l’ordinanza adottata dall’amministrazione, infatti, prevede che: “Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 25, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
E’ quindi di palmare evidenza che il potere di ordinanza azionato dall’amministrazione non consente valutazioni ulteriori, rispetto all’accertamento di un atto di abbandono di rifiuti, dell’identificazione del soggetto che tale abbandono ha compiuto.
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Rilevato che sono chiaramente emersi i necessari presupposti fattuali per l’adozione dell’ordinanza, deve concludersi per la non annullabilità della medesima ai sensi dell’art. 21-octies della Legge 241/1990.
Il ragionamento che propone la ricorrente è rovesciato rispetto alla stessa realtà fattuale di fronte alla quale ci si ritrova. L 'art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006, conformemente a quanto prima già prevedeva l'art. 14 del d.lgs. n. 22 del 1997, impone che l'ordine di rimozione sia rivolto nei confronti dell'autore dell'abbandono. Qui non ci si trova in presenza di accertamenti da effettuare per il rinvenimento di rifiuti abbandonati da ignoti poiché non si vede a chi altri (se non alla compagnia aerea) possa essere destinato l’ordine di rimozione dei rottami risultanti dalla ormai risalente sciagura.
In materia di comunicazione di avvio devono prevalere canoni interpretativi di tipo sostanzialistico e teleologico, non formalistico. Poiché l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo è strumentale ad esigenze di conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione amministrativa da parte del cittadino nella cui sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere -in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del provvedimento- l'omissione di tale formalità non vizia il procedimento quando il contenuto di quest'ultimo sia interamente vincolato, pure con riferimento ai presupposti di fatto, nonché tutte le volte in cui la conoscenza sia comunque intervenuta, così da ritenere già raggiunto in concreto lo scopo cui tende siffatta comunicazione.
La comunicazione di avvio del procedimento può ritenersi superflua quando: - l'adozione del provvedimento finale è doverosa (oltre che vincolata) per l'amministrazione; i presupposti fattuali dell'atto risultano assolutamente incontestati dalle parti; - il quadro normativo di riferimento non presenta margini di incertezza sufficientemente apprezzabili; - l'eventuale annullamento del provvedimento finale, per accertata violazione dell'obbligo formale di comunicazione, non priverebbe l'amministrazione del potere o addirittura del dovere di adottare un nuovo provvedimento di identico contenuto.

... per l'annullamento dell'ordinanza n. 18 del 15.07.2013, emessa dal Comune di Sarroch, con la quale invita la ricorrente a provvedere a proprie spese alla rimozione e smaltimento di tutti i rifiuti abbandonati in località "Conca d'Oru";
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Come è noto, il dovere di diligenza che fa capo al titolare di un fondo non può arrivare al punto di richiedere una costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire ad estranei di invadere l'area e, per quanto riguarda la fattispecie regolata dall'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006, di abbandonarvi i rifiuti. La richiesta di un impegno di tale entità travalicherebbe, oltremodo, gli ordinari canoni della diligenza media (e del buon padre di famiglia), che è alla base della nozione di colpa, quando questa è indicata in modo generico, come nella specie, senza ulteriori specificazioni.
Ai titolari del diritto di proprietà dell’area su cui insistono i rottami non è in alcun modo soggettivamente imputabile l’evento che ha dato luogo all’incidente aeronautico in questione. Non colgono nel segno, quindi, le argomentazioni contenute nei motivi aggiunti, con conseguente infondatezza della censura di illegittimità per avere, l’ordinanza, omesso il coinvolgimento degli stessi proprietari.
Infondate sono anche le censure contenute nei motivi aggiunti basate, da un lato, sulla comunque indimostrata usucapione dei beni da parte dei proprietari, in conseguenza della quale la ricorrente sarebbe sollevata da ogni responsabilità per la rimozione dei rifiuti. Dall’altro, va aggiunto che i rottami dell’aereo precipitato costituiscono rifiuti ai sensi del citato articolo 192, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente. Detti rottami sono infatti ormai giacenti, non su un’area interna al sedime aeroportuale che ne impedirebbe la qualificazione di “rifiuto”, da lungo periodo ed in stato di totale abbandono, con l’effetto che, in base alla nozione di rifiuto, si realizza l’elemento oggettivo cui deve fondarsi l’ordinanza di rimozione adottata dall’amministrazione.
E’ poi inconferente l’argomentazione circa l’eccessiva onerosità dell’operazione di recupero per la ricorrente. Il terzo comma dell’art. 192 del Codice dell’Ambiente su cui si fonda l’ordinanza adottata dall’amministrazione, infatti, prevede che: “Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 25, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
E’ quindi di palmare evidenza che il potere di ordinanza azionato dall’amministrazione non consente valutazioni ulteriori, rispetto all’accertamento di un atto di abbandono di rifiuti, dell’identificazione del soggetto che tale abbandono ha compiuto.
Neanche coglie nel segno la lamentata violazione dell’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento.
Rilevato che sono chiaramente emersi i necessari presupposti fattuali per l’adozione dell’ordinanza, deve concludersi per la non annullabilità della medesima ai sensi dell’art. 21-octies della Legge 241/1990. Il ragionamento che propone la ricorrente è rovesciato rispetto alla stessa realtà fattuale di fronte alla quale ci si ritrova. L 'art. 192 del d.lgs. n. 152 del 2006, conformemente a quanto prima già prevedeva l'art. 14 del d.lgs. n. 22 del 1997, impone che l'ordine di rimozione sia rivolto nei confronti dell'autore dell'abbandono. Qui non ci si trova in presenza di accertamenti da effettuare per il rinvenimento di rifiuti abbandonati da ignoti poiché non si vede a chi altri (se non alla compagnia aerea) possa essere destinato l’ordine di rimozione dei rottami risultanti dalla ormai risalente sciagura.
In materia di comunicazione di avvio devono prevalere canoni interpretativi di tipo sostanzialistico e teleologico, non formalistico. Poiché l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo è strumentale ad esigenze di conoscenza effettiva e, conseguentemente, di partecipazione all'azione amministrativa da parte del cittadino nella cui sfera giuridica l'atto conclusivo è destinato ad incidere -in modo che egli sia in grado di influire sul contenuto del provvedimento- l'omissione di tale formalità non vizia il procedimento quando il contenuto di quest'ultimo sia interamente vincolato, pure con riferimento ai presupposti di fatto, nonché tutte le volte in cui la conoscenza sia comunque intervenuta, così da ritenere già raggiunto in concreto lo scopo cui tende siffatta comunicazione.
La comunicazione di avvio del procedimento può ritenersi superflua quando: l'adozione del provvedimento finale è doverosa (oltre che vincolata) per l'amministrazione; i presupposti fattuali dell'atto risultano assolutamente incontestati dalle parti; il quadro normativo di riferimento non presenta margini di incertezza sufficientemente apprezzabili; l'eventuale annullamento del provvedimento finale, per accertata violazione dell'obbligo formale di comunicazione, non priverebbe l'amministrazione del potere o addirittura del dovere di adottare un nuovo provvedimento di identico contenuto (Consiglio di Stato, sez. IV, 17.09.2012, n. 4925; in senso sostanzialmente conforme, Consiglio di Stato, sez. IV, 15.12.2011, n. 6618 e Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 15.12.2011, n. 1014) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 21.01.2015 n. 198 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Previsione paesistica non immodificabile. Lo afferma il tribunale amministrativo ligure.
La previsione paesistica orientata al mantenimento di un'area non ne implica l'assoluta immodificabilità, quanto la necessità che ogni nuovo impianto si inserisca in modo armonioso con le preesistenze.

È quanto è stato affermato con sentenza 16.01.2015 n. 83 dalla I Sez. del TAR Liguria.
I giudici amministrativi genovesi sono stati chiamati a esprimersi su un caso in cui alcuni cittadini si ritenevano lesi dal permesso di costruire rilasciato dall'autorità comunale.
Appare opportuno in sede di commento sottolineare che si definisce incidenza paesistica di un progetto l'entità e la natura del condizionamento che il progetto stesso esercita sull'assetto paesistico del contesto, in ragione delle dimensioni geometriche di ingombro planimetrico e di altezza, del linguaggio architettonico con il quale si esprime, della natura delle attività che è destinato a ospitare. E inoltre l'impatto paesistico esprime l'entità dei prevedibili effetti sul paesaggio conseguenti alla realizzazione dell'intervento progettato.
Nello specifico l'impugnazione aveva per oggetto il titolo assentito dal comune in favore dei controinteressati per l'edificazione di un'autorimessa scoperta e coperta.
I ricorrenti denunciavano l'illegittimità del permesso di costruire rilasciato in quanto i soggetti beneficiati non avrebbero avuto titolo a richiederlo in mancanza del consenso dei ricorrenti stessi, che risultavano proprietari di parte del sedime su cui era tracciata la strada privata che congiunge il fondo interessato dall'intervento alla viabilità cittadina.
Secondo i giudici liguri l'aver concesso a terzi un diritto di servitù su un bene immobile non comporta di per sé l'accertamento della proprietà sul sedime di che si tratta, essendo invece necessari più specifici titoli per comprovare la situazione vantata.
Inoltre, l'opera sporgeva dal suolo nella ridotta misura indicata, sì che non poteva qualificarsi alla stregua di una costruzione sopraelevata. Oltre a ciò non era provato che le fronti contrapposte fossero finestrate.
Per consuetudine, infatti, al fine della determinazione del grado di sensibilità paesistica del sito, ovvero dell'insieme costituito dal sedime sul quale insistono materialmente le opere progettate e dal contesto che interagisce con l'ambito stesso, vengono solidamente presi in considerazione, sulla base dei presupposti offerti dalla normativa del Piano territoriale paesistico regionale, quattro criteri di valutazione (vedutistico, sistemico, dinamico e locale) (articolo ItaliaOggi del 02.03.2015).

EDILIZIA PRIVATAIl manufatto per cui è causa non può ricondursi alla nozione del muro di cinta, atteso che non assolve la mera funzione di delimitare la proprietà ma anche quella di contenimento del terreno, tale da consentire l'edificazione ad una quota diversa rispetto a quella naturale.
Invero, per muro di cinta, nella dizione contenuta nell'art. 4, comma 7, lett. c), D.L. 05.10.1993 n. 398, convertito con modificazioni in L. 04.12.1993 n. 493, e sostituito per effetto dell'art. 2, comma 60, L. 23.12.1996 n. 662, devono intendersi le opere di recinzione, non suscettibili di modificare o alterare sostanzialmente la conformazione del terreno, che assumono natura pertinenziale in quanto hanno esclusivamente la funzione di delimitare, proteggere o eventualmente abbellire la proprietà; ben diversa è invece la consistenza e la funzione dei cc.dd. “muri di contenimento”, i quali si differenziano sostanzialmente dalle mere recinzioni non solo per la funzione, ma anche perché servono a sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso e quindi devono necessariamente presentare una struttura a ciò idonea per consistenza e modalità costruttive.
Di conseguenza il muro di contenimento, pur potendo assolvere, in rapporto alla situazione dei luoghi, anche una concomitante funzione di recinzione, sotto il profilo edilizio è un'opera ben più consistente di una recinzione in quanto non esclusivamente preordinata a recingere la proprietà e, soprattutto, è dotata di propria specificità ed autonomia, in relazione alla sua funzione principale; il che esclude la sua riconducibilità al concetto di pertinenza, conseguendone sia la necessità del suo assoggettamento al regime concessorio, sia la legittimità della sanzione della demolizione prevista per il caso di assenza di concessione.

In altri termini il tecnico del ricorrente riferisce che esisteva un dislivello fra i due terreni: circostanza che trova conferma nelle foto n. 9 e n. 13 allegate alla relazione.
Risulta, dunque, documentata per tabulas la preesistenza del dislivello successivamente colmato con terreno di riporto fino a rendere pianeggiante la quota di calpestio del terreno del ricorrente.
Da ciò discende che il manufatto per cui è causa non può ricondursi alla nozione del muro di cinta, atteso che non assolve la mera funzione di delimitare la proprietà ma anche quella di contenimento del terreno, tale da consentire l'edificazione ad una quota diversa rispetto a quella naturale.
Invero, “per muro di cinta, nella dizione contenuta nell'art. 4, comma 7, lett. c), D.L. 05.10.1993 n. 398, convertito con modificazioni in L. 04.12.1993 n. 493, e sostituito per effetto dell'art. 2, comma 60, L. 23.12.1996 n. 662, devono intendersi le opere di recinzione, non suscettibili di modificare o alterare sostanzialmente la conformazione del terreno, che assumono natura pertinenziale in quanto hanno esclusivamente la funzione di delimitare, proteggere o eventualmente abbellire la proprietà; ben diversa è invece la consistenza e la funzione dei cc.dd. “muri di contenimento”, i quali si differenziano sostanzialmente dalle mere recinzioni non solo per la funzione, ma anche perché servono a sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso e quindi devono necessariamente presentare una struttura a ciò idonea per consistenza e modalità costruttive. Di conseguenza il muro di contenimento, pur potendo assolvere, in rapporto alla situazione dei luoghi, anche una concomitante funzione di recinzione, sotto il profilo edilizio è un'opera ben più consistente di una recinzione in quanto non esclusivamente preordinata a recingere la proprietà e, soprattutto, è dotata di propria specificità ed autonomia, in relazione alla sua funzione principale; il che esclude la sua riconducibilità al concetto di pertinenza, conseguendone sia la necessità del suo assoggettamento al regime concessorio, sia la legittimità della sanzione della demolizione prevista per il caso di assenza di concessione” (Cons. Stato, sez. V, 08.04.2014, n. 1651; v. anche TAR Abruzzo, L'Aquila, sez. I, 14.02.2013, n. 145; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 08.11.2012, n. 2687; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 26.10.2012, n. 4275)
(TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 15.01.2015 n. 7 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di repressione degli abusi edilizi, qualora il ricorrente non fosse l’effettivo proprietario del manufatto abusivo non avrebbe interesse a dolersi della mancata notifica dell’ordine di demolizione al proprietario.
L'amministrazione, infatti, non è tenuta ad individuare l'effettivo proprietario dell'area sulla quale viene realizzato l'abuso edilizio perché, qualora tale soggetto non corrisponda con l'autore materiale dell'abuso, l'ordine di demolizione può essere notificato anche esclusivamente all'autore materiale dell'abuso, fermo restando che l'estraneità del proprietario dell'area alla realizzazione dell'abuso comporta che l'ordine di demolizione non può costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insistono le opere abusive.
La mancata notifica dell'ordine di demolizione al proprietario del fondo —laddove questi sia un soggetto diverso dal responsabile dell'abuso— non incide dunque sulla legittimità dell'ordine di demolizione, posto che la notifica di un provvedimento al suo destinatario attiene alla c.d. fase integrativa dell'efficacia.
In altri termini l’unica conseguenza della ipotetica mancata notifica dell'ordinanza all'effettivo proprietario sarebbe quella dell'impossibilità di immediata emanazione di un provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio del Comune del manufatto e della relativa area di sedime.

Oggetto del giudizio non è, dunque, l'accertamento del confine di proprietà, non essendo quello pendente dinanzi al Tribunale di Parma un giudizio petitorio, sicché la proprietà, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente non è incerta, come risulta dalle relazioni peritali del CTU geom. C. e dello stesso CTP geom. A..
D’altra parte, qualora il ricorrente non fosse l’effettivo proprietario del manufatto abusivo non avrebbe interesse a dolersi della mancata notifica dell’ordine di demolizione al proprietario.
In definitiva nessuna indagine ulteriore poteva esigersi dall’amministrazione in ordine all’individuazione della parte proprietaria del muro, che risulta oggettivamente realizzato sulla proprietà del ricorrente.
L'amministrazione, infatti, non è tenuta ad individuare l'effettivo proprietario dell'area sulla quale viene realizzato l'abuso edilizio perché, qualora tale soggetto non corrisponda con l'autore materiale dell'abuso, l'ordine di demolizione può essere notificato anche esclusivamente all'autore materiale dell'abuso, fermo restando che l'estraneità del proprietario dell'area alla realizzazione dell'abuso comporta che l'ordine di demolizione non può costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insistono le opere abusive.
La mancata notifica dell'ordine di demolizione al proprietario del fondo —laddove questi sia un soggetto diverso dal responsabile dell'abuso— non incide dunque sulla legittimità dell'ordine di demolizione, posto che la notifica di un provvedimento al suo destinatario attiene alla c.d. fase integrativa dell'efficacia (cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I, 05.11.2013, n. 9386).
In altri termini l’unica conseguenza della ipotetica mancata notifica dell'ordinanza all'effettivo proprietario sarebbe quella dell'impossibilità di immediata emanazione di un provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio del Comune del manufatto e della relativa area di sedime.
Quanto al dedotto difetto di motivazione il Collegio osserva che, una volta accertata la consistenza dell’abuso, l’obbligo di motivazione deve ritenersi assolto in re ipsa con l’adozione del provvedimento sanzionatorio il cui contenuto è rigorosamente vincolato.
Invero l'ordinanza di demolizione di opera edilizia abusivamente realizzata costituisce doveroso e imprescindibile esercizio del potere sanzionatorio da parte della Pubblica amministrazione; essa è, infatti, un atto vincolato che non richiede né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, non potendosi nemmeno ammettere l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non potrebbe legittimare (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.05.2014, n. 2696)
(TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 15.01.2015 n. 7 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Manca il certificato di agibilità? Sì alla risoluzione della vendita immobiliare.
Il Tribunale di Taranto, sezione II civile, affronta un caso di richiesta di risoluzione del contratto di compravendita di un immobile per il mancato rilascio del certificato di agibilità. Infatti, nell’atto di compravendita, il venditore si era impegnato alla consegna del certificato entro un anno dalla stipula dell’atto. Ciò che non si era verificato, risultando al contrario del tutto chiaro che non si sarebbe mai potuto raggiungere tale obiettivo, in quanto il Comune interessato aveva deciso di sospendere tutte le richieste riguardanti gli immobili della zona interessata.
Infatti, secondo il soggetto pubblico, era emersa una non corrispondenza urbanistica, considerato che nella zona in cui erano stati costruiti gli immobili si sarebbe al più potuto costruire un alloggio per un custode, in relazione ad edifici destinati ad attività produttive, visto che l’area interessata aveva per destinazione urbanistica la sola attività terziaria. Di contro la parte venditrice sostiene davanti al giudice di merito che il responsabile del mancato rilascio del certificato di agibilità poteva essere considerato esclusivamente il Comune, in quanto aveva posto la propria decisione di sospendere l’iter amministrativo solo perché pendente un procedimento penale, dovendosi al contrario pronunciare nel caso per il rigetto, senza attendere la definizione del procedimento stesso.
In ogni caso, l’Amministrazione comunale, se avesse ritenuto che si fosse configurato un illecito urbanistico, avrebbe dovuto adottare la revoca della concessione edilizia. Infine, il convenuto evidenziava che, pur in assenza del certificato di agibilità, il bene era idoneo a svolgere la sua funzione, tanto da essere stato abitato dagli attori. Il giudice di merito non può far altro che accogliere la domanda principale e dichiarare la risoluzione del contratto di vendita dedotto in giudizio. Infatti, la circostanza che non sia stata rilasciata la certificazione di agibilità integra una grave forma di inadempimento ai sensi dell’art. 1455 del codice civile, a maggior ragione se si considera la circostanza che nello stesso atto di vendita era stato preso un impegno in tal senso.
Pur in presenza di una regolare concessione edilizia, il giudice osserva che il suo rilascio era diretto alla realizzazione di edifici con destinazione ad attività terziaria, per la quale sarebbe stata ammessa una casa per il custode. Al contrario, il progetto edilizio si trasformava di fatto in una lottizzazione abusiva con la realizzazione di diverse abitazioni.
Nessuna esclusione della gravità dell’addebito può derivare dalla circostanza che gli acquirenti abbiano abitato l’immobile. Infatti, conclude il giudice di merito, la gravità del mancato rilascio della certificazione indicata può escludersi quando il suo mancato rilascio dipende dalla semplice inerzia della P.A., pur essendo il bene venduto, conforme alla disciplina urbanistica, ma non quando, come nel caso in esame è conclamata la difformità tra concessione edilizia e quanto di fatto costruito. Né esclude la gravità dell’inadempimento la circostanza che il Comune si fosse limitato a sospendere la pratica relativa al rilascio della certificazione in parola, anziché rigettarla, in attesa della definizione del procedimento penale (TRIBUNALE di Taranto, Sez. II civile, sentenza 10.12.2014 n. 3721 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Immobili da costruire: fideiussione a scadenza fissa rende nulla la vendita.
La pronuncia in oggetto si occupa di un importante profilo applicativo della garanzia fideiussoria obbligatoria accessoria ai contratti “aventi ad oggetto il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le medesime finalità”.
Si tratta dei contratti disciplinati dal D.Lgs. n. 122/2005. L’intervento legislativo del 2005 è finalizzato a tutelare l’acquirente di un bene immobile non ancora esistente dai pregiudizi economici derivanti dal verificarsi di eventuali situazioni di dissesto economico del costruttore, potenzialmente impeditive del completamento dell’opera e del recupero degli esborsi sostenuti dall’acquirente ai fini dell’acquisto.
Tra le forme di tutela predisposte a favore dell’acquirente dal D.Lgs. 122/2005 figura l’obbligo di rilascio, a cura del costruttore, di una garanzia fideiussoria accessoria al contratto (ad effetto traslativo non immediato) “di importo corrispondente alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso” (art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 122/2005) a titolo di prezzo del trasferimento dell’immobile da costruire. L’adempimento di tale obbligo è previsto a pena di nullità del contratto.
Il Tribunale fiorentino esamina, nel caso di specie, una vicenda riguardante la garanzia fideiussoria rilasciata in occasione della stipula di un preliminare (avente ad oggetto un bene immobile da costruire), individuando la ratio dell’obbligo di rilascio della garanzia nella “tutela degli acquirenti di immobili da costruire dal rischio che, nel lasso di tempo intercorrente tra la stipula di un contratto preliminare e la stipula del definitivo, l’intervenuta situazione di crisi (pignoramento dell’immobile oggetto del preliminare, fallimento, concordato preventivo, et cetera) del promittente venditore possa impedire l’acquisto della proprietà da parte dell’acquirente e, al contempo, fargli perdere le somme già versate in anticipo”.
Da ciò inferisce che la garanzia fideiussoria accessoria ad un contratto preliminare, rilasciata ai sensi dell’art. 2, D.Lgs. n. 122/2005, non può avere una scadenza anteriore al momento dell’effettivo trasferimento della proprietà (o di altro diritto reale) dell’immobile oggetto del preliminare, né anteriore alla data effettiva della stipula del contratto definitivo. Pertanto non può definirsi conforme alla previsione normativa una garanzia fideiussoria accessoria la cui scadenza venga fatta coincidere con la data (meramente programmata) di stipula del contratto definitivo.
In altre parole la garanzia fideiussoria, ai fini della validità del contratto principale, non può avere un’efficacia condizionata al consumarsi di un termine fisso, costituito, nel caso di specie, dalla data prevista per la stipula del contratto preliminare. Difatti risulta evidente “che il promissario acquirente rimarrebbe sfornito di tutela qualora per qualsiasi ragione non venisse rispettato il termine per la stipula del definitivo, in quanto la garanzia fideiussoria scadrebbe ugualmente”.
Il ragionamento del giudice toscano si conclude affermando che la garanzia fideiussoria agganciata al termine fisso coincidente con la data di stipula (meramente programmata) del definitivo rimarrebbe conforme al dettato legislativo, e quindi non produttiva di nullità del contratto preliminare, se al contempo venisse pattuita, in caso di ritardo nel trasferimento della proprietà dell’immobile, una possibilità di proroga o di rinnovo automatico della fideiussione rimessa in via esclusiva alla volontà del promissario acquirente (TRIBUNALE di Firenze, Sez. III, sentenza 25.11.2014  - link a www.altalex.com).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La partecipazione degli interessati al procedimento costituisce un principio generale dell’ordinamento giuridico per cui ogni disposizione che limiti o escluda tale diritto va interpretata in modo rigoroso, al fine di evitare di vanificare od eludere il principio stesso.
Tuttavia, nel procedimento amministrativo si bilanciano esigenze di legalità ed esigenze di efficienza e spesso il loro equilibrio è oggetto di sindacato giurisdizionale, teso a verificare, da una parte la sussistenza dell’obbligo di legge e il suo puntuale rispetto da parte della P.A., e dall’altro l’esistenza di ragioni che consentano di non ritenere viziante, sul piano della legittimità del provvedimento finale, l’omessa comunicazione di avvio, con prevalenza, nel caso concreto, di considerazioni teleologiche e finalistiche relative al raggiungimento effettivo e sostanziale dello scopo della norma tesa ad assicurare la partecipazione.
Ciò comporta che le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente, nel senso che occorra annullare ogni procedimento in cui sia mancata la fase partecipativa, dovendosi piuttosto interpretare nel senso che la comunicazione è superflua- con prevalenza dei principi di economicità e speditezza dell’azione amministrativa- quando l’interessato sia venuto comunque a conoscenza di vicende che conducono comunque all’apertura di un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti.
In materia di comunicazione di avvio del procedimento prevalgono, quindi, canoni interpretativi di tipo sostanzialistico e teleologico, non formalistico e in tal senso si è venuta evolvendo l’interpretazione dell’art. 7 della L. n. 241 del 1990.
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In relazione al tema della comunicazione di avvio del procedimento teso all’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi, va ricordato che si è ormai consolidato un orientamento giurisprudenziale che ritiene non necessario l’avviso dell’inizio del procedimento, trattandosi di atti tipizzati, di natura strettamente vincolata, che non richiedono apporti partecipativi del soggetto interessato, che è comunque posto in condizione di interloquire con l’Amministrazione prima di ogni definitiva e conclusiva statuizione di rimozione d’ufficio delle opere abusive.
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Consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene, nel caso di provvedimenti finali di natura vincolata, l’applicabilità del principio di cui all’art. 21-octies, comma 2, della medesima legge n. 241 secondo cui non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti quando risulti palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con istanza di sospensiva, proposto dal signor Antonino D'Esposito e dalla signora Anna Somma, contro Comune di Sant'Agnello, avverso diniego istanza accertamento di conformità e ingiunzione di demolizione opere abusive;
...
Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 7 e 8 della l. n. 241 del 1990 per mancato avviso dell’avvio del procedimento.
Ritiene la Sezione che il motivo non sia fondato.
Invero, la partecipazione degli interessati al procedimento costituisce un principio generale dell’ordinamento giuridico (Cons. Stato, V Sez., 22.05.2001 n. 2823) per cui ogni disposizione che limiti o escluda tale diritto va interpretata in modo rigoroso, al fine di evitare di vanificare od eludere il principio stesso.
Tuttavia, nel procedimento amministrativo si bilanciano esigenze di legalità ed esigenze di efficienza e spesso il loro equilibrio è oggetto di sindacato giurisdizionale, teso a verificare, da una parte la sussistenza dell’obbligo di legge e il suo puntuale rispetto da parte della P.A., e dall’altro l’esistenza di ragioni che consentano di non ritenere viziante, sul piano della legittimità del provvedimento finale, l’omessa comunicazione di avvio, con prevalenza, nel caso concreto, di considerazioni teleologiche e finalistiche relative al raggiungimento effettivo e sostanziale dello scopo della norma tesa ad assicurare la partecipazione.
Ciò comporta che le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente, nel senso che occorra annullare ogni procedimento in cui sia mancata la fase partecipativa, dovendosi piuttosto interpretare nel senso che la comunicazione è superflua- con prevalenza dei principi di economicità e speditezza dell’azione amministrativa- quando l’interessato sia venuto comunque a conoscenza di vicende che conducono comunque all’apertura di un procedimento con effetti lesivi nei suoi confronti (Cons. Stato, V 22.05.2001 n. 2823).
In materia di comunicazione di avvio del procedimento prevalgono, quindi, canoni interpretativi di tipo sostanzialistico e teleologico, non formalistico e in tal senso si è venuta evolvendo l’interpretazione dell’art. 7 della L. n. 241 del 1990.
In relazione al tema della comunicazione di avvio del procedimento teso all’adozione di provvedimenti repressivi di abusi edilizi, va ricordato che si è ormai consolidato un orientamento giurisprudenziale che ritiene non necessario l’avviso dell’inizio del procedimento, trattandosi di atti tipizzati, di natura strettamente vincolata, che non richiedono apporti partecipativi del soggetto interessato, che è comunque posto in condizione di interloquire con l’Amministrazione prima di ogni definitiva e conclusiva statuizione di rimozione d’ufficio delle opere abusive (TAR Lazio. Sez. II, 31.01.2001 n. 782).
Sotto tale profilo appaiono, quindi, infondate, le censure dei ricorrenti.
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Con il secondo motivo di ricorso viene dedotta la violazione dell’art. 10-bis l. n. 241 del 1990, perché l’Amministrazione non avrebbe preventivamente comunicato i motivi che ostavano all’accoglimento dell’istanza di accertamento di conformità.
Anche tale censura non appare fondata alla luce di analogo consolidato orientamento giurisprudenziale che ritiene, nel caso di provvedimenti finali di natura vincolata, l’applicabilità del principio di cui all’art. 21-octies, comma 2, della medesima legge n. 241 secondo cui non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti quando risulti palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (Cons. Stato, V Sez., 10.10.2007 n. 5321)
(Consiglio di Stato, Sez. II, parere 01.04.2014 n. 1059 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’indennità attualmente prevista dall’art. 167, comma. 5, del D.L.vo 22.01.2004 n. 42 –e, in precedenza, dall’art. 15 della L. 29.06.1939 n. 1497- è una sanzione amministrativa, e non una forma di risarcimento del danno.
In dipendenza di ciò, la sua irrogazione si concreta in un atto dovuto che può anche prescindere dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale; quest’ultimo, unitamente al profitto conseguito, rileva infatti solo come parametro alternativo per la commisurazione del quantum della sanzione, che deve avvenire in via sostanzialmente equitativa ed essere ricollegata ad una stima tecnica di carattere generale, insuscettibile di una dimostrazione articolata ed analitica: e ciò in quanto il danno paesaggistico, per sua intrinseca natura, sfugge ad una indagine dettagliata e minuta.
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Risulta assolutamente prevalente l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale a tale sanzione pecuniaria si applica l’istituto della prescrizione della sanzione amministrativa per intervenuto decorso del termine quinquennale di cui all’art. 28, primo comma, della L. 24.11.1981 n. 689 (cfr. ivi: “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”), identificandosi il dies a quo del termine prescrizionale nella data di cessazione della permanenza dell’illecito paesaggistico laddove risulti che il responsabile della violazione non si sia limitato a munirsi del parere endoprocedimentale in materia paesaggistica ma abbia concluso positivamente la procedura di condono dell’abuso edilizio di cui all’art. 31 e ss. della L. 28.02.1985 n. 47 e successive modifiche.
Pertanto, il rilascio del titolo edilizio in sanatoria non può non determinare la cessazione delle permanenza anche dell’illecito paesaggistico.
Del resto, è incontestata l’applicazione del regime di prescrizione sopradescritto a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (cfr. art. 12 della L. 689 del 1981) e, quindi, non solo anche agli illeciti amministrativi in materia paesaggistica, ma anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistico-edilizia.
Quanto alla predetta individuazione del dies a quo rilevante per il computo del termine di prescrizione, necessita –per l’appunto– considerare la particolare natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, di talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento dei competenti titoli abilitativi.
Più in dettaglio, va rilevato che per la decorrenza della prescrizione dell’illecito amministrativo permanente trova applicazione il principio relativo al reato permanente, secondo il quale il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la permanenza (cfr. art. 158, primo comma, cod. pen.) e che –come detto innanzi- per gli illeciti amministrativi in materia paesistica e urbanistico-edilizia la prescrizione quinquennale di cui all’art. 28 della L. 698 del 1981 inizia a decorrere soltanto dalla cessazione della permanenza, con la conseguenza che il potere amministrativo repressivo come la determinazione di applicare la sanzione pecuniaria possono essere esercitati senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo.
In particolare, è stato osservato che per quanto concerne il momento in cui può dirsi cessata la permanenza per gli illeciti amministrativi in materia urbanistica edilizia e paesistica, se per l’irrogazione della sanzione penale rileva la condotta commissiva con la conseguenza che la prescrizione del reato inizia a decorrere dalla sua ultimazione, per il diritto amministrativo rileva l’omissione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare secundum jus lo stato dei luoghi, con l’ulteriore conclusione che se l’Autorità emana un provvedimento repressivo (di demolizione, ovvero di irrogazione di una sanzione pecuniaria), non emana un atto “a distanza di tempo” dall’abuso, ma reprime una situazione antigiuridica contestualmente contra jus, ancora sussistente.
Dalle considerazioni che precedono si ricava, dunque, che nell’ambito dell’illecito amministrativo la permanenza cessa (e il termine quinquennale di prescrizione inizia conseguentemente a decorrere) o con l’irrogazione della sanzione pecuniaria, o con il conseguimento del titolo in sanatoria.
Altresì, il secondo comma del medesimo art. 28 della L. 689/1981 rinvia alle regole civilistiche in materia di interruzione della prescrizione, e che in tema di sanzioni amministrative ogni atto del procedimento previsto dalla legge per l’accertamento della violazione e per l’irrogazione della sanzione ha la funzione di far valere il diritto dell’Amministrazione alla riscossione della pena pecuniaria in quanto, costituendo esercizio della pretesa sanzionatoria, è idoneo a costituire in mora il debitore ai sensi dell’art. 2943 c.c., con conseguente effetto interruttivo della prescrizione.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con istanza sospensiva, proposto da E.G., contro Regione Puglia, e nei confronti di Comune di Nardò, avverso la determinazione del Dirigente dell’Ufficio Osservatorio Abusivismo e Contenzioso della Regione Puglia n. 371 dd. 02.11.2010, recante l’ingiunzione a pagare la somma di € 2.755,85- a’ sensi dell’art. 167, comma 5, del D.L.vo 22.01.2004 n. 42;
...
4. 1. Ciò posto, il ricorso in epigrafe va accolto.
4.2. L’indennità attualmente prevista dall’art. 167, comma. 5, del D.L.vo 22.01.2004 n. 42 –e, in precedenza, dall’art. 15 della L. 29.06.1939 n. 1497- è una sanzione amministrativa, e non una forma di risarcimento del danno.
In dipendenza di ciò, la sua irrogazione si concreta in un atto dovuto che può anche prescindere dalla sussistenza effettiva di un danno ambientale (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 28.07.2006 n. 4690, 03.04.2003 n. 1729 e 06.06.2000 n. 3185; Sez. IV, 15.11.2004 n. 7405, 03.11.2003 n. 7047, 12.11.2002 n. 6279, 08.11.2000 n. 6007 e 06.06.2000 n. 3185); quest’ultimo, unitamente al profitto conseguito, rileva infatti solo come parametro alternativo per la commisurazione del quantum della sanzione, che deve avvenire in via sostanzialmente equitativa ed essere ricollegata ad una stima tecnica di carattere generale, insuscettibile di una dimostrazione articolata ed analitica: e ciò in quanto il danno paesaggistico, per sua intrinseca natura, sfugge ad una indagine dettagliata e minuta (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 14.04.2010 n. 2083, 12.03.2009 n. 1464 e 25.11.2003 n. 7765).
4.3. Risulta assolutamente prevalente l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale a tale sanzione pecuniaria si applica l’istituto della prescrizione della sanzione amministrativa per intervenuto decorso del termine quinquennale di cui all’art. 28, primo comma, della L. 24.11.1981 n. 689 (cfr. ivi: “il diritto a riscuotere le somme dovute per le violazioni amministrative punite con pena pecuniaria si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata commessa la violazione”), identificandosi il dies a quo del termine prescrizionale nella data di cessazione della permanenza dell’illecito paesaggistico laddove risulti che il responsabile della violazione non si sia limitato a munirsi del parere endoprocedimentale in materia paesaggistica ma abbia concluso positivamente la procedura di condono dell’abuso edilizio di cui all’art. 31 e ss. della L. 28.02.1985 n. 47 e successive modifiche.
Pertanto, il rilascio del titolo edilizio in sanatoria non può non determinare la cessazione delle permanenza anche dell’illecito paesaggistico (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 12.03.2009 n. 1464 e 11.04.2007 n. 1585; Sez. V, 13.07.2006 n. 4420; Sez. II, 09.04.2008, n. 708/05; Cons. Giust. Sic. 02.03.2006 n. 79).
Del resto, è incontestata l’applicazione del regime di prescrizione sopradescritto a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie, anche se non previste in sostituzione di una sanzione penale (cfr. art. 12 della L. 689 del 1981) e, quindi, non solo anche agli illeciti amministrativi in materia paesaggistica, ma anche agli illeciti amministrativi in materia urbanistico-edilizia.
Quanto alla predetta individuazione del dies a quo rilevante per il computo del termine di prescrizione, necessita –per l’appunto– considerare la particolare natura degli illeciti in materia urbanistica, edilizia e paesistica, i quali, ove consistano nella realizzazione di opere senza le prescritte concessioni e autorizzazioni, hanno carattere di illeciti permanenti, di talché la commissione degli illeciti medesimi si protrae nel tempo, e viene meno solo con il cessare della situazione di illiceità, vale a dire con il conseguimento dei competenti titoli abilitativi.
Più in dettaglio, va rilevato che per la decorrenza della prescrizione dell’illecito amministrativo permanente trova applicazione il principio relativo al reato permanente, secondo il quale il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la permanenza (cfr. art. 158, primo comma, cod. pen.) e che –come detto innanzi- per gli illeciti amministrativi in materia paesistica e urbanistico-edilizia la prescrizione quinquennale di cui all’art. 28 della L. 698 del 1981 inizia a decorrere soltanto dalla cessazione della permanenza, con la conseguenza che il potere amministrativo repressivo come la determinazione di applicare la sanzione pecuniaria possono essere esercitati senza limiti di tempo e senza necessità di motivazione in ordine al ritardo (cfr. sul punto, Cons. Stato, Sez. V, 13.07.2006 n. 4420 e Sez. IV, 02.06.2000, nr. 3184).
In particolare, è stato osservato che per quanto concerne il momento in cui può dirsi cessata la permanenza per gli illeciti amministrativi in materia urbanistica edilizia e paesistica, se per l’irrogazione della sanzione penale rileva la condotta commissiva con la conseguenza che la prescrizione del reato inizia a decorrere dalla sua ultimazione, per il diritto amministrativo rileva l’omissione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare secundum jus lo stato dei luoghi, con l’ulteriore conclusione che se l’Autorità emana un provvedimento repressivo (di demolizione, ovvero di irrogazione di una sanzione pecuniaria), non emana un atto “a distanza di tempo” dall’abuso, ma reprime una situazione antigiuridica contestualmente contra jus, ancora sussistente (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 12.03.2009 n. 1464).
Dalle considerazioni che precedono si ricava, dunque, che nell’ambito dell’illecito amministrativo la permanenza cessa (e il termine quinquennale di prescrizione inizia conseguentemente a decorrere) o con l’irrogazione della sanzione pecuniaria, o con il conseguimento del titolo in sanatoria.
Va ancora denotato che a’ sensi dell’art. 32 della L. 47 del 1985 e successive modifiche gli abusi edilizi realizzati in aree vincolate, al di fuori dei casi nei quali il successivo art. 33 prevede espressamente l’insanabilità, sono suscettibili di sanatoria subordinatamente al rilascio del parere favorevole da parte dell’autorità preposta al vincolo, con l’espressa precisazione che il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria estingue anche il reato derivante dalla violazione del vincolo: e, come si è detto innanzi, laddove risulti che il responsabile della violazione non si sia limitato a munirsi del predetto parere endoprocedimentale, ma abbia concluso positivamente la procedura di condono, il provvedimento di concessione in sanatoria non può non determinare la cessazione delle permanenza anche dell’illecito paesaggistico.
Sussiste quindi un’indubitabile convergenza, all’interno di un unico procedimento di sanatoria tra il parere dell’autorità preposta al vincolo e il provvedimento urbanistico-edilizio del Comune al fine dell’eliminazione contestuale di entrambi gli illeciti, quello edilizio e quello paesaggistico: e, se così è, una volta ottenuto il titolo edilizio in sanatoria, il responsabile dell’abuso null’altro è tenuto a fare, né può fare, con riferimento all’ulteriore violazione di natura paesaggistica, atteso che l’autorità preposta al vincolo ha già compiutamente e definitivamente espresso il proprio avviso rilasciando il parere di compatibilità che costituisce presupposto imprescindibile per il condono delle opere abusive eseguite in zona vincolata: opinare diversamente implicherebbe l’obbligo del responsabile dell’abuso, il quale abbia ottenuto il condono e intenda rimuovere anche la violazione paesaggistica, di richiedere alla Soprintendenza un nuovo parere di compatibilità destinato a “duplicare” quello già rilasciato nel procedimento di sanatoria edilizia, con ben evidente violazione del principio fondamentale del divieto di aggravamento del procedimento amministrativo enunciato dall’art. 1, comma 2, della L. 07.08.1990 n. 241.
Né potrebbe ragionevolmente concludersi nel senso che in un’ipotesi del genere la permanenza della violazione paesaggistica sia destinata a perdurare indefinitamente, con la conseguenza –ulteriormente contra legem- della sostanziale imprescrittibilità della sanzione pecuniaria, ovvero nel senso che l’unico modo per cui il responsabile dell’abuso potrebbe sottrarsi alla sanzione soltanto demolendo le opere realizzate: il che non solo sarebbe palesemente assurdo a fronte di opere ormai in possesso di regolari titoli abilitativi anche sotto il profilo della compatibilità paesaggistica (così la dianzi citata decisione di Sez. IV n. 1464 del 2009).
4.4. Va anche opportunamente precisato che il secondo comma del medesimo art. 28 della L. 689/1981 rinvia alle regole civilistiche in materia di interruzione della prescrizione, e che in tema di sanzioni amministrative ogni atto del procedimento previsto dalla legge per l’accertamento della violazione e per l’irrogazione della sanzione ha la funzione di far valere il diritto dell’Amministrazione alla riscossione della pena pecuniaria in quanto, costituendo esercizio della pretesa sanzionatoria, è idoneo a costituire in mora il debitore ai sensi dell’art. 2943 c.c., con conseguente effetto interruttivo della prescrizione (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 02.03.2011 n. 1359, nonché Cass. civ., Sez. II, 18.01.2007 n. 1081; Cass. civ., Sez. I, 09.03.2006 n. 5063 e 17.03.2005 n. 5798) (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 14.03.2014 n. 868 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento alla natura abusiva delle opere edilizie, circostanza nella specie non contestata dal ricorrente, come tutti provvedimenti sanzionatori edilizi è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla rimozione del manufatto abusivo, essendo esso in re ipsa nel caso di costruzione in assenza di titolo abilitativo, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull’esistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che mai potrà essere legittimata.
Esso, inoltre, non è assoggettato all'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento (che dalla documentazione agli atti risulta comunque essere stata ritualmente effettuata), in ragione della natura vincolata del provvedimento finale, rispetto al quale la partecipazione procedimentale dell'interessato non può arrecare alcun apporto utile; peraltro, la previsione di un termine per l'esecuzione della demolizione (nella specie 90 giorni) assicura comunque una forma equivalente di tutela procedimentale ad istanze partecipative.

L'ordinanza di demolizione impugnata si riferisce, alla luce degli atti, ad opere realizzate in assenza di permesso di costruire che insistono, completandolo, su un manufatto già qualificato come abusivo, per effetto di un intervento di ristrutturazione edilizia realizzata senza titolo (art. 33 del d.P.R. n. 380/2001).
L'ordine di demolizione conseguente all'accertamento alla natura abusiva delle opere edilizie, circostanza nella specie non contestata dal ricorrente, come tutti provvedimenti sanzionatori edilizi è un atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla rimozione del manufatto abusivo, essendo esso in re ipsa nel caso di costruzione in assenza di titolo abilitativo, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sull’esistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che mai potrà essere legittimata (Cons. Stato, Sez. VI , 04.03.2013, n. 1268; Cons. Stato, Sez. VI, 28.01.2013, n. 496; Cons. Stato, Sez. IV, 23.01.2012, n. 282).
Esso, inoltre, non è assoggettato all'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento (che dalla documentazione agli atti risulta comunque essere stata ritualmente effettuata), in ragione della natura vincolata del provvedimento finale, rispetto al quale la partecipazione procedimentale dell'interessato non può arrecare alcun apporto utile; peraltro, la previsione di un termine per l'esecuzione della demolizione (nella specie 90 giorni) assicura comunque una forma equivalente di tutela procedimentale ad istanze partecipative (Cons. Stato, Sez. V, 02.05.2001, n. 2823) (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 28.10.2013 n. 4414 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La “indennità” prevista dall’art. 15, l. 29.06.1939, n. 1497, in alternativa alla demolizione, in caso di violazione degli obblighi e ordini previsti a tutela delle bellezze naturali, costituisce una sanzione amministrativa pecuniaria, e non una forma di risarcimento del danno, ed è perciò dovuta anche se la violazione delle norme non ha in concreto prodotto alcun danno ambientale; nella previsione normativa, il danno arrecato all’ambiente viene in considerazione solo come criterio di commisurazione della sanzione –in alternativa al profitto conseguito– e non come parametro per l’applicazione della sanzione medesima.
Convince del resto della correttezza della suaccennata giurisprudenza il fatto che la sanzione amministrativa non è meramente repressiva della condotta dell’autore dell’illecito, ma ripristinatoria dei valori giuridici offesi dal fatto illecito consistente nell’omissione dell’autorizzazione preventiva.
Né può soccorrere che non vi sarebbe stata una preventiva determinazione dell’entità pecuniaria del pregiudizio arrecato all’ambiente, quale possibile parametro di commisurazione della sanzione. Infatti, o il danno è inferiore al profitto realizzato dal privato, ed allora la sanzione dovrebbe comunque essere commisurata alla maggior somma relativa all’entità del profitto, ovvero è superiore al profitto, ed allora non vi sarebbe alcun vantaggio dall’annullamento della sanzione.
Del resto l’illecito per il quale si applica la sanzione amministrativa in questione ha carattere permanente, donde, secondo il suddetto indirizzo giurisprudenziale, la necessità che il dies a quo di decorrenza del termine di prescrizione venga individuato nel momento della cessazione della permanenza dell’illecito.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con istanza di sospensiva, proposto da V.V. contro Comune di Castiglione della Pescaia, avverso determinazione indennità risarcitoria relativa a condono edilizio.
...
Quanto ai motivi di cui alla lett. d) ed e) essi sono palesemente infondati alla luce della consolidata giurisprudenza di questo Consiglio, per la quale la “indennità” prevista dall’art. 15, l. 29.06.1939, n. 1497, in alternativa alla demolizione, in caso di violazione degli obblighi e ordini previsti a tutela delle bellezze naturali, costituisce una sanzione amministrativa pecuniaria, e non una forma di risarcimento del danno, ed è perciò dovuta anche se la violazione delle norme non ha in concreto prodotto alcun danno ambientale; nella previsione normativa, il danno arrecato all’ambiente viene in considerazione solo come criterio di commisurazione della sanzione –in alternativa al profitto conseguito– e non come parametro per l’applicazione della sanzione medesima (Cons. Stato, Sez. VI, sent. n. 3184 del 02.06.2000).
Convince del resto della correttezza della suaccennata giurisprudenza il fatto che la sanzione amministrativa non è meramente repressiva della condotta dell’autore dell’illecito, ma ripristinatoria dei valori giuridici offesi dal fatto illecito consistente nell’omissione dell’autorizzazione preventiva (Cons. Stato, Sez. VI, 22.09.2006, n. 5574; Sez. V, 13.07.2006, n. 4420).
Né può soccorrere che non vi sarebbe stata una preventiva determinazione dell’entità pecuniaria del pregiudizio arrecato all’ambiente, quale possibile parametro di commisurazione della sanzione. Infatti, o il danno è inferiore al profitto realizzato dal privato, ed allora la sanzione dovrebbe comunque essere commisurata alla maggior somma relativa all’entità del profitto, ovvero è superiore al profitto, ed allora non vi sarebbe alcun vantaggio dall’annullamento della sanzione (Cons. Stato, Sez. VI, 31.05.1990, n. 551).
Del resto l’illecito per il quale si applica la sanzione amministrativa in questione ha carattere permanente, donde, secondo il suddetto indirizzo giurisprudenziale (Cons. Stato, 02.01.2000, n. 3184; Sez. II, 09.12.2009, n. 1179/2007; Sez. IV, 15.11.2004, n. 7405), la necessità che il dies a quo di decorrenza del termine di prescrizione venga individuato nel momento della cessazione della permanenza dell’illecito (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 05.09.2013 n. 3762 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di sanzione ex art. 167 dlgs 42/2004, l’Amministrazione non è tenuta a fornire l'avviso di cui all’art. 7 l. n. 241 del 1990. Infatti, una volta condonate le opere poste in essere in violazione del vincolo paesaggistico, l’applicazione della sanzione amministrativa costituisce atto dovuto.
Inoltre il procedimento che si conclude con l’inflizione della sanzione amministrativa deve ritenersi avviato ad istanza di parte nel momento stesso in cui si chiede la sanatoria delle opere, visto che l’unico procedimento scaturente dall’istanza del privato può avere un esito o negativo o positivo (con il condono dell’opera), cui necessariamente segue la sanzione amministrativa di cui all’art. 15 l. n. 1497 del 1939 (ora art. 167 d.lgs. 22.01.2004, n. 42).
In tal senso non manca di esprimersi la giurisprudenza amministrativa.

Quanto, infine, alla mancata comunicazione di avvio del procedimento, la Sezione, pur in presenza di una giurisprudenza oscillante in proposito, ritiene che l’Amministrazione non sia tenuta a fornire il predetto avviso di cui all’art. 7 l. n. 241 del 1990 (in senso contrario Cons. Stato, Sez. IV, 15.11.2004, n. 7405). Infatti, una volta condonate le opere poste in essere in violazione del vincolo paesaggistico, l’applicazione della sanzione amministrativa costituisce atto dovuto (Cons. Stato, Sez. V, 23.02.2000, n. 948).
Inoltre il procedimento che si conclude con l’inflizione della sanzione amministrativa deve ritenersi avviato ad istanza di parte nel momento stesso in cui si chiede la sanatoria delle opere, visto che l’unico procedimento scaturente dall’istanza del privato può avere un esito o negativo o positivo (con il condono dell’opera), cui necessariamente segue la sanzione amministrativa di cui all’art. 15 l. n. 1497 del 1939 (ora art. 167 d.lgs. 22.01.2004, n. 42). In tal senso non manca di esprimersi la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Sez. IV, 12.09.2007, n. 4827/2007) (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 05.09.2013 n. 3762 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 09.03.2015

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Ecco i princìpi fondamentali che non possono mancare nel (nuovo e corretto) regolamento comunale (da adottare in forza di quanto dispone il d.l. n. 90/2014 convertito con modificazioni dalla legge 11.08.2014 n. 114) per la disciplina dell'incentivo per la progettazione interna:

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Se sia legittimo “corrispondere incentivi, ai sensi dell’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006 per attività svolte, nella qualità di RUP di OO.PP. e di progettista di atti di pianificazione nell’anno 2012, 2013 e parte 2014 (prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 90/2014) al dirigente del settore tecnico, incaricato per l’Ente, ai sensi dell’art. 110, comma 1, del d. lgs. n. 267/2000” la Sezione, fermo restando che l’art. 93, co. 7-ter, ultimo periodo, d.lgs n. 163/2006 ha espunto dall’ordinamento i commi 5 e 6 dell'art. 92 del d.lgs. n. 163/2006, e che in base a tale nuova disciplina il riparto del fondo per la progettazione non trova più applicazione per il personale con qualifica dirigenziale, non può che richiamare l’Ente al rigoroso rispetto dei presupposti e dei limiti della disciplina previgente, anche alla luce della giurisprudenza contabile.
L’Ente dovrà valutare se l’attuale formulazione del Regolamento comunale osti, in via di principio, a legittimare il comune a corrispondere, per attività svolte negli anni precedenti luglio 2014, incentivi per la progettazione (riferibili alla realizzazione di opere pubbliche) al dirigente ex art. 110, comma 1, del Tuel.
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L
a corresponsione dell'incentivo è subordinata a limiti, presupposti e modalità di legge, peraltro oggetto di diffusa interpretazione anche da parte delle varie articolazioni della Corte dei conti di cui si riportano in via esemplificativa alcuni principi:
- Limite percentuale massimo complessivo e computo nel quadro economico. L’importo complessivo destinato ad incentivare il personale non può essere superiore al 2% dell’importo posto a base di gara di un’opera o di un lavoro (quindi sono escluse dalla base di calcolo le somme per accantonamenti, imprevisti, acquisizioni ed espropri di immobili, IVA, mentre sono inclusi, tra l’altro, gli oneri per la sicurezza pur se non sono assoggettabili a ribasso).
La percentuale comprende anche gli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione (l’IRAP viene imputata e decurtata al fondo come chiarito dalle SSRR con la
deliberazione 30.06.2010 n. 33/2010
) e grava direttamente sugli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori. Essa va individuata, quindi, nel quadro economico dell’intervento, transitando nel c.d. fondo salario accessorio;
- Divieto di estensione dell’incentivo agli appalti di fornitura e servizi. In disparte la questione sulle coordinate applicative dell’incentivo per gli atti di pianificazione di cui all’art. 92, comma 6, del Codice dei contratti,
la norma del comma 5, ponendo riferimento espresso ai concetti di “opera” e “lavoro”, esclude la possibilità di corrispondere l’incentivo agli appalti pubblici diversi da quelli di lavori, i cui connotati sono definiti a livello normativo dall’art. 3, commi 7 e 8, del Codice dei contratti pubblici;
- Rilevanza tecnica dei lavori e delle opere. Il regolamento comunale deve fissare una soglia minima di complessità tecnica (in termini di entità dell’importo e/o di complessità dei lavori e delle opere), come per esempio nel caso di taluni lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria, al di sotto della quale non è prevista la corresponsione di alcun incentivo in quanto non è richiesta un’attività di progettazione, quale richiamata negli artt. 90, 91 e 92 del D.Lgs 163/2006 (cfr. in particolare Sezione regionale Lombardia
parere 06.03.2013 n. 72).
E’ stato infatti sottolineato che “g
li spazi per riconoscere l'incentivo alla progettazione in caso di attività “manutentive” appaiono in concreto alquanto ristretti, specie per quanto concerne la manutenzione ordinaria” che in diverse delle pronunce è stata esclusa tout court dal novero dei lavori incentivabili ex art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163 del 2006. “Non appare casuale, a questo proposito, che la nuova disciplina della materia, introdotta dall'art. 13-bis, D.L. n. 90 del 2014, pur ricalcando in linea di massima quella dell'art. 92, comma 5, in esame, tuttavia esclude espressamente le attività manutentive dalle opere che i regolamenti degli enti possono considerare ai fini del riparto del fondo per la progettazione e l'innovazione” (Sezione Liguria parere 24.10.2014 n. 60);
- Necessario raggiungimento della fase di pubblicazione del bando di gara o di spedizione degli inviti. La norma, nello stabilire il limite percentuale massimo dell’incentivo in funzione dell’importo posto a base di gara, se da una parte non intende subordinare la spettanza dell’incentivo per le attività espletate nella fase di progettazione all’esito della fase di affidamento o di esecuzione dell’appalto, dall’altra richiede da parte dell’amministrazione che sia stata almeno avviata la procedura di ricerca del contraente.
Non influirebbero nella spettanza dell’incentivo eventuali interruzioni del procedimento di appalto, salvo il caso che l’interruzione del procedimento dipenda da errori nell’espletamento delle attività incentivate;

- Necessaria predeterminazione dei criteri di ripartizione dell’incentivo. Modalità e criteri di ripartizione devono essere previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall’Amministrazione, ovvero, per gli enti locali, della Giunta comunale ai sensi dell’art. 48, comma 3, del D.Lgs. 267/2000. In assenza del regolamento (e della precedente contrattazione decentrata), la corresponsione è illecita e determina danno erariale (cfr. Sezione Puglia
parere 28.05.2014 n. 114);
- Criteri di (pre)determinazione della percentuale effettiva complessiva. La percentuale complessiva effettiva (inferiore a quella massima) delle somme destinate all’incentivo è predeterminata in sede regolamentare in rapporto all’entità e complessità dell’opera da realizzare.
Perciò il regolamento deve consentire il calcolo della percentuale effettiva attraverso una congrua e proporzionale gradazione di valori/punteggi da attribuire ai due coefficienti.
La predeterminazione di un incentivo sproporzionato rispetto ad entità e complessità dell’opera è potenzialmente foriero di danno erariale alle casse comunali, per cui si impone una ponderazione adeguata e oggettiva dei valori
(cfr. Sezione Puglia
parere 28.05.2014 n. 114);
- Criteri di (pre)determinazione della percentuale effettiva individuale. Le quote dell’incentivo, calcolato secondo i criteri fissati nella lettera precedente, destinate alle figure professionali impegnate nelle attività, devono essere predeterminate in sede regolamentare in rapporto alle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere.
La predeterminazione deve avere ad oggetto la ripartizione (del 100% dell’incentivo effettivo complessivo) tra le figure professionali indicate nella lettera successiva, in funzione delle responsabilità connesse anche alla fase endo-procedimentale raggiunta.
Per esempio, per il responsabile del procedimento, per gli incaricati della redazione del progetto e per i loro collaboratori occorre suddividere e graduare l’incentivo in funzione delle fasi o delle parti di esse nelle quali potrebbero svolgere le proprie incombenze (progettazione preliminare, progettazione definitiva, progettazione esecutiva, affidamento, esecuzione dei lavori), e solo a seguito della conclusione della fase o in relazione al suo stato di avanzamento può essere erogato l’emolumento.
La carenza ordinaria di risorse umane idonee allo svolgimento di uno degli incarichi remunerabili con l’incentivo,
come frequentemente avviene per gli enti di piccole dimensioni, non può indurre alla predeterminazione di percentuali sproporzionate a favore (ma anche a detrimento) di quelle, in concreto, presenti nell’organico, in quanto l’unico criterio che il legislatore prevede è quello del confronto teorico tra responsabilità esistenti in capo a tutte le figure professionali potenzialmente coinvolte nell’intero procedimento di appalto.
Per tale motivo è stata ritenuta del tutto incongrua la devoluzione dell’intero incentivo al responsabile del procedimento quando parte delle prestazioni professionali erano svolte da tecnici esterni
–così A.V.LLPP
Del. n. 31 del 17.02.2004)- cfr. Sezione Puglia parere 28.05.2014 n. 114);
- Tassatività dell’elenco dei possibili beneficiari. La corresponsione dell’incentivo può essere disposta solo a favore dei seguenti soggetti in organico all’amministrazione: responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, incaricati della redazione del piano della sicurezza, incaricati della direzione dei lavori, incaricati del collaudo, collaboratori dei soggetti predetti;
- Tetto quantitativo individuale.
Limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo
annuo lordo. Tale disposizione è stata introdotta dall’art. 1, comma 10-quater, del Dl. 23.10.2008, n. 162 convertito nella legge 22.12.2008, n. 201, al fine di porre un temperamento ad effetti illimitatamente espansivi della spesa pubblica.
Il limite, essendo rapportato ad un’annualità, è apposto non solo alla misura dell’incentivo del singolo incarico, ma anche alla sommatoria degli incentivi relativi agli incarichi eseguiti, anche parzialmente, nel corso dell’anno.

Inoltre va tenuto presente che il regime normativo e, quindi, anche il presupposto di fatto per la sua applicazione (ovvero, l’ammontare del “trattamento complessivo annuo”) deve essere riferito all’epoca dell’effettiva prestazione e non al momento del pagamento degli incentivi
. Ciò vuol dire,
con riferimento alla fattispecie in esame, che debba trovare applicazione anche il limite introdotto dall’art. 9, comma 1, d.l. n. 78/10, come conv. nella l. n. 122/2010, alla stregua del quale “per gli anni 2011, 2012 e 2013 il trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, ivi compreso il trattamento accessorio, previsto dai rispettivi ordinamenti delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, non può superare, in ogni caso, il trattamento ordinariamente spettante per l'anno 2010, al netto degli effetti derivanti da eventi straordinari della dinamica retributiva, ivi incluse le variazioni dipendenti da eventuali arretrati, conseguimento di funzioni diverse in corso d'anno, fermo in ogni caso quanto previsto dal comma 21, terzo e quarto periodo, per le progressioni di carriera comunque denominate, maternità, malattia, missioni svolte all'estero, effettiva presenza in servizio, fatto salvo quanto previsto dal comma 17, secondo periodo, e dall'articolo 8, comma 14” (cfr. Sez. contr. Lombardia parere 14.09.2009 n. 604 parere 30.06.2011 n. 427).
E’ stato infatti rilevato che
n
on rileva in tal senso la fase del pagamento (c.d. criterio di cassa), ma quella della maturazione del diritto all’emolumento che avviene con l’esecuzione della prestazione (cfr. Sezione Lombardia parere 30.06.2011 n. 427 e Sezione Puglia parere 28.05.2014 n. 114).
Inoltre è stato oggetto di considerazione in fatto che il chiaro riferimento alle attività di progettazione indica che trattasi delle sole attività elencate nell’allegato tecnico XXI di cui all’art. 164 del D.Lgs 163/2006 (in tal senso anche Sezione regionale di controllo per la Lombardia
parere 14.09.2009 n. 604). Va altresì posta l’attenzione in relazione al fatto che l’eventuale eccedenza dell’incentivo rispetto al limite normativo costituisce economia acquisita definitivamente al bilancio dell’ente e non redistribuibile al personale destinatario dell’incentivo né, tanto meno, alla medesima unità di personale nell’anno successivo a quello di esecuzione dell’incarico;
- Principio di effettività delle attività incentivate.
L’incentivo può essere corrisposto solo
previa verifica da parte del dirigente della struttura competente del buon esito della specifica attività effettivamente svolta del dipendente e della sua stretta attinenza all’incarico per il quale la norma prevede l’incentivo.
Ciò corrisponde anche al principio fissato dall’art. 7, comma 5, del D.Lgs. 165/2001 secondo il quale “le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese”
;
- Principio dell’alterità. In base al principio dell’alterità, il beneficiario dell’incentivo  non può coincidere con il soggetto che provvederà all’accertamento del buon esito del progetto (cfr. Sezione Emilia Romagna
parere 19.09.2014 n. 183);
- Divieto di redistribuzione delle quote di incentivo non ripartite a causa dell’affidamento all’esterno all’organico o all’assenza di attività connesse all’appalto da parte dei soggetti destinatari. Le quote parti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive dell’accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai dipendenti incaricati costituiscono economie.
Pertanto, non potranno essere reimpiegate a favore del personale interno destinatario dell’incentivo
;
- Divieto di distribuire quote di incentivo per atti di pianificazione non collegati direttamente alla realizzazione di opere pubbliche. La Corte dei conti, Sezione autonomie, con la
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG ha
chiarito che gli incentivi di cui al citato art. 92, commi 5 e 6, devono essere necessariamente riferiti alla progettazione di opere pubbliche e non invece a meri atti di pianificazione a prescindere dal nome iuris utilizzato che non siano collegati direttamente alla realizzazione di un'opera pubblica.
E' stato, altresì, sottolineato che “Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della disposizione (contenere i costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le professionalità interne alla pubblica amministrazione), si condivide l’argomentazione secondo cui “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente” (cfr. Sezione Lombardia
parere 30.05.2012 n. 259 e parere 15.07.2014 n. 220; Sezione Puglia parere 16.01.2012 n. 1; Sezione Toscana n. 213/2011/PAR).
- Interesse pubblico all’erogazione di compensi incentivanti. Va anche rilevato che l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, quale presupposto per l’erogazione di compensi incentivanti al personale in servizio per la redazione di progetti, è testualmente previsto nell’art. 92, comma 7, del d.lgs. 163/2006, quale criterio da prendere in considerazione per lo stanziamento dei fondi necessari al finanziamento delle spese progettuali in sede di stesura dei bilanci dello Stato, delle amministrazioni statali, delle regioni e delle autonome locali (cfr. Sezione Lombardia
parere 15.07.2014 n. 220).
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La richiesta di parere è avanzata dal Sindaco del comune di Sarno (SA) in relazione all’interpretazione dell’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006 e alla sua portata applicativa.
In particolare si chiede se sia legittimo “corrispondere incentivi, ai sensi dell’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006 per attività svolte, nella qualità di RUP di OO.PP. e di progettista di atti di pianificazione nell’anno 2012, 2013 e parte 2014 (prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 90/2014) al dirigente del settore tecnico, incaricato per l’Ente, ai sensi dell’art. 110, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000.
...
L'art. 92, co. 5, del d.lgs. n. 163/2006 allo scopo di contenere i costi di realizzazione delle opere pubbliche mediante la valorizzazione nelle varie fasi dell'apporto di professionalità interne alle amministrazioni, prevede e disciplina la corresponsione di un incentivo al personale dipendente delle amministrazioni impegnato in specifiche attività collegate alle procedure di affidamento ed esecuzione di appalti pubblici (cfr. “Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. I soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri”).
Il suddetto incentivo ha la finalità di accrescere l’efficienza e l’efficacia degli uffici tecnici dell’Amministrazione (cfr. Sez. Autonomie, deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG; Sez. contr. Lombardia, parere 24.02.2009 n. 40 e parere 05.03.2009 n. 50).
In particolare r
isulta necessario premettere che l’art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006, su cui si incentra la richiesta di parere in esame, risulta abrogato dall’art. 13 del d.l. n. 90/2014 entrato in vigore in data 25.06.2014 (pubblicato su G.U. n. 144 del 24.06.2014), convertito con modificazioni dalla legge  11.08.2014 n. 114.
Tuttavia, il legislatore ha mantenuto ferma la possibilità di attribuzione di un incentivo ai dipendenti degli enti pubblici cui sono conferiti incarichi tecnici nell’ambito delle procedure di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, nel rispetto di presupposti e limiti del “fondo per la progettazione e l’innovazione” previsto dall’art. 13-bis della legge n. 114/2014. Quest’ultimo, infatti, ha inserito nell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 quattro nuovi commi (7-bis, 7-ter, 7-quater e 7-quinquies), il cui contenuto si riporta per comodità espositiva: "
7-bis. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare.
7-ter. L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
7-quater. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo nonché all'ammodernamento e all'accrescimento dell'efficienza dell'ente e dei servizi ai cittadini.
7-quinquies. Gli organismi di diritto pubblico e i soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento criteri analoghi a quelli di cui ai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater del presente articolo.".
Di conseguenza, a decorrere dall’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione del d.l. n. 90/2014, i comuni, come tutte le altre pubbliche amministrazioni, dovranno fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno, incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di un’opera pubblica, alla nuova disciplina legislativa, con conseguente necessaria adozione di un nuovo regolamento che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi (comma 7-bis) ed un accordo integrativo decentrato, da recepire nel predetto regolamento, che stabilisca i criteri di ripartizione (comma 7-ter). Entrambi dovranno adeguarsi alle novità normative, fra le quali spicca l’esclusione, fra i soggetti beneficiari dell’incentivo, del personale con qualifica dirigenziale (comma 7-ter, ultimo periodo).
La disciplina del c.d. incentivo alla progettazione (denominazione risalente all’art. 18 dell’abrogata legge n. 109/1994), in costanza del previgente art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006, è stata oggetto di costante attenzione da parte della Corte dei conti (cfr., fra le altre, Sezione Autonomie
deliberazione 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Piemonte parere 30.08.2012 n. 290, parere 16.01.2014 n. 8, parere 28.02.2014 n. 39, parere 21.05.2014 n. 97; Sezione Lombardia parere 06.03.2012 n. 57, parere 30.05.2012 n. 259, parere 08.10.2012 n. 425, parere 24.10.2012 n. 453, parere 15.10.2013 n. 442, parere 28.05.2014 n. 188; Sezione Liguria parere 10.05.2013 n. 24;  Sezione Toscana parere 13.11.2012 n. 293, parere 12.12.2012 n. 459 e parere 19.03.2013 n. 15) alle cui motivazioni e conclusioni può farsi riferimento per la disciplina di principio.
In linea generale nei precedenti indicati è stato sottolineato come la disciplina (oggi avente fonte nell’art. 93, commi 7-bis, 7-ter e 7-quater, del d.lgs. n. 163/2006) vada letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico professionali, previste dalla legislazione in materia di contratti pubblici. Quest’ultima (cfr. artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un principio (codificato in linea generale anche dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001), in base al quale i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti colmabile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche, oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
E' stato chiarito che in questo caso il legislatore, riconoscendo un compenso ulteriore e speciale per prestazioni comunque rientranti nell'attività d'ufficio del dipendente, opera in via di eccezione rispetto ai generali principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione dei dipendenti pubblici (
cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001).
E’ stato altresì sottolineato che la disposizione in esame si presta a stretta interpretazione e, in base all'art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, non può applicarsi in via analogica.
L’eccezionalità della previsione richiede particolare rigore nella disciplina di dettaglio in quanto la corresponsione è subordinata a limiti, presupposti e modalità di legge, peraltro oggetto di diffusa interpretazione anche da parte delle varie articolazioni della Corte dei conti di cui si riportano in via esemplificativa alcuni principi (cfr. tra le altre in particolare Sezione Puglia parere 28.05.2014 n. 114; vedi anche Sezione Sicilia parere 30.07.2014 n. 91, Liguria parere 24.10.2014 n. 60, Sezione Emilia Romagna parere 19.09.2014 n. 183, Sezione Lombardia parere 15.07.2014 n. 220; Sezione Veneto parere 24.07.2014 n. 403).
- Limite percentuale massimo complessivo e computo nel quadro economico. L’importo complessivo destinato ad incentivare il personale non può essere superiore al 2% dell’importo posto a base di gara di un’opera o di un lavoro (quindi sono escluse dalla base di calcolo le somme per accantonamenti, imprevisti, acquisizioni ed espropri di immobili, IVA, mentre sono inclusi, tra l’altro, gli oneri per la sicurezza pur se non sono assoggettabili a ribasso).
La percentuale comprende anche gli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione (l’IRAP viene imputata e decurtata al fondo come chiarito dalle SSRR con la
deliberazione 30.06.2010 n. 33/2010) e grava direttamente sugli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori. Essa va individuata, quindi, nel quadro economico dell’intervento, transitando nel c.d. fondo salario accessorio;
- Divieto di estensione dell’incentivo agli appalti di fornitura e servizi. In disparte la questione sulle coordinate applicative dell’incentivo per gli atti di pianificazione di cui all’art. 92, comma 6, del Codice dei contratti, la norma del comma 5, ponendo riferimento espresso ai concetti di “opera” e “lavoro”, esclude la possibilità di corrispondere l’incentivo agli appalti pubblici diversi da quelli di lavori, i cui connotati sono definiti a livello normativo dall’art. 3, commi 7 e 8, del Codice dei contratti pubblici;
- Rilevanza tecnica dei lavori e delle opere. Il regolamento comunale deve fissare una soglia minima di complessità tecnica (in termini di entità dell’importo e/o di complessità dei lavori e delle opere), come per esempio nel caso di taluni lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria, al di sotto della quale non è prevista la corresponsione di alcun incentivo in quanto non è richiesta un’attività di progettazione, quale richiamata negli artt. 90, 91 e 92 del D.Lgs 163/2006 (cfr. in particolare Sezione regionale Lombardia
parere 06.03.2013 n. 72).
E’ stato infatti sottolineato che “
g
li spazi per riconoscere l'incentivo alla progettazione in caso di attività “manutentive” appaiono in concreto alquanto ristretti, specie per quanto concerne la manutenzione ordinaria” che in diverse delle pronunce è stata esclusa tout court dal novero dei lavori incentivabili ex art. 92, comma 5, D.Lgs. n. 163 del 2006. “Non appare casuale, a questo proposito, che la nuova disciplina della materia, introdotta dall'art. 13-bis, D.L. n. 90 del 2014, pur ricalcando in linea di massima quella dell'art. 92, comma 5, in esame, tuttavia esclude espressamente le attività manutentive dalle opere che i regolamenti degli enti possono considerare ai fini del riparto del fondo per la progettazione e l'innovazione” (Sezione Liguria parere 24.10.2014 n. 60);
- Necessario raggiungimento della fase di pubblicazione del bando di gara o di spedizione degli inviti. La norma, nello stabilire il limite percentuale massimo dell’incentivo in funzione dell’importo posto a base di gara, se da una parte non intende subordinare la spettanza dell’incentivo per le attività espletate nella fase di progettazione all’esito della fase di affidamento o di esecuzione dell’appalto, dall’altra richiede da parte dell’amministrazione che sia stata almeno avviata la procedura di ricerca del contraente.
Non influirebbero nella spettanza dell’incentivo eventuali interruzioni del procedimento di appalto, salvo il caso che l’interruzione del procedimento dipenda da errori nell’espletamento delle attività incentivate;

- Necessaria predeterminazione dei criteri di ripartizione dell’incentivo. Modalità e criteri di ripartizione devono essere previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall’Amministrazione, ovvero, per gli enti locali, della Giunta comunale ai sensi dell’art. 48, comma 3, del D.Lgs. 267/2000. In assenza del regolamento (e della precedente contrattazione decentrata), la corresponsione è illecita e determina danno erariale (cfr. Sezione Puglia
parere 28.05.2014 n. 114);
- Criteri di (pre)determinazione della percentuale effettiva complessiva. La percentuale complessiva effettiva (inferiore a quella massima) delle somme destinate all’incentivo è predeterminata in sede regolamentare in rapporto all’entità e complessità dell’opera da realizzare.
Perciò il regolamento deve consentire il calcolo della percentuale effettiva attraverso una congrua e proporzionale gradazione di valori/punteggi da attribuire ai due coefficienti.
La predeterminazione di un incentivo sproporzionato rispetto ad entità e complessità dell’opera è potenzialmente foriero di danno erariale alle casse comunali, per cui si impone una ponderazione adeguata e oggettiva dei valori
(cfr. Sezione Puglia
parere 28.05.2014 n. 114);
- Criteri di (pre)determinazione della percentuale effettiva individuale. Le quote dell’incentivo, calcolato secondo i criteri fissati nella lettera precedente, destinate alle figure professionali impegnate nelle attività, devono essere predeterminate in sede regolamentare in rapporto alle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere.
La predeterminazione deve avere ad oggetto la ripartizione (del 100% dell’incentivo effettivo complessivo) tra le figure professionali indicate nella lettera successiva, in funzione delle responsabilità connesse anche alla fase endo-procedimentale raggiunta.
Per esempio, per il responsabile del procedimento, per gli incaricati della redazione del progetto e per i loro collaboratori occorre suddividere e graduare l’incentivo in funzione delle fasi o delle parti di esse nelle quali potrebbero svolgere le proprie incombenze (progettazione preliminare, progettazione definitiva, progettazione esecutiva, affidamento, esecuzione dei lavori), e solo a seguito della conclusione della fase o in relazione al suo stato di avanzamento può essere erogato l’emolumento.
La carenza ordinaria di risorse umane idonee allo svolgimento di uno degli incarichi remunerabili con l’incentivo,
come frequentemente avviene per gli enti di piccole dimensioni, non può indurre alla predeterminazione di percentuali sproporzionate a favore (ma anche a detrimento) di quelle, in concreto, presenti nell’organico, in quanto l’unico criterio che il legislatore prevede è quello del confronto teorico tra responsabilità esistenti in capo a tutte le figure professionali potenzialmente coinvolte nell’intero procedimento di appalto.
Per tale motivo è stata ritenuta del tutto incongrua la devoluzione dell’intero incentivo al responsabile del procedimento quando parte delle prestazioni professionali erano svolte da tecnici esterni
–così A.V.LLPP
Del. n. 31 del 17.02.2004)- cfr. Sezione Puglia parere 28.05.2014 n. 114);
- Tassatività dell’elenco dei possibili beneficiari. La corresponsione dell’incentivo può essere disposta solo a favore dei seguenti soggetti in organico all’amministrazione: responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, incaricati della redazione del piano della sicurezza, incaricati della direzione dei lavori, incaricati del collaudo, collaboratori dei soggetti predetti;
- Tetto quantitativo individuale.
Limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo. Tale disposizione è stata introdotta dall’art. 1, comma 10-quater, del Dl. 23.10.2008, n. 162 convertito nella legge 22.12.2008, n. 201, al fine di porre un temperamento ad effetti illimitatamente espansivi della spesa pubblica.
Il limite, essendo rapportato ad un’annualità, è apposto non solo alla misura dell’incentivo del singolo incarico, ma anche alla sommatoria degli incentivi relativi agli incarichi eseguiti, anche parzialmente, nel corso dell’anno.
Inoltre va tenuto presente che il regime normativo e, quindi, anche il presupposto di fatto per la sua applicazione (ovvero, l’ammontare del “trattamento complessivo annuo”) deve essere riferito all’epoca dell’effettiva prestazione e non al momento del pagamento degli incentivi
. Ciò vuol dire,
con riferimento alla fattispecie in esame, che debba trovare applicazione anche il limite introdotto dall’art. 9, comma 1, d.l. n. 78/10, come conv. nella l. n. 122/2010, alla stregua del quale “per gli anni 2011, 2012 e 2013 il trattamento economico complessivo dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, ivi compreso il trattamento accessorio, previsto dai rispettivi ordinamenti delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, non può superare, in ogni caso, il trattamento ordinariamente spettante per l'anno 2010, al netto degli effetti derivanti da eventi straordinari della dinamica retributiva, ivi incluse le variazioni dipendenti da eventuali arretrati, conseguimento di funzioni diverse in corso d'anno, fermo in ogni caso quanto previsto dal comma 21, terzo e quarto periodo, per le progressioni di carriera comunque denominate, maternità, malattia, missioni svolte all'estero, effettiva presenza in servizio, fatto salvo quanto previsto dal comma 17, secondo periodo, e dall'articolo 8, comma 14” (cfr. Sez. contr. Lombardia parere 14.09.2009 n. 604 parere 30.06.2011 n. 427).
E’ stato infatti rilevato che n
on rileva in tal senso la fase del pagamento (c.d. criterio di cassa), ma quella della maturazione del diritto all’emolumento che avviene con l’esecuzione della prestazione (cfr. Sezione Lombardia parere 30.06.2011 n. 427 e Sezione Puglia parere 28.05.2014 n. 114).
Inoltre è stato oggetto di considerazione in fatto che il chiaro riferimento alle attività di progettazione indica che trattasi delle sole attività elencate nell’allegato tecnico XXI di cui all’art. 164 del D.Lgs 163/2006 (in tal senso anche Sezione regionale di controllo per la Lombardia
parere 14.09.2009 n. 604). Va altresì posta l’attenzione in relazione al fatto che l’eventuale eccedenza dell’incentivo rispetto al limite normativo costituisce economia acquisita definitivamente al bilancio dell’ente e non redistribuibile al personale destinatario dell’incentivo né, tanto meno, alla medesima unità di personale nell’anno successivo a quello di esecuzione dell’incarico;
- Principio di effettività delle attività incentivate.
L’incentivo può essere corrisposto solo
previa verifica da parte del dirigente della struttura competente del buon esito della specifica attività effettivamente svolta del dipendente e della sua stretta attinenza all’incarico per il quale la norma prevede l’incentivo.
Ciò corrisponde anche al principio fissato dall’art. 7, comma 5, del D.Lgs. 165/2001 secondo il quale “le amministrazioni pubbliche non possono erogare trattamenti economici accessori che non corrispondano alle prestazioni effettivamente rese
;
- Principio dell’alterità. In base al principio dell’alterità, il beneficiario dell’incentivo  non può coincidere con il soggetto che provvederà all’accertamento del buon esito del progetto (cfr. Sezione Emilia Romagna
parere 19.09.2014 n. 183);
- Divieto di redistribuzione delle quote di incentivo non ripartite a causa dell’affidamento all’esterno all’organico o all’assenza di attività connesse all’appalto da parte dei soggetti destinatari. Le quote parti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive dell’accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai dipendenti incaricati costituiscono economie.
Pertanto, non potranno essere reimpiegate a favore del personale interno destinatario dell’incentivo
;
- Divieto di distribuire quote di incentivo per atti di pianificazione non collegati direttamente alla realizzazione di opere pubbliche. La Corte dei conti, Sezione autonomie, con la
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG ha risolto la questione di massima circa la corretta interpretazione delle disposizioni recate dall’art. 92, comma 6, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163 ora abrogata dall’art. 13, comma 1, D.L. 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.08.2014, n. 114 (“Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto” ed, in particolare, della definizione ivi riportata “atto di pianificazione comunque denominato” nel senso che gli incentivi di cui al citato art. 92, commi 5 e 6, devono essere necessariamente riferiti alla progettazione di opere pubbliche e non invece a meri atti di pianificazione a prescindere dal nome iuris utilizzato che non siano collegati direttamente alla realizzazione di un'opera pubblica.
La Sezione delle Autonomie è così intervenuta a dirimere un contrasto giurisprudenziale in merito all'interpretazione da dare alla possibilità di riconoscere incentivi economici ai dipendenti che redigono atti di “pianificazione comunque denominati". Alcuni enti ritenevano che potesse essere riconosciuto l'incentivo per la pianificazione riguardante settori differenti da quello delle opere pubbliche, ad esempio, per i piani dei rifiuti, piani urbanistici, piani ambientali e così via.
L'interpretazione costantemente ribadita dalla Sezioni regionali della Corte dei Conti era nel senso di una contestualizzazione della norma, che si colloca nell'ambito della disciplina degli appalti per opera pubblica e non è, dunque, interpretabile in modo estensivo per ciò che riguarda l'incentivo alla progettazione. In questo senso hanno deliberato, tra le altre, la Sezione controllo per la Toscana (n. 213/2011/PAR e
parere 19.03.2013 n. 15); la Sezione controllo per il Piemonte (parere 30.08.2012 n. 290); la Sezione controllo per la Puglia (parere 16.01.2012 n. 1, parere 09.11.2012 n. 107); la Sezione controllo per la Lombardia (parere 24.10.2012 n. 452 e parere 27.09.2013 n. 391); la Sezione controllo per la Campania (parere 10.04.2013 n. 141); la Sezione controllo Emilia Romagna (parere 25.06.2013 n. 243).
La Sezione delle Autonomie ha con la suddetta interpretazione confermato l'indirizzo prevalente delle sezioni regionali ribadendo che la norma deve essere interpretata in maniera restrittiva e solo nei limiti del contesto alla quale è riconducibile. Perciò risulta riconoscibile l'incentivo solo per la progettazione da parte di dipendenti di opere pubbliche che seguano le procedure del Codice degli appalti all’interno dell’Ente.
A tale proposito è stato, altresì, sottolineato che Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della disposizione (contenere i costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le professionalità interne alla pubblica amministrazione), si condivide l’argomentazione secondo cui “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente(cfr. Sezione Lombardia
parere 30.05.2012 n. 259 e parere 15.07.2014 n. 220; Sezione Puglia parere 16.01.2012 n. 1; Sezione Toscana n. 213/2011/PAR).
- Interesse pubblico all’erogazione di compensi incentivanti. Va anche rilevato che l’interesse pubblico alla realizzazione dell’opera, quale presupposto per l’erogazione di compensi incentivanti al personale in servizio per la redazione di progetti, è testualmente previsto nell’art. 92, comma 7, del d.lgs. 163/2006, quale criterio da prendere in considerazione per lo stanziamento dei fondi necessari al finanziamento delle spese progettuali in sede di stesura dei bilanci dello Stato, delle amministrazioni statali, delle regioni e delle autonome locali (cfr. Sezione Lombardia
parere 15.07.2014 n. 220).
Per quanto concerne lo specifico quesito il comune di Sarno chiede di sapere “se è legittimo corrispondere incentivi, ai sensi dell’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006, per attività svolte, nella qualità di RUP di OO.PP e di progettista di atti di pianificazione nell’anno 2012, 2013 e parte del 2014 (prima dell’entrata del d.l. n. 90/2014) al dirigente del settore tecnico, incaricato per l’Ente, ai sensi dell’art. 110, comma 1, del d.lgs. n. 267/2000”.
Fermo restando che l’art.
93, comma 7-ter, ultimo periodo, del codice di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, come inserito dall’art. 13-bis “Fondi per la progettazione e l'innovazione” della legge di conversione 11.08.2014, n. 114 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90 –disposizione non applicabile retroattivamente, non essendo norma di interpretazione autentica– ha espunto dall’ordinamento il comma 5 (al quale il CCNL dell’Area II faceva richiamo) e il comma 6 dell'articolo 92 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 e che in base a tale nuova disciplina  il riparto del fondo per la progettazione non trova più applicazione per il personale con qualifica dirigenziale, la Sezione non può che richiamare l’Ente al rigoroso rispetto dei presupposti e dei limiti della disciplina previgente, anche alla luce della giurisprudenza di questa Corte sinteticamente sopra richiamata tenendo presente che il cosiddetto “incentivo alla progettazione”, previsto dal Codice dei contratti pubblici, costituisce uno di quei casi nei quali il legislatore attribuisce un compenso ulteriore e speciale, in deroga ai principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
L’Ente dovrà tenete in debito conto altresì che
la corresponsione dell’incentivo può essere disposta solo a favore dei soggetti in organico all’amministrazione (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, incaricati della redazione del piano della sicurezza, incaricati della direzione dei lavori, incaricati del collaudo e collaboratori dei soggetti predetti) tra i quali sono da ricomprendere anche i dirigenti assunti con contratto a tempo determinato ex art. art. 110, comma 1, del Tuel quando rivestano le relative qualifiche, nel rispetto delle previsioni di legge, Statuto e Regolamento dell’Ente (quota di posti di qualifica dirigenziale; requisiti di legge per la qualifica; previa selezione pubblica volta ad accertare il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell' incarico; rispetto della disciplina
in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pp.aa ex art. 2, comma 2, del d.lgs. 08.04.2013, n. 39; etc….).
Tanto premesso, in considerazione del tenore della richiesta di parere, l’Ente dovrà valutare se l’attuale formulazione del Regolamento comunale in relazione allo specifico tema della corresponsione degli incentivi per la progettazione osti, in via di principio, a legittimare il Comune stesso a corrispondere, per attività svolte negli anni precedenti luglio 2014, incentivi per la progettazione (riferibili alla realizzazione di opere pubbliche) al dirigente ex art. 110, comma 1, del Tuel.
Al riguardo occorre
ricordare altresì che il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del Personale Dirigente del comparto Regioni e autonomie locali (Area II Regioni e Autonomie locali) Quadriennio normativo 2006-2009, Biennio 2006-2007 prevede all’art. 20 (Onnicomprensività del trattamento economico) quanto segue: “In aggiunta alla retribuzione di posizione e di risultato, ai dirigenti possono essere erogati direttamente, a titolo di retribuzione di risultato, solo i compensi previsti da specifiche disposizioni di legge, come espressamente recepite nelle vigenti disposizioni della contrattazione collettiva nazionale e secondo le modalità da queste stabilite: art. 92, comma 5, d.lgs. n. 163 del 12.04.2006; art. 37 del CCNL del 23.12.1999; art. 3, comma 57, della legge n. 662 del 1996; art. 59, comma 1, lett. p), del d.lgs. n. 446/1997 (recupero evasione ICI); art. 12, comma 1, lett. b), del d.l. n. 437 del 1996, convertito nella legge n. 556 del 1996. L'ente definisce l'incidenza delle suddette erogazioni aggiuntive sull'ammontare della retribuzione di risultato sulla base criteri generali oggetto di previa concertazione sindacale, ai sensi dell'art. 6 del CCNL del 22.02.2006”.  Tale clausola negoziale riproduce quelle già inserite nel CCNL del 23.12.2009 (art. 26, comma 1, lett. e), e nel CCNL del 10.04.1996 (art. 37, comma 1, lett. e).
Nell’orientamento applicativo del 27.11.2007, l’Aran ha anche chiarito che “le risorse derivanti dalla applicazione dell’art. 18 della legge 109/1994 (ora art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 163/2006) possono confluire nel fondo di posizione e di risultato della dirigenza (per essere erogate come retribuzione di risultato) solo a condizione che sussistano i finanziamenti destinati alla esecuzione delle relative opere pubbliche e, naturalmente, limitatamente al solo anno di riferimento temporale dello stesso finanziamento”.
In particolare si richiama l’Ente all’osservanza del disposto –invariato- dell’art. 93, comma 7, del d.lgs. 163/2006:
“Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione  dei lavori, alla vigilanza e ai  collaudi,  nonché  agli  studi  e  alle ricerche connessi, gli oneri relativi alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e dei piani generali di sicurezza quando previsti ai sensi del decreto legislativo 14.08.1996, n. 494, gli oneri relativi alle prestazioni professionali e specialistiche atte a definire gli elementi  necessari a fornire il progetto esecutivo completo in ogni dettaglio, ivi compresi i rilievi e i costi riguardanti prove, sondaggi, analisi, collaudo di strutture e di impianti per gli edifici esistenti, fanno  carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei  singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti”.
Tale norma evidenzia che le risorse finanziarie destinate agli incentivi per la progettazione devono essere ex lege previste nel quadro economico di ogni singola opera pubblica ovvero che l’allocazione in bilancio di tali risorse deve essere effettuata al titolo II della spesa relativo alla spesa in conto capitale atteso che è destinata a seguire gli stanziamenti previsti per le opere pubbliche.
A tale proposito si ricorda che con la su citata
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG, la Sezione delle Autonomie ha, inoltre, richiamato la propria precedente deliberazione 13.11.2009 n. 16/2009 che aveva affermato per gli “incentivi per la progettazione interna”, la natura di spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica (Corte dei Conti, Sez. controllo Campania, parere 23.02.2015 n. 20).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Decreto “milleproroghe” - confermata l’anticipazione del prezzo del contratto d’appalto di lavori. Ulteriore proroga per le centrali di committenza (ANCE di Bergamo, circolare 03.03.2015 n. 56).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Rifiuti - Nuove norme per la classificazione (ANCE di Bergamo, circolare 18.02.2015 n. 48 di prot.).

URBANISTICAOGGETTO: Interpello - Cessione dal Comune agli assegnatari degli alloggi, di aree già concesse in diritto di superficie – Applicabilità dell’articolo 32 del DPR n. 601 del 1973 (Agenzia delle Entrate, risoluzione 16.02.2015 n. 17/E).
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Cessione di aree già concesse dal Comune in diritto di superficie: trattamento fiscale (Ris. 17/E/2015).
Gli atti con i quali il Comune cede la piena proprietà di aree già concesse in diritto di superficie sono soggetti all’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa e all’esenzione dalle imposte ipotecaria e catastale.
Gli atti con i quali il Comune -in applicazione dell’art. 31, commi 45 e seguenti, della L. 448/1998- cede la piena proprietà di aree già concesse in diritto di superficie sono soggetti al regime di favore di cui all’art. 32 del D.P.R. 601/1973, consistenti nell’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa e nell’esenzione dalle imposte ipotecaria e catastale.
A questa conclusione è giunta l’Agenzia delle Entrate con la risoluzione 16.02.2015 n. 17/E.
Si rammenta in primo luogo che l’art. 31, comma 45, della citata L. 448/1998 dispone che “I Comuni possono cedere in proprietà le aree comprese nei piani approvati a norma della legge 18.04.1962, n. 167, ovvero delimitate ai sensi dell'articolo 51 della legge 22.10.1971, n. 865, già concesse in diritto di superficie ai sensi dell’articolo 35, quarto comma, della medesima legge n. 865 del 1971”.
Detta possibilità necessità la stipula di apposita “convenzione”, che può essere attivata a seguito di proposta del Comune e di accettazione da parte dei singoli proprietari degli alloggi e loro pertinenze (anche dal singolo condomino titolare della proprietà superficiaria dell’alloggio, per la quota millesimale corrispondente).
Questi atti possono essere ricondotti, a parere dell’Agenzia delle Entrate, nell’ambito degli atti previsti dal Titolo III della L. 865/1971 -che disciplina tra l’altro, i piani delle aree da destinare ad edilizia economica e popolare (piani PEEP) a norma della L. 167/1962- per i quali l’art. 32 del D.P.R. 601/1973 prevede l’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa e l’esenzione dalle imposte ipotecaria e catastale, in relazione agli atti di trasferimento della proprietà e di concessione del diritto di superficie sulle aree stesse.
Infine è da segnalare come queste fattispecie non sono interessate dalla “
soppressione di tutte le esenzioni e agevolazioni tributarie, anche se previste in leggi speciali, con riferimento agli atti costitutivi o traslativi di diritti reali su immobili a titolo oneroso” prevista dall’art. 10 del D. Leg.vo 23/2011, il quale nella formulazione che emerge a seguito delle modifiche apportate dal D.L. “sblocca Italia” 133/2014 (L. 164/2014) dispone che “È altresì esclusa la soppressione delle esenzioni e delle agevolazioni tributarie riferite agli atti di cui (…) all’articolo 32 del decreto del Presidente della Repubblica 29.09.1973, n. 601” (commento tratto da www.legislazionetecnica.it).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Dispositivi di ancoraggio per la protezione contro le cadute dall'alto - Chiarimenti (Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali, circolare 13.02.2015 n. 3).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Gestione associata delle funzioni fondamentali degli enti locali ex art. 14, D. L. 31.5.2010, n. 78, convertito con modificazioni, dalla legge 30.07.2010 e dai commi da 25 a 31-quater della legge n. 122/2010 e successive modifiche, in base al testo come integrato dall'art. 19 della legge n. 135/2012. Completamento processo associativo delle 10 funzioni fondamentali (Prefettura di Avellino, nota 06.02.2015 n. 1256 di prot.)

INCARICHI PROFESSIONALI: Oggetto: Attività libero-professionale dell'Ingegnere docente - autorizzazione del dirigente scolastico - limiti e prassi applicative - ipotesi di silenzio-assenso - richiesta parere ai Ministeri competenti - risposta della Direzione Generale per il Personale scolastico del MIUR - considerazioni - prot. CNI n. 7315 (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, circolare 20.01.2015 n. 480).

UTILITA'

APPALTI: “Centrali di acquisto” – Approvato dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome un documento guida di ITACA in merito alle nuove norme in materia di aggregazione della domanda.
Nel corso della seduta del 19.02.2015 la Conferenza delle Regioni ha approvato un documento elaborato da ITACA recante: Elementi guida per l’attuazione degli obblighi di aggregazione della domanda pubblica di cui al decreto legge n. 66 del 2014.
La guida –elaborata dal Gruppo di lavoro interregionale “Centrali di committenza”, coordinato dalla Regione Umbria– fornisce un quadro ricognitivo delle norme emanante nel corso degli ultimi anni, spesso sovrapposte e confuse, in materia di aggregazione della domanda pubblica.
Lo strumento mira ad orientare le stazioni appaltanti e gli operatori economici sulla riorganizzazione e razionalizzazione della committenza pubblica di lavori, servizi e forniture. Un tema sul quale il legislatore è intervenuto ripetutamente senza che le nuove fattispecie siano state coordinate rispetto alle norme emanate in precedenza.
Si pensi ad esempio al ruolo ed alle funzioni delle Stazioni Uniche Appaltanti (SUA), centrali di committenza, associazioni, unioni e consorzi di comuni, soggetti aggregatori, centrali regionali di acquisto. La guida contiene anche una tabella di ricognizione dei soggetti aggregatori regionali istituiti ai sensi dell’art. 9 del D.L. 66/2014 (24.02.2015 - tratto da e link a www.itaca.org).

INCARICHI PROGETTUALI: Geometri: contributo integrativo al 5%.
Dal 01.01.2015 è scattato l'aumento dal 4 al 5% del contributo integrativo per i geometri iscritti alla CIPAG (cassa italiana di previdenza e assistenza geometri).
I geometri iscritti alla CIPAG, pertanto, dovranno indicare la nuova misura del contributo nelle fatture emesse a partire dal 01.01.2015.
E' rimasta invece fissa al 4% la misura del contributo per le prestazioni effettuate nei confronti delle amministrazioni pubbliche indicate nell'elenco predisposto dall'ISTAT e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 210 del 10.09.2014 (... continua) (17.02.2015 - link a www.fiscoetasse.com).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Soppressione del trattenimento in servizio e modifica della disciplina della risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro - Interpretazione ed applicazione dell'articolo 1 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114 (circolare 19.02.2015 n. 2/2015).

SINDACATI

EDILIZIA PRIVATALotta all'illegalità - Cominciamo con l'illegittima interposizione di manodopera e con gli incarichi "facili" (CGIL-FP di Bergamo, nota 26.02.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti della Provincia - Ricollocazione per mobilità considerata più un problema che un'opportunità (CGIL-FP di Bergamo, nota 13.02.2015).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 10 del 03.03.2015, "Nomina dei commissari ad acta per il completamento della procedura di approvazione dei PGT di cui all’art. 25-bis, comma 3, della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»" (deliberazione G.R. 26.02.2015 n. 3195).

PATRIMONIO: G.U. 02.03.2015 n. 50 "Criteri ambientali minimi per l’acquisto di articoli per l’arredo urbano" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 05.02.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 28.02.2015 n. 49 "Testo del decreto-legge 31.12.2014, n. 192, coordinato con la legge di conversione 27.02.2015, n. 11, recante: «Proroga di termini previsti da disposizioni legislative»".

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 9 del 23.02.2015, "Secondo aggiornamento 2015 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 18.02.2015 n. 1188).

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: G.U. 21.02.2015 n. 43 "Regolamento recante modifiche al decreto del Presidente della Repubblica 30.04.1999, n. 162 per chiudere la procedura di infrazione 2011/4064 ai fini della corretta applicazione della direttiva 95/16/CE relativa agli ascensori e di semplificazione dei procedimenti per la concessione del nulla osta per ascensori e montacarichi nonché della relativa licenza di esercizio" (D.P.R. 19.01.2015 n. 8).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 19.02.2015 n. 41 "Accordo tra il Governo, le regioni e gli enti locali, concernente l’adozione di moduli unificati e standardizzati per la presentazione della comunicazione di inizio lavori (CIL) e della comunicazione di inizio lavori asseverata (CILA) per gli interventi di edilizia libera (Rep. Atti n. 157/CU)" (Conferenza Unificata, accordo 18.12.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 16.02.2015, "Ulteriori determinazioni in merito ai tempi di presentazione e/o aggiornamento, per l’anno 2015, della comunicazione per l’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento e degli altri fertilizzanti azotati definiti con d.d.g. 10588 del 13.11.2014" (decreto D.G. 12.02.2015 n. 1009).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: P. Palazzi, Modulistica unificata per CILA e CIL. Una cosa facile facile tanto per non semplificare (22.02.2015 - link a http://ufficiotecnico2012.blogspot.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Paone, Abbandono o deposito incontrollato di rifiuti: quando il reato è permanente? (nota a Cass. pen. n. 30910/2014) (Ambiente & Sviluppo n. 11/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L. Prati, La bonifica avviata volontariamente si può sempre interrompere (nota a TAR Lombardia n. 1768/2014) (Ambiente & Sviluppo n. 10/2014).

APPALTI: L. Ferrero e D. Muntoni, L’AGGIUDICAZIONE DELL’APPALTO SENZA LA PUBBLICAZIONE DEL BANDO DI GARA NELLA GAZZETTA UFFICIALE DELL’UNIONE EUROPEA (Gazzetta Amministrativa n. 3/2014).
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Il giudice nazionale -come previsto nell’art. 122 del codice del processo amministrativo- può astenersi dal pronunciare l'inefficacia del contratto, nonostante abbia accertato la violazione delle norme che dispongono debba esserci la pubblicazione del bando di gara nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea (come previsto dalla direttiva 2004/18/CE) laddove ricorrano le condizioni di cui all'articolo 2-quinquies, paragrafo 4, dettate dalla medesima direttiva 89/665/CEE?

APPALTI: M. Dell'Unto, APPLICAZIONE DELL’ART. 38, CO. 1, LETT. B), DEL D.LGS. 12.4.2006, N. 163 A SEGUITO DELL’ENTRATA IN VIGORE DEL D.LGS. 06.09.2011, N. 159 (Gazzetta Amministrativa n. 3/2014).
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Determinazione n. 2 del 02.09.2014 dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. Analisi e risoluzione delle criticità derivanti dalle modifiche del d.lgs. 06.09.2011 n. 159.

APPALTI: T. Molinaro, RESPONSABILITÀ PRECONTRATTUALE DELLA P.A.: PRESUPPOSTI E QUANTIFICAZIONE DEL DANNO RISARCIBILE (Gazzetta Amministrativa n. 3/2014).
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Il Consiglio di Stato torna ad occuparsi degli aspetti relativi alla responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione nel settore delle procedure ad evidenza pubblica.

APPALTI: E. Gai, RICONOSCIMENTO DEI DEBITI FUORI BILANCIO E INERZIA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE (Gazzetta Amministrativa n. 3/2014).
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Ai sensi dell’art. 194 del TUEL sussiste un obbligo giuridicamente rilevante per l’amministrazione di provvedere sull’istanza di riconoscimento dei debiti fuori bilancio.

AMBIENTE-ECOLOGIA: P. Turco, L’INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO: ASPETTI, PROBLEMATICHE E SPUNTI DI RIFLESSIONE (Gazzetta Amministrativa n. 3/2014).
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Inquinamento elettromagnetico. Principi informatori. La disciplina legislativa interna e comunitaria. Gli orientamenti giurisprudenziali.

AMBIENTE-ECOLOGIA: S. Rosolen, Abbandono di rifiuti da parte di terzi e responsabilità penale del proprietario (Ambiente & Sviluppo n. 8-9/2014).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

APPALTI: Soggetti aggregatori, elenco al via. Modulo online.
Online il modulo per la presentazione all'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) delle richieste di iscrizione all'elenco dei soggetti aggregatori.

È disponibile da ieri il file in formato excel, di cui alla determinazione 11.02.2015 n. 2, che consente ai candidati a ricoprire il ruolo di soggetti aggregatori, di redigere in modo completo ed inviare, via Posta elettronica certificata, la domanda di iscrizione al relativo elenco (si veda ItaliaOggi del 19/2/2015).
Il file si compone di due fogli, entrambi da compilare, e deve essere allegato alla domanda conservando il formato e i vincoli presenti. Il termine di 45 giorni a disposizione per i soggetti candidati decorrerà dalla data di pubblicazione della Determinazione anche sulla Gazzetta Ufficiale, che avverrà a breve.
Il file è disponibile sia nella Determinazione che nella sezione «modulistica». La norma di legge punta a ridurre il numero delle stazioni appaltanti, costituendo 35 soggetti «aggregatori della domanda» (articolo ItaliaOggi del 27.02.2015).

APPALTI: Centrali uniche, l'elenco scalda i motori.
Pubblicate dall'Anac le indicazioni per la richiesta di iscrizione nell'elenco delle 35 centrali di committenza; con la pubblicazione sulla gazzetta ufficiale della determina 2/2015 scatteranno i 45 giorni per la presentazione delle domande. A breve disponibile un file Excel sul portale www.anticorruzione.it sezione Servizi - Modulistica.

Sono queste alcune delle indicazioni fornite dall'Anac con la determinazione 11.02.2015 n. 2 relativa alle modalità di iscrizione nell'elenco dei soggetti aggregatori di cui all'art. 9, co.2 del dl 66/14, in applicazione dell'articolo 3, comma 1, del dpcm 11.11.2014 (pubblicato in G.U. n. 15 del 20.01.2015).
La norma di legge prevede infatti, nello spirito di ridurre il numero delle stazioni appaltanti che, intanto, si costituiscano 35 soggetti «aggregatori della domanda» e che ad esse debbano poi fare riferimento gli enti di spesa (ma gli obblighi di ricorrere alle centrali uniche di committenza sono stati rinviati dal decreto legge «mille proroghe» a settembre).
Potranno presentare domanda, nei 45 giorni successivi alla pubblicazione della determina 2/2015 sarà uscita sulla gazzetta ufficiale, i candidati che «svolgono attività di centrale di committenza ai sensi dell'art. 33 del dlgs 163/2006 con carattere di stabilità, mediante un'organizzazione dedicata allo svolgimento dell'attività di centrale di committenza, per il soddisfacimento di tutti i fabbisogni di beni e servizi dei relativi enti locali».
I soggetti interessati dovranno inviare richiesta formale all'Autorità nazionale anticorruzione (articolo ItaliaOggi del 19.02.2015).

APPALTI: Applicazione dell’art. 3, comma 1, del DPCM 11.11.2014 pubblicato in GU n. 15 del 20.01.2015 (determinazione 11.02.2015 n. 2 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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Avviso del 26.02.2015: “E’ disponibile da oggi il file excel di cui alla Determinazione n. 2 dell’11.02.2015, che consente ai candidati a Soggetti aggregatori, di redigere in modo completo ed inviare -via PEC- la domanda di iscrizione al relativo elenco.
Il file si compone di due fogli, da compilare entrambi e allegare alla domanda conservando il formato e i vincoli presenti.
Il termine 45 giorni a disposizione per i soggetti candidati decorrerà dalla data di pubblicazione della Determinazione in parola anche sulla Gazzetta Ufficiale, che avverrà a breve”.

APPALTIAppalti, nell’«estrema urgenza» dati all’Anac entro 15 giorni. Controlli. Le richieste sugli interventi dello Sblocca-Italia.
Le Pa che fanno ricorso alla procedura negoziata per «estrema urgenza» per realizzare interventi su edifici scolastici o di messa in sicurezza del territorio devono informare l’Anac.
Il presidente dell’Autorità (
comunicato del Presidente 05.02.2015) ha fornito le indicazioni operative per consentire il controllo a campione sugli affidamenti realizzati in base alle disposizioni derogatorie previste dall’articolo 9 della legge 164/2014.
La nuova norma si collega all’articolo 57 del Codice dei contratti, individuando come casi di possibile ricorso alla procedura negoziata per appalti di lavori di valore inferiore alla soglia comunitaria in base a ragioni di urgenza gli interventi indifferibili per la messa in sicurezza degli edifici scolastici, per la mitigazione dei rischi idraulici e geomorfologici, per l’adeguamento alla normativa antisismica, nonché per la tutela ambientale e del patrimonio culturale.
Gli affidamenti sono semplificati sia nelle forme di pubblicità obbligatoria (pubblicazione del bando solo sul sito dell’ente) sia nei tempi di presentazione delle offerte (dimezzati rispetto ai termini ordinari), ma sono vantaggiosi anche nella fase successiva, poiché permettono di stipulare il contratto di appalto subito dopo l’aggiudicazione, senza necessità di far trascorrere il termine dilatorio. Le Pa devono verificare preventivamente la sussistenza delle condizioni per la dichiarazione di estrema urgenza, e certificare come «indifferibile» l’intervento.
Questi elementi supporteranno anche la motivazione della determinazione a contrarre, che dovrà risultare articolata ed esplicativa della relazione tra la situazione e il particolare presupposto di diritto.
La rilevazione comporta un’analisi effettiva degli immobili e dei contesti, che deve evidenziare gli elementi dimostrativi dell’indifferibilità dei lavori. Per consentire all’Anac di controllare a campione il corretto utilizzo delle procedure semplificate, i responsabili del procedimento delle stazioni appaltanti, in sede di acquisizione del Cig, devono richiamare la riconducibilità degli interventi alle procedure dell’articolo 9 della legge n. 164/2014 con l’inserimento di tale indicazione nelle schede già in uso per la trasmissione dei dati (già aggiornate dall’Autorità).
Nella resa dei dati va specificato l’utilizzo della gara informale (articolo 57, comma 6, del Codice) o del cottimo fiduciario (articolo 125): la precisazione dell’autorità sollecita quindi le Pa a gestire le procedure in modo corretto, distinguendo i due livelli di semplificazione,
La comunicazione successiva sull’avvenuto affidamento (bandi, verbali di gara, soggetti invitati, importo di aggiudicazione, nominativo dell’affidatario), segue quanto previsto dall’articolo 7, comma 8, del Codice, ma deve essere trasmessa all’autorità entro 15 giorni dalla data dell’affidamento, invece dei 30 ordinari, proprio per consentire all’Anac un controllo tempestivo, in coerenza con le ragioni di tempestività sottese alla normativa
 (articolo Il Sole 24 Ore del 16.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICI: All'anac. Scuole, lavori certificati.
Per i lavori da affidare in estrema urgenza per la messa in sicurezza delle scuole e per la mitigazione del rischio idrogeologico e ambientale, le stazioni appaltanti devono attestare e certificare all'Anac l'indifferibilità del lavoro per consentire controlli a campione; le comunicazioni successive all'appalto andranno fatte in soli 15 giorni.

È quanto chiede l'Autorità nazionale anticorruzione nel comunicato del Presidente 05.02.2015, reso noto ieri.
Le richieste riguardano le opere da affidare con «estrema urgenza» in base all'articolo 9, comma 1 della legge 164/2014, relative alla messa in sicurezza degli edifici scolastici, alla mitigazione dei rischi idraulici e geomorfologici, all'adeguamento alla normativa antisismica e alla tutela ambientale e del patrimonio culturale.
Le deroghe riguardano opere da affidare di importo inferiore ai 5,18 milioni di lavori per le quali si potranno bypassare diverse disposizioni del Codice dei contratti pubblici (pubblicità del bando, termini di ricezione delle offerte e di stipula dei contratti), e invitare soli 10 operatori alla procedura negoziata. Per servizi e forniture sotto i 207 mila euro si potrà invece procedere anche tramite affidamento diretto previa consultazione di 5 operatori economici. La legge tempera questi ampi livelli di deroga prevedendo un controllo «a campione» dell'Anac sull'operato delle stazioni appaltanti.
L'Autorità, quindi, con il comunicato siglato nei giorni scorsi, chiede alle amministrazioni in primo luogo di effettuare «preventivamente la ricognizione volta a verificare la sussistenza delle condizioni per la dichiarazione di estrema urgenza» e di certificare, motivandolo, che si tratti di situazione indifferibile.
Di tale interventi occorrerà poi che le amministrazioni trasmettano all'Anac le schede di rilevazione dei dati, mentre sarà cura dei responsabili del procedimento al momento dell'acquisizione del codice identificativo gara indicare che si tratti di interventi affidati con le procedure derogatorie previste dal decreto 133 (articolo ItaliaOggi del 12.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICIAppalti, l’«estrema urgenza» va certificata subito all’Anac.
Prima di imboccare la via veloce per i lavori di «estrema urgenza» sotto la soglia comunitaria, le stazioni appaltanti devono verificare che ne ricorrano i presupposti e certificarli all’Autorità anticorruzione, specificando il tutto in sede di acquisizione del Codice identificativo gara. I dati su bandi, verbali di gara, soggetti invitati, importo di aggiudicazione e così via devono poi essere trasmessi entro 15 giorni (invece dei 30 ordinari) all’Anac, che effettuerà controlli a campione per evitare che l’«urgenza» nasconda violazioni delle regole anti-corruzione.

A fissare le nuove procedure è il comunicato del Presidente 05.02.2015 dell’Autorità, Raffaele Cantone: le regole ad hoc sull’«estrema urgenza» riguardano gli interventi per la messa in sicurezza degli edifici scolastici, quelli per ridurre i rischi idrogeologici, per l’adeguamento alle norme antisismiche e per la tutela ambientale e del patrimonio culturale.
In questi casi, le Pa seguono regole semplificate che prevedono la pubblicazione del bando sul proprio sito Internet e il dimezzamento dei tempi per le offerte (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.02.2015).

APPALTISoccorso istruttorio. Gare, possibile integrare i documenti, non i requisiti.
Un operatore economico può regolarizzare dichiarazioni relative ai requisiti che ha dimenticato di presentare in gara o che ha prodotto in modo incompleto, ma il possesso degli stessi requisiti deve sussistere alla scadenza del termine fissato nel bando per la presentazione dell’offerta o della domanda di partecipazione, senza possibilità di acquisirli successivamente.

La
determinazione 08.01.2015 n. 1 dell’Autorità nazionale anticorruzione chiarisce le nuove modalità di gestione del soccorso istruttorio in base all’articolo 38, comma 2-bis del Codice dei contratti, definendo alcuni passaggi operativi che incidono in modo significativo sulle procedure di gara.
Il primo elemento rilevante si rinviene nell’ampia possibilità di utilizzo dell’istituto, sia con riferimento alle dichiarazioni sostitutive sia con riguardo ai documenti necessari per la partecipazione alla gara: tuttavia il soccorso istruttorio non può essere strumentalmente utilizzato per l’acquisizione, in gara, di un requisito o di una condizione di partecipazione, mancante alla scadenza del termine di presentazione dell’offerta.
L’Anac evidenzia come spetti alle stazioni appaltanti individuare gli elementi indispensabili la cui irregolarità comporti l’applicazione della sanzione e la richiesta di regolarizzazione all’operatore economico, fornendo peraltro alcune indicazioni orientative.
La mancata allegazione del documento di identità del sottoscrittore, ad esempio, configura un’irregolarità sanabile, così come possono essere regolarizzate successivamente (posta in ogni caso l’applicazione della sanzione) le mancate sottoscrizioni dell’istanza di partecipazione.
Anche la sottoscrizione dell’offerta può essere sanata, mentre non possono essere integrati i contenuti dell’offerta poiché in tal caso si determinerebbe una violazione del principio di parità di trattamento.
Le stazioni appaltanti devono porre particolare attenzione ai casi in cui non è invece proprio possibile la regolarizzazione, individuati dall’Anac in tutti gli inadempimenti di prescrizioni obbligatorie che garantiscono la segretezza delle offerte, come ad esempio la mancata sigillatura dei plichi.
Uno dei punti più significativi dell’intervento regolatorio dell’Anac riguarda l’incameramento della cauzione provvisoria in caso di mancata regolarizzazione degli elementi essenziali carenti da parte dell’operatore economico, situazione per cui la stazione appaltante deve procedere all’esclusione del concorrente dalla gara.
Per questa ipotesi la stazione appaltante deve prevedere nel bando che si proceda all’incameramento della cauzione solo nell’ipotesi in cui la mancata integrazione dipenda da una carenza del requisito dichiarato. L’Anac evidenzia invece come non si debba procedere all’incameramento nel caso in cui il concorrente decida semplicemente di non avvalersi del soccorso istruttorio.
Questa indicazione resa dall’Autorità configura per l’operatore economico la possibilità di estromettersi volontariamente dalla gara, rinunciando alla regolarizzazione.
Quando invece il concorrente aderisca all’utilizzo del soccorso istruttorio e debba pagare la sanzione, può decidere di farla escutere dalla cauzione, che dovrà però essere immediatamente reintegrata, a pena di esclusione (con specificazione di questa condizione nel bando di gara)
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.02.2015).

PATRIMONIO: Autostrade. La delibera dell’Anac. «Da sostituire i guard-rail non omologati».
Spunta un’incognita sui piani finanziari delle concessionarie autostradali: nelle riqualificazioni delle varie tratte, le barriere di sicurezza (guard-rail o new jersey)devono essere sostituite se non sono omologate secondo gli standard attuali.

Questo è il parere dell’Anac (Autorità nazionale anticorruzione), espresso nella delibera 22.12.2014 n. CP-30, di cui si è avuta notizia solo l’altro ieri durante l’audizione del presidente Raffaele Cantone davanti alla commissione Ambiente del Senato (si veda Il Sole 24 Ore di ieri).
La delibera chiude il fascicolo aperto nell’agosto 2013 dall’Avcp (Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, confluita nell’Anac) dopo l’incidente del 28 luglio sull’A16, costato la vita a 40 passeggeri di un bus caduto dal viadotto Acqualonga. È anche sulla scorta di questa delibera che la Procura di Avellino ha chiuso le indagini preliminari, che hanno coinvolto anche i vertici di Autostrade per l’Italia (si veda Il Sole 24 Ore del 14 gennaio).
Il punto cruciale della questione sta proprio nell’obbligo di sostituire le barriere prive di omologazione attuale, quando si procede a una riqualificazione. Infatti, le riqualificazioni delle barriere su tutta la rete sono tra gli impegni che Autostrade per l’Italia ha assunto in cambio del prolungamento della sua concessione fino al 2038. Il concessionario ha sempre interpretato ciò come obbligo di sostituire solo i guard-rail di primo impianto, lasciando in opera le barriere (in prevalenza new jersey) che li avevano sostituiti 20-25 anni fa. Anas e ministero delle Infrastrutture non hanno mai obiettato alcunché. Ora l’Anac propende invece per l’interpretazione più restrittiva del Dm 223/1992, il primo che ha disciplinato organicamente le omologazioni: la norma ha imposto l’uso di modelli omologati in base ai propri parametri per le nuove costruzioni, per «l’adeguamento di tratti significativi» e la «ricostruzione e riqualificazione di parapetti di ponti e viadotti situati in posizione pericolosa».
Dalla delibera emerge che Autostrade per l’Italia tra il 2008 e il 2012 ha consuntivato 1,444 miliardi di euro in spese di manutenzione, contro una previsione di 1,410 prevista nella convenzione per conservare la concessione. Dunque, se si rispettasse l’interpretazione dell’Anac, occorrerebbe destinare risorse aggiuntive.
Le somme consuntivate sono da considerare “al nominale”: una parte rilevante dei lavori è stata affidata in house a controllate (principalmente la Pavimental) e poi data in subappalto a imprese esterne con ribassi anche superiori al 30%. Come denunciato dal deputato Massimo De Rosa (M5S) ieri in commissione Ambiente, ulteriore risparmio verrebbe dal mancato riconoscimento a queste imprese degli oneri per la sicurezza sul lavoro. Cantone ha annunciato che inserirà la vigilanza su questi aspetti nel piano dei controlli che l’Anac effettuerà quest’anno. Il piano dovrebbe essere approvato oggi
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.02.2015).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: La nuova disciplina (d.l. n. 90/2014, convertito dalla l. n. 114/2014), in ossequio all’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, preliminari al codice civile, non ha effetto retroattivo, né può considerarsi intervenuta quale norma di interpretazione autentica della precedente, e, pertanto, dispone per il futuro.
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Ai fini del riconoscimento dell’incentivo va considerato determinante non tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto, che “deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica”.

Pertanto,
ove tale presupposto non sia presente, non si può derogare al principio, fondamentale in materia di pubblico impiego, di onnicomprensività del trattamento economico riconosciuto al dipendente per le prestazioni rientranti nei propri doveri di ufficio.
Alla luce di quanto esposto, si può affermare che:
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a decorrere dall’entrata in vigore (19.08.2014) degli artt. 13 e 13-bis del d.l. n. 90/2014, non è possibile riconoscere alcun incentivo per la redazione di atti di pianificazione, in virtù sia dell’abrogazione dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, sia dell’assenza di tale attività tra quelle incentivate dalla nuova disciplina dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006;
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per le attività affidate e compiute prima dell’entrata in vigore di tale norma, il riconoscimento dell’incentivo è possibile solo se la redazione degli atti di pianificazione risulti strettamente e direttamente connessa alla progettazione di opere pubbliche.

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Il Consiglio delle autonomie locali ha inoltrato alla Sezione –con nota prot. n. 659/1.13.9 del 14.01.2015– una richiesta di parere, formulata dal Sindaco del Comune di Sansepolcro, concernente la possibilità di riconoscere l’incentivo di progettazione ex art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006 al personale del settore urbanistica, incaricato della redazione del regolamento urbanistico comunale; settore al quale l’amministrazione ha posto come obiettivi ”la predisposizione degli atti strumentali alla redazione di alcuni progetti preliminari di oo.pp. inserite nel programma annuale e pluriennale.
Tale incarico è stato affidato prima dell’abrogazione dell’art. 92, comma 6, avvenuta con il d.l. n. 90/2014, convertito dalla l. n. 114/2014.
...
Preliminarmente bisogna ricordare che i commi 5 e 6 dell’art. 92 del d.lgs. n. 163/2006, che disciplinavano rispettivamente gli incentivi di progettazione per attività tecniche connesse alla realizzazione di lavori o opere pubbliche e per la redazione di atti di pianificazione, sono stati abrogati dall’art. 13, comma 1, d.l. n. 90/2014, convertito dalla l. n. 114/2014.
La disciplina relativa all’incentivazione della progettazione interna è stata oggetto di riconsiderazione ad opera del successivo art. 13-bis dello stesso d.l. n. 90/2014, che ha inserito all’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006 i nuovi commi 7-bis e 7-ter, che così ora statuiscono: ”A valere sugli stanziamenti di cui al comma 7, le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l'innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un'opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall'amministrazione, in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare” (7-bis);
L'80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l'innovazione è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell'articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d'asta offerto. Ai fini dell'applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all'articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale” (7-ter).
La nuova disciplina, in ossequio all’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, preliminari al codice civile, non ha effetto retroattivo, né può considerarsi intervenuta quale norma di interpretazione autentica della precedente, e, pertanto, dispone per il futuro.
Considerato, peraltro, che l’incarico è stato affidato prima della entrata in vigore del d.l. n. 90/2014, convertito dalla l. n. 114/2014, ne deriva la necessità, per la soluzione del quesito in esame, di analizzare la disciplina previgente.
Prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina, l’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, che disciplinava l’attribuzione dell’incentivo “per la redazione di un atto di pianificazione comunque denominato”, era stato oggetto di discordi interpretazioni da parte della giurisprudenza contabile in sede consultiva.
I contrasti interpretativi sono stati risolti dalla Sezione delle autonomie con la
deliberazione 15.04.2014 n. 7, resa su questione di massima, la quale ha stabilito che, ai fini del riconoscimento dell’incentivo, va considerato determinante non tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto, che “deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica”.
Pertanto,
ove tale presupposto non sia presente, non si può derogare al principio, fondamentale in materia di pubblico impiego, di onnicomprensività del trattamento economico riconosciuto al dipendente per le prestazioni rientranti nei propri doveri di ufficio.
Alla luce di quanto esposto, si può conclusivamente affermare che:
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a decorrere dall’entrata in vigore (19.08.2014) degli artt. 13 e 13-bis del d.l. n. 90/2014, non è possibile riconoscere alcun incentivo per la redazione di atti di pianificazione, in virtù sia dell’abrogazione dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, sia dell’assenza di tale attività tra quelle incentivate dalla nuova disciplina dell’art. 93 del d.lgs. n. 163/2006;
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per le attività affidate e compiute prima dell’entrata in vigore di tale norma, il riconoscimento dell’incentivo è possibile solo se la redazione degli atti di pianificazione risulti strettamente e direttamente connessa alla progettazione di opere pubbliche. La formulazione adottata dall’ente nella richiesta di parere (“predisposizione di atti strumentali alla redazione di alcuni progetti preliminari di opere pubbliche”), non consente di verificare l’esistenza di tale requisito, che parrebbe, prima facie, non sussistere.
L’ente, pertanto, valuterà se la fattispecie concreta risponde al criterio fissato nella
deliberazione 15.04.2014 n. 7 della Sezione delle autonomie per dar corso all’erogazione dell’incentivo, che, comunque, potrà riguardare solo le attività prestate prima della novella introdotta dal d.l. n. 90/2014 (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 05.03.2015 n. 12).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Il momento da prendere in considerazione per determinare il sorgere del diritto all’incentivo non è l’aggiudicazione dell’opera o del lavoro, ma la sua approvazione e il suo inserimento nei documenti di programmazione e di bilancio, secondo le disposizioni del “Codice” (art. 128) e del TUEL. Ovviamente, la misura dell’incentivo spettante in concreto dipenderà dai criteri di riparto assunti nel Regolamento, per le sole attività che sono state e che verranno effettivamente poste in essere “per ciascuna opera o lavoro”, secondo i criteri e nella misura stabilita dalla disciplina vigente al momento dell’approvazione dell’opera.
La costituzione di un fondo per la progettazione e l’innovazione, prevista dal comma 7-bis dell’art. 93 del “Codice”, sul quale far confluire le risorse destinate a remunerare la progettazione interna, si applica solo con riferimento alle risorse che ad esso potranno essere destinate a valere sugli stanziamenti per la realizzazione dei singoli lavori inseriti nel programma triennale dei lavori pubblici, e nei suoi aggiornamenti annuali, a far data dalla entrata in vigore della legge che tale fondo istituisce.
Nell’ipotesi di un’opera inserita nell’elenco annuale dei lavori pubblici, allegato a un bilancio di previsione approvato prima dell’entrata in vigore della legge di conversione del D.L. n. 90/2014, la disciplina che regola l’incentivo resta quella vigente al momento in cui l’opera è stata approvata, indipendentemente dal momento in cui le prestazioni incentivate vengono in concreto poste in essere, se cioè esse siano già state compiute, ovvero, debbano ancora essere realizzate, purché siano realizzate insieme all’opera.

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Con nota del 12.12.2014 il Sindaco del Comune di Ruoti espone quanto segue.
L’art. 13 del D.L. n. 90/2014, come modificato in sede di conversione con L. n. 114/2014, ha abrogato i commi 5 e 6 dell’articolo 92 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture (D.Lgs.vo n. 163/2006). Contestualmente il successivo art. 13-bis (introdotto in sede di conversione) ha aggiunto, dopo il comma 7 dell’art. 93 del citato codice dei contratti pubblici, i commi 7-bis, ter, quater e quinquies.
Pertanto a decorrere dall’entrata in vigore della Legge di conversione n. 114/2014, i Comuni devono fare riferimento, per la disciplina degli incentivi al personale interno incaricato di attività tecniche nell’ambito del procedimento di aggiudicazione ed esecuzione di una opera pubblica, alle nuove disposizioni che prevedono l’adozione di un regolamento comunale che stabilisca la percentuale massima destinata a tali compensi e recepisca i criteri di riparto delle risorse convenuti in sede di contrattazione decentrata.
Tanto premesso, si è chiesto di conoscere l’avviso di questa Sezione sui seguenti punti:
1) se fino all’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione con modifiche al D.L. n. 90/2014, possono trovare applicazione le previgenti disposizioni normative per tutte quelle specifiche attività portate a compimento o debba applicarsi una differente consistenza del beneficio a seconda che la stessa attività sia stata compiuta prima o dopo il 19.08.2014;
2) se la nuova normativa vada applicata esclusivamente per gli incarichi tecnici attribuiti per lavori e opere aggiudicati ed eseguiti dopo l’entrata in vigore della legge n. 114/2014.
...
6. La questione posta dal Sindaco del Comune di Ruoti si appunta sulle modifiche agli artt. 92 e 93 del D.Lgs.vo n. 163/2006, apportate dagli artt. 13 e 13-bis del D.L. n. 90/2014, modifiche peraltro intervenute con la legge di conversione del citato decreto legge.
In presenza di ricorrenti novelle che hanno più volte interessato la materia si rende opportuno, preliminarmente, ricostruire il quadro normativo di riferimento rilevante ai fini che qui interessano.
7. L’art. 92, comma 5, del D.Lgs.vo n. 163/2006, in appresso, per brevità, “Codice” (dei contratti pubblici), nella formulazione antecedente le modifiche di cui si dirà, stabiliva che “Una somma non superiore al due per cento dell’importo posto a base di gara di un’opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all’articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall’amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all’entità e alla complessità dell’opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell’incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione, l’incentivo corrisposto al singolo dipendente non può superare l’importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote parti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. I soggetti di cui all’articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri”.
8. Tale disposizione non veniva toccata dal testo originario del D.L. n. 90/2014. L’art. 13, comma 1, infatti, si limitava ad aggiungere il comma 6-bis il quale, in ragione della onnicomprensività del relativo trattamento economico, stabiliva che al personale con qualifica dirigenziale non potessero essere corrisposte le somme costituenti gli incentivi di cui al comma 5.
9. Le modifiche sulle quali il Comune istante chiede chiarimenti interpretativi sono state introdotte in sede di conversione del D.L. 90/2014. La legge di conversione n. 114/2014, ha innovato, infatti, sia l’originario testo del D.L., sia il testo degli artt. 92 e 93 del “Codice” dei contratti pubblici. Le modifiche consistono:
a) nell’abrogazione del comma 5 dell’art. 92 del “Codice”, sopra riportato;
b) nella soppressione del comma 6-bis dell’art. 92, introdotto dall’art. 13 comma 1, D.L. n. 90/2014;
c) nell’aggiunta dei commi 7-bis-ter-quater-quinquies all’art. 93 del medesimo “Codice”.
10. In definitiva, a decorrere dalla conversione in legge del D.L. n. 90/2014, la disciplina degli incentivi alla progettazione interna di opere o lavori non si trova più allocata, nonostante la sua rubrica, al comma 5 dell’art. 92 del D.Lgs.vo n. 163/2006 (comma abrogato), ma è stata riproposta, con le modifiche apportate dai commi 7-bis-ter-quater-quinquies, all’interno del successivo art. 93.
11. Ciò chiarito, si deve ora affrontare il problema se, in occasione della trasmigrazione delle disposizioni regolanti la disciplina degli incentivi alla progettazione da un articolo ad un altro della stessa fonte, sia anche mutato (e in che cosa) il loro significato precettivo e, dunque, la norma che se ne ricava.
12. Per prima cosa giova riportare per esteso l’enunciato che compone il testo delle disposizioni di nuovo inserimento.
Il comma 7-bis dell’art. 93 del “Codice dei contratti pubblici” prevede che, a valere sugli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti, “le amministrazioni pubbliche destinano ad un fondo per la progettazione e l’innovazione risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro; la percentuale effettiva è stabilita da un regolamento adottato dall’amministrazione, in rapporto all’entità e alla complessità dell’opera da realizzare”.
Il comma 7-ter fissa nella misura dell’80 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l’innovazione, come costituito ex comma 7-bis, la quota da ripartirsi, “per ciascuna opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale e adottati nel regolamento di cui al comma 7-bis, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori; gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione. Il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo. Il regolamento stabilisce altresì i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell’articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d’asta offerto. Ai fini dell’applicazione del terzo periodo del presente comma, non sono computati nel termine di esecuzione dei lavori i tempi conseguenti a sospensioni per accadimenti elencati all’articolo 132, comma 1, lettere a), b), c) e d). La corresponsione dell’incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell’anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale”.
Il comma 7-quater dispone per il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo per la progettazione e l’innovazione, destinandole “all’acquisto da parte dell’ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa per centri di costo nonché all’ammodernamento e all’accrescimento dell’efficienza dell’ente e dei servizi ai cittadini”.
Il comma 7-quinquies estende anche agli organismi di diritto pubblico e ai soggetti di cui all’articolo 32, comma 1, lettere b) e c), la possibilità di adottare con proprio provvedimento criteri analoghi a quelli di cui ai commi 7-bis, 7-ter e 7-quater.
13. Rispetto alle norme che precedentemente regolavano la materia degli incentivi alla progettazione interna,
presenta carattere senz’altro innovativo (cfr. Sezione controllo Emilia Romagna,
parere 19.09.2014 n. 183) l’enunciato ora contenuto nell’ultimo periodo del nuovo comma 7-ter dell’art. 93, che espressamente esclude il personale con qualifica dirigenziale dagli aventi titolo al riparto degli incentivi per la progettazione. Tale disposizione, nell’indicare i soggetti destinatari della quota (80%) del fondo incentivi (responsabile del procedimento e incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori), esclude dal riparto il personale con qualifica dirigenziale, così riproducendo, sostanzialmente, il disposto del 6-bis dell’art. 92, per la prima volta introdotto dal D.L. n. 90/2014 e poi abrogato in sede di conversione.
14. Parzialmente innovata, rispetto al regime disciplinato dall’art. 92 del “Codice” dei contratti pubblici, si presenta, invece, la determinazione della misura dell’incentivo da destinare alla progettazione interna. In precedenza (ex art. 92, comma 5) la somma che a tale scopo era in concreto destinata, entro l’importo massimo del 2% dell’importo posto a base di gara per ciascuna opera o lavoro, rappresentava, per intero, la misura dell’incentivo da ripartire. L’attuale disciplina, che prevede la costituzione di un fondo (per la progettazione e l’innovazione) nel quale allocare le risorse finanziarie a ciò destinate non consente più di utilizzare l’intero importo del fondo al fine di incentivare la progettazione ma solo l’80% di esso, venendo il rimanente 20% a essere destinato alle finalità indicate al comma 7-quater.
15. Non rappresenta una novità in assoluto la prevista costituzione di un “fondo” da alimentare con le risorse finanziarie destinate a incentivazione. Si tratta, infatti, della riproposizione di un meccanismo contabile già in passato sperimentato. Ed invero l’art. 18 della legge n. 109/1994, nella sua originaria formulazione, prevedeva già la costituzione di un fondo interno sul quale far confluire una quota non superiore all’1% del costo preventivato di un’opera o di un lavoro, da ripartire in base a un Regolamento del Governo.
L’art. 6, comma 13, della legge n. 127/1997, aveva poi aggiunto il comma 1-bis, a tenore del quale il fondo andava ripartito –non diversamente da quanto è ancora oggi stabilito- per ogni singola opera o atto di pianificazione, sulla base di un regolamento dell’amministrazione aggiudicatrice o titolare dell’atto di pianificazione. Tale comma 1-bis veniva riformulato dall’art. 2, comma 18, della legge n. 191/1998, che ha prescritto che nel regolamento in questione (non più del Governo) fossero indicati i criteri di ripartizione che tenessero conto delle responsabilità professionali assunte dagli autori dei progetti e dei piani, nonché dagli incaricati della direzione dei lavori e del collaudo in corso d’opera.
Il ricorso al fondo è venuto meno con la riscrittura del comma 1 dell’art. 18 della legge n. 109/1994 disposta dall’art. 13, comma 4, della legge n. 144/1999, il cui testo è rimasto sostanzialmente immutato –fatta salva l’elevazione dell’aliquota al 2%, ex art. 3, comma 29, L. n. 350/2003- fino alla sua definitiva ed espressa abrogazione (ex art. 256 del “Codice”), in coincidenza con l’entrata in vigore dell’art. 92, che ha rappresentato la nuova fonte della disciplina, soggetta essa stessa a ripetute novelle, fino a quella in esame introdotta dal D.L. n. 90/2014.
16. Queste ultime, nuove, disposizioni pretendono un adeguamento anche nei Regolamenti dei singoli Enti.
L’attuale comma 7-bis dell’art. 93 del “Codice”, non diversamente dal comma 5 (ora abrogato) dell’art. 92, stabilisce che la somma destinata a remunerare la progettazione interna va ripartita “con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall’amministrazione”. In particolare spetta al regolamento stabilire quale sia, in rapporto all’entità e alla complessità dell’opera da realizzare, la percentuale effettiva da destinare al fondo, entro il limite massimo del 2%.
Tuttavia, mentre la corresponsione dell’incentivo –che continua a essere disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti– nella vigenza del comma 5 dell’art. 92 del “Codice” teneva conto <delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere>, dopo le modifiche introdotte in sede di conversione del D.L. n. 90/2014, con il nuovo comma 7-ter dell’art. 93 si dovrà tenere conto “delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo”. Ogni Regolamento dovrà attenersi a questi parametri nel definire i criteri di riparto delle risorse del fondo.
Ulteriore novità è costituita dal fatto che il regolamento dovrà stabilire anche “i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell’articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d’asta offerto” (salvo sussistano le cause di giustificazione espressamente previste)
17. Resta fermo, invece, il divieto di corrispondere al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, incentivi che complessivamente, nel corso dell’anno, superino l’importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo.
18. Resta confermata, altresì, la disposizione secondo la quale le quote parti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie.
- quesito –
19. L’articolata ricostruzione del quadro normativo è necessaria per cogliere il quesito posto dal Sindaco del Comune di Ruoti, che mira a conoscere l’avviso di questa Sezione in ordine alla efficacia temporale delle nuove disposizioni, se esse, cioè, debbano trovare applicazione esclusivamente per gli incarichi tecnici attribuiti per lavori e opere aggiudicati ed eseguiti dopo l’entrata in vigore della legge n. 114/2014, oppure se anche le attività riferite a lavori e opere antecedenti debbano sottostare ad un trattamento differenziato a seconda che la stessa attività sia stata compiuta prima o dopo dell’entrata in vigore della predetta legge di conversione.
20. Le prescrizioni che, innovando la precedente disciplina, hanno fatto sorgere i dubbi espressi dal Comune istante sono quelle che hanno previsto:
i) l’istituzione di un fondo per la progettazione e l’innovazione;
ii) l’alimentazione del fondo con le risorse ottenute applicando l’aliquota stabilita del Regolamento dell’Ente, nella misura massima del 2%, degli importi posti a base di gara di un’opera o di un lavoro;
iii) l’utilizzo dell’80% di esso a incentivo della progettazione, essendo il rimanente 20% destinato alle finalità indicate al comma 7-quater;
iv) l’esclusione del personale dirigenziale dagli aventi titolo al riparto dell’incentivo per la progettazione;
v) l’adozione di un Regolamento che definisca i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto:
   - delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta;
   - della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive;
   - dell’effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo;
   - dei criteri e delle modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo, redatto nel rispetto dell’articolo 16 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207, depurato del ribasso d’asta offerto.
21. Tali disposizioni rappresentano un corpo normativo sostanzialmente omogeneo e coordinato che si innesta nella precedente disciplina, riformandola. Ne consegue che la questione relativa all’incidenza temporale di queste modifiche sui rapporti originati sotto la previgente regolamentazione non può essere risolta con riferimento soltanto ad alcune specifiche modifiche, o per singoli profili, ma deve trovare coerente soluzione con riferimento a tutto l’impianto normativo nel quale si inserisce.
Si ritiene di dover sottolineare, inoltre, che quest’ultimo non è rappresentato soltanto dalle norme in esame, ma deve tener conto anche di quelle che, più in generale, disciplinano la programmazione e l’esecuzione delle opere e dei lavori pubblici, il reperimento delle relative risorse finanziarie, la predisposizione degli strumenti di bilancio e i principi contabili che presiedono alla sua gestione. In altre parole, la disciplina dell’incentivo deve raccordarsi con quella che presiede alla realizzazione di opere e lavori pubblici e che si articola in una complessa fase di programmazione, che prevede il Piano triennale e l’elenco annuale dei lavori pubblici, che a loro volta devono trovare corrispondenza nei documenti programmatici e di bilancio dell’Ente. Mentre il programma triennale costituisce momento attuativo di studi di fattibilità e di identificazione e quantificazione dei bisogni e delle priorità dell’Ente, è con l’inserimento del lavoro o dell’opera nell’elenco annuale che si passa alla fase della verifica della sostenibilità finanziaria della stessa in relazione alle risorse dell’Ente.
A tal riguardo, i commi 9 e 10 dell’art. 128 del “Codice” prescrivono che l’elenco annuale (dei lavori) predisposto dalle amministrazioni aggiudicatrici deve essere approvato unitamente al bilancio preventivo, di cui costituisce parte integrante, e deve contenere l’indicazione dei mezzi finanziari stanziati sullo stato di previsione o sul proprio bilancio, ovvero disponibili in base a contributi o risorse dello Stato, delle regioni a statuto ordinario o di altri enti pubblici, già stanziati nei rispettivi stati di previsione o bilanci, nonché acquisibili ai sensi dell’articolo 3 del D.L. n. 310/1990, come modificato con legge di conv. n. 403/1990 e s.m.i.. Un lavoro non inserito nell’elenco annuale può essere realizzato solo sulla base di un autonomo piano finanziario che non utilizzi risorse già previste tra i mezzi finanziari dell’amministrazione al momento della formazione dell’elenco, fatta eccezione per le risorse resesi disponibili a seguito di ribassi d’asta o di economie. I lavori non ricompresi nell’elenco annuale non possono ricevere alcuna forma di finanziamento da parte di pubbliche amministrazioni. Con particolare riguardo ai Comuni, queste prescrizioni (che già avevano trovano conseguente svolgimento nell’art. 172 del TUEL, nella formulazione antecedente le modifiche introdotte dal D.Lgs.vo n. 118/2011) devono trovare allocazione nei documenti di programmazione secondo le regole previste negli esercizi in cui sono stati adottati, salvo, dal 2015, ricorrano i presupposti per l’applicazione delle prescrizioni contenute, in materia di lavori pubblici, nell’allegato 4/1 del citato D.Lgs.vo n. 118/2011, che, appunto, ne impone l’inserimento nel Documento unico di Programmazione (D.U.P.), Sezione Ordinaria, parte 2, documento unico che costituisce atto presupposto indispensabile per l'approvazione del bilancio di previsione (art. 170 del TUEL).
22. È in questo contesto e nell’ottica di valorizzazione delle risorse interne, che l’art. 90 del “Codice” affida, di regola, la redazione del progetto preliminare, definitivo ed esecutivo, nonché lo svolgimento di attività tecnico-amministrative connesse, ai dipendenti degli uffici tecnici delle stesse amministrazioni aggiudicatrici, se in possesso della necessaria professionalità.
Tuttavia, l’affidamento e la realizzazione di siffatti incarichi al personale interno non determina per costoro, in aggiunta alla normale retribuzione, il diritto al corrispettivo per l’attività professionale prestata, come spetterebbe al libero professionista (esterno) per il medesimo incarico, ma soltanto il diritto a percepire, a titolo di incentivo, una somma da determinarsi in sede di riparto (in questo senso si era già espressa, vigendo la legge n. 109/1994, l’Autorità di Vigilanza LL.PP. con l’Atto di Regolazione n. 6 del 04.11.1999, in G.U. 10.05.2000: ”La circostanza che le prestazioni relative alla progettazione attengono ad un'attività umana prettamente intellettiva e di contenuto corrispondente a quello proprio di una professione liberale, individualmente esercitata, non (è) idonea a far ritenere che, nel nostro ordinamento, i tecnici appartenenti ad ufficio pubblico svolgano un’attività di libera professione in quanto autori delle medesime elaborazioni intellettive proprie delle professioni liberali. Quel che, invece, è vero, è che l’attività di progettazione svolta da funzionari pubblici è attività professionalmente qualificata, ma non di libera professione. (…) Deriva da tali premesse la conseguenza che, nel caso della progettazione interna, come in precedenza individuata, la relativa prestazione dei dipendenti, addetti ai competenti uffici, per essere riferita direttamente alla amministrazione di appartenenza, è da considerare svolta "ratione offici" e non "intuitu personae" e si risolve "in una modalità di svolgimento del rapporto di pubblico impiego" (Cass. Civ. Sez. Un. 02.04.1998, n. 3386), nell’ambito della cui disciplina normativa e sulla base della contrattazione collettiva ed individuale vanno pertanto individuati i termini della relativa retribuzione”).
La somma oggetto del riparto è data dall’applicazione dell’aliquota (massimo 2%) calcolata sull’importo posto a base di gara dell’opera o del lavoro, “a valere sugli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti”. Perché maturi il diritto all’incentivo non basta, peraltro, che l’attività progettuale sia stata compiuta. Occorre, anche, che il progetto sia stato formalmente approvato e posto a base di gara. Del resto, se così non fosse, l’Ente si troverebbe a dover impegnare risorse ordinarie del proprio bilancio per fronteggiare oneri che, invece, la norma intende porre soltanto a carico degli stanziamenti complessivi previsti per la realizzazione dell’opera o del lavoro. In questo senso depone sia l’originaria formulazione del comma 5 dell’art. 92, sia, seppure con la prevista costituzione di un fondo, il comma 7-bis dell’art. 93 del “Codice”.
Neppure può ritenersi condivisibile la tesi di ritenere che il pagamento dell’incentivo a carico dell’ente resti subordinato alla esecuzione dell’opera per la quale è stata svolta l’attività progettuale. Oltre al fatto che una previsione in tal senso potrebbe, nella concretezza dei singoli casi, risolversi come condizione “meramente potestativa” e, dunque, invalidante (vds. Cass. Civ. n. 8390/2000), vien fatto di osservare che una obbligazione la cui efficacia è condizionata è, non di meno, giuridicamente perfetta, sicché la relativa assunzione dovrebbe essere comunque disposta in conformità delle regole contabili che impongono l’apposizione del vincolo di impegno sulle previsioni di bilancio e la sua sottoposizione al regime dei controlli interni. Occorre, cioè, che nel bilancio di previsione siano già appostate le risorse con le quali far fronte alla spesa, risorse che, tuttavia, sono rese disponibili al bilancio proprio con l’approvazione dell’elenco dei lavori, di cui si è detto.
Peraltro, a non diverse conclusioni si perviene anche a voler ricorrere, secondo la nuova formulazione dell’art. 183 del TUEL, alla prenotazione di impegno relativa a spese di investimento per lavori pubblici le cui procedure sono in via di espletamento. Anche in questo caso infatti, non sembra potersi prescindere dalla verifica della copertura finanziaria delle risorse da pre-impegnare, atteso che anche nella fase preventiva della formazione dell’atto dal quale origina l’obbligazione di pagamento deve potersi svolgere il controllo di regolarità amministrativo-contabile prescritto dall’art. 147-bis del TUEL.
23. Per la quantificazione dell’emolumento da corrispondere occorre, ancora, che l’amministrazione locale abbia adottato il Regolamento che fissa la misura e i criteri di riparto dell’incentivo. Spetta, infatti, al Regolamento dell’Ente disciplinare le modalità attraverso le quali ripartirlo in concreto. Così, ad esempio, è compito del Regolamento fissare il livello di progettazione (preliminare, definitiva, esecutiva) a partire dal quale matura il diritto all’incentivo; l’eventuale misura di riparto, differenziata per livello di progettazione; le modalità per il conferimento degli incarichi tecnici e amministrativi e la quota di riparto complessivamente spettante, nonché la individuazione del personale per la ripartizione dell’incentivo. Orbene, già sotto la vigenza della legge n. 109/1994 era previsto (art. 3,comma 6, lett. i) che la misura (in percentuale del costo di progettazione) da destinare alla costituzione del fondo, nonché i criteri generali di ripartizione, fosse materia demandata a un Regolamento (del Governo), con la prescrizione che, in mancanza della normativa secondaria, ai progetti affidati formalmente fino alla data della sua entrata in vigore “si applicano le disposizioni della legge 11.02.1994, n. 109, (come modificata dal citato D.L.), che non fanno rinvio a norme del medesimo regolamento” (vds. D.L. n. 101/1995, art. 1, comma 4).
In altre parole, la mancanza del Regolamento avrebbe precluso l’applicazione di quelle disposizioni che alla sua disciplina facevano rinvio, tra cui l’attribuzione dell’incentivo (ex art. 18). Vero è che il medesimo D.L. n. 101/1995 aveva contestualmente abrogato proprio la previsione di un Regolamento del Governo in materia di incentivi alla progettazione interna, la cui disciplina (prevista per la sola progettazione esecutiva) rimaneva, quindi, affidata alla sola contrattazione collettiva integrativa. Tuttavia, la previsione di una fonte secondaria (questa volta di livello comunale) che recepisca gli esiti della contrattazione decentrata come condizione necessaria per dar luogo alla corresponsione dell’incentivo di che trattasi potrebbe tornare oggi di attualità, atteso che, prima nel comma 5 dell’art. 92 e ora nel comma 7 e ss. dell’art. 93 del “Codice”, è stata reintrodotta proprio la previsione di un regolamento di recepimento al quale affidare la disciplina di dettaglio del beneficio (cfr. TAR Calabria, sez. R.C., n. 457/2009).
Sul punto è il caso di precisare, per completezza di documentazione e analisi, che una precedente decisione della Cassazione -che aveva escluso che l’emanazione del Regolamento potesse configurarsi “come condizione di esistenza del diritto, poiché una siffatta condizione null’altro sarebbe che una condizione meramente potestativa, da ritenersi invalida a norma dell'art. 1355 c.c.” (Cass. Sez. Lavoro n. 13384/2004)- era stata assunta con riferimento a un periodo in cui la norma da applicarsi (art. 18, L. n. 109/1994, come modificato dall'art. 6, comma 13, L. n. 127/1997) prevedeva l’emanazione di un previo Regolamento che, tuttavia, non era di recepimento di accordi contrattuali, com’è invece quello oggi vigente.
24. Ciò posto, ritiene la Sezione che la questione sollevata dal Comune istante possa trovare adeguata soluzione ricorrendo al criterio del <tempus regit actum> nel senso che si dirà.
La successione nel tempo delle disposizioni che prevedono e regolano l’incentivazione della progettazione interna può, infatti, astrattamente porsi con riferimento a situazioni diverse, a seconda della fase in cui si trova quest’ultima rispetto al momento della intervenuta modifica legislativa e, ancora, a seconda della disciplina regolamentare che ciascuna amministrazione potrà avere, in concreto, assunto.
Tuttavia, il discrimine tra la normativa vigente ex ante ed ex post le modifiche introdotte dal D.L. n. 90/2014, come convertito il legge, non è dato, a parere di questa Sezione, dal momento in cui viene compiuto ogni singolo atto del procedimento di realizzazione del lavoro o dell’opera e della relativa progettazione e, neppure, dal momento in cui si paga la prestazione incentivata, ma dal momento in cui l’opera o il lavoro sono approvati e inseriti nei documenti di programmazione vigenti nell’esercizio in cui sono stati adottati o, in prospettiva, nel Documento Unico di Programmazione che la Giunta è tenuta a predisporre e presentare al Consiglio per le conseguenti deliberazioni (art. 170 TUEL). È con tale approvazione, infatti, che si deve dare indicazione degli stanziamenti disponibili e da inserire nel bilancio i previsione, sulla base dei quali stabilire il valore complessivo dell’appalto, da porre a base d’asta. È a questo valore, e non anche su quello che risulterà poi effettivamente aggiudicato, che la norma aggancia l’incentivo percentuale della progettazione.
25. Così, con riguardo ai lavori che, all’entrata in vigore della legge di conversione del D.L. 90/2014, erano già stati approvati e in corso di esecuzione e realizzazione, può ipotizzarsi il caso di quelli (non di mera manutenzione) di importo inferiore o superiore a 1.000.000 di euro, preceduti, rispettivamente, solo da uno studio di fattibilità o dalla sola progettazione preliminare, redatta ai sensi dell’articolo 93, attività queste propedeutiche all’inserimento dell’opera nell’elenco annuale.
Altre fasi del procedimento per la realizzazione dell’opera o del lavoro –attinenti, ad esempio, la redazione del progetto esecutivo, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori o del collaudo– potrebbero, invece, non essere state ancora poste in essere.
A parere della Sezione, ricorrendo una siffatta situazione, qualora per la realizzazione di un’opera si sia fatto ricorso alla progettazione interna ai sensi del comma 5 dell’art. 92 del “Codice”, la disciplina che regola l’incentivo resta quella vigente al momento in cui l’opera è stata approvata, indipendentemente dal momento in cui le prestazioni incentivate vengono in concreto poste in essere, se cioè esse siano già state compiute alla data di entrata in vigore del D.L. n. 90/2014, ovvero, debbano ancora essere realizzate, purché siano realizzate.
È da ribadire, infatti, che per ogni singola opera già approvata e in corso di esecuzione e realizzazione alla data di entrata in vigore della L. n. 114/2014, gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori, alla vigilanza e ai collaudi (nonché agli studi e alle ricerche connessi), anche se non ancora interamente realizzate, stanno già a carico degli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti, secondo la disciplina del previgente comma 5 dell’art. 92 del “Codice”, nella misura del 2% (o della minore aliquota prevista dal regolamento comunale) dell’importo posto a base di gara di un’opera o di un lavoro. Ciò imprime, a questa frazione dello stanziamento complessivo dell’opera, un vincolo di destinazione finalizzato al pagamento delle prestazioni previste, pagamento da disporre se, e per il tempo in cui, saranno realizzate.
D’altra parte, se l’intero importo stanziato o altrimenti disponibile per la realizzazione dell’opera è anche stato già impegnato, i pagamenti che venissero eseguiti oltre il termine dell’esercizio saranno disposti, pur nella vigenza delle nuove norme di cui alla legge n. 114/2014, a valere sui residui dell’esercizio di competenza, ovvero, secondo le nuove regole della contabilità, questi ultimi saranno destinati a essere reimputati e a confluire, eventualmente, nel fondo pluriennale vincolato.
In definitiva, non si vede come, per le opere già approvate e in corso di realizzazione, le risorse stanziate e destinate a remunerare la progettazione interna possano confluire, per le attività non ancora svolte, nel costituendo fondo per l’incentivazione, di cui alla novella introdotta della legge n. 114/2014.
Non può quindi convenirsi con la tesi che ritenesse che, fino all’entrata in vigore della legge n. 114/2014, di conversione e modifica del D.L. n. 90/2014, debbano trovare applicazione le previgenti disposizioni normative per tutte quelle specifiche attività portate fino a quel momento a compimento, mentre debba applicarsi un differente trattamento per le attività compiute successivamente.
26. Neppure è condivisibile la tesi alternativa prospettata dall’istante, secondo la quale la nuova normativa andrebbe applicata esclusivamente agli incarichi tecnici <attribuiti per lavori e opere aggiudicati ed eseguiti dopo l’entrata in vigore della legge n. 114/2014>.
Si è già osservato, sopra, come l’approvazione dell’opera e il suo inserimento nell’elenco annuale presupponga che siano state quantificate le complessive risorse finanziarie necessarie al suo compimento (art. 128, comma 7, del “Codice”). L’importo così quantificato rappresenta il valore posto a <base d’asta> per l’aggiudicazione dell’opera o del lavoro. È su di esso che, sia ai sensi dell’art. 92, comma 5, sia del nuovo art. 93, comma 7-bis, viene calcolata l’aliquota da destinare a incentivare la progettazione interna (tranne il caso degli appalti misti di lavori e forniture, nei quali l’importo dell’incentivo resta commisurato al solo valore dei “lavori”: D.M. n. 84/2008; Sez. controllo Lazio, delib. n. 174/2014), senza che possano operarsi eventuali rettifiche nel caso di aggiudicazione a un valore più basso. In tal senso non solo dispone espressamente, ad esempio, l’art. 3 del D.M. (Infrastrutture) n. 84/2008 (“L'importo dell'incentivo non è soggetto ad alcuna rettifica qualora in sede di appalto si verifichino dei ribassi”), ma depone anche la circostanza che è il progetto esecutivo, “depurato del ribasso d’asta offerto”, a fornire il quadro economico sul quale misurare le maggiorazioni dei tempi o dei costi previsti al fine della eventuale riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro, destinate a incentivo (comma 7-ter dell’art. 93 del “Codice”).
27. Ulteriore passaggio a sostegno delle argomentazioni sopra esposte risiede nel fatto che la giurisprudenza di legittimità sopra citata (Cass. Sez. Lavoro n. 13384/2004) aveva individuato specifici obblighi a carico dell’Amministrazione –quello di costituire un fondo, di alimentarlo con una percentuale del valore complessivo dell’opera e di emanare un Regolamento di recepimento di accordi contrattuali– in correlazione a un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva spettante ai dipendenti specificamente indicati nella norma.
A parere di questa Sezione –nell’ottica di una attività consultiva chiesta e resa nell’ambito della contabilità pubblica- è proprio all’attività dell’amministrazione che occorre guardare, in quanto doverosa non solo in vista della soddisfazione del credito vantato dal dipendente, ma funzionale anche all’esercizio del potere pubblico esercitato. Tale attività è, appunto, l’approvazione del documento di programmazione, che dà corso all’opera o al lavoro e che trova necessario riflesso nei conseguenti documenti di bilancio, determinando di affidare le attività di progettazione all’interno dell’Ente e di adottare il prescritto Regolamento.
Le regole della contabilità pubblica e l’esigenza di salvaguardare gli equilibri di bilancio impongono, così, di fare riferimento alla normativa vigente al momento in cui è sorto l’obbligo di provvedere in tal senso. Diversamente, si espone l’Ente, da un lato, al rischio che una modifica espansiva della disciplina del compenso finisca per gravare sulle risorse ordinarie del bilancio dell’Ente, non trovando capienza nella misura percentuale fissata a valere sugli stanziamenti dell’opera; dall’altro, si espone il dirigente che ha affidato l’incarico a dover rispondere dell’obbligazione, nel caso in cui si assuma che il “diritto” al compenso nasca per il solo fatto del compimento dell’attività. In tal caso, infatti, l’attività di progettazione (ad esempio, preliminare) che ha preceduto l’approvazione dell’opera e la determinazione del valore da porre a base d’asta, rischia di porsi fuori delle regole dell’impegno contabile e della previa copertura finanziaria.
Anche per le ragioni suesposte si ritiene che, ai fini della soluzione del quesito proposto dal Comune istante, non sia determinante stabilire il momento in cui sorge quello che è stato sopra qualificato come un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva spettante ai dipendenti specificamente indicati nella norma, quanto piuttosto stabilire il momento in cui è sorto l’obbligo dell’Ente a provvedere affinché tale diritto possa trovare soddisfazione. Del resto, l’attuale testo del comma 7-ter dell’art. 93 del “Codice”, fa riferimento al pagamento (“la corresponsione”) dell'incentivo, momento questo che giustamente presuppone l’accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti, tant’è che lo stesso comma prosegue precisando che “Le quote parti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all’organico dell’amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento (positivo delle attività svolte), costituiscono economie”.
28. La conclusione cui è pervenuta questa Sezione, secondo il proprio percorso argomentativo, è coerente con l’approdo cui si era già giunti in occasione di una questione non dissimile da quella proposta dal Comune di Ruoti, allorquando –in una delle tante evoluzioni estemporanee che hanno caratterizzato la disciplina in esame- il comma 7-bis dell’art. 61 del D.L. n. 112/2008 (comma prima inserito dall’art. 18, comma 4-sexies, D.L. n. 185/2008 e poi abrogato dall’art. 35, comma 3, L. n. 183/2010) stabilì che, a decorrere dal 01.01.2009, la percentuale prevista dall’articolo 92, comma 5, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, fosse destinata nella misura dello 0,5 per cento alle finalità di cui alla medesima disposizione e, nella misura dell'1,5 per cento, andasse versata ad apposito capitolo dell’entrata del bilancio dello Stato.
In quella circostanza il conflitto interpretativo tra il MEF – Ragioneria Generale dello Stato, che aveva emanato la circolare n. 36/2008 sostenendo l’applicazione della riduzione a tutti i compensi comunque erogati a decorrere dalla predetta data e non solo ai lavori avviati dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina, e la Sezione regionale di controllo per la Lombardia che sosteneva tesi opposta (delibera n. 40/2009), è stata risolta dalla Sezione Autonomie della Corte dei conti, con la
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG.
La conclusione affermata fu nel senso di ritenere che “sussiste un vincolo di destinazione, giuridicamente rilevante, tra la quantificazione della somma da ripartire per ogni singola opera, ed il “quantum” del diritto al beneficio”, quale spetta sulla base della somma da ripartire nella misura vigente al momento in cui questo è sorto, misura che non può essere modificata per effetto di norme che riducano per il tempo successivo l’entità della somma da ripartire.
29. A parere di questa Sezione
il momento da prendere in considerazione per determinare il sorgere del diritto all’incentivo non è l’aggiudicazione dell’opera o del lavoro, ma la sua approvazione e il suo inserimento nei documenti di programmazione e di bilancio, secondo le disposizioni del “Codice” (art. 128) e del TUEL. Ovviamente, la misura dell’incentivo spettante in concreto dipenderà dai criteri di riparto assunti nel Regolamento, per le sole attività che sono state e che verranno effettivamente poste in essere “per ciascuna opera o lavoro”, secondo i criteri e nella misura stabilita dalla disciplina vigente al momento dell’approvazione dell’opera.
La costituzione di un fondo per la progettazione e l’innovazione, prevista dal comma 7-bis dell’art. 93 del “Codice”, sul quale far confluire le risorse destinate a remunerare la progettazione interna, si applica solo con riferimento alle risorse che ad esso potranno essere destinate a valere sugli stanziamenti per la realizzazione dei singoli lavori inseriti nel programma triennale dei lavori pubblici, e nei suoi aggiornamenti annuali, a far data dalla entrata in vigore della legge che tale fondo istituisce.
Nell’ipotesi di un’opera inserita nell’elenco annuale dei lavori pubblici, allegato a un bilancio di previsione approvato prima dell’entrata in vigore della legge di conversione del D.L. n. 90/2014, la disciplina che regola l’incentivo resta quella vigente al momento in cui l’opera è stata approvata, indipendentemente dal momento in cui le prestazioni incentivate vengono in concreto poste in essere, se cioè esse siano già state compiute, ovvero, debbano ancora essere realizzate, purché siano realizzate insieme all’opera
(Corte dei Conti, Sez. controllo Basilicata, parere 12.02.2015 n. 3).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni facili, giudici divisi. Il non essere addetto ai lavori non salva il sindaco. La Corte conti Emilia Romagna smentisce le tesi che hanno portato all'assoluzione di Renzi.
Contrasto aperto tra le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti sul tema della responsabilità dei vertici degli enti locali relativa a procedure di assunzione di dipendenti privi del titolo di studio senza laurea.

Negli scorsi giorni, ItaliaOggi ha dato conto della sentenza 04.02.2015 n. 107 della I Sez. d'appello centrale della Corte dei Conti che ha mandato assolto Matteo Renzi da responsabilità erariale scaturente dall'assunzione di alcuni collaboratori in staff quand'era presidente della provincia di Firenze, inquadrati come funzionari, qualifica che impone la laurea, pur essendone privi.
La sentenza ha rilevato l'assenza del profilo psicologico quanto meno della colpa grave, osservando che l'istruttoria favorevole sulla legittimità delle assunzioni, svolta dall'apparato amministrativo, ha tratto in inganno l'allora presidente della provincia, in quanto «non addetto ai lavori».
Di segno totalmente opposto è le sentenza 19.01.2015 n. 3 emanata un mese prima dalla Sez. giurisdiz. dell'Emilia Romagna, che ha condannato al risarcimento del danno erariale l'ex sindaco del comune di Cervia, per una situazione analoga: aver dato corso all'assunzione del direttore generale del comune, privo di laurea.
Anche nel caso esaminato dalla sezione Emilia Romagna la delibera comunale di assunzione del direttore generale privo di laurea era supportata dal parere favorevole del segretario comunale supplente (che ha subito a sua volta condanna per danno), nonché dall'evidenziazione della legittimità procedurale operata dalle strutture amministrative, che hanno dato corso al bando e alla procedura di assunzione, senza eccepire nulla all'allora sindaco.
La sezione per l'Emilia Romagna chiarisce ogni possibile dubbio sul fatto che il direttore generale, per la posizione di coordinamento della dirigenza e per le funzioni a esso assegnate dall'articolo 108 del dlgs 267/2000 è certamente una figura da inquadrare come dirigente e, dunque, da assumere solo a condizione che sia in possesso della laurea.
Anche se l'articolo 108 del dlgs 267/2000 non fa espressa menzione del titolo di studio richiesto, il rinvio compiuto dall'articolo 111 del medesimo dlgs 267/2000 alla disciplina che regola il rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche contenuta nel dlgs 165/2001, impone necessariamente che il city manager dell'ente locale sia laureato. Infatti, sia l'articolo 28, sia l'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001 richiedono espressamente per l'assunzione della dirigenza la laurea. Né, spiega la sentenza, la «fiduciarietà» dell'incarico può supplire all'assenza del titolo.
La ricostruzione della sentenza è certamente corretta e rigorosa, ma piuttosto complessa. Eppure, nel caso di specie la sezione Emilia Romagna, lungi dall'escludere la sussistenza del profilo psicologico necessario per la condanna evincendo una posizione particolare dell'allora sindaco dovuta alla sua condizione di «non addetto ai lavori», sancisce la sua colpa grave, utilizzando la formula del «non poteva non sapere». Dispone, infatti, la sentenza: «Nella sua posizione di amministratore e primo cittadino non poteva non essere a conoscenza del fatto che il direttore generale dell'ente doveva necessariamente appartenere alla qualifica dirigenziale e che detto inquadramento comportava la necessità della scelta di un soggetto in possesso di un titolo di studio adeguato».
La sentenza afferma che i componenti degli uffici di staff di sindaci e presidenti della provincia possono anche non essere laureati «sempre che l'inquadramento economico avvenga sulla base dei requisiti di preparazione personale del prescelto all'interno delle categorie retributive previste dal contratto collettivo e corrispondenti all'effettiva preparazione scolastica»; cioè, purché non inquadrati in categorie che richiedano la laurea (articolo ItaliaOggi del 20.02.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOVertici deresponsabilizzati. Il parere del dirigente mette il politico al sicuro. Gli effetti della sentenza della Corte dei conti che ha assolto il premier Renzi.
Vertici degli enti locali deresponsabilizzati: i dirigenti perché non rispondono dei provvedimenti adottati dagli organi politici; gli organi politici perché se i loro provvedimenti illegittimi sono accompagnati da pareri favorevoli dei dirigenti, non possono accorgersene in quanto «non addetti ai lavori».

È questo l'effetto della sentenza 04.02.2015 n. 107 della Sez. I centrale giurisdiz. di appello della Corte dei Conti (si veda ItaliaOggi di ieri), che ha assolto l'attuale premier, Matteo Renzi, allora presidente della provincia di Firenze, per aver assunto nella segreteria sua e della giunta collaboratori dello staff privi di laurea, ma inquadrandoli in posizioni di lavoro che necessitano della laurea.
La Corte dei conti, con la decisione, apre potenzialmente a un sistema diffuso di elusione della responsabilità erariale. La sentenza motiva la propria decisione essenzialmente sulla circostanza che il presidente di una provincia non è «un addetto ai lavori» e come tale non può rendersi conto che un provvedimento adottato in giunta può essere illegittimo e causativo di danno all'erario, se indotto a ritenere la legittimità della decisione assunta, in quanto sorretta da «documentazione corredata da sufficienti, apparenti garanzie tanto da indurre a una valutazione generale di legittimità dei provvedimenti in fase di perfezionamento».
Pur affermando nella sentenza di non poter applicare la cosiddetta «esimente politica», di fatto la Sezione I di appello ha accettato l'interpretazione larghissima di tale esimente che in ogni giudizio di responsabilità amministrative le difese dei politici presentano: cioè, escludere la responsabilità proprio perché gli organi di governo, in quanto non selezionati in base al possesso di requisiti tecnico-professionali, possono incorrere in errore, se non avvertiti dall'apparato amministrativo.
È evidente che in tal modo la sentenza si pone come un precedente fortissimo e autorevole, in quanto introduce l'esimente per assenza dell'elemento psicologico della colpa, connettendolo alla condizione di «non addetto ai lavori», caratteristica che vale senza distinzione alcuna per qualsiasi politico. Ovviamente, da oggi in poi qualsiasi sezione giurisdizionale della Corte dei conti vedrà eccepire la pronuncia che annulla la condanna in primo grado di Renzi a qualsiasi azione intentata dalla Procura.
La sentenza, inoltre, getta le basi per una modalità operativa a prova di responsabilità. Per i vertici politici sarà semplice evitare gli strali della Corte dei conti, cooptando dirigenti a contratto di fiducia senza concorso (la riforma Madia ha triplicato il numero degli incarichi fiduciari possibili), ai quali affidare il compito di ammantare di pareri favorevoli ogni decisione da adottare in consiglio, giunta o direttamente da sindaco o presidente della provincia; le istruttorie favorevoli alla legittimità sono il presupposto per escludere la responsabilità erariale di «non addetti ai lavori».
D'altra parte, i dirigenti, specie quelli «sintonici» con la politica, potranno schivare le proprie responsabilità addossando agli organi di governo «non addetti ai lavori» atti di dubbia legittimità che sarebbero di propria competenza. Potendo contare così a loro volta sull'irresponsabilità propria e dei politici surroganti, nonché sulla sostanziale impossibilità di dimostrare l'esistenza di un accordo tra dirigenza e politica allo scopo di eludere la responsabilità erariale.
Il tutto, senza nemmeno dover scomodare la riforma della responsabilità, presentata con gli emendamenti del relatore Pagliari al senato al disegno di legge di riforma della pubblica amministrazione, già fortemente orientati a creare uno scudo alla responsabilità amministrativa dei politici (articolo ItaliaOggi del 14.02.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Renzi assolto perché non addetto ai lavori
Assolto perché «non addetto ai lavori». Così la Corte dei conti in sede d'appello modifica la sentenza di condanna disposta in primo grado nei confronti dell'allora presidente della provincia di Firenze, Matteo Renzi, per l'assunzione nel suo staff e della giunta di collaboratori privi di laurea, ma pagati come fossero laureati.

Così la sentenza 04.02.2015 n. 107, della I Sez. centrale d'appello della Corte dei conti.
La sezione ha ritenuto di rivedere la condanna comminata in primo grado all'attuale premier sulla base di una visione che sembra anticipare la riforma della responsabilità erariale contenuta nel ddl sulla pubblica amministrazione, all'esame del senato.
Il principio posto, in sostanza, è che il politico non risponde sul piano psicologico di danno erariale, se le decisioni, pur adottate direttamente, siano sorrette da pareri e atti dirigenziali che le lascino ritenere legittime.
L'appello non nega che l'evento dannoso si sia verificato. Esclude, tuttavia, che l'attuale premier possa avervi dato causa, anche solo in parte. Non basta, per la Corte d'appello, ai fini della responsabilità erariale, che l'allora presidente Renzi avesse indicato nominativamente i componenti della propria segreteria da assumere (cosa ritenuta naturale, dalla Corte, nell'ambito di un rapporto fiduciario); né è bastato che abbia preso visione dei curricula, acquisendo consapevolezza dell'assenza del titolo di studio della laurea; non è bastato nemmeno che avesse sottoscritto la proposta di delibera per l'assunzione e l'inquadramento sbagliato, poi adottata dalla giunta.
Per la sezione occorre considerare che «l'istruttoria amministrativa, i pareri (ben quattro) resi nell'ambito dei procedimenti interessati e i relativi contratti sono stati curati dall'entourage amministrativo e dalla struttura amministrativa provinciale che hanno sottoposto all'organo politico una documentazione corredata da sufficienti, apparenti garanzie tanto da indurre a una valutazione generale di legittimità dei provvedimenti in fase di perfezionamento».
In particolare, le garanzie apparenti hanno tratto in inganno l'allora presidente della provincia perché gli eventuali vizi di legittimità sarebbero stati di difficile percezione da parte di un «non addetto ai lavori» qual è un politico, a differenza di un tecnico.
Dunque, l'allora presidente della provincia, da non addetto ai lavori, sarebbe stato indotto in errore dalle valutazioni, a loro volta erronee, di legittimità espresse dalla struttura. Pertanto, la sezione «ritiene di poter rilevare l'assenza dell'elemento psicologico», e, dunque, assolvere l'attuale premier, non senza precisare che nel caso di specie tuttavia non ricorrono gli estremi della cosiddetta «esimente politica».
Si tratta dell'istituto previsto dall'articolo 1, comma 1-ter, della legge 20/1994, ai sensi del quale «nel caso di deliberazioni di organi collegiali la responsabilità si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole. Nel caso di atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione».
L'esimente politica non è applicabile, nel caso di specie, perché l'atto da cui è scaturita l'assunzione illegittima dei collaboratori è stata una deliberazione di giunta, non un provvedimento dell'apparato tecnico. Tuttavia, se non è applicabile l'esimente politica allora l'esclusione da responsabilità erariale disposta dalla Corte d'appello non appare del tutto in linea con l'assetto delle responsabilità fissato dalla normativa vigente. Infatti ci si rifugia nell'assenza di elemento psicologico, cagionato dal non essere «addetti ai lavori».
Ma, allora, nessun politico potrebbe mai essere chiamato a rispondere delle decisioni adottate, sempre e comunque sorrette da istruttorie tecniche, in quanto nessuno sarebbe (nonostante la carica assunta, si presume, anche in base a requisiti di competenza) mai un addetto ai lavori (articolo ItaliaOggi del 13.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOFondi decentrati, tagli a 360°. Contano tutte le decurtazioni nel periodo 2011-2014. CORTE CONTI/ La sezione della Puglia sceglie un'interpretazione drastica delle norme.
Il fondo delle risorse decentrate per il 2015 andrà costituito tenendo conto della sommatoria di tutti i tagli apportati tra il 2011 e il 2014.

La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Puglia, col parere 22.01.2015 n. 53, propone la più drastica delle soluzioni ai problemi interpretativi posti dalla nuova formulazione dell'articolo 9, comma 2-bis, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010.
Il testo della norma, novellato dalla legge 147/2013, prevede: «A decorrere dal 01.01.2011 e sino al 31.12.2014 l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo dell'anno 2010 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio. A decorrere dal 01.01.2015, le risorse destinate annualmente al trattamento economico accessorio sono decurtate di un importo pari alle riduzioni operate per effetto del precedente periodo».
L'ultimo periodo della disposizione non brilla certo per chiarezza, sì da non permettere di comprendere esattamente come computare la decurtazione prevista.
Tanto che il comune di Statte, rivoltosi alla Sezione per chiedere lumi, nel quesito aveva proposto tre possibili interpretazioni. Secondo la prima l'importo da decurtare dal fondo è pari alla somma delle decurtazioni effettuate negli anni 2011-2014, e tale decurtazione assumerebbe il carattere della definitività dal 2015; per la seconda la decurtazione sarebbe pari a quella ultima effettuata nel solo 2014 (interpretazione molto «in voga» tra le amministrazioni locali; la terza possibile lettura è che nel 2015 si applica comunque quanto è scritto nella prima parte della norma, ossia il rispetto del tetto 2010 e riduzione proporzionale riferiti al 2015, che assumerebbero, questa volta, carattere di definitività.
Il parere della Sezione Puglia è drastico e risolutivo e si fonda sia sul dato letterale della norma, sia sui fini di risparmio delle finanze pubbliche. La Corte osserva che «le decurtazioni effettuate nel periodo 2011-2014 diventano permanenti e non possono più essere recuperate in quanto gli effetti dei tagli operati nel periodo considerato devono essere mantenuti anche in sede di determinazione dei fondi per i periodi successivi».
Il criterio della sommatoria delle decurtazioni effettuate nel triennio 2011-2013, osserva la Sezione, è imposto dal dato letterale, in quanto il legislatore si riferisce espressamente alle «riduzioni operate per effetto del precedente periodo». In questo modo, il legislatore «non fa che rinviare ai risultati di contenimento conseguiti sulla base dell'osservanza del tetto e delle riduzioni proporzionali al personale cessato» (articolo ItaliaOggi del 13.02.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAumenti a pioggia, con danno erariale. Corte dei conti. Sanzioni ad ampio raggio per i contratti decentrati fuori norma.
La Corte dei Conti sanziona duramente le progressioni economiche orizzontali “a pioggia”.
La sentenza 19.01.2015 n. 2 della Sez. giurisdiz. Sardegna ha ritenuto fonte di responsabilità amministrativa l’indebito riconoscimento di progressioni economiche orizzontali al personale di un’Asl e le connesse irregolarità nella costituzione e utilizzo del fondo per il finanziamento delle fasce retributive, consistenti in incrementi anche con il prelievo di risorse dai fondi per la produttività e per lo straordinario.
I contratti decentrati e i provvedimenti attuativi, risalenti al 2005/2008, hanno attribuito progressioni orizzontali in violazione dei principi e vincoli, giuridici e di bilancio, stabiliti dal contratto nazionale 1998/2001 (articolo 17) e dai successivi contratti nazionali del comparto sanità che impongono l’adozione di criteri selettivi.
L’illegittimità consiste, in primis, nell’indiscriminata progressione verso la fascia economica superiore (e dunque con aumenti stipendiali stabili), in base a un automatismo legato alla data di assunzione in servizio. Il danno consiste nella mancata destinazione di risorse al riconoscimento di meriti effettivi ai dipendenti, nella misura della «disutilità» degli apporti lavorativi recati da personale non selezionato secondo criteri e parametri voluti dalla disciplina nazionale per garantire maggiori retribuzioni ai più meritevoli. Gli accordi decentrati in questione, perciò, sono nulli per violazione dei limiti imposti dai contratti nazionali (articolo 4, comma 6 del contratto 1998/2001 e articolo 40 del Dlgs 165/2001).
La Corte, in aggiunta, ha rilevato irregolari finanziamenti dei fondi, consistenti anche nel passaggio di risorse finanziarie dai fondi per produttività e straordinario al fondo fasce.
La responsabilità è stata riconosciuta in capo agli organi di direzione, ai funzionari firmatari degli accordi decentrati e a coloro che li hanno istruiti, approvati e attuati.
Non è stato citato il collegio sindacale, poiché, causa mancata trasmissione degli accordi, non ha potuto eseguire (senza colpa) il controllo sulla compatibilità dei costi della contrattazione con i vincoli di bilancio. Il danno a carico dei convenuti, tuttavia, è stato ridotto (in misura del 50%) della quota teoricamente spettante al collegio. Se i sindaci avessero esercitato tempestivamente il loro controllo, difatti, avrebbero potuto impedire parte del danno.
Non sono stati ritenuti imputabili, invece, i rappresentanti sindacali firmatari degli accordi, poiché non è configurabile un rapporto di servizio con l’ente danneggiato quando questi svolgono la funzione sindacale.
L’importanza della decisione, che delinea un danno da progressione economica generalizzata, è evidente. Prassi di questo tipo, difatti, si sono verificate in tutti i comparti della contrattazione pubblica. Sarà interessante vedere l’impatto di quest’orientamento della Corte nel comparto sanità sull’applicazione, per regioni ed enti locali, della “sanatoria” dei decentrati prevista dall’articolo 4 del Dl 16/2014
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.02.2015).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Il vicesindaco è assessore. Lo statuto non può derogare alla legge. In materia di organi di governo vige la competenza esclusiva dello stato.
È legittima la delibera con la quale il consiglio comunale ha approvato la modifica di un articolo dello statuto comunale prevedendo la facoltà, da parte del sindaco, di nominare il vicesindaco oltre che tra gli assessori anche tra i consiglieri comunali?

Nel caso di specie, secondo l'ente locale tale deliberazione, ferma restando la previsione statutaria che consente la nomina di assessori esterni, sarebbe motivata dall'esigenza di affidare le funzioni vicarie della presidenza del consiglio a un componente dello stesso organo e di superare le eventuali problematiche che potrebbero scaturire nell'esercizio delle funzioni statali del sindaco di cui agli artt. 12 e 54 del Tuel.
Il comune, infatti, sostiene che dopo la modifica del Titolo V della Costituzione lo «statuto, nell'ambito della gerarchia delle fonti, è norma prevalente rispetto alla legge statale» e che il vicesindaco, non essendo un organo del comune, non rientra nella riserva di disciplina statale di cui all'articolo 117, lett. p), della Costituzione; tant'è che la legge n. 148/2011, nell'azzerare la giunta nei comuni con popolazione inferiore ai mille abitanti, nulla disponeva per la figura del vicesindaco che doveva essere ricoperta necessariamente da un consigliere comunale.
Proprio per le esigenze di armonizzazione complessiva del sistema ordinamentale e di salvaguardia del funzionamento dell'ente locale, il ministero dell'interno, con circolare n. 2379 del 16.02.2012, fornendo chiarimenti in ordine all'applicazione dell'articolo 16, comma 17, del dl 138/2011, aveva specificato che, in assenza della giunta, nei comuni con popolazione inferiore ai mille abitanti, la figura del vicesindaco per l'esercizio delle indefettibili funzioni sostitutive «deve essere nominata tra i consiglieri eletti».
Una volta intervenuta una nuova modifica normativa che ha ripristinato l'organo giuntale, l'ente, così come specificato con la circolare ministeriale n. 6508 del 24.04.2014, con la quale sono stati approfonditi alcuni aspetti applicativi della legge 07.04.2014, n. 56, è, tuttavia, obbligato a individuare il vicesindaco tra i nuovi assessori.
In ogni caso, è opportuno precisare che la nomina di assessori esterni al consiglio, nei comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, fa parte del contenuto facoltativo dello statuto ai sensi dell'art. 47, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, mentre, secondo quanto dispone l'art. 64, comma 3, del Tuel, negli stessi comuni non vi è incompatibilità tra la carica di consigliere comunale e assessore nella rispettiva giunta. In merito alle funzioni di presidente del consiglio comunale, che spettano al sindaco nei comuni sino a 15.000 abitanti (salvo che l'ente si sia avvalso della facoltà di prevedere nello statuto la figura del presidente del consiglio), l'articolo 39 dello stesso decreto legislativo n. 267/2000, al comma 1, prevede che «quando lo statuto non dispone diversamente, le funzioni vicarie del presidente del consiglio sono esercitate dal consigliere anziano». Pertanto, è la stessa legge che, anche in carenza di specifiche disposizioni normative dell'ente, individua il vicario del presidente del consiglio senza alcuna necessità che questi coincida con il vicesindaco.
Peraltro, non appare evidente alcuna problematica in ordine all'eventuale espletamento, da parte dell'assessore esterno vicesindaco, delle funzioni di cui all'articolo 54 del citato testo unico (in sostituzione del sindaco), visto peraltro che il vicesindaco esercita funzioni surrogatorie permanenti e temporanee del sindaco, ai sensi dell'articolo 53, commi 1 e 2.
Riguardo alla gerarchia delle fonti, poi, l'art. 114, comma 2, della Costituzione dispone che i comuni, le province, le città metropolitane e le regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione. Lo stato ha competenza esclusiva, ex art. 117, comma 2, lett. p), in ordine alla potestà legislativa in materia di disciplina elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane.
Il vicesindaco, facendo parte della giunta, è compreso a pieno titolo negli organi di governo individuati dall'articolo 36 del decreto legislativo n. 267/2000, senza considerare la qualità di organo proprio che riveste nel momento in cui svolge le funzioni vicarie del sindaco.
La legge n. 131/2003, all'art. 4, comma 2, prescrive che lo statuto, in armonia con la Costituzione e con i principi generali in materia di organizzazione pubblica, stabilisce i principi di organizzazione e funzionamento dell'ente, le forme di controllo, anche sostitutivo, nonché le garanzie delle minoranze e le forme di partecipazione popolare, nel rispetto di quanto stabilito dalla legge statale in attuazione dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, mentre al comma 4 statuisce che la disciplina dell'organizzazione dei comuni è riservata all'ente «nell'ambito della legislazione dello stato o della regione».
Il consiglio di stato, con sentenza n. 832, del 03.03.2005, alla luce proprio degli artt. 114 e 117 della Costituzione, ha ribadito la competenza esclusiva dello stato in materia di organi di governo e connesse sfere di competenza che, è evidente, non può essere autonomamente disciplinata dal comune, neppure in sede statutaria, in mancanza di una norma legislativa statale che ne delimiti l'intervento integrativo.
Pertanto, conformemente anche a quanto sostenuto dal Tar Calabria, sez. II con le decisioni nn. 492 e 493 (dell'8 febbraio 2008 e del 07.03.2008) questo ministero è dell'avviso che «lo statuto comunale, ... anche a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, è da qualificarsi come atto normativo secondario, capace, entro certi limiti, di innovare l'ordinamento e che, nell'ambito della gerarchia delle fonti, può essere considerato come fonte sub primaria, incapace di derogare o di modificare una legge, e collocata appena al di sopra delle fonti regolamentari» (articolo ItaliaOggi del 27.02.2015).

PATRIMONIO: Acquisizione di beni e servizi da parte dei Comuni non capoluogo del Friuli Venezia Giulia. Acquisizione del codice identificativo gara (CIG/SmartCig).
Come stabilito dal novellato art. 53, comma 2, della legge regionale 26/2014, fino al 30.06.2015 i Comuni non capoluogo possono procedere autonomamente (ossia in forma non aggregata) all'acquisizione di beni e servizi. Resta fermo l'obbligo, ai sensi dell'art. 1, comma 450, della legge 296/2006, di fare ricorso al mercato elettronico della PA (MePA) per l'acquisizione di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario (207.000 euro), permanendo tuttavia, ai sensi del comma 449, ivi richiamato, la facoltà di ricorrere alle convenzioni CONSIP, ovvero di rivolgersi al libero mercato, ma in tal caso nel rispetto dei parametri di prezzo-qualità fissati dalle convenzioni CONSIP, che costituiscono limite massimo per la stipula dei contratti.
L'Ente, che è un Comune non capoluogo di provincia e con una popolazione inferiore a 10.000 abitanti, chiede come debbano procedere i Comuni della Regione Friuli Venezia Giulia per ottenere uno SmartCig
[1] ai fini dell'acquisizione di beni e servizi di importo inferiore a 40.000 euro; in particolare, è interessato alle procedure al di fuori di Consip e del mercato elettronico.
Sentito il Servizio Centrale unica di committenza, di questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Sul piano dell'ordinamento statale, le novelle apportate dall'art. 9, comma 4, del decreto legge 24.04.2014, n. 66
[2], all'art. 33, comma 3-bis del Codice dei contratti pubblici hanno introdotto l'obbligo, per i Comuni non capoluogo di provincia, di acquisire lavori, servizi e forniture attraverso determinate modalità di aggregazione. In alternativa alle acquisizioni in forma aggregata, tali Comuni possono acquisire beni e servizi attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro soggetto aggregatore. L'ANAC non rilascia CIG (e SmartCig) ai Comuni che procedano all'acquisizione di lavori, beni e servizi in violazione degli adempimenti previsti dalla normativa richiamata. La decorrenza di tali obblighi è fissata all'01.01.2015 per quanto concerne l'acquisizione di beni e servizi, secondo quanto disposto dall'art. 23-ter, comma 1, del decreto legge 24.06.2014, n. 90 [3].
Inoltre, ai sensi del successivo comma 3 del medesimo art. 23-ter, i Comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti possono procedere autonomamente (ossia in forma non aggregata) per acquisiti di importo inferiore a 40.000 euro.
In ambito regionale, il legislatore è intervenuto in materia di centralizzazione della committenza con la legge regionale 12.12.2014, n. 26
[4], entrata in vigore l'01.01.2015, la quale ha disposto l'istituzione della Centrale unica di committenza regionale, che costituisce una delle forme di attuazione delle disposizioni statali sulla razionalizzazione della spesa e sugli obblighi di aggregazione degli acquisti (art. 43).
Il comma 2 dell'art. 53 della LR 26/2014, ha stabilito che 'Ferma restando l'attività programmatoria da espletarsi nel corso del 2015, la Centrale unica di committenza regionale opera a favore degli enti locali a decorrere dall'01.01.2016;' (primo periodo), 'trova frattanto applicazione la disciplina statale in materia di centralizzazione della committenza, con facoltà per gli enti locali del Friuli Venezia Giulia di avvalersi delle forme associative previste dalla normativa regionale' (secondo periodo).
Il secondo periodo del comma 53 è stato successivamente novellato dall'art. 34 della legge regionale 13.02.2015, n. 1, che lo ha così sostituito: 'nelle more della sua attivazione e della istituzione delle Unioni territoriali intercomunali, gli enti locali, fino al 30.06.2015, continuano a svolgere singolarmente le attività contrattuali con facoltà di avvalersi delle forme associative previste dalla normativa regionale vigente'.
Ne consegue che fino al 30.06.2015 tutti gli enti locali della Regione, a prescindere dalla dimensione demografica e dalla soglia di importo, possono acquistare beni e servizi in forma autonoma, cioè senza obbligo di aggregazione.
Le acquisizioni devono essere effettuate nel rispetto, ovviamente, delle leggi vigenti: per importi inferiori alla soglia di rilievo comunitario rimane fermo, dunque, l'obbligo di acquisto di beni e servizi in via telematica, previsto dall'art. 1, comma 450, della legge 27.12.2006, n. 296, che così recita: 'Dal 01.07.2007, le amministrazioni statali centrali e periferiche (...), per gli acquisti di beni e servizi al di sotto della soglia di rilievo comunitario, sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione di cui all'articolo 328, comma 1, del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 05.10.2010, n. 207. Fermi restando gli obblighi e le facoltà previsti al comma 449
[5] del presente articolo, le altre amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, nonché le autorità indipendenti, per gli acquisti di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario sono tenute a fare ricorso al mercato elettronico della pubblica amministrazione ovvero ad altri mercati elettronici istituiti ai sensi del medesimo articolo 328 [6] (...).'
Il comma 450 fa dunque salve le ulteriori possibilità previste dal comma 449, che consistono nel ricorso alle convenzioni-quadro o all'utilizzo dei rispettivi parametri di prezzo-qualità come limiti massimi
[7].
In conclusione, fino al 30.06.2015, i Comuni non capoluogo possono procedere autonomamente (ossia in forma non aggregata) all'acquisizione di beni e servizi, fermo l'obbligo, ai sensi dell'art. 1, comma 450, della legge 296/2006, di fare ricorso al MEPA o alle convenzioni CONSIP per l'acquisizione di beni e servizi di importo inferiore alla soglia di rilievo comunitario (207.000 euro), con la possibilità di rivolgersi al libero mercato, nel rispetto dei parametri di prezzo-qualità fissati dalle convenzioni Consip come limiti massimi per la stipula dei contratti.
Per quanto riguarda la scelta tra le opzioni offerte dall'ANAC in sede di acquisizione di CIG/SmartCig
[8], si ritiene che fino alla predetta data i Comuni non capoluogo possano dichiarare di trovarsi nella situazione di non recepimento della normativa statale da parte della Regione a statuto speciale [9].
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[1] Lo SmartCig consiste in un CIG in modalità semplificata o in un carnet di CIG. Il CIG ottenuto in questa modalità può essere utilizzato per micro-contrattualistica (contratti di lavori di importo inferiore a 40.000, ovvero contratti di servizi e forniture di importo inferiore a 40.000, affidati ai sensi dell'art. 125 del Codice o mediante procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando) e contratti esclusi in tutto o in parte dell'applicazione del Codice.
[2] 'Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale', decreto convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 23.06.2014, n. 89.
[3] 'Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari', decreto convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 11.08.2014, n. 114.
[4] Recante 'Riordino del sistema Regione-Autonomie locali nel Friuli Venezia Giulia. Ordinamento delle Unioni territoriali intercomunali e riallocazione di funzioni amministrative'.
[5] ' Nel rispetto del sistema delle convenzioni di cui agli articoli 26 della legge 23.12.1999, n. 488, e successive modificazioni, e 58 della legge 23.12.2000, n. 388, tutte le amministrazioni statali centrali e periferiche, ivi compresi gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado, le istituzioni educative e le istituzioni universitarie, sono tenute ad approvvigionarsi utilizzando le convenzioni-quadro. Le restanti amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti, possono ricorrere alle convenzioni di cui al presente comma e al comma 456 del presente articolo, ovvero ne utilizzano i parametri di prezzo-qualità come limiti massimi per la stipulazione dei contratti. (...)'
[6] L'art. 328 dispone che, fatti salvi i casi di ricorso obbligatorio al mercato elettronico previsti dalle norme in vigore, ai sensi dell'art. 85, comma 13, del Codice dei contratti, la stazione appaltante può stabilire di procedere all'acquisto di beni e servizi attraverso il mercato elettronico realizzato dalla medesima stazione appaltante (laddove presente) ovvero attraverso il mercato elettronico della pubblica amministrazione realizzato dal Ministero dell'economia e delle finanze sulle proprie infrastrutture tecnologiche avvalendosi di Consip S.p.A. (MePA) ovvero attraverso il mercato elettronico realizzato dalle centrali di committenza di riferimento di cui all'articolo 33 del Codice.
[7] Cfr. Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Liguria, deliberazione n. 64/2014 del 10/11/2014, secondo cui l'interpretazione congiunta dei commi 449 e 450, nel senso che l'obbligo di ricorso al mercato elettronico tiene conto delle facoltà previste dal comma 449 che ricomprendono la possibilità per gli enti locali di rivolgersi al libero mercato con il limite imperativo dello stesso prezzo-qualità/quantità previsto dal sistema delle convenzioni CONSIP, si coordina con il principio generale di economicità dell'azione amministrativa.
[8] In sede di acquisizione del CIG, l'ANAC chiede alla stazione appaltante di dichiarare se:
   1) intende procedere all'acquisizione secondo le modalità indicate dall'art. 9, comma 4, D.L. n. 66/2014, oppure dall'art. 23-ter del D.L. n. 90/2014;
   2) il suo territorio ricade in una regione a statuto speciale o in una provincia che non ha ancora recepito nel proprio ordinamento le disposizioni di cui all'art. 9, comma 4, D.L. n. 66/2014.
[9] Peraltro, in caso di utilizzo degli strumenti elettronici o di acquisti inferiori ai 40.000 euro da parte dei comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti, le stazioni appaltanti possono dichiarare di procedere ai sensi dell'art. 9, comma 4, DL 66/2014 o dell'art. 23-ter del DL 90/2014
(opzione ANAC n. 1)
(26.02.2015 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Conflitti, parla il consiglio. Incompatibile l'a.d. o il titolare di una società. Semaforo verde per il vicesindaco che non ha poteri di gestione nella srl.
Sussiste una causa di incompatibilità, ai sensi della legge della Regione Sicilia, 24.06.1986, n. 31, nei confronti di un vicesindaco che detiene, in qualità di socio di capitale senza potere di rappresentanza, una partecipazione pari al 34% in una società a responsabilità limitata alla quale è affidato il servizio di manutenzione della rete informatica dell'amministrazione comunale e che è, altresì, legato da un rapporto di affinità di secondo grado con l'amministratore unico della società?

Nel caso in questione potrebbe trovare applicazione una delle ipotesi di incompatibilità dettate per i consiglieri comunali dall'art. 10, comma 1, lett. 2) della legge della Regione Sicilia 24.06.1986, n. 31, applicabili anche ai componenti della giunta in forza dell'art. 12, comma 2, della legge regionale 26.08.1992, n. 7, ai sensi del quale «non può ricoprire la carica di consigliere provinciale, comunale o di quartiere colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, rispettivamente, nell'interesse della provincia o del comune (omissis)».
Come ha chiarito la giurisprudenza, con riferimento all'analoga fattispecie prevista dall'art. 63 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, le preclusioni di che trattasi, ascrivibili al novero delle c.d. incompatibilità di interessi, hanno la finalità di impedire che possano concorrere all'esercizio delle funzioni dei consigli comunali soggetti portatori di interessi confliggenti con quelli del comune o i quali si trovino comunque in condizioni che ne possano compromettere l'imparzialità (cfr. Corte costituzionale, sentenza 20.02.1997, n. 44; Id., sentenza 24.06.2003, n. 220).
La situazione di incompatibilità in questione è ravvisabile nella presenza di un duplice presupposto: il primo di natura soggettiva e il secondo di natura oggettiva
Sul piano soggettivo, è necessario che l'interessato rivesta la qualità di «titolare» (ad esempio, di impresa individuale) o di «amministratore» (ad esempio, di società di persone o di capitali) ovvero di «dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento», quale l'institore o il procuratore di un'impresa commerciale o il direttore generale di una società per azioni.
L'ampia formulazione della norma, per un verso, dimostra che le menzionate qualità soggettive devono risolversi, in definitiva, in poteri di gestione e/o di decisione relativamente all'appalto, per altro verso, legittima il ricorso ad una eventuale interpretazione estensiva della disposizione.
Dal punto di vista oggettivo, l'amministratore locale, rivestito di una delle predette qualità, in tanto può considerarsi incompatibile, in quanto abbia parte in appalti nell'interesse del comune. L'espressione «avere parte» è qui usata per indicare una contrapposizione tra l'interesse particolare del soggetto, in ipotesi incompatibile, e l'interesse del comune, istituzionalmente generale e, quindi, una situazione di potenziale conflitto rispetto all'esercizio imparziale della carica elettiva.
Ne discende che la nozione di partecipazione deve assumere un significato il più possibile esteso e flessibile, al fine di potervi ricomprendere forme di partecipazione eterogenee, e che è irrilevante la natura, pubblicistica o privatistica, dello strumento prescelto dall'ente locale per la realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
In altri termini, se un imprenditore ha parte, nel senso sopra indicato, in un appalto, al quale l'ente è interessato, lo stesso non è idoneo, secondo la previsione del legislatore, ad adempiere imparzialmente i doveri connessi al suo ruolo istituzionale (cfr. Corte di cassazione, sezione I, sentenza 22.12.2011, n. 28504; Id., sentenza 16.01.2004, n. 550; Id., sentenza 08.08.2003, n. 11959; Id., sentenza 17.04.1993, n. 4557).
Nel caso di specie, il vicesindaco del comune non riveste alcuna delle qualità indicate dalla norma nell'ambito della società affidataria dell'appalto, pertanto non sussiste la prospettata situazione ostativa all'esercizio del mandato elettivo.
Ciò anche in considerazione del fatto che le disposizioni che stabiliscono ipotesi di incompatibilità, pur essendo suscettibili di interpretazione estensiva, si sostanziano in una limitazione al diritto di elettorato passivo, costituzionalmente garantito, e, pertanto, sono di stretta interpretazione ed applicazione (ex multis, Corte costituzionale, sentenza 09.11.1988, n. 1020; Id., sentenza 20.02.1997, n. 44; Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 22.12.2011, n. 28504; Id., sentenza 27.03.2008, n. 8031; Id., sentenza 14.01.2008, n. 626; Id., sentenza 11.03.2005, n. 5449).
Nondimeno, non può trascurarsi che la peculiarità del caso concreto è data dalla circostanza che l'amministratore unico della società affidataria dell'appalto presenta un vincolo di affinità di secondo grado nei confronti del vicesindaco.
Secondo l'orientamento giurisprudenziale, gli avverbi «direttamente o indirettamente», che nel testo della disposizione normativa seguono la locuzione «ha parte», devono intendersi riferiti non già alla richiamata condizione oggettiva, ma a quella soggettiva.
In tale direzione, militano sia valutazioni di ordine sistematico sia la considerazione che, se riferiti al requisito oggettivo della partecipazione all'appalto, gli avverbi in parola amplierebbero oltremodo la sfera di operatività della preclusione, la quale finirebbe così per perdere il carattere di limitazione eccezionale rispetto al generale diritto di elettorato passivo.
In tal modo, il legislatore «ha inteso, specificamente, rafforzare l'effettività della norma e limitare il predetto diritto non soltanto nei confronti del soggetto, al quale, in ragione della partecipazione all'appalto con una determinata qualità soggettiva (titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento), il conflitto di interessi sia immediatamente (e formalmente) riferibile, ma anche, con un chiarissimo scopo «antielusivo», nei confronti del soggetto che, al di là della qualità soggettiva di colui che partecipa «formalmente» all'appalto, debba, secondo le circostanze del caso concreto, considerarsi il reale portatore dell'interesse «particolare» potenzialmente confliggente con quelli «generali» connessi all'esercizio della carica elettiva».
Sotto tale profilo, la giurisprudenza fa riferimento, in via esemplificativa, alle ipotesi di interposizione fittizia di persona ovvero a situazioni di collegamento o di controllo societario prefigurate dall'art. 2359 del codice civile (cfr. Corte di cassazione, sentenza n. 550/2004, cit; Id., sentenza n. 11959/2003, cit.).
Sotto questo profilo, la valutazione circa l'eventuale sussistenza di una causa di incompatibilità è rimessa al consiglio comunale, in conformità al generale principio per cui ogni organo collegiale è competente a deliberare sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti (cfr. Corte di cassazione, sezione I, sentenza 10.07.2004, n. 12809; Id., sentenza 12.11.1999, n. 12529) (articolo ItaliaOggi del 20.02.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI: Istanza di accesso senza indicazione dell'atto e senza esposizione della motivazione a supporto della domanda.
Il privato ha l'onere di precisare quali siano gli atti rispetto ai quali è esercitato l'accesso. La richiesta può reputarsi legittima quando l'oggetto dell'accesso appare sufficientemente circoscritto, in modo tale che l'istanza non intralci l'operato della pubblica amministrazione, esponendo quest'ultima alla ricerca estenuante di documenti non specificamente individuati, né appaia preordinata ad una verifica generalizzata nei confronti dell'esercizio del potere pubblico. Ed, inoltre, conformemente al combinato disposto dell'art. 22, c. 1, lett. b) e dell'art. 25, c. 2, la domanda di accesso, sfornita di motivazione, non può essere accolta dall'ente cui è indirizzata.
L'ente segnala di essere destinatario di un'istanza di accesso riguardante tutti gli atti di un determinato procedimento, senza individuazione del tipo di documento richiesto e senza esposizione della motivazione a supporto della domanda.
Il Comune chiede, pertanto, se, nel caso di specie, l'istanza possa essere soddisfatta e come rispondere al cittadino che l'ha formulata.
Sentito, per le vie brevi, l'ente, si è appreso che la domanda di accesso elaborata dal privato inerisce agli atti di un procedimento conclusosi con un'ordinanza di diniego di apertura di un agriturismo.
Sulla fattispecie illustrata, lo scrivente intende svolgere le seguenti osservazioni, essendo obiettivo primario dell'odierno parere verificare se la domanda di accesso formulata dal cittadino presenti i presupposti per essere reputata legittima e, quindi, possa essere soddisfatta ai sensi degli articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241 - 'Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi'.
Così come elaborata, l'istanza fa sorgere dei dubbi di legittimità per due ordini di ragioni: a) il primo -perplessità più facilmente superabile ai fini dell'accoglimento della domanda di accesso- in quanto essa potrebbe apparire eccessivamente generica giacché presentata senza indicazione specifica dei documenti rispetto ai quali si esercita il diritto di accesso; b) il secondo -non risolvibile- in quanto essa non è sorretta da motivazione alcuna.
Si evidenzia, in primis, il duplice onere cui deve far fronte il cittadino, nel momento in cui formula una richiesta di accesso agli atti della pubblica amministrazione affinché questa possa essere legittimamente accolta e soddisfatta: il soggetto instante deve circoscrivere, preventivamente, l'oggetto dell'accesso e rappresentare, in maniera motivata, la sussistenza di un interesse, concreto, diretto e attuale in relazione all'accesso documentale. Tali obblighi discendono direttamente dal dettato normativo che statuisce: 'non sono ammissibili istanze di accesso preordinate a un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni'
[1] e la richiesta di accesso ai documenti deve essere motivata [2].
Si rammenta, inoltre, che il diritto di accesso ai documenti amministrativi è posto a garanzia della trasparenza ed imparzialità degli enti pubblici
[3]. Così, è regola generale che l'amministrazione detentrice di documenti, direttamente riferibili alla tutela di un interesse personale e concreto, non può limitare il diritto di accesso, se non per motivate esigenze di riservatezza [4].
a) Analizzando ora separatamente le due problematiche prospettate dal Comune ed, in particolare, la questione dell'atto non distinto nella domanda, si sottolinea che l'istanza di accesso deve puntualizzare i documenti oggetto della richiesta.
È, infatti, necessario fornire elementi idonei a precisare di quali particolari atti si tratta, in quanto richieste generiche di accesso potrebbero determinare la paralisi dell'azione e dell'attività della pubblica amministrazione. Per quest'ultima, una ricerca estenuante di documenti appare, come tale, incompatibile con la funzionalità ed efficienza degli uffici pubblici
[5]. Ed, invero, richieste di accesso, senza specificazione del documento al quale ci si riferisce, espongono la pubblica amministrazione al rischio concreto di un controllo diffuso del proprio operato. Il diritto di accesso non può, infatti, configurarsi come un'azione popolare, al fine di praticare una sorta di sorveglianza generale nei confronti dell'esercizio del potere pubblico e al fine di verificare il buon andamento dell'ente [6]. La domanda di accesso non può essere un mezzo per compiere un'indagine o un controllo ispettivo, attività cui sono ordinariamente preposti organi pubblici: in tal caso, nella domanda di accesso, appare assente un collegamento diretto con specifiche situazioni giuridicamente rilevanti [7].
La regola generale è, pertanto, che l'istanza deve essere sufficientemente specifica ed anche limitata nel suo contenuto, poiché un accesso eccessivamente esteso si porrebbe in contrasto con i canoni di tempestività ed efficacia dell'azione amministrativa, creando situazioni incompatibili con una corretta gestione dei procedimenti amministrativi.
La stessa istanza deve, quindi, permettere di riconoscere quanto sia esteso l'accesso, essendo inammissibili richieste generiche. È per questo motivo che i documenti per i quali si chiede l'accesso devono essere individuati nell'istanza.
In tal senso, le regole da osservare sono le seguenti:
- la domanda di accesso deve avere un oggetto determinato o quanto meno determinabile e non può essere generica;
- la domanda di accesso deve riferirsi a specifici documenti e non può comportare la necessità di un'attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta
[8].
Svolte tali riflessioni generali in relazione alla prima problematica sopra evidenziata, parrebbe, allo scrivente, che la richiesta del privato possa reputarsi legittima in quanto l'oggetto dell'accesso appare sufficientemente circoscritto, essendo, invero, riferito agli atti di quel determinato procedimento amministrativo conclusosi con l'ordinanza di diniego di apertura di un agriturismo. Da tale punto di vista, l'istanza non appare, pertanto, intralciare l'operato della pubblica amministrazione, esponendola alla ricerca estenuante di documenti non specificamente individuati, né appare preordinata ad una verifica generalizzata nei confronti dell'esercizio del potere pubblico
[9].
La domanda formulata dal privato, in quanto riferentesi a tutti gli atti di un procedimento (comunque determinato e identificabile in relazione al suo provvedimento conclusivo consistente in un'ordinanza di diniego di apertura di un agriturismo) non sembra, quindi, tradursi in un'azione di tipo ispettivo e di controllo diffuso, da parte del privato, verso l'opera dell'ente.
Come segnalato dalla giurisprudenza, la richiesta di accesso alla documentazione in possesso della pubblica amministrazione risulta, invece, caratterizzata da una formulazione eccessivamente generalizzata e, come tale, appare, pertanto, inammissibile, quando riguardi non specifici atti o provvedimenti, bensì la documentazione inerente ad un'attività svoltasi attraverso un imprecisato numero di atti, genericamente riferiti a un ambito di interesse, atteso che l'eventuale soddisfazione di simile richiesta comporterebbe un'opera di ricerca, catalogazione, sistemazione non rientrante nei doveri imposti all'amministrazione dalla normativa di cui al capo V della legge 241/1990, oltre che un esteso controllo su un ramo di attività dell'ente pubblico
[10].
b) Il secondo aspetto da prendere in considerazione nel presente parere riguarda la totale assenza di motivazione nell'istanza finalizzata all'accesso.
Al riguardo, si rammenta che, ai sensi dell'articolo 22 della legge 241/1990, l'accesso è consentito a tutti i soggetti privati, portatori di un interesse diretto
[11], concreto [12], attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento rispetto al quale è chiesto l'accesso [13], onde poi procedere nella sede ritenuta più opportuna per la sua effettiva tutela [14].
All'atto della richiesta, al fine del riconoscimento dell'interesse giuridicamente rilevante, il soggetto deve, pertanto, dimostrare che esiste una correlazione tra la propria situazione giuridica soggettiva e l'utilità di conoscere il bene o la vicenda, oggetto dell'atto o del documento amministrativo di cui chiede visione o copia
[15]. La domanda di accesso deve, quindi, essere finalizzata alla tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il richiedente è portatore [16].
Come rilevato dalla giustizia amministrativa, si osserva, inoltre, che 'deve pur sempre sussistere un legame tra finalità dichiarata e documento richiesto, con la conseguenza che il titolare deve esternare non solo le ragioni per cui intende accedere ma, soprattutto, la coerenza di tali ragioni con gli scopi alla cui realizzazione il diritto di accesso è preordinato'
[17].
Ed, invero, per la giurisprudenza, l'articolo 22, legge 241/1990, lungi dall'aver introdotto una forma di azione popolare, diretta a consentire una sorta di verifica diffusa dell'attività amministrativa, 'deve correlarsi ad un interesse qualificato, che giustifichi la cognizione di determinati documenti, onde l'accesso agli atti della p.a. è consentito soltanto a coloro cui gli atti stessi, direttamente o indirettamente, si rivolgano e che se ne possano eventualmente avvalere per la tutela di una posizione soggettiva la quale, anche se non assurta alla consistenza dell'interesse legittimo o del diritto soggettivo, deve comunque essere giuridicamente tutelata, non essendo consentito identificarla con il generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività amministrativa (v. art. 97, Cost.)'
[18].
All'instante, è quindi, richiesta una 'doverosa specificazione'
[19] dell'interesse correlato all'accesso.
Ed, inoltre, 'la domanda di accesso non può essere palesemente sproporzionata rispetto all'effettivo interesse conoscitivo del soggetto, che deve specificare il puntuale riferimento che lega il documento richiesto alla propria posizione soggettiva, ritenuta meritevole di tutela'
[20].
In conclusione, essendo del tutto sfornita di motivazione, la domanda di accesso non può essere accolta dall'ente cui è indirizzata.
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[1] Si legga l'articolo 24, comma 3, della legge 241/1990.
[2] Articolo 25, comma 2, legge 241/1990.
[3] Ai sensi dell'articolo 22, comma 2, legge 241/1990 'L'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza'.
[4] Si legga Tar Lazio, Roma, sez. III, sentenza del 05.11.2009, n. 10838.
[5] Si veda Consiglio di Stato, sentenza n. 1683/1998.
[6] Il menzionato principio, di origine giurisprudenziale, è stato recepito, nell'articolo 24, comma 3, della legge 241 dal legislatore del 2005 - che, con la legge 11.02.2005, n. 15, ha, parzialmente, riformato la disciplina del diritto di accesso.
[7] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 29.04.2002, n. 2283; Tar Lazio, sez. II, sentenza del 22.07.1998, n. 1201 (resa sulla domanda di accesso del Codacons, mirante a prendere conoscenza di tutto il materiale -reclami, denunce, provvedimenti disciplinari, spese per risarcimento- inerente a casi di smarrimento o furto verificatisi in occasione di spedizioni postali nell'arco di più anni).
[8] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenze del 20.05.2004, n. 3271 e del 10.04.2003, n. 1925; sez. V, sentenza del 01.06.1998, n. 718.
[9] Preme qui ricordare -anche se non proprio attinente con la fattispecie prospettata dal Comune instante, ove pare che il privato abbia, comunque, individuato i documenti, rispetto ai quali è esercitato l'accesso, attraverso la specificazione del procedimento nel quale essi si collocano- che, del resto, spesso il richiedente non conosce in quali atti sono contenute le informazioni che domanda, spettando, quindi, all'amministrazione individuare in quali documenti siano presenti le informazioni, nel caso in cui sussistano i presupposti per consentire l'accesso. Così, Tar Emilia Romagna, sez. I, sentenza del 20.01.2011 n. 42; nello stesso senso l'arresto di Tar Roma, sez. I, 09.08.2010, n. 30467.
[10] Si veda Tar Lazio, Roma, sez. I, sentenza del 13.12.2011, n. 9709, tratta da F. Palazzi (a cura di), 'L'interesse ad accedere ai documenti della p.a. nella recente giurisprudenza amministrativa', Comuni d'Italia, 3/2013, ove il giudice ha ritenuto illegittimo l'accesso in quanto esercitato genericamente nei confronti di un numero indistinto di atti. Nella menzionata pronuncia, il tribunale amministrativo ha sottolineato come correttamente l'ente abbia opposto il diniego all'accesso sulla base della motivazione che questo fosse rivolto a una serie non specificata di documenti e preordinato a un controllo universale sull'operato del Comune, sul presupposto che, al comma 3 dell'articolo 24, legge 241/1990, è statuita l'inammissibilità delle istanze di accesso preordinate a un controllo diffuso dell'operato delle pubbliche amministrazioni e che le disposizioni in materia di diritto di accesso mirano a coniugare la ratio dell'istituto, quale fattore di trasparenza e garanzia di imparzialità dell'amministrazione, come enunciato dall'articolo 22 della legge 241/1990, con il bilanciamento da effettuare rispetto a interessi contrapposti, fra cui anche quello all'efficiente funzionamento degli uffici pubblici.
Deve, quindi, escludersi che la disciplina sull'accesso ai documenti amministrativi, in quanto volta a tutelare l'interesse alla conoscenza di determinati atti, possa consentire un controllo generico sull'attività dell'ente, finalizzato a una verifica, in via generale, della trasparenza e legittimità dell'azione amministrativa, dal momento che, correlativamente all'esercizio del diritto alla conoscenza degli atti, sussiste la legittima pretesa dell'ente a non subire intralci alla propria attività istituzionale, possibili in ragione della presentazione di istanze tali da produrre un appesantimento dell'operato pubblico in contrasto con il canone fondamentale dell'efficienza ed efficacia dell'azione stessa di cui all'articolo 97 della Costituzione.
Tra i precedenti conformi, si vedano, ex plurimis: Consiglio di Stato, sez. IV, 27.11.2010, n. 8287; 15.09.2010, n. 6899; 05.10.2001, n. 5291; sez. VI, 12.01.2011, n. 116; 28.09.2010, n. 7183; 11.05.2007 n. 2314; TAR Lazio, Roma, sez. II, 14.03.2011, n. 2260.
[11] Per interesse diretto deve intendersi un interesse riferibile al soggetto che fa l'istanza. Sull'interesse diretto è utile, in particolare, la sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 04.04.2012, n. 4671, secondo cui, ai fini dell'accesso, deve sussistere un''ineliminabile correlazione con un interesse, oltre che attuale e concreto, quindi non ipotetico e astratto, anche diretto ossia immediatamente riferibile alla sfera giuridica dell'istante, in termini di sua pertinenza ad essa e quindi, come tale, personale'. Si adotta, dunque, l'equivalenza interesse diretto uguale ad interesse personale. Ma la stessa sentenza offre un altro spunto significativo: 'una stretta relazione con la documentazione di cui si chiede l'ostensione, e quindi un rapporto diretto tra la medesima e la situazione giuridica soggettiva' (cfr. pure Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 26.03.2012, n. 1768 e sez. VI, sentenza del 28.09.2010, n. 7183).
È, dunque, importante rafforzare l'idea secondo la quale per l'accesso 'non è sufficiente il generico e indistinto interesse di ogni cittadino alla legalità o al buon andamento della attività amministrativa' (Consiglio di Stato, Ad. Plen., sentenza del 24.04.2012, n. 7). Si veda anche Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 13.12.1999, n. 2109: 'La personalità dell'interesse ai fini dell'accesso ai documenti amministrativi ex art. 22, l. 07.08.1990 n. 241 implica, per un verso, che quest'ultimo è riconosciuto solo a colui che, rispetto ai documenti richiesti, versi in una posizione legittimante, tale da differenziarlo dalla generalità dei consociati e da coloro che in varia guisa possono dirsi interessati all'attività del soggetto pubblico; e, per altro verso, che il diritto d'accesso non s'atteggia come una sorta di azione popolare diretta a consentire una forma generalizzata di controllo sulla p.a., sicché l'interesse che legittima alla richiesta, da accertare caso per caso, dev'essere personale e concreto, quindi serio, non emulativo né riducibile a mera curiosità'.
[12] Interesse concreto indica un interesse non ipotetico, finalizzato, non immaginario, non esistente solo nella mente dell'accedente. Proprio per assicurare la finalizzazione della domanda di accesso alla sussistenza di un interesse concreto, che non può ravvisarsi nel generico, comune interesse alla trasparenza dell'azione amministrativa, l'istanza deve essere motivata con riferimento a detto interesse (in tal senso, Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 11.01.1994, n. 8).
[13] Si veda l'articolo 22, comma 1, lettera b), della legge 241/1990.
[14] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 26.02.2010, n. 1150. Si rammenta che è l'interesse a dover risultare diretto, concreto ed attuale, non la situazione legittimante, se non di riflesso. Altri profili legittimanti l'accesso acquisiscono rilevanza per accessione rispetto all'interesse, che costituisce il cuore dell'istituto. La riprova si ottiene nell'analisi che deve fare il giudice: da un lato, l'esistenza dell'interesse al diritto di accesso e, dall'altro, l'esistenza di una situazione giuridica tutelata, che non necessariamente deve consistere in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo. Si legga ancora M. Scanniello, 'Il diritto di accesso alla documentazione amministrativa. Commentario sistematico'.
Si legga anche Tar Toscana, Firenze, sez. II, sentenza del 03.07.2009, n. 1184: 'Il diritto di accesso previsto dall'art. 22, l. n. 241 del 1990, non ha introdotto nell'ordinamento una sorta di azione popolare ispettiva nei confronti della P.A., ma ha voluto porre a disposizione di ogni cittadino uno strumento per superare la barriera della riservatezza degli atti di ufficio al fine di tutelare comunque i propri interessi; tuttavia l'espressione normativa "tutela degli interessi", non deve essere intesa solo come finalizzazione dell'accesso ad un ricorso giurisdizionale, ma secondo un nesso inscindibile tra i documenti richiesti e la verifica della eventuale lesione di un proprio interesse qualificato: ne consegue che se, da un lato, è escluso l'accesso a meri fini ispettivi, dall'altro esso è ammesso anche quando il richiedente non assume di volere verificare un preciso e determinato vizio degli atti al fine della impugnativa, ma solo prospetti il proprio interesse, purché concreto e qualificato, alla regolarità della procedura in questione'.
[15] Si legga il parere formulato dallo scrivente, datato 26.03.2014, consultabile nella banca dati di cui all'indirizzo internet http://autonomielocali.regione.fvg.it
[16] Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza del 30.09.1998, n. 1346.
[17] In tal senso, si legga Tar Ancona, sentenza del 30.03.2005, n. 274.
[18] Tar Emilia Romagna, Parma, sez. I, sentenza del 09.02.2010, n. 52. Si veda anche Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 03.08.2010, n. 5173, ove si legge: 'La legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica'.
Si legga pure Tar Lazio, Roma, sez. I, sentenza del 05.05.2010, n. 9766: 'Ai sensi dell'art. 22, l. n. 241 del 1990, il diritto di accesso è riconosciuto a chiunque vi abbia interesse, ricollegando siffatto interesse all'esigenza di tutela di situazioni giuridicamente rilevanti. Per aversi un interesse qualificato ed una legittimazione ad accedere alla documentazione amministrativa è necessario trovarsi in una posizione differenziata ed avere una titolarità di posizione giuridicamente rilevante, che significa non titolarità di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo -ossia posizioni giuridiche soggettive piene e fondate- ma di una posizione giuridica soggettiva allo stato anche meramente potenziale. Tale limite è dato dalla necessità di evitare che l'accesso si trasformi in azione popolare, poiché il diritto di accesso ai documenti dell'Amministrazione non può essere trasformato in uno strumento di controllo popolare di tipo ispettivo o esplorativo, utilizzabile al solo scopo di sottoporre a verifica generalizzata l'operato dell'Amministrazione'.
[19] Così, Tar Puglia, Lecce, Sez. II, sentenza dell'11.04.2011, n. 647.
[20] Si confronti, sul punto, Tar Molise, sez. I, sentenza del 09.12.2010, n. 1528
(20.02.2015 - link a www.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Componente organismo di controllo analogo di società partecipata.
Il funzionario comunale, nominato componente di un organismo c.d. di 'controllo analogo', all'interno di una società partecipata dal Comune di appartenenza, deve comunque essere autorizzato allo svolgimento di detta attività, ai sensi dell'art. 53 del d.lgs. 165/2001.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine all'eventuale sussistenza di cause di inconferibilità/incompatibilità in capo a un funzionario comunale nominato componente dell'organismo cosiddetto di 'controllo analogo', all'interno di una società partecipata dall'Ente medesimo e che svolge un servizio pubblico in house. L'amministrazione chiede inoltre di conoscere se il dipendente interessato, che non è titolare di posizione organizzativa, sia comunque tenuto a comunicare tale incarico ovvero a richiedere l'autorizzazione per il relativo espletamento all'Ente di appartenenza.
Preliminarmente si osserva che rientra nella discrezionalità delle singole amministrazioni disciplinare in concreto, con propri atti, le modalità di controllo da esercitare nei confronti delle società affidatarie dirette di servizi pubblici locali e/o di attività strumentali rispetto ai servizi gestiti, che operano nell'ambito dei principi dell' 'in house providing'.
La tipologia di controllo applicata può pertanto essere, tra le altre, quella del c.d. 'controllo analogo' che, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, può concretizzarsi anche attraverso la predisposizione di organismi di controllo, costituiti dai rappresentanti di ciascun ente locale, muniti di penetranti poteri di verifica preventiva sulla gestione dell'attività ordinaria e straordinaria del soggetto in house
[1].
Premesso un tanto, con specifico riferimento alle eventuali cause di inconferibilità/incompatibilità tra determinate tipologie di incarichi previste dall'attuale ordinamento, si rileva che l'art. 1, comma 2, lett. c), del d.lgs. 39/2013 definisce, ai fini applicativi del medesimo decreto, come 'enti di diritto privato in controllo pubblico', le società e gli altri enti di diritto privato che esercitano funzioni amministrative, attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche o di gestione di servizi pubblici, sottoposti a controllo ai sensi dell'articolo 2359 c.c. da parte di amministrazioni pubbliche, oppure gli enti nei quali siano riconosciuti alle pubbliche amministrazioni, anche in assenza di una partecipazione azionaria, poteri di nomina dei vertici o dei componenti degli organi
[2].
Ad ogni buon conto si osserva che non si rinvengono, nell'ambito del d.lgs. 39/2013, fattispecie di inconferibilità o incompatibilità in capo a dipendenti che non siano titolari di incarichi dirigenziali o di funzioni dirigenziali, agli stessi assimilate (art. 2, comma 2).
Conseguentemente, la questione sottoposta va esaminata sotto il diverso profilo della compatibilità dell'incarico in argomento con un rapporto di lavoro pubblico a tempo pieno.
Si ritiene doveroso illustrare preventivamente i principi generali e le regole specifiche che disciplinano il regime dell'incompatibilità, per i pubblici dipendenti.
Per i pubblici dipendenti con rapporto di lavoro a tempo pieno o a tempo parziale superiore al 50 % di quello a tempo pieno, vige il principio dell'incompatibilità con altre prestazioni lavorative. In un parere
[3], il Dipartimento della funzione pubblica ha rimarcato come 'il legislatore costituzionale abbia posto, fra i diversi principi a tutela dell'interesse pubblico, che deve essere costantemente perseguito dalla pubblica amministrazione, quello del dovere di esclusività delle prestazioni dei propri dipendenti, nel senso dell'inconciliabilità tra l'impiego presso l'amministrazione pubblica ed il contestuale svolgimento di altre attività lavorative' [4].
Detto principio è stato espressamente affermato dall'art. 1, comma 60, della L. n. 662/1996 e dall'art. 53 del D.Lgs. n. 165/2001. In particolare, il citato art. 53, nel ribadire per tutti i dipendenti pubblici la disciplina vigente sulle incompatibilità (dettata dall'art. 60
[5] e seguenti del Testo Unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10.01.1957, n. 3), prevede che l'autorizzazione all'esercizio di attività extraistituzionali dei dipendenti pubblici sia comunque disposta dai rispettivi organi competenti delle pubbliche amministrazioni, secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità del dipendente, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione o situazioni di conflitto, anche potenziale, di interessi, che pregiudichino l'esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente.
E' necessario, pertanto, che ciascun ente disciplini, con specifiche norme regolamentari, le fattispecie di incarichi che possono essere autorizzati ai propri dipendenti, nel rispetto dei principi sopra illustrati.
Analizzando la su esposta disciplina, emerge, infatti, che le pubbliche amministrazioni possono autorizzare i propri dipendenti allo svolgimento di incarichi extraistituzionali, nel rigoroso rispetto di determinati presupposti e condizioni, in quanto il tradizionale dovere di esclusività resta confermato nella sua portata generale, salvo appunto i casi di deroga consentiti da specifiche disposizioni, concernenti settori ben individuati.
Appare utile, inoltre, rammentare quanto rappresentato in proposito dallo stesso Dipartimento della funzione pubblica
[6].
In particolare, al punto 6 della circolare n. 3 del 1997, si precisa che le attività extraistituzionali sono da considerarsi incompatibili quando oltrepassano i limiti della saltuarietà ed occasionalità e quando si riferiscono allo svolgimento di libere professioni. Preme sottolineare come la citata circolare evidenzi, inoltre, la gravità delle sanzioni previste nel caso di inosservanza della disciplina sopra descritta, con riferimento a quanto disposto dall'art. 1, comma 61, della L. n. 662/1996
[7].
Da ultimo si sottolinea che il comma 7 dell'art. 53 in esame prevede espressamente che i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. In caso di inosservanza del predetto divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente, per esser destinato a incrementare il fondo di produttività o equivalente.
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[1] Cfr. TAR Piemonte, sez. I, n. 1069 del 2014.
[2] L'ANAC (cfr. risposta 7.25, consultabile sul sito: www.anticorruzione.it) ha precisato che il d.lgs. n. 39/2013 si applica anche alle società in house providing, in quanto esercitano attività di produzione di beni e servizi a favore delle amministrazioni pubbliche.
[3] Cfr. 15.12.2005, n. 220.
[4] Cfr. art. 98, comma 1, della Costituzione, secondo cui i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione.
[5] Tale norma prevede che il dipendente pubblico non possa esercitare il commercio, l'industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società per le quali la nomina è riservata all'ente di appartenenza.
[6] Cfr. circolare n. 3 del 19.02.1997, pubblicata in G. U. n. 44 del 22.02.1997.
[7] Costituisce, infatti, giusta causa di licenziamento la violazione del divieto di svolgere attività ulteriore, che non sia stata espressamente autorizzata
(17.02.2015 - link a www.regione.fvg.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Permessi ai capigruppo. Possono assentarsi dal lavoro per 24 h mensili. Le attività svolte dall'amministratore devono essere correlate alle funzioni.
Un amministratore locale, consigliere e capogruppo consiliare di un comune, nonché dirigente medico presso la locale Asl, di quanti permessi può usufruire ai sensi dell'art. 79 del dlgs 18.08.2000, n. 267?

L'art. 79 del citato decreto legislativo n. 267/2000 dispone, ai commi 1 e 3, che i consiglieri comunali ovvero i membri delle conferenze dei capogruppo hanno diritto di assentarsi per la partecipazione alle riunioni consiliari per l'effettiva durata delle stesse e, tale diritto, comprende il tempo necessario per raggiungere il luogo della riunione e rientrare al posto di lavoro.
Il successivo comma 4 del medesimo articolo prevede, inoltre, che il Presidente del consiglio e i presidenti dei gruppi consiliari comunali con popolazione superiore a 15 mila abitanti, oltre ai permessi di cui al precedente comma, hanno diritto di assentarsi dal posto di lavoro per un massimo di 24 ore lavorative mensili, configurando nello stesso il tempo necessario per raggiungere il luogo della riunione e il rientro al posto di lavoro. Ai sensi del comma 5 del citato articolo, infine, i lavoratori dipendenti hanno diritto ad ulteriori permessi «non retribuiti», sino a un massimo di 24 ore lavorative mensili, qualora risultino necessari per l'espletamento del mandato.
L'art. 80 del dlgs n. 267/2000 dispone, infatti, che i permessi di cui all'art. 79 sono retribuiti dal datore di lavoro, per le ore o giornate di effettiva assenza del lavoratore dal posto di lavoro. Risulta fondamentale che le attività svolte dall'amministratore in questione siano correlate esclusivamente alle funzioni ricoperte, desunte da incarichi demandati all'amministratore dall'ente, proprio in forza della carica rivestita presso lo stesso.
Per quanto attiene alle modalità di attestazione dei permessi, l'art. 79, comma 6 Tuel prevede il preciso obbligo, per il lavoratore dipendente, di documentare, con apposita certificazione, l'attività e i tempi di espletamento del mandato. In assenza di specifica norma regolamentare, l'attestazione dell'utilizzo dei permessi può essere rilasciata dal sindaco, dal segretario comunale, o dal segretario del collegio cui partecipano gli amministratori interessati, se prestabilito, o da un consigliere facente le veci di segretario, ovvero dal presidente dell'adunanza.
In merito ala possibilità di sostituire l'attestazione per i permessi con una autocertificazioni, la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui all'art. 47 del dpr 28/12/2000, n. 445, fatte salve le eccezioni espressamente previste per legge, ha la stessa validità legale dell'atto che sostituisce, tanto più che, nella fattispecie, tale dichiarazione viene effettuata da un amministratore locale investito di pubbliche funzioni (articolo ItaliaOggi del 13.02.2015).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Incompatibilità.
Sussiste l'ipotesi dell'incompatibilità ex art. 63, comma 1, n. 2, del dlgs 18/08/2000, n. 267, nei confronti di un consigliere comunale che all'epoca delle consultazioni amministrative risultava subappaltatore di lavori pubblici nei confronti dell'ente?

Nel caso di specie, l'interessato, prima della seduta consiliare finalizzata a verificare le condizioni di eleggibilità e candidabilità degli eletti, ha rinunciato agli incarichi in questione e il consiglio comunale, con deliberazione successiva alla consultazione elettorale, ha provveduto a convalidare l'elezione dei propri componenti e del primo cittadino, ai sensi dell'art. 41 del dlgs 18/08/2000, n. 267.
Pertanto non è ravvisabile la causa ostativa all'espletamento del mandato elettivo, atteso che, per espressa previsione normativa, l'amministratore locale ha facoltà di rimuovere la situazione d'incompatibilità in cui eventualmente si trovi e, nella specie, ciò risulta tempestivamente avvenuto per effetto della rinuncia ai richiamati subappalti (cfr. art. 69 del dlgs n. 267 del 2000).
Sotto tale profilo, appare irrilevante la circostanza che, al momento dell'elezione, non fosse ancora intervenuta l'approvazione del collaudo finale dei lavori appaltati. Invero, tale approvazione rileva come il momento finale del rapporto contrattuale, a seguito del quale non è più possibile ravvisare alcuna situazione d'incompatibilità, ex art. 63, comma 1, n. 2, del dlgs n. 267 del 2000.
In merito la giurisprudenza ha precisato che «la partecipazione all'appalto, quale impedimento all'esercizio della carica elettiva, dura nel tempo fintantoché essa possa dirsi sussistente: vale a dire, dal momento iniziale della partecipazione stessa e sino al suo esaurimento e, quindi all'esaurimento del potenziale conflitto d'interessi; e ciò, restando salva, ovviamente, la facoltà del soggetto incompatibile di rimuovere la relativa causa nei tempi e nei modi stabiliti dalla legge» (articolo ItaliaOggi del 13.02.2015).

CONSIGLIERI COMUNALI: Designazione, da parte della Provincia, di alcuni componenti del Consiglio di Amministrazione di un Consorzio partecipato dalla stessa. Incompatibilità.
 
1) Il d.lgs. n. 39 del 2013, in armonia anche con quanto previsto dal Piano nazionale anticorruzione, si applica anche ai consorzi (consorzi per l'area sviluppo industriale) in quanto enti pubblici economici;
2) Per i componenti del consiglio o della giunta provinciale che deve procedere alla designazione di due membri del consiglio di amministrazione di un consorzio di sviluppo industriale, potrebbe venire in rilievo la causa di inconferibilità disciplinata dall'articolo 7, comma 2, lett. c), del D.Lgs. 39/2013 ai sensi del quale: 'A coloro che nei due anni precedenti siano stati componenti della giunta o del consiglio della provincia [...] che conferisce l'incarico [...] non possono essere conferiti [...] c) gli incarichi di amministratore di ente pubblico di livello provinciale o comunale';
3) Ai fini della sussistenza delle inconferibilità/incompatibilità di cui al D.Lgs. 39/2013 nei confronti di un dipendente dell'Ente, privo di qualifica dirigenziale, si ritiene necessario che esso sia un responsabile delegato di posizione organizzativa al quale siano attribuite le funzioni dirigenziali di cui all'articolo 107, commi 2 e 3, del decreto legislativo 267/2000.

La Provincia, nel riferire di dover procedere a designare due componenti il Consiglio di amministrazione di un consorzio di sviluppo industriale nel quale la stessa detiene una partecipazione del 34,80%, chiede di conoscere un parere in merito alla sussistenza di cause di inconferibilità/incompatibilità disciplinate dal decreto legislativo 08.04.2013, n. 39,
[1] per determinati soggetti e, in particolare:
1) segretario generale della Provincia stessa;
2) segretario generale di Ente che non detiene alcun controllo sul consorzio in riferimento;
3) componenti del consiglio o della giunta provinciale;
4) componenti della giunta o del consiglio di una Provincia o di un Comune;
5) dirigente della Provincia stessa;
6) dirigente di un Ente che non detiene alcun controllo sul consorzio in riferimento.
La Provincia chiede, altresì, se la figura del dipendente, funzionario della stessa, sia equiparabile a quella del dirigente.
In via preliminare, si rappresenta che le osservazioni che seguono sono formulate in via collaborativa, non competendo allo scrivente Ufficio esprimersi in ordine ai contenuti di norme statali, l'interpretazione delle quali resta attribuita agli uffici ministeriali a ciò deputati e, come nel caso delle norme di cui al d.lgs. 39/2013, all'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) la quale, in base a quanto stabilito nel provvedimento del 14.01.2015,
[2] 'svolge un'attività consultiva in ordine ai problemi interpretativi e applicativi posti dalla legge n. 190/2012 e dai relativi decreti di attuazione', mediante la predisposizione di pareri od orientamenti sulle istanze presentate 'da pubbliche amministrazioni ed enti di diritto privato in controllo pubblico' e 'da soggetti privati destinatari di un provvedimento nell'ambito di un procedimento della pubblica amministrazione o di un ente di diritto privato in controllo pubblico'.
Ai sensi dell'articolo 1 della legge regionale 18.01.1999, n. 3 i consorzi di sviluppo industriale hanno natura di enti pubblici economici; un tanto è confermato dallo statuto del Consorzio in questione (articolo 1, comma 1).
Circa l'applicabilità a detti enti delle norme contenute nel D.Lgs. 39/2013 si è pronunciata, positivamente, l'Autorità nazionale anticorruzione (ANAC) con specifica FAQ.
[3]
Atteso un tanto, e considerando le definizioni contenute all'articolo 1 del D.Lgs. 39/2013, dovrebbe seguire l'inserimento dei consorzi di sviluppo industriale nella categoria di 'enti pubblici' come definiti al comma 2 dell'articolo citato.
[4]
Entrando, ora, nel merito dell'individuazione di una qualche causa di inconferibilità/incompatibilità prevista dal D.Lgs. 39/2013, per le singole fattispecie sopra elencate, si ritiene che debbano essere prese in considerazione le sole figure di cui ai precedenti numeri 3 e 4, non ravvisandosi, invece, per le altre fattispecie (nn. 1, 2, 5 e 6) alcuna causa di inconferibilità e/o incompatibilità disciplinata dal decreto legislativo in riferimento.
In particolare, quanto ai componenti del consiglio o della giunta provinciale che deve procedere alla designazione di due componenti il consiglio di amministrazione del consorzio in riferimento (fattispecie n. 3), potrebbe venire in rilievo il disposto di cui all'articolo 7, comma 2, lett. c), del D.Lgs. 39/2013 ai sensi del quale: 'A coloro che nei due anni precedenti siano stati componenti della giunta o del consiglio della provincia [...] che conferisce l'incarico [...] non possono essere conferiti [...] c) gli incarichi di amministratore di ente pubblico di livello provinciale o comunale'.
[5]
Merita precisare che, ai sensi dell'articolo 9 della legge regionale 3/1999 e dell'articolo 6 dello statuto consortile, il Consiglio di amministrazione del Consorzio in riferimento è formato da individui designati dai soggetti specificamente indicati alle lett. da a) a d) dell'articolo 6, comma 2, dello statuto consortile (tra cui due designati dalla Provincia che pone il quesito) e successivamente nominati dall'Assemblea.
Ciò implica che l'incarico di amministratore del Consiglio di amministrazione del Consorzio è propriamente 'conferito' dall'assemblea consortile e non già dalla Provincia.
Per quanto concerne il concetto di 'conferimento dell'incarico', l'ANAC ha affrontato la questione ma con riferimento all'applicabilità di una norma del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33.
[6] In quella sede essa ha affermato che: 'Il requisito del potere di nomina da parte dell'amministrazione, dei vertici o dei componenti degli organi dell'ente è equiparato al potere di designazione degli stessi, laddove la nomina conseguente a tale designazione sia, ai sensi di disposizioni normative o statutarie, sostanzialmente vincolata, o quando comunque la nomina non possa prescindere dalla designazione, pur potendosi non nominare uno specifico soggetto designato'.
Atteso che quanto affermato dall'ANAC attiene ad un diverso decreto legislativo, recante 'Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni',
[7] sarà cura dello scrivente Ufficio contattare la stessa al fine di chiarire se le affermazioni da essa espresse in quella sede siano o meno estensibili anche nel caso ci si riferisca al D.Lgs. 39/2013.
In attesa di tale risposta, che sarà nostra cura portare alla Vostra attenzione, si suggerisce, tuttavia, di assumere la soluzione più prudenziale, anche considerando che, ai sensi dell'articolo 17 del D.Lgs. 39/2013: 'Gli atti di conferimento di incarichi adottati in violazione delle disposizioni del presente decreto e i relativi contratti sono nulli'.
Non risultano, invece, sussistere, alla luce delle informazioni fornite da codesta Provincia, cause di incompatibilità disciplinate dall'articolo 63 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267.
Con riferimento ai componenti della giunta o del consiglio di un Comune o di una Provincia, diversi da quelli che procedono alla designazione (fattispecie n. 4), potrebbe venire in rilievo la causa di incompatibilità prevista all'articolo 11, comma 3, lett. b), del D.Lgs. 39/2013 ai sensi del quale gli incarichi di amministratore di ente pubblico di livello provinciale o comunale sono incompatibili 'con la carica di componente della giunta o del consiglio della provincia, del comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti [...], ricompresi nella stessa regione dell'amministrazione locale che ha conferito l'incarico'.
Con riferimento all'ultima questione posta si osserva che il D.Lgs. 39/2013, all'articolo 1, comma 2, contiene le definizioni, rispettivamente, di 'incarichi amministrativi di vertice' (lett. i)
[8] e di 'incarichi dirigenziali interni' (lett. j) [9].
Il successivo articolo 2, al comma 2, precisa che al conferimento negli enti locali di incarichi dirigenziali è assimilato quello di funzioni dirigenziali a personale non dirigenziale. In conseguenza, e per fornire risposta al quesito posto, ai fini della sussistenza delle inconferibilità/incompatibilità di cui al D.Lgs. 39/2013, si ritiene necessario che il dipendente dell'Ente sia un responsabile delegato di posizione organizzativa al quale siano attribuite le funzioni dirigenziali di cui all'articolo 107, commi 2 e 3, del decreto legislativo 267/2000.
Sul tema è intervenuta l'ANAC la quale ha affermato che: 'Il regime delle incompatibilità di cui al d.lgs. n. 39 del 2013 fa esclusivo riferimento agli incarichi dirigenziali e agli incarichi di funzioni dirigenziali, onde l'annoverabilità tra i medesimi degli incarichi di posizione organizzativa va valutata caso per caso in ragione delle funzioni effettivamente svolte'.
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[1] Il D.Lgs. 39/2013 reca 'Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell'articolo 1, commi 49 e 50, della legge 06.11.2012, n. 190'.
[2] Recante 'Modalità operative per l'esercizio della funzione consultiva di cui alla legge 06.11.2012, n. 190 e decreti attuativi e, in materia di appalti pubblici, ai sensi dell'articolo 3, comma 3, del «Regolamento sull'esercizio della funzione di componimento delle controversie di cui all'articolo 6, comma 7, lettera n) del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163»'.
[3] Si tratta, in particolare della FAQ n. 7.12 del seguente tenore letterale 'Il d.lgs. n. 39 del 2013 trova applicazione ai consorzi?' L'ANC ha fornito la seguente risposta: 'Il d.lgs. n. 39 del 2013, in armonia anche con quanto previsto dal Piano nazionale anticorruzione, si applica anche ai consorzi (consorzi per l'area sviluppo industriale) in quanto enti pubblici economici'.
[4] Recita l'articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 39/2013: 'Ai fini del presente decreto si intende: [...] b) per 'enti pubblici', gli enti di diritto pubblico non territoriali nazionali, regionali o locali, comunque denominati, istituiti, vigilati, finanziati dalla pubblica amministrazione che conferisce l'incarico, ovvero i cui amministratori siano da questa nominati; [...]'.
[5] Per completezza espositiva, si segnala, altresì, la norma di cui all'articolo 11, comma 3, lett. a), del D.Lgs. 39/2013 ai sensi del quale gli incarichi di amministratore di ente pubblico di livello provinciale o comunale sono incompatibili 'con la carica di componente della giunta o del consiglio della provincia [...] che ha conferito l'incarico'.
[6] Si tratta, in particolare della FAQ 10.5 del seguente tenore letterale: 'Ai fini della configurazione del potere di nomina dei vertici o dei componenti degli organi degli enti di diritto privato in controllo pubblico da parte delle pubbliche amministrazioni, come previsto dall'art. 22, c. 1, lett. c), del d.lgs. n. 33/2013, il potere di designazione può essere considerato equivalente a quello di nomina?'.
[7] Si osserva, altresì, che sia il D.Lgs. 33/2013 che il D.Lgs. 39/2013 sono stati emanati in attuazione della legge delega 06.11.2012, n. 190, recante 'Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione'.
[8] L'articolo 1, comma 2, lett. i), del D.Lgs. 39/2013 intende per 'incarichi amministrativi di vertice': 'gli incarichi di livello apicale, quali quelli di Segretario generale, capo Dipartimento, Direttore generale o posizioni assimilate nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto privato in controllo pubblico, conferiti a soggetti interni o esterni all'amministrazione o all'ente che conferisce l'incarico, che non comportano l'esercizio in via esclusiva delle competenze di amministrazione e gestione'.
[9] L'articolo 1, comma 2, lett. j), del D.Lgs. 39/2013 intende per 'incarichi dirigenziali interni': 'gli incarichi di funzione dirigenziale, comunque denominati, che comportano l'esercizio in via esclusiva delle competenze di amministrazione e gestione, nonché gli incarichi di funzione dirigenziale nell'ambito degli uffici di diretta collaborazione, conferiti a dirigenti o ad altri dipendenti, ivi comprese le categorie di personale di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, appartenenti ai ruoli dell'amministrazione che conferisce l'incarico ovvero al ruolo di altra pubblica amministrazione'
(12.02.2015 - link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: requisiti delle opere per l’eliminazione delle barriere architettoniche che possono essere realizzate in deroga ai limiti di densità edilizia, altezza, distanza tra fabbricati e dai confini, ecc. (art. 13, comma 3, L.R. 15/2013) (Regione Emilia Romagna, parere 11.02.2015 n. 86803 di prot.).

INCARICHI PROFESSIONALI: Conferimento di incarico esterno di studio. Deroga al limite di spesa.
Secondo la Corte dei conti (cfr. sez. reg. di controllo per la Puglia, n. 131/PAR/2014) il limite di spesa per incarichi di studio e consulenza, per gli enti locali, deve essere individuato non nella misura di una percentuale della spesa sostenuta a tale titolo nel 2009, ma in rapporto alla spesa complessivamente sostenuta nel 2009 per le varie voci previste dall'art. 6 del d.l. 78/2010.
Il Comune si è posto la questione della possibilità di derogare al limite di spesa imposto dall'art. 6, comma 7, del d.l. 78/2010 e successive modifiche e integrazioni, per il conferimento di incarichi di studio e consulenza, non avendo sostenuto l'Ente spese, per tale finalità, nell'anno 2009.
Sentito il Servizio finanza locale, si esprime quanto segue.
Si ritiene utile riportare le articolate considerazioni esplicitate dalla Corte dei conti
[1], che ha avuto modo di esprimersi nello specifico, in ordine ad analoga problematica sottoposta da un ente locale.
La Corte dei conti, dopo aver evidenziato che si configurano quali incarichi di studio quelli volti a ricercare soluzioni su questioni inerenti all'attività di competenza della amministrazione conferente, ha ricostruito il quadro normativo vigente in materia di limiti di spesa per l'affidamento di incarichi di studio, ricerca e consulenza, con particolare riferimento ai limiti posti dal legislatore in rapporto alla spesa sostenuta, a tale titolo, nell'anno 2009.
L'art. 6, comma 7, del d.l. 78/2010 ha stabilito, da prima, che a decorrere dall'anno 2011, la spesa annua per incarichi di consulenza e studi, anche per gli enti locali, non può essere superiore al 20% di quella sostenuta nell'anno 2009.
Successivamente la disciplina sopra richiamata è stata implicitamente modificata dall' art. 1, comma 5, del d.l. 101/2013, come modificato dalla legge di conversione 30.10.2013, n. 125, che prevede che la spesa annua per studi e incarichi di consulenza, inclusa quella relativa a studi e incarichi di consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenuta dalle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'ISTAT, non può essere superiore, per l'anno 2014 all'80 per cento del limite di spesa per l'anno 2013 e, per l'anno 2015, al 75 per cento dell'anno 2014 così come determinati dall'applicazione delle disposizioni di cui al comma 7 dell'art. 6 del d.l. 78/2010, convertito con modificazioni in l. 122/2010.
In sostanza -precisa la Corte dei Conti- il legislatore ha ulteriormente ridotto il limite di spesa precedentemente previsto dal citato art. 6, comma 7, in rapporto alla spesa sostenuta nell'anno 2009: infatti, il nuovo limite è pari al 16% (80% del 20%) per l'anno 2014 e al 15% (75% del 20%) per l'anno 2015.
Una nuova modifica alla disciplina relativa al conferimento degli incarichi in esame è stata poi disposta dall'art. 14 del d.l. 66/2014
[2], il quale, confermando i limiti derivanti dalle vigenti disposizioni e in particolare le disposizioni di cui all'art. 6, comma 7, del d.l. n. 78/2010 e all'art. 1, comma 5, del d.l. n. 101/2013, ha previsto che le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione [3], a decorrere dall'anno 2014, non possono conferire incarichi di consulenza, studio e ricerca quando la spesa complessiva sostenuta nell'anno per tali incarichi è superiore rispetto alla spesa per il personale dell'amministrazione che conferisce l'incarico, come risultante dal conto annuale del 2012, al 4,2% per le amministrazioni con spesa pari o inferiore a 5 milioni di euro, e all'1,4% per le amministrazioni con spesa di personale superiore a 5 milioni di euro [4].
In pratica, consolidando l'orientamento restrittivo seguito costantemente negli ultimi anni, il legislatore ha ritenuto di limitare, sempre sotto il profilo della spesa, ma in modo diverso rispetto al passato, la possibilità di conferire incarichi di consulenza, studio e ricerca: ai limiti basati sulla spesa storica si affiancano quelli derivanti dal rapporto delle relative spese con le spese di personale
La medesima sezione Puglia ha osservato che la questione specifica relativa alla individuazione dei limiti di spesa per il conferimento di incarichi di consulenza e studio nei confronti degli enti che non hanno sostenuto, a tale titolo, spese nell'anno 2009 era stata affrontata dalla Corte dei conti della Lombardia in sede consultiva
[5]. In tale contesto si era rilevato che la ratio sottesa alla legge statale in esame è quella di rendere operante, a regime, una riduzione della spesa per gli incarichi di consulenza e di studio e non quella di vietare agli enti locali la possibilità di conferire incarichi esterni qualora ne ricorrano i presupposti di legge.
La Sezione Lombardia era giunta alla conclusione che la norma de qua, per gli enti locali che nel corso dell'anno 2009 non hanno sostenuto alcuna spesa a titolo di incarichi per studi e consulenze, va applicata individuando un diverso parametro di riferimento. Si era osservato a tal proposito che, se non si adottasse questa interpretazione, la riduzione lineare prevista finirebbe per premiare gli enti meno virtuosi che, nel corso dell'anno 2009, hanno sostenuto una spesa per consulenze eventualmente rilevante, mentre si tradurrebbe in un divieto assoluto per gli enti più virtuosi che, in quello stesso anno, hanno sostenuto una spesa pari a zero.
Pertanto -concludeva la Sezione Lombardia- non sussistendo un parametro finanziario precostituito (in quanto la spesa per l'anno 2009 è stata pari a zero), il limite da individuare sarebbe quello della spesa strettamente necessaria nell'anno in cui si verifica l'assoluta necessità di conferire un incarico di consulenza o di studio (limite di spesa che, a sua volta, sarebbe il parametro finanziario per gli anni successivi).
Al riguardo, la Sezione Puglia ha precisato come la soluzione prospettata nella predetta deliberazione della Sezione Lombardia debba però essere rivista alla luce della successiva sentenza della Corte costituzionale n. 139/2012. Con quest'ultima sentenza, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale prospettate in relazione anche al comma 7 dell'art. 6 del d.l. 78/2010, la Consulta ha ribadito che il legislatore statale può legittimamente imporre agli enti autonomi vincoli alle politiche di bilancio, ma che questi vincoli possono considerarsi rispettosi della autonomia delle Regioni e degli enti locali solo quando stabiliscono un limite complessivo che lascia agli stessi ampia libertà di allocazione delle risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa.
Pertanto, la Sezione Puglia, con riferimento agli enti locali, ha ritenuto che l'art. 6 in argomento prevede un limite complessivo nell'ambito del quale gli enti interessati restano liberi di allocare le risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa. Una volta determinato, quindi, il volume complessivo delle riduzioni da apportare in base all'art. 6 citato, ogni ente ha la possibilità di decidere su quali voci effettuare le riduzioni, senza sottostare ai vincoli specifici previsti. E' possibile, in sostanza, non rispettare un vincolo specifico, ma tale sforamento dovrà esser compensato da una corrispondente maggiore riduzione della spesa rispetto ad un altro vincolo specifico previsto.
All'orientamento espresso in materia da parte della Corte costituzionale si è adeguata la stessa Corte dei conti, che ha avuto modo di sottolineare che 'l'assenza di spese per consulenze nell'esercizio 2009, in considerazione della necessità di individuare un obiettivo complessivo di risparmio secondo le indicazioni ermeneutiche contenute nella sentenza n. 139/2012 cit., non giustifica l'individuazione di un nuovo'tetto di spesa'
[6].
La distribuzione degli interventi riduttivi tra le singole voci previste dalla norma, tuttavia, non comporta la libera ed incondizionata derogabilità delle misure di contenimento, trattandosi pur sempre di norma assistita da sanzioni specifiche in caso di inosservanza
[7].
Secondo la Corte dei conti, Sezione Puglia, in considerazione della lettura data all'art. 6 del d.l. 78/2010 dalla Corte costituzionale, lettura che deve essere estesa anche all'analogo art. 1, comma 5, del d.l. 101/2013, 'sia per non incorrere in interpretazioni censurabili sul piano della legittimità costituzionale, sia per l'espresso rinvio disposto dal legislatore all'art. 6, co. 7, del D.L. 78/2010, il limite per gli incarichi di studio e consulenza (...) deve essere individuato non nella misura di una percentuale della spesa sostenuta a tale titolo nel 2009 (disposizione applicabile solo in via indiretta), circostanza questa che rende irrilevante la presenza o l'assenza di spese sostenute a tale titolo nel 2009, ma in rapporto alla spesa complessivamente sostenuta nel 2009 per le varie voci previste dalla norma indicata (es. acquisto autovetture, missioni, ecc.), con le riduzioni da apportare sempre in termini complessivi. A tale limite complessivo, come già indicato, si aggiunge quello previsto dall'art. 14 del D.L. 66/2014 rapportato alle spese di personale(...) Per il conferimento degli incarichi in argomento (....) rimane ferma, inoltre, la necessità della sussistenza dei numerosi presupposti richiesti dalla vigente normativa (es. art. 7 del D.Lgs. 165/2011) e del rispetto dei vari adempimenti previsti (es. obblighi di pubblicazione)'.
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[1] Cfr. sez. reg. di controllo per la Puglia, n. 131/PAR/2014.
[2] Convertito, con modificazioni, in l. 89/2014.
[3] Come individuate dall'ISTAT ai sensi dell'art. 1, comma 2, della l. 196/2009.
[4] Il comma 3 dell'art. 14 precisa che, per le amministrazioni non tenute alla redazione del conto annuale nell'anno 2012, ai fini dell'applicazione della disposizione di cui al comma 1, si fa riferimento ai valori risultanti dal bilancio consuntivo 2012.
[5] Cfr. sez. Lombardia, n. 227/2011/PAR.
[6] Cfr. sez. reg. Puglia, deliberazione n. 15/PRSP/2014.
[7] Cfr. sez. Veneto, n. 189/2013/PAR
(11.02.2015 - link a www.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Interpretazione di una norma del regolamento di polizia rurale.
Spetta all'organo che ha posto in essere il regolamento di polizia rurale fornire il significato delle disposizioni dallo stesso predisposte.
Il Comune chiede un parere in merito all'interpretazione del proprio regolamento di polizia rurale e, in particolare, della norma che prevede il necessario rispetto di determinate distanze minime nel caso di piantumazione di nuovi pioppeti. Il quesito posto è originato da una vicenda concreta che ha visto coinvolto un privato cittadino, interessato a piantumare un proprio terreno a pioppeto, con presentazione alla Regione della relativa domanda di contributo.
[1]
Atteso che, rispetto al momento in cui è stata fatta la richiesta di contributo (ottenendo un finanziamento sulla base di una determinata superficie coltivabile), il regolamento comunale di polizia rurale ha subito delle modifiche che hanno comportato, in particolare, una diminuzione dell'area coltivabile, il Comune desidera sapere se il privato cittadino, che deve ora procedere alla piantumazione dell'area, debba rispettare le distanze previste dal regolamento vigente al momento di richiesta del contributo o quelle attualmente in vigore.
Al riguardo, si ritiene che non si possa ancorare al momento di richiesta del contributo la determinazione delle distanze minime di rispetto per la piantumazione, essendo il primo un procedimento amministrativo autonomo, nel quale l'amministrazione comunale è totalmente estranea, considerato che lo stesso si instaura tra il privato cittadino e l'autorità concedente il contributo. Peraltro, l'ulteriore questione concernente le conseguenze che si possono determinare sull'entità del contributo ricevuto, alla luce della minore superficie coltivabile, rientra nell'esclusiva competenza dell'Ispettorato agricoltura e foreste, al quale la presente nota è inviata per conoscenza.
Premesso quanto sopra, il Comune ha precisato per le vie brevi di voler conoscere se nel concetto di 'piantumazione di nuovi pioppeti', utilizzato nel proprio regolamento, si debba intendere la messa a dimora delle essenze oppure, in senso più ampio, anche l'attività di aratura a scasso, consistente in una lavorazione profonda del terreno che si esegue necessariamente prima dell'impianto degli arboreti, in considerazione dell'eventuale rilievo che detta estensione potrebbe assumere in relazione all'individuazione della norma regolamentare vigente al momento della piantumazione.
Al riguardo, si rileva che non è compito dello scrivente Ufficio interpretare norme regolamentari comunali; spetta, invece, all'organo che ha posto in essere il regolamento di polizia rurale fornire il significato delle disposizioni dallo stesso predisposte.
In questa sede si ritiene, in via meramente collaborativa, di rilevare che con il termine 'piantumare', in base alle definizioni contenute nei dizionari linguistici, ci si riferisce alla 'messa a dimora di alberi secondo un progetto coerente di sistemazione di un'area' o, ancora, all'attività di 'dotare di piante una superficie di terra'.
[2]
Si osserva, altresì, che la norma del regolamento di polizia rurale laddove utilizza il termine 'piantumazione' lo fa nell'ottica di stabilire una determinata distanza che deve intercorrere tra il confine
[3] e l'albero da piantare. Ciò in conformità al disposto contenuto nell'articolo 892 c.c., ai sensi del quale: 'Chi vuol piantare alberi presso il confine deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti [...]'. Ratio della disciplina delle distanze legali va individuata nella limitazione del diritto del proprietario a piantare a meno di una certa distanza dal confine al fine di evitare che le radici e l'ombra dei propri alberi possano danneggiare le proprietà confinanti.
Da quanto sopra parrebbe che il termine piantumazione contenuto nel regolamento locale si riferisca alla collocazione nel terreno dei pioppi: sembra, quindi, che la piantumazione debba avvenire rispettando le distanze minime indicate nel regolamento di polizia rurale vigente al momento in cui il privato procede all'indicata attività colturale.
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[1] In particolare, il soggetto aveva presentato una domanda individuale di finanziamento alla Regione finalizzata all'imboschimento di superfici non agricole.
[2] Così dizionario 'Hoepli' e vocabolario 'Treccani', entrambi nella versione online.
[3] O l'area destinata a servizi ed attrezzature collettive (edifici di culto, cimiteri, edifici scolastici) o il limite di zona delle aree residenziali
(04.02.2015 - link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: Concessione, in comodato d'uso, di immobili degli enti consorziati a favore del Consorzio.
1) Secondo un orientamento della Corte dei conti, anche se il comodato, in quanto contratto gratuito, costituisce una forma di utilizzo infruttifera, e dunque non in linea con il principio di redditività dei beni immobili delle pubbliche amministrazioni, non risulta precluso a priori, per l'ente locale, ricorrere a tale negozio quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali.
2) Dalle previsioni contenute negli artt. 1803, 1804 e 1808 cod. civ. e dall'interpretazione fornita dalla Corte di cassazione si evince, in via generale, che le spese necessarie per l'uso della cosa (ordinaria manutenzione) gravano sul comodatario, mentre quelle volte alla conservazione del bene (straordinaria manutenzione) spettano al comodante.
Si segnala, peraltro, che una Sezione reg.le della Corte dei conti, trattando dell'ipotesi in cui comodante è un ente locale e richiamando, perciò, il principio di redditività dei beni pubblici, afferma la necessità che l'ente sia quantomeno esentato dall'assunzione di qualunque onere di manutenzione.

Il Consorzio, al quale aderiscono tutti i comuni della provincia di riferimento e la stessa amministrazione provinciale, gestisce i servizi e gli interventi a favore delle persone disabili giovani e adulte
[1], operando in diverse sedi, di cui la minima parte (n. 3) sono di proprietà del Consorzio medesimo, mentre le altre sono di proprietà di alcuni dei comuni consorziati (n. 6) ed una dell'amministrazione provinciale.
Attualmente, l'uso, da parte del Consorzio, dei predetti beni comunali e provinciale, avviene sulla base di contratti di locazione o di concessione a titolo oneroso o gratuito, con una spesa di circa 90.000,00 euro annui, 'con le relative ricadute sul bilancio e sulle quote consortili dovute dagli enti consorziati'.
Al fine di pervenire al contenimento della spesa dei servizi, il Consorzio -che ha natura pubblica, gestisce funzioni degli enti consorziati e persegue finalità sociali e non lucrative- chiede di conoscere se, in deroga al principio della fruttuosità dei beni immobili della pubblica amministrazione:
1) risulti ammissibile che, previa regolamentazione dei soggetti proprietari, gli immobili comunali e provinciale possano essere concessi in comodato d'uso al Consorzio;
2) se il Consorzio possa fruire di tale agevolazione, provvedendo a farsi carico delle sole manutenzioni ordinarie.
In via preliminare, occorre segnalare che -come afferma costantemente la giurisprudenza
[2]- ai fini dell'individuazione dello strumento giuridico idoneo ad attribuire in godimento un bene pubblico a soggetti terzi, assume decisiva rilevanza la corretta qualificazione giuridica del bene stesso. Infatti, la natura demaniale o patrimoniale indisponibile del bene determina l'applicazione dello strumento pubblicistico della concessione, mentre la natura disponibile [3] del bene implica il ricorso a contratti di stampo privatistico (locazione, affitto di azienda, comodato) [4].
Ciò posto, appare opportuno ricordare che il principio della fruttuosità dei beni pubblici, sancito per lo Stato dall'art. 9 della legge 24.12.1993, n. 537 e per i comuni dall'art. 32, comma 8
[5], della legge 23.12.1994, n. 724, impone alle pubbliche amministrazioni di gestire il proprio patrimonio in modo da ottenere la massima redditività possibile.
Il Giudice contabile osserva che, a prescindere dall'individuazione dei rispettivi ambiti applicativi, le predette disposizioni «sono la chiara espressione della volontà del legislatore di rapportare i canoni locativi di tutti gli immobili pubblici ai valori di mercato; e ciò sia che si tratti, più propriamente, di immobili destinati ad uso abitativo (quali quelli disciplinati dall'art. 9, comma 3, della legge n. 537 del 1993), sia che si tratti di immobili appartenenti al patrimonio indisponibile (quali quelli regolati dall'art. 32, comma 8, della legge n. 724 del 1994), sia che si tratti [...] di immobili del patrimonio disponibile [...], relativamente ai quali -già prima della entrata in vigore delle nuove disposizioni- il principio della redditività secondo valori di mercato discendeva dai principi di buona amministrazione cui sono astretti gli enti pubblici»
[6].
La Corte dei conti afferma, quindi, che le varie forme di gestione del patrimonio pubblico previste dall'ordinamento sono tutte finalizzate alla valorizzazione economica delle dotazioni immobiliari degli enti territoriali, vale a dire che esse «devono mirare all'incremento del valore economico delle dotazioni stesse, onde trarne una maggiore redditività finale»
[7].
Più recentemente, la Corte dei conti, dopo aver ribadito che, di norma, «l'atto di disposizione di un bene appartenente al patrimonio pubblico deve comunque tener conto dell'obbligo di assicurare una gestione 'economica' del bene stesso, in modo da aumentarne la produttività in termini di entrate finanziarie, obbligo che rappresenta una delle forme di attuazione da parte delle Pubbliche Amministrazioni del principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.) del quale l'economicità della gestione amministrativa costituisce il più significativo corollario (art. 1, Legge n. 241/1990 e s.i.m.)», precisa che «è il legislatore stesso che traccia i confini delle possibili eccezioni ai principi generali appena richiamati»
[8].
Al riguardo, la Corte dei conti rammenta il già citato art. 32, comma 8, della L. 724/1994, ai sensi del quale i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono determinati in ragione delle loro caratteristiche e a valori non inferiori a quello di mercato, «fatti salvi gli scopi sociali»
[9], e l'art. 32, comma 1, della legge 07.12.2000, n. 383, che consente agli enti locali di concedere in comodato beni mobili ed immobili di loro proprietà, non utilizzati per fini istituzionali, alle associazioni di promozione sociale ed alle organizzazioni di volontariato per lo svolgimento delle loro attività istituzionali.
Secondo la Corte dei conti, «Al di là delle citate eccezioni, espressamente previste dal legislatore, [...] qualsiasi atto di disposizione di un bene, appartenente al patrimonio comunale, non può prescindere dal rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza e pubblicità, che governano l'azione amministrativa, oltre che dal rispetto delle norme regolamentari dell'ente locale (il che concerne, anche e primariamente, la scelta del contraente cui concedere il bene in godimento)».
Va, tuttavia, rilevato che, dopo aver assunto una posizione assai rigorosa, nella considerazione che lo scopo primario del patrimonio disponibile è quello di produrre reddito, la Corte dei conti ha compiuto una serie di valutazioni che appaiono idonee a ritenere ammissibile -a determinate condizioni e anche a favore di soggetti di diritto privato
[10]- la concessione in comodato di beni pubblici.
La Corte ritiene, infatti, che, anche se il comodato, in quanto contratto gratuito, costituisce una forma di utilizzo infruttifera, e dunque non in linea con il principio della redditività dei beni patrimoniali disponibili, non risulta precluso a priori, per l'ente locale, ricorrere a tale negozio quale forma di sostegno e di contribuzione indiretta nei confronti di attività di pubblico interesse, strumentali alla realizzazione delle proprie finalità istituzionali
[11].
Pertanto, osserva la Corte, «il principio generale di redditività del bene pubblico può essere mitigato o escluso ove venga perseguito un interesse pubblico equivalente o addirittura superiore rispetto a quello che viene perseguito mediante lo sfruttamento economico dei beni»
[12].
Una Sezione regionale del Collegio contabile rileva che, all'interno dell'ordinamento generale o nella disciplina di settore degli enti territoriali, non esiste alcuna norma che ponga uno specifico divieto di concessione in uso gratuito di beni immobili facenti parte del patrimonio disponibile dell'ente locale
[13].
Tuttavia -chiarisce la Sezione- nell'esercizio della discrezionalità che gli compete in ordine alla gestione del proprio patrimonio, l'ente locale «deve non solo evidenziare e pubblicizzare le finalità pubblicistiche che intende perseguire con la stipula del negozio di comodato, bensì deve altresì verificare che l'utilità sociale perseguita rientri nelle finalità a cui è deputato l'ente locale medesimo»
[14].
«Dunque» -prosegue la Corte dei conti- «rientra nella sfera della discrezionalità dell'ente locale la scelta sulle modalità di gestione del proprio patrimonio disponibile, purché l'esercizio di detta discrezionalità avvenga previa valutazione e comparazione degli interessi della comunità locale, nonché previa verifica della compatibilità finanziaria e gestionale dell'atto dispositivo»
[15].
Per quanto fin qui esposto, si osserva che la concessione in comodato al Consorzio, da parte degli enti proprietari dei beni in oggetto, risulta subordinata alla rigorosa osservanza delle condizioni richieste dalla Corte dei conti.
Si ritiene, comunque, di dover segnalare che la mancata redditività dei beni che verrebbero concessi in comodato parrebbe tradursi, nella sostanza, in una maggiore partecipazione finanziaria alle spese di funzionamento del Consorzio da parte degli enti comodanti, rispetto alle altre amministrazioni aderenti al Consorzio medesimo.
Quanto alla questione concernente la possibilità che il comodatario provveda a farsi carico degli oneri derivanti dalle sole manutenzioni ordinarie, si segnala quanto segue.
Occorre, anzitutto, rammentare che l'art. 1803, secondo comma, del codice civile, dispone che il comodato «è essenzialmente gratuito».
Ciò posto, l'art. 1804, primo comma, primo periodo, del codice civile, dispone che «Il comodatario è tenuto a custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia» ed il successivo art. 1808 prevede che «Il comodatario non ha diritto al rimborso delle spese sostenute per servirsi della cosa» (primo comma) e che «Egli però ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie sostenute per la conservazione della cosa, se queste erano necessarie e urgenti» (secondo comma).
Sulla scorta di tali previsioni si può, dunque, ritenere -in via generale- che le spese necessarie per l'uso della cosa (ordinaria manutenzione) debbano gravare sul comodatario
[16], mentre quelle volte alla conservazione del bene (straordinaria manutenzione) spettino, invece, al comodante [17].
La Corte di cassazione precisa che l'art. 1808 del codice civile distingue fra spese sostenute per il godimento della cosa e spese straordinarie, necessarie ed urgenti, affrontate per conservarla, osservando che «al comodatario non sono rimborsabili le spese straordinarie non necessarie ed urgenti, anche se comportano miglioramenti, né sotto il profilo dell'art. 1150 c.c. perché egli non è possessore, né sotto quello dell'art. 936 c.c. perché non è terzo anche quando agisce oltre i limiti del contratto, né infine sotto quello dell'art. 1595 c.c. in via di richiamo analogico, perché un'indennità per i miglioramenti è negata anche al locatario la cui posizione è molto simile a quella comodatario»
[18].
Ferme restando, in termini generali, la norma civilistica e l'interpretazione che la Corte di cassazione fornisce della stessa, si segnala una pronuncia della Corte dei conti che, trattando dell'ipotesi in cui comodante è un ente locale e richiamando, perciò, il già citato principio di redditività dei beni pubblici, ne ricava la necessità che l'ente medesimo sia quantomeno esentato da «qualunque onere di manutenzione, nessuno esclus
[19].
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[1] Ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. e), f), g), h) ed i) della L.R. 41/1996.
[2] Cfr. Corte di cassazione -Sez. III, sentenze 19.05.2000, n. 6482, 22.06.2004, n. 11608, 19.12.2005, n. 27931 e Sez. V, 31.08.2007, n. 18345; Consiglio di Stato- Sez. V, sentenze 16.05.2003, n. 1991 e 06.12.2007, n. 6265; Corte dei conti - Sez. reg.le contr. Sardegna, parere 07.03.2008, n. 4.
[3] I beni patrimoniali disponibili sono beni che appartengono all'ente pubblico uti privatorum: ciò significa che essi non hanno una destinazione o, comunque, un'utilità pubblica e, quindi, sono assoggettati, in linea di massima, alla disciplina privatistica.
[4] Si segnala, al riguardo, che la Corte dei conti, Sez. reg.le contr. Sardegna, parere n. 4/2008, cit., ritiene che «l'Ente locale non goda di discrezionalità nel compiere la scelta tra i due strumenti di attribuzione in godimento a soggetti terzi (concessione amministrativa e locazione) del bene e che debba avere quale parametro di riferimento esclusivo la natura (demaniale, patrimoniale indisponibile o patrimoniale disponibile) del bene ed il regime giuridico cui conseguentemente è sottoposto».
[5] «A decorrere dal 01.01.1995 i canoni annui per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile dei comuni sono, in deroga alle disposizioni di legge in vigore, determinati dai comuni in rapporto alle caratteristiche dei beni, ad un valore comunque non inferiore a quello di mercato, fatti salvi gli scopi sociali».
[6] Corte dei conti - Sez. II giurisd. centrale d'appello, sentenza 22.04.2010, n. 149.
[7] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 05.10.2012, n. 716.
[8] Sez. reg.le contr. Puglia, parere 14.11.2013, n. 170. Sul punto, cfr., in termini, Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012, cit..
[9] Entrambi i pareri citati in nota n. 8 chiariscono che la norma va letta in riferimento a quanto previsto dal comma 3 dello stesso articolo che, disciplinando i beni patrimoniali dello Stato, esclude dall'incremento dei canoni annui una serie di categorie di soggetti, tra cui le associazioni e le fondazioni con finalità culturali, sociali, sportive, assistenziali, religiose, senza fini di lucro, nonché le associazioni di promozione sociale, con determinati requisiti.
[10] Secondo la Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri 17.06.2010, n. 672 e 13.06.2011, n. 349 «la natura pubblica o privata del soggetto che riceve l'attribuzione patrimoniale è indifferente, purché detta attribuzione trovi la sua ragione giustificatrice nei fini pubblicistici dell'ente locale».
[11] Sez. reg.le contr. Veneto, parere 24.04.2009, n. 33, il quale chiarisce che «Ciò potrà avvenire, però, solo a seguito di attenta valutazione comparativa tra i vari interessi in gioco, rimessa esclusivamente alla discrezionalità e al prudente apprezzamento dell'ente, e che dovrà risultare da una chiara ed esaustiva motivazione del provvedimento».
V. anche Sez. reg.le contr. Puglia, parere 25.07.2008, n. 23 che, con riferimento alla concessione in comodato di beni comunali alla Regione, ai fini del mantenimento in loco di alcuni uffici, osserva che la scelta non può considerarsi pregiudizievole per le finanze del comodante, considerato che: a) la proprietà degli immobili permane in capo al Comune; b) la gestione dei beni viene temporaneamente trasferita da un'amministrazione locale (comune) all'altra (regione); c) sottesa all'operazione nel suo complesso permane la tutela dell'interesse pubblico della comunità locale, avvantaggiata, nella fruizione del servizio erogato dagli uffici regionali, dal mantenimento di essi sul territorio.
Si veda anche Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013, cit., secondo cui «l'attribuzione del 'vantaggio economico' al destinatario del comodato si giustifica solo ed esclusivamente nella misura in cui le finalità perseguite dallo stesso rientrano tra quelle istituzionali del Comune».
[12] Sez. reg.le contr. Veneto, parere n. 716/2012, cit..
[13] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010, cit. e n. 349/2011, cit..
[14] V. anche Sez. reg.le contr. Campania, parere 10.07.2013, n. 237.
[15] Sez. reg.le contr. Lombardia, pareri n. 672/2010, cit. e n. 349/2011, cit..
[16] Secondo una parte della dottrina (Fragali, Del comodato, in Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 1754-1812, Bologna-Roma, 1966, 309; Luminoso, Comodato, in EG, VII, Roma, 1988, 4), il comodatario non ha mai diritto al rimborso, neanche a titolo di arricchimento, nel caso di spese sostenute per la manutenzione ordinaria, la custodia e la conservazione.
[17] Tant'è che il comodatario ha diritto di essere rimborsato delle spese straordinarie, necessarie ed urgenti per la conservazione della cosa, sostenute in luogo del comodante.
[18] Sez. II civile, sentenza 27.01.2012, n. 1216.
Per quanto appaia una posizione isolata, si segnala che una giurisprudenza di merito (Tribunale Bergamo, sentenza 20.11.2001) afferma che «ai sensi dell'articolo 1808, comma 1, del Codice civile, il comodante non ha l'obbligo di consegnare e mantenere la cosa in stato da servire all'uso convenuto con il comodatario, spettando a quest'ultimo sostenere tutte le spese necessarie per consentire detto uso, derivino esse da opere di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Pertanto, in un contratto di comodato che conceda il godimento gratuito del bene, la clausola per cui il comodatario assume l'obbligo di sostenere le opere di ordinaria e straordinaria manutenzione, limitandosi a rispettare il tipo legale, non può mai essere considerata come pattuizione volta ad introdurre un corrispettivo del godimento, ai fini della qualificazione del negozio come locazione anziché come comodato. In presenza di una tale clausola, rimane peraltro salvo, ai sensi del secondo comma, il diritto del comodatario al rimborso delle spese per opere di manutenzione straordinaria e urgenti, ove siano volte a conservare la cosa».
[19] Sez. reg.le contr. Puglia, parere n. 170/2013, cit., in cui si afferma che «risulterà, dunque, davvero difficile ravvisare detta condizione nel caso in cui l'accollo degli oneri gestionali da parte del soggetto destinatario del bene riguardi esclusivamente la manutenzione ordinaria, con esclusione di quella straordinaria».
Ancorché si tratti di disciplina normativa riferita ai soli beni immobili dello Stato, si vedano gli artt. 10, comma 1, e 11, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 13.09.2005, n. 296, i quali dispongono, rispettivamente, che «Sono legittimati a richiedere a titolo gratuito la concessione ovvero la locazione dei beni immobili di cui all'articolo 9, con gli oneri di ordinaria e straordinaria manutenzione a loro totale carico, i seguenti soggetti [...]» e che «I beni immobili dello Stato di cui all'articolo 9 possono essere dati in concessione ovvero in locazione a canone agevolato per finalità di interesse pubblico connesse all'effettiva rilevanza degli scopi sociali perseguiti in funzione e nel rispetto delle esigenze primarie della collettività e in ragione dei princìpi fondamentali costituzionalmente garantiti, a fronte dell'assunzione dei relativi oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria, in favore dei seguenti soggetti [...]»
(04.02.2015 - link a www.regione.fvg.it).

COMPETENZE GESTIONALI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Amministratori degli enti locali. Sindaco. Incarico di P.O. e d.lgs. 39/2013.
Atteso che l'art. 53, comma 23, della l. 388/2000 si configura quale norma speciale, sembra potersi ritenere prevalente sulla norma successiva introdotta dall'art. 12, comma 1, del d.lgs. 39/2013.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità che il Sindaco, cui è stata conferita la titolarità di una posizione organizzativa dell'area tecnica in applicazione dell'art. 53, comma 23, della l. 388/2000, possa mantenere detto incarico alla luce di quanto disposto dall'art. 12, comma 1, del d.lgs. 39/2013, che recita testualmente: 'Gli incarichi dirigenziali, interni ed esterni, nelle pubbliche amministrazioni (...) sono incompatibili con l'assunzione e il mantenimento, nel corso dell'incarico, della carica di componente dell'organo di indirizzo nella stessa amministrazione o nello stesso ente pubblico che ha conferito l'incarico (...)'.
Com'è noto, l'art. 53, comma 23, della L. n. 388/2000, come novellato dall'art. 29, comma 4, della l. 448/2001, prevede che gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
[1], anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni [2], e all'articolo 107 [3] del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.
La predetta norma, quindi, ha espressamente introdotto la possibilità di deroga al generale principio di separazione dei poteri, nei piccoli enti, al fine di favorire anche il contenimento della spesa e consentire comunque soluzioni di ordine pratico ad eventuali problemi organizzativi nelle realtà di modeste dimensioni demografiche.
Il richiamato d.lgs. 39/2013 stabilisce, tra l'altro, una serie articolata e minuziosa di cause di inconferibilità e incompatibilità, con riferimento a determinate tipologie di incarichi.
In particolare, l'art. 12, comma 1, definisce le cause di incompatibilità tra l'assunzione e il mantenimento di incarichi dirigenziali
[4], interni ed esterni, e la carica di componente dell'organo di indirizzo nella stessa amministrazione che ha conferito l'incarico.
Come già da tempo rilevato, tale norma sembra porsi in netto contrasto con le previsioni di cui al comma 23 dell'art. 53 della l. 388/2000
[5].
Premesso che le valutazioni in ordine all'effettiva sussistenza di detto apparente contrasto spettano esclusivamente alle competenti autorità statali (ANAC), in via collaborativa si esprimono le seguenti considerazioni.
In relazione al raccordo tra le fonti legislative di cui si discute, preme rilevare che l'art. 53, comma 23, della l. 388/2000 si configura, dal punto di vista giuridico, quale norma speciale (applicabile esclusivamente nei comuni con popolazione inferiore a cinquemila abitanti, in deroga al consolidato principio di separazione dei poteri) e, come tale, prevalente sulla disciplina, di portata generale in materia di inconferibilità e incompatibilità, intervenuta successivamente ad opera del d.lgs. 39/2013.
E' da sottolineare, infatti, che il criterio della specialità viene a porsi quale limite all'applicazione del generale principio della successione delle leggi nel tempo, secondo il consolidato canone 'lex posterior generalis non derogat legi priori speciali'. Pertanto, il principio contenuto in una normativa speciale risulta insuscettibile di abrogazione tacita
[6] o implicita da parte di una norma generale sopravvenuta.
Come rilevato dalla Suprema Corte, 'la regola dell'abrogazione non si applica quando la legge anteriore sia speciale od eccezionale e quella successiva, invece, generale (...), ritenendosi che la disciplina generale - salvo espressa volontà contraria del legislatore - non abbia ragione di mutare quella dettata, per singole o particolari fattispecie, dal legislatore precedente. Le norme speciali sono norme dettate per specifici settori o per specifiche materie, che derogano alla normativa generale per esigenze legate alla natura stessa dell'ambito disciplinato ed obbediscono all'esigenza legislativa di trattare in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni diverse (...) E' ovvio che (...) le norme speciali (...) si pongano in termini di deroga rispetto a regole generali, perché finalizzate o a 'calibrare certi istituti alle particolarità specifiche di un determinato settore o perché sono gli stessi presupposti di fatto che impongono un intervento legislativo derogatorio delle regole vigenti'
[7].
Si segnala, infine, che l'ANCI aveva formulato una proposta di emendamento
[8] al DDL recante 'Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato'- Legge di stabilità 2015, ritenendo necessario specificare la vigenza della disposizione di cui all'art. 53, comma 23, della l. 388/2000, 'attesa la finalità di contenimento della spesa cui è preposta ed il carattere di specialità della stessa, valevole solo per i piccoli Comuni'.
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[1] In virtù di tale norma il segretario comunale esercita ogni altra funzione attribuitagli dallo statuto o dai regolamenti, o conferitagli dal sindaco.
[2] Ora art. 4 del d.lgs. 165/2001.
[3] La norma prevede l'attribuzione ai dirigenti di tutti i compiti non compresi tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo.
[4] A mente di quanto disposto dall'art. 2, comma 2, del medesimo d.lgs. 39/2013, al conferimento negli enti locali di incarichi dirigenziali è assimilato quello di funzioni dirigenziali a personale non dirigenziale (incarico di posizione organizzativa).
[5] Cfr. Conferenza delle Regioni e delle province autonome, ANCI-UPI, Documento di sintesi sui possibili contenuti delle intese ex commi 60 e 61 dell'art. 1 della l. 190/2012, dell'11 luglio 2013, in cui si evidenziava l'opportunità che le intese precisassero il persistere della vigenza delle previsioni di cui al comma 23, dell'art. 53, della l. 388/2000.
[6] Cfr. parere ANCI del 18.09.2014, ove si rileva che la deroga introdotta dall'art. 53, comma 23, della l. 388/2000 è tanto più significativa a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. 39/2013, evidenziando che: 'La portata disapplicativa della norma lascia presumere, in assenza di indicazioni contrarie, che in quanto lex specialis debba prevalere sulle disposizioni generali in tema di incompatibilità, escludendosi quindi un'ipotesi di abrogazione tacita (per il principio lex posterior derogat priori).
[7] Cfr. Corte di Cass. civ., Sez. lavoro, n. 4900/2012.
[8] 'All'articolo 12, comma 1, del decreto legislativo 08.04.2013, n. 39 è aggiunto infine il seguente capoverso: Restano in ogni caso ferme le previsioni di cui al comma 23 dell'articolo 53 della legge 23.12.2000, n. 388'.'
(30.01.2015 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto di accesso ad atti contenenti dati reddituali. Necessità di notifica ai controinteressati.
1) I concorrenti ad una procedura concernente l'affidamento di un servizio civico hanno il diritto di accedere agli atti della graduatoria contenente anche informazioni sul reddito dei partecipanti.
2) In conformità all'orientamento giurisprudenziale formatosi con riferimento a procedure concorsuali/selettive, sembra potersi ritenere che i concorrenti collocati nella graduatoria non debbano essere qualificati quali controinteressati nei cui confronti compiere la notifica prescritta dalla legge.

Il Comune riferisce di avere ricevuto istanza per l'accesso agli atti di una graduatoria, contenente anche informazioni sul reddito dei partecipanti, predisposta dall'Ente a seguito di un procedimento concernente l'affidamento di un servizio civico.
[1] Tale richiesta è stata avanzata da un concorrente allo stesso procedimento. L'Ente chiede se su tali dati possa essere garantito il diritto di accesso e se sia necessario informare di un tanto tutti i partecipanti alla procedura.
In termini generali, si osserva che l'articolo 22, comma 1, della legge 07.08.1990, n. 241, precisa, alla lettera a), che per 'diritto di accesso' si intende il «diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi» e, alla lettera b), che per 'interessati' debbano intendersi «tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso».
Al fine del riconoscimento dell'interesse giuridicamente rilevante, il soggetto deve dimostrare, all'atto della richiesta, la correlazione esistente tra la propria situazione giuridica soggettiva e l'interesse alla conoscenza del bene o della vicenda oggetto dell'atto o del documento amministrativo di cui chiede visione o copia.
[2]
Si precisa, inoltre, che la giurisprudenza, nel delineare l'interesse legittimante il diritto di accesso, ha chiarito, da un lato, che lo stesso deve essere accertato caso per caso e deve essere personale e concreto, serio, non emulativo, non riconducibile a mera curiosità
[3] e ricollegabile al soggetto stesso da uno specifico nesso e, dall'altro, che la documentazione richiesta deve essere direttamente riferibile a tale interesse. [4] Inoltre si è affermato che la situazione giuridicamente rilevante si configura come nozione diversa e più ampia rispetto all'interesse all'impugnativa e non presuppone necessariamente una posizione soggettiva qualificabile in termini di diritto soggettivo o di interesse legittimo. [5]
Nella fattispecie dell'accesso ai documenti relativi alle procedure concorsuali, la giurisprudenza,
[6] secondo un orientamento costante, ha precisato che il candidato che partecipa alla medesima è titolare di un interesse qualificato e differenziato alla regolarità della procedura che, come tale, concretizza quell'interesse personale e concreto per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, richiesto dall'articolo 22 della legge 241/1990, quale presupposto necessario per il riconoscimento del diritto di accesso.
Con riferimento all'accesso a procedure concorsuali, si è affermato, in via di principio, che le domande ed i documenti prodotti dai candidati costituiscono documenti rispetto ai quali deve essere esclusa in radice l'esigenza di riservatezza a tutela di terzi, posto che i concorrenti, prendendo parte alla selezione, hanno evidentemente acconsentito a misurarsi in una competizione di cui la comparazione dei valori di ciascuno costituisce l'essenza della valutazione.
[7]
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha, al riguardo, evidenziato che: 'L'amministrazione non può oscurare i dati personali
[8] delle domande di partecipazione degli altri concorrenti utilmente graduati, non sussistendo alcuna esigenza di tutela della riservatezza, dal momento che i concorrenti, prendendo parte alla selezione pubblica, hanno implicitamente accettato che i loro dati personali, esposti nei documenti della procedura stessa, potessero essere resi conoscibili da tutti gli altri concorrenti a ciò interessati'. [9]
Ravvisata l'esistenza del diritto all'accesso da parte del concorrente agli atti relativi alla procedura concorsuale di che trattasi, il Comune deve valutare, sulla base delle motivazioni addotte a sostegno della richiesta, se consentire l'accesso ai documenti concernenti l'intera graduatoria o solo quella parte relativa ai nominativi dei candidati collocatisi prima del soggetto richiedente l'accesso.
[10]
Passando a trattare dello specifico aspetto della necessità o meno, per la Pubblica Amministrazione, di previa notifica ai controinteressati dell'avvenuta richiesta di accesso,
[11] si osserva, innanzitutto, che per controinteressati si intendono 'tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza' (articolo 22, comma 1, lett. c), legge 241/1990). Tale comunicazione è funzionale alla possibilità, per gli stessi, di presentare una motivata opposizione alla richiesta di accesso. [12]
Si osserva come la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi abbia affermato che: 'In linea generale, la posizione di controinteressato in materia di accesso non va ancorata al solo dato formale della menzione di tale soggetto negli atti e nei documenti cui si riferisce l'accesso oppure al dato estrinseco che gli atti e i documenti medesimi riguardino tale soggetto, ma anche al dato sostanziale della serietà e meritevolezza di tutela nel merito della posizione del controinteressato all'accesso, nel senso che occorre valutare la sussistenza della fondatezza di un'eventuale opposizione da parte di quest'ultimo soggetto. [...]'.
[13]
Anche la giurisprudenza,
[14] nell'affermare che 'la posizione di controinteresse deve essere rigorosamente intesa al fine di bilanciare le esigenze di difesa del soggetto contemplato in un documento di cui è stata chiesta l'esibizione, con quelle di trasparenza e buona amministrazione cui è preordinato l'art. 25 l. n. 241 del 1990', prosegue affermando che: 'Pertanto, non possono essere considerati controinteressati, in un giudizio instaurato ai sensi della suddetta disposizione, i soggetti, anche se contemplati negli atti e documenti richiesti, i quali non siano portatori di un effettivo diritto alla riservatezza e che quindi non possono essere comunque danneggiati, sotto tale profilo, dall'ostensione dei documenti suddetti; si può ritenere escluso il limite della riservatezza in base alla considerazione che i documenti per i quali si chiede l'accesso (pubblicazioni, titoli, "curricula" e "lucidi" acquisiti in sede d'esame della Commissione) sono, per loro natura, pubblici in quanto relativi ad una attività di valutazione di tipo comparativo nell'ambito di una procedura "lato sensu" "concorsuale".
Sebbene l'orientamento giurisprudenziale sopra citato si sia formato con riferimento a procedure concorsuali diverse da quella in esame, sembra potersi ritenere che i concorrenti collocati nella graduatoria in oggetto non debbano essere qualificati quali controinteressati nei cui confronti compiere la notifica prescritta dalla legge, considerato che gli stessi, decidendo di prendere parte alla selezione, hanno acconsentito a misurarsi in una sorta di competizione di cui la comparazione dei valori di ciascuno costituisce l'essenza. Tali atti, una volta acquisiti alla procedura sarebbero, pertanto, usciti dalla sfera personale dei partecipanti per essere messi a disposizione del Comune ai fini dell'effettuazione di quella necessaria valutazione comparativa prodromica alla successiva individuazione dei soggetti cui attribuire lo svolgimento della specifica attività indicata nel bando.
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[1] Si trattava, in particolare, di un bando per il servizio civico di scodellamento pasti con il quale il Comune ha promosso la valorizzazione delle potenzialità delle persone escluse dai processi produttivi. In particolare, il bando era volto a selezionare determinati soggetti, in possesso di specifici requisiti di età, reddituali e di idoneità psico-fisica.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza del 30.11.2009, n. 7486, secondo cui 'l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso non solo non deve necessariamente consistere in un interesse legittimo o in un diritto soggettivo, dovendo solo essere giuridicamente tutelato, purché non si tratti del generico ed indistinto interesse di ogni cittadino al buon andamento dell'attività amministrativa, ma deve anche sussistere un rapporto di strumentalità tra tale interesse e la documentazione di cui si chiede l'ostensione. Questo rapporto di strumentalità va inteso in senso ampio, ossia in modo che la documentazione richiesta sia mezzo utile per la difesa dell'interesse giuridicamente rilevante e non strumento di prova diretta della lesione di tale interesse. Pertanto, l'interesse all'accesso ai documenti deve essere considerato in astratto, escludendo che la legittimazione all'accesso possa essere valutata facendo riferimento alla legittimazione della pretesa sostanziale sottostante, avendo consistenza autonoma, indifferente allo scopo ultimo per cui viene esercitata'.
[3] Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 12.10.2010, n. 7446.
[4] Cfr. TAR Lazio, Roma, sez. II, sentenza del 16.11.2005, n. 1138.
[5] Cfr. TAR Lazio, Roma, sez. I ter, sentenza del 27.07.2009, n. 7550.
[6] TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, sentenza del 05.08.2013, n. 861, TAR Campania, Salerno, sez. II, sentenza del 24.06.2013, n. 1408, TAR Lazio, Roma, sez. II, sentenza del 24.10.2012, n. 8772, TAR Lazio-Roma, sez. III, sentenza dell'08.07.2008, n. 6450.
[7] Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, decisione del 12.10.2010.
[8] Si segnala che le notizie relative al reddito della persona fisica sono considerate dati personali ai sensi dell'articolo 4, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 30.06.2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), ma non sono dati sensibili.
[9] Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, parere espresso nella seduta del 20.07.2011.
[10] Afferma TAR Puglia, Lecce, sez. II, sentenza del 28.06.2011, n. 1194 che: 'È sicuramente ammissibile l'accesso a documenti attinenti ad un concorso a pubblici impieghi ove miri a verificare come sono stati valutati i titoli dei candidati che precedono l'istante in graduatoria, essendo ravvisabile un interesse diretto, concreto ed attuale (corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata) che non ha certo lo scopo di un controllo generalizzato, bensì quello di verificare la legittimità della graduatoria in relazione ai soggetti che precedono l'istante'. Nello stesso senso si è espressa la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi nella seduta del 12.10.2010 ove si afferma che: 'Deve essere consentito di accedere ai documenti relativi ai titoli e ai punti assegnati ai candidati che precedono in graduatoria l'accedente. [...]'.
[11] In conformità al disposto di cui all'articolo 3, comma 1, del D.P.R. 12.04.2006, n. 184 il quale recita: 'Fermo quanto previsto dall'articolo 5, la pubblica amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, di cui all'articolo 22, comma 1, lettera c), della legge, è tenuta a dare comunicazione agli stessi, mediante invio di copia con raccomandata con avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano consentito tale forma di comunicazione. I soggetti controinteressati sono individuati tenuto anche conto del contenuto degli atti connessi, di cui all'articolo 7, comma 2'.
[12] Articolo 3, comma 2, del D.P.R. 184/2006 il quale recita: 'Entro dieci giorni dalla ricezione della comunicazione di cui al comma 1, i controinteressati possono presentare una motivata opposizione, anche per via telematica, alla richiesta di accesso. Decorso tale termine, la pubblica amministrazione provvede sulla richiesta, accertata la ricezione della comunicazione di cui al comma 1'.
[13] Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, parere del 06.04.2011.
[14] TAR Puglia, Bari, sez. I, sentenza del 05.12.2002, n. 5428. Si veda, anche, TAR Puglia, Bari, sez. III, sentenza dell'11.12.2014, n. 1532, TAR Lazio, Roma, sez. I-ter, sentenza del 03.06.2011, n. 5010 e sez. III, sentenza dell''08.07.2008, n. 6450, nelle quali vengono peraltro fatte salve 'effettive esigenze di tutela del titolare della sfera riservata vulnerabile, da valutarsi in concreto'. In relazione al caso in esame, si ribadisce che i dati relativi al reddito e alla situazione patrimoniale non hanno natura sensibile, atteso che non rientrano nell'elencazione di cui all'art. 4, comma 1, lett. d), del D.Lgs. 196/2003
(22.01.2015 - link a www.regione.fvg.it).

PATRIMONIO: Legge 24.12.2012, n. 228, art. 1, comma 141. Limiti di spesa per l'acquisto di mobili e arredi.
L'art. 1, comma 141, della legge 24.12.2012, n. 228 (Legge di stabilità 2013), dispone che le amministrazioni inserite nel conto economico della pubblica amministrazione debbano rispettare determinati vincoli di spesa nel procedere all'acquisto di mobili ed arredi negli anni 2013 e 2014.
Posto che detta disposizione ha individuato espressamente il periodo di applicazione, nulla prevedendo per gli anni successivi, e che la legge 23.12.2014, n. 190 (Legge di stabilità 2015) non prevede analoghe misure per l'anno in corso, si ritiene che al momento tali vincoli di spesa non sussistano.

Il Comune chiede un parere sull'interpretazione dell'art. 1, comma 141, della legge 24.12.2012, n. 228, relativo alle limitazioni di spesa per l'acquisto di mobili e arredi, a carico delle pubbliche amministrazioni.
Precisa l'Ente che, a seguito dello spostamento in un nuovo archivio comunale di numerosi cartolari attualmente depositati in vari uffici comunali non rispondenti alle normative specifiche di settore (nonché inadeguati alla detenzione di materiale di archivio per il pericolo di umidità e allagamenti), si rende necessaria l'acquisizione di apposite scaffalature. L'Amministrazione comunale, prima di procedere all'individuazione e all'acquisto di tali strutture volte al completamento ed alla messa in funzione dell'archivio, si chiede se esse vadano considerate arredi, e pertanto soggette ai limiti di spesa di cui all'art. 1, comma 141, della L. 228/2012, o se possano essere intese come attrezzature.
La richiamata norma dispone che: 'Ferme restando le misure di contenimento della spesa già previste dalle vigenti disposizioni, negli anni 2013 e 2014 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196 (...) non possono effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi, se non destinati all'uso scolastico e dei servizi d'infanzia, salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione di spese connesse alla conduzione degli immobili. (...)'.
Sentito il Servizio finanza locale, si osserva innanzitutto che la norma, inserita nella legge di stabilità per il 2013, opera un espresso riferimento alle spese che le amministrazioni pubbliche, nel dettaglio individuate, avrebbero effettuato negli anni 2013 e 2014, nulla prevedendo per quelli successivi. Oltre a questo, si deve considerare che la legge 23.12.2014, n. 190 (Legge di stabilità 2015), pubblicata in Gazzetta Ufficiale lo scorso 29 dicembre, non prevede analoghe misure per l'anno in corso.
Di conseguenza, si ritiene superato il quesito posto dall'Ente instante sull'appartenenza delle scaffalature alla categoria merceologica degli arredi o a quella delle attrezzature, essendo venuto meno il limite di spesa previsto dalla norma già richiamata
(16.01.2015 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

ENTI LOCALI - VARIL'autovelox ko se non ben visibile.
Tutte le postazioni per il controllo elettronico della velocità devono essere preventivamente segnalate e rese ben visibili. Non basta quindi mettere un agente a bordo strada per rispettare questa previsione normativa.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere 16.02.2015 n. 662 di prot..
La modalità corretta di segnalazione delle postazioni di controllo elettronico della velocità è stata dettagliatamente illustrata con il decreto ministeriale 15 agosto 2007.
I segnali devono essere chiari e di immediata comprensione per gli automobilisti in transito. Circa l'obbligo di piena visibilità delle postazioni di controllo, prosegue la nota, «va precisato che tale postazione non deve essere intesa limitatamente alla presenza dei singoli operatori di polizia stradale o di veicoli di polizia, ma deve essere interpretata come l'insieme di tutte le componenti essenziali per il suo funzionamento tecnico, normativo e di protezione che attengono al rilevatore di velocità».
Quindi non basta mettere un vigile in divisa sul margine della carreggiata per rispettare i vincoli di visibilità previsti dall'art. 142 del codice stradale.
Occorre che tutta l'attrezzatura tecnica sia identificabile dagli utenti stradali e non ci siano impedimenti come barriere stradali o vegetazione attorno all'autovelox.
Come specificato dallo stesso ministero con un parere del 06.10.2009 il riferimento all'obbligo di visibilità è riferito alla strumentazione ma non agli agenti operanti (articolo ItaliaOggi del 28.02.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLe Entrate snobbano i dipendenti. Province, esuberi nel dimenticatoio.
Le amministrazioni centrali dello Stato continuano a dimenticare la priorità che nei processi di assunzione va data al ricollocamento dei dipendenti provinciali.

Dopo il bando di mobilità per 1031 posti del ministero della giustizia, modificato nei giorni scorsi, che aveva infiammato la polemica tra il ministro della pubblica amministrazione, Marianna Madia e il Guardasigilli Andrea Orlando (si veda ItaliaOggi del 22/01/2015), è l'Agenzia delle entrate a porsi potenzialmente in contrasto con le disposizioni dell'articolo 1, comma 425, della legge di stabilità, indicendo un concorso pubblico per l'assunzione a tempo indeterminato di 892 funzionari.
L'articolo 1, comma 425, della legge 190/2014 è piuttosto chiaro: include le agenzie, compresa ovviamente quella delle entrate, tra le amministrazioni statali alle quali si impone di comunicare al Dipartimento della funzione pubblica risorse e posti disponibili per la ricollocazione, stabilendo che «nelle more del completamento del procedimento di cui al presente comma alle amministrazioni è fatto divieto di effettuare assunzioni a tempo indeterminato. Le assunzioni effettuate in violazione del presente comma sono nulle».
Si può certamente osservare che pubblicare il bando di per sé non costituirebbe violazione delle disposizioni citate prima, perché la legge vieta di assumere, non di bandire concorsi. Nulla impedirebbe, allora, all'Agenzia delle entrate, come ad altre amministrazioni, di indire oggi concorsi, in previsione di effettuare le assunzioni nel 2017. Oltre tutto, se le assunzioni ricadono sui budget assunzionali al 2013, anche le assunzioni risulterebbero legittime.
Tuttavia, l'aggiramento delle disposizioni eccezionali e straordinarie volte alla ricollocazione dei 20 mila dipendenti provinciali apparirebbe chiaro. In ogni caso, il bando dell'Agenzia si regge sulle autorizzazioni ad assumere di cui al decreto ministeriale della Funzione pubblica, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 09.09.2014, dal quale non si evince a quale budget di quale anno si attinga, per procedere all'assunzione.
Inoltre, non risulta che l'Agenzia delle entrate abbia fatto precedere l'attivazione del concorso dalla preventiva pubblicazione dell'avviso di mobilità volontaria, come, invece, impone l'articolo 30, comma 2-bis, del dlgs 165/2001.
È evidente che l'attivazione delle procedure di mobilità non potrebbe non avere come destinatari prioritari i dipendenti delle province in sovrannumero. Come altrettanto chiaro è che tra i 20 mila sovrannumerari esistono di certo 892 professionalità utili a ricoprire i fabbisogni dell'Agenzia e che la mobilità eviterebbe decine di milioni di nuova spesa pubblica, risparmiata grazie al reimpiego di funzionari provinciali.
Al di là, dunque, dei problemi di possibili incompatibilità tra il concorso indetto dall'Agenzia e le disposizioni della legge di stabilità, anche semplici regole di logica avrebbero consigliato di meditare meglio la scelta di indire il concorso, armonizzando meglio l'azione col difficile compito in carico alla Funzione pubblica di rendere effettivamente attuabile la ricollocazione dei dipendenti provinciali. Evitando, possibilmente, contrasti tra amministrazioni pubbliche.
Quei contrasti verificatisi già tra palazzo Vidoni e ministero della giustizia, a causa del bando per mobilità volontaria pubblicato lo scorso 20 gennaio, che in sostanza impediva la partecipazione ai dipendenti provinciali, a causa della richiesta alle province di coprire il 50% del costo del personale eventualmente trasferito in applicazione dell'articolo 30, comma 2.3., del dlgs 165/2001, incompatibile con l'articolo 1, comma 425, della legge 190/2014 che esenta espressamente le province proprio da questo onere.
La circolare 1/2015 di Funzione pubblica e ministero degli affari regionali sul punto è intervenuta per indurre una correzione del bando, ritenendo che esso «è destinato a riassorbire il personale degli enti di area vasta e solo in via residuale, in assenza di domanda di mobilità da parte del predetto personale, a processi di mobilità di altro personale».
Il ministero ha corretto il contenuto del bando, riaprendo i termini che scadranno il 19 marzo prossimo. Ma, si è limitato ad escludere le province dall'onere finanziario previsto dal citato articolo 30, comma 2.3 del dlgs 165/2001. Non c'è alcuna correzione tale da far evincere nessuna priorità in favore dei dipendenti provinciali, i quali, dunque, alla luce del nuovo testo concorrono con tutti gli altri dipendenti pubblici in parità di posizione.
In sostanza, il ministero della giustizia ha aggirato l'indicazione della circolare di Palazzo Vidoni (articolo ItaliaOggi del 28.02.2015).

APPALTI: Appalti, regioni in campo. Già operative 13 centrali uniche di acquisto. I governatori hanno approvato le linee guida per le amministrazioni.
Sono 13 i soggetti aggregatori della domanda (le cosiddette centrali uniche) al momento operativi nelle diverse regioni italiane; sono invece in fase di costituzione le centrali di committenza regionali (anche sotto forma di Stazioni uniche appaltanti), in Abruzzo, Campania, Molise, Piemonte, Sardegna e Sicilia. A questi soggetti e alle centrali di committenza che saranno accreditate dall'Autorità nazionale anticorruzione dovranno fare capo gli enti locali tenuti all'obbligo di ricorso a centrali di committenza per gli acquisiti di beni, servizi e lavori, in base al codice dei contratti pubblici.

È quanto si desume dal documento approvato nei giorni scorsi dalla Conferenza delle regioni che, nel fare punto sullo stato dell'arte delle centrali uniche di committenza a livello regionale, ha anche approvato delle linee guida emesse da Itaca (l'Istituto per l'innovazione e la trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale), destinate agli enti locali, sull'applicazione della disciplina vigente in materia di delega delle funzioni di stazioni appaltanti per l'affidamento di contratti di appalto di lavori, forniture e servizi.
La materia rileva soprattutto per i comuni non capoluogo di provincia, con popolazione inferiore a 10 mila abitanti, che in base al codice dei contratti pubblici sono tenuti dal 1° gennaio scorso ad avvalersi esclusivamente di centrali di committenza (o di unioni di comuni o degli uffici delle province) per tutti gli acquisiti di beni e servizi (e di lavori dal primo luglio 2015).
Premesso però che tali termini slitteranno al 01.09.2015 e saranno uniformati per tutti i contratti a seguito della conversione in legge del decreto Milleproroghe approvato in via definitiva giovedì dal senato, a livello regionale la situazione ancora non appare del tutto definita visto che non tutte le regioni hanno costituito formalmente soggetti aggregatori della domanda (le province autonome di Trento e Bolzano hanno invece da tempo strutture centralizzate in forma di Agenzia).
Sono pronte le seguenti regioni: Basilicata, Calabria, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia-Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Puglia, Toscana, Umbria, Valle d'Aosta e Veneto. Sono invece in corso di formalizzazione le centrali per le regioni Abruzzo, Campania, Molise, Piemonte, Sardegna e Sicilia.
Come detto, la Conferenza delle regioni ha anche approvato un documento elaborato da Itaca recante: «Elementi guida per l'attuazione degli obblighi di aggregazione della domanda pubblica di cui al decreto legge n. 66 del 2014». La guida, elaborata dal Gruppo di lavoro interregionale «Centrali di committenza», coordinato dalla regione Umbria, fornisce un quadro ricognitivo delle norme emanante nel corso degli ultimi anni, spesso sovrapposte e confuse, in materia di aggregazione della domanda pubblica.
L'obiettivo è quello di orientare le stazioni appaltanti e gli operatori economici sulla riorganizzazione e razionalizzazione della committenza pubblica di lavori, servizi e forniture (articolo ItaliaOggi del 28.02.2015).

PUBBLICO IMPIEGO: Il demansionamento previsto dal Jobs act si applica anche alla p.a.
Il demansionamento previsto dal terzo decreto attuativo della legge 183/2014 (Jobs act) si applica anche al lavoro pubblico, pur se con diversi problemi. Come per la modifica alla disciplina dei licenziamenti individuali, anche la modifica implicita all'articolo 13 dello Statuto dei lavoratori, pone il problema della sua estendibilità anche ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche.

Probabilmente il governo, per coerenza con quanto sin qui dichiarato in merito agli effetti delle modifiche all'articolo 18 sul lavoro pubblico, affermerà che le modifiche alla disciplina delle mansioni non valgano per il settore pubblico. Tuttavia, finché non si dimostri che le dichiarazioni e i comunicati stampa non assurgono a fonti di diritto, le disposizioni normative vigenti stabiliscono altro.
Tali disposizioni sono due, molto precise e si ritrovano nel dlgs 165/2001, cioè il testo unico sul lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.
La prima è l'articolo 2, comma 2, ai sensi del quale «i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperative». Poiché l'articolo 13 dello Statuto dei lavoratori regola il contenuto dell'articolo 2013 del codice civile, ogni modifica a queste disposizioni influisce direttamente sulla disciplina del rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato. Ne dà conferma la seconda disposizione del dlgs 165/2001, l'articolo 51, comma 2, a mente del quale «la legge 20.05.1970, n. 300, e successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti». Ogni modifica, dunque, allo Statuto dei lavoratori, dispone la legge di disciplina del lavoro pubblico, si riverbera automaticamente sul rapporto di lavoro pubblico.
Non vi sono, per altro, disposizioni normative derogatorie alla disciplina del demansionamento, tali da far ritenere che nel lavoro pubblico possano vigere regole differenti. In effetti, l'articolo 52 del dlgs 165/2001 disciplina in via particolare solo l'attribuzione delle mansioni superiori, per altro in modo da vietare che, nel lavoro pubblico, lo svolgimento di mansioni superiori oltre il termine fissato comporti l'acquisizione automatica del livello superiore, come avviene nel privato.
Esiste, poi, una disciplina del demansionamento, reperibile nell'articolo 34, comma 4, sempre del dlgs 165/2001, ma con un fine del tutto diverso da quello previsto dal terzo decreto attuativo del Jobs act. Questo, infatti, consente il demansionamento «in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore». L'articolo 34, comma 4, citato, invece si applica ai dipendenti pubblici in esubero ed inseriti nelle liste di disponibilità, per facilitare l'assunzione in mobilità presso enti, appunto accettando di scendere di una categoria di inquadramento, con effetti sullo stipendio, che, invece, in teoria il Jobs act non prevede.
Se, allora, il quadro normativo indica che la disciplina del demansionamento si estende alla pubblica amministrazione, sicché per evitarlo occorrerebbe una legge di modifica degli articoli 2, comma 2, e 51, comma 2, del dlgs 165/2001, si debbono evidenziare i problemi operativi che deriverebbero dall'applicazione della norma approvata dal Consiglio dei ministri. Essa, infatti, mira a mantenere intatto il livello retributivo, pur in presenza di mansioni inferiori. Applicare simile regola nel lavoro pubblico può rivelarsi non così semplice, perché occorrerebbe dimostrare alla Corte dei conti o altri organi di controllo di ben operare la gestione del denaro pubblico, continuando a pagare a un lavoratore un certo tipo di trattamento economico, chiedendogli però di svolgere un lavoro proprio di una categoria professionale inferiore.
È vero che questo potrebbe determinare l'abbassamento del salario accessorio legato in particolare ai risultati connessi proprio ai progetti di produttività a loro volta connessi con la qualità delle mansioni prestate, tuttavia si potrebbe trattare di risparmi non molto significativi, tali da non giustificare il demansionamento sul piano strettamente finanziario (articolo ItaliaOggi del 27.02.2015).

ENTI LOCALI: Con il nuovo Patto penalizzati i mini-enti.
Il nuovo Patto rischia di penalizzare i piccoli comuni.

L'allarme è contenuto nella stessa nota tecnica dell'Ifel approvata la settimana scorsa nella Conferenza stato-città e autonomie che ha deciso il restyling del meccanismo di distribuzione dei sacrifici imposti ai sindaci.
La nuova versione, si legge nel documento, potrebbe risultare particolarmente penalizzante per taluni municipi di minore dimensione demografica, ovvero per situazioni di particolare rigidità del bilancio e della gestione delle entrate.
Pertanto, l'Ifel auspica «l'adozione di strumenti ridistribuivi idonei», al fine di assicurare l'assegnazione di spazi finanziari aggiuntivi a quegli enti che, a seguito dell'emersione dell'effettivo ammontare del fondo crediti di dubbia esigibilità, risultino gravati da un obiettivo di Patto sproporzionato rispetto alla dimensione complessiva della manovra finanziaria 2015.
A tal fine, si potrebbero utilizzare i «dispositivi già vigenti in materia», ossia gli strumenti disponibili per la redistribuzione in corso d'anno di spazi finanziari, a livello sia nazionale che regionale.
Sotto il primo profilo, ad esempio, vengono in considerazione le premialità finanziate con le sanzioni applicate agli enti che, nell'anno precedente, hanno sforato il Patto. Tuttavia, tali bonus vengono normalmente assegnati verso la fine dell'esercizio (se non oltre), per cui sarebbe necessario anticipare decisamente i tempi. Sotto il secondo versante, si potrebbe utilizzare il Patto regionale verticale, sia nella versione incentivata (riproposta dalla l 190/2014 anche per quest'anno) che non incentivato.
Nel caso del Patto incentivato, però, occorre modificare la relativa disciplina, che oggi vincola i governatori ad assegnare le premialità agli enti che devono ancora pagare debiti commerciali per investimenti maturati al 30.06.2014. Un criterio, quest'ultimo, assai poco rispettoso della «virtuosità» sbandierata dalla riforma del Patto. Infine, l'Ifel ritiene auspicabile che le ipotizzate modifiche permettano di utilizzare gli spazi redistribuiti ai fini di un generalizzato allentamento del vincolo a favore dei comuni coinvolti, superando cioè l'obbligo di utilizzo per pagamenti di parte capitale, con particolare a quelli più piccoli (articolo ItaliaOggi del 25.02.2015).

APPALTI: Fattura elettronica regolata ad hoc. Il suggerimento alle p.a. in vista dell'entrata in vigore.
Un regolamento ad hoc in vista della entrata in vigore dell'obbligo di fatturazione elettronica per tutta la pubblica amministrazione. Grazie al quale gli enti possono attribuire ad uno (o più) specifico ufficio la competenza per provvedere alla ricezione delle fatture attraverso il Sistema di interscambio, la tenuta e gestione del registro delle fatture, il rispetto dei termini di pagamento delle spese, che tutti i dirigenti e i responsabili dei servizi e dei procedimenti amministrativi saranno tenuti a osservare.
Il regolamento, la cui adozione è uno dei suggerimenti che gli esperti stanno proponendo alle p.a. in sede di approfondimento della fatturazione elettronica, potrebbe contenere le direttive finalizzate alla presentazione delle fatture, alla gestione del registro unico delle fatture e al rispetto dei termini di pagamento delle spese. Tale disciplina potrebbe essere organizzata come segue.

Ogni fattura o altro documento contabile equivalente, oltre a contenere tutti gli elementi previsti dalla normativa fiscale deve contenere anche le annotazioni previste dall'art. 42 del decreto legge 66/2014, e in particolare deve indicare:
a) il settore o l'ufficio comunale cui la fattura è diretta, che ha ordinato la spesa (fattura elettronica: riferimento amministrazione cod. 1.2.6);
b) il numero della determina di impegno (cod. 2.1.1.7.8)
c) Il numero e la data dell'ordine di acquisto (2.1.2.2 e 2.1.2.3), ovvero il numero e la data di contratto (2.1.3.2 e 2.1.3.3) ovvero il numero e la data della convenzione (2.1.4.2 e 2.1.4.3); i dati del Sal (stato avanzamento lavori), ove presente (2.1.7.1);
d) Il capitolo impegnato (2.2.1.15); il numero dell'impegno (2.2.1.16.3);
e) il codice unico o di Progetto (Cup), in caso di fatture relative a opere pubbliche, interventi di manutenzione straordinaria, interventi finanziati da contributi comunitari e ove previsto ai sensi dell'articolo 11 della legge 16.01.2003, n. 3(2.1.2.6);
f) il codice identificativo di gara (Cig), tranne i casi di esclusione dall'obbligo di tracciabilità di cui alla legge 13.08.2010, n. 136 e previsti nella tabella Allegato A al dl 66/2014 (2.1.2.7);
g) il numero di conto dedicato sul quale effettuare il pagamento.
Tutte le fatture o gli altri documenti contabili equivalenti, completi di tutti i dati previsti dal precedente punto, relativi a spese per somministrazioni, forniture e appalti e obbligazioni relative a prestazioni professionali emesse nei confronti dell'Ente, devono essere annotate esclusivamente nel registro unico delle fatture di cui al citato articolo 42. È esclusa la possibilità di ricorrere a registri di area o di servizi.
A decorrere dal 31.03.2015 tutte le fatture digitali dovranno essere inviate dai creditori utilizzando esclusivamente il codice univoco comunicato con l'ordine.
L'ufficio fatturazione elettronica, non appena ricevute le fatture o le equivalenti richieste di pagamento, provvederà immediatamente a inoltrarle al Servizio competente per la successiva adozione del provvedimento di liquidazione della spesa entro i 10 giorni successivi. Questo provvede e ritrasmette la liquidazione, la fattura viene annotata nel registro unico delle fatture e viene inoltrata unitamente al provvedimento di liquidazione alla ragioneria per il successivo pagamento.
Se il provvedimento di liquidazione non viene adottato tempestivamente o viene adottato un provvedimento negativo, l'ufficio addetto emette una notifica di esito committente di rifiuto della fattura elettronica, tramite il Sistema di Interscambio (articolo ItaliaOggi del 25.02.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Statali, pronte le tabelle per la mobilità. Pa. Il ministro Madia: «In arrivo i criteri per spostarsi da un comparto all’altro».
La «tabella di equiparazione» che mette a confronto i livelli di inquadramento del personale nei diversi comparti del pubblico impiego è pronta, e sta per essere pubblicata. Si elimina in questo modo uno degli ostacoli che finora ha frenato la mobilità, anche volontaria, dei dipendenti pubblici.
L’annuncio arriva dal ministro della Pa e della semplificazione, Maria Anna Madia, che ieri è intervenuta al convegno sulla «Pa che vogliamo» organizzato dalla Sda Bocconi. Sulla riforma della Pubblica amministrazione che ora sta affrontando il primo passaggio in Senato (nei prossimi giorni riprenderà la discussione in commissione Affari costituzionali) il ministro dice di prevedere tre letture, che comunque dovrebbero concludersi «entro l’estate. Nel frattempo -ha aggiunto Madia- stiamo scrivendo i decreti attuativi, per fare in modo che in un mese dall’approvazione della delega si possa partire davvero».
Proprio l’attuazione, del resto, rappresenta spesso la fase più delicata delle riforme, e la vicenda della tabella di equiparazione lo dimostra in modo chiaro. A promettere questo strumento, indispensabile per avviare davvero una mobilità “ordinata” fra i diversi comparti della Pubblica amministrazione, è infatti il capitolo precedente nella lunga storia delle riforme della Pa, quello scritto da Renato Brunetta.
Prevista dal 2009 (il decreto attuativo della riforma Brunetta l’ha inserita all’articolo 29-bis del Testo unico del pubblico impiego, il Dlgs 165/2001), la tabella è però rimasta “in sonno” anche per il complicatissimo iter che avrebbe dovuto generarla tramite Dpcm dopo aver sentito i sindacati e ottenuto il parere della Conferenza unificata. Il decreto Pa della scorsa estate (Dl 90/2014, articolo 4, comma 3) l’ha rilanciata prevedendo che, in caso di mancato accordo, avrebbe provveduto direttamente il ministero della Pa, di concerto con l’Economia: ora anche Via XX Settembre ha dato il via libera, e la tabella dovrebbe vedere la luce a giorni.
Il passaggio è importante soprattutto in tempi di rilancio della mobilità: questo strumento è considerato strategico dal Governo per attuare la riforma delle Province (entro il 31 marzo dovrebbero essere individuate le «eccedenze» di personale negli enti di area vasta), ma anche per riformare a regime la Pubblica amministrazione. «La riforma -nelle intenzioni del ministro- vuole disegnare una Pubblica amministrazione unita, perché non si deve essere dipendenti e dirigenti di questo o quel ministero, ma della Repubblica»; sempre che si superino le tante resistenze che, fra le altre cose, fino a oggi hanno impedito anche solo di ridurre il numero dei comparti
 (articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAAutodemolizione, Aia limitata. Imprese obbligate in caso di frantumazione di veicoli. Dalla Lombardia i chiarimenti sui confini della nuova eco-autorizzazione integrata.
Le industrie manifatturiere non sono soggette ad autorizzazione integrata ambientale a causa delle sostanze chimiche strumentalmente utilizzate, mentre le attività di autodemolizione sono obbligate alla stessa e stringente «Aia» solo ove effettuino frantumazione dei veicoli.

A chiarire il campo di applicazione delle nuove regole di matrice Ue sulla «prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento» (dall'inglese «Integrated Pollution Prevention and Control», cd. «Ippc») introdotte nell'ordinamento nazionale lo scorso 11.04.2014 è la Regione Lombardia, che con circolare 22.12.2014 n. 11 ha condotto una ricognizione sugli impianti obbligati a ottenere la complessa autorizzazione integrata ambientale (cd. «Aia», declinazione locale della citata disciplina comunitaria) per poter esercitare la propria attività.
Gli indirizzi della Lombardia (pubblicati sul Bur del 09.02.2015 n. 7) derivano da una lettura sistematica dell'allegato VIII alla Parte II del Dlgs 152/2006 (cd. «Codice ambientale») recante l'elenco delle installazioni soggette ad Aia, allegato interamente riscritto nel 2014 ad opera del Dlgs 46/2014 in attuazione dell'ultima direttiva in materia di Ippc (la 2010/75/Ue) con conseguente allargamento delle industrie obbligate all'autorizzazione in parola.
Attività di manifattura. La Regione Lombardia sottolinea come le installazioni dell'industria chimica sub Aia ai sensi del punto 4 del nuovo allegato VIII alla Parte II del Dlgs 152/2006 siano quelle dedite esclusivamente alla produzione su scala industriale dei prodotti in questione commerciabili tal quali. E dunque, con la circolare l'Ente precisa (evidentemente in relazione alle installazione di propria competenza territoriale) come non vadano in tale categoria ricomprese le attività di produzione (anche attraverso reazioni chimiche) di manufatti, intesi come oggetti per i quali la composizione chimica non sia sufficiente a connotarne le qualità merceologiche. Cosicché, sotto tale profilo per la Regione è da escludere dall'Aia l'industria manifatturiera, nella quale le reazioni chimiche sono contestuali alla fabbricazione di determinati prodotti (come le materie plastiche stampate, che presuppongono reazioni di polimerizzazione).
E questo, ragiona l'Ente, sulla base della logica dell'intero allegato VIII, nel cui contesto una diversa ed estensiva interpretazione del concetto di «industria chimica» subordinerebbe immediatamente all'Aia molte altre attività che pur utilizzando tali sostanze sono invece soggette (per espressa disposizione della norma) alla greve autorizzazione solo ove superino determinate soglie produttive (come, ad esempio, la fabbricazione di vetro e ceramica ex punto 3, relativo alle industrie dei prodotti minerari).
Lo stesso ragionamento, ad avviso dello scrivente, non esclude dunque che le stesse attività manifatturiere siano ugualmente sottoponibili ad Aia ai sensi del punto 6 dell'allegato VIII (relativo alle «Altre attività») laddove la loro produzione abbia ad oggetto proprio le specifiche categorie merceologiche ivi contemplate (come la fabbricazione di determinati pannelli in legno oltre precise soglie quantitative).
Attività di autodemolizione. Ad avviso della Regione i centri di autodemolizione sono invece soggetti all'Aia ai sensi del diverso punto 5.3, allegato VIII, Parte II del Dlgs 152/2006 (che contempla l'attività di recupero o smaltimento di rifiuti) solo ove effettuino la «frantumazione» dei veicoli prevista dal Dlgs 209/2003 (provvedimento madre di riferimento, che la definisce come la riduzione in pezzi dei mezzi già bonificati, allo scopo di ottenere residui destinati a recupero o smaltimento) e sempre che vengano altresì superate le capacità di trattamento previste dallo stesso punto dell'allegato in questione. In tal caso, sottolinea la Circolare, necessitano di Aia anche tutte le altre attività tecnicamente connesse alla frantumazione e svolte presso l'installazione (come la messa in sicurezza, la demolizione, la pressatura).
Ancora, per la Regione le particolari operazioni di bonifica effettuate dagli autodemolitori sui veicoli per separarne i diversi rifiuti non hanno comunque rilevanza ai fini dell'Aia, poiché non possono essere inquadrate tra quelle di «ricondizionamento» (funzionali alle altre attività di smaltimento o recupero) contemplate dalla lettera d), punto 5.1, stesso allegato VIII. E ciò, aggiunge la Circolare, al pari delle operazioni di «messa in sicurezza» (ex Dlgs 209/2003 coincidenti con la rimozioni delle parti inquinanti) e di «rottamazione», che non possono (sempre ai fini dell'Aia) essere fatte rientrare tra quelle finalizzate alle operazioni di smaltimento o recupero previste dallo stesso punto 5.1 dell'allegato VIII.
A fondamento di ciò la Lombardia richiama la versione originale della direttiva 2010/75/Ue, nella quale l'attività contemplata dalla lettera d), punto 5.1 (tradotta sul piano nazionale come «ricondizionamento») è definita come «repackaging» e non dunque come «dismanting», termine che avrebbe invece indicato proprio la (diversa) attività di smantellamento veicoli.
La Regione appare infine orientata anche ad escludere che alcune operazioni legate alla demolizione dei veicoli possano sfociare nell'«accumulo temporaneo» di rifiuti pericolosi finalizzato al loro recupero o smaltimento previsto (sempre ai fini della necessità di Aia) dal successivo punto 5.5 dell'allegato VIII. E ciò sia richiamandosi la Circolare in parola alle risposte fornite dalla Commissione Ue in merito alle domande più frequenti (cd. «faq») poste dagli operatori in materia di Aia, risposte che non contemplano relazioni tra le attività di demolizione e quelle di accumulo temporaneo di rifiuti, sia sottolineando come le attività di messa in sicurezza, demolizione, pressatura e tranciatura dei veicoli fuori uso ex Dlgs 209/2003 non rientrino generalmente tra quelle di smaltimento, recupero, ricovero finale richiamate dallo stesso punto 5.5.
La nuova Aia. I chiarimenti della Lombardia vertono su due delle sei categorie di attività previste dall'allegato VIII, Parte II, Dlgs 152/2006 come riformulate dal Dlgs 46/2014. E oggetto di sensibile allargamento, in particolare, è stata proprio la categoria 5 relativa alla «Gestione dei rifiuti», nella quale il Dlgs 46/2014 ha inserito nuove attività, come il citato accumulo temporaneo di rifiuti (diverso dal noto deposito temporaneo) e il trattamento in frantumatori di rifiuti metallici oltre certi quantitativi.
Sulla portata della nuova disciplina le prime indicazioni a livello nazionale, lo ricordiamo, sono state fornite dal Minambiente con circolare 27.10.2014 n. 22295, atto che ha precisato come i frantumatori che fanno scattare gli obblighi Aia siano quelli che determinano «con azione meccanica la riduzione in pezzi e frammenti di un rifiuto costituito da un oggetto metallico, allo scopo di ottenere residui di metallo riciclabili», dispositivi coincidenti con quelli denominati «shredder» dalla versione inglese della direttiva 2010/75/Ue e già contemplati dal citato Dlgs 209/2003.
Con la stessa circolare il Minambiente, lo ricordiamo, ha altresì sottolineato la necessità per le installazioni Aia di presentare tempestivamente (ove dovuta, a causa della presenza di sostanze pericolose) la «relazione di riferimento» prevista dal Dlgs 152/2006 al fine di poter proseguire nelle proprie attività.
Relazione, quest'ultima, dallo scorso 07.01.2015 disciplinata dal Dm Ambiente 272/2014, il quale impone a tutte le installazioni inquadrabili nel citato allegato VIII al Dlgs 152/2006 (ad eccezione di quelle di competenza statale ex allegato XII) di effettuare e comunicare comunque alle Autorità locali una verifica preliminare di potenzialità inquinante; verifica che, in caso di esito positivo, fa poi scattare l'obbligo della più impegnativa relazione (Si veda ItaliaOggi Sette del 16/2/2015) (articolo ItaliaOggi Sette del 23.02.2015).

EDILIZIA PRIVATADEMOLIZIONI IMPOSSIBILI/ Contro le ruspe l’abusivo scrive al Quirinale.
Per bloccare le demolizioni delle case abusive (paradossalmente) può bastare una semplice istanza al Quirinale.

Il Capo dello Stato, in realtà, non ha responsabilità rispetto al triste primato delle mancate demolizioni di immobili abusivi (solo 500 in media all’anno), se non per il fatto che rivolgendosi a lui con ben 13mila ricorsi straordinari su condono edilizio e demolizioni altrettanti cittadini sono riusciti, quantomeno, a rimandare per anni le ruspe: oltre 10mila fino al 2010, altri 3mila negli ultimi tre anni, secondo il Conto annuale delle infrastrutture.
Il ricorso straordinario è il nuovo filone scoperto dagli abusivi. È molto facile: basta opporsi a qualsiasi atto, non serve neanche un avvocato, non c’è prescrizione. E per vagliare la legittimità delle istanze si mette in moto un processo lunghissimo: il ministero delle Infrastrutture deve svolgere un’istruttoria in contraddittorio con il Comune, preparare una relazione e inviarla al Consiglio di Stato. Quest’ultimo emette un parere che il presidente della Repubblica recepisce formalmente con decreto. E l’edilizia è in testa anche nei ricorsi presentati a Tar e Consiglio di Stato.
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La casa abusiva sfugge alle ruspe. Per rinviare le demolizioni anche 13mila istanze al Capo dello Stato.
È un’emergenza silenziosa, trascurata, ma imponente, che prima deturpa il territorio, poi intasa le aule dei tribunali: Tar, magistratura ordinaria e persino la scrivania del Capo dello Stato.

A distanza di oltre 12 anni dall’ultimo condono edilizio, si continua a costruire abusivamente (26mila nuovi immobili l’anno, stima 2013 del centro studi Cresme), mentre poco o nulla si abbatte (500 demolizioni in media all’anno nei capoluoghi di provincia, stima Legambiente). L’associazione ambientalista ha calcolato che solo una su dieci delle ordinanze di demolizione di immobili abusivi va effettivamente a buon fine: delle 46.760 ordinanze emesse dal 2000 al 2011 (ultimo censimento disponibile) nei capoluoghi di provincia solo 4.956 sono state portate a termine.
E non per un problema di mezzi: i soldi non mancano. Alla Cassa depositi e prestiti risulta utilizzato solo per il 55% il Fondo per la demolizione delle opere abusive. Dal 2004 a disposizione dei sindaci ci sono 50 milioni, su un Fondo rotativo che anticipa tutte le spese con commissioni minime da restituire al recupero dei costi o comunque entro cinque anni. «Dopo un primo rodaggio, ora lo strumento è conosciuto -sottolineano da Cdp- e utilizzato soprattutto dai piccoli Comuni del Sud, per un importo medio di 509mila euro». Ma in proporzione rispetto al fenomeno i numeri sono infinitesimali: solo 120 domande nel 2014, la metà l’anno precedente.
A mancare non sono neanche gli uomini: risale al lontano 2009 la convenzione tra ministerio dei Beni culturali e della Difesa per usare l’esercito nella lotta all’abusivismo. Ebbene, a distanza di sei anni dall’intesa -fanno sapere dai Beni culturali- «non si è ancora data concreta attuazione, sebbene sia formalmente in essere». Come dire: neanche un mattone è stato portato via dai nostri militari. Ma sempre il Mibact si difende: «A bloccare non è l’inerzia del ministero, bensì i tempi dei procedimenti giudiziari». Spiega Francesco Scoppola, a capo della direzione Belle arti e paesaggio: «Le demolizioni sono molto rare, non tanto perché mancano i fondi o i mezzi, quanto perché non è facile giungere fino all’esito giudiziario definitivo». E aggiunge: «La materia, infatti, è giuridicamente molto complessa, con tante strade processuali a disposizione di chi ha commesso gli abusi e vuole resistere all’applicazione delle norme di tutela».
I ricorsi
In effetti a portata di mano dell’abusivo ci sono più percorsi, fuori e dentro i tribunali. Oltre ai Tar (si veda l’articolo a fianco) e alla magistratura ordinaria, c’è anche l’insolita strada del ricorso straordinario al Capo dello Stato che, visti i numeri, di straordinario non ha più nulla. Basta infatti un’istanza in carta semplice al presidente della Repubblica per mettere in moto una complessa macchina amministrativa e giudiziaria e tenere in scacco le ruspe per anni.
Lo hanno capito in molti: a oggi sono più di 13mila i ricorsi straordinari censiti nel Conto annuale delle infrastrutture, relativi al condono edilizio. Tremila solo negli ultimi tre anni. Una valanga che ha travolto gli uffici del ministero delle Infrastrutture: basti pensare che per vagliare la legittimità di ogni domanda occorre svolgere un’istruttoria in contraddittorio con il Comune, preparare una relazione firmata da un sottosegretario e inviarla al Consiglio di Stato.
Quest’ultimo, a sua volta, emette un parere che il presidente della Repubblica recepisce formalmente con un decreto. «Per definire una pratica servono anni», spiegano dalle Infrastrutture. Tempo prezioso per ogni abusivo, che nel frattempo vede sospesa la demolizione.
Del resto, per bloccare gli abbattimenti basta la semplice domanda di condono, che rende anche il peggiore degli abusi potenzialmente sanabili fino al “no” (di fatto non basta il silenzio assenso). «In attesa di esame formale c’è ancora il 60% dei 2 milioni di istanze di condono presentate
» -spiega Laura Biffi, responsabile dell’Osservatorio legalità per Legambiente. Che propone: «Bisogna dare ai Comuni un tempo limite». Scadenze certe e sanzioni che possono arrivare fino allo scioglimento del Comune che non rispetta il piano di demolizioni annuali sono il perno del disegno di legge sulla demolizione presentato nel 2013 dal presidente della Commissione ambiente della Camera, Ermete Realacci. Ma il Ddl non è mai stato esaminato (articolo Il Sole 24 Ore del 23.02.2015).

EDILIZIA PRIVATAIl risparmio energetico è d’obbligo. Tre scadenze per gli impianti: nuovo libretto, caldaie a condensazione e termoregolazione.
L’obiettivo è migliorare l’efficienza energetica degli immobili, contenere i consumi, educare i cittadini a un uso più consapevole delle risorse. Ma in alcuni casi il traguardo si raggiunge non attraverso un percorso volontario, ma rispettando obblighi e scadenze imposte per legge, sia nazionale che europea.

Dopo l’entrata in vigore il 15.10.2014 del nuovo libretto d’impianto termico -oggi deve essere compilato secondo i modelli fissati dal Dm 10 febbraio 2014 ed è esteso anche ai condizionatori oltre che alle pompe di calore, al teleriscaldamento e ai sistemi alimentati da fonti rinnovabili– stanno per scattare, in Europa e in Italia, altre importanti disposizioni obbligatorie per il risparmio energetico: nel mirino soprattutto le caldaie e, più in generale, la produzione del calore .
Le date
La prima scadenza è imminente: dal 26 settembre di quest’anno, per effetto della Direttiva europea Erp (Energy related Products – 2009/125/CE), anche conosciuta come Ecodesign, le caldaie non a condensazione, che usano una tecnologia non efficiente, non potranno più essere prodotte così come tutti quegli apparecchi per il riscaldamento e la produzione di acqua calda sanitaria che superano determinati limiti di emissioni.
La seconda data da tenere a mente è il 31.12.2016: dopo questo termine, sarà obbligatorio in tutti i palazzi e i condomini che hanno un sistema di riscaldamento centralizzato introdurre sistemi che consentono di realizzare la termoregolazione del calore e calcolare i consumi appartamento per appartamento, come prescrive il Dlgs 102/2014 (che recepisce su questo punto quanto disposto dall’Europa).
Le nuove caldaie
La direttiva si applica a tutti gli apparecchi per riscaldamento ambienti e produzione di acqua calda sanitaria venduti nell’Ue (come caldaie a gas o gasolio, pompe di calore, cogeneratori, scaldabagni, bollitori fino a 2000 litri): per ciascun apparato, sono prescritti requisiti minimi di efficienza energetica.
Dopo un periodo di transizione di due anni (il regolamento dell’Ecodesign risale al 29.09.2013), la norma diventerà obbligatoria dal 26.09.2015: oltre questa data, gli apparecchi non conformi ai nuovi standard non potranno essere più realizzati.
Ad esempio le caldaie tradizionali (non a condensazione) a camera stagna non potranno essere più fabbricate, così come (già da agosto 2015) non potranno essere più prodotte caldaie con pompe a bassa efficienza. «A questo proposito –spiega Giorgio Bighelli, consulente di e-training, la struttura di formazione tecnico-normativa del gruppo Vaillant– è però importante sottolineare che l’obbligo non riguarda direttamente il cittadino, ma il produttore. Non vanno fuori legge gli impianti più obsoleti che sono già presenti nelle case. Così come, per assurdo, se nel 2017 un cittadino volesse installare una caldaia non a condensazione, ammesso che la trovi ancora sul mercato, potrebbe comunque farlo».
In abbinamento ai requisiti ErP, viene inoltre introdotta in Ue una nuova etichetta energetica obbligatoria: per gli apparecchi di riscaldamento, riguarderà quelli fino a 70kW e prevede una classificazione energetica da A++ a G oltre ad informazioni sul prodotto, come la potenza o le emissioni sonore.
Il conteggio del calore
L’obbligo (pena sanzioni pecuniarie) scatterà su tutto il territorio nazionale (le Regioni che avevano introdotto scadenze peculiari si sono adeguate allo Stato almeno per la temporalità delle sanzioni) e riguarda solo gli impianti di riscaldamento centralizzati. L’obiettivo è usare in modo intelligente la caldaia comune, determinando ciascuno per sé la temperatura degli ambienti con l’installazione di termovalvole e misurando (cioè anche pagando, salvo una quota che resta di condominio e viene ripartita sui millesimi) il consumo di combustibile per ogni unità.
A seconda del tipo di edificio, cambiano le modalità di adempimento della misura. «Nei vecchi palazzi –spiega infatti Giampiero Bresolin, esperto di Domotecnica, rete in franchising di imprese specializzate in efficienza energetica– gli impianti sono solitamente a distribuzione verticale, con diversi tubi che dalla caldaia salgono nei vari appartamenti e servono uno o più caloriferi per piano. In questo caso, è necessario installare un ripartitore su ogni singolo calorifero. Ogni termosifone sarà inoltre dotato di termovalvole».
Più semplice, invece, e meno oneroso, inserire i contabilizzatori nei palazzi nuovi, dove la distribuzione del calore è orizzontale, appartamento per appartamento. «In questo caso –conclude Bresolin– basta porre un solo contacalorie a monte di tutti i caloriferi».
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Oneri più «leggeri» grazie all’ecobonus. Agevolazioni. Contributi e sconti per gli interventi.
Se rispettare gli obblighi di efficienza energetica costa, lo Stato tende però la mano ai cittadini, con una serie d’incentivi che consentono di ammortizzare le spese per chi deve investire su una nuova caldaia o installare valvole e contabilizzatori. Ma le misure non sono strettamente legate alle scadenze in arrivo e possono essere utilizzate non solo dai condomìni, ma anche dai proprietari di unità immobiliari singole o con la climatizzazione autonoma.
La prima possibilità è quella del cosiddetto eco-bonus fiscale, confermato dalla legge di stabilità, la n. 190/2014. Chi deve cambiare l’impianto di climatizzazione e passa da un sistema vecchio e poco efficiente a una caldaia a condensazione, con contestuale messa a punto del sistema di distribuzione, oppure a un impianto geotermico a bassa entalpia, a un impianto alimentato da pompe di calore ad alta efficienza o -novità di quest’anno- a biomassa combustibile, fino al 31.12.2015, potrà detrarre da Irpef e Ires, spalmata su dieci anni, una cifra pari al 65% della spesa sostenuta, per un importo massimo di 30mila euro (significa che l’impianto, installazione compresa, potrà costare fino a 46.153 euro). Dal 01.01.2016 l’ecobonus resterà, ma la percentuale di detrazione si ridurrà (almeno secondo le presenti disposizioni) al 36 per cento. Importante tenere conto che il presupposto di base è che l’edificio su cui si interviene deve essere esistente e già dotato di impianto di riscaldamento.
Per l’installazione delle termovalvole e dei contabilizzatori, è possibile per i proprietari di casa fruire dell’ecobonus solo se l’integrazione dei nuovi dispositivi all’impianto termico è contestuale al cambio di caldaia. In caso contrario, è comunque possibile beneficiare –fino al 31.12.2015– della detrazione Irpef per le ristrutturazioni al 50% (che scenderà al 36% dal 2016).
Se l’impianto con cui si vuole sostituire la vecchia centrale di climatizzazione è alimentato a fonte rinnovabile (è il caso delle caldaie a biomassa) o con un sistema ad alta efficienza (la pompa di calore) c’è poi una seconda possibilità: cioè il conto termico. Misura che non è invece disponibile per la sostituzione con caldaia a condensazione (a meno che l’intervento non sia promosso da una pubblica amministrazione per un proprio immobile). La somma messa a disposizione già nel 2013 per questi interventi è di 700 milioni, ma solo una piccola percentuale di queste risorse è stata ad oggi richiesta ed utilizzata. Quindi, visto che il conto (pur in via di rivisitazione) è ad esaurimento fondi, è ancora aperto e disponibile.
Rispetto alle detrazioni, il meccanismo funziona con l'erogazione di un contributo diretto da parte del Gse (che gestisce il sistema), calcolato sulla spesa sostenuta: in genere per questi interventi è possibile recuperare circa il 40% dei costi, con rate costanti spalmate da 2 a 5 anni
(articolo Il Sole 24 Ore del 23.02.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Pensione non prima dei 62 anni. Funzione pubblica. Gli enti non potranno risolvere il rapporto anche se ci sono i requisiti per l’anticipata.
Favorire il ricambio generazionale e il ringiovanimento del personale delle pubbliche amministrazioni.
Questo è l’intento degli ultimi interventi normativi spiegati nella circolare 19.02.2015 n. 2/2015 della Funzione pubblica di giovedì scorso.
Dopo anni di austerity e di turn-over molto limitato, il governo Renzi prova a svecchiare i pubblici dipendenti prevedendo la risoluzione unilaterale nei confronti dei lavoratori che hanno maturato i requisiti per la pensione di vecchiaia e lasciando invariato il limite ordinamentale per quei lavoratori che hanno raggiunto le elevate anzianità contributive.
La prosecuzione del rapporto di lavoro oltre i 65 anni (oppure oltre i 66 anni 3 mesi) sarà consentito esclusivamente per garantire all’interessato di maturare i requisiti contributivi minimi (20 anni) per la pensione non oltre il raggiungimento del 70esimo anno di età. Tale limite è soggetto agli adeguamenti legati alla speranza di vita.
L’analisi della situazione dovrà riguardare tutta l’anzianità contributiva accreditata in favore del lavoratore e non solo quella in essere presso l’ex Inpdap. In presenza di contribuzioni in più enti, il lavoratore potrà ricorrere alla totalizzazione o al cumulo contributivo, istituti che consentono –senza onere– di valorizzare tutte le anzianità. Nel caso in cui dalla prosecuzione del rapporto di lavoro, l’assicurato non dovesse perfezionare l’anzianità contributiva minima l’amministrazione dovrà risolvere il rapporto di lavoro al raggiungimento del limite ordinamentale.
Per i dirigenti medici responsabili di struttura complessa, gli enti non potranno procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro se questi chiederanno di permanere in servizio oltre i 65 anni per raggiungere i 40 anni di servizio effettivo e comunque non oltre il 70esimo anno di età. Gli altri dirigenti medici potranno essere collocati a riposo d’ufficio al compimento del 65esimo anno di età se, a tale data, avranno perfezionato anche i requisiti per la pensione anticipata. Di conseguenza, l’eventuale trattenimento in servizio potrebbe non essere accolto.
Le amministrazioni potranno risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro nei confronti dei propri dipendenti che perfezioneranno i requisiti vigenti tempo per tempo per il conseguimento della pensione anticipata (41 anni 6 mesi per le donne, 42 anni 6 mesi per gli uomini). Tuttavia su tale punto la circolare pone dei limiti. Con la legge di stabilità 2015 (la 190/2014) sono state disapplicate –fino al 31.12.2017- le penalità, sulle quote retributive, legate alla pensione anticipata qualora l’accesso avvenga a età inferiori a 62 anni. Pertanto tali lavoratori potranno lasciare l’impiego anche a età inferiori senza subire alcuna decurtazione dell’importo pensionistico. L’ente, tuttavia, non potrà risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro prima dei 62 anni. In pratica un ringiovanimento a metà.
Rimane fermo il requisito contributivo di 40 anni nei confronti di quei soggetti che alla data del 31.12.2011 avevano perfezionato la quota 96, con almeno 60 anni di età, 35 anni di contributi oltre ai resti utili a perfezionare la quota
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.02.2015).

SICUREZZA LAVORO: Ancoraggio più sicuro per i lavoratori in quota.
La marcatura CE è obbligatoria solamente per i dispositivi di ancoraggio mobili, non anche su quelli stabili.

Lo precisa la circolare 13.02.2015 n. 3, a firma congiunta dei ministeri del lavoro, dello sviluppo economico e dei trasporti (sentito l'Inail).
Stabili e mobili. I chiarimenti riguardano l'utilizzo dei dispositivi di ancoraggio, ossia quei dispositivi ai quali sono collegati i sottosistemi della protezione contro le cadute dall'altro dei lavoratori, durante l'esecuzione di lavori in quota.
In primo luogo, la circolare precisa che esistono due tipologie di dispositivi di ancoraggio:
a) quelli che seguono il lavoratore, perché installati non permanentemente nelle opere di costruzione, quindi caratterizzati dall'essere amovibili e trasportabili;
b) quelli installati permanentemente nelle opere stesse, caratterizzati pertanto dall'essere fissi e non trasportabili. Si tratta, in particolare, di tutti i dispositivi o sistemi che non seguono il lavoratore alla fine del lavoro, ma restano fissati alla struttura ancorché taluni componenti del dispositivo o sistema siano «rimovibili» perché, ad esempio, avvitati a un supporto.
La prima tipologia di dispositivi di ancoraggio, aventi comunque funzione di salvaguardare dai rischi i lavoratori, aggiunge la circolare, sono da considerare dei «dispositivi di protezione individuali» (Dpi). Sono dispositivi, quindi, che presentano almeno le seguenti caratteristiche:
• sono portati in loco e messi in opera dal lavoratore;
• sono rimossi al termine del lavoro dal lavoratore stesso.
Marcatura CE. Poiché i dispositivi di ancoraggio permanenti sono installati nelle opere di costruzione, sono fissi e non sono trasportabili, ne deriva che non rientrano nel campo di applicazione del dlgs n. 475/1992 e non devono riportare la marcatura CE come Dpi.
Tali dispositivi permanenti, piuttosto, sono da considerare prodotti da costruzione e come tali rientranti nel campo di applicazione del Regolamento Ue n. 305/2011, il quale ha fissato condizioni armonizzate per la loro commercializzazione (articolo ItaliaOggi del 20.02.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti pericolosi, rivoluzione. Cambiano anche le modalità di tenuta dei registri. In vigore la norma del dl Competitività. Ma da giugno cambierà tutto daccapo.
Una rivoluzione (silenziosa) nella classificazione dei rifiuti pericolosi. Decorsi i 180 giorni previsti, da ieri (18 febbraio) sono entrate in vigore le nuove norme di catalogazione contenute nell'articolo 13, comma 5, lett. b-bis), del decreto 91/2014 (competitività) convertito in legge 116/2014. L'effetto è che due terzi circa dei rifiuti speciali non pericolosi prodotti oggi in Italia sono adesso considerati pericolosi. Ma non solo. Insieme con la classificazione, sono cambiate anche le modalità di tenuta delle scritture ambientali: registri di carico/scarico, formulario di trasporto e schede telematiche Sistri.

Una rivoluzione, appunto, passata quasi sotto silenzio ma che fa già lanciare alle imprese un allarme sulle difficoltà di gestione.
«E pensare», commenta Barbara Gatto, coordinatrice Dipartimento politiche ambientali della Cna, «che tutto ciò avviene a pochi mesi dall'entrata in vigore, prevista per il 1° giugno prossimo, della decisione 2014/955/Ue relativa al catalogo europeo dei rifiuti (codici Cer) e del regolamento europeo 1357/2014 sulle caratteristiche di pericolo dei rifiuti. Presumibilmente in questi mesi il legislatore italiano dovrà comunque mettere mano alle disposizioni scattate ieri per adeguarle a quelle europee».
Stesso concetto espresso dalle associazioni degli operatori del settore (Fise Assoambiente, Fise Unire, Federambiente e Atia-Iswa), che chiedono al ministero dell'Ambiente quella circolare o quelle linee guida che finora non sono arrivati: «con l'entrata in vigore della norma che, in contrasto con i criteri europei che si dovranno applicare anche in Italia fra poco più di tre mesi, trasforma di fatto in «pericolosi» la gran parte dei rifiuti speciali che pericolosi in realtà non sono, il sistema nazionale di gestione dei rifiuti viene messo in grave difficoltà. Se non s'interviene tempestivamente nel giro di alcune settimane i pochi impianti autorizzati a trattare i rifiuti pericolosi saranno saturi e aumenterà esponenzialmente il ricorso all'esportazione dei rifiuti riclassificati, con conseguente ulteriore ingiustificata penalizzazione dei cittadini e delle imprese produttrici».
La norma, a suo tempo inserita nella conversione in legge (agosto 2014) del decreto Competitività, rivoluziona la classificazione dei rifiuti speciali con «codici a specchio», cioè quelli che potevano essere considerati pericolosi o non pericolosi a seconda delle loro caratteristiche. La nuova disposizione comporta praticamente, spiegano dal mondo delle imprese, la classificazione come pericolosi di circa 2/3 dei rifiuti speciali non pericolosi prodotti in Italia, qualcosa come 85 milioni di tonnellate all'anno.
L'applicazione della norma e il cambio di status dei rifiuti speciali speculari determina fra l'altro la necessità di una revisione dei contratti (le cosiddette «omologhe») in essere tra produttori e imprese incaricate della gestione dei rifiuti, che dovranno ora prevedere un diverso iter per il loro trattamento e richiedere modifiche autorizzative che potrebbero comportare tempi molto lunghi (articolo ItaliaOggi del 19.02.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Procedura semplificata in Cdc e via web. Residui limitati Mud facilitato.
Nuova procedura semplificata per la compilazione del Mud da presentarsi in Camera di commercio entro il 30 aprile. I soli soggetti che producono, nella propria unità locale, non più di 7 rifiuti per i quali sono tenuti a presentare la dichiarazione e, per ogni rifiuto, utilizzano non più di 3 trasportatori e 3 destinatari finali possono presentare il modello unico di dichiarazione ambientale, su supporto cartaceo, tramite la comunicazione rifiuti semplificata.
Ecocerved ha realizzato una nuova procedura per la compilazione del Mud (modello unico di dichiarazione ambientale) in maniera semplificata.
Le modifiche previste, rispetto alle schede utilizzate nel 2014 sono le seguenti: viene aggiunta la possibilità di indicare altri stati fisici oltre a quelli previsti e il produttore dovrà distinguere i rifiuti in giacenza, a seconda che siano in attesa di essere avviati a recupero oppure a smaltimento. La comunicazione rifiuti semplificata deve essere compilata utilizzando la modulistica cartacea disponibile sul sito oppure attraverso la nuova procedura di compilazione disponibile, a partire dalla fine di febbraio, sul sito di Ecocerved.
Le comunicazioni semplificate devono essere spedite alla camera di commercio competente per territorio all'interno di apposito plico sul quale devono essere riportati i dati identificativi della dichiarazione. Ogni plico deve contenere la relativa attestazione di versamento dei diritti di segreteria. La camera di commercio competente è quella nel cui territorio ha sede l'unità locale cui la dichiarazione si riferisce. La presentazione alla camera di commercio deve avvenire mediante spedizione postale a mezzo di raccomandata senza avviso di ricevimento.
Il diritto di segreteria è di 15,00 euro per ogni unità locale dichiarante. Il diritto di segreteria spettante alla camera di commercio deve essere versato, generalmente, utilizzando un bollettino di conto corrente postale indicando nella causale di versamento il codice fiscale del dichiarante e la dicitura «diritti di segreteria Mud (legge n. 70/1994)» (articolo ItaliaOggi del 19.02.2015).

APPALTICantone bacchetta i comuni. Eccesso di trattative private. Violata la concorrenza. Il presidente dell'Anac in audizione al senato chiede più trasparenza ai sindaci.
L'eccesso di trattative private nei comuni delinea una «situazione disastrosa» di violazione delle regole concorrenziali; necessario limitare l'appalto integrato e tornare alla centralità del progetto; più trasparenza nelle società pubbliche e indipendenza delle commissioni di gara.

È quanto ha affermato ieri il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, concludendo la sua audizione presso la commissione lavori pubblici del senato che sta esaminando la delega per gli appalti pubblici.
Particolare attenzione è stata riservata da Cantone al fenomeno dell'assenza di concorrenza e trasparenza negli affidamenti da parte degli enti locali quando ha toccato il tema delle procedure di gara, rispetto al quale le nuove direttive europee peraltro prevedono un ampliamento della discrezionalità delle stazioni appaltanti. Cantone ha annunciato che presto sul sito dell'Anac saranno messi in linea i dati sulle procedure negoziate senza gara (ammesse fino a un milione di euro) avviate dai principali comuni italiani, i cui risultati evidenziano una «situazione disastrosa» rispetto alla quale sarà lui stesso a chiedere chiarimenti ai sindaci: «non significa che c'è per forza corruzione ma è un segnale di allarme; spesso questo tipo di fenomeni sfuggono alla politica».
In particolare Cantone, riferendosi anche all'articolo 9 del decreto «Sblocca Italia» che ha allentato i vincoli per gli affidamenti con procedure negoziate (consentite fino alla soglia Ue dei 5,18 milioni per interventi sulle scuole, il dissesto idrogeologico e le emergenze ambientali), ha messo in guardia da interventi legislativi di deroga alle ordinarie procedure oggi previste dal codice dei contratti pubblici «perché, soprattutto in alcune aree del paese, dire che posso affidare l'appalto sulla base di un invito rivolto a cinque operatori significa quasi di sicuro che c'è un imprenditore che risponde all'invito portando con sé altre quattro offerte».
Pesanti critiche sono state poi espresse da Cantone con riguardo all'appalto integrato (affidamento congiunto di progettazione e costruzione) che è nato «dalla frammentazione delle stazioni appaltanti» ma che nel nuovo codice
«deve diventare un'eccezione».
Per Cantone si deve tornare alla centralità del progetto che «deve diventare il primo atto da dare in appalto». Non poteva mancare poi un riferimento alle commissioni di gara: «l'offerta economicamente più vantaggiosa ha un senso se c'è una commissione di gara che sia realmente indipendente». Sulla trasparenza delle società pubbliche Cantone ha chiesto che tutte le partecipate siano tenute ad applicare le procedure del codice dei contratti (articolo ItaliaOggi del 19.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAPer i «nuovi» rifiuti pericolosi il ministero studia un correttivo. Ambiente. Proteste delle imprese e dei chimici.
La nuova classificazione dei «rifiuti pericolosi» in vigore da ieri (si veda Il Sole 24 del 18 febbraio) scatena reazioni vibranti e compatte dal mondo imprenditoriale e da quello professionale coinvolti nella filiera.
Il caso nasce dalla parte del Dl agostano “competitività” che interveniva sul Codice ambientale proprio in materia di classificazione dei rifiuti. Una classificazione che ora è di fatto svincolata da parametri scientifici, è votata a un criterio ultraprudenziale e ultrasoggettivo, e che comunque peggiora il rating del 66% del prodotto della filiera industriale, destinandolo a discariche dedicate (presto sature) e, inevitabilmente, all’esportazione. Il tutto, peraltro, a pochi mesi dall’entrata in vigore della norma europea (01.06.2015) che viaggia in direzione opposta.
Pesante l’atto d’accusa del Consiglio nazionale dei chimici: «Il Parlamento ha scelto di approvare una normativa insensata che di fatto non consentirà più ai chimici di svolgere legalmente la loro professione» -scrivono- una norma «che nulla ha a che vedere con la scienza, con la tutela dell’ambiente e con le linee guida dettate dall’Europa» e che favorirà «la proliferazione della malavita organizzata». Infine «renderà formalmente illegale l’espressione di un giudizio professionale ragionato, obbligando il chimico a esprimere pareri lontani dal codice deontologico con conseguenti, responsabilità anche sul piano penale».
Per Federambiente «l’applicazione della norma e il cambio di status dei rifiuti speciali speculari determina fra l’altro la necessità di una revisione dei contratti (le cosiddette «omologhe») in essere tra produttori e imprese incaricate della gestione dei rifiuti, che dovranno ora prevedere un diverso iter per il loro trattamento e richiedere modifiche autorizzative che, nella migliore delle ipotesi, comportano tempi molto lunghi».
Dalle principali associazioni di categoria - Fise Assoambiente, Fise Unire, Federambiente e Atia-Iswa parte così la richiesta al ministero dell’Ambiente di emanare –come del resto previsto dall’ordine del giorno approvato dalla Camera il 06.08.2014– «una circolare esplicativa o altro atto amministrativo per garantire, nel più breve tempo possibile, alle imprese e ai cittadini italiani condizioni applicative in linea con le disposizioni europee».
La riconversione “per legge” in «pericolosi» di decine di milioni di tonnellate di rifiuti prefigura il «rischio concreto di blocco totale della gestione» della filiera, sottolineano le associazioni imprenditoriali, che potrebbe sfociare a breve in «diverse situazioni di emergenza in tutta Italia».
Il problema è che, scaduti i termini per un inserimento nel Milleproroghe, la questione deve ora essere affrontata e veicolata su un binario normativo tutto da inventare. Che comunque sarebbe già allo studio dell’Ambiente
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2015).

APPALTIComuni, centrali uniche all'1/9. Per forniture e lavori. Regioni, prorogati i contratti. MILLEPROROGHE/ Per il piano di riequilibrio antidissesto c'è tempo fino al 30/6.
Proroga delle centrali uniche di committenza al 1° settembre. Sia per le forniture di beni e servizi, sia per le gare concernenti i lavori, l'obbligo per i comuni non capoluogo di provincia di avvalersi delle unioni di comuni (ove esistenti) o di appositi accordi consortili o ancora delle convenzioni Consip slitta di due mesi per quanto riguarda i lavori pubblici (sarebbe dovuto entrare in vigore il 1° luglio). Mentre, per quanto riguarda l'acquisto di beni e servizi, le amministrazioni, in affanno per l'entrata in vigore della misura già a partire dal 1° gennaio, avranno qualche mese di tregua in più per prepararsi.

Il decreto legge milleproroghe (dl 192/2014) nella maratona notturna di lunedì in commissione alla camera si è arricchito di molte, significative, novità per la pubblica amministrazione e gli enti locali. Tra cui si segnala la proroga dei contratti a termine delle regioni che abbiano avviato procedure di stabilizzazione dei precari, una chance che i governatori con i conti in ordine e senza eccedenze di personale possono sfruttare fino a tutto il 2018 (la proroga è prevista dalla legge di stabilità 2015).
Le regioni, inoltre, potranno procedere ad assunzioni a tempo indeterminato unicamente in attuazione delle procedure di mobilità previste dalla manovra per consentire l'attuazione della legge Delrio. Vediamole nel dettaglio
Piano di riequilibrio entro il 30 giugno. Gli enti locali in pre-dissesto, che non abbiano presentato il piano di riequilibrio entro 60 giorni dall'esecutività della delibera consiliare che dà il via alla procedura, possono riproporlo entro il 30.06.2015. Sempre entro il 30.06.2015 potranno presentare un nuovo piano di riequilibrio gli enti che abbiano ricevuto parere negativo da parte della Corte dei conti.
Province. La dead-line per la chiusura dei bilanci provinciali relativi al 2014 viene confermata al 28 febbraio. Un emendamento del governo ha confermato (si veda ItaliaOggi del 05/02/2015) anche per il 2015 i criteri di riparto alle province del Fondo sperimentale di riequilibrio già adottati in passato. La finalità è «consentire una rapida adozione del provvedimento di ricognizione e attribuzione delle risorse» in modo da permettere agli enti di area vasta di conoscere subito i fondi spettanti al fine di predisporre il bilancio di previsione 2015.
Analogamente, per le province siciliane e sarde a cui, in ragione dell'autonomia speciale di cui godono le due regioni, sono ancora attribuite risorse a titolo di trasferimenti erariali, si prevede la proroga per il 2015 delle norme che determinano le spettanze.
Arriva anche la proroga (dal 15 febbraio al 31 marzo) del termine entro cui il Viminale certificherà con apposito decreto l'ammontare dei tagli a cui ciascuna provincia dovrà andare incontro ai sensi della legge di stabilità 2015. Con l'effetto di spostare in avanti (dal 30 aprile al 31 maggio) anche il momento in cui scatterà il recupero coattivo da parte dell'Agenzia delle entrate delle somme non riversate all'erario dagli enti di area vasta.
Gestioni associate. Com'era prevedibile è arrivata la proroga dell'obbligo per gli enti fino a 5 mila abitanti (3 mila per i centri montani) di gestire in forma associata tutte le funzioni fondamentali. I sindaci avranno tempo fino al 31.12.2015 per mettersi insieme, ma questa volta senza obblighi e su base volontaria.
Appalti, anticipazione al 20% per i costruttori. Passerà dal 15 al 20% l'importo dell'anticipazione contrattuale per le imprese di costruzioni. Si era partiti con un differimento a fine 2016 dell'obbligo di corrispondere l'anticipazione del 10% prevista dal decreto 69/2013, per poi arrivare ad una modifica di merito con l'innalzamento dal 10 al 15% della percentuale (si veda ItaliaOggi di ieri).
Infine si è arrivati ad un ulteriore innalzamento della percentuale al 20% con l'emendamento 8.106 firmato dai due relatori del provvedimento Maino Marchi (Pd) e Francesco Paolo Sisto (Fi). L'obiettivo, venendo incontro anche alle pressioni del mondo delle costruzioni, sarebbe anche quello di «risarcire» le imprese dopo l'entrata in vigore del cosiddetto split payment che ha tolto liquidità alle imprese non più destinatarie dell'Iva.
Sfratti. Miniproroga di 4 mesi («fino al centoventesimo giorno dall'entrata in vigore della legge di conversione») per consentire il «passaggio da casa a casa». A decidere sarà il giudice su richiesta delle parti interessate dalle procedure esecutive.
Imu secondaria al 2016. Un differimento sotto certi aspetti scontato, ma necessario, riguarda la cosiddetta Imu secondaria, l'imposta unica che a decorrere da quest'anno avrebbe dovuto accorpare tutta una serie di tributi locali minori (Tosap, Cosap, imposta sulla pubblicità, ecc). Il Mef, aveva già chiarito con una nota, che in assenza del regolamento ministeriale attuativo, l'Imu secondaria, ancorché formalmente in vigore dal 1° gennaio, non avrebbe potuto essere disciplinata e applicata dai comuni che quindi avrebbero dovuto continuare ad applicare i vecchi tributi. Tuttavia, da più parti è stata evidenziata la necessità di una norma di legge che sancisse lo slittamento. E la norma è arrivata sotto forma di emendamento al milleproroghe approvato dalle commissioni affari costituzionali e bilancio della camera.
Tari. Per il 2014 sono validi i regolamenti e le tariffe in materia di Tassa sui rifiuti (Tari) adottate dai comuni entro il 30 novembre dell'anno scorso. Gli enti locali che non hanno deliberato entro tale data dovranno procedere alla riscossione degli importi sulla base delle tariffe 2013. Le eventuali differenze tra il gettito acquisito secondo le previgenti tariffe e il costo del servizio saranno recuperate nell'anno successivo.
Niente sanzioni per le regioni che hanno sforato il Patto. Disapplicate le sanzioni per le regioni che non hanno rispettato il Patto di stabilità nel 2014 in quanto hanno destinato al pagamento dei debiti nei confronti dei fornitori una quota superiore al 50% dell'obiettivo Patto.
Tale bonus opera limitatamente alla quota eccedente il 2% delle entrate del titolo I (entrate tributarie, escluse quelle destinate al finanziamento della sanità) e del titolo III (entrate extratributarie) registrate nell'ultimo consuntivo (articolo ItaliaOggi del 18.02.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Codice contratti ko sotto i 5 mln di euro.
La Commissione europea (nota 11.02.2013 n. 170639 di prot. e successiva replica di cui alla nota 22.05.2013 n. 1257000 di prot.) ha precisato che
è compatibile con il diritto comunitario il comma 2-bis dell'art. 16 del testo unico sull'edilizia, dpr n. 380 del 2001, che consente al titolare del permesso di costruire di realizzare le opere di urbanizzazione primaria funzionali all'intervento urbanistico-edilizio, con un valore fino a 5 milioni di euro, senza l'obbligo di applicare il codice dei contratti. C'è, però, una condizione: che sia, sempre e in ogni caso, applicato l'art. 29 del codice dei contratti pubblici, dlgs n. 163 del 2006.
Ciò significa che il ricorso al comma 2-bis può avvenire nel rispetto del diritto comunitario a condizione che il valore economico del complesso delle opere e dei servizi connessi all'intervento urbanistico (oggetto della convenzione tra il Comune e il titolare del permesso di costruire), calcolato in base all'art. 29 del codice dei contratti, non superi la cosiddetta soglia comunitaria.
È come dire che la norma è applicabile solo se il pacchetto di opere pubbliche connesso all'intervento sia d'importo inferiore alla soglia comunitaria, e non negli altri casi. Ma la norma inserita nel testo unico, ai tempi del governo Monti, non precisa questo, e non stabilisce che vada tenuto comunque fermo quanto disposto dal citato art. 29 del codice. E non a caso, sembra che le amministrazioni stiano dando applicazione all'art. 16, comma 2-bis, senza tenere in considerazione la precisazione della Commissione.
Le linee guida adottate in merito dalla Giunta di Milano, per esempio, stabiliscono che dal valore economico complessivo delle opere e dei servizi collegati allo stesso intervento edilizio, da convenzionare, vada sottratto, tra le altre cose, l'importo delle opere di urbanizzazione primaria sotto soglia realizzabili in base all'art. 16, comma 2-bis. Per scongiurare possibili censure da parte della Commissione, si spera che il Comune di Milano faccia tesoro della segnalazione, e della richiesta di spiegazioni, del consigliere comunale radicale Marco Cappato.
Si spera pure che (come richiesto con l'Interrogazione a risposta in commissione 5-04648 del 05.02.2015 dalla deputata del M5s Claudia Mannino) il ministro delle Infrastrutture provveda a fornire i chiarimenti e le istruzioni indispensabili ad assicurare, in ogni caso, che le amministrazioni applichino le disposizioni del codice in materia di determinazione del valore economico delle opere e dei servizi da appaltare, anche nei casi disciplinati dal citato art. 16, comma 2-bis (ammesso che ciò sia possibile) (articolo ItaliaOggi del 18.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: MILLEPROROGHE/ Proroga centrali uniche con modifiche parlamentari. Appalti, anticipi ricchi. L'importo per i costruttori sale dal 15 al 20%.
Sulla proroga dell'obbligo per i comuni di avvalersi di centrali uniche di committenza non ci sarà alcun emendamento del governo; l'orientamento dei relatori sarebbe quello di verificare la possibilità di una riformulazione dei diversi emendamenti parlamentari; passerà dal 15 al 20% l'importo dell'anticipazione contrattuale per le imprese di costruzioni.

Sono questi alcuni degli sviluppi delle convulse ore di esame del disegno di legge di conversione del dl 192/2014 (cosiddetto «Milleproroghe»), attualmente all'esame della camera.
Sul tema delle centrali di committenza vi era attesa per un intervento del governo che intervenisse sull'obbligo, già prorogato in passato, per i comuni non capoluogo di provincia, di affidare contratti di forniture, servizi (dal 01.01.2015) e lavori (dal 01.07.2015) attraverso le centrali uniche di committenza, cioè attraverso la Consip o altro soggetto aggregatore di riferimento (per i comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti è invece ammesso procedere autonomamente per gli acquisti di beni, servizi e lavori di importo inferiore a 40.000 euro).
Da quanto risulta a ItaliaOggi, però, l'orientamento dei relatori sarebbe quello di valutare la possibilità di riformulare gli emendamenti parlamentari agendo esclusivamente sul termine di applicazione dell'obbligo. Ci sarebbero infatti seri dubbi, già emersi presso la commissione ambiente, rispetto ad ipotesi di modificare nel merito la norma oggetto di rinvio (cioè il comma 3-bis aggiunto all'articolo 33 del codice dei contratti pubblici, successivamente modificato dal dl 66/2014, convertito nella legge 89/2014, e dal decreto legge 90/2014 convertito nella legge 114/2014).
Si andrebbe quindi verso una mera proroga, forse a fine 2015 per tutte le tipologie di contratti.
In precedenza, infatti, i diversi emendamenti presentati un po' da tutti i gruppi parlamentari incidevano anche sulle soglie di applicazione dell'obbligo e sulla dimensione dei comuni tenuti all'obbligo, prendendo anche spunto da diversi rilievi critici espressi dall'Anci nelle scorse settimane soprattutto con riguardo alla disciplina prevista per i comuni fino a 10.000 abitanti.
Sarà probabilmente un altro provvedimento a toccare questi profili di ambito di applicazione soggettivo visto che in teoria, il decreto 192 si dovrebbe occupare soltanto di differimento dei termini. Il condizionale è d'obbligo visto quanto successo sempre in questi ultimi giorni e in queste ultime ore, con l'anticipazione contrattuale per gli appalti di lavori.
Si era partiti con un differimento a fine 2016 dell'obbligo di corrispondere l'anticipazione del 10% prevista dal decreto 69/2013, per poi arrivare ad una modifica di merito con l'innalzamento dal 10 al 15% della percentuale (vedi ItaliaOggi del 13.02.2015).
Infine si è arrivati ad un ulteriore innalzamento della percentuale al 20% con l'emendamento 8.106 firmato dai due relatori del provvedimento Maino Marchi (Pd) e Francesco Paolo Sisto (Fi). L'obiettivo, venendo incontro anche alle pressioni del mondo delle costruzioni, sarebbe anche quello di «risarcire» le imprese dopo l'entrata in vigore del cosiddetto split payment che ha tolto liquidità alle imprese non più destinatarie dell'Iva (articolo ItaliaOggi del 17.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIOOccorre l’unanimità per dismettere l’impianto centrale. Riscaldamento. Per evitare richieste di risarcimento.
Deliberare di dismettere l’impianto centralizzato di riscaldamento senza il consenso unanime può costare caro al condominio. Che può essere citato in giudizio dal condòmini che non erano d’accordo per ottenere il risarcimento dei danni subiti dalla soppressione del servizio.
È la conseguenza di un procedimento giudiziario innescato da un inquilino perché non aveva potuto fruire del servizio di riscaldamento proprio a seguito della sua soppressione è a causa della trasformazione in impianti autonomi.
La Corte di Cassazione (sentenza n. 862/2015), preso atto della nullità della delibera di dismissione dichiarata dalla Corte d’appello, ha rinviato nuovamente alla Corte di merito, in diversa composizione, la valutazione della richiesta di risarcimento del danno causato al condòmino (proprietario dell’appartamento affittato) dall’illegittimo comportamento dei condòmini che lo avevano privato dell’impianto.
Questa è in pratica la conferma, anche se ci si riferisce a due delibere condominiali del 1987 e 1992) del fatto che non è più possibile la trasformazione degli impianti centralizzati in unifamiliari a gas senza il consenso unanime proprio come era richiesto prima dell’entrata in vigore della legge 10/1991 (Tribunale di Roma, sentenza 19966/2010). E in effetti, l’articolo 26, comma 2, della legge 10/1991 disponeva che «per gli interventi in parti comuni di edifici volti al contenimento del consumo energetico, compresi quelli di cui all’articolo 8» (trasformazione di impianti centralizzati di riscaldamento in unifamiliari a gas), sono valide le relative decisioni «prese a maggioranza delle quote millesimali». Solo successivamente, a seguito di numerose modifiche subite dall’articolo 26 scomparve, con il Dlgs 311/2006, il richiamo all’articolo 8, per cui l’intervento finalizzato alla trasformazione degli impianti centralizzati di riscaldamento in unifamiliari a gas necessitava del consenso unanime dei partecipanti al condominio.
Tuttavia le possibilità di eseguire oggi tale trasformazione sono molto scarse perché il Dpr 59/2009 ha disposto che in tutti gli edifici già esistenti con un numero di unità abitative superiore a 4 (o con una particolare potenza nominale del generatore di calore) è preferibile il mantenimento di impianti termici centralizzati laddove esistenti e, in caso di ristrutturazione o di installazione dell’impianto termico, è obbligatorio, ove tecnicamente possibile, l’adozione dei sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore (salvo impedimenti tecnici da evidenziarsi nella relazione tecnica) da deliberarsi in base all’articolo 1120, comma 2, del Codice civile.
L’adozione di tali sistemi è divenuta obbligatoria, poi, negli edifici di nuova costruzione la cui concessione edilizia sia stata rilasciata dopo il 2006 (Dlgs 311/2006) e lo sarà per tutti gli edifici con riscaldamento centralizzato entro il 31.12.2016 (Dlgs n. 102/2014)
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2015).

APPALTISplit payment, Iva in evidenza. Il meccanismo si applica se in fattura l'importo è chiaro. Forniture pa: i chiarimenti sulla riscossione dell'imposta nella circolare n. 1/2015.
Presupposto indefettibile per l'applicazione del meccanismo dello split payment è l'esistenza di una fattura che rechi evidenza dell'Iva; diversamente, il meccanismo non può applicarsi perché l'ente pubblico acquirente non conosce l'importo che dovrebbe versare all'erario.
Questa conclusione è stata confermata dall'Agenzia delle entrate con la circolare 09.02.2015 n. 1/E contenente i primi chiarimenti sul particolare meccanismo di riscossione dell'Iva sulle forniture alla p.a. La circolare si occupa soprattutto del profilo soggettivo delle nuove disposizioni, fornendo indicazioni in merito all'individuazione degli enti i cui acquisti sono sottoposti allo split payment.
L'ambito oggettivo e l'esigenza dell'Iva «in chiaro». L'articolo 17-ter del dpr n. 633/72, aggiunto dalla legge n. 190/2014, prevede che sulle cessioni di beni effettuate nei confronti degli enti pubblici ivi elencati, l'Iva è riscossa dall'erario direttamente in capo agli acquirenti, anziché, come avviene di regola, per il tramite dei fornitori. Questi ultimi addebiteranno normalmente l'imposta agli enti cessionari/committenti, ma non la incasseranno, perché il pagamento del tributo all'erario sarà eseguito direttamente dai loro clienti, i quali «splitteranno» il pagamento della fattura effettuandolo: per l'imponibile (o meglio, per tutte le somme dovute a titolo diverso dall'Iva), a favore del fornitore; per l'imposta, a favore dell'erario.
I fornitori dovranno riportare sulla fattura l'annotazione «scissione dei pagamenti».
Per quanto riguarda le modalità di versamento dell'Iva, il dm 23.01.2015 distingue a seconda che l'ente acquisti i beni o servizi in veste istituzionale o nell'ambito di un'attività commerciale. Nel primo caso (acquisti istituzionali), l'ente deve versare l'Iva entro il 16 del mese successivo a quello in cui l'imposta è divenuta esigibile, senza possibilità di compensazione; l'esigibilità si verifica al momento del pagamento del corrispettivo al fornitore, a meno che l'ente non opti per anticiparla al momento di ricevimento della fattura. Gli enti potranno poi scegliere se effettuare un unico versamento cumulativo dell'imposta divenuta esigibile nel mese, oppure un versamento per ciascun giorno, cumulando l'imposta divenuta esigibile nel giorno stesso, o infine un versamento per l'imposta divenuta esigibile su ciascuna fattura.
Nel secondo caso (acquisti commerciali), invece, gli enti, soggetti passivi Iva, devono annotare le fatture d'acquisto ai sensi degli artt. 23 (registro fatture emesse) o 24 (registro corrispettivi) del dpr n. 633/1972 entro il giorno 15 del mese successivo a quello in cui l'imposta è divenuta esigibile, con riferimento al mese precedente; l'imposta dovuta confluirà così nella liquidazione periodica del mese o del trimestre e potrà pertanto essere compensata dalle detrazioni.
L'articolo 17-ter esclude dallo split payment solamente:
- le operazioni per le quali l'ente acquirente riveste la qualifica di debitore dell'Iva secondo le disposizioni in materia (operazioni sottoposte al regime dell'inversione contabile)
- i compensi per prestazioni assoggettate a ritenuta Irpef, d'acconto o d'imposta.
Sebbene la norma non preveda altre esclusioni, l'obbligo dell'ente acquirente di versare all'erario l'Iva addebitata dal fornitore postula necessariamente che l'ammontare dovuto sia evidenziato nella fattura emessa dal fornitore. Nel corso del forum di ItaliaOggi del 22.01.2015, l'Agenzia delle entrate ha riconosciuto che il meccanismo particolare non è applicabile alle «operazioni assoggettate a regimi speciali che non prevedono l'evidenza dell'imposta in fattura e che ne dispongono l'assolvimento secondo regole proprie». È il caso, ad esempio, delle operazioni soggette al regime del margine, a quello dell'editoria, al regime forfetario dei contribuenti minimi ecc. A commento della risposta dell'agenzia, si è osservato che analoga conclusione deve valere, a maggior ragione, per le operazioni non documentate da fattura, ma da scontrini o ricevute fiscali (e difatti il dm accenna esclusivamente alle fatture).
Anche su questo punto, nella circolare n. 1/E del 09.02.2015 è arrivata la conferma dell'agenzia, che osserva che «la scissione dei pagamenti riguarda le operazioni documentate mediante fattura emessa dai fornitori, ai sensi dell'art. 21 del dpr n. 633 del 1972. Devono, pertanto, ritenersi escluse dal predetto meccanismo le operazioni (ad es., piccole spese dell'ente pubblico) certificate dal fornitore mediante il rilascio della ricevuta fiscale, o dello scontrino fiscale , ovvero non fiscale per i soggetti che si avvalgono della trasmissione telematica dei corrispettivi, ovvero altre modalità semplificate di certificazione specificatamente previste» (articolo ItaliaOggi Sette del 16.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAAmbiente, scadenze a incastro. Adempimenti su classificazione rifiuti, Sistri, Mud, Aia. Guida per districarsi con la tempistica: dal 18 febbraio al 1° giugno, fitto calendario.
Dalla classificazione al tracciamento dei rifiuti, passando per la verifica di compatibilità ambientale degli impianti, sono numerosi gli adempimenti che impegneranno le imprese fino al prossimo giugno.

Ad aprire il calendario sono le nuove regole del dlgs 152/2006 (cd. Codice ambientale) in vigore dal 18 febbraio che precisano i confini tra rifiuti pericolosi e non pericolosi, seguite a stretto giro in marzo, salvo proroghe, dall'ultima chiamata per regolarizzare l'adesione al Sistri.
Ad aprile scadranno invece i termini per la valutazione preliminare delle installazioni soggette ad Aia (autorizzazione integrata ambientale) che utilizzano sostanze pericolose, così come quelli per la tradizionale dichiarazione Mud e il pagamento del contributo 2015 per il parallelo sistema di tracciamento telematico dei rifiuti.
Chiuderanno il calendario, salva l'emanazione degli ulteriori e attesi provvedimenti ambientali più avanti citati, gli obblighi che dal 1° giugno deriveranno dall'operatività del nuovo Elenco dei rifiuti disegnato dall'Ue.
Classificazione rifiuti. Operative dal 18.02.2015 le nuove istruzioni nazionali ex dl 91/2014 per classificare correttamente i rifiuti come pericolosi o non pericolosi. I nuovi criteri, introdotti nell'allegato D alla Parte IV del dlgs 152/2006, impongono d'obbligo l'utilizzo dei criteri classificatori ex decisione 2000/532/Ce, la presunzione di non pericolosità dei rifiuti classificati tali dai codici «assoluti», le precise indagini da condurre per la corretta classificazione per i rifiuti che rientrano tra i pericolosi solo in presenza di certe caratteristiche, l'adozione del principio di precauzione Ue in presenza di sostanze ad alto rischio.
Sistri. In base all'attuale contesto normativo, entro il 02.03.2015 sarà possibile attivare, in relazione alle sanzioni per omessa iscrizione e mancato pagamento del pregresso contributo Sistri (operative già dal 1° febbraio, ex dl 192/2014), il «ravvedimento operoso» previsto dal comma 9-ter, articolo 260-bis, dlgs 152/2006 a mente del quale: «Non risponde delle violazioni amministrative ( ) chi, entro 30 giorni dalla commissione del fatto, adempie agli obblighi previsti dalla normativa relativa al sistema informatico di controllo ( )».
La suddetta data del 02.03.2015 viene indicata a titolo precauzionale, essendo stata riscontrata una discordanza, sia tra gli organi accertatori che tra i giudici di prime cure, in merito al computo o meno nel suddetto termine di 30 giorni del «dies a quo», ossia di quello relativo alla commissione degli illeciti in parola. L'applicabilità delle sanzioni per la violazione delle altre regole Sistri, lo ricordiamo, è invece stata dallo stesso dl 192/2014 (cd. «Milleproroghe», attualmente in corso di conversione in legge) sospesa fino al 31.12.2015. In base al dm 52/2011 (c.d. «Testo unico Sistri»), entro il prossimo 30 aprile dovrà inoltre essere pagato il nuovo contributo annuale, relativo al 2015.
Autorizzazione integrata ambientale. È fissato nel 07.04.2015 il termine entro il quale le installazioni individuate dal dm Ambiente 272/2014 tra quelle sottoposte ad Aia statale ex dlgs 152/2006 devono inviare al Minambiente gli esiti della valutazione della propria potenzialità inquinante (cd. «verifica preliminare»). Valutazione che, se positiva, obbligherà le stesse strutture a presentare allo stesso Dicastero entro il successivo 07.01.2016 la «relazione di riferimento», ossia il documento imposto dall'articolo 29-sexies del dlgs 152/2006 agli impianti Aia che utilizzano sostanze pericolose.
Il novero delle installazioni statali interessate dalla scadenza del 07.04.2015 coincide con gli impianti di combustione con potenza termica di almeno 300 Mw alimentati esclusivamente a gas naturale presenti nell'allegato XII, Parte 2 del dlgs 152/2006 (ad esclusione, per deroga generale dello stesso dm 272/2014, di quelli collocati interamente in mare). È tuttavia plausibile ritenere che, al fine di garantire coerenza con le regole nazionali, analoga data di scadenza sarà dettata anche dalle Autorità di controllo regionali per le installazioni di propria competenza territoriale.
Ciò in quanto l'obbligo di verifica preliminare è dal dm Ambiente 272/2014 imposto a tutte le installazioni sottoposte ad Aia (sia statale che locale, elencate nell'allegato VIII del dlgs 152/2006) ad eccezione di quelle di esclusiva competenza statale (ex Allegato XII) tenute direttamente, in base allo stesso dm, alla presentazione della relazione di riferimento.
Mud. Scade il 30.04.2015 il termine per presentare alle Camere di Commercio la rituale dichiarazione ambientale Mud. Il modello unico da utilizzare è quello recato dal nuovo Dpcm 17.12.2014. E l'obbligo, lo ricordiamo, interessa anche i produttori e gestori di rifiuti che operano in Sistri, poiché il citato dl 192/2014 nel disporre la sospensione fino al 31.12.2015 delle (sole, come più sopra menzionato) sanzioni per la violazione delle specifiche regole sul controllo telematico dei rifiuti ha confermato il parallelo obbligo di osservare fino alla stessa data le tradizionali norme sul tracciamento tradizionale (registri, formulario e comunicazione Mud).
Nuovo elenco rifiuti e caratteristiche pericolo. Scatta infine il 01.06.2015 l'operatività sul territorio nazionale delle nuove regole comunitarie su classificazione dei rifiuti e attribuzione delle relative caratteristiche di pericolo. In relazione alla classificazione, dalla suddetta data occorre infatti fare riferimento al nuovo Elenco europeo dei rifiuti previsto dalla decisione 2014/955/Ue in riformulazione di quello originario ex decisione 2000/532/Ce.
In stretta sinergia con la nuova classificazione, dallo stesso 01.06.2015 la valutazione delle caratteristiche di pericolo dei rifiuti imposta dal rinnovato Elenco deve inoltre essere effettuata in base ai nuovi criteri introdotti dal regolamento 1357/2014/Ue nell'allegato III della direttiva 2008/98/Ce. E in entrambi i casi, essendo le norme Ue in parola «self executing», le nuove prescrizioni saranno direttamente vincolanti anche in assenza di un tempestivo aggiornamento da parte del Legislatore nazionale (rispettivamente) dell'allegato «D» alla Parte Quarta del dlgs 152/2006 (nel quale è stato trasposta la versione originaria dell'Elenco dei rifiuti) e dell'allegato I allo stesso Codice ambientale (ove trovano collocazione le regole per l'attribuzione delle caratteristiche di pericolo recepite dalla precedente versione della direttiva 2008/98/Ce).
Altre novità in itinere. Ad arricchire il già articolato e descritto calendario potranno, come accennato, concorrere le ulteriori norme ambientali attualmente al vaglio del Legislatore, tra le quali (oltre al noto ddl «Green economy», che nella versione licenziata dalla Camera nel novembre 2014 prevedeva una stretta su valutazione di impatto per impianti di combustione e gestione di rifiuti in rame) vi è l'attesissimo regolamento sulle terre e rocce da scavo.
Provvedimento, quest'ultimo, che dovrebbe in base al dl 133/2014 (c.d. «Sblocca Italia») essere adottato entro la metà del febbraio 2015 al fine di coordinare le disposizioni di settore e introdurre criteri ad hoc per il «deposito temporaneo» dei residui da scavo. Sorprese potranno altresì arrivare entro fine mese dalla legge di conversione del citato dl 192/2014, intorno al cui disegno di legge, attualmente all'esame delle Commissioni del Senato, già gravitano numerosi emendamenti volti a differire ulteriormente l'applicabilità delle vigenti sanzioni Sistri (articolo ItaliaOggi Sette del 16.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATALavori in casa, modelli unici al via.
Ultima chiamata per la semplificazione dei modelli unici in edilizia. Scade oggi, infatti, il termine assegnato alle Regioni per adattare i propri moduli per i piccoli lavori (Cil e Cila) al fac-simile unico nazionale. Si chiude così la seconda tappa del processo di semplificazione, avviato già a giugno scorso con la prima intesa Stato-Regioni sui modelli standard che riguardava il permesso di costruire e la Scia, necessari rispettivamente per le nuove costruzioni e la manutenzione straordinaria. Un capitolo importante dell’agenda delle semplificazioni messa a punto dal governo Renzi, che prevede anche il monitoraggio della concreta attuazione.
Per l’edilizia l’obiettivo è quello di sfoltire la selva di 8mila modelli, uno per ogni Comune, necessari per avviare i lavori di manutenzione e ristrutturazione, attraverso uno standard unico a composizione variabile( e adattabile da Regioni e Comuni). Un primo accordo -senza scadenza- con le Regioni è intervenuto a giugno sul permesso di costruire e la Scia (segnalazione certificata di inizio attività), utilizzata soprattutto per le ristrutturazioni più complesse. La seconda intesa, da attuare entro oggi, ha unificato la comunicazione di inizio lavori semplice (Cil) o asseverata da un tecnico (Cila).
All’appuntamento di oggi le Regioni arrivano abbastanza preparate. Sette hanno già completato l’adeguamento per tutti i modelli (Basilicata, Emilia Romagna, Lazio, Liguria,Piemonte, Marche e Sardegna) e quattro sono praticamente in dirittura d’arrivo con provvedimenti pronti per essere adottati questa settimana.
Stanno collaborando anche alcune Regioni autonome, quali il Friuli Venezia Giulia, la Sicilia e la Sardegna, che non sono vincolate a recepire le intese. Qualche Regione, poi, si è spinta anche oltre e ha di fatto reso automatico e immediato anche l’adeguamento dei Comuni: è il caso dell’Emilia Romagna, che ha previsto una data limite (lo scorso 5 gennaio) per eventuali adattamenti dei municipi, oltre la quale lo standard unico regionale ha “prevalso” in automatico in tutti i 341 Comuni. Operazione analoga in Piemonte, realizzata grazie al portale “Mude”, che in più prevede anche l’invio delle istanze online.
Per tutte le altre Regioni, invece, il recepimento completo sarà più lento, perché anche dopo il lavoro regionale sta ai singoli Comuni attivarsi. Lo hanno già fatto in diversi: Verona e Napoli, tra gli altri. Il Comune partenopeo ha deciso di mettere online tutti i quattro i modelli, mantenendo però la propria norma anti-evasione, per cui il proprietario deve autocertificare di essere in regola con i tributi locali, salvo eventuali verifiche.
Ancora più avanzato è il processo di recepimento dei modelli per la segnalazione certificata di inizio attività (Scia) e il permesso di costruire, che sono già realtà anche in Puglia e Veneto.
A tenere sotto controllo la fase di applicazione di questa norma della riforma Pa c’è l’ufficio Semplificazione del dipartimento della Funzione pubblica, che pubblicherà online l’avanzamento comunicato dalle Regioni. L’ultima tappa di avvicinamento delle procedure in edilizia sarà il regolamento edilizio tipo,che l’agenda di Renzi fissa al primo trimestre di quest’anno.
Resta al palo, invece, la semplificazione online. Entro oggi tutte le amministrazioni -centrali e locali- avrebbero dovuto approvare un piano per l’informatizzazione delle procedure, in modo da rendere la vita più facile a cittadini e imprese impegnati nella compilazione e nell’inoltro di istanze, dichiarazioni e segnalazioni. E questo grazie, da una parte, alla modulistica standard e, dall’altra, alla comodità di poter fare tutto da casa. Il sistema dovrebbe, inoltre, permettere di tracciare l’istanza attraverso l’individuazione del responsabile del procedimento e dovrebbe dare indicazioni sui tempi di chiusura della pratica.
Nulla, però, al momento si è mosso. E questo anche perché la norma che ha previsto i piani (l’articolo 24 del Dl 90 di riforma della Pubblica amministrazione) rimanda allo Spid, il Sistema pubblico per la gestione dell’identità digitale di cittadini e imprese, necessario per permettere l’autenticazione dei cittadini e delle imprese che vogliono accedere alle future procedure di compilazione e inoltro delle istanze. Lo Spid, però, per quanto abbia superato positivamente i primi test messi a punto dall’Adig (l’Agenzia per l’Italia digitale), è ancora di là da essere operativo. Secondo i piani del Governo il nuovo sistema dovrebbe debuttare entro aprile. Fino ad allora, la semplificazione online può aspettare
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIPer i piccoli Comuni chance-fusioni. Enti locali. L’allarme di Legautonomie sui tagli - Filippeschi confermato al vertice.
Su 16,6 miliardi di tagli assestati alla spesa pubblica dall’ultima legge di stabilità, «il 49% è a carico di Regioni, Province e Comuni», ma nel caso degli enti locali gli effetti della “cura” sono aggravati dagli inciampi ordinamentali, a partire dalla «evidente mancanza di coordinamento tra disposizioni e tempi d’attuazione della legge Delrio» e manovra, e dai «pasticci sul personale stanno seriamente pregiudicando l’esercizio delle funzioni delle Province, spingendole sull’orlo del default».
Parte da questo allarme l’agenda degli impegni di Legautonomie, l’associazione che riunisce circa 2.500 enti tra Comuni, Province, Regioni e Comunità montane e che ieri ha chiuso a Firenze il proprio XIX congresso nazionale confermando come presidente il sindaco di Pisa Marco Filippeschi.
È il suo mandato, definito dall’ordine del giorno approvato in chiusura dal congresso, a indicare però il dato chiave per la futura rappresentanza degli enti locali: in programma c’è infatti «la massima integrazione dei livelli politici e delle strutture tecniche nazionali e regionali» di Legautonomie e Anci, per tradurre in pratica il protocollo d’intesa firmato a Milano dalle due associazioni a novembre e arrivare a «costruire un interlocutore unico, stabile e coeso in rappresentanza dei Comuni e degli enti territoriali». L’obiettivo è duplice: «alleggerire gli oneri della rappresentanza politico-istituzionale», andando incontro alle richieste di opinione pubblica e amministratori locali fino ad arrivare a una «quota unica» di adesione, e creare un soggetto in grado di concentrare da solo il peso politico degli enti locali nella complicata fase di riforma che stanno attraversando.
Le Province sono infatti solo uno dei temi nell’agenda di queste settimane, e si affiancano alla questione delle Città metropolitane che condividono con gli enti di area vasta la super-spending da un miliardo (due miliardi nel 2016 e tre nel 2017), ma non l’alleggerimento delle funzioni. Per superare la contraddizione fra compiti in aumento e risorse in calo drastico, gli amministratori locali chiedono di rivedere la distribuzione dei tagli, e rilanciano sull’attuazione del decreto sul federalismo regionale e provinciale (Dlgs 68/2011) che avrebbe dato nuove entrate alle Città metropolitane ma è rimasto sulla carta.
Sulle Unioni di Comuni, il Milleproroghe ha invece in serbo l’ennesimo rinvio, che secondo Legautonomie deve però essere sfruttato per far partire una effettiva «riforma dal basso», che secondo Filippeschi deve spingere verso «un riordino territoriale centrato sulle fusioni di Comuni»; in questo quadro, le fusioni dovrebbero gestire bilanci, personale, programmazione e servizi, mentre l’identità storica e la partecipazione democratica rimarrebbero in capo ai singoli municipi. Per accompagnare queste proposte Legautonomie, che l’anno prossimo festeggia il centenario, rimarrà comunque in vita come soggetto autonomo, sotto forma di Fondazione politico-culturale
 (articolo Il Sole 24 Ore del 15.02.2015).

ENTI LOCALI - VARI: Vigili su tutte le strade Con o senza autovelox.
La polizia municipale può attivare di propria iniziativa pattuglie per il controllo dell'eccesso di velocità su qualsiasi strada dentro o fuori al centro abitato. L'autorizzazione del prefetto infatti condiziona unicamente l'installazione dei misuratori fissi automatici e non certo l'impiego dei vigili sul territorio.

Lo ha chiarito il Ministero dei trasporti con il parere n. 243/2015.
Si dubita spesso sulla possibilità di intervento della polizia locale fuori dal centro abitato, specialmente con misuratori autovelox posizionati su strade di grande percorrenza senza alcuna autorizzazione formale del prefetto.
A parere del ministero questa attività di controllo è perfettamente legittima, ma solo con l'impiego di misuratori presidiati da una pattuglia. Per quelli automatici occorre infatti l'autorizzazione del rappresentante governativo, specifica la nota. Del resto l'attività di coordinamento svolta dal prefetto per i servizi polizia stradale è finalizzata ad evitare una sovrapposizione operativa delle diverse forze di polizia, nel rispetto delle pari competenze attribuite ex lege.
Salvo i controlli autostradali che possono essere esercitati solo dalla specialità della polizia di stato infatti «non si evince alcuna condizione giuridica che possa legare una esclusiva attività di controllo da parte di un organo accertatore a una particolare tipologia di strada».
Vigili, carabinieri e polizia stradale sono dunque parificati dal punto di vista della vigilanza stradale. Per quanto riguarda la polizia municipale, prosegue la nota, nessuna limitazione può essere imposta all'attività di controllo dei vigili nel territorio comunale anche se si tratta di strade provinciali, regionali o statali. In pratica la polizia locale nell'attività di controllo stradale non ha limiti ulteriori rispetto al confine geografico del proprio territorio. Solo per l'installazione degli autovelox fissi e automatici serve sempre l'autorizzazione del prefetto.
Per il resto i vigili urbani dipendono dai sindaci e dalla legge 65/1986 che almeno in materia di vigilanza stradale non pone limitazioni particolari. Ai prefetti resta l'attività di coordinamento delle diverse pattuglie (articolo ItaliaOggi del 14.02.2015).

EDILIZIA PRIVATA: PERITI INDUSTRIALI/ Lavori in casa, fai-da-te illusorio. Impossibile gestire le pratiche senza l'aiuto di professionisti. Il Consiglio nazionale contesta lo spot governativo sulle misure di semplificazione.
Trenta secondi per pubblicizzare una deregulation selvaggia, mascherata da una nuova semplificazione. Per di più a danno dei cittadini. Tanto dura, infatti, lo spot del governo «Campagna di comunicazione Agevolazioni sulla casa» che in meno di un minuto tenta di promuovere in maniera del tutto fuorviante le misure di semplificazione edilizia contenute nel decreto Sblocca Italia (legge n. 164/2014).
Il principio di fondo, cioè semplificare, abbattendo i costi, alcune procedure per intervenire e modificare gli immobili, non sarebbe sbagliato. Sbagliato è come viene presentato nel messaggio promozionale pensato dal ministero delle infrastrutture e in onda nelle ultime settimane sulle reti televisive, radiofoniche e sul web.
In sostanza, secondo la pubblicità «oggi è tutto più semplice», e se il cittadino non modifica la volumetria complessiva e non interviene sulla struttura della casa, non ha più bisogno del permesso di costruzione. Perché, dice il messaggio, basta una semplice comunicazione di fine lavori (nella versione iniziale della norma era all'inizio) al Comune. E «all'accatastamento ci pensa il comune», del resto «è casa tua, ci pensi tu».
Se l'iniziativa merita il plauso dal punto di vista del principio ispiratore, cioè quello della semplificazione, non è lo è per quanto riguarda i contenuti. Lo spot informa che sono «poche e semplici le incombenze a carico di intende ristrutturare casa, dividerla o unirne due attigue», visto che basta effettuare la «comunicazione al comune» e presentare «un numero esiguo di documenti, nessun contributo di costruzione». Ma non è così e spiega il presidente del Cnpi Giampiero Giovannetti, «l'effetto sarà esattamente quello opposto alla semplificazione che come categoria tecnica auspichiamo da tempo». Innanzitutto i cittadini non possono gestire direttamente la pratica catastale, avranno difficoltà anche solo a seguirne la tracciabilità e soprattutto non disporranno più di tutte le informazioni determinanti per gli atti che interessano il patrimonio immobiliare italiano.
In secondo luogo, poiché come dice la norma stessa, la comunicazione di inizio lavori deve essere tempestivamente inoltrata dal Comune all'agenzia delle entrate per l'accatastamento, significa che entrambi devono essere attrezzati per la gestione anche telematica delle pratiche. Ma non solo né i comuni né l'Agenzia delle entrate si occupano delle variazioni catastali, oltretutto l'invito ad inviare le comunicazioni on-line sembra non tener in alcun conto quella che è la realtà del paese e cioè che la maggior parte degli 8 mila comuni italiani non sono attrezzati a ricevere le pratiche in modalità telematica.
In ogni caso se pure all'accatastamento ci pensa il comune, questo potrà avvenire, spiega ancora il presidente dei periti industriali, «solo dopo che il tecnico avrà verificato le norme, eseguito il progetto e asseverato la pratica. Affermare che d'ora in avanti, grazie alle misure contenute nel provvedimento, per qualsiasi lavoro di ristrutturazione edilizia basterà solo comunicare al Comune la fine dei lavori da parte del committente, senza prevedere la presenza e la consulenza di un professionista tecnico abilitato, significa rischiare che si eseguano interventi che minano l'integrità strutturale degli edifici, mettendo a rischio l'incolumità dei cittadini».
Per l'Agenzia dell'entrate, invece, sarà impensabile provvedere in tempo reale a tutto questo, considerando che tra le opere di manutenzione straordinaria sono incluse la fusione e il frazionamento di unità immobiliari, senza modifica di planimetria e destinazione d'uso. In questo senso, spiega ancora Giovannetti, «è facile immaginare le conseguenze di un simile ritardo con nuovi arretrati nell'aggiornamento catastale e soprattutto un totale scollamento dei dati che deriverà dalla mancanza di dialogo tra le due amministrazioni deputate, di norma, a svolgere ruoli e funzioni differenti. E infine chi lo ha detto che non dovrà esserci nessun contributo? Insomma», chiude Giovannetti, «
si tratta di informazione illusorie che raccontano una realtà ancora non operativa, ma che oltretutto porteranno a conseguenze gravi anche in termini di sicurezza. La norma va assolutamente modificata» (articolo ItaliaOggi del 13.02.2015).

APPALTIPer gli enti slitta a settembre l’obbligo della centrale unica. Milleproroghe. In caso di appalti o di acquisti da parte della Pa.
Attenuazione dell’impatto negativo dello split payment sulle imprese che lavorano in appalto con la Pa. Riapertura delle rateizzazioni di Equitalia per chi è decaduto dal beneficio. In arrivo anche il differimento al 1° settembre dell’obbligo per i comuni di dotarsi delle centrali uniche di acquisto e il via libera del Governo all’emendamento di Scelta civica per far rivivere, per tutto il 2015, il regime del 5% per le piccole partite Iva.
Sono solo alcune delle novità che andranno a modificare il Dl Milleproroghe all’esame congiunto delle commissioni Bilancio e Affari costituzionali della Camera. Un esame “a passo lento”, che vedrà una coda di lavori delle due commissioni nel prossimo week end, e fortemente condizionato dai lavori dell’Aula di Montecitorio ormai in seduta permanente sulle riforme costituzionali.
Tra gli emendamenti non ancora depositati ma dati in arrivo dagli stessi relatori del provvedimento, Maibo Marchi (Pd) e Francesco Paolo Sisto (Fi), con tanto di via libera del Governo, spiccano quelli su partite Iva e sfratti. Sulle partite Iva, come già anticipato su queste pagine, arriverà un emendamento presentato da Scelta Civica (a firma Giulio Sottanelli) che prevede il ripristino del regime dei minimi (sostitutiva al 5% e ricavi per tutti fino a 30mila euro), con la possibilità di opzione tra questo e il nuovo regime forfettario introdotto con la legge di stabilità 2015 (aliquota al 15% e ricavi differenziati tra categorie e legati a specifici coefficienti di redditività). Sul blocco dell’esecuzione degli sfratti si lavora a una “mini-proroga” fino a giugno prossimo e comunque limitato alle situazioni più critiche e che coinvolgono le famiglie più disagiate.
Nel pacchetto di emendamenti presentati, sempre dai due relatori, emerge il tentativo di attenuare gli impatti negativi dello split payment, ovvero il pagamento dell’Iva da parte della Pa direttamente all’Erario e non più ai fornitori. In questo senso, infatti, va letto l’aumento dal 10 al 15% della quota dell’importo totale di un appalto pubblico da corrispondere come anticipazione del prezzo all’appaltatore. «Si tratta di ottima notizia», ha commentato a caldo il presidente dell’Ance, Paolo Buzzetti: «un primo segnale di attenzione necessario a ristabilire un corretto rapporto tra amministrazione e imprese di costruzione piegate in questi anni da una grave crisi di liquidità».
Buone notizie in arrivo anche per i debitori del Fisco. Con un altro emendamento dei relatori chi è decaduto dal piano di rateizzazione concesso da Equitalia entro il 31.12.2014 potrà ottenere la riapertura dei termini, fino a luglio 2015, per richiedere la concessione di un piano di rateizzazione delle cartelle fino a un massimo di 72 rate mensili. Così come era già accaduto vien anche previsto lo stop a nuove azioni esecutive nei confronti di chi presenta la richiesta del piano di rateazione. Lo strumento della rateazione, per altro, è sempre più utilizzato da imprese e cittadini in debito con l’amministrazione. Secondo gli ultimi dati resi noti ieri da Equitalia sul suo profilo ufficiale Twitter (@equitalia_it) le rateizzazioni ad oggi sono 2,6 milioni per un importo complessivo di 28,4 miliardi.
Slitta all’11.07.2015 il termine entro cui i comuni devono indire i bandi di gara per la distribuzione del gas naturale. In questo lasso di tempo saranno quindi sospese tutte le sanzioni previste. Pronto a slittare al 30.07.2015 il termine entro il quale gli enti locali interessati, anche consorziati tra loro, possono richiedere il mantenimento degli uffici del giudice di pace.
Anche se non ancora presentata potrebbe arrivare a breve l’ennesima proroga, “almeno fino al 1° settembre” dell’obbligo per i Comuni non capoluogo di Provincia di ricorrere alle centrali uniche per i propri acquisti. Come per gli obblighi di gestione associata, già prorogati al 2016 con un emendamento approvato nei giorni scorsi (si veda anche Il Sole 24 Ore del 5 febbraio), anche in questo caso si tratta di una regola ormai classica delle spending review, introdotta con l’obiettivo di evitare sprechi e ridurre le spese per «consumi intermedi» delle Pubbliche amministrazioni, ma mai “accompagnata” verso l’attuazione.
Con un emendamento già depositato dai relatori viene prorogata al 31.12.2016 la possibilità di acquisire la titolarità di una farmacia con la sola iscrizione all’albo dei farmacisti, mentre per tutto il 2015 opererà la sospensione, nei confronti del Comune dell’Aquila, delle sanzioni in materia di patto di stabilità interno.
Tra le modifiche proposte dai relatori c’è anche la proroga di due anni degli incentivi per il rientro dei cervelli con l’estensione a tutto il triennio 2015-2017 del regime fiscale agevolato per chi rientra a lavorare in Italia introdotto nel 2011 (legge 238/2010) e in scadenza per l’anno d’imposta 2015. Questo regime agevolato prevede che i redditi di lavoro dipendente, quelli di impresa e quelli di lavoro autonomo percepiti dalle persone fisiche entrano nell’imponibile solo nella misura del 20% per le lavoratrici e del 30% per i lavoratori
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.02.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il Mud del 2015 trova le regole di compilazione. Software di Unioncamere per la dichiarazione ambientale.
È disponibile sul sito www.mud.ecocerved.it il software di Unioncamere per la compilazione del Mud 2015 e il prodotto informatico per il controllo formale delle dichiarazioni trasmesse dai soggetti che utilizzano prodotti software diversi da quello predisposto dall'ente camerale.

L'allegato 1 al Dpcm del 17/12/2014, contenente le istruzioni, prevede che l'Unioncamere metta a disposizione dei dichiaranti il software per la compilazione delle comunicazioni rifiuti speciali, imballaggi, veicoli fuori uso, rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche e il prodotto informatico per il controllo formale delle dichiarazioni trasmesse dai soggetti che utilizzano prodotti software diversi da quello predisposto da Unioncamere, per la presentazione telematica.
Il modello Mud (modello unico di dichiarazione ambientale) va presentato entro il 30 aprile prossimo presso la camera di commercio competente per territorio, in cui ha sede l'unità locale, cui si riferisce la dichiarazione. Il nuovo modello (contenuto Dpcm del 17/12/2014) si è reso necessario per apportare alcune modifiche alle schede, in particolare per quanto riguarda le attività di gestione. Migliorare le istruzioni, con riferimento, in particolare, alle informazioni sui materiali secondari e quelle contenute nelle autorizzazioni degli impianti di incenerimento e coincenerimento per quanto attiene alla capacità annua autorizzata.
Aggiornare la normativa di riferimento tenuto conto che, ad oggi, il Sistri risulta ancora non completamente operativo e che il dlgs n. 151/2005 è stato abrogato e sostituito dal dlgs n. 49/2014 relativo al recepimento della direttiva 2012/19/Ce sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche. Il nuovo modello Unico di dichiarazione ambientale è diviso in sei comunicazioni: rifiuti, veicoli fuori uso, imballaggi, rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, rifiuti urbani e assimilati e produttori di apparecchiature elettriche ed elettroniche.
I soggetti che svolgono attività di solo trasporto e goli intermediari senza detenzione devono invece presentare il Mud alla camera di commercio della provincia nel cui territorio vi è la sede legale dell'impresa cui la dichiarazione si riferisce. Deve essere presentato un Mud per ogni unità locale che sia obbligata dalla normativa vigente (articolo ItaliaOggi del 12.02.2015).

CONSIGLIERI COMUNALISindaci, rimborsi per i contributi dei professionisti. Enti locali. La riforma del Testo unico.
Fissazione per legge della copertura contributiva ai lavoratori autonomi che diventano sindaci e assessori, estensione dei rimborsi per i permessi retribuiti, gli oneri previdenziali, assistenziali e assicurativi agli amministratori delle Unioni di Comuni, ma anche maggiore flessibilità negli incarichi nei piccoli Comuni, dove non c’è personale dirigenziale, e l’estensione delle regole per i contratti integrativi nel caso di incorporazione di Comuni.
Sono tante le regole che interessano lo status di sindaci, amministratori e personale dei Comuni in arrivo con la riforma del Testo unico degli enti locali, preparata dal Governo e destinata a essere etichettata come collegato alla legge di stabilità 2015 per ottenere un percorso preferenziale in Parlamento.
Al disegno di legge, pronto per il consiglio dei ministri, ha lavorato il Viminale, che ha coordinato un complesso tavolo di lavoro per trovare soluzioni preventive e concordate ai principali problemi sul tavolo. «Abbiamo coinvolto prima di tutto la Funzione pubblica, gli Affari regionali e l’Economia –spiega Gianpiero Bocci (Pd), il sottosegretario all’Interno che ha guidato il lavoro– e poi gli amministratori locali, con l’obiettivo di rimettere ordine in un sistema frammentato dai continui interventi normativi degli ultimi anni. È stato un percorso molto partecipato, che ha chiesto tempo ma ci permette ora di partire dopo aver già risolto molte questioni».
Il disegno di legge, di 13 articoli, è diviso in due parti: una legge delega, che richiederà fino a 24 mesi per i decreti attuativi e che promette novità ad ampio raggio su tutta la disciplina statale degli enti locali (la delega “lunga” serve anche a coordinarsi con le modifiche del Titolo V in discussione in Parlamento), e un pacchetto di regole immediatamente operative.
A questo secondo capitolo appartengono le regole sullo status degli amministratori locali, a partire da quella in cui vengono fissate le garanzie per i lavoratori autonomi che si impegnano in politica. Il problema è aperto da anni, da quando le sezioni regionali della Corte dei conti prima e la Funzione pubblica poi hanno stabilito che gli autonomi, non potendo fruire di periodi di aspettativa, non possono vedersi rimborsare i contributi. L’unica alternativa, per i professionisti, sarebbe la rinuncia esplicita all’attività, che però farebbe venir meno l’iscrizione alla cassa.
Per risolvere il problema, il disegno di legge riconosce espressamente agli autonomi il diritto ai rimborsi dei contributi, a carico degli enti. Lo stesso diritto, oltre ai rimborsi spese, viene poi esteso ai componenti degli organi istituzionali delle Unioni di Comuni. Nelle Unioni sopra i 10mila abitanti tornerà inoltre il collegio dei revisori, all’interno di un pacchetto di regole che promettono novità importanti per i professionisti impegnati nel controllo dei bilanci (si veda anche Il Sole 24 Ore del 7 febbraio).
Nei piccoli Comuni, dove non ci sono dirigenti, sarà poi più facile attribuire incarichi dirigenziali anche in deroga alle disposizioni contrattuali, purché ci sia coerenza fra il compito e i titoli di studio dell’interessato. E sempre ai Comuni più piccoli, oltre che a quelli in dissesto, guarda la norma che introduce la possibilità di lanciare un «sos» al Prefetto per l’utilizzo temporaneo di personale amministrativo e tecnico di altre Pa della regione
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIDa ieri lo split payment non «perdona» più. Iva e pubblica amministrazione. Il quadro sanzionatorio dopo la circolare delle Entrate.
Da ieri lo split payment fa sul serio e le eventuali irregolarità si pagano care in termini di sanzioni. Per gli enti pubblici il monitoraggio automatizzato collegato alla fattura elettronica, operativa dal 31 marzo prossimo, renderà evidenti gli omessi versamenti dell’Iva. Comunque per il periodo antecedente al 09.02.2015 nessuna sanzione e qualche adempimento.
Sanzioni
Gli effetti sanzionatori che da ieri si rendono applicabili sono per i fornitori che non applicano correttamente il regime: la sanzione del 100% dell’imposta relativa all’operazione irregolarmente fatturata di cui all’articolo 6, comma 1, del Dlgs 471/1997. Per l’ente pubblico che acquista il bene o il servizio nell’ambito commerciale è quella dell’articolo 6, comma 8, per non aver regolarizzato la fattura irregolarmente emessa dal fornitore (sempre il 100% dell’imposta relativa). Per lo stesso ente pubblico che acquista il bene o il servizio nella sfera istituzionale la sanzione scatta solo per l’eventuale omesso o insufficiente versamento dell’imposta pari al 30% del dovuto.
Monitoraggio e controlli
L’articolo 6 del decreto prevede che al fine del monitoraggio dei versamenti Iva da split payment l’agenzia delle Entrate, d’intesa con il Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, acquisirà ed elaborerà in automatico le relative informazioni attraverso il flusso delle fatture elettroniche obbligatorie in via generalizzata dal 31.03.2015 (il controllo riguarderà la corrispondenza tra l’importo dell’Iva dovuta e quello dell’Iva versata per ciascun mese di riferimento).
Si deve osservare però che il metodo di assolvimento dell’imposta stabilito dall’articolo 5 del decreto per gli acquisti delle Pa relativi alla sfera commerciale e promiscua potrà generare differenze rispetto a quanto desumibile dal flusso elettronico e dei versamenti effettuati da ciascun ente. Infatti l’assolvimento dell’imposta avviene unitamente alla gestione e liquidazione dell’Iva relativa alle attività commerciali dell’ente con versamento che risentirà della detrazione dell’imposta sugli acquisti e della presenza di altri crediti Iva.
Periodo transitorio
L'Agenzia con la circolare fornisce una interpretazione benevola in materia di sanzioni a carico dei fornitori e delle Pa interessate, in considerazione dell’incertezza in materia. Vengono fatti salvi, infatti, i comportamenti adottati dai fornitori e dalle Pa ai quali non verranno applicate sanzioni per le violazioni, relative alle modalità di versamento dell’Iva per le operazioni soggette alla scissione dei pagamenti, eventualmente commesse prima del 09.02.2015 (data di emanazione della circolare), purché l’Iva esigibile venga corrisposta all’erario.
Ove la Pa, dopo il 01.01.2015, abbia corrisposto al fornitore l’Iva addebitata nelle fatture emesse a partire dalla medesima data e, a sua volta, il fornitore abbia computato in sede di liquidazione, secondo le modalità ordinarie, l’Iva incassata dalle Pa, non occorrerà effettuare alcuna variazione.
Se il fornitore, ha erroneamente emesso fattura con l’annotazione «scissione dei pagamenti» a carico di Pa non rientrante nella disciplina, lo stesso dovrà correggere il proprio operato ed esercitare la rivalsa nei modi ordinari, con la conseguenza che la Pa dovrà corrispondere al fornitore anche l’Iva relativa all’acquisto.
Se invece è la Pa che ha erroneamente ritenuto di rientrare nel perimetro soggettivo dello split payment e ha indebitamente trattenuto l’Iva esposta in fattura, la stessa dovrà erogare l’imposta al fornitore a saldo della fattura e quest’ultimo dovrà computare in sede di liquidazione, secondo le modalità ordinarie, l’Iva incassata dalle Pa.
È ragionevole poter affermare che le Pa potranno comunque procedere alla regolarizzazione delle operazioni del primo trimestre 2015, fino al momento in cui deve essere eseguito il versamento transitoriamente previsto entro il 16.04.2015 dall’articolo 9 del decreto ministeriale.
Analogo trattamento non pare invece essere riservato ai fornitori delle Pa, i quali per le irregolarità commesse nella fatturazione e nel versamento dell’imposta successivamente alla data del 09.02.2015 potrebbero essere assoggettati alle sanzioni ordinariamente previste anche se le Pa interessate procedono alla regolarizzazione sostanziale del versamento entro il termine del 16.04.2015
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTISplit payment a portata ridotta. Restano escluse le piccole spese degli enti pubblici. Circolare delle Entrate sul meccanismo di scissione dei pagamenti (legge 190/2014).
Lo split payment riguarda solo le operazioni documentate mediante fattura e non quelle certificate dal fornitore mediante il rilascio della ricevuta o dello scontrino.

È questo il principale chiarimento fornito dalla circolare n. 1/E dell'Agenzia delle entrate diffusa ieri per fornire i primi chiarimenti interpretativi sul nuovo meccanismo della scissione dei pagamenti introdotto dall'art. 1, comma 629, lettera b), della legge 190/2014.
Il documento di prassi, inoltre, definisce in modo puntuale ed estensivo l'ambito di applicazione soggettiva dell'istituto e condona le sanzioni per le violazioni commesse prima della sua diffusione. Sono soggetti allo split payment tutti gli acquisti di beni e servizi effettuati dalle pa, sia nella loro veste istituzionale che nell'esercizio di attività d'impresa.
La circolare, però, precisa che restano escluse tutte le operazioni certificate dal fornitore mediante il rilascio della ricevuta fiscale, dello scontrino fiscale e non fiscale, ovvero altre modalità semplificate di certificazione specificatamente previste. In tal modo, sono fatte salve, ad esempio, le piccole spese degli enti pubblici, il cui assoggettamento alla scissione dei pagamenti avrebbe determinato enormi difficoltà operative. Tale conclusione era già desumibile dal tenore del dm attuativo del 23 gennaio scorso, che si riferiva alle sole «operazioni fatturate», ma l'intervento dell'Agenzia sgombra il campo da dubbi. Da notare che non è previsto esplicitamente alcun limite di importo all'esclusione.
Il secondo elemento importante riguarda l'estensione soggettiva dello split, che la norma istitutiva definisce mediante un'elencazione di uguale contenuto rispetto a quella recata dall'art. 6, comma 5, secondo periodo, del dpr 633/1972, che ha ad oggetto l'applicabilità, alle operazioni effettuate nei confronti delle pa ivi indicate, dell'esigibilità differita dell'Iva all'atto del pagamento dei relativi corrispettivi. Tuttavia, mentre in questo caso era stata imposta un'interpretazione restrittiva, nel caso dello split (considerate le sue finalità antielusive) le Entrate optano per una lettura estensiva.
Pertanto, esso si applica anche, ad esempio, alle istituzioni scolastiche e di alta formazione artistica, musicale e coreutica, agli enti locali diversi da province e comuni (ossia comunità montane, comunità isolane e unioni di comuni), alle unioni regionali delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, alle aziende sanitarie locali e alle aziende ospedaliere (ad eccezione degli enti ecclesiastici).
Rientrano anche Irccs, enti pubblici di assistenza e beneficenza e enti pubblici di previdenza. Da questo lungo elenco rimangono fuori gli enti previdenziali privati o privatizzati, le aziende speciali (ivi incluse quelle delle camere di commercio) e gli enti pubblici economici che operano con un'organizzazione imprenditoriale, gli ordini professionali, gli Enti ed istituti di ricerca, le Agenzie fiscali, le Autorità amministrative indipendenti, le Agenzie regionali per la protezione dell'ambiente, gli Automobile club provinciali, l'Aran, l'Agid, l'Inail e l'Ispo.
Infine, la circolare precisa che, in considerazione dell'incertezza normativa conseguente all'immediata applicazione dello split alle fatture emesse a partire dal 1° gennaio, sono fatti salvi i comportamenti finora adottati dai contribuenti, ai quali, pertanto, non saranno applicate sanzioni per le violazioni commesse anteriormente all'emanazione del documento di prassi.
Ne deriva che ove le pa abbiano corrisposto al fornitore l'Iva ad esse addebitata in relazione ad operazioni fatturate a partire dalla medesima data e, a sua volta, il fornitore abbia computato in sede di liquidazione, secondo le modalità ordinarie, l'imposta incassata, non occorrerà effettuare alcuna variazione (articolo ItaliaOggi del 10.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIChiarimenti sull’Iva per «Pa» e fornitori.
Primo round di chiarimenti sulla scissione (split payment) dell’Iva nei rapporti fra Pa e fornitori. L’agenzia delle Entrate, in particolare, con una circolare spiega che non saranno sanzionate le violazioni eventualmente commesse in buona fede.

Per individuare i soggetti pubblici sottoposti al nuovo regime dello split payment non basta far riferimento all’articolo 6, comma 5, del Dpr 633/1972 (da cui prende le mosse il nuovo articolo 17-ter dello stesso decreto), ma trattandosi di un regime introdotto con fine antievasione bisogna tener conto anche della ratio della norma. Da ciò discende ad esempio l’inclusione nello specifico regime delle Comunità montane ovvero dell’Unione dei comuni.
Inoltre, sul piano oggettivo la disposizione opera solo per le operazioni documentate da fattura. Risultano esclusi, ad esempio, gli acquisti certificati dal fornitore con scontrino e ricevuta fiscale. Infine niente sanzioni, ma possibilità di regolarizzazione degli errori commessi, per coloro che, dopo il 1° gennaio, hanno commesso errori nell’applicazione del regime. Sono questi i principali chiarimenti forniti dall’agenzia delle Entrate con la circolare 1/E di ieri.
Requisiti soggettivi
In relazione all’ambito soggettivo di applicazione del nuovo articolo 17-ter del Dpr 633/1972, la circolare chiarisce che l’elenco previsto dalla norma, di tenore analogo a quello previsto dall’articolo 6, comma 5, del Dpr 633/1972, deve essere applicato tenendo ben presente la ratio antievasione della disposizione. Quindi, mentre per l’articolo 6, comma 5 (norma agevolativa) l’interpretazione doveva essere restrittiva, per l’articolo 17-ter l’interpretazione può essere anche estensiva, purché rispetti i principi ispiratori della disposizione.
In particolare, il documento di prassi specifica:
- Per quanto lo Stato e gli organi dello Stato ancorché dotati di personalità giuridica include, ad esempio, le istituzioni scolastiche e le istituzioni per l’alta formazione artistica, musicale e coreutica (Afam);
- Per quanto riguarda gli enti pubblici territoriali e i consorzi tra essi costituiti ai sensi dell’articolo 31 del Testo unico degli enti locali (TUEL), include anche le Comunità montane, comunità isolane e le Unioni dei comuni;
Per quanto riguarda le Camere di commercio, comprende nell’obbligo di applicazione del nuovo regime anche le Unioni regionali delle camere di commercio;
- Per quanto riguarda le aziende sanitarie nazionali, sono da ricomprendersi anche gli enti pubblici istituiti a livello regionale che si sostituiscono alle aziende sanitarie locali e agli enti ospedalieri nell’approvvigionamento di beni e servizi destinati all’attività delle aziende stesse;
- Per quanto riguarda gli enti di assistenza e beneficenza vanno incluse le Ipab e le Asp.
Al contrario, tra i soggetti esclusi la circolare annovera, tra gli altri: gli ordini professionali; le agenzie fiscali; le autorità amministrative indipendenti (Agcom); l’Inail; l’Agid; le agenzie reginali per la protezione dell’ambiente (Arpa).
La circolare, comunque, oltre a fornire un dettaglio delle ipotesi incluse ed escluse, fornisce anche un suggerimento operativo individuando quale strumento di individuazione dei soggetti inclusi nell’obbligo: l’indice delle pubbliche amministrazioni (Ipa) che individua gli enti che sono riconducibili alle macrocategorie dell’articolo 17-ter.
Sanzioni
In ragione delle incertezze normative create dall’articolo 17-ter, le Entrate escludono la sanzionabilità di tutti gli errori commessi prima dell’emanazione della circolare. Inoltre, il documento specifica che: se l’ente pubblico ha corrisposto erroneamente al fornitore l’Iva anche in relazione alle operazioni fatturate dopo il 01.01.2015, a condizione che il fornitore adempi al versamento dell’imposta, non bisognerà fare niente per correggere le violazioni commesse; al contrario, ove il fornitore abbia emesso erroneamente una fattura con l’annotazione scissione dei pagamenti, lo stesso provvederà a correggere la violazione e la PaA verserà l’imposta direttamente al fornitore
 (articolo Il Sole 24 Ore del 10.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Permessi sanitari con dati generici. Privacy. Quando il lavoratore va in ospedale.
Il certificato di presenza in ospedale che occorre portare al datore di lavoro per giustificare un’assenza non deve riportare né il reparto in cui il paziente si è recato, né la specializzazione del medico che attesta la presenza. Se le riportasse, violerebbe la normativa sulla privacy. Ciò vale indipendentemente dal fatto che il lavoratore fosse lui stesso il paziente oppure accompagnasse una persona che per legge ha diritto a farsi assistere da lui.
Lo ha precisato il Garante della privacy in un’istruttoria avviata nei confronti di un policlinico segnalato da un paziente proprio per il fatto che il certificato rilasciato riportava indicazioni che potenzialmente sono idonee a svelare lo stato di salute dell’interessato.
L’istruttoria si è chiusa subito, perché il direttore sanitario del policlinico ha rimediato all’errore, diramando immediatamente a tutto il personale sanitario una nuova modulistica -priva dell’indicazione del reparto ove si è recato il paziente- e precise raccomandazioni per mettersi in regola con le disposizioni dettate dal Garante. In sostanza, le attestazioni devono essere di carattere generico perché l’unico dato rilevante ai fini del datore è la presenza della persona in un dato ospedale in un certo orario.
Un principio che il Garante desume dal proprio provvedimento generale sul rispetto della dignità nelle strutture sanitarie, emanato il 09.11.2005: alla lettera g) del paragrafo 3, vi si afferma che occorre «prevenire che soggetti estranei possano evincere in modo esplicito l’esistenza di uno stato di salute del paziente attraverso la semplice correlazione tra la sua identità e l’indicazione della struttura o del reparto presso cui si è recato o è stato ricoverato» e che «tali cautele devono essere orientate anche alle eventuali certificazioni richieste per fini amministrativi non correlati a quelli di cura», tra cui le “giustifiche” per assenze dal lavoro o da concorsi pubblici.
Analogamente, nel 2007, era stato richiamato un ospedale che aveva inviato un referto a casa di un paziente con l’indicazione del reparto. Più di recente, nel 2013, il Garante ha stabilito che la riservatezza va garantita anche nelle consegne a domicilio di presìdi sanitari. E il 14.11.2014 il Garante ha scritto una lettera alla Fimmg (la federazione dei medici di base) per puntualizzare che le ricette possono essere lasciate presso gli studi medici o le farmacie, purché in busta chiusa.
Restando in materia di riservatezza sulla salute del lavoratore, il Garante ha emanato linee guida il 13.12.2006: i dati sanitari vanno conservati in fascicoli separati e il certificato di malattia non deve riportare la diagnosi, ma la sola indicazione di inizio e durata presunta. Inoltre, il datore non può accedere alle cartelle sanitarie dei dipendenti sottoposti ad accertamenti dal medico del lavoro e, in caso di denuncia di infortuni o malattie professionali all’Inail, deve limitarsi a comunicare le informazioni connesse alla patologia denunciata
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.02.2015).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA - SICUREZZA LAVOROPer i lavori sul tetto degli edifici obbligatorie le «linee-vita». Sicurezza. Le responsabilità del condominio e del professionista.
Fra i ruoli che può ricoprire l’amministratore di condominio c’è anche quello del datore di lavoro. Lo è nei confronti di lavoratori dipendenti come il portiere o il giardiniere, ma anche, come previsto dal decreto legislativo 81/2008, Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro, quando il condominio commissiona, con un contratto d’appalto, lavori edili o d’ingegneria civile, vale a dire cantieri temporanei o mobili, che rientrano nel Titolo IV del Testo Unico.
In tali vesti, qualora avvengano incidenti e infortuni all’interno del cantiere, l’amministratore è responsabile sia dal punto di vista civile che penale. Per questo motivo, è suo compito verificare l’idoneità tecnico-professionale delle imprese coinvolte e garantire le migliori condizioni di sicurezza dei luoghi di lavoro.

In particolare, la recente sentenza della Cassazione penale (42347/2013) ha specificato che l’amministratore assume la posizione di garanzia propria del datore di lavoro nel caso in cui «proceda direttamente all’organizzazione e direzione di lavori da eseguirsi nell’interesse del condominio stesso». Ma anche ove non proceda direttamente, non è esonerato quale “committente” all’osservanza di quanto stabilito dall’articolo 26 del Dlgs 81/2008 (obblighi di verifica della idoneità tecnica-professionale dell’impresa appaltatrice, di informazione, di collaborazione e cooperazione).
Ciò a prescindere dal fatto che l’appalto dei lavori sia deciso attraverso una delibera assembleare o sia invece oggetto di una spontanea iniziativa dell’amministratore, nell’ambito dei suoi poteri conservativi e di urgenza, salvo ratifica assembleare (come l’articolo 1130, comma 1, numero 4, del Codice civile o articolo 1135, comma 2, del Codice civile).
Riguardo alla sicurezza dei luoghi di lavoro, particolarmente delicati sono gli interventi in quota, vale a dire tutti quei lavori «che espongono il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 metri rispetto a un piano stabile». (articolo 107 del Dlgs 81/2008). Fra i sistemi di protezione contro le cadute dall’alto rientrano le linee vita, un insieme di ancoraggi posti sulle coperture, alle quali gli operatori si agganciano attraverso imbracature e cordini. Le linee vita possono essere sia temporanee che stabili: nel primo caso sono utilizzate per il montaggio di prefabbricati e, una volta terminato il lavoro, vengono smontate; nel secondo caso, invece, sono installate in modo permanente sulle coperture degli edifici e utilizzate ogni qualvolta si debba procedere a opere di manutenzione.
La normativa nazionale sulle linee vita (Dlgs 81/2008, articolo 115 “Sistemi di protezione contro le cadute dall’alto”) a oggi è stata recepita solo da alcune regioni. In molti casi l’obbligo è limitato agli edifici di nuova costruzione o a quelli in cui è prevista manutenzione sulla copertura, anche se molte amministrazioni tendono a estenderne l’installazione anche per le ristrutturazioni significative di edifici esistenti. La prima regione a renderne obbligatoria l’istallazione è stata la Toscana, seguita da Liguria, Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Marche.
Prima di installare la linea vita (secondo la norma Uni En 795) occorre verificare che l’installatore abbia le necessarie abilitazioni e qualifiche. Il progetto deve essere redatto da un professionista, che al termine dei lavori di posa deve sottoscrivere la relazione di calcolo attestante la corretta installazione, corredata dall’attestazione di corretta posa rilasciata dal posatore. Il responsabile dell’edificio, inoltre, è comunque tenuto a custodire il libretto d’uso e manutenzione del sistema, così da essere tutelato in caso di eventuali incidenti. Inoltre, ogni volta che siano previsti interventi con l’utilizzo della linea vita, il responsabile dell’edificio è tenuto a informare gli operatori della presenza dell’impianto e delle sue caratteristiche, in modo tale che gli operatori si possano dotare dei dispositivi di protezione individuale più adeguati.
Subito dopo l’installazione, la normativa prevede di verificare la resistenza del fissaggio, esercitando sugli ancoraggi una forza minima di 500 kg per 15 secondi. Quindi, periodicamente, la linea vita deve essere revisionata «almeno una volta all’anno se in regolare servizio o prima del riutilizzo se non usate per lunghi periodi», come previsto dalla Uni En 11158. Infine, in seguito all’arresto di una caduta, prima di procedere a un ulteriore uso, è obbligatorio ispezionare il sistema
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.02.2015).

EDILIZIA PRIVATADetrazione 65% non per tutti. Interventi di riqualificazione energetica con requisiti doc. Dai serramenti ai pannelli solari: le indicazioni dell'Enea per i lavori incentivanti.
L'immobile oggetto della qualificazione globale energetica alla data della richiesta della detrazione del 65% deve essere «esistente», ossia accatastato o con richiesta di accatastamento in corso. Deve essere in regola con il pagamento di eventuali tributi e dotato di impianto di riscaldamento. Per usufruire della detrazione del 65% gli interventi di riqualificazione energetica sugli immobili devono rispondere a determinati requisiti. I lavori devono rispettare limiti di dispersione che sono chiaramente tabellati o per l'intero edificio o per il singolo elemento costruttivo oggetto dell'intervento.
Queste le indicazioni principi che emergono da un vademecum Enea per i lavori incentivanti aggiornato al 26.01.2015 con le diverse schede tecniche.
Il vademecum è composto da sei schede riepilogative (serramenti e infissi, caldaie a condensazione, pannelli solari, pompe di calore, coibentazione pareti e coperture e riqualificazione globale) dei requisiti tecnici richiesti e della documentazione da approntare per usufruire della detrazione del 65%.
Anche nel caso di installazione di pannelli solari o di sostituzione della caldaia nelle abitazioni, tali impianti devono rispondere alle specifiche tecniche. I pannelli solari sugli immobili sono agevolabili anche a integrazione dell'impianto per la climatizzazione invernale esistente. Il rispetto dei limiti di dispersione e delle specifiche tecniche deve essere asseverato da un tecnico abilitato, iscritto al proprio ordine o collegio professionale. Per alcuni semplici interventi, tale asseverazione può essere sostituita da una dichiarazione del produttore dell'elemento posto in opera. Sono ammessi anche interventi su interi edifici ma in questo caso ciò che deve essere valutata è l'efficienza energetica complessiva al termine dei lavori.
Pompe di calore. L'intervento deve configurarsi come sostituzione integrale o parziale del vecchio impianto termico e non come nuova installazione . Le pompe di calore oggetto di installazione devono garantire un coefficiente di prestazione (Cop) e, qualora l'apparecchio fornisca anche il servizio di climatizzazione estiva, un indice di efficienza energetica (Eer) almeno pari ai pertinenti valori minimi. Qualora siano installate pompe di calore elettriche dotate di variatore di velocità (inverter), i pertinenti valori minimi sono ridotti del 5%.
In assenza di una specifica definizione del termine «sostituzione parziale» dell'impianto, consultato al riguardo anche il Mise, riteniamo che per usufruire di questi incentivi, al di là dei requisiti specifici che esso deve assicurare, diversi a seconda del tipo di impianto, l'intervento debba necessariamente comportare la sostituzione del generatore di calore e che possa poi eventualmente comprendere anche opere (di sostituzione o modifica) sulla rete di distribuzione, sui corpi di emissione e di controllo dell'intero impianto.
Conseguentemente, qualora l'impianto a pompa di calore assolva alla climatizzazione invernale dell'appartamento e non costituisca integrazione all'impianto già esistente, poiché ciascuna unità esterna può essere assimilata al generatore di calore, è opinione Enea che siano agevolabili ai sensi di questo comma anche quegli interventi «parziali» che consistono nella sua sola sostituzione.
Pannelli solari. I pannelli solari s'intendono agevolabili per la produzione di acqua calda per usi domestici o industriali e per la copertura del fabbisogno di acqua calda in piscine, strutture sportive, case di ricovero e cura, istituti scolastici e università. I pannelli solari e i bollitori impiegati devono essere garantiti per almeno cinque anni. Gli accessori e i componenti elettrici ed elettronici devono essere garantiti almeno due anni.
Nel caso di edifici sottoposti a ristrutturazioni rilevanti (ossia, edifici esistenti con superficie utile superiore a 1.000 mq, soggetti a ristrutturazione integrale degli elementi edilizi costituenti l'involucro o edifici esistenti soggetti a demolizione e ricostruzione), come riportato al comma 4 dell'articolo 11 del dlgs 28/2011, «gli impianti alimentati da fonti rinnovabili realizzati ai fini dell'assolvimento degli obblighi di cui all'allegato 3 del decreto stesso, accedono agli incentivi statali previsti per la promozione delle fonti rinnovabili, limitatamente alla quota eccedente quella necessaria per il rispetto dei medesimi obblighi». I pannelli solari devono possedere anche la certificazione solar keymark (obbligatoria dal 29.03.2013).
Coibentazione pareti. L'intervento deve configurarsi come sostituzione o modifica di elementi già esistenti (e non come nuova realizzazione) e deve delimitare un volume riscaldato verso l'esterno o verso vani non riscaldati.
Riqualificazione globale. Rientrano tra gli interventi agevolabili la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale anche con generatori di calore non a condensazione, gli impianti di cogenerazione, trigenerazione e gli interventi di coibentazione o di sostituzione di finestre. L'intervento deve assicurare un indice di prestazione energetica per la climatizzazione invernale non superiore ai valori limite definiti all'allegato A del dm 11/03/2008 e deve essere relativo all'intero edificio .
Enea e legge stabilità. Per quanto riguarda gli ecobonus del 65%, da quest'anno valgono anche per l'acquisto e la posa in opera delle schermature solari, ovvero per le spese sostenute nei prossimi 12 mesi fino a un valore massimo di 60 mila euro. Saranno detraibili le spese per tende esterne, chiusure oscuranti, dispositivi di protezione solare in combinazione con vetrate, e in generale le schermature.
Inoltre, l'ecobonus del 65% è stato ampliato alle spese per l'acquisto e la posa in opera di impianti di climatizzazione invernale dotati di generatori di calore alimentati da biomasse combustibili. Le spese devono essere sostenute nei prossimi 12 mesi fino a un valore massimo della detrazione di 30 mila euro. Questo è quanto si legge nella nuova «guida all'efficienza energetica per il 2015» messa a punto da Enea alla luce della legge di stabilità 2015.
Ristrutturazioni. La legge di stabilità 2015 rinnova, inoltre, le detrazioni del misura del 50% per le ristrutturazioni e del 65% per gli interventi di efficienza energetica. Confermata la proroga anche per gli interventi di efficientamento energetico che interessano le parti comuni degli edifici condominiali. Anche questi godranno dell'agevolazione maggiorata al 65% fino al 31.12.2015.
Per gli interventi di riqualificazione energetica, restano immutati i tetti massimi di spesa detraibili. 153.846 euro per la riqualificazione energetica, 92.307,69 euro per gli interventi sull'involucro e per l'installazione dei pannelli solari e 46.153,85 euro per la sostituzione di impianti di climatizzazione invernale. Per tutto il 2015 resterà al 65% anche la detrazione prevista per le spese destinate agli interventi antisismici e di messa in sicurezza statica.
Documenti. La documentazione obbligatoria per beneficiare delle detrazioni del 65% andrà inviata all'Enea che svolge un ruolo di raccolta e monitoraggio della documentazione relativa alle richieste presentate e un ruolo di assistenza tecnica agli utenti. Durante i sette anni di vigenza del programma di detrazioni fiscali per la riqualificazione energetica degli edifici, l'Enea ha rilevato o un continuo e significativo incremento degli interventi di riqualificazione energetica, grazie anche all'innalzamento della detrazione dal 55 al 65%.
Con il dlgs 175/2014, in vigore dal 13.12.2014, è stato soppresso l'obbligo di inviare una comunicazione per via telematica all'agenzia delle entrate, per i soli lavori che proseguono oltre il periodo di imposta (articolo ItaliaOggi Sette del 09.02.2015).

LAVORI PUBBLICIVia locale, percorso per gradi. Presto estesi i progetti sottoposti a verifica preliminare. La Conferenza stato-regioni detta le regole transitorie per lo screening ambientale.
Percorso a tappe per la verifica preliminare (c.d. «screening») della pericolosità di impianti e attività produttive di competenza locale, in vista della loro eventuale e successiva sottoposizione alla valutazione di impatto ambientale. Fino all'adozione da parte del Minambiente del futuro e atteso decreto in materia, infatti, i progetti subiranno un esame preventivo (allo stesso screening) sulla base delle linee guida definite dall'Ue, mentre dall'entrata in vigore del citato regolamento dovranno direttamente sottostare alla canonica verifica preliminare condotta secondo i più rigidi e nuovi criteri dimensionali dettati dal dicastero, a integrazione delle condizioni già previste dal codice ambientale.
A chiarire il regime transitorio previsto dall'articolo 15 del dl 91/2014 per le procedure di screening da parte di regioni e province autonome è una nota elaborata dalla Conferenza stato-regioni e diramata dal Minambiente lo scorso 15.01.2015.
Le indicazioni dello stato-regioni. L'accordo tra governo ed enti territoriali risponde alla necessità di evitare gravose procedure burocratiche per i piccoli impianti che non hanno effettivi impatti negativi sull'ambiente, stante la momentanea disapplicazione sancita dal citato dl 91/2014 delle soglie dimensionali minime previste dal dlgs 152/2006 che escludono dallo screening proprio i progetti di ridotte misure, disapplicazione dettata al fine di consentire l'adeguamento dell'Italia alle direttive Ue in materia di Via e sancita fino all'entrata in vigore del relativo dm ambiente.
Gli impianti interessati. I progetti locali interessati dalla «verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale» (fase preliminare diretta a individuare l'effettiva sussistenza di impatti negativi e significativi sull'ambiente che nel caso fa poi scattare la procedura di Via) sono quelli individuati dall'allegato IV alla parte seconda del dlgs 152/2006 e abbracciano trasversalmente tutte le attività produttive: dall'allevamento agricolo intensivo alla produzione energetica, passando dalla lavorazione di metalli, alimenti, legno e carta per finire agli impianti di gestione rifiuti e ai camping.
Il regime transitorio. In base alla nota stato-regioni, nelle more dell'operatività del citato decreto ministeriale, la procedura preliminare di assoggettabilità a Via è da effettuarsi «caso per caso» (dunque sui singoli progetti, e non su intere tipologie o sottoinsiemi di queste) utilizzando la guida della commissione europea «Guidance on Eia – Screening – 2001». E in considerazione, come sottolinea la stessa nota, che non tutti gli impianti in parola hanno effettivi impatti negativi sull'ambiente, procedendo secondo un duplice step: un esame preliminare condotto secondo le «check list» previste dalla citata guida metodologica Ue; l'eventuale successiva vera e propria verifica preliminare di «screening» prevista dall'articolo 20 del dlgs 152/2006. All'esito di quest'ultima, come previsto dal codice ambientale, le autorità locali decideranno poi se escludere o meno i progetti dalla canonica procedura di valutazione di impatto ambientale.
Il regime a norma. Una volta in vigore l'atteso dm ambiente adottato in attuazione dell'articolo 6 del dlgs 152/2006 (come modificato dal dl 91/2014 e successiva legge di conversione) la procedura di screening dovrà invece essere condotta (in base al dettato dell'articolo 20, stesso Codice ambientale) secondo le nuove regole risultanti dal combinato disposto di tali due provvedimenti. Lo schema di decreto già predisposto dal dicastero prevede infatti una implementazione dei criteri contenuti nell'allegato V al dlgs 152/2006 e necessari per verificare quali tra i progetti contenuti nell'allegato IV abbiano effettivi impatti negativi sull'ambiente (e siano quindi da sottoporre alla successiva e vera e propria valutazione di impatto ambientale).
È il caso, per esempio, del criterio «cumulo con altri progetti» previsto dal citato allegato V, in relazione al quale lo schema di dm in parola determina le fasce territoriali (fissandole in un chilometro dall'opera, derogabili dietro motivazione dalle regioni) che rendono obbligatoria la Via in caso di impianti limitrofi, e ciò per evitare frammentazioni artificiose dei progetti in unità minori al fine di eludere le soglie dimensionali che, se superate, fanno scattare la valutazione ambientale.
Ma il futuro dm inciderà anche (allargandola) sulla quantità degli impianti da sottoporre fin dall'inizio a verifica, e questo sancendo una riduzione del 50% delle citate soglie dimensionali previste dall'allegato IV del dlgs 152/2006 qualora si riscontri la presenza di almeno una delle condizioni specificate dal regolamento o la sussistenza di più criteri ex allegato V del codice ambientale.
Via e screening nel dlgs 152/2006. A livello generale, lo ricordiamo, in base alla parte II del Codice ambientale, la valutazione di impatto ambientale è obbligatoria per i progetti ex allegati II (di competenza statale) e III (di competenza locale), per quelli ex allegato IV relativi a opere o interventi in aree naturali protette ex legge 394/1991 e per i progetti che all'esito della preventiva procedura di verifica (screening) possono avere impatti sull'ambiente, quali: i progetti ex allegato II che servono esclusivamente o essenzialmente per sviluppo e collaudo di nuovi metodi o prodotti e non sono utilizzati per più di due anni; le modifiche ai progetti ex allegato II che possono avere impatti sull'ambiente; quelli (oggetto del descritto regime transitorio) ex allegato IV del dlgs 152/2006 (articolo ItaliaOggi Sette del 09.02.2015).

EDILIZIA PRIVATAL'Ape diventa standardizzato. Edifici costruiti e ristrutturati secondo precisi modelli. I nuovi metodi di calcolo dell'attestato di prestazione energetica contenuti in un dm.
In arrivo nuovi metodi di calcolo per la redazione dell'attestato di prestazione energetica degli edifici. I nuovi sistemi per la misurazione delle prestazioni energetiche degli edifici e per la compilazione della certificazione energetica entreranno in vigore il prossimo 01.07.2015 e saranno resi più severi dal 01.01.2019 per gli edifici pubblici e dal 01.01.2021 per gli altri edifici, per realizzare gli «edifici a energia quasi zero».
La classe energetica dell'immobile verrà determinata in base all'indice di prestazione energetica globale dell'edificio per tutti i servizi presenti (climatizzazione invernale, acqua calda sanitaria, climatizzazione estiva, ventilazione e illuminazione). Per gli edifici di nuova costruzione e per quelli sottoposti a ristrutturazioni importanti, il rispetto dei requisiti minimi andrà verificato confrontando l'edificio con un edificio di riferimento (identico per geometria, orientamento, ubicazione, destinazione d'uso). Per gli edifici interessati da semplici riqualificazioni energetiche, relative all'involucro edilizio e agli impianti tecnici, sono indicati i requisiti minimi.
Più blande, invece, le regole per le ristrutturazioni leggere che dovranno rispettare solamente degli standard minimi. In caso di nuova costruzione, il progettista sarà tenuto a evidenziare i risultati della valutazione della fattibilità tecnica, ambientale ed economica per l'impiego di sistemi alternativi ad alta efficienza (sistemi a energia rinnovabile, cogenerazione, teleriscaldamento e teleraffrescamento, pompe di calore).

Queste le indicazioni contenute nello schema di dm del ministero dello sviluppo economico (redatto di concerto con il ministero dell'ambiente e delle infrastrutture) che introduce il criterio di calcolo dell'efficienza energetica degli edifici.
Il decreto, che ha ottenuto il via libera della conferenza unificata il 28 gennaio, è attuativo dell'articolo 5 del decreto legge 04.06.2013 n. 63 (c.d. decreto del fare) convertito con modificazioni dalla legge 03.08.2013 n. 90 e ha aggiornato il dlgs n. 192/2005, in recepimento della direttiva edifici a energia quasi zero (2010/31/Ue).
Il dm avrà come finalità quella di un'applicazione delle norme immediatamente operativa e omogenea in tutte le regioni. Si cerca quindi di superare l'attuale frammentazione normativa dovuta all'ampia autonomia regionale nel recepire la precedente direttiva 2002/91/Ue.
- I requisiti. Il decreto definisce i nuovi standard minimi di prestazione energetica che gli edifici di nuova costruzione e quelli ristrutturati dovranno raggiungere per rispettare quanto disposto con la direttiva sugli edifici a energia quasi zero.
In particolare, per gli edifici nuovi o quelli che subiscono interventi di ristrutturazione c.d. pesante, le nuove prestazioni energetiche dovranno essere in linea con quelle di un «edificio tipo» per posizione, volumi, destinazione d'uso ecc. Al contrario le prescrizioni per le ristrutturazioni leggere dovranno rispettare solamente degli standard minimi, anch'essi previsti nel nuovo decreto. Il testo conterrà anche la definizione di edificio a energia quasi zero. Inoltre a partire dal 31.12.2020 tutti gli edifici di nuova costruzione dovranno essere a energia quasi zero.
- Edificio di riferimento. La verifica del rispetto dei requisiti minimi si opererà confrontando l'edificio oggetto dell'intervento con un edificio di riferimento, che non è nient'altro che un edificio identico in termini di geometria (sagoma, volumi, superficie calpestabile, superfici degli elementi costruttivi e dei componenti), orientamento, ubicazione territoriale, destinazione d'uso e situazioni al contorno, ma avente caratteristiche termiche e parametri energetici (per es. trasmittanze termiche delle pareti, rendimenti dei componenti) predeterminate, di riferimento appunto
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Quattro tipologie di intervento con norme ad hoc.
Quattro saranno le tipologie di intervento con relative prescrizioni specifiche: edifici di nuova costruzione; ristrutturazione di 1° livello (ovvero intervento che interessa più del 50% della superficie disperdente lorda dell'involucro edilizio e impianto termico); ristrutturazione di 2° livello (ovvero intervento che interessa più del 25% della superficie disperdente lorda dell'involucro edilizio ed eventualmente anche impianto termico e la riqualificazione energetica (ovvero interventi che coinvolgono meno del 25% della superficie disperdente lorda dell'involucro edilizio e/o che coinvolgono gli impianti tecnici).
- Ruolo delle regioni e delle province autonome. Il decreto si applicherà alle regioni e alle province autonome che non hanno ancora adottato provvedimenti di recepimento della direttiva 2010/31/Ue e comunque fino alla loro eventuale entrata in vigore.
È previsto il recepimento di una serie di punti fondamentali della direttiva 2010/31/Ue:
• adeguamento della metodologia di calcolo della prestazione energetica degli edifici sulla base di un quadro generale di calcolo sviluppato dal Cen su richiesta della Commissione europea;
• fissazione, in conformità alla metodologia di cui all'articolo 5 della direttiva 2010/31/Ue, di requisiti minimi di prestazione energetica che consentano il conseguimento di livelli ottimali in funzione dei costi. I requisiti minimi di prestazione energetica, da applicarsi agli edifici nuovi e a quelli sottoposti a ristrutturazioni importanti, sono aggiornati almeno ogni cinque anni;
• definizione di «edificio a energia quasi zero» e prescrizioni a esso relative: entro il 31.12.2020 tutti gli edifici di nuova costruzione dovranno essere a energia quasi zero. Gli edifici di nuova costruzione occupati dalle amministrazioni pubbliche e di proprietà di queste ultime dovranno rispettare gli stessi criteri dal 31.12.2018.
Il provvedimento definisce, quindi, le norme tecniche da utilizzare come riferimento per il calcolo della prestazione energetica degli edifici e i requisiti da rispettare nel caso di nuove costruzioni, ristrutturazioni importanti e riqualificazioni energetiche.
- Norme Uni. Il nuovo decreto era da tempo atteso dagli operatori del settore dopo la pubblicazione delle norme Uni/Ts 11300 parte 1 e parte 2 che hanno revisionato le metodologie di calcolo per eseguire la certificazione energetica. L'ente italiano di normazione ha rilasciato gli aggiornamenti relativi alle norme Uni/Ts 11300 parte 1 (determinazione del fabbisogno di energia termica dell'edificio per la climatizzazione estiva e invernale) e parte 2 (determinazione del fabbisogno di energia primaria e dei rendimenti per la climatizzazione invernale e per la produzione di acqua calda sanitaria), e quello relativo al rapporto tecnico Uni/Tr 11552 (abaco delle strutture costituenti l'involucro opaco degli edifici) (articolo ItaliaOggi Sette del 09.02.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOBlocco assunzioni, Comuni a rischio. Personale. Profili assenti nelle Province.
Le possibilità di assunzione dei Comuni e delle Unioni nel 2015 e 2016 sono drasticamente limitate dai vincoli dettati dalla legge di stabilità 2015, per cui in questo e nel prossimo anno possono essere assunti solo i vincitori dei concorsi conclusi in precedenza e i dipendenti che le province collocheranno in sovrannumero.
La
circolare 30.01.2015 n. 1/2015 con cui i ministri della Pubblica amministrazione e degli Affari regionali hanno illustrato il dettato normativo dà una lettura restrittiva dei vincoli contenuti nella legge 190/2014 e, di conseguenza, l’Anci è subito insorta, chiedendo che per i Comuni e per le Unioni siano ampliati gli spazi per poter procedere ad assunzioni a tempo indeterminato, soprattutto per quei profili necessari per garantire lo svolgimento di funzioni essenziali.
I dubbi nascono perché le norme della legge di stabilità sono ambigue e la circolare dei due ministri contiene alcune indicazioni che non sembrano ben coordinate, lasciando spazio a ulteriori ambiguità. Nella circolare si legge infatti da una parte che «il legislatore vincola gli enti a destinare il 100% del turn over alla mobilità del personale degli enti di area vasta, salvaguardando l’assunzione dei vincitori esclusivamente a valere sulle facoltà ordinarie di assunzione» e facendo salve le possibilità di trasformare a tempo indeterminato il part time dei dipendenti. Ma si dice anche che «rimangono consentite le assunzioni, a valere sui budget degli anni precedenti, nonché quelle previste da norme speciali». E ancora si legge che «per il personale infungibile l’eventuale assunzione anche di idonei, nel rispetto delle procedure di autorizzazione previsti dalla normativa vigente, non può superare la percentuale di turn over consentita secondo il regime ordinario».
Per aprire un minimo di flessibilità alle esigenze di Comuni e Unioni occorre che queste indicazioni siano lette nel senso che le assunzioni relative alla copertura delle cessazioni del 2013, cioè quelle programmate per il 2014, possono essere effettuate. E ancora che per i profili infungibili, intendendo come tali quelli di cui le Province non sono dotate, si può dare corso ad assunzioni non solo di idonei in concorsi già indetti, ma anche all’indizione di nuovi concorsi. Viceversa, il forzare l’attenzione sulla necessità che tutta la spesa per le nuove assunzioni del 2015 e 2016 sia diretta solamente ai vincitori dei concorsi e alla sistemazione del personale in sovrannumero delle Province limita in misura pressoché piena gli spazi di autonomia delle singole amministrazioni.
È comunque evidente che occorre fare chiarezza sull’applicazione del dettato legislativo, tanto più considerando che la sanzione in caso di inosservanza è assai dura: infatti è prevista la nullità (che travolge l’assunzione e determina la maturazione di responsabilità amministrativa). E occorre fare presto perché in molte amministrazioni comunali vi sono esigenze di assunzioni urgenti per garantire la erogazione di servizi essenziali
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.02.2015).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOUnioni, i numeri della debacle: solo 35 hanno bilanci consistenti. Associazionismo. Il quadro con l’ennesima proroga.
Se le norme fossero state rispettate, ora avremmo circa un migliaio di “nuovi” enti locali, nella forma di Unioni di Comuni o di convenzioni. E questi nuovi enti dovrebbero, al presente, aver già introdotto la gestione associata delle funzioni fondamentali degli oltre 5.600 Comuni con popolazione inferiore a 5mila abitanti.
Il nuovo rinvio appena deciso con l’emendamento al Milleproroghe certifica che ciò non è successo.
Delle convenzioni si sa poco o nulla, ma i dati di cui si dispone non fanno ritenere che ci sia stata da parte dei Comuni una qualche mobilitazione su questo fronte, anche perché la preferenza del legislatore è andata alle Unioni. Anche queste, però, sono rimaste al palo.
Questi i numeri: dal 2011 le Unioni “vive” sono stabilmente circa 400. Tra queste, circa il 25% hanno una operatività prossima allo zero; diventa perciò necessario un criterio per decidere se un’Unione significhi qualcosa di associato.
Il criterio scelto dall’indagine effettuata da «La posta del sindaco», nuovo un centro di raccolta ed elaborazione di materiali informativi sull’intercomunalità, è quello del livello delle entrate finanziarie annue: sono state prese in esame le Unioni che, negli anni esaminati, abbiano avuto entrate per almeno 100mila euro.
Con questa soglia, le Unioni censite sono 306 nel 2012; 299 nel 2013 e 309 a fine 2014. I Comuni che hanno trasferito alle Unioni di appartenenza risorse superiori ai 3 euro per abitante sono, nel 2014, 1.440, di cui 1.089 di piccola dimensione demografica (nel 2013 erano, rispettivamente, 1.396 e 1.063; nel 2012, 1.351 e 1.044).
L’insieme di questi Comuni danno vita a Unioni per lo più di scarsa consistenza operativa e finanziaria: le Unioni che superano i 5 milioni/anno di entrate correnti totali (ben al di sotto del bilancio medio di un piccolo Comune) sono 33 nel 2012, 36 nel 2013, 35 nel 2014. Le Unioni più robuste (con più di 10 milioni di euro di budget corrente gestito) sono in gran parte in Emilia Romagna. In esse un ruolo determinante viene svolto da Comuni tutt’altro che piccoli.
Molte sono le ragioni della debacle: confusione e disinformazione su obiettivi compatibili da assegnare alle Unioni, perché non è vero che con le Unioni si risparmia, almeno nel breve/medio periodo; definizione “politica” dei limiti demografici (per ottenere effettive economie di scala tutti gli addetti parlano di aggregazioni di almeno 50-60mila abitanti); difformità enormi interne al mondo dei piccoli Comuni; l’idea che gli incentivi finanziari fossero decisivi per convertire i piccoli Comuni al credo associativo, con il risultato che si è alimentato, con finanziamenti senza controlli, un atteggiamento opportunistico; il convincimento, in molti piccoli Comuni, di rappresentare la parte migliore del governo locale (e alcuni indicatori di bilancio -residui attivi e passivi- danno loro ragione, e dunque di non meritare in alcun modo la “sanzione” dell’associazionismo forzoso; una confusa ma tenace opposizione alla legge da parte di molti ambienti politico-istituzionali, a partire da non poche Regioni.
Dalla situazione che è venuta a crearsi non si esce con l’ennesimo rinvio. Va superato l’obbligo per i piccoli Comuni di associarsi per sostituirlo con politiche innovative di incentivazione della cooperazione intercomunale: vanno individuate a partire dalla conoscenza della domanda, soprattutto di quella inespressa, di servizi. Al riguardo le Ict, la revisione dei processi amministrativi e la creazione di centri di assistenza tecnico-amministrativa a sostegno dell’operatività dei piccoli Comuni, da realizzarsi anche con il concorso attivo di privati, possono rappresentare punti di partenza per esplorare le possibili alternative all’approccio sin qui seguito
(articolo Il Sole 24 Ore del 09.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Se gli edifici costruiti in aderenza hanno sagome diverse, la parte eccedente deve essere arretrata.
In tema di distanze, la scelta del perveniente di costruire lungo la linea di confine è definitiva. Il vicino può dunque successivamente costruire in aderenza, seguendo la linea del fabbricato precedentemente costruito, ma se la larghezza del secondo edificio si estende oltre, lungo la linea di confine non edificata, questa parte del fabbricato deve essere arretrata alla distanza legale.
2.1) La sentenza citata dal ricorrente ha affermato che «la scelta che spetta al preveniente di costruire sul confine è, per così dire, definitiva, nel senso che, una volta iniziata la costruzione sulla linea di confine, egli non può arretrare nei piani superiori, ovvero in corrispondenza di parti dell'edificio laterali rispetto a quella costruita sul confine, stante l'impossibilità logica di riconoscere ad esso preveniente la facoltà di adottare una scelta variabile tra le varie parti o piani dell'edificio, il che imporrebbe poi al prevenuto di elevare a sua volta un edificio con i muri perimetrali a linea spezzata, in orizzontale o in verticale».
Trattasi con evidenza di un caso diverso da quello di specie.
Quand'anche infatti la situazione dei luoghi fosse quella descritta in ricorso, ugualmente sarebbe ineccepibile la decisione del giudice di appello.
Ben diversa è la situazione considerata da Cass. 1420/1987, relativa  a unico edificio costruito in forma spezzata, orizzontalmente o verticalmente, da quella di costruzione, in tempi imprecisati, di due edifici diversi, distanziati tra loro da una strada interna.
E' infatti evidente che in questo secondo caso non sussistono ragioni di coerenza costruttiva che consentano al prevenuto di costruire sul confine, violando la regola generale che lo vieta, senza edificare in aderenza.
Come già osservato la Corte di appello, gli art. 873, 875, 877 c.c. non vietano di costruire con sporgenze e rientranze rispetto alla linea di confine, potendo, in tal caso, il proprietario del fondo finitimo costruire in aderenza alla fabbrica preesistente sia per la parte posta sul confine, sia per quella corrispondente alle rientranze, pagando in quest'ultimo caso la metà del valore del muro del vicino, che diventa comune, nonché il valore del suolo occupato per effetto dell'avanzamento della costruzione (da ultimo Cass. 15632/12).
Ciò vale a ribadire, oltre alla differenza tra la situazione di unica costruzione spezzata e due costruzioni vicine (poste sullo stesso lato), che in ogni caso non potrebbe essere legittima la pretesa del Vecchi di mantenere sul confine una costruzione posta asseritamente a due metri dalla preesistente fabbrica del vicino preveniente.
Ovviamente tale condizione non muta in relazione alla dedotta preesistenza di un muro di cinta che sarebbe "un'autentica costruzione".
Tale deduzione è del tutto nuova in causa, non risultando dalla sentenza impugnata, senza che venga indicato in quale atto difensivo (indispensabilmente almeno nella comparsa di risposta in appello) sia stata dedotta. Trattasi di questione giuridica inammissibile, perché implica un accertamento di fatto che non è consentito in sede di legittimità, ancor più se connotato (cfr. pag. 14) da precisazioni relative a mutamenti del piano di campagna e dell'altezza di questo muro (tre metri) che avrebbero dovuto essere tempestivamente dedotte e valorizzate (Cass. 23675/2013; 3664/2006; 20518/2008)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 02.03.2015 n. 4155).

URBANISTICA: Le scelte compiute dall’Amministrazione in sede di variante sono espressione dell’ampia discrezionalità tecnica di cui essa dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità arbitrarietà ed evidente travisamento dei fatti.
E’ principio oramai pacifico che le scelte pianificatorie dell’Amministrazione sono di difficile censurabilità, stante il carattere di ampia discrezionalità affidato alle stesse.
 E il primo giudice riferisce appunto che: “…il Collegio ha ben presente che per giurisprudenza costante (ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 27.12.2007, n. 6686) le scelte compiute dall’Amministrazione in sede di variante sono espressione dell’ampia discrezionalità tecnica di cui essa dispone in materia e dalla quale discende la loro sindacabilità solo nei ristretti limiti costituiti dalla manifesta illogicità arbitrarietà ed evidente travisamento dei fatti…” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.02.2015 n. 962 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIQuando nell’ambito del procedimento è prevista l’emissione di un parere obbligatorio, la mancata espressione del parere non può bloccare in modo indefinito il procedimento.
La giurisprudenza ha affermato in casi analoghi che nel procedimento per il rilascio della concessione edilizia in sanatoria per abusi edilizi su immobili sottoposti a vincolo, il mancato rilascio del parere da parte della Soprintendenza interessata ha natura di «silenzio-rifiuto», privo di valenza provvedimentale significativa.
Pertanto il mancato rilascio del parere da parte dell’Avvocatura dello Stato deve essere qualificato come silenzio-rifiuto (rectius: silenzio-inadempimento) ed essendo decorso il termine per l’emanazione del provvedimento dalla data in cui l’Avvocatura dello Stato era stata investita dal Ministero, l’Amministrazione deve emanare un provvedimento espresso, previo rilascio del parere che l’Avvocatura dello Stato dovrà emettere senza ulteriori ritardi.

... per l'annullamento del silenzio rifiuto formatosi sull'istanza del 11.04.2014 con la quale il ricorrente ha chiesto il rimborso delle spese processuali sostenute nell'ambito del procedimento penale cui è stato sottoposto ed al cui esito è stato prosciolto con la sentenza n. 101 del 18.09.13 resa dalla Corte di Appello di Roma;
...
P.E. era stato sottoposto a processo penale per insubordinazione con ingiuria aggravata ed era assolto sia in primo grado che in appello con sentenza passata in giudicata.
Trattandosi di processo subito in relazione all’attività di servizio, chiedeva il rimborso delle spese legali sostenute per la sua difesa ai sensi dell’art. 18 D.L. 67/1997 con istanza presentata in data 11.04.2014.
L’amministrazione non rispondeva nel termine di 180 giorni ed il P. presentava un ricorso per la declaratoria del dovere dell’amministrazione di concludere il procedimento con un provvedimento espresso.
Il Ministero della Difesa si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso dal momento che in data 16.05.2014 aveva chiesto l’obbligatorio parere all’Avvocatura Distrettuale dello Stato che non aveva ancora risposto: riteneva quindi che non fossero maturati i presupposti per il formarsi del silenzio inadempimento.
Il ricorso è fondato.
Quando nell’ambito del procedimento è prevista l’emissione di un parere obbligatorio, la mancata espressione del parere non può bloccare in modo indefinito il procedimento.
La giurisprudenza ha affermato in casi analoghi che nel procedimento per il rilascio della concessione edilizia in sanatoria per abusi edilizi su immobili sottoposti a vincolo, il mancato rilascio del parere da parte della Soprintendenza interessata ha natura di «silenzio-rifiuto», privo di valenza provvedimentale significativa (Consiglio di Stato 6705/2006).
Pertanto il mancato rilascio del parere da parte dell’Avvocatura dello Stato deve essere qualificato come silenzio-rifiuto (rectius: silenzio-inadempimento) ed essendo decorso il termine per l’emanazione del provvedimento dalla data in cui l’Avvocatura dello Stato era stata investita dal Ministero, l’Amministrazione deve emanare un provvedimento espresso, previo rilascio del parere che l’Avvocatura dello Stato dovrà emettere senza ulteriori ritardi.
In caso di ulteriore inadempimento in sede di ottemperanza potrà essere richiesto al Presidente dell’Ordine degli avvocati di Bologna di rilasciare il prescritto parere (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 26.02.2015 n. 193 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOI bandi dei concorsi indetti per l'assegnazione di posti di pubblico impiego, se contenenti clausole immediatamente lesive delle aspirazioni dei candidati, per il fatto di imporre determinati requisiti di partecipazione anziché altri, vanno tempestivamente ed autonomamente impugnati, dal momento che costituiscono la lex specialis del concorso: onde è nei loro confronti che vanno subito sollevati i dubbi di legittimità nutriti sulla disciplina da essi dettata per la procedura selettiva.
Osserva la Sezione che le critiche proposte con il presente appello avverso la lineare motivazione illustrata sono destituite di fondamento.
L’appellante insiste nell’assunto che la lesività della clausola di bando in discussione non sarebbe stata immediatamente percepibile (almeno da un non giurista), ma solo potenziale ed astratta, in quanto la clausola non avrebbe avuto un significato certo. Onde l’interessato poteva ragionevolmente ritenere in buona fede di possedere i requisiti di partecipazione.
In contrario è tuttavia agevole notare:
- che il testo letterale della clausola era univoco nel senso che solo i laureati in economia e commercio o in ingegneria gestionale avrebbero potuto prendere parte alla procedura;
- che una clausola simile precludeva già inequivocabilmente ex se la partecipazione al concorso degli aspiranti che non fossero muniti di uno dei due titoli anzidetti (o di titolo dichiarato equipollente), sì da presentarsi con chiarezza, attesa la sua portata impeditiva, come lesiva dell’interesse degli aspiranti medesimi a partecipare alla procedura;
- che il ricorrente, che non si è nascosto come il corso di laurea in ingegneria gestionale sia stato istituito in epoca recente “per offrire la figura di un professionista che accanto a solide competenze tecniche … avesse anche una visione della realtà imprenditoriale e della sua organizzazione”, non aveva alcuna ragione obiettiva per ritenere che la propria laurea in ingegneria elettronica avrebbe potuto essere equiparata a siffatto nuovo titolo di studio (che, anche per il fatto di essere stato prescritto in alternativa al diploma di laurea in economia e commercio, rendeva chiara la connotazione essenzialmente economico-gestionale prescritta dal bando per i titoli di studio degli aspiranti).
Da ciò l’inevitabile applicazione al caso concreto dell’orientamento giurisprudenziale, già posto a base della sentenza di primo grado, e tuttora consolidato, secondo il quale i bandi dei concorsi indetti per l'assegnazione di posti di pubblico impiego, se contenenti clausole immediatamente lesive delle aspirazioni dei candidati, per il fatto di imporre determinati requisiti di partecipazione anziché altri, vanno tempestivamente ed autonomamente impugnati, dal momento che costituiscono la lex specialis del concorso: onde è nei loro confronti che vanno subito sollevati i dubbi di legittimità nutriti sulla disciplina da essi dettata per la procedura selettiva (cfr. tra le tante C.d.S., IV, 27.06.2014, n. 3241; 22.05.2014, n. 2641; V, 25.06.2014, n. 3203; 21.11.2011, n. 6135).
Per le ragioni esposte l’appello va senz’altro respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.02.2015 n. 946 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn materia di accesso agli atti occorre rammentare che:
A) secondo l’art. 22, comma 1, lett. d), della legge n. 241/1990, per “documento amministrativo” si deve intendere “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”;
B) secondo un consolidato orientamento anche gli atti interni al procedimento, compresi i pareri, sono soggetti al diritto di accesso degli interessati;
C) la giurisprudenza ha ammesso l’esercizio del diritto di accesso finanche rispetto ai pareri legali, purché rappresentino un passaggio procedimentale istruttorio di un procedimento amministrativo e vengano, quindi, ad innestarsi nell’iter procedimentale, assumendo la configurazione di atti endoprocedimentali;
D) recentemente i limiti all’accessibilità degli atti interni sono stati precisati dalla giurisprudenza, che ha qualificato come atti sottratti all’accesso le minute, intese come semplici appunti finalizzati alla redazione di documenti veri e propri, e gli scritti informali (indipendentemente dalla loro intestazione o dalla loro apparente qualifica) privi di firma o di sigla, ancorché presenti nel fascicolo di ufficio, perché non costituenti “documenti amministrativi” in senso proprio.

1. Il Collegio ritiene che l’esame delle suesposte censure debba iniziare da quelle relative alla sottrazione all’accesso:
   A) delle comunicazioni intercorse tra le varie articolazioni del Garante in occasione dell’adozione della delibera del 17.01.2013;
   B) delle note contenenti informazioni fornite alle organizzazioni sindacali, menzionate nella predetta delibera;
   C) delle osservazioni del Segretario Generale, anch’esse richiamate nella delibera;
   D) degli estratti dei verbali delle sedute del Collegio del Garante relative alla procedura in questione.
In particolare -avendo il Garante chiarito (nella nota inviata alla Commissione per l’accesso in data 23.05.2014) che le annotazioni, gli appunti e le bozze preliminari sono stati sottratti all’accesso ai sensi dell’art. 16, lettera c), del Regolamento n. 1/2006, mentre i verbali delle riunioni del Collegio sono stati sottratti all’accesso ai sensi dell’art. 16, lettera c), di tale Regolamento- occorre innanzi tutto verificare se tali disposizioni regolamentari possano essere interpretate nel senso di sottrarre all’accesso gli atti richiesti dal ricorrente, sebbene tali atti riguardino un provvedimento amministrativo (qual è la delibera del Garante per la protezione dei dati personali n. 11 del 17.01.2013) con il quale è stato approvato un avviso relativo ad una procedura di mobilità volontaria esterna.
2. A tal riguardo occorre preliminarmente rammentare che:
   A) secondo l’art. 22, comma 1, lett. d), della legge n. 241/1990, per “documento amministrativo” si deve intendere “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”;
   B) secondo un consolidato orientamento (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.10.2007, n. 5356; TAR Calabria Catanzaro, Sez. II, 22.05.2012, n. 497) anche gli atti interni al procedimento, compresi i pareri, sono soggetti al diritto di accesso degli interessati;
   C) la giurisprudenza (ex multis, Cons. Giust. Amm. Reg. Sicilia, Sez. Giur., 14.03.2014, n. 134; Cons. Stato, Sez. V, 23.06.2011 n. 3812) ha ammesso l’esercizio del diritto di accesso finanche rispetto ai pareri legali, purché rappresentino un passaggio procedimentale istruttorio di un procedimento amministrativo e vengano, quindi, ad innestarsi nell’iter procedimentale, assumendo la configurazione di atti endoprocedimentali;
   D) recentemente i limiti all’accessibilità degli atti interni sono stati precisati dalla giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, 08.04.2014, n. 1663), che ha qualificato come atti sottratti all’accesso le minute, intese come semplici appunti finalizzati alla redazione di documenti veri e propri, e gli scritti informali (indipendentemente dalla loro intestazione o dalla loro apparente qualifica) privi di firma o di sigla, ancorché presenti nel fascicolo di ufficio, perché non costituenti “documenti amministrativi” in senso proprio.
3. Ciò posto il Collegio ritiene che la Commissione per l’accesso, da un lato, abbia colto nel segno con il provvedimento del 19.04.2014, affermando che «non appare giustificata la sottrazione all’accesso delle comunicazioni intercorse tra le varie articolazioni del Garante in occasione della delibera del 17.01.2013, impugnata dal ricorrente, delle note contenenti informazioni fornite alle organizzazioni sindacali di cui è menzione nella predetta delibera, delle osservazioni del Segretario Generale, anch’esse richiamate nella delibera, nonché degli estratti dei verbali delle sedute del Collegio del Garante relative alla procedura in questione. Si tratta, infatti, di atti endoprocedimentali, la cui accessibilità al ricorrente è garantita dal combinato disposto dell’art. 7 e dell’art. 10 della legge n. 241/1990»; dall’altro, abbia errato con il successivo provvedimento del 17.06.2014 nell’affermare che «il ricorso, nella parte in cui ci si lamenta della sottrazione all’accesso dei documenti giustificata dall’Amministrazione sulla base del richiamo di disposizioni contenute nel Regolamento n. 1/2006 del Garante non può essere accolto, non potendo la Commissione disapplicare le disposizioni regolamentari in questione».
Infatti la Commissione per l’accesso -pur muovendo dal corretto presupposto che essa non è titolare del potere di disapplicare un atto normativo come il Regolamento n. 1/2006- non considera tuttavia che tale Regolamento deve essere interpretato alla luce delle disposizioni, di rango superiore, degli articoli 22 e ss. della legge n. 241/1990.
Giova, quindi, rilevare sin d’ora che risulta fondato il terzo motivo -con il quale il ricorrente censura i provvedimenti impugnati in quanto accomunati da un’erronea interpretazione estensiva dell’ambito di applicazione delle cause di esclusione del diritto di accesso previste dell’art. 16 del Regolamento n. 1/2006- alla luce delle seguenti considerazioni.
4. Innanzi tutto si rammenta che l’art. 24 della legge n. 241/1990 -dopo aver previsto, al comma 1 le fattispecie nelle quali il diritto di accesso è escluso, al comma successivo affida alle singole amministrazioni il compito di individuare “le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all’accesso ai sensi del comma 1”.
Il Garante -nel dare attuazione a tali disposizioni con il Regolamento n. 1/2006- non si è limitato a indicare all’art. 12 i documenti esclusi dall’accesso per motivi inerenti alla sicurezza, alla difesa e alla sovranità nazionale e alle relazioni internazionali, all’art. 13 i documenti esclusi dall’accesso per motivi inerenti alla politica monetaria e valutaria, all’art. 14 i documenti esclusi dall’accesso per motivi inerenti alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione e repressione della criminalità o alla sicurezza di beni, all’art. 15 i documenti esclusi dall’accesso per motivi inerenti alla riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni.
Infatti ha previsto -all’art. 16- un’ulteriore categoria di documenti sottratti all’accesso “per motivi di segretezza e riservatezza dell’Autorità”, che comprende:
   A) “i verbali delle riunioni del collegio, e le connesse osservazioni del segretario generale, nelle parti riguardanti atti, documenti ed informazioni sottratti all’accesso o di rilievo puramente interno all’Autorità anche in relazione ai rapporti tra persone od organi”;
   B) “gli atti connessi alla difesa in giudizio del Garante o dell’ufficio e i rapporti rivolti alla magistratura contabile”;
   C) “annotazioni, appunti e bozze preliminari”;
   D)“i documenti inerenti all’attività relativa all’informazione, alla consultazione e alla concertazione e alla contrattazione sindacale, fermi restando i diritti sindacali previsti anche dai protocolli sindacali”.
Tale ulteriore categoria, che non trova un immediato e diretto riscontro nell’art. 24 della legge n. 241/1990, deve comunque essere interpretata alla luce della disciplina generale del diritto di accesso posta dagli articoli 22 e ss. della predetta legge. Ne consegue, ad esempio, che la disposizione dell’art. 16, comma 1, lett. b), relativa agli “atti connessi alla difesa in giudizio del Garante” non può certo trovare applicazione laddove i pareri legali vadano ad innestarsi nell’iter procedimentale, assumendo la configurazione di veri e propri atti endoprocedimentali.
Ne consegue, altresì, che le disposizioni dell’art. 16, comma 1, lett. a) e c), devono essere interpretate sia alla luce dell’art. 22, comma 1, lett. d), della legge n. 241/1990, che assoggetta al diritto di accesso anche gli atti interni al procedimento, sia alla luce del già richiamato art. 24, comma 1, della legge n. 241/1990, che indica i documenti sottratti all’accesso.
Ciò comporta che:
   A) da un lato, può ritenersi senz’altro conforme all’art. 24 della legge n. 241/1990, la disposizione dell’art. 16, comma 1, lett. a), del Regolamento -nella parte in cui sottrae all’accesso “i verbali delle riunioni del collegio, e le connesse osservazioni del segretario generale, nelle parti riguardanti atti, documenti ed informazioni sottratti all’accesso”- perché si limita ad esplicitare che i limiti all’accesso posti dall’art. 24, comma 1, della legge n. 241/1990 riguardano anche i verbali delle riunioni del Collegio e le connesse osservazioni del Segretario Generale;
   B) dall’altro, la predetta disposizione -nella parte in cui sottrae all’accesso “i verbali delle riunioni del collegio, e le connesse osservazioni del segretario generale, nelle parti ... di rilievo puramente interno all’Autorità anche in relazione ai rapporti tra persone od organi”- risulterebbe in palese contrasto con l’art. 22, comma 1, lett. d), della legge n. 241/1990 se fosse interpretata nel senso di escludere tout court tali atti dal diritto di accesso, cioè anche nel caso in cui assumano la valenza di veri e propri atti endoprocedimentali.
Analoghe considerazioni valgono per le “annotazioni, appunti e bozze preliminari”, alle quali si riferisce l’art. 16, comma 1, lett. a), del Regolamento, perché si è già sottolineato che, secondo la giurisprudenza, solo le c.d. minute (intese come semplici appunti finalizzati alla redazione di documenti veri e propri) e gli scritti informali privi di firma o di sigla non costituiscono documenti amministrativi in senso proprio (ancorché presenti nel fascicolo di ufficio).
Ha, quindi, ragione il ricorrente quando afferma che gli atti degli uffici del Garante indirizzati al Collegio o al Segretario Generale -denominati nella prassi degli uffici “annotazione per il Collegio” o “appunto al Segretario Generale”- devono essere considerati documenti amministrativi in senso proprio, senz’altro accessibili se non rientranti nell’ambito di applicazione degli articoli 13, 14, 15 e 16 del Regolamento.
5. Stante quanto precede il terzo motivo di ricorso va accolto in quanto:
   A) risulta condivisibile l’avviso espresso dalla Commissione per l’accesso nel provvedimento del 19.04.2014, secondo il quale le comunicazioni intercorse tra le varie articolazioni del Garante in occasione della delibera del 17.01.2013, le note contenenti informazioni fornite alle organizzazioni sindacali menzionate nella predetta delibera, gli estratti dei verbali delle sedute del Collegio del Garante relative alla procedura selettiva in questione, nonché le osservazioni del Segretario Generale, anch’esse richiamate nella delibera, si configurano come veri e propri atti endoprocedimentali, la cui accessibilità è garantita dal combinato disposto dagli articoli 7 e 10 della legge n. 241/1990;
   B) i provvedimenti impugnati hanno vanificato il diritto del ricorrente ad accedere a tali atti sulla base di un’errata interpretazione dell’art. 16, comma 1, lett. a) e c), del Regolamento n. 1/2006;
   C) con particolare riferimento alle osservazioni del Segretario Generale richiamate nella delibera del 17.01.2013, sebbene nella decisione dalla Commissione per l’accesso del 17.06.2014 si affermi che non sono state redatte osservazioni in relazione a tale delibera, tuttavia in senso contrario depone la motivazione della delibera stessa, che contiene un espresso richiamo a tali osservazioni.
6. Passando al quinto motivo, avente ad oggetto la sottrazione all’accesso degli atti relativi alla parallela procedura riguardante i funzionari con profilo informatico/tecnologico -limitatamente ai soli verbali relativi ai criteri di selezione utilizzati e la tempistica seguita, ad esclusione dei curricula dei candidati e con l’eventuale omissione di ogni riferimento ai nominativi dei candidati medesimi- il Collegio ritiene che i provvedimenti impugnati siano illegittimi per le ragioni indicate dalla Commissione per l’accesso nel provvedimento del 19.04.2014, ove è stato correttamente osservato che «pur trattandosi di atti che ineriscono ad una procedura diversa da quella cui aveva partecipato l’odierno ricorrente, si deve convenire con quest’ultimo nel ritenere che lo stesso sia legittimato all’accesso ai verbali dai quali fossero desumibili i criteri di selezione utilizzati e la tempistica seguita, al fine di raffrontarli con quelli relativi alla procedura cui lo stesso aveva partecipato, nell’esercizio del suo diritto di difesa, ex art. 24, comma 7, della legge n. 241/1990» (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 23.02.2015 n. 3068 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Poste Italiane S.p.a. ha diritto ad usufruire del beneficio dell’esonero del contributo di costruzione, ex art. 9, comma 1, lett. f), legge. 28.01.1977 n. 10 (oggi art. 17, comma, 3 lett. c, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380), per la realizzazione di manufatti funzionali all’esercizio del servizio pubblico postale (l’ampliamento di un edificio adibito a Centro Postale Meccanizzato).
Il regime concessorio agevolato di cui all'art. 9, lett. f, della legge n. 10/1977 (oggi art. 17, comma, 3 lett. c, del D.P.R. 06.06.2001 n. 380) che prevede l'esonero dal contributo di costruzione può essere utilizzato in caso di realizzazione di opera pubblica da parte di soggetti privati investiti della concessione, la quale a sua volta può avere ad oggetto lavori, o servizi pubblici, o entrambi.

Non costituisce novità del sistema giuridico il modello organizzativo per cui concessionaria di un pubblico servizio può essere una società di diritto privato, che ripete dalla concedente i poteri pubblicistici dalla stessa assegnatile e nel contempo soggetti al suo controllo.
Si veda ad esempio la società Autostrade (ora Autostrade per l’Italia) o altre società ancora, peraltro ampiamente partecipate dallo Stato (massimo soggetto pubblico) attraverso il Ministero del Tesoro.
Del resto proprio la giurisprudenza menzionata dall’appellante ha confermato che soggetto istituzionale competente può essere anche un soggetto privato investito del potere di realizzare l’opera pubblica nel quadro di un regime concessorio; peraltro, con riferimento al caso di specie, l’art. 9, lett. f, della legge n. 10/1977 prevede espressamente che il regime concessorio agevolato possa esser utilizzato in caso di realizzazione di opera pubblica da parte di soggetti privati investiti della concessione, la quale a sua volta può avere ad oggetto lavori, o servizi pubblici, o entrambi.

... per la riforma della sentenza del TAR LOMBARDIA-MILANO: SEZIONE II, n. 2172/2013, resa tra le parti, concernente concessione edilizia e pagamento oneri per opere di ampliamento.
...
2.- Il gravame è in parte fondato e meritevole di accoglimento.
2.1.- Non ha pregio anzitutto il primo motivo, che nega la sussistenza dei presupposti di legge necessari per utilizzare il beneficio di cui si discute. La natura giuridica formale di Poste italiane, strutturata sul modello della società per azioni, non costituisce impedimento a rivestire la posizione di soggetto concessionario.
Sul piano dei principi generali, infatti, non costituisce novità del sistema giuridico il modello organizzativo per cui concessionaria di un pubblico servizio può essere una società di diritto privato, che ripete dalla concedente i poteri pubblicistici dalla stessa assegnatile e nel contempo soggetti al suo controllo. Si veda ad esempio la società Autostrade (ora Autostrade per l’Italia) o altre società ancora, peraltro ampiamente partecipate dallo Stato (massimo soggetto pubblico) attraverso il Ministero del Tesoro.
Del resto proprio la giurisprudenza menzionata dall’appellante (v. ad es. Cons. di Stato, sez V, n. 6618/2002) ha confermato che soggetto istituzionale competente può essere anche un soggetto privato investito del potere di realizzare l’opera pubblica nel quadro di un regime concessorio; peraltro, con riferimento al caso di specie, l’art. 9, lett. f, della legge n. 10/1977 prevede espressamente che il regime concessorio agevolato possa esser utilizzato in caso di realizzazione di opera pubblica da parte di soggetti privati investiti della concessione, la quale a sua volta può avere ad oggetto lavori, o servizi pubblici, o entrambi.
Altrettanto indubbia è la competenza istituzionale di POSTE a realizzare l’intervento in questione, profilo che passiamo a trattare.
2.2.- Né difetta l’altro presupposto richiesto dalla legge (e di cui pure dubita il Comune appellante), costituito dalla natura dell’intervento assentito e della sua idoneità strumentale a realizzare un pubblico servizio (il c.d. “requisito oggettivo”); al riguardo, il Collegio ritiene infatti indubitabile che la costruzione o l’ampliamento di un Centro postale meccanizzato (“CMP”) integri la fattispecie di una struttura realizzata tipicamente al fine di soddisfare un servizio pubblico quale quello postale.
2.3.- A diversa conclusione deve pervenirsi in ordine al secondo motivo d’appello, che sostiene la violazione dell’atto d’obbligo 28.07.2004; in particolare, poiché in tale atto era contenuta la rinunzia di POSTE a ripetere un importo di Euro 1.288.981,45 e sottraendo tale importo da quello richiesto dal Comune (Euro 2.392.672,74), emerge che la somma dovuta a POSTE ammontava ad Euro 1.103.691,29 e non 1.336.057,89 come stabilito dal TAR.
Quest’ultimo ha motivato la decisione rilevando che al riguardo l’atto d’obbligo non assumerebbe rilievo, riscontrandosi in esso la riserva espressa dalla società Poste su quanto sarebbe stato deciso dal giudizio di primo grado. Tuttavia osserva il Collegio che detta riserva, al di là della sua perplessa formula, non modifica gli importi emergenti dall’atto d’obbligo ed in base ai quali il Comune sostiene dovuto a POSTE un importo a conguaglio inferiore a quanto riconosciuto.
In tale parte la decisione del TAR, in accoglimento del motivo testé esaminato, deve pertanto essere riformata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 23.02.2015 n. 861 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTI SERVIZIMini-concessioni semplificate. Non serve il piano economico finanziario.
Non è necessario chiedere il piano economico-finanziario quando si affida una concessione di servizi di valore modesto e senza particolare complessità tecnico-gestionale.

È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 23.02.2015 n. 858 rispetto a una gara per l'affidamento di una concessione di gestione del servizio ristorazione e bar di un Consiglio regionale.
Negli atti di gara, a fronte di un importo stimato pari a 90 mila euro - non si chiedeva la produzione del Pef (Piano economico finanziario) in sede di offerta. Da ciò il ricorso di un concorrente per violazione degli articoli 30, comma 7, e 143, comma 7 del codice dei contratti pubblici (dlgs 163/2006) sul presupposto che non poteva valere, quale esimente dalla richiesta del Pef, l'assenza di investimenti consistenti.
I giudici ritengono invece corretto l'operato della stazione appaltante partendo dalla ricostruzione della disciplina applicabile agli affidamenti di concessioni di servizi, ad oggi ancora disciplinati sommariamente dal codice dei contratti pubblici, in attesa che venga recepita la nuova direttiva «concessioni» 2014/23 che ha dettato per la prima volta regole uniformi a livello europeo.
Ad oggi occorre riferirsi all'articolo 143, comma 7, del codice dei contratti pubblici il quale prevede, per le concessioni di lavori, che l'offerta e il contratto devono contenere il piano economico-finanziario di copertura degli investimenti e della gestione. Lo stesso codice chiarisce però che la norma del comma 7 trova applicazione anche per le concessioni di servizi ma soltanto «in quanto compatibile», come precisa il comma 7.
La sentenza chiarisce che la «compatibilità» deve essere accertata in concreto e quindi con riguardo all'«utilità stessa di un piano economico e finanziario, che se rappresenta la regola nel caso delle concessioni di lavori pubblici, caratterizzate dall'avere ad oggetto progettazione, esecuzione e gestione dell'opera, sempre in omaggio al principio di proporzionalità può non essere necessaria, nel caso si tratti di concessioni che hanno ad oggetto servizi semplici» (articolo ItaliaOggi del 28.02.2015).

URBANISTICALa tipizzazione evincibile dalla cartografia di un Piano urbanistico o l’assenza di una specifica tipizzazione non sono vincolanti … perché la esistenza o meno degli elementi strutturanti il territorio costituisce un fatto oggetto di accertamento e non di una valutazione tecnico-discrezionale”, sicché “laddove il privato dimostri o rappresenti la sussistenza dell’errore mediante documenti dotati di una certa attendibilità la P.A. non potrà trincerarsi dietro la sussistenza della tipizzazione cartografica contestata ma dovrà esperire i necessari accertamenti istruttori, verificando in primo luogo le prescrizioni normative del piano, dato che in caso di contrasto tra le indicazioni grafiche, sono le prime a prevalere, in quanto in sede d’interpretazione degli strumenti urbanistici le risultanze grafiche possono chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, ma non sovrapporsi o negare quanto risulta da questo.
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Ai sensi dell’art. 2, co. 6, d.lgs. n. 227/2001, e nelle more di adozione della normativa regionale, per bosco devono intendersi “i terreni coperti da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo, i castagneti, le sugherete e la macchia mediterranea, ed esclusi i giardini pubblici e privati, le alberature stradali, i castagneti da frutto in attualità di coltura e gli impianti di frutticoltura e d'arboricoltura da legno di cui al comma 5 ivi comprese, le formazioni forestali di origine artificiale realizzate su terreni agricoli a seguito dell'adesione a misure agro ambientali promosse nell'ambito delle politiche di sviluppo rurale dell'Unione europea una volta scaduti i relativi vincoli, i terrazzamenti, i paesaggi agrari e pastorali di interesse storico coinvolti da processi di forestazione, naturale o artificiale, oggetto di recupero a fini produttivi. Le suddette formazioni vegetali e i terreni su cui essi sorgono devono avere estensione non inferiore a 2.000 metri quadrati e larghezza media non inferiore a 20 metri e copertura non inferiore al 20 per cento, con misurazione effettuata dalla base esterna dei fusti […]”.

... per l'annullamento della nota del Responsabile del Procedimento per il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche prot. n. 1075 del 04/06/2014, ricevuta l'11 successivo, recante ad oggetto "Diniego dell'Autorizzazione Paesaggistica, richiesta ai sensi dell'art. 5.01 del P.U.T.T./P., per l'intervento di una struttura prefabbricata ad uso bar-pizzeria-paninoteca e servizi" alla via Attendolo, in località "Torre Pali" marina di Salve - Pratica Edilizia n. 360/2012 del Comune di Salve";
...
2. Con i vari motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente, per comunanza delle relative censure, deduce la ricorrente l’illegittimità dell’atto impugnato, per contrasto con le previsioni di cui agli artt. 143 d.lgs. n. 42/2004 e 104 NTA del PPTR adottato con DGR 02.08.2013, n. 1435, nonché per errore e difetto di istruttoria, avendo l’Amministrazione emesso il provvedimento di diniego sulla base di un presupposto (l’inclusione dell’area in esame in area a bosco) non rispondente all’obiettiva realtà fattuale.
Le censure sono fondate.
2.1. Premette anzitutto il Collegio che, per condivisa giurisprudenza amministrativa, anche di questa Sezione (TAR Lecce, I, 05.09.2014, n. 2308), “la tipizzazione evincibile dalla cartografia di un Piano urbanistico o l’assenza di una specifica tipizzazione non sono vincolanti … perché la esistenza o meno degli elementi strutturanti il territorio costituisce un fatto oggetto di accertamento e non di una valutazione tecnico-discrezionale”, sicché “laddove il privato dimostri o rappresenti la sussistenza dell’errore mediante documenti dotati di una certa attendibilità la P.A. non potrà trincerarsi dietro la sussistenza della tipizzazione cartografica contestata ma dovrà esperire i necessari accertamenti istruttori, verificando in primo luogo le prescrizioni normative del piano, dato che in caso di contrasto tra le indicazioni grafiche, sono le prime a prevalere, in quanto in sede d’interpretazione degli strumenti urbanistici le risultanze grafiche possono chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, ma non sovrapporsi o negare quanto risulta da questo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18.04.2013, n. 2158; Cons. Stato, sez. V, 22.08.2003, n. 4734; Cons. Stato, sez. IV, 10.08.2000, n. 4462; id., 05.06.1998, n. 917; Cons. Stato, sez. V, 21.06.1995, n. 724)”.
2.2. Ciò premesso, e venendo ora al caso di specie, si legge nell’atto impugnato che l’Amministrazione ha motivato il proprio diniego sulla base del fatto che: “l’intervento ricade in area “boschi”, di conseguenza il mantenimento annuale della struttura interferisce con l’equilibrio botanico-vegetazionale alterandone in tal modo l’uso, le caratteristiche di naturalità e conservazione sia del territorio che della vegetazione, e quindi in contrasto con le prescrizioni dell’art. 62 della NTA del PPTR”.
All’evidenza, l’Amministrazione ha fondato il proprio diniego sull’inclusione dell’area di che trattasi in area a bosco, come da cartografia allegata al PPTR.
Tale essendo la ragione del diniego, occorre ora esaminarne la portata.
Sul punto, rileva il Collegio che, ai sensi dell’art. 2, co. 6, d.lgs. n. 227/2001, e nelle more di adozione della normativa regionale, per bosco devono intendersi “i terreni coperti da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva di origine naturale o artificiale, in qualsiasi stadio di sviluppo, i castagneti, le sugherete e la macchia mediterranea, ed esclusi i giardini pubblici e privati, le alberature stradali, i castagneti da frutto in attualità di coltura e gli impianti di frutticoltura e d'arboricoltura da legno di cui al comma 5 ivi comprese, le formazioni forestali di origine artificiale realizzate su terreni agricoli a seguito dell'adesione a misure agro ambientali promosse nell'ambito delle politiche di sviluppo rurale dell'Unione europea una volta scaduti i relativi vincoli, i terrazzamenti, i paesaggi agrari e pastorali di interesse storico coinvolti da processi di forestazione, naturale o artificiale, oggetto di recupero a fini produttivi. Le suddette formazioni vegetali e i terreni su cui essi sorgono devono avere estensione non inferiore a 2.000 metri quadrati e larghezza media non inferiore a 20 metri e copertura non inferiore al 20 per cento, con misurazione effettuata dalla base esterna dei fusti […]”.
2.3. Ciò chiarito, emerge dalla relazione tecnica ritualmente depositata dal ricorrente, nonché dal relativo elaborato fotografico (cfr., in particolare, foto nn. 3 e ss.), che l’area in esame è caratterizzata dalla pressoché totale assenza di essenze arboree e/o arbustive. Invero, trattasi, nella specie, o di sterpaglie incolte, oppure di essenze ornamentali piantumate dai proprietari di terreni limitrofi.
Pertanto, in presenza di una sì verosimile discordanza tra la cartografia di cui all’adottato PPTR (utilizzata dall’Amministrazione ai fini in esame) e le obiettive emergenze fattuali, costituiva onere dell’Amministrazione esternare compiutamente le ragioni militanti nel senso dell’inclusione dell’area in esame in area a bosco, ai sensi della cennata previsione normativa.
In tal senso l’Amministrazione non ha tuttavia operato, desumendo la connotazione dell’area in esame unicamente dalle risultanze cartografiche dell’adottato PPTR, e omettendo quindi –pur in presenza dell’apporto conoscitivo offerto dalla ricorrente– l’espletamento di una puntuale istruttoria tesa all’accertamento della effettiva realtà territoriale.
2.4. Per tali ragioni, è evidente il deficit istruttorio e motivazionale che attinge l’impugnato provvedimento (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 19.02.2015 n. 628 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

VARIL’acqua sul «misfatto» salva il padrone del cane. Diritto & animali. Il vademecum per il «passeggio».
Le necessità fisiologiche del cane portato a passeggio non possono essere telecomandate del padrone. È possibile però usare delle accortezze per limitare i danni.
La Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la sentenza 18.02.2015 n. 7082 dà una risposta al ricorrente, che ha impiegato cinque anni e tre gradi di giudizio per sentirsi dire che è impossibile imporre al migliore amico dell’uomo il rispetto per un muro di pregio.
Il ricorrente, proprietario di un edificio di interesse storico, si era costituito parte civile contro il padrone del cane che aveva imbrattato con la pipì la facciata del palazzo. L’uomo, condannato per imbrattamento dal giudice di pace, era stato assolto dal tribunale monocratico perché il fatto non costituisce reato. Anche i cinque giudici componenti il collegio della seconda sezione penale, della Suprema corte, arrivano alla stessa conclusione, dopo aver analizzato i fatti e verificato l’assenza di dolo.
La Cassazione non sottovaluta il problema posto alla sua attenzione, «che coinvolge interessi diffusi nella vita quotidiana». A salvare il padrone del cane dalla sanzione è stata una bottiglietta d’acqua prontamente versata sul “misfatto” del suo amico a quattro zampe. Elemento importante che porta ad escludere il dolo, anche eventuale, che caratterizza il reato di imbrattamento. L’azione riparatrice provava, infatti, che non c’era volontà di arrecare danno.
La Cassazione elargisce poi qualche consiglio pratico ai padroni dei cani, ben consapevole dell’inevitabile rischio che sia il cane a scegliere dove e quando dare sfogo ad un istinto «non orientabile e non sopprimibile», a meno di ricorrere ad azioni che si porrebbero al limite del maltrattamento. Uno strumento utile allo scopo può essere il guinzaglio, per limitare i movimenti dell’animale, o intervenire con atteggiamenti tali da farlo desistere «quantomeno nell’immediatezza dell’azione».
Lungi dal condannare il proprietario di un cane che si era mostrato poco sensibile verso l’arte, la Cassazione sottolinea la sua buona educazione. Il fatto che l’accusato avesse con sé una bottiglietta d’acqua -i giudici non sono sfiorati dal dubbio che magari intendesse berla- denota un’attenzione poco diffusa e quanto mai opportuna. Se per altri bisogni ormai c’è l’obbligo di attrezzarsi con buste e palette, in caso di pipì del cane si registra una “lacuna normativa”....colmabile con un po’ di civiltà
 (articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2015).

TRIBUTI: Macchinari imbullonati tassati. Ici, Imu e Tasi su carroponte e impiantistica varia. Dalla Cassazione prima applicazione della norma contenuta nella legge di Stabilità.
I macchinari imbullonati concorrono alla determinazione della rendita catastale.

Lo ha affermato la Sez. tributaria della Corte di Cassazione, con la sentenza 18.02.2015 n. 3166, che ha richiamato le disposizioni contenute nella legge di Stabilità 2015 sui criteri di calcolo della rendita catastale degli immobili a destinazione industriale. Nella stima rientrano il carroponte e tutte le componenti impiantistiche che assicurano all'unità immobiliare un'autonomia funzionale e reddituale. Quindi, anche i macchinari sono soggetti a imposizione fiscale e al pagamento di Ici, Imu e Tasi.
Nel caso in esame, l'Agenzia del territorio di Trento aveva notificato al contribuente un avviso di accertamento col quale aveva attribuito una rendita catastale calcolata su un valore complessivo comprendente non solo l'immobile, ma anche i macchinari, quali il carroponte, l'impianto di aspirazione forni e l'impianto di colata. Per i giudici di piazza Cavour, «in virtù della combinazione della normativa fiscale e di quella codicistica, tutte le componenti, che contribuiscono in via ordinaria ad assicurare, ad una unità immobiliare, una specifica autonomia funzionale e reddituale stabile nel tempo, sono da considerare elementi idonei a descrivere l'unità stessa ed influenti rispetto alla quantificazione della relativa rendita catastale, come da ultimo confermato dalla norma d'interpretazione autentica contenuta nella L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 244». Concorrono, dunque, alla determinazione della rendita catastale un complesso di elementi, ritenuti funzionalmente collegati, costituiti da impianti, macchine, generatori di corrente e relativi motori.
Viene richiamato nella motivazione della sentenza, a conforto della tesi della Cassazione, il recente intervento normativo con il quale il legislatore ha indicato le modalità tecnico-estimative per la determinazione della rendita catastale delle unità immobiliari destinate alle attività industriali. L'articolo 1, comma 244, della legge di Stabilità 2015 (190/2014) ha stabilito, infatti, dopo un acceso dibattito politico sul riconoscimento dell'esenzione Imu per queste tipologie di immobili, che nelle more dell'attuazione delle disposizioni relative alla revisione della disciplina del sistema estimativo del catasto dei fabbricati, l'articolo 10 del regio decreto-legge 652/1939 si applica in base alle istruzioni fornite dall'Agenzia del territorio con la circolare 6/2012.
Con questa circolare sono state dettate le linee guida per individuare e valutare le componenti impiantistiche aventi rilevanza catastale. Tuttavia, per l'Agenzia gli impianti che devono essere valutati per il calcolo della rendita hanno carattere esemplificativo, poiché gli immobili a uso produttivo sono caratterizzati da una costante evoluzione tipologica e tecnologica.
Infine, sulla questione si è già espressa la Corte costituzionale (sentenza 162/2008), la quale ha chiarito che nella determinazione della rendita catastale bisogna tener conto di tutti i macchinari che caratterizzano l'unità immobiliare, senza i quali la struttura perderebbe le caratteristiche che contribuiscono a definirne la specifica destinazione d'uso. Quindi, va fatto riferimento al criterio dell'essenzialità dell'impianto per la destinazione economica dell'immobile (articolo ItaliaOggi del 25.02.2015).

CONDOMINIOLe grondaie sono parti comuni. Spese di riparazione ripartite tra tutti i condomini. La Cassazione: non rileva che ci sia il lastrico solare di proprietà esclusiva e non un tetto.
Le gronde e le altre parti comuni finalizzate a raccogliere e convogliare le acque piovane vanno riparate a spese di tutti i condomini secondo i millesimi di proprietà attribuiti a ciascuno, in quanto svolgono una funzione utile all'intero edificio condominiale. E questo anche nel caso in cui non via sia un tetto a falde ma un lastrico solare di proprietà esclusiva. Di conseguenza è illegittimo imporre al condomino proprietario del lastrico di sostenere un terzo della spesa di riparazione delle gronde sul presupposto che le stesse facciano parte integrante di quest'ultimo.

Lo ha chiarito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 27154/2015.
Nella specie il tribunale di Napoli aveva rigettato l'impugnazione della delibera assembleare proposta dai condomini proprietari del lastrico solare relativamente alla ripartizione delle spese di manutenzione delle gronde, che era avvenuta sulla base del criterio di cui all'art. 1126 c.c., chiamando quindi gli stessi a contribuire per un terzo nella rispettiva spesa. Anche il successivo appello aveva visto soccombenti i condomini e per questo motivo gli stessi avevano proposto ricorso in Cassazione.
La Suprema corte, nella sentenza in questione, nel dare viceversa ragione ai proprietari del lastrico solare, ha evidenziato come le gronde, al pari dei doccioni e dei canali di scarico delle acque, costituiscano in ogni caso parti comuni, anche laddove il lastrico solare sia di proprietà esclusiva di un condomino, perché finalizzati allo svolgimento di una funzione necessaria all'uso comune, ovvero quella dello scolo delle acque piovane.
Nella specie il giudice di primo grado aveva assoggettato le spese relative alla manutenzione delle gronde e delle altre parti comuni attraverso le quali si raccolgono e defluiscono le acque meteoriche allo stesso regime previsto dall'art. 1126 c.c. per il lastrico solare di proprietà esclusiva, assoggettando i relativi proprietari al contributo di un terzo dei costi. La corte di appello aveva a sua volta fatto proprie le conclusioni alle quali era giunto il tribunale.
I giudici di legittimità, al contrario, nell'accogliere le ragioni sostenute dai condomini proprietari del lastrico solare, hanno evidenziato come le gronde e le altre parti destinate a convogliare le acque pluviali svolgano una funzione di indubbio interesse comune e questo a prescindere dalla presenza di un tetto a falda o di un lastrico solare di proprietà esclusiva. Le gronde, infatti, conducono le acque piovane fino a terra o negli scarichi fognari, svolgendo dunque una funzione di interesse comune, anche prescindere da un eventuale utilizzo più intenso del bene comune ex art. 1102 c.c. da parte del proprietario del lastrico solare.
La Suprema corte ha ulteriormente evidenziato come le gronde non costituiscano una parte essenziale del lastrico solare e come il criterio di riparto di cui all'art. 1126 c.c. costituisca eccezione rispetto a quello ordinario di cui all'art. 1123 c.c., con conseguente inammissibilità di un'estensione analogica del medesimo.
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I criteri di attribuzione.
Secondo l'art. 1126 c.c. quando l'uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l'uso esclusivo o la proprietà sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni, mentre gli altri due terzi si dividono per millesimi tra tutti i condomini che ne ricevono copertura.
La norma sopra menzionata si applica esplicitamente soltanto ai lastrici solari, ma in detta espressione si comprendono anche le terrazze a livello, allorché le stesse costituiscano la copertura (anche parziale) dell'edificio. Del resto la terrazza a livello, anche se di proprietà o di uso esclusivo di un singolo condomino, assolve alla stessa funzione di copertura del lastrico solare posto alla sommità dell'edificio nei confronti degli appartamenti sottostanti.
Di conseguenza per entrambe le coperture i lavori di rifacimento devono essere divisi secondo le proporzioni stabilite dall'art. 1126 c.c. che, però, non trova applicazione per tutte le parti di cui si compone un lastrico o in alcune situazioni nelle quali la responsabilità per l'omessa ristrutturazione grava sul condomino che utilizza in via esclusiva la superficie dei lastrici o terrazze a livello.
- Le spese previste dall'art. 1126 c.c. Le spese da dividere secondo l'art. 1126 c.c. sono, in primo luogo, quelle di manutenzione, relative cioè a quegli interventi sulle parti di lastrico deteriorate dall'uso esclusivo ma, comunque, collegate alla funzione di copertura dei piani sottostanti (la pavimentazione) e le spese di ricostruzione, cioè i diversi interventi che incidono sugli elementi strutturali del lastrico solare (quali ad es. il solaio portante, la guaina impermeabilizzante ecc.).
Inoltre, tra le spese regolate dall'art. 1126 c.c. rientrano anche quelle relative agli strati termoisolanti o alle strutture su cui poggiano tali strati. Ma la disposizione in questione riguarda non solo le spese per il rifacimento o la manutenzione della copertura, e cioè del manto impermeabilizzato, ma altresì quelle relative agli interventi che si rendono necessari in via consequenziale e strumentale, quali le spese per il trasporto e la discarica dei detriti.
- Le spese non comprese nella ripartizione dell'art. 1126 c.c. Sono invece escluse dalla ripartizione ex art. 1126 c.c. le spese attinenti a quelle parti del lastrico solare del tutto avulse dalla funzione di copertura, come le spese attinenti ai parapetti o alle ringhiere, collegate alla sicurezza del calpestio. Tuttavia esse possono risultare comprese nelle spese previste dall'art. 1126 c.c. nel caso che il rifacimento dei parapetti sia stato determinato esclusivamente dai lavori di rifacimento del lastrico solare, cioè quando per rifare il terrazzo si è stati costretti a rimuovere anche i parapetti, successivamente da inserire nuovamente o ricostruire.
In ogni caso non possono ad esempio rientrare tra quelle da suddividere ai sensi dell'art. 1126 c.c. le spese di rifacimento e di manutenzione di una piscina di un condomino, posta sul lastrico solare condominiale in esclusivo uso del medesimo, poiché la vasca si pone come una specifica pertinenza dell'immobile e, in quanto tale, non necessita di manutenzione per la sua destinazione a copertura dei piani sottostanti ma per evitare che dalle pareti possano derivare infiltrazioni in ragione del particolare uso di tale struttura.
Non fanno parte del lastrico solare neppure i torrini della gabbia scale e del locale ascensore con la relativa copertura, che certamente sono beni condominiali: si tratta di distinti e autonomi manufatti sopraelevati rispetto al piano di copertura del fabbricato. In ogni caso sono di proprietà condominiale, e quindi a carico di tutti i condomini per millesimi, anche i canali di scarico, le gronde, la parte esterna dei parapetti, il cornicione e, in genere, tutti gli sporti di coronamento dei lastrici.
- Le spese per difetti originari del lastrico o colpa del condomino. L'art. 1126 c.c. si riferisce alle riparazioni dovute a vetustà e non a quelle riconducibili a difetti originari di progettazione o di esecuzione dell'opera, indebitamente tollerati dal singolo proprietario.
In tali situazioni non si tratta infatti di eseguire semplici riparazioni dovute a mancanza di manutenzione, bensì di eliminare difetti e situazioni pregiudizievoli esistenti nella proprietà esclusiva e dal singolo proprietario illegittimamente tollerati e non rimossi malgrado la loro potenziale pericolosità e l'obbligo non danneggiare gli altri condomini.
In ogni caso sono escluse dalla ripartizione ex art. 1126 c.c. le spese che si siano rese necessarie a causa di un comportamento negligente del titolare dell'uso esclusivo determinati da un utilizzo improprio del lastrico stesso (appoggio di vasi di notevole peso, ancoraggio di pali per stendere i panni o altro in modo tale da lesionare il sottostante strato impermeabilizzante ecc.) o lavori di sostituzione del pavimento non eseguiti a regola d'arte con conseguente danneggiamento degli strati sottostanti.
- La diversa ripartizione delle spese operata dal regolamento. Una clausola del regolamento di natura contrattuale può porre a carico dell'utente o proprietario esclusivo l'intero onere delle spese necessarie, e non il semplice terzo, come previsto dalla norma in argomento. Ma una diversa convenzione può anche stabilire delle diverse quote di ripartizione o limitare il pagamento della quota di due terzi, dovuta dai titolari delle unità immobiliare coperte, ad alcuni soltanto di questi o escludere il titolare del diritto esclusivo dal pagamento della quota di un terzo delle spese (articolo ItaliaOggi Sette del 16.02.2015).

ATTI AMMINISTRATIVIIl potere di convalida non è limitato a vizi di carattere formale o al solo vizio di incompetenza né l’esercizio del potere di riesame è precluso dalla esistenza di un contenzioso (anche qualora l’interessato nell’ambito del medesimo abbia ottenuto una pronuncia cautelare favorevole).
Il ricorrente con un unico articolato motivo lamenta che il comune avrebbe illegittimamente fatto ricorso al potere di convalida al fine di porre nel nulla gli effetti della misura cautelare che egli aveva ottenuto.
In sostanza la tesi del ricorrente è che il potere di convalida: a) sarebbe esercitabile solo per emendare il vizio di incompetenza ovvero vizi di natura esclusivamente formale; b) non potrebbe avere a oggetto atti sospesi in via cautelare dal giudice amministrativo in quanto l’amministrazione non avrebbe “la disponibilità” dei loro effetti.
A ciò si aggiunge che i provvedimenti di convalida impugnati sarebbero insufficientemente motivati in punto di interesse pubblico alla conservazione degli atti e comunque inficiati da una motivazione perplessa e contraddittoria (dato che esse si limitano a richiamare i deliberati cautelari del TAR e del Consiglio di Stato ma non riconoscono il vizio di legittimità delle delibere convalidate).
Si tratta di censure analoghe a quelle già esaminate dalla sezione in occasione del precedente ricorso del ricorrente (in cui pure si poneva un problema di convalida di delibere del consiglio impugnate a mezzo dei motivi aggiunti) e che la sezione ha ritenuto infondate con la citata sentenza n. 1036 del 04.12.2014.
Infatti il potere di convalida non è limitato a vizi di carattere formale o al solo vizio di incompetenza né l’esercizio del potere di riesame è precluso dalla esistenza di un contenzioso (anche qualora l’interessato nell’ambito del medesimo abbia ottenuto una pronuncia cautelare favorevole) (cfr. TAR Lazio, Latina, 11/04/2013, n. 312, Consiglio di Stato sez. V, 24/04/2013, n. 2278).
In ordine ai profili motivazionali ad avviso del Collegio le delibere impugnate si sottraggono alle censure proposte. E’ abbastanza evidente che la situazione di incertezza in ordine alle sorti delle delibere impugnate dal ricorrente (aggravata dall’esito sfavorevole del giudizio cautelare) ben giustifica l’operato del comune che, a fini “precauzionali”, ha ritenuto, a garanzia di evidenti esigenze di certezza dei rapporti giuridici, di riapprovare le delibere in sedute convocate senza utilizzare le modalità di convocazione sub judice (così da garantirne la sopravvivenza nel caso in cui il giudice avesse ritenuto illegittime le disposizioni regolamentari in contestazione).
Non sussiste quindi perplessità o contraddittorietà nell’operato del comune e in particolare non costituisce un vizio della convalida la circostanza che il comune non abbia per così dire riconosciuto l’illegittimità delle disposizioni regolamentari sub judice, limitandosi a prendere atto dei pronunciamenti cautelari sfavorevoli (e della conseguente possibilità di una soccombenza) e a riadottare le delibere con una procedura tale da rendere le delibere inattaccabili ove il ricorso principale fosse stato accolto (TAR Lazio-Latina, sentenza 16.02.2015 n. 166 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza prevalente ritiene che in tema di autorizzazione paesaggistica la disparità di trattamento sia vizio assai difficilmente riscontrabile, atteso il naturalmente diverso impatto sul paesaggio di differenti progetti, quand’anche simili tra loro.
Nella specie non è stata dimostrata un’eccezionale somiglianza dei casi addotti a paragone con quello per cui è causa, laddove la prova rigorosa deve essere fornita dall’interessato.

... per l'annullamento del provvedimento della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici dell’Umbria 01.6.2010, di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica 7/0577 del 18.12.2009 del Comune di Orvieto
...
Anche il terzo motivo, con cui si lamenta la disparità di trattamento in cui sarebbe incorsa l’Amministrazione con il provvedimento gravato, che non terrebbe conto di precedenti valutazioni positive espresse dalla Soprintendenza in fattispecie analoghe alla presente, non appare meritevole di apprezzamento.
Parte ricorrente produce tre autorizzazioni, risalenti al 2009, rilasciate dal Comune di Orvieto, per i lavori di realizzazione di lucernai sul tetto di copertura dei fabbricati, “approvate” dalla Soprintendenza Queste attengono ad immobili siti, rispettivamente, al corso Cavour, Piazza Ranieri e via Manente, mentre l’immobile della sig.ra B. è collocato in via delle Donne; inoltre non è stato versato in atti il disegno tecnico relativo all’intervento progettato dalla ricorrente, il che impedisce un’efficace comparazione tra i vari progetti.
La giurisprudenza prevalente ritiene che in tema di autorizzazione paesaggistica la disparità di trattamento sia vizio assai difficilmente riscontrabile, atteso il naturalmente diverso impatto sul paesaggio di differenti progetti, quand’anche simili tra loro (in termini Cons. Stato, Sez. VI, 01.04.2014, n. 1559; Sez. VI, 11.09.2013, n. 4497); nella specie non è stata dimostrata un’eccezionale somiglianza dei casi addotti a paragone con quello per cui è causa, laddove la prova rigorosa deve essere fornita dall’interessato (Cons. Stato, Sez. VI, 05.03.2013, n. 1323) (TAR Umbria, sentenza 16.02.2015 n. 80 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTIIn sede di gara d'appalto, il principio secondo cui è <vietata la commistione tra offerta tecnica ed economica>, al fine di prevenire il pericolo che gli elementi economici possono influire sulla previa valutazione dell'offerta tecnica, non va inteso in modo assoluto ben potendo nell'offerta tecnica essere inclusi singoli elementi economici che siano resi necessari dagli elementi qualitativi da fornire, purché siano elementi economici che non fanno parte dell'offerta economica, quali i prezzi a base di gara, i prezzi di listini ufficiali, i costi o prezzi di mercato, ovvero siano elementi isolati e del tutto marginali dell'offerta economica che non consentano in alcun modo di ricostruire la complessiva offerta economica.
In sede di gara d'appalto, nell'offerta tecnica possono essere inclusi singoli elementi economici che siano resi necessari dagli elementi qualitativi da fornire, purché siano elementi economici che non fanno parte dell'offerta economica, quali i prezzi a base di gara, i prezzi di listini ufficiali, i costi o prezzi di mercato, ovvero siano elementi isolati e del tutto marginali dell'offerta economica che non consentano in alcun modo di ricostruire la complessiva offerta economica.

E la giurisprudenza è chiara nell’affermare che:
- “In sede di gara d'appalto, il principio secondo cui è <vietata la commistione tra offerta tecnica ed economica>, al fine di prevenire il pericolo che gli elementi economici possono influire sulla previa valutazione dell'offerta tecnica, non va inteso in modo assoluto ben potendo nell'offerta tecnica essere inclusi singoli elementi economici che siano resi necessari dagli elementi qualitativi da fornire, purché siano elementi economici che non fanno parte dell'offerta economica, quali i prezzi a base di gara, i prezzi di listini ufficiali, i costi o prezzi di mercato, ovvero siano elementi isolati e del tutto marginali dell'offerta economica che non consentano in alcun modo di ricostruire la complessiva offerta economica“ (TAR Bologna Sez. I n. 204 del 20.02.2014 ; Cons. Stato, Sez. VI, 22.11.2012 n. 5928).
- “In sede di gara d'appalto, nell'offerta tecnica possono essere inclusi singoli elementi economici che siano resi necessari dagli elementi qualitativi da fornire, purché siano elementi economici che non fanno parte dell'offerta economica, quali i prezzi a base di gara, i prezzi di listini ufficiali, i costi o prezzi di mercato, ovvero siano elementi isolati e del tutto marginali dell'offerta economica che non consentano in alcun modo di ricostruire la complessiva offerta economica.” (TAR Veneto Sez. I n. 710 del 15.05.2013) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 13.02.2015 n. 338 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTIE' corretta l’interpretazione dell’art. 121, comma 1, del D.P.R. 207/2010 secondo cui le offerte di pari valore sono tutte da accantonare ai fini del calcolo del 10% di cui all’art. 86, comma 1 del codice dei contratti pubblici ciò in quanto:
- la norma fa riferimento alle offerte di eguale valore rispetto “alle offerte da accantonare”, senza distinguere tra offerte che sono a cavallo e quelle che sono all’interno delle ali;
- l’esigenza di depurare il calcolo della media aritmetica e dello scarto medio aritmetico da offerte disancorate dai valori medi, posta alla base dell’art. 121, è la stessa nelle due ipotesi, di ribassi identici a cavallo e all’interno delle ali;
- a tale conclusione è, altresì, pervenuta l’Autorità Nazionale Anticorruzione, con il parere n. 87 del 23.04.2014.

Considerato:
- che a un primo sommario esame il ricorso non appare fornito di sufficiente fumus boni iuris, ritenendo, invero, il Collegio di confermare il proprio orientamento, espresso con l’ordinanza di questa Sezione n. 1593 del 22.11.2012.
- che sembra, infatti, corretta l’interpretazione dell’art. 121, comma 1, del D.P.R. 207/2010 secondo cui le offerte di pari valore sono tutte da accantonare ai fini del calcolo del 10% di cui all’art. 86, comma 1 del codice dei contratti pubblici ciò in quanto:
- la norma fa riferimento alle offerte di eguale valore rispetto “alle offerte da accantonare”, senza distinguere tra offerte che sono a cavallo e quelle che sono all’interno delle ali;
- l’esigenza di depurare il calcolo della media aritmetica e dello scarto medio aritmetico da offerte disancorate dai valori medi, posta alla base dell’art. 121, è la stessa nelle due ipotesi, di ribassi identici a cavallo e all’interno delle ali;
- a tale conclusione è, altresì, pervenuta l’Autorità Nazionale Anticorruzione, con il parere n. 87 del 23.04.2014 (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, ordinanza 13.02.2015 n. 190 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTI: E' legittima la revoca dell'aggiudicazione qualora l'appaltatore si rifiuti in ordine alla consegna lavori sotto riserva.
L’obbligo di accettare, in caso di urgenza, la consegna dei lavori sotto riserva grava sulla ditta aggiudicataria, anche provvisoria, in forza del dettato della legge, e precisamente in forza dell’art. 11, comma 9, del codice dei contratti, che attribuisce alla stazione appaltante il correlativo diritto potestativo.
Nella fattispecie, pur in assenza della stipula del contratto d’appalto, la società ricorrente si è sottratta all’adempimento di un’obbligazione di natura legale, a prescindere da ogni ulteriore considerazione discendente dalla circostanza che la medesima aveva formalmente dichiarato, già in sede di gara, “di accettare, qualora risultasse aggiudicatario, l’eventuale consegna dei lavori sotto riserva di legge nelle more della stipulazione del contratto”.
Peraltro, a nulla rileva la circostanza, addotta come giustificazione al rifiuto di prendere in consegna i lavori, che il precario stato manutentivo delle strade non era rilevabile in sede di partecipazione alla procedura selettiva, essendo pacifico che la stessa ricorrente aveva altresì dichiarato di aver preso visione delle circostanze di luogo e di fatto inerenti ai lavori da espletare, nonché di tutte le circostanze generali e particolari capaci di influire sulla determinazione del prezzo.
Nel caso di specie, poi, l’incameramento della cauzione provvisoria e la segnalazione all’AVCP si presentano pienamente legittimi e proporzionati, in quanto atti consequenziali alle inadempienze imputabili alla società ricorrente, che hanno irrimediabilmente compromesso la normale stipula del contratto secondo l’ordine di aggiudicazione.
Considerato che:
- tutte le prefate censure non sono meritevoli di condivisione per le ragioni di seguito esplicitate (si segue l’ordine letterale di cui sopra):
aa) lo stato d’urgenza che ha reso indifferibile l’inizio dei lavori è agevolmente comprovabile in base alle seguenti osservazioni:
1) nella lettera di invito si dà espressamente conto della necessità di provvedere all’esecuzione dei lavori nel più breve tempo possibile attraverso interventi di manutenzione urgente, al fine di garantire il buon funzionamento della viabilità comunale;
2) nella determinazione comunale n. 92 del 25.03.2013, con cui si è liquidato un sinistro per cattivo stato di manutenzione della sede stradale, si cita la nota del Comando di Polizia Municipale del 23.11.2012, nella quale si rappresenta, con l’ausilio di immagini fotografiche, “l’esistenza di situazioni insidiose alla normale circolazione stradale e pedonale”;
3) la stessa documentazione fotografica allegata al ricorso conferma il notevole degrado di alcuni tratti viari, pericoloso per la sicurezza stradale;
4) evidenti, pertanto, sono le ragioni che giustificano l’impellenza dei lavori di manutenzione al fine di evitare pregiudizi per l’interesse pubblico, che si troverebbe ad essere minacciato dagli incombenti rischi per l’incolumità collettiva, dalla lievitazione dei sinistri stradali e dal conseguente inutile spreco di risorse comunali per far fronte a pretese risarcitorie e spese processuali;
5) con riguardo al carattere obiettivo dell’urgenza, vale notare in via dirimente che tutta la procedura selettiva si è svolta celermente, anche in relazione al procedimento di verifica dell’anomalia, proprio al fine di avviare in tempi brevi l’esecuzione dei lavori;
6) infine, la legge non richiede, perché possa darsi luogo all’affidamento sotto riserva, che l’urgenza sia stata causata da eventi imprevedibili, non fronteggiabili con gli strumenti ordinari, al pari del caso delle ordinanze di necessità, ben potendo tale urgenza essere apprezzata già al momento dell’indizione della gara;
bb) non possiedono forza invalidante le denunciate anomalie in tema di comunicazione di avvio del procedimento, non solo perché nel caso di specie non era esigibile alcun preavviso di revoca, attesa l’oggettiva esigenza di celerità nella definizione dell’affidamento dei lavori, ma anche perché l’apporto partecipativo della società ricorrente comunque non avrebbe prodotto alcun risultato diverso, sovvenendo al riguardo il chiaro disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990 (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 05.01.2012 n. 12);
cc) le esigenze di urgenza che rendevano indilazionabile l’esecuzione dei lavori sono state sufficientemente motivate, e portate a conoscenza della ricorrente, in una serie di atti formali dell’amministrazione, quali la lettera di invito, la nota prot. n. 2832 del 26.03.2013, intervenuta nel procedimento di verifica dell’anomalia, e, da ultimo, la nota prot. n. 3956 del 29.04.2013, recante l’invito a dare inizio ai lavori;
dd) l’obbligo di accettare, in caso di urgenza, la consegna dei lavori sotto riserva grava sulla ditta aggiudicataria, anche provvisoria, in forza del dettato della legge, e precisamente in forza dell’art. 11, comma 9, del codice dei contratti, che attribuisce alla stazione appaltante il correlativo diritto potestativo (cfr. in tal senso Consiglio di Stato, n. 12/2012 cit.).
Nella fattispecie, pur in assenza della stipula del contratto d’appalto, la società ricorrente si è sottratta all’adempimento di un’obbligazione di natura legale, a prescindere da ogni ulteriore considerazione discendente dalla circostanza che la medesima aveva formalmente dichiarato, già in sede di gara, “di accettare, qualora risultasse aggiudicatario, l’eventuale consegna dei lavori sotto riserva di legge nelle more della stipulazione del contratto”.
Peraltro, a nulla rileva la circostanza, addotta come giustificazione al rifiuto di prendere in consegna i lavori, che il precario stato manutentivo delle strade non era rilevabile in sede di partecipazione alla procedura selettiva, essendo pacifico che la stessa ricorrente aveva altresì dichiarato di aver preso visione delle circostanze di luogo e di fatto inerenti ai lavori da espletare, nonché di tutte le circostanze generali e particolari capaci di influire sulla determinazione del prezzo;
ee) infine, l’incameramento della cauzione provvisoria e la segnalazione all’AVCP si presentano pienamente legittimi e proporzionati, in quanto atti consequenziali alle inadempienze imputabili alla società ricorrente, che hanno irrimediabilmente compromesso la normale stipula del contratto secondo l’ordine di aggiudicazione
(TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 12.02.2015 n. 1053 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: La disposizione di cui all’art. 12 del D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 ha introdotto cautelarmente un vincolo culturale in forza di una presunzione di legge, superabile soltanto a seguito di una verifica negativa, in quanto finalizzata all’esclusione dell’interesse culturale e conseguentemente al definitivo esonero dall'applicazione delle disposizioni di tutela dei beni culturali (art. 12, comma 4), anche in vista di una loro eventuale sdemanializzazione (art. 12, commi 5 e 6); diversamente, in caso contrario e quindi di conferma dell’interesse culturale presunto, le cose di cui all’art. 10 del codice restano definitivamente sottoposte alle disposizioni di tutela del codice dei beni culturali (ai sensi dell’art. 12, comma 7).
Fino alla verifica effettiva dell’interesse culturale, i beni di cui all’art. 10 (tra cui anche le pubbliche piazze) rimangono comunque assoggettati alle disposizioni di tutela, sicché colui che intenda eseguire su di essi opere e lavori di qualunque genere deve preliminarmente munirsi dell’autorizzazione del soprintendente, che “è resa su progetto” e può contenere prescrizioni (art. 21, commi 4 e 5, del codice).

Vanno ora esaminati i motivi di appello con i quali si tende ad affermare la erroneità della sentenza di accoglimento di primo grado, nel punto in cui ha stigmatizzato l’operato della Soprintendenza, ritenendo che la richiesta di autorizzazione ai sensi dell’art. 21 da parte dell’ente proprietario del bene e il suo successivo rilascio da parte della Soprintendenza, presupponendo necessariamente l’interesse culturale del bene sussistente ope legis, rendevano del tutto superflua e ultronea la verifica negativa di cui al comma 2 dell’art. 12, finalizzata alla esclusione dell’interesse culturale del bene.
L’art. 12 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 prevede quanto segue: “1. Le cose indicate all’articolo 10, comma 1, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, se mobili, o ad oltre settanta anni, se immobili, sono sottoposte alle disposizioni della presente Parte fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2.
2. I competenti organi del Ministero, d'ufficio o su richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono e corredata dai relativi dati conoscitivi, verificano la sussistenza dell'interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico nelle cose di cui al comma 1, sulla base di indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero medesimo al fine di assicurare uniformità di valutazione.
3. Per i beni immobili dello Stato, la richiesta di cui al comma 2 è corredata da elenchi dei beni e dalle relative schede descrittive. I criteri per la predisposizione degli elenchi, le modalità di redazione delle schede descrittive e di trasmissione di elenchi e schede sono stabiliti con decreto del Ministero adottato di concerto con l'Agenzia del demanio e, per i beni immobili in uso all'amministrazione della difesa, anche con il concerto della competente direzione generale dei lavori e del demanio. Il Ministero fissa, con propri decreti, i criteri e le modalità per la predisposizione e la presentazione delle richieste di verifica, e della relativa documentazione conoscitiva, da parte degli altri soggetti di cui al comma 1.
4. Qualora nelle cose sottoposte a verifica non sia stato riscontrato l'interesse di cui al comma 2, le cose medesime sono escluse dall'applicazione delle disposizioni del presente Titolo.
5. Nel caso di verifica con esito negativo su cose appartenenti al demanio dello Stato, delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali, la scheda contenente i relativi dati è trasmessa ai competenti uffici affinché ne dispongano la sdemanializzazione qualora, secondo le valutazioni dell'amministrazione interessata, non vi ostino altre ragioni di pubblico interesse.
6. Le cose di cui al comma 4 e quelle di cui al comma 5 per le quali si sia proceduto alla sdemanializzazione sono liberamente alienabili, ai fini del presente codice.
7. L'accertamento dell'interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, effettuato in conformità agli indirizzi generali di cui al comma 2, costituisce dichiarazione ai sensi dell'articolo 13 ed il relativo provvedimento è trascritto nei modi previsti dall'articolo 15, comma 2. I beni restano definitivamente sottoposti alle disposizioni del presente Titolo.
8. Le schede descrittive degli immobili di proprietà dello Stato oggetto di verifica con esito positivo, integrate con il provvedimento di cui al comma 7, confluiscono in un archivio informatico, conservato presso il Ministero e accessibile al Ministero e all'Agenzia del demanio, per finalità di monitoraggio del patrimonio immobiliare e di programmazione degli interventi in funzione delle rispettive competenze istituzionali.
9. Le disposizioni del presente articolo si applicano alle cose di cui al comma 1 anche qualora i soggetti cui esse appartengono mutino in qualunque modo la loro natura giuridica. 10. Il procedimento di verifica si conclude entro centoventi giorni dal ricevimento della richiesta
”.
La disposizione ha introdotto cautelarmente un vincolo culturale in forza di una presunzione di legge, superabile soltanto a seguito di una verifica negativa, in quanto finalizzata all’esclusione dell’interesse culturale e conseguentemente al definitivo esonero dall'applicazione delle disposizioni di tutela dei beni culturali (art. 12, comma 4), anche in vista di una loro eventuale sdemanializzazione (art. 12, commi 5 e 6); diversamente, in caso contrario e quindi di conferma dell’interesse culturale presunto, le cose di cui all’art. 10 del codice restano definitivamente sottoposte alle disposizioni di tutela del codice dei beni culturali (ai sensi dell’art. 12, comma 7).
Fino alla verifica effettiva dell’interesse culturale, i beni di cui all’art. 10 (tra cui anche le pubbliche piazze) rimangono comunque assoggettati alle disposizioni di tutela, sicché colui che intenda eseguire su di essi opere e lavori di qualunque genere deve preliminarmente munirsi dell’autorizzazione del soprintendente, che “è resa su progetto” e può contenere prescrizioni (art. 21, commi 4 e 5, del codice).
Il Comune di La Spezia ha in effetti presentato istanza di autorizzazione ex art. 21 per i lavori di riqualificazione della piazza, autorizzazione rilasciata con provvedimento soprintendentizio n. 33062 del 06.11.2012.
Una volta che, pertanto, sia stata ottenuta l’autorizzazione in generale prevista per ogni intervento che riguarda beni assoggettati a tutela, non si vede quale spazio possa esservi per sostenere eventualmente una ulteriore verifica, che, se non positiva, potrebbe pervenire alle opposte conseguenze della mancanza di interesse culturale (o verifica negativa).
Non si vede, in sostanza, quale interesse possa muovere la Soprintendenza, una volta che essa abbia autorizzato positivamente un intervento, dando per assodata la sussistenza dell’interesse culturale dell’oggetto, a stimolare una ulteriore verifica negativa, finalizzata alla esclusione del bene dall’interesse culturale, che, al massimo, sarebbe nell’interesse della parte diretta ad effettuare l’intervento.
In presenza di una regolare autorizzazione emessa ai sensi dell’art. 21, non vi è nemmeno spazio alcuno per le misure cautelari quali l’ordine di sospensione dei lavori ai sensi dell’art. 28 (tra gli atti impugnati con il ricorso originario), tranne che si tratti di opere effettuate in difformità dal progetto autorizzato, cosa che non ricorre nella specie, oppure qualora si contesti una infedele rappresentazione dello stato originario dei luoghi o delle cose di potenziale interesse culturale.
L’articolo 28 su menzionato prevede la possibilità di adottare misure cautelari o preventive, ma la ratio della disposizione (in continuità storica con l’art. 28 del testo Unico del 1999 e in precedenza dall’art. 20 della L. 01.06.1939, n. 1089) non può che essere relativa a lavori eseguiti senza autorizzazione o in difformità della stessa, non già in caso di lavori autorizzati presupponendo positivamente l’interesse culturale, per la mancata verifica tesa, in ipotesi, a negare tale interesse
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.02.2015 n. 769 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: I Tweet della politica: monito del Consiglio di Stato.
Gli atti d'indirizzo della politica debbono concretarsi nella dovuta forma tipica dell'attività della pubblica amministrazione. La sentenza sui "cinguettii" dei Ministri.

I giudici di Palazzo Spada nel risolvere una complessa vicenda che riguarda il Comune di La Spezia relativa all'approvazione, all’esito di un apposito concorso di progettazione, di un intervento di riqualificazione architettonica ed artistica di una piazza, hanno preso anche posizione in ordine ad un “tweet” del Ministro che preannunciava la richiesta al comune di sospendere i lavori in attesa della verifica del progetto da parte del Ministero.
Nel giudizio, il Comune di La Spezia con il ricorso originario deduceva, tra l'altro, che le dichiarazioni via tweet e a mezzo stampa del Ministro integravano un’inammissibile usurpazione di funzioni amministrative di esclusiva competenza dirigenziale.
Nello stesso procedimento, peraltro, il Comune di La Spezia ha anche proposto appello incidentale sempre, in relazione alla impugnativa del tweet del Ministro, dal primo giudice ritenuto atto non impugnabile ma solo spia di eccesso di potere, trattandosi invece di atto di volontà di sospensione dei lavori.
Senza entrare nel merito della vicenda, la sentenza in esame si palesa oltremodo interessante in quanto la giustizia amministrativa viene chiamata ad esaminare un nuovo fenomeno, quello dell'utilizzazione ormai dilagante dei nuovi mezzi di comunicazione dell'attività politica.
Sul punto il Comune ha proposto appello incidentale, chiedendo la riforma della sentenza che non ha ritenuto di annullare il “tweet” o “cinguettio” del Ministro, ma ne ha solo dedotto una spia di eccesso di potere, "avendo gli organi statali avuto un ripensamento rispetto alle precedenti valutazioni soprattutto, o addirittura solo, per compiacere o per non discostarsi da posizioni pubblicamente assunte dall’autorità politica."
Il Consiglio di Stato nel dichiarare che tale pretesa svolta nell’appello incidentale sia assorbita dall'accoglimento della domanda di annullamento del ricorso originario ha ritenuto superflua "sia la ricerca di una ulteriore e distinta causa di illegittimità (per quanto sia evidente quantomeno la “spia” della disfunzione) sia soprattutto l’esame della domanda, da ritenersi per logica elementare condizionata, diretta ad annullare l’atto dell’autorità politica, perché da intendersi esso già quale manifestazione di volontà attizia."
Aggiungendo, però, per completezza che gli atti dell’autorità politica, limitati all’indirizzo, controllo e nomina ai sensi del decreto legislativo n. 165 del 2001, debbono pur sempre concretarsi nella dovuta forma tipica dell’attività della pubblica amministrazione (Cons. Stato, V, 24.09.2003, n. 5444, Cassazione civile, sezione II, 30.05.2002, n. 7913; III, 12.02.2002, n. 1970), anche, e a maggior ragione, nell’attuale epoca di comunicazioni di massa, messaggi, cinguettii, seguiti ed altro, dovuti alle nuove tecnologie e alle nuove e dilaganti modalità di comunicare l’attività politica.
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In considerazione della reiezione degli appelli principali e dell’appello del Ministero, con conseguente conferma della sentenza appellata nella sua sostanza, si rende irrilevante l’esame degli appelli incidentali proposti dal Comune di La Spezia, divenuti improcedibili per carenza di interesse.
Infatti, nel caso di pronuncia di infondatezza dell’appello principale, diventa improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, l’appello incidentale condizionato svolto dall’appellato (tra varie, Cons. Stato, V, 02.10.2010, n. 4921, ma già Cons. Stato, V, 21.01.1992, n. 57).
In realtà il Comune ha proposto appello incidentale senza qualificarlo oltremodo, chiedendo la riforma della sentenza nel punto in cui essa non ha ritenuto di annullare il “tweet” o “cinguettio” del Ministro, ma ne ha solo dedotto una spia di eccesso di potere, avendo gli organi statali avuto un ripensamento rispetto alle precedenti valutazioni soprattutto, o addirittura solo, per compiacere o per non discostarsi da posizioni pubblicamente assunte dall’autorità politica.
La pretesa svolta nell’appello incidentale, ad opinione del Collegio, deve ritenersi pienamente assorbita dal confermato accoglimento della domanda di annullamento del ricorso originario, sicché è superflua sia la ricerca di una ulteriore e distinta causa di illegittimità (per quanto sia evidente quantomeno la “spia” della disfunzione) sia soprattutto l’esame della domanda, da ritenersi per logica elementare condizionata, diretta ad annullare l’atto dell’autorità politica, perché da intendersi esso già quale manifestazione di volontà attizia.
Al riguardo, solo per scrupolo di completezza, il Collegio osserva che gli atti dell’autorità politica, limitati all’indirizzo, controllo e nomina ai sensi del decreto legislativo n. 165 del 2001, debbono pur sempre concretarsi nella dovuta forma tipica dell’attività della pubblica amministrazione (Cons. Stato, V, 24.09.2003, n. 5444, Cassazione civile, sezione II, 30.05.2002, n. 7913; III, 12.02.2002, n. 1970), anche, e a maggior ragione, nell’attuale epoca di comunicazioni di massa, messaggi, cinguettii, seguiti ed altro, dovuti alle nuove tecnologie e alle nuove e dilaganti modalità di comunicare l’attività politica
(commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.02.2015 n. 769 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo è meramente confermativo, e perciò non impugnabile, o di conferma in senso proprio e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini, occorre verificare se l’atto successivo è stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l’atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione; ricorre invece l’atto meramente confermativo quando l’amministrazione, a fronte di un’istanza di riesame si limita a dichiararne l’esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.

1.1.1 Il Collegio, che ha apprezzato la ricostruzione ermeneutica resa dal Tribunale amministrativo regionale ritiene che la infondatezza dell’appello si possa agevolmente dimostrare richiamando alcune affermazioni giurisprudenziali.
2. Invertendo l’ordine di esame seguito dal Tar si rileva che per costante giurisprudenza è jus receptum quello per cui (ex aliis, ancora di recente: Cons. Stato Sez. V, 05.12.2014, n. 6014) “l'adozione di un nuovo atto, quando non sia meramente confermativo di un provvedimento precedente già oggetto di impugnazione giurisdizionale ma costituisca (nuova) espressione di una funzione amministrativa, comporta la pronuncia d'improcedibilità del giudizio in corso per sopravvenuta carenza di interesse, trasferendosi l'interesse del ricorrente dall'annullamento dell'atto impugnato, sostituito dal nuovo provvedimento, all'annullamento di quest'ultimo”.
Ciò non già perché (come inesattamente chiestosi in via retorica dall’appellante) satisfattorio, ma per ragioni esattamente contrarie: ove esso rimanga non gravato, ovvero il gravame articolato nei confronti di detto atto sia inammissibile, l’impugnante non avrebbe alcun interesse a che il mezzo proposto nei confronti dell’atto “confermato” sia deciso, e financo accolto: l’assetto di interessi resterebbe disciplinato dal “secondo” provvedimento, parimenti lesivo, ma ormai immodificabile, ed egli non ricaverebbe alcun giovamento dall’annullamento del “primo”, con correlativo spreco di attività giurisdizionale.
2.1. Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo è meramente confermativo, e perciò non impugnabile, o di conferma in senso proprio e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini, occorre verificare se l'atto successivo è stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi; in particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione; ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'amministrazione, a fronte di un'istanza di riesame si limita a dichiararne l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (giurisprudenza costante: ex aliis di recente Cons. Stato Sez. IV, 14.04.2014, n. 1805) (massima tratta http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.02.2015 n. 758 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cortile, tecnicamente, è l’area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare luce e aria agli ambienti circostanti; ma avuto riguardo all’ampia portata della parola e, soprattutto alla funzione di dare aria e luce agli ambienti, che vi prospettano, nel termine cortile possono ritenersi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell’edificio –quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi– che, sebbene non menzionati espressamente nell’art. 1117 c.c., vanno ritenute comuni a norma della suddetta disposizione.
2.3. Quanto alla seconda –logicamente subordinata- articolazione della censura, va dato atto della circostanza che detta disposizione, in passato, venne interpretata in un senso –restrittivo– che parrebbe militare per la fondatezza di quanto sostenuto da parte appellante.
Il Consiglio di Stato, infatti, in passato, con la decisione n. 794/1983 sostenne che (Cons. Stato Sez. IV, 11.11.1983, n. 794 ) “la esenzione della servitù di elettrodotto, prevista dall'art. 121, 1° comma, lett. b), t.u. 11.12.1933, n. 1775, con riguardo alle case, salvo per le facciate verso le vie e piazze pubbliche, ai cortili, ai giardini, ai frutteti ed alle aie alle case attinenti, concerne soltanto l'infissione di supporti o ancoraggi per conduttori aerei; si riferisce, cioè, alle sole facoltà, dell'utente della servitù, descritte alla detta lett. b); pertanto, nell'ambito della previsione della lett. a) del 1° comma del cit. art. 121 è legittimo l'impianto di una cabina elettrica di trasformazione in un giardino privato”. (Cons. Stato Sez. IV, 11.11.1983, n. 794).
Più di recente, però, la Suprema Corte di Cassazione (sent. 1799/2000) è pervenuta ad una condivisibile interpretazione estensiva del concetto di “cortile”, esprimendo il convincimento (che il Collegio condivide pienamente e fa proprio) secondo cui “Il cortile, tecnicamente, è l'area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare luce e aria agli ambienti circostanti; ma avuto riguardo all'ampia portata della parola e, soprattutto alla funzione di dare aria e luce agli ambienti, che vi prospettano, nel termine cortile possono ritenersi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell'edificio -quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi- che, sebbene non menzionati espressamente nell'art. 1117 c.c., vanno ritenute comuni a norma della suddetta disposizione.”.
2.4. Da ciò discende che anche sotto tale profilo la prima censura non è accoglibile e parimenti non corretta appare la tesi per cui, trattandosi di “corte” e non di giardino, detta norma non poteva spiegare portata preclusiva assoluta, siccome inesattamente ritenuto dal Tar.
Invero se può concordarsi con la tesi per cui l’unico dato cui fare riferimento, al fine di accertare se si rientri – o meno- nel perimetro preclusivo della invocata disposizione riposa nelle resultanze catastali nel caso de quo la classificazione quale “corte”, non integra argomento dirimente per l’accoglimento dell’appello, posta la già sottolineata equiparazione di questa con il concetto di “cortile”.
2.5. Pertanto la statuizione del Tar va in parte qua confermata (massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.02.2015 n. 757 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

URBANISTICA: In tema di Piano di zona per l’edilizia economica e popolare, la decadenza di detti piani, se certamente comporta la caducazione delle dichiarazioni di pubblica utilità ex lege e dei vincoli espropriativi che ne derivano ai sensi dell’art. 9 della legge 18.04.1962, nr. 167, fa salvo però il vincolo conformativo derivante dalle destinazioni di zona che il Piano, in quanto strumento attuativo del P.R.G..
4. L’appello non può essere accolto, però, nella parte in cui sostiene che il progetto di lottizzazione a fini residenziali presentato dovesse essere assentito, per una distinta e rilevante considerazione, che –come si è prima avvertito- si lega strettamente a quanto rilevato al capo 2 della presente decisione.
4.1. In una recente decisione della Sezione (la n. 1139/2013, da intendersi integralmente richiamata e trascritta in questa sede) questo Consiglio di Stato ha vagliato una vicenda che presenta significative analogie con quella per cui è causa.
Ivi, è stato nuovamente richiamato il consolidato indirizzo –specificamente riferibile al Piano di zona per l’edilizia economica e popolare- secondo cui la decadenza di detti piani, se certamente comporta la caducazione delle dichiarazioni di pubblica utilità ex lege e dei vincoli espropriativi che ne derivano ai sensi dell’art. 9 della legge 18.04.1962, nr. 167, fa salvo però il vincolo conformativo derivante dalle destinazioni di zona che il Piano, in quanto strumento attuativo del P.R.G., ha posto (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15.02.2010, nr. 509; Cons. Stato, sez. IV, 27.10.2009, nn. 6572 e 6568; id., 12.12.2008, nr. 6182) (massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.02.2015 n. 756 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

URBANISTICALa perdita di efficacia di un P.E.E.P., non implica il riconoscimento del carattere di "zona bianca" all’area che in esso risultava inserita. Tale dato, del resto, è riconosciuto anche dai ricorrenti.
A riguardo, l’art. 9 della legge n. 167 del 18.04.1962 attribuisce espressamente ai piani di zona per l’edilizia economica e popolare il valore di piani particolareggiati di esecuzione, ai sensi della legge 17.08.1942, n. 1150.
La scadenza del termine previsto per la loro attuazione priva i suddetti piani di efficacia per la parte in cui non abbiano avuto esecuzione, permanendo invece a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti nei piani stessi.
Pertanto, in caso di scadenza del termine di efficacia di un piano particolareggiato, non possono trovare applicazione i ristretti limiti di edificabilità previsti dall’art. 4, u.c., della legge n. 10 del 1977, atteso che il decorso del termine per l’esecuzione del piano, diversamente da quanto accade in caso di scadenza dei vincoli espropriativi ex art. 2 della legge n. 1187/1968, non rende l’area priva di regolamentazione urbanistica.

Erronea è l’affermazione contenuta nella richiamata istanza, secondo cui il suolo di loro proprietà “sarebbe privo di disciplina urbanistica” a seguito della scadenza del PEEP, per decorrenza del termine di validità.
La perdita di efficacia di un P.E.E.P., non implica il riconoscimento del carattere di "zona bianca" all’area che in esso risultava inserita. Tale dato, del resto, è riconosciuto anche dai ricorrenti.
A riguardo, l’art. 9 della legge n. 167 del 18.04.1962 attribuisce espressamente ai piani di zona per l’edilizia economica e popolare il valore di piani particolareggiati di esecuzione, ai sensi della legge 17.08.1942, n. 1150.
La scadenza del termine previsto per la loro attuazione priva i suddetti piani di efficacia per la parte in cui non abbiano avuto esecuzione, permanendo invece a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti nei piani stessi (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 28.12.1994, n. 1089).
Pertanto, in caso di scadenza del termine di efficacia di un piano particolareggiato, non possono trovare applicazione i ristretti limiti di edificabilità previsti dall’art. 4, u.c., della legge n. 10 del 1977, atteso che il decorso del termine per l’esecuzione del piano, diversamente da quanto accade in caso di scadenza dei vincoli espropriativi ex art. 2 della legge n. 1187/1968, non rende l’area priva di regolamentazione urbanistica (c.d. zona bianca) (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 09.12.1996, sent. n. 1491; id., Sez. IV, 14.10.2005, sent. n. 5801, id, Sez. V, 20.03.2008, sent. n. 1216) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 12.02.2015 n. 228 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

VARIL’insulto al superiore non vale il licenziamento. Sanzioni disciplinari. La Cassazione: il contratto collettivo prevede una misura conservativa.
L’utilizzo da parte del lavoratore di parole offensive e volgari nei confronti di un responsabile aziendale a lui gerarchicamente sovraordinato costituisce insubordinazione di grado lieve e giustifica, alla luce della disciplina delineata dal contratto collettivo, una mera sanzione conservativa, risultando sproporzionata, per contro, l’irrogazione di un provvedimento espulsivo.
A tale conclusione è pervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza 11.02.2015 n. 2692 sul presupposto che ad attenuare gli effetti della condotta offensiva e volgare contro il superiore, come tale connotata dei tratti tipici della insubordinazione, si ponevano la convinzione del lavoratore di essere vittima di una delazione e l’ulteriore circostanza per cui non era stata rifiutata da quest’ultimo la prestazione lavorativa e neppure risultavano contestati i poteri gerarchici del responsabile aziendale.
Su tali considerazioni, è stata confermata la decisione della corte territoriale di annullare il licenziamento in tronco e disporre la reintegrazione sul posto di lavoro del dipendente.
La sentenza costituisce la rappresentazione plastica degli effetti che direttamente discendono dal nuovo regime dell’articolo 18 di cui alla legge 300/1970, in punto di tutela sanzionatoria ricollegata all’illegittimità del licenziamento disciplinare. La legge Fornero, che ha introdotto nell’articolo un nuovo comma 4, ha limitato la reintegrazione in servizio alle ipotesi in cui il licenziamento disciplinare sia fondato sulla contestazione di fatti insussistenti o di fatti disciplinarmente rilevanti a cui, tuttavia, la contrattazione collettiva o i codici disciplinari applicabili ricolleghino una sanzione conservativa.
È proprio sulla scorta di questo nuovo apparato sanzionatorio che la Cassazione ha ritenuto di confermare la decisione della Corte d’appello di Napoli sulla reintegrazione in servizio del lavoratore, stigmatizzando che il contratto collettivo applicato ricollegava alla insubordinazione lieve una mera sanzione conservativa, mentre lo stesso contratto collettivo prevedeva il licenziamento per giusta causa quale sanzione disciplinare per la diversa ipotesi di insubordinazione grave, accostata a sua volta ad altre fattispecie costituite da reati accertati con sentenza definitiva, quali il furto o il danneggiamento.
Rispetto a questo quadro normativo, in forza del quale è tuttora prevista la reintegrazione del lavoratore responsabile di episodi disciplinari rilevanti, ma ricollegati dalla contrattazione collettiva a provvedimenti conservativi, il nuovo regime di tutela previsto dallo schema di dlgs sul contratto di lavoro a tutele crescenti costituisce un cambio di rotta importante. Il nuovo regime, attualmente all’esame della commissione lavoro delle Camere, prevede che in caso di licenziamento disciplinare la reintegrazione sia possibile unicamente se viene direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale alla base della contestazione di addebito, mentre risulta eliminato ogni riferimento alla contrattazione collettiva e alle previsioni dei codici disciplinari.
L’inversione che si registra rispetto alla disciplina vigente dell’articolo 18 è significativa perché in quella stessa ipotesi del lavoratore che abbia proferito parole offensive e volgari nei confronti del responsabile aziendale, a prescindere da ogni giudizio di proporzionalità e dalle stesse previsioni sanzionatorie della disciplina collettiva di riferimento, non potrà essere applicata la tutela reintegratoria, ma liquidato un indennizzo risarcitorio in misura proporzionale all’anzianità di servizio
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.02.2015).

EDILIZIA PRIVATAFasce di rispetto valide sempre. Codice della strada. Anche quando l’opera ricostruita è identica alla preesistente.
La ricostruzione di un’opera edile va intesa in modo diverso secondo che si parli di regole stradali o di regole urbanistiche: nel primo caso vale il senso letterale (quindi il manufatto nuovo può anche essere identico al precedente), nel secondo occorre che ci siano degli elementi di innovazione.
Lo si ricava dalla sentenza 11.02.2015 n. 2656, depositata dalla I Sez. civile della Corte di Cassazione.
La Corte si è espressa sulla vicenda -per nulla rara in Italia- di una vecchia autorimessa che era posta sul bordo di una statale e, quando erano in vigore i limiti minimi di distanza imposti dall’articolo 18 dell’attuale Codice della strada, era stata ricostruita esattamente com’era in origine. Il punto controverso è l’applicabilità di tali limiti (detti anche fasce di rispetto), che scattano sia per le nuove costruzioni sia «nelle demolizioni integrali e conseguenti ricostruzioni o negli ampliamenti fronteggianti le strade» (articolo 28, comma 1, del Regolamento di esecuzione del Codice).
Nella vicenda in questione, la Corte d’appello di Bologna aveva dato torto all’Anas, che aveva chiesto la demolizione dell’autorimessa per la violazione della fascia di rispetto. Per i giudici di secondo grado non si rientrava nel concetto di ricostruzione, perché esso andava mutuato dall’articolo 873 del Codice civile (sulla distanza tra edifici), interpretato dalla giurisprudenza (come la sentenza 21578/2011 delle Sezioni unite) nel senso che occorre una difformità «per volumetria e sagoma» rispetto all’opera preesistente.
La Corte d’appello ha così utilizzato il criterio dell’analogia, che ora la Cassazione contesta perché giustificato solo per decidere su casi simili a quello disciplinato dalla norma cui s’intende fare riferimento o a materie analoghe. Occorre poi che ci sia lo stesso fondamento razionale, che è quello che manca in questo caso.
Infatti, la ratio del Codice della strada è la sicurezza della circolazione e degli abitanti, non le questioni di vicinato cui si riferisce il Codice civile. Per questo, la deroga ai limiti di distanza va riconosciuta solo alle opere esistenti prima della strada. Con la demolizione integrale (citata dall’articolo 28 del Regolamento) il problema della preesistenza non si pone più e qualsiasi cosa si edifichi dopo è soggetta alla fascia di rispetto
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.02.2015).

EDILIZIA PRIVATALe valutazioni della stazione appaltante circa la verifica della anomalia dell’offerta sono espressione di discrezionalità amministrativa non sindacabile in sede giurisdizionale se non in presenza di una manifesta illogicità.
Tali principi sono stati anche di recente ribaditi dal Consiglio di Stato secondo cui “il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta”; “il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione della sfera propria della pubblica amministrazione”.
Si osserva altresì, sempre in tema di giudizio sull’eventuale anomalia dell’offerta, che, quando si tratti di giudizio favorevole, esso non richiede di regola una motivazione puntuale ed analitica e il relativo giudizio di verifica ha natura globale e sintetica, sì che l’attendibilità dell’offerta va valutata nella sua globalità.
Tali principi sono stati affermati dalla stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 8 del 03.02.2014, secondo cui “La sfera di valutazione della congruità dell’offerta è, infatti, espressione di discrezionalità c.d. tecnica della stazione appaltante, che è sempre suscettibile di sindacato esterno nei profili dell’eccesso di potere per manifesta irragionevolezza, erronea valutazione dei presupposti, contraddittorietà. Il concorrente può, quindi, introdurre in giudizio elementi che sul piano sintomatico, in modo pregnante, evidente, e decisivo rendano significativo il vizio di eccesso di potere in cui possa essere incorso l’organo deputato all’esame dell’anomalia”.
Da tutto ciò consegue che il giudizio di congruità e attendibilità dell’offerta e di insussistenza di profili di anomalia, di competenza dell’amministrazione, può essere censurato in sede giurisdizionale esclusivamente per manifesta illogicità, irragionevolezza, erroneità, contraddittorietà delle valutazioni compiute dalla stazione appaltante, profili che, a giudizio del collegio, risultano insussistenti nel caso di specie, alla luce, in particolare, delle specifiche controdeduzioni espresse al riguardo dalla controinteressata nella propria memoria del 03.11.2014, da ritenersi, nel loro complesso, idonee e sufficienti al fine di escludere la manifesta illogicità e irragionevolezza delle valutazioni operate dalla stazione appaltante in ordine alla non necessità di richiedere giustificazioni al riguardo alla controinteressata, con conseguente insindacabilità da parte del giudice del merito delle medesime valutazioni tecniche rimesse alla competenza della stazione appaltante medesima.

Considerato che con le censure in esame si contesta la legittimità del sub procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta posto in essere dalla stazione appaltante, relativamente alla voce del costo annuo della raccolta degli ingombranti, si osserva, in primo luogo, che le valutazioni della stazione appaltante circa la verifica della anomalia dell’offerta sono espressione di discrezionalità amministrativa non sindacabile in sede giurisdizionale se non in presenza di una manifesta illogicità (cfr. Consiglio di Stato, sezione quinta, 21.01.2009 n. 278).
Tali principi sono stati anche di recente ribaditi con la pronuncia del Consiglio di Stato, sez. V, 05.09.2014 n. 4516, che conferma TAR Sardegna, sez. I, n. 355 del 2013, secondo cui “il giudizio di anomalia o di incongruità dell’offerta costituisce espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale che rendano palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta (Cons. Stato, sez. V, 26.06.2012, n. 3737; 22.02.2011, n. 1090; 08.07.2008, n. 3406; 29.01.2009, n. 497)”; “il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della pubblica amministrazione sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria, senza poter tuttavia procedere ad alcuna autonoma verifica della congruità dell’offerta e delle singole voci, ciò rappresentando un’inammissibile invasione della sfera propria della pubblica amministrazione (Cons. Stato, sez. V, 18.02.2013, n. 974; 19.11.2012, n. 5846; 23.07.2012, n. 4206; 11.05.2012, n. 2732)”.
Si osserva altresì, sempre in tema di giudizio sull’eventuale anomalia dell’offerta, che, quando si tratti di giudizio favorevole, esso non richiede di regola una motivazione puntuale ed analitica e il relativo giudizio di verifica ha natura globale e sintetica, sì che l’attendibilità dell’offerta va valutata nella sua globalità.
Tali principi sono stati affermati dalla stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 8 del 03.02.2014, secondo cui “La sfera di valutazione della congruità dell’offerta è, infatti, espressione di discrezionalità c.d. tecnica della stazione appaltante, che è sempre suscettibile di sindacato esterno nei profili dell’eccesso di potere per manifesta irragionevolezza, erronea valutazione dei presupposti, contraddittorietà.
Il concorrente può, quindi, introdurre in giudizio elementi che sul piano sintomatico, in modo pregnante, evidente, e decisivo rendano significativo il vizio di eccesso di potere in cui possa essere incorso l’organo deputato all’esame dell’anomalia
”.
Da tutto ciò consegue che il giudizio di congruità e attendibilità dell’offerta e di insussistenza di profili di anomalia, di competenza dell’amministrazione, può essere censurato in sede giurisdizionale esclusivamente per manifesta illogicità, irragionevolezza, erroneità, contraddittorietà delle valutazioni compiute dalla stazione appaltante, profili che, a giudizio del collegio, risultano insussistenti nel caso di specie, alla luce, in particolare, delle specifiche controdeduzioni espresse al riguardo dalla controinteressata nella propria memoria del 03.11.2014, da ritenersi, nel loro complesso, idonee e sufficienti al fine di escludere la manifesta illogicità e irragionevolezza delle valutazioni operate dalla stazione appaltante in ordine alla non necessità di richiedere giustificazioni al riguardo alla controinteressata, con conseguente insindacabilità da parte del giudice del merito delle medesime valutazioni tecniche rimesse alla competenza della stazione appaltante medesima (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 11.02.2015 n. 327 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTI: Le accertate false dichiarazioni non solo risultano sanzionate dall’ordinamento con la perdita del beneficio (decadenza dall’aggiudicazione provvisoria della gara), ai sensi dell’art. 75 ma anche con l’esclusione dalla competizione ex art. 38, comma 1, lett. f), e 48 D.lgs. n. 163 del 2006, risultando del tutto coerente la valutazione della stazione appaltante in ordine al venire meno, nel caso in esame, del necessario rapporto fiduciario che deve intercorrere tra l’amministrazione committente e l’impresa che dovrà realizzare i lavori pubblici oggetto di appalto, a causa delle false dichiarazioni rese da quest’ultima riguardo ad un elemento oltre modo pregnante dell’offerta e dello stesso appalto di lavori, costituito dall’individuazione dei profili professionali tecnici apicali incaricati dell’esecuzione dell’appalto in caso di aggiudicazione definitiva della gara.
Anche secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa “…E’ infatti chiaro che l’art. 38, comma 1, lettera f) del Codice appalti stabilisce che sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso una grave negligenza o malafede nell’esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara o che hanno commesso un errore grave nell’esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante”.
Nel caso in esame, la grave negligenza della ricorrente idonea a fare venire meno il rapporto fiduciario con la stazione appaltante, con conseguente esclusione della concorrente dalla gara ex art. 38, coma 1, lett. f), del D.Lgs. n. 163 del 2006, è data proprio (come in parte nella citata decisione) dalla accertata falsità della dichiarazione resa circa l’impiego di figure professionali aventi determinati requisiti richiesti espressamente dal bando.
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Si deve quindi osservare che nei casi sopra descritti, l’esclusione dalla gara non ha carattere sanzionatorio, ma è diretta a salvaguardare l’elemento fiduciario che deve connotare, fin dall’inizio, il rapporto tra stazione appaltante e impresa appaltatrice, e che può venire meno nelle fattispecie –come quella in esame– ove emerga un’inaffidabilità tecnico professionale della concorrente.
D’altra parte e sotto diverso angolo di visuale, si osserva che, secondo quanto stabilito dal maggioritario (e da questa Sezione condiviso) indirizzo giurisprudenziale, l'art. 48 del d.lgs. n. 163/2006 riferisce la verifica non solo ai requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, bensì alle dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell'offerta, e quindi a tutti i requisiti oggetto di dichiarazioni successivamente verificabili, non esclusi quelli di ordine generale di cui all'art. 38, secondo quanto ormai chiarito dalla nota sentenza dell'Adunanza Plenaria, 04.05.2012, n. 8.
Inoltre, l'incameramento della cauzione e la segnalazione all'Autorità sono consequenziali all'esclusione ai sensi dell'art. 48 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, configurandosi come attività vincolata alla ricognizione dei presupposti legali.

... per l'annullamento:
   A) del provvedimento della Provincia di Ravenna n. 2235 del 22.7.2014 recante l’esclusione della Società Mariani Costruzioni Generali s.r.l. dalla procedura aperta per l'affidamento dei lavori di razionalizzazione e messa in sicurezza, con eliminazione punti critici lungo la ex Strada Statale n. 235 "San Vitale" - tratto Russi;  
   B) del precedente provvedimento in data 06/05/2014 di revoca dell'aggiudicazione provvisoria disposta a favore di detta società, con escussione del deposito cauzionale provvisorio e con segnalazione del fatto all'Autorità di Vigilanza ed alla Procura della Repubblica;
   C) della comunicazione della Provincia di Ravenna 09.05.2014;
   D) del Bando di gara (punto XI), nonché della lex specialis di gara e di tutti i relativi verbali (se ed in quanto rilevanti). La ricorrente chiede, inoltre, l'annullamento, previa declaratoria d'inefficacia;
   E) del contratto d'appalto (non cognito) eventualmente sottoscritto dalla Provincia di Ravenna con la società Edilturci s.r.l. avente ad oggetto i lavori oggetto di appalto. La società ricorrente chiede, infine, la condanna dell’amministrazione provinciale di Ravenna al risarcimento del danno subito da Mariani Costruzioni Generali s.r.l. a causa degli illegittimi atti di gara impugnati, da ristorare o in forma specifica, mediante aggiudicazione definitiva e subentro nel contratto di appalto o, in subordine, per equivalente economico.
...
Il Collegio deve osservare che il ricorso non merita accoglimento.
Giova premettere che l’amministrazione appaltante ha dapprima revocato l’aggiudicazione provvisoria della gara all’impresa odierna ricorrente e quindi ha escluso la stessa dalla competizione per non avere essa comprovato la veridicità di quanto dichiarato in sede di gara ex artt. 46 e 47 del D.P.R. n. 445 del 2000, nella scheda n. 1), compilata per l’attribuzione del punteggio di cui all’elemento di valutazione A) Organigramma operativo che ogni concorrente propone per la gestione della commessa e che era valutabile per l’attribuzione di un punteggio all’offerta tecnica.
Tale rilevante elemento dell’offerta tecnica consisteva nell’esplicitare (mediante dichiarazioni rese ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. n. 445 del 2000) detto Organigramma operativo, che ogni concorrente si impegnava a garantire in caso di aggiudicazione,mediante analitica evidenziazione dei profili professionali di: A) Direttore tecnico; B) Responsabile tecnico di cantiere; C) Capo cantiere. Il bando precisava, inoltre, che ulteriore requisito per i soggetti scelti per ricoprire detti profili professionali era quello di avere effettivamente svolto tali attribuzioni negli ultimi 5 anni.
Alla società ricorrente, dichiarata aggiudicataria provvisoria della gara, l’amministrazione appaltante richiedeva la documentazione comprovante la veridicità di tutte le dichiarazioni rese in sede di presentazione dell’offerta. Per quanto concerne la scheda n. 1), l’amministrazione accertava che il Capo cantiere designato dalla ricorrente sig. K.S., in entrambi gli appalti indicati quale esperienza lavorativa pregressa in tale profilo professionale, non aveva in realtà svolto tali funzioni. Di qui, conseguentemente, il provvedimento di revoca dell’aggiudicazione provvisoria e, quello di esclusione dalla gara, con incameramento della cauzione e segnalazione alla A.V.C.P. motivati dalla Provincia sulla base sia della accertata mancanza dei requisiti dell’offerta richiesti dalla lex specialis sia, soprattutto, del venire meno del rapporto fiduciario tra amministrazione appaltante e concorrente, a causa delle false dichiarazioni rese dalla concorrente ex art. 46 e 47 del D.P.R. n. 445 del 2000, con conseguente applicazione dell’art. 48 D.Lgs. n. 163 del 2006.
Il Collegio ritiene immune da mende l’operato della Provincia, atteso che le accertate false dichiarazioni non solo risultano sanzionate dall’ordinamento con la perdita del beneficio (decadenza dall’aggiudicazione provvisoria della gara), ai sensi dell’art. 75 ma anche con l’esclusione dalla competizione ex art. 38, comma 1, lett. f), e 48 D.lgs. n. 163 del 2006, risultando del tutto coerente la valutazione della stazione appaltante in ordine al venire meno, nel caso in esame, del necessario rapporto fiduciario che deve intercorrere tra l’amministrazione committente e l’impresa che dovrà realizzare i lavori pubblici oggetto di appalto, a causa delle false dichiarazioni rese da quest’ultima riguardo ad un elemento oltre modo pregnante dell’offerta e dello stesso appalto di lavori, costituito dall’individuazione dei profili professionali tecnici apicali incaricati dell’esecuzione dell’appalto in caso di aggiudicazione definitiva della gara.
Anche secondo il prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa “…E’ infatti chiaro che l’art. 38, comma 1, lettera f) del Codice appalti stabilisce che sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti che, secondo motivata valutazione della stazione appaltante, hanno commesso una grave negligenza o malafede nell’esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara o che hanno commesso un errore grave nell’esercizio della loro attività professionale, accertato con qualsiasi mezzo di prova da parte della stazione appaltante” (v. Cons. Stato, sez. V, 21/06/2012 n. 3666).
Nel caso in esame, la grave negligenza della ricorrente idonea a fare venire meno il rapporto fiduciario con la stazione appaltante, con conseguente esclusione della concorrente dalla gara ex art. 38, coma 1, lett. f), del D.Lgs. n. 163 del 2006, è data proprio (come in parte nella citata decisione) dalla accertata falsità della dichiarazione resa circa l’impiego di figure professionali aventi determinati requisiti richiesti espressamente dal bando.
Detta circostanza, emersa in sede di esame della documentazione richiesta dalla stazione appaltante a M. a seguito dell’aggiudicazione provvisoria, è stata poi ulteriormente confermata dalla documentazione presentata dalla Provincia in data 17/12/2014, mediante la quale Autostrade per l’Italia (stazione appaltante nei 2 precedenti appalti di lavori pubblici indicati dalla ricorrente) ha ufficialmente confermato che il sig. K.S. non ha rivestito l’incarico di capo cantiere (v. doc. n. 4 della Provincia depositato in data 17/12/2014).
Né può in alcun modo giovare alla tesi della ricorrente, in quanto materiale del tutto irrilevante a tale fine, quanto da questa depositato successivamente a tale produzione: dichiarazioni rese in data 22/12/2014 dagli ufficiali capi cantiere nei due citati appalti di lavori, con le quali i medesimi confermano che –a fronte dell’incarico ufficiale loro attribuito da ANAS– essi avrebbero sub attribuito al sig. K. –in modo del tutto surrettizio in quanto all’insaputa della stazione appaltante– detto incarico di capo–cantiere.
Ciò premesso, si deve quindi osservare che nei casi sopra descritti, l’esclusione dalla gara non ha carattere sanzionatorio, ma è diretta a salvaguardare l’elemento fiduciario che deve connotare, fin dall’inizio, il rapporto tra stazione appaltante e impresa appaltatrice, e che può venire meno nelle fattispecie –come quella in esame– ove emerga un’inaffidabilità tecnico professionale della concorrente (v. sent. Cons.: stato n. 3666 del 2012 cit.).
D’altra parte e sotto diverso angolo di visuale, si osserva che, secondo quanto stabilito dal maggioritario (e da questa Sezione condiviso) indirizzo giurisprudenziale, l'art. 48 del d.lgs. n. 163/2006 riferisce la verifica non solo ai requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, bensì alle dichiarazioni contenute nella domanda di partecipazione o nell'offerta, e quindi a tutti i requisiti oggetto di dichiarazioni successivamente verificabili, non esclusi quelli di ordine generale di cui all'art. 38, secondo quanto ormai chiarito dalla nota sentenza dell'Adunanza Plenaria, 04.05.2012, n. 8 (e ribadito dalla successiva giurisprudenza: cfr. Sez. IV, 24.03.2014, n. 1389 e Sez. V, 07.06.2013, n. 3128).
Inoltre, l'incameramento della cauzione e la segnalazione all'Autorità sono consequenziali all'esclusione ai sensi dell'art. 48 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, configurandosi come attività vincolata alla ricognizione dei presupposti legali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 24.05.2013, n. 2832 e 16.02.2012, n. 810, Sez. V, 06.03.2013, n. 1373).
In conclusione, il Collegio ritiene che la valutazione effettuata dall’amministrazione appaltante in ordine alla inaffidabilità dalla ricorrente, sia coerente con i fatti accertati e sia del tutto ragionevole, tenuto conto della tipologia dell’appalto di lavori in questione e della oggettiva importanza attribuita dalla lex specialis di gara, anche in termini di punteggio assegnato all’offerta tecnica, all’elemento costituito dalla specifica professionalità ed esperienza richieste riguardo alle figure incaricate della concreta direzione dei delicati lavori da appaltare (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 11.02.2015 n. 127 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Geometri. Professioni abusive all'angolo.
Scatta l'esercizio abusivo della professione per chi, uscito dall'albo, compie uno degli atti tipici riservati a soggetti abilitati, nascondendosi dietro il nome del collega che formalmente risulta titolare dell'incarico. È così che si configura il reato ex art. 348 Cp a carico del geometra che dopo le dimissioni dall'Ordine svolge di fatto l'attività di direttore dei lavori per il progetto di ristrutturazione dell'immobile, redigendo il calcolo metrico estimativo che serve a ottenere il permesso edilizio: si tratta comunque di un atto riservato a chi è iscritto all'Ordine.

È quanto emerge dalla sentenza 10.02.2015 n. 6065 della VI Sez. penale della Corte di Cassazione.
Soltanto, la prescrizione salva, quindi, il geometra che risulta cancellato dall'albo. A inchiodarlo alla responsabilità penale è il committente dell'opera che conferma come sia stato l'imputato a seguire i lavori: non conta che un'altra persona sia formalmente indicata come direttore laddove la legge incrimina qualunque atto di abusivo esercizio della professione.
«E la condotta perseguita dall'art. 348 Cp», osservano gli Ermellini, «avviene quasi sempre in via di fatto, senza che venga meno la rilevanza penale della condotta». Non ha buon gioco, quindi, il professionista che si difende allegando e dimostrando che il ruolo formale di direttore dei lavori era stato assegnato ad altri laddove resta l'addebito per l'assunzione di responsabilità per uno specifico atto che soltanto un iscritto all'Ordine può compiere, come appunto l'estimo che consente di ottenere il titolo abilitativo per la ristrutturazione.
E paradossale risulta l'obiezione secondo cui lo specifico atto può essere compiuto da più categorie professionali, ad esempio per i calcoli che possono essere realizzati anche dagli ingegneri civili: non si può infatti pretendere che lo stesso atto possa essere impunemente compiuto da chi non appartiene ad alcuna delle categorie abilitate. Restano dunque ferme a carico del tecnico le statuizioni civili (articolo ItaliaOggi dell'11.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: La regolarità contributiva e fiscale, richiesta come requisito indispensabile per la partecipazione ad una gara di appalto ai sensi dell’art. 38 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 138, deve essere mantenuta per tutto l’arco di svolgimento della gara fino al momento dell’aggiudicazione, sussistendo l’esigenza della stazione appaltante di verificare l’affidabilità del soggetto partecipante alla gara fino alla conclusione della stessa, restando irrilevante un eventuale adempimento tardivo degli obblighi contributivi e fiscali, ancorché con effetti retroattivi, giacché la (ammissibilità della) regolarizzazione postuma si tradurrebbe in una integrazione dell’offerta, configurandosi come violazione della par condicio.
Né può ritenersi che i debiti sorti successivamente al termine di presentazione delle offerte non siano computabili, quasi che il requisito della regolarità fiscale e contributiva si potesse cristallizzare in uno con lo spirare del termine sopra indicato o che la stessa irregolarità possa risultare irrilevante per un tardivo adempimento.
Sul punto va altresì rammentato che l’Adunanza Plenaria con la sentenza 16.04.2012, n. 8, ha enunciato il principio di diritto a tenore del quale “ai sensi e per gli effetti dell’articolo 38, comma 1, lett. i), d.lgs. 163 del 2006, anche nel testo anteriormente al d.l. n. 70 del 2011, secondo cui costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto le gravi violazioni alle norme in materia previdenziale e assistenziale, la nozione di violazione grave non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina previdenziale, e in particolare dalla disciplina del documento unico di irregolarità contributiva; ne consegue che la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni (d.u.r.c.) si impongono alle stazioni appaltanti, che non possono sindacare il contenuto”.

Nel merito occorre rilevare che la verifica dei requisiti in capo all’originaria ricorrente veniva posta in essere dalla stazione appaltante a seguito dello scorrimento della graduatoria attivato a causa dell’esclusione subita dall’originaria aggiudicataria, che veniva confermata anche in sede giurisdizionale.
Contrariamente a quanto sostenuto dal TAR la Sezione è dell’avviso che non vi sia ragione per discostarsi dal convincente e condivisibile indirizzo giurisprudenziale a mente del quale la regolarità contributiva e fiscale, richiesta come requisito indispensabile per la partecipazione ad una gara di appalto ai sensi dell’art. 38 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 138, deve essere mantenuta per tutto l’arco di svolgimento della gara (Cons. Stato, sez. V, 17.03.2013, n. 2682; 13.02.2013, n. 890; 26.06.2012, n. 3738; sez. IV, 15.09.2010, n. 6907) fino al momento dell’aggiudicazione, sussistendo l’esigenza della stazione appaltante di verificare l’affidabilità del soggetto partecipante alla gara fino alla conclusione della stessa, restando irrilevante un eventuale adempimento tardivo degli obblighi contributivi e fiscali, ancorché con effetti retroattivi (Cons. Stato, sez. VI, 02.05.2011, n. 2580), giacché la (ammissibilità della) regolarizzazione postuma si tradurrebbe in una integrazione dell’offerta, configurandosi come violazione della par condicio.
Né può ritenersi che i debiti sorti successivamente al termine di presentazione delle offerte non siano computabili, quasi che il requisito della regolarità fiscale e contributiva si potesse cristallizzare in uno con lo spirare del termine sopra indicato o che la stessa irregolarità possa risultare irrilevante per un tardivo adempimento.
Sul punto va altresì rammentato che l’Adunanza Plenaria con la sentenza 16.04.2012, n. 8, ha enunciato il principio di diritto a tenore del quale “ai sensi e per gli effetti dell’articolo 38, comma 1, lett. i), d.lgs. 163 del 2006, anche nel testo anteriormente al d.l. n. 70 del 2011, secondo cui costituiscono causa di esclusione dalle gare di appalto le gravi violazioni alle norme in materia previdenziale e assistenziale, la nozione di violazione grave non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina previdenziale, e in particolare dalla disciplina del documento unico di irregolarità contributiva; ne consegue che la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni (d.u.r.c.) si impongono alle stazioni appaltanti, che non possono sindacare il contenuto” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 10.02.2015 n. 681 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

URBANISTICA: Decreto del Fare: il Giudice Ordinario conferma che la proroga dei termini delle convenzioni si applica solo a quelle formalmente stipulate.
Con ordinanza cautelare 24.10.2014 n. 1417 il TAR Lombardia-Milano, intervenendo in tema di interpretazione e applicazione dell'art. 30, comma 3-bis, D.L. n. 69/2013, aveva affermato che la proroga triennale dei termini di validità nonché di inizio e fine lavori nell'ambito delle convenzioni di lottizzazione si applichi unicamente agli atti formalmente stipulati.
Con ordinanza 10.02.2015 emessa a seguito di ricorso ex art. 700 c.p.c., il TRIBUNALE di Sondrio, Sez. unica civile, ribadisce che
«la terminologia adottata dal legislatore “accordi … stipulati sino al 31.12.2012” debba essere interpretata in senso letterale a mentre dell’art. 12 delle Preleggi, che attribuisce preminenza al dato letterale in ragione del noto brocardo “in claris non fit interpretatio"» a nulla valendo che la bozza della convenzione (o della sua modifica, come nel caso di specie) sia stata approvata dall'A.C. anteriormente al 31.12.2012 o che ad essa sia stata data esecuzione dalla parte privata entro tale termine.
L’operato della P.A. nel caso di assunzione di contratti ed impegni, deve infatti essere soggetto a forma scritta ad substantiam, escluso il sorgere di valide manifestazioni di volontà per facta concludentia (Cfr. fra le molte Cass. 22537/2007) ed il legislatore con il termine “stipulati” ha inteso fare riferimento ad un evento perfezionatosi che ha esaurito nel tempo i suoi effetti rispetto ad una data specifica (ovvero il 31.12.2012).
Ulteriore limite all’interpretazione offerta dal ricorrente è la peculiarità del soggetto coinvolto, ossia l’ente comunale, con il conseguente regime pubblicistico e formalistico che ne connota il suo agire, nonché la natura eccezionale della norma in commento che limita ulteriormente i margini interpretativi ex art. 14 delle Preleggi, mentre l’adempimento della stipula dell’atto notarile nel quale dovevano essere trasferite le delibere consiliari di approvazione della modifica della convenzione in esame entro un dato termine non potevano costituire, come affermato dal ricorrente, “un superfluo adempimento”, essendo la previa “stipulazione” presupposto, nella specie carente, per la fruttuosa applicazione della proroga accordata dal legislatore in forza del D.L. 69/2013 (convertito in L. 98/2013) (tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it).

SICUREZZA LAVOROAppalti interni, sicurezza doppia nei lavori edili. Prevenzione. Il documento di valutazione dei rischi da interferenza non esclude il piano di coordinamento.
Nell’appalto il datore di lavoro committente deve tener conto della presenza di ditte o di lavoratori autonomi terzi operanti nell’ambiente di lavoro in concomitanza dell’espletamento dei lavori affidati in appalto.
Il principio è dettato dalla sentenza 09.02.2015 n. 5857 con cui in Corte di Cassazione è stato respinto il ricorso avverso la decisione della Corte territoriale che aveva condannato sia il coordinatore per l’esecuzione dei lavori edili, sia il dirigente responsabile della produzione della società committente.
I fatti si riferiscono all’infortunio di due elettricisti dipendenti di due aziende a cui erano stati commissionati i lavori d’impiantistica in un capannone della ditta committente. Gli elettricisti, operando su una piattaforma aerea nel capannone, erano caduti a terra per l’urto del carroponte manovrato dal carpentiere di un’altra ditta appaltatrice.
Si era verificato dunque che all’interno del capannone operavano diverse compagini: il datore di lavoro committente, una ditta a cui erano stati commissionati particolari lavori del processo produttivo e altre due ditte alle quali lo stesso committente aveva appaltato lavori edili per la ristrutturazione.
Tale situazione implicava per il committente di provvedere sia agli adempimenti previsti dall’articolo 26 del Dlgs 81/2008 per l'ipotesi di appalto all’interno (al processo produttivo dell’appaltante), sia gli adempimenti previsti dagli articoli 88 e seguenti dello stesso decreto. In base al l’articolo 26, il datore di lavoro deve redigere il Duvri -documento unico di valutazione dei rischi da interferenza-; invece in base all’articolo 88, nel cantiere edile, deve essere sempre redatto anche il piano della sicurezza e coordinamento.
Secondo la sentenza, il primo elemento da prendere di esame è la previsione dell’articolo 26 deve fornire agli appaltatori «dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività», il che si riferisce all’intero ambiente di lavoro e all’intera attività del datore di lavoro committente. L’obbligo informativo non riguarda solo l’organizzazione facente capo al datore di lavoro committente, ma ogni fattore di rischio presente nell’ambiente di lavoro entro cui l’appaltatore si troverà ad operare.
Pertanto, ove l’ambiente di lavoro entro il quale l’appaltatore dovrà eseguire la prestazione concordata, preveda la presenza di un terzo soggetto –ad esempio, un lavoratore autonomo al quale sia affidato un diverso appalto interno o lavori edili– dovranno essere valutati e regolati anche i rischi che da quella presenza potrebbero derivare.
La Corte non manca di porre in particolare rilievo la consolidata giurisprudenza secondo cui la cerchia dei destinatari della tutela prevenzionistica che il datore di lavoro deve apprestare, include tutti coloro che prestano la loro opera nell’impresa, senza distinguere tra lavoratori subordinati e persone estranee all’ambito imprenditoriale. Da qui l’altro principio secondo cui l’imprenditore assume una posizione di garanzia in ordine alla sicurezza degli impianti, non solo nei confronti dei lavoratore subordinati o dei soggetti a questi equiparati, ma altresì nei riguardi di tutti coloro che possono comunque venire a contatto o trovarsi a operare nell'area della loro operatività
  (articolo Il Sole 24 Ore del 10.02.2015).

AMBIENTE-ECOLOGIARumore, reato se turba quiete pubblica. Emissioni. Il mero superamento dei limiti previsti dalla legge è punito solo come illecito amministrativo.
Il mero superamento dei limiti di emissioni rumorose previsti dalla legge è punito come illecito amministrativo mentre diventa reato quando determina un turbamento della quieta pubblica.
Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza 09.02.2015 n. 5735 della III Sez. penale.
In particolare -si legge nel dispositivo- «l’ambito di operatività dell’articolo 659 del codice penale, con riferimento ad attività o mestieri rumorosi, deve essere individuato nel senso che, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione fissati secondo i criteri di cui alla legge 447/95, mediante impiego o esercizio delle sorgenti individuate dalla legge medesima, si configura il solo illecito amministrativo di cui all’articolo 10, comma 2, della legge quadro; quando, invece, la condotta si sia concretata nella violazione di diposizioni di legge o prescrizioni dell’autorità che regolano l’esercizio del mestiere o dell’attività, sarà applicabile la contravvenzione sanzionata dall’articolo 659, comma 2, codice penale mentre, nel caso in cui l’attività e il mestiere vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete, sarà configurabile la violazione sanzionata dall’articolo 659 del codice penale».
Nel caso in oggetto, la Cassazione ha escluso che la condotta contestata si sia concretizzata in primo luogo nel mero superamento dei limiti di legge fissati per le emissioni sonore, dovendosi così escludere la possibile applicazione dell’articolo 10 della legge 447/1995. In secondo luogo ha invece escluso che il fenomeno disturbante sia stato cagionato esclusivamente dall’utilizzazione specifica di apparecchiature e strumenti tipici di una professione o un mestiere rumoroso, sebben risultino violate anche le prescrizioni dell’autorità dettate per l’esercizio dell’attività svolta dal ricorrente.
La vicenda ha visto coinvolto il tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto (sezione distaccata di Lipari) con sentenza emessa il 03.10.2012 con cui era stato condannato il responsabile di una discoteca situata in Santa Maria Salina. Allo stesso era stata comminata un’ammenda poi confermata dalla Cassazione la quale ha rigettato il ricorso presentato dallo stesso
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.02.2015).
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MASSIMA
L’ambito di operatività dell’art. 659 cod. pen., con riferimento ad attività o mestieri rumorosi, deve essere individuato nel senso che, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione fissati secondo i criteri di cui alla legge 447/1995, mediante impiego o esercizio delle sorgenti individuate dalla legge medesima, si configura il solo illecito amministrativo di cui all’art. 10, comma 2, della legge quadro; quando, invece, la condotta si sia concretata nella violazione di disposizioni di legge o prescrizioni dell’autorità che regolano l’esercizio del mestiere o dell’attività, sarà applicabile la contravvenzione sanzionata dall’art. 659 comma 2 cod. pen., mentre, nel caso in cui l’attività ed il mestiere vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete, sarà configurabile la violazione sanzionata dall’art. 659, comma 1, cod. pen. (tratta da http://renatodisa.com).

APPALTILa giurisprudenza interpreta i requisiti contenutistici del contratto di avvalimento in maniera estremamente rigida.
Da un lato, si precisa che è onere del concorrente dimostrare che l'impresa ausiliaria non s'impegna semplicemente a prestare il requisito soggettivo richiesto, quale mero valore astratto, ma assume l'obbligazione di mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, in relazione all'esecuzione dell'appalto, le proprie risorse ed il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di qualità e quindi, a seconda dei casi, mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti, in relazione all'oggetto dell'appalto.
Dall’altro, si osserva che per potersi avvalere dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo di un altro soggetto è necessario che risulti chiaramente, sia dal contratto di avvalimento (art. 49, comma 2, lett. f), d.lgs. n. 163 del 2006) che dalla dichiarazione unilaterale dell'impresa ausiliaria indirizzata alla stazione appaltante (art. 49, comma 2, lett. d), d.lgs. n. 163 del 2006), che l'impresa ausiliaria presti le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di qualità (a seconda dei casi: mezzi, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti, richiedendo l'art. 49 d.lgs. n. 163 del 2006 e l'art. 88, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 207 del 2010 che il contratto di avvalimento soddisfi l'esigenza di determinazione dell'oggetto riportando in modo compiuto, esplicito ed esauriente le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico.

Le valutazione del TAR non possono essere condivise.
Osserva la Sezione come la giurisprudenza (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. III, 17.06.2014 n. 3057; id, sez. VI, 13.06.2013 n. 3310) interpreti i requisiti contenutistici del contratto di avvalimento in maniera estremamente rigida.
Da un lato
, si precisa che è onere del concorrente dimostrare che l'impresa ausiliaria non s'impegna semplicemente a prestare il requisito soggettivo richiesto, quale mero valore astratto, ma assume l'obbligazione di mettere a disposizione dell'impresa ausiliata, in relazione all'esecuzione dell'appalto, le proprie risorse ed il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di qualità e quindi, a seconda dei casi, mezzi, personale, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti, in relazione all'oggetto dell'appalto.
Dall’altro
, si osserva che per potersi avvalere dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico, organizzativo di un altro soggetto è necessario che risulti chiaramente, sia dal contratto di avvalimento (art. 49, comma 2, lett. f), d.lgs. n. 163 del 2006) che dalla dichiarazione unilaterale dell'impresa ausiliaria indirizzata alla stazione appaltante (art. 49, comma 2, lett. d), d.lgs. n. 163 del 2006), che l'impresa ausiliaria presti le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo in tutte le parti che giustificano l'attribuzione del requisito di qualità (a seconda dei casi: mezzi, prassi e tutti gli altri elementi aziendali qualificanti, richiedendo l'art. 49 d.lgs. n. 163 del 2006 e l'art. 88, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 207 del 2010 che il contratto di avvalimento soddisfi l'esigenza di determinazione dell'oggetto riportando in modo compiuto, esplicito ed esauriente le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico.
L’ipotesi interpretativa utilizzata dal TAR, per cui le clausole generiche ben avrebbero potuto dar vita ad un principio di prova, si scontra contro la tassatività normativa che prevede la precisa indicazione degli elementi aziendali concreti sui quali si fonderà l’avvalimento, con una scelta esplicita alla massima trasparenza ed ostensibilità del modus del collegamento imprenditoriale. Infatti, ad utilizzare il criterio fatto proprio dal primo giudice, si giungerebbe all’incongruo risultato di favorire, quanto meno per l’utilizzo esteso del dovere di soccorso, dei soggetti che, qualora avessero partecipato in proprio, sarebbero stati direttamente esclusi per mancata documentazione dei requisiti.
In concreto, il contratto sottoscritto non aveva alcuno dei requisiti tassativamente richiesti per configurare un avvalimento nel senso normativo del termine, collocandosi sotto la soglia minima di riconoscibilità del negozio stesso.
In queste condizioni, la stazione appaltante doveva necessariamente escludere la concorrente, e in questo modo si risponde all’eccezione riproposta in appello dall’appellata, non in relazione ad una previsione di bando, in quanto, anche qualora il bando non prevedesse una simile forma di esclusione, questa sarebbe stata in ogni caso obbligata perché, venendo meno il collegamento tra le imprese, la Max & Chris Swimming SSD a r.l. era del tutto carente dei requisiti di partecipazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.02.2015 n. 662 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'art. 134, comma 4, 18.08.2000 n. 267, nella parte in cui dispone che nel caso di urgenza le deliberazioni del consiglio comunale o della giunta possono essere dichiarate immediatamente eseguibili con il voto espresso dalla maggioranza dei componenti, è norma che tende a salvaguardare l'effettività di quanto deciso dall'organo politico nelle more della pubblicazione dell'atto, al fine di evitare uno spazio temporale (dal giorno della deliberazione a quello dell'effettiva pubblicazione) che potrebbe tradire l'obiettivo della delibera medesima in modo deleterio per il pubblico interesse di volta in volta perseguito, così eliminando l'”effetto annuncio” connaturato all'ordinaria regola di cui al terzo comma dell'art. 134 (in base alla quale la delibera diventa ordinariamente esecutiva solo trascorsi dieci giorni dalla sua pubblicazione).
La clausola di immediata eseguibilità dipende da una scelta discrezionale dell'amministrazione, correlata al requisito dell'urgenza.
L’eventuale difetto di motivazione del requisito dell’urgenza non determina, in ogni caso, l’illegittimità dell’intero provvedimento, ma solo il differimento degli effetti giuridici del provvedimento al decorso del termine di dieci giorni dalla sua pubblicazione, senza quindi arrecare alcuna concreta utilità alla parte ricorrente.

4. Le ulteriori censure, di analogo tenore, dedotte con il terzo motivo del ricorso introduttivo e con il quarto motivo del terzo atto di motivi aggiunti attengono alla carenza di motivazione della clausola di immediata esecutività apposta dalla giunta alle proprie delibere di approvazione del progetto definitivo ed esecutivo.
La censura va disattesa, anche perché non appare sorretta da alcun concreto interesse della parte ricorrente.
4.1. L'art. 134, comma 4, 18.08.2000 n. 267, nella parte in cui dispone che nel caso di urgenza le deliberazioni del consiglio comunale o della giunta possono essere dichiarate immediatamente eseguibili con il voto espresso dalla maggioranza dei componenti, è norma che tende a salvaguardare l'effettività di quanto deciso dall'organo politico nelle more della pubblicazione dell'atto, al fine di evitare uno spazio temporale (dal giorno della deliberazione a quello dell'effettiva pubblicazione) che potrebbe tradire l'obiettivo della delibera medesima in modo deleterio per il pubblico interesse di volta in volta perseguito, così eliminando l'”effetto annuncio” connaturato all'ordinaria regola di cui al terzo comma dell'art. 134 (in base alla quale la delibera diventa ordinariamente esecutiva solo trascorsi dieci giorni dalla sua pubblicazione).
4.2. La clausola di immediata eseguibilità dipende da una scelta discrezionale dell'amministrazione, correlata al requisito dell'urgenza.
4.3. L’eventuale difetto di motivazione del requisito dell’urgenza non determina, in ogni caso, l’illegittimità dell’intero provvedimento, ma solo il differimento degli effetti giuridici del provvedimento al decorso del termine di dieci giorni dalla sua pubblicazione, senza quindi arrecare alcuna concreta utilità alla parte ricorrente
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 06.02.2015 n. 258  - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Nel procedimento avente ad oggetto l'espropriazione per pubblica utilità di aree non sussiste alcun dovere per l'Amministrazione di analitica disamina motivata di ciascun apporto pervenuto dagli interessati in ordine al tracciato e alla caratteristiche di un'opera pubblica, essendo sufficiente la motivazione anche succinta e non riferita a tutte le controdeduzioni, sicché, laddove le osservazioni presentate dai privati, ai sensi dell'art. 10, l. 07.08.1990, n. 241, siano acquisite al procedimento e tenute presenti dall'Amministrazione ai fini del processo decisionale, non può riconoscersi alcun rilievo invalidante alla mancanza di una confutazione analitica dei singoli punti oggetto del contraddittorio.
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La giurisprudenza ha chiarito che, benché la proroga dei termini fissati dalla dichiarazione di pubblica utilità debba essere preceduta dalla comunicazione di cui all'art. 7, l. 07.08.1990, n. 241, tuttavia l'eventuale omissione di tale obbligo da parte dell'Amministrazione assume una rilevanza meramente formale quando non vi è alcuna prova dell'apporto concreto che la partecipazione dell'espropriato avrebbe potuto comportare.
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L’art. 13 della L. 25.06.1865 n. 2359 -applicabile ratione temporis alla procedura espropriativa per cui è causa alla luce di quanto previsto dall’art. 57 del D.P.R. n. 327/2001- dispone che la proroga dei termini di compimento delle espropriazione e dei lavori può essere disposta “per casi di forza maggiore o per altre cagioni indipendenti dalla volontà dei concessionari”.
Al riguardo è stato affermato in giurisprudenza che l'obbligo di motivazione del provvedimento di proroga del termine per la conclusione della procedura espropriativa risulta adeguatamente assolto con il richiamo al ritardo degli organi pubblici preposti nella definizione delle procedure di esproprio, che costituisce fatto estraneo alla sfera di disponibilità dell'ente concessionario dei lavori e, quindi, riconducibile nei presupposti per l'adozione dell'atto di proroga del termine quali identificati dall'art. 13, l. 25.06.1865 n. 2359.

6. Un’ulteriore censura è quella contenuta nel terzo motivo del terzo atto di motivi aggiunti, con la quale si deducono vizi di carenza di istruttoria e di motivazione del provvedimento con cui la giunta provinciale ha approvato il progetto esecutivo dell’opera pubblica; i ricorrenti si dolgono, in particolare, delle argomentazioni con le quali la giunta ha confutato le loro osservazioni, che a loro dire sarebbero erronee, irrazionali e poco approfondite.
La censura va disattesa.
6.1. E’ principio condiviso quello per cui nel procedimento avente ad oggetto l'espropriazione per pubblica utilità di aree non sussiste alcun dovere per l'Amministrazione di analitica disamina motivata di ciascun apporto pervenuto dagli interessati in ordine al tracciato e alla caratteristiche di un'opera pubblica, essendo sufficiente la motivazione anche succinta e non riferita a tutte le controdeduzioni, sicché, laddove le osservazioni presentate dai privati, ai sensi dell'art. 10, l. 07.08.1990, n. 241, siano acquisite al procedimento e tenute presenti dall'Amministrazione ai fini del processo decisionale, non può riconoscersi alcun rilievo invalidante alla mancanza di una confutazione analitica dei singoli punti oggetto del contraddittorio (Consiglio di Stato, sez. IV, 28/10/2013, N. 5189).
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7.2. Un’altra censura (terzo motivo aggiunto) attiene alla mancata comunicazione di avvio del procedimento di proroga dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità. La medesima censura è stata riprodotta con il secondo motivo del quinto atto di motivi aggiunti nei confronti degli ulteriori atti di proroga successivamente intervenuti.
Anche tale censura va disattesa. La giurisprudenza ha chiarito che, benché la proroga dei termini fissati dalla dichiarazione di pubblica utilità debba essere preceduta dalla comunicazione di cui all'art. 7, l. 07.08.1990, n. 241, tuttavia l'eventuale omissione di tale obbligo da parte dell'Amministrazione assume una rilevanza meramente formale quando non vi è alcuna prova dell'apporto concreto che la partecipazione dell'espropriato avrebbe potuto comportare (Consiglio di Stato sez. IV, 19.11.2012 n. 5822).
Nel caso di specie nulla è stato dedotto dai ricorrenti, sicché non si comprende quali ragioni sostanziali essi avrebbero potuto far valere in sede procedimentale, in aggiunta a quelle già formulate sul progetto dell’opera pubblica (e già confutate dall’amministrazione), per impedire la proroga dei termini della procedura espropriativa.
7.3. Un’ulteriore censura attiene all’asserita assenza dei presupposti di legge per disporre la proroga dei predetti termini (censura formulata sia con il quarto motivo del quarto atto di motivi aggiunti, sia con il secondo motivo del quinto atto di motivi aggiunti).
La censura non merita di essere condivisa.
L’art. 13 della L. 25.06.1865 n. 2359 -applicabile ratione temporis alla procedura espropriativa per cui è causa alla luce di quanto previsto dall’art. 57 del D.P.R. n. 327/2001- dispone che la proroga dei termini di compimento delle espropriazione e dei lavori può essere disposta “per casi di forza maggiore o per altre cagioni indipendenti dalla volontà dei concessionari”.
Nel caso di specie tali “cagioni” sono state compiutamente individuate nella motivazione dei provvedimenti di proroga, e nessuna di esse attiene a profili “dipendenti dalla volontà dei concessionari”, bensì, tutte, a motivate criticità organizzative dell’amministrazione procedente, esposte in modo più sintetico nei primi due atti di proroga del 23.11.2007 e del 25.11.2008, e in modo decisamente più analitico e diffuso in quelli successivi (cfr. allegati 3, 4, 6 e 8 della produzione 24.07.2014 della Provincia): criticità connesse, in particolare, all’impossibilità di concludere la procedura espropriativa nel termine originariamente fissato a causa dell’abnorme aumento dei carichi di lavoro e del numero di procedure espropriative dipendenti dagli eventi olimpici del 2006, a cui si sono aggiunti i vincoli imposti all’ente provinciale dal patto di stabilità, che hanno condizionato l’affidamento degli incarichi professionali connessi all’espletamento delle attività di frazionamento e di stima.
Al riguardo è stato affermato in giurisprudenza che l'obbligo di motivazione del provvedimento di proroga del termine per la conclusione della procedura espropriativa risulta adeguatamente assolto con il richiamo al ritardo degli organi pubblici preposti nella definizione delle procedure di esproprio, che costituisce fatto estraneo alla sfera di disponibilità dell'ente concessionario dei lavori e, quindi, riconducibile nei presupposti per l'adozione dell'atto di proroga del termine quali identificati dall'art. 13, l. 25.06.1865 n. 2359 (Cons. Stato, sez. IV, 30.07.2012, n. 4301; Cons. Stato, sez. VI, 22.06.2005, n. 3298).
Nel caso di specie, ritiene il collegio che le ragioni addotte dall’amministrazione per giustificare la proroga dei termini di conclusione della procedura espropriativa siano ragionevoli, plausibili e correlate ad esigenze imprevedibili ed eccezionali, come tali non imputabili a negligenze o a mere inerzie organizzative dell’amministrazione procedente
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 06.02.2015 n. 258  - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALITar Napoli. Comuni, ok ai legali esterni.
Valido l'accordo fra il professionista esterno con il quale il comune affida al privato la gestione delle cause civili nelle quali è parte l'amministrazione locale in attesa che sia nominato il nuovo dirigente dell'avvocatura. Il funzionario del servizio legale dell'ente locale non riesce a bloccare la convenzione sottoscritta: deve infatti escludersi che la circostanza si risolva in una lesione della professionalità del dipendente laddove il provvedimento è comunque temporaneo.

È quanto emerge dalla sentenza 04.02.2015 n. 826 della I Sez. del TAR Campania-Napoli.
Non c'è dubbio che il funzionario sia titolare di una posizione certamente qualificata, come avvocato in servizio presso l'Avvocatura municipale, dell'interesse a contestare la razionalità del provvedimento del comune, che oggettivamente comporta la sottrazione di una fetta di contenzioso alla competenza dell'ufficio legale, sia pure in via temporanea.
Il fatto è che il contenzioso dell'ente risulta troppo voluminoso per essere gestito dall'ufficio senza capo: sono oltre 300 le cause pendenti. I 15 mila euro l'anno che la convenzione riconosce all'avvocato privato non costituiscono per le casse del comune un esborso tale da configurare l'illegittimità del provvedimento. Né giova al dipendente dell'amministrazione invocare la nuova legge forense: non risultano messe in discussione le prerogative professionali dell'avvocato in inquadrato nel ruolo legale dell'amministrazione laddove non sono pregiudicate l'indipendenza e l'autonomia delle restanti funzioni affidate all'avvocato dell'ente pubblico.
E in ogni caso l'incarico al legale esterno non è in contrasto con il Testo unico degli enti locali: la convenzione è «coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione» che conferisce il mandato al professionista che non rientra nell'organico. Spese compensate tranne il contributo unificato che è carico del funzionario dell'avvocatura (articolo ItaliaOggi del 17.02.2015).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittimo che il Comune imponga al condominio (per motivi igienico-sanitari) la costruzione di un locale per la raccolta e deposito dei rifiuti.
La questione è già stata esaminata dal Tribunale, che ha osservato come le norme del regolamento di igiene (artt. 3.4.39, 3.4.40, 3.4.41) e del regolamento edilizio (artt. 59, 60 e 61) richiamate nel provvedimento impugnato, che impongono ad ogni fabbricato di dotarsi sempre di un locale destinato alla raccolta rifiuti, non sono direttamente applicabili alle fattispecie cui è riconducibile la situazione del Condominio ricorrente.
Le prime, quelle del regolamento di igiene, in quanto espressamente abrogate dall’art. 135, comma terzo, del regolamento edilizio; le seconde, quelle del regolamento edilizio, in quanto l’art. 25, primo comma, dello stesso regolamento stabilisce che dette disposizioni devono essere “sempre” osservate solo per gli interventi di nuova costruzione ovvero nei casi di sostituzione edilizia; ed è pacifico che l’edificio di cui trattasi è stato realizzato prima dell’entrata in vigore del regolamento e che lo stesso non ha formato oggetto, in epoca recente, di interventi di ricostruzione o sostituzione edilizia.
Ciò, tuttavia, non consente di sostenere che il Comune non abbia il potere di ordinare la costruzione di locali destinati allo stoccaggio dei rifiuti nei confronti dei proprietari di fabbricati di risalente costruzione.
Invero, la parola “sempre” contenuta nel citato primo comma dell’art. 25 porta a ritenere che di tale disposizione si debba dare la seguente interpretazione: per i fabbricati di nuova costruzione l’applicazione delle nuove regole è comunque necessaria; questi quindi, per quanto interessa in questa sede, dovranno tassativamente dotarsi, in applicazione dell’art. 59, di un locale per lo stoccaggio dei rifiuti. Per i fabbricati vetusti invece l’applicazione delle nuove regole (e quindi l’adeguamento del fabbricato al regolamento edilizio sopravvenuto), pur non essendo sempre dovuta, può essere imposta dall’Autorità amministrativa qualora ricorrano superiori esigenze di interesse pubblico, con il limite oggettivo degli interventi tecnicamente realizzabili.
Tipiche ragioni di interesse pubblico sono quelle connesse alle preminenti esigenze di tutela della salute e dell’igiene ed in particolare al corretto svolgimento delle operazioni di raccolta e stoccaggio dei rifiuti, prodotti dalle unità abitative, all’interno di spazi ed aree condominiali, in attesa del loro conferimento al servizio pubblico di raccolta.
E’ invero intollerabile, per ovvie ragioni di igiene e per inderogabili esigenze di prevenzione della salute, che i rifiuti vengano ammassati (pur se allocati in appositi cassonetti) per stazionare, in attesa del conferimento, in aree condominiali non adatte allo scopo poste in immediata vicinanza alle finestre delle abitazioni.

1) Con il provvedimento impugnato l’amministrazione ha ordinato al Condominio ricorrente, in persona del relativo amministratore pro tempore, di adeguare il sistema di smaltimento rifiuti a quanto disposto dalle norme del regolamento edilizio e del regolamento di igiene.
Il provvedimento si basa sui verbali redatti dall’Asl in conseguenza di accertamenti effettuati presso il Condominio in ordine alle modalità di raccolta dei rifiuti.
In particolare, il rapporto del 06.05.2004 evidenziava come la raccolta dei rifiuti non fosse regolare, perché effettuata all’aperto ad una distanza di soli 3 metri dalle finestre delle abitazioni, sotto una tettoia utilizzando alcuni trespoli muniti di sacchi neri, alcuni dei quali, però, erano depositati direttamente a terra.
Sulla base di tali risultanze l’amministrazione in data 15.07.2014 invitava il Condominio ad adeguare il sistema di smaltimento alle norme regolamentari.
Nonostante una proroga concessa per l’adeguamento, in data 11.07.2006, l’amministrazione effettuava un’ulteriore verifica ed accertava la permanenza dell’irregolarità già riscontrata, poiché il deposito era semplicemente stato spostato da sotto le finestre ad un’area collocata dietro i box del condominio e continuava ad essere effettuato attraverso l’utilizzo di trespoli con sacchi, alcuni dei quali direttamente collocati a terra.
Nei giorni 11.07.2008 e 16.10.2008, l’Asl verificava nuovamente che il Condominio non era stato ancora dotato di un locale per la raccolta dei rifiuti, che restavano collocati nell’area sita presso i box secondo le modalità appena indicate, precisando che a meno di 10 metri dalle finestre continuavano ad essere collocati i bidoni per la raccolta differenziata.
All’esito delle verifiche ora richiamate, l’amministrazione adottava il provvedimento impugnato.
2) Con un unico articolato motivo, il ricorrente lamenta, in termini di violazione di legge ed eccesso di potere per difetto di istruttoria, che l’Amministrazione comunale, con il provvedimento in questa sede impugnato, avrebbe dato applicazione a disposizioni non applicabili alla fattispecie concreta, posto che le norme del regolamento edilizio invocate, le quali impongono che ogni edificio debba essere dotato di apposito locale per la raccolta dei rifiuti, si applicherebbero esclusivamente agli edifici di nuova realizzazione ovvero per i quali siano stati di recente eseguiti lavori di ristrutturazione e non già alle strutture, come quella del condominio interessato, realizzate in epoca risalente, anteriore all’entrata in vigore delle norme stesse.
La censura è infondata.
La questione è già stata esaminata dal Tribunale (cfr. Tar Lombardia Milano, sez. III, 27.02.2012, n. 627), che ha osservato come le norme del regolamento di igiene (artt. 3.4.39, 3.4.40, 3.4.41) e del regolamento edilizio (artt. 59, 60 e 61) richiamate nel provvedimento impugnato, che impongono ad ogni fabbricato di dotarsi sempre di un locale destinato alla raccolta rifiuti, non sono direttamente applicabili alle fattispecie cui è riconducibile la situazione del Condominio ricorrente.
Le prime, quelle del regolamento di igiene, in quanto espressamente abrogate dall’art. 135, comma terzo, del regolamento edilizio; le seconde, quelle del regolamento edilizio, in quanto l’art. 25, primo comma, dello stesso regolamento stabilisce che dette disposizioni devono essere “sempre” osservate solo per gli interventi di nuova costruzione ovvero nei casi di sostituzione edilizia; ed è pacifico che l’edificio di cui trattasi è stato realizzato prima dell’entrata in vigore del regolamento e che lo stesso non ha formato oggetto, in epoca recente, di interventi di ricostruzione o sostituzione edilizia.
Ciò, tuttavia, non consente di sostenere che il Comune non abbia il potere di ordinare la costruzione di locali destinati allo stoccaggio dei rifiuti nei confronti dei proprietari di fabbricati di risalente costruzione.
Invero, la parola “sempre” contenuta nel citato primo comma dell’art. 25 porta a ritenere che di tale disposizione si debba dare la seguente interpretazione: per i fabbricati di nuova costruzione l’applicazione delle nuove regole è comunque necessaria; questi quindi, per quanto interessa in questa sede, dovranno tassativamente dotarsi, in applicazione dell’art. 59, di un locale per lo stoccaggio dei rifiuti. Per i fabbricati vetusti invece l’applicazione delle nuove regole (e quindi l’adeguamento del fabbricato al regolamento edilizio sopravvenuto), pur non essendo sempre dovuta, può essere imposta dall’Autorità amministrativa qualora ricorrano superiori esigenze di interesse pubblico, con il limite oggettivo degli interventi tecnicamente realizzabili.
Tipiche ragioni di interesse pubblico sono quelle connesse alle preminenti esigenze di tutela della salute e dell’igiene ed in particolare al corretto svolgimento delle operazioni di raccolta e stoccaggio dei rifiuti, prodotti dalle unità abitative, all’interno di spazi ed aree condominiali, in attesa del loro conferimento al servizio pubblico di raccolta. E’ invero intollerabile, per ovvie ragioni di igiene e per inderogabili esigenze di prevenzione della salute, che i rifiuti vengano ammassati (pur se allocati in appositi cassonetti) per stazionare, in attesa del conferimento, in aree condominiali non adatte allo scopo poste in immediata vicinanza alle finestre delle abitazioni.
Nel caso in esame il Comune di Milano, anche a seguito di apposite segnalazioni effettuate dall’ASL, ha accertato che il condominio ricorrente seguiva procedure di raccolta dei rifiuti all’interno delle aree condominiali non compatibili con elementari esigenze di igiene: i rifiuti venivano stoccati, in attesa del conferimento al servizio pubblico, in prossimità delle finestre e almeno in parte mediante la diretta collocazione a terra.
Legittimamente, pertanto, l’autorità ha adottato il provvedimento impugnato con il quale si ordina l’adeguamento del fabbricato al vigente regolamento edilizio, attraverso la realizzazione di un apposito locale di raccolta, con conseguente infondatezza delle censure proposte.
3) In definitiva, il ricorso è infondato e deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 04.02.2015 n. 399 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’unanime giurisprudenza ha affermato che la decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio lavori opera di diritto e il provvedimento pronunciante la decadenza ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l’infruttuoso decorso del termine fissato dalla legge.
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In materia è stato poi sostenuto che l’eventuale sospensione del termine di durata di un titolo edilizio non può realizzarsi in via automatica, essendo a tal fine necessaria la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve seguire un provvedimento motivato dell’amministrazione che accerti l’impossibilità del rispetto del termine per “factum principis”, ovvero per l’insorgenza di una causa di forza maggiore.
Infatti i fatti sopravvenuti che possono legittimare la proroga del termine di inizio o completamento dei lavori ai sensi dell'art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, non hanno un rilievo automatico, ma possono costituire oggetto di valutazione e di verifica in sede amministrativa qualora l'interessato proponga un'apposita domanda di proroga.
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La proroga della dichiarazione di inizio di attività richiede l’istanza di parte e non può essere concessa d’ufficio.
Tocca infatti al privato indicare i fatti sopravvenuti che possono legittimare la proroga del termine di inizio o completamento dei lavori ai sensi dell'art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, che non hanno un rilievo automatico, ma possono costituire oggetto di valutazione e di verifica in sede amministrativa qualora l'interessato proponga un'apposita domanda di proroga.

In merito la giurisprudenza ha chiarito che ai sensi dell’art. 15 del D.P.R. n. 380/2001, rubricato “efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire”, il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno. Il suddetto termine può essere prorogato, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Ciò nondimeno, decorso il termine, il permesso decade di diritto per la parte non eseguita (cfr. comma 2).
La richiamata disposizione mira ad assicurare la certezza temporale dell’attività di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio, anche al fine di garantire un efficiente controllo sulla conformità dell’intervento edilizio a suo tempo autorizzato con il relativo titolo.
L’unanime giurisprudenza ha affermato che la decadenza della concessione edilizia per mancata osservanza del termine di inizio lavori opera di diritto e il provvedimento pronunciante la decadenza ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l’infruttuoso decorso del termine fissato dalla legge.
In materia è stato poi sostenuto che l’eventuale sospensione del termine di durata di un titolo edilizio non può realizzarsi in via automatica, essendo a tal fine necessaria la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve seguire un provvedimento motivato dell’amministrazione che accerti l’impossibilità del rispetto del termine per “factum principis”, ovvero per l’insorgenza di una causa di forza maggiore (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 08.04.2013 n. 1864).
Infatti i fatti sopravvenuti che possono legittimare la proroga del termine di inizio o completamento dei lavori ai sensi dell'art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, non hanno un rilievo automatico, ma possono costituire oggetto di valutazione e di verifica in sede amministrativa qualora l'interessato proponga un'apposita domanda di proroga (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 14.01.2013 n. 9).
Nel caso in questione l’efficacia dell’autorizzazione paesistica è venuta meno dopo l’inizio del termine per l’avvio dei lavori e la domanda di rinnovo è stata presentata oltre due anni dopo la scadenza della precedente autorizzazione.
Ne consegue che il termine di esecuzione dei lavori non poteva considerarsi interrotto sia per mancanza della domanda di proroga sia perché l’impossibilità di eseguire i lavori era da addebitarsi al comportamento della ricorrente e non a forza maggiore.
Il primo motivo di ricorso va respinto.
Il secondo motivo di ricorso è infondato in quanto la proroga della dichiarazione di inizio di attività richiede l’istanza di parte e non può essere concessa d’ufficio.
Tocca infatti al privato indicare i fatti sopravvenuti che possono legittimare la proroga del termine di inizio o completamento dei lavori ai sensi dell'art. 15, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001, che non hanno un rilievo automatico, ma possono costituire oggetto di valutazione e di verifica in sede amministrativa qualora l'interessato proponga un'apposita domanda di proroga (Consiglio di Stato, sez. IV – 10/08/2007 n. 4423) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.02.2015 n. 389 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTI: La previsione di una procedura negoziata, senza una pubblicazione del bando di gara, per fattispecie eccezionali che consentono la deroga all’obbligo delle Amministrazioni di scegliere il contraente mediante il confronto concorrenziale (art. 57 d.leg. 163/2006), presuppone, in termini generali, una scelta ed un giudizio della p.a. che va controllato con rigore nella individuazione dei presupposti giustificativi, da interpretarsi restrittivamente, dal giudice amministrativo tenuto ad assicurare una tutela piena ed effettiva secondo i principi della costituzione e del diritto europeo ex art. 1 c.p.a..
Per tal via, il ricorso alla procedura de qua deve ritenersi illegittimo le quante volte difetti il presupposto dell’estrema urgenza richiesto dall’art. 57, 2º comma, lett. c), d.leg. n. 163/2006; la disposizione è, infatti, rigorosa nell’ammettere il ricorso a tale modulo, richiedendo congiuntamente che l’estrema urgenza sia imprevedibile, non imputabile alla stazione appaltante e che la deroga alla pubblicità ed alla massima concorsualità sia attuata nella misura strettamente necessaria.

Ciò posto, osserva il Collegio come, per comune intendimento, la previsione di una procedura negoziata, senza una pubblicazione del bando di gara, per fattispecie eccezionali che consentono la deroga all’obbligo delle Amministrazioni di scegliere il contraente mediante il confronto concorrenziale (art. 57 d.leg. 163/2006), presuppone, in termini generali, una scelta ed un giudizio della p.a. che va controllato con rigore nella individuazione dei presupposti giustificativi, da interpretarsi restrittivamente, dal giudice amministrativo tenuto ad assicurare una tutela piena ed effettiva secondo i principi della costituzione e del diritto europeo ex art. 1 c.p.a. (cfr. Cons. Stato, sez. III, 08.01.2013, n. 26).
Per tal via, il ricorso alla procedura de qua deve ritenersi illegittimo le quante volte difetti (avuto concreto e specifico riguardo alla fattispecie oggetto di controversia) il presupposto dell’estrema urgenza richiesto dall’art. 57, 2º comma, lett. c), d.leg. n. 163/2006; la disposizione è, infatti, rigorosa nell’ammettere il ricorso a tale modulo, richiedendo congiuntamente che l’estrema urgenza sia imprevedibile, non imputabile alla stazione appaltante e che la deroga alla pubblicità ed alla massima concorsualità sia attuata nella misura strettamente necessaria (cfr. Cons. Stato, sez. V, 18.04.2012, n. 2222).
Orbene, dalla lettura dei provvedimenti con i quali la ASL intimata motivava, nel caso in esame, l'indizione della procedura ex art. 57 (esclusivamente in ragione della revoca in autotutela della procedura di gara indetta con delibera n. 838 del 10.08.2011 e della conseguente urgenza di affidare il servizio "limitando le proroghe contrattuali in essere" e "nelle more della nuova gara d'appalto") è dato indurre che, per quanto non sussistano ragioni per dubitare dell’estrema urgenza di provvedere (stante l’obiettiva necessità, nelle more dell’attivazione della gara comunitaria, di interrompere, nella gestione del rapporto, la prassi della reiterazione in via di proroga dei rapporti in essere e di garantire, nondimeno, la copertura di un servizio indefettibile ed indispensabile per la funzionalità del sistema sanitario nazionale), la stessa maturazione di una situazione necessitata rimontasse a scelte organizzative della medesima stazione appaltante, la quale –sia pure nella commendevole prospettiva di conseguire, nella gestione dei rapporti contrattuali in essere, il massimo risparmio di spesa– si era indotta a revocare in autotutela la procedura ordinaria pendente.
Con più lungo discorso, deve convenirsi, per un verso, con il rilievo, criticamente valorizzato dall’impresa ricorrente, che né la revoca in autotutela della procedura precedentemente bandita, né il "superamento dell'attuale regime di proroga dei contratti in corso", né la necessità di affidare il servizio "nelle more della nuova gara d'appalto", siano di per sé condizioni sufficienti, ai sensi del riportato art. 57, a giustificare l'adozione di una procedura negoziata senza pubblicazione del bando di gara e la correlativa compressione delle regole poste a tutela della concorrenza.
Per altro verso, la necessità di procedere alla selezione omettendo la pubblicazione del bando deve ritenersi, in concreto, frutto delle stesse insufficienze della pregressa attività amministrativa, non a caso esitate in una misura di “autotutela” rispetto alla procedura ordinariamente attivata in precedenza (TAR Campania–Salerno, Sez. I, sentenza 04.02.2015 n. 250 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di demolizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituito unicamente dalla mancanza del necessario permesso di costruire.
A tale riguardo, occorre inoltre osservare che, secondo il pacifico orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto, l'omessa comunicazione di avvio del procedimento preclude, ai sensi dell'articolo 21-octies, secondo comma, prima parte, della legge n. 241/1990, l'annullamento del provvedimento sanzionatorio di un'opera abusiva, stante sia il carattere vincolato del provvedimento stesso, che l’evidenza della inidoneità della partecipazione della parte interessata al procedimento, con la conseguenza che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
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Il provvedimento che ordina la demolizione di manufatti abusivi è atto dovuto in presenza di opere realizzate senza alcun titolo abilitativo e quindi non abbisogna di congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell’abuso, la quale è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato.
Fra le tante:
- <<l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico, da indicare solo nel caso di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza della commissione dell'abuso edilizio ed il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, tali da evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato>>;
- <<l'ordine di demolizione di una opera edilizia abusiva è sufficientemente motivato con l’affermazione della accertata abusività dell'opera stessa>>;
- <<la motivazione dell'ordine di demolizione sia pur sintetica è perfettamente compatibile con le disposizioni normative di cui alla l. n. 241 del 1990 ed assolve, in concreto, alla funzione di rendere ostensibile al destinatario l'iter logico seguito. Invero, i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, salvo ipotesi particolari delle quali non ricorrono gli estremi nella fattispecie, non necessitano di alcuna motivazione in ordine alla prevalenza dell'interesse pubblico, perché la repressione degli abusi edilizi costituisce un preciso obbligo dell'Amministrazione, che non gode di alcuna discrezionalità al riguardo>>.
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Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo favore della disposizione oggi contenuta nell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, con la precisazione che l’applicazione della sanzione pecuniaria è innescata da un’istanza presentata a tal fine dall’interessato e non già da una verifica tecnica di cui la parte pubblica non può venire ragionevolmente gravata, essendo proprio la parte privata, autrice dell'opera e del progetto, ad essere a conoscenza di come esso è stato eseguito e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito di demolizione, in pregiudizio della parte conforme.
Inoltre, come affermato dalla pacifica giurisprudenza sia in relazione all’applicazione dell’art. 33, comma 2, D.P.R. 380/2001, sia in relazione all’applicazione dell’art. 34, comma 2, stesso D.P.R., la valutazione relativa all’eventuale impossibilità tecnica del ripristino della parte eccedente, potrà essere rilevata d'ufficio -o fatta valere dagli interessati- solo in sede di esecuzione dell’eventuale ordine di demolizione (e non in sede di adozione dello stesso).
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La validità (ovvero l'efficacia) dell'ordine di demolizione non risulta infatti pregiudicata dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto.
Sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria attraverso l’istituto dell’accertamento di conformità determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione (all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria), dall'altro occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza: all'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata; di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia.

2.1 La prima censura non può essere condivisa.
Il provvedimento di demolizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituito unicamente dalla mancanza del necessario permesso di costruire (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VIII, 06.04.2011, n. 1945).
A tale riguardo, occorre inoltre osservare che, secondo il pacifico orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto, l'omessa comunicazione di avvio del procedimento preclude, ai sensi dell'articolo 21-octies, secondo comma, prima parte, della legge n. 241/1990, l'annullamento del provvedimento sanzionatorio di un'opera abusiva, stante sia il carattere vincolato del provvedimento stesso, che l’evidenza della inidoneità della partecipazione della parte interessata al procedimento, con la conseguenza che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. C.d.S., Sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; C.d.S., Sez. IV, 10.04.2009, n. 2227; Cass. SS.UU., 25.06.2009, n. 14878).
2.2. Anche la seconda censura deve essere disattesa.
Secondo la descrizione contenuta nell’impugnato provvedimento (riconosciuta e non contestata dalla stessa ricorrente), l'intervento edilizio in questione consiste nella realizzazione di un nuovo manufatto abusivo, in assenza totale di permesso di costruire, come tale sottoposto, ai sensi dell'articolo 31 del D.P.R. n. 380/2001, all'inevitabile applicazione dell’irrogata sanzione demolitoria.
Non sussistono quindi i lamentati vizi, in quanto il carattere abusivo dell'opera e la necessità del permesso di costruire sono elementi sufficienti, ai sensi della richiamata disposizione normativa, a rendere legittima l'adozione dell'impugnata ordinanza di demolizione.
A tal fine, il Collegio si limita a rilevare che il provvedimento che ordina la demolizione di manufatti abusivi è atto dovuto in presenza di opere realizzate senza alcun titolo abilitativo e quindi non abbisogna di congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell’abuso, la quale è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato (fra le tante: cfr. C.d.S. sez. V, 09.09.2013, n. 4470, secondo cui <<l’ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all’oggettivo riscontro dell’abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico, da indicare solo nel caso di un lungo lasso di tempo trascorso dalla conoscenza della commissione dell'abuso edilizio ed il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, tali da evidenziare la sussistenza di una posizione di legittimo affidamento del privato>>; C.d.S., sez. IV, 12.04.2011, n. 2266, secondo cui <<l'ordine di demolizione di una opera edilizia abusiva è sufficientemente motivato con l’affermazione della accertata abusività dell'opera stessa>>; TAR Campania Napoli, sez. II, 14.02.2011, n. 922, secondo cui <<la motivazione dell'ordine di demolizione sia pur sintetica è perfettamente compatibile con le disposizioni normative di cui alla l. n. 241 del 1990 ed assolve, in concreto, alla funzione di rendere ostensibile al destinatario l'iter logico seguito. Invero, i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, salvo ipotesi particolari delle quali non ricorrono gli estremi nella fattispecie, non necessitano di alcuna motivazione in ordine alla prevalenza dell'interesse pubblico, perché la repressione degli abusi edilizi costituisce un preciso obbligo dell'Amministrazione, che non gode di alcuna discrezionalità al riguardo>>).
2.3. Anche la terza censura deve essere disattesa.
Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può infatti invocare l'applicazione a suo favore della disposizione oggi contenuta nell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, con la precisazione che l’applicazione della sanzione pecuniaria è innescata da un’istanza presentata a tal fine dall’interessato e non già da una verifica tecnica di cui la parte pubblica non può venire ragionevolmente gravata, essendo proprio la parte privata, autrice dell'opera e del progetto, ad essere a conoscenza di come esso è stato eseguito e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito di demolizione, in pregiudizio della parte conforme (cfr. C.d.S., sez. V, 05.09.2011, n. 4982; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 05.08.2013, n. 4056; TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater, 27.05.2013, n. 5277).
Inoltre, come affermato dalla pacifica giurisprudenza sia in relazione all’applicazione dell’art. 33, comma 2, D.P.R. 380/2001 (cfr. TAR Lazio Roma, sez. I, 17.04.2007, n. 3327; TAR Lombardia, Brescia, 09.12.2002, n. 2213), sia in relazione all’applicazione dell’art. 34, comma 2, stesso D.P.R. (cfr. C.d.S., sez. V, 21.05.1999, n. 587; TAR Campania Napoli, sez. VII, 05.06.2008, n. 5244; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 22.11.2013, n. 5317), la valutazione relativa all’eventuale impossibilità tecnica del ripristino della parte eccedente, potrà essere rilevata d'ufficio -o fatta valere dagli interessati- solo in sede di esecuzione dell’eventuale ordine di demolizione (e non in sede di adozione dello stesso).
2.4. Non può essere condivisa neanche la quarta ed ultima censura.
Sia in base ai principi generali (secondo cui la legittimità di un atto amministrativo va valutata con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione), sia in base allo specifico quadro normativo di riferimento, l’avvenuta presentazione -in data successiva alla demolizione (come nella specie)- di una istanza ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 non è rilevante ai dedotti fini.
La validità (ovvero l'efficacia) dell'ordine di demolizione non risulta infatti pregiudicata dalla successiva presentazione di un'istanza di sanatoria ai sensi dell’art. 36 D.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto.
Sicché, se, da un lato, la presentazione della domanda di sanatoria attraverso l’istituto dell’accertamento di conformità determina inevitabilmente un arresto dell'efficacia dell'ordine di demolizione (all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera astrattamente suscettibile di sanatoria), dall'altro occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza: all'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione del sopravvenuto venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata; di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia (cfr. C.d.S., sez. IV, 19.02.2008, n. 849; TAR Campania, Napoli, Sez. II, 19.04.2013, n. 2093) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 04.02.2015 n. 233 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere di scavo.
Le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.02.2015 n. 4916 - tratto da www.lexambiente.it).
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Opere di scavo ad uso diverso dall'agricolo, necessario il titolo abilitativo edilizio.
Cassazione: incidono sul tessuto urbanistico del territorio le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli.

Con la sentenza 03.02.2015 n. 4916 la III Sez. penale della Corte di Cassazione ha ribadito che “
le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio” (cfr., Sez. 3, n. 8064 del 02/12/2008, P.G. in proc. Dominelli ed altro, Rv. 242741).
Nel caso affrontato un cittadino ha proposto ricorso contro la sentenza della Corte d'Appello di conferma della sentenza del Tribunale di condanna per i reati di cui agli artt. 44, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 (capo a) e 146 e 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004 (capo b) in relazione alla realizzazione di un piazzale mediante sbancamento a monte e riporto a valle del terreno in area sottoposta a vincolo paesaggistico.
CORRETTO IL PRONUNCIAMENTO DELLA CORTE D'APPELLO. Secondo la Cassazione la sentenza impugnata “ha correttamente argomentato, traendone logica conferma dall'avvenuta presentazione, con esito negativo, di richiesta di permesso a costruire un manufatto, come si versi in presenza di lavori di scavo e di sbancamento finalizzati ad edificazione di annesso agricolo e dunque, appunto, di manufatto, e non, invece, ad attività di coltivazione (la cui natura non è stata neppure specificata dal ricorrente), stante anche la conformazione del terreno”.
Inoltre, la sentenza impugnata ha correttamente “richiamato, con riguardo alla pretesa mancata considerazione dell'ordinanza comunale secondo cui, come affermato in ricorso, sarebbe stata necessaria una mera richiesta di inizio attività, il principio di autonomia delle valutazioni adottate in sede giurisdizionale rispetto a quelle dell'autorità amministrativa con le sole previsioni derogatorie tassativamente previste dalla legge” (cfr., Sez. 3, n. 22823 del 26/02/2003, Barbieri, Rv. 225293).
In ragione della finalizzazione dello scavo ad usi diversi da quelli agricoli, la Corte d'Appello ha poi correttamente escluso l'applicabilità del disposto dell'art. 149, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 42 del 2004 che implica proprio l'essenziale presupposto di attività agro-silvo-pastorale.
La suprema Corte ricorda che “anche gli interventi inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, laddove comportano un'alterazione permanente dell'assetto territoriale, richiedono la preventiva autorizzazione di legge, atteso che gli stessi assumono, in forza di ciò, la natura di opera civile” (cfr., Sez. 3, n. 2950 del 12/11/2003, Pizzolato ed altro, Rv. 227395) (commento tratto da www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: L’assenza del permesso di costruire e la conseguente abusività dell’opera edilizia costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria e, per costante giurisprudenza, la diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato e come tale non necessita di una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico sull’effettiva compromissione di interessi urbanistici, né di una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, né, infine, alcuna verifica sulla compatibilità delle opere con gli strumenti urbanistici vigenti o sull’astratta sanabilità dell'opera.
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Per il consolidato principio giurisprudenziale, l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non sull'Amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione.
Ai sensi dell’art. 63, comma 1, e dell’art. 64, comma 1, c.p.a. spetta al ricorrente, l'onere della prova in relazione a circostanze che rientrano nella sua piena disponibilità. Nello specifico, la prova circa il tempo di ultimazione delle opere edilizie è stata sempre posta sul privato, e non sull'Amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto.
In punto di diritto, il Collegio aderisce a quel filone giurisprudenziale che si è più volte espresso, nel senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse.
Al riguardo il Collegio rileva come di affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa della stessa.
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento.
Si rileva infine che, da un lato, consentire la possibilità di non sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero decorso di un notevole lasso di tempo, non determinato con precisione, significherebbe introdurre nel sistema un pericoloso elemento di indeterminatezza, perché la repressione di un dato abuso nel caso concreto sarebbe rimessa all’apprezzamento del singolo funzionario, oltretutto pressoché impossibile da sindacare nella presente sede giurisdizionale, con intuibile possibilità di strumentalizzazioni.
Dall’altro, a fronte dalla serie di condoni edilizi concessi negli ultimi decenni, ammettere la sostanziale estinzione di un abuso per il mero decorso del tempo significherebbe costruire una sorta di sanatoria di fatto che opererebbe anche quando l’interessato non abbia ritenuto di avvalersi del corrispondente istituto previsto dalla citata normativa premiale, e quindi senza nemmeno la necessità di versare le oblazioni da essa previste. Per altro verso, poi, si deve comunque escludere che si possa parlare di affidamento tutelabile nel momento in cui di detta normativa l’interessato non abbia ritenuto di avvalersi.
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L'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria e non è necessaria valutazione, né, tantomeno una motivazione "ad hoc" sulla astratta non sanabilità dell'opera.

3) Infondato è il primo motivo di ricorso basato sulla considerazione che il Comune avrebbe comminato la sanzione della demolizione senza tener conto della effettiva compromissione degli interessi urbanistici e della possibile compatibilità con gli strumenti urbanistici , sulla base della sola assenza del permesso di costruire, senza contare che al momento della realizzazione delle opere, risalenti nel tempo, nessun vincolo gravava sul fondo interessato.
Osserva in proposito il Collegio come l’assenza del permesso di costruire e la conseguente abusività dell’opera edilizia costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria (Consiglio Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357) e, per costante giurisprudenza, la diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato (ex multis, C.d.S., VI, 28.06.2004, n. 4743; C.d.S., sez. V, 10.07.2003, n. 4107; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246) e come tale non necessita di una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico sull’effettiva compromissione di interessi urbanistici, né di una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (Cons. Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702), né, infine, alcuna verifica sulla compatibilità delle opere con gli strumenti urbanistici vigenti o sull’astratta sanabilità dell'opera (TAR Campania Napoli Sez. VII, 27.05.2013, n. 2755; TAR Campania, sez. III, 27.09.2006, n. 8331; Consiglio Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357).
Quanto dedotta risalenza nel tempo delle opere a un periodo di tempo precedente all’imposizione dei vincoli paesaggistici, tale circostanza è rimasta di fatto meramente affermata e non dimostrata da parte ricorrente e, in ogni caso, risulterebbe irrilevante stante l’assenza del permesso di costruire e stante, in ogni caso, il principio della rilevanza dei vincoli paesaggistici sopravvenuti.
4) Nel secondo motivo di ricorso parte ricorrente ha dedotto che le opere in questione sono state realizzate da oltre ottanta anni e ha lamentato il difetto di motivazione dell’atto gravato, in quanto, in considerazione del lungo lasso di tempo trascorso tra la realizzazione degli abusi e l’adozione delle sanzioni, l’amministrazione avrebbe dovuto indicare specifiche ragioni di interesse pubblico alla rimozione degli abusi.
Il motivo è infondato.
In punto di fatto parte ricorrente non ha fornito elementi idonei a suffragare la sua affermazione che le opere in questione sarebbero state realizzate oltre 80 anni prima dell’impugnato ordine di demolizione.
Osserva il Collegio al riguardo come, per il consolidato principio giurisprudenziale, l'onere di fornire la prova dell'epoca di realizzazione di un abuso edilizio incombe sull'interessato, e non sull'Amministrazione, la quale, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo che la legittimi, ha solo il potere-dovere di sanzionarla ai sensi di legge e di adottare, ove ricorrano i presupposti, il provvedimento di demolizione (TAR Campania Napoli, Sez. II, 27.11.2014 n. 6118; Consiglio di Stato, sez. IV, 14.02.2012, n. 703; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 02.07.2010, n. 16569).
Ai sensi dell’art. 63, comma 1, e dell’art. 64, comma 1, c.p.a. spetta al ricorrente, l'onere della prova in relazione a circostanze che rientrano nella sua piena disponibilità (Consiglio di Stato sez. IV 10.01.2014 n. 46; Consiglio di Stato sez. III 13.09.2013 n. 4546). Nello specifico, la prova circa il tempo di ultimazione delle opere edilizie è stata sempre posta sul privato, e non sull'Amministrazione, dato che solo l'interessato può fornire gli inconfutabili atti, documenti o gli elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto (Consiglio di Stato Sez. VI 20.12.2013 n. 6159; Consiglio di Stato sez. V 20.08.2013 n. 4182; Consiglio di Stato sez. V 15.07.2013 n. 3834; Consiglio di Stato Sez. VI 01.02.2013 n. 631).
In punto di diritto, il Collegio aderisce a quel filone giurisprudenziale che si è più volte espresso (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907), nel senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702, Cons. Stato Sez. VI, 27.03.2012, n. 1813; Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5758; Cons. Stato Sez. IV, 20.07.2011, n. 4403; Cons. Stato Sez. V, 27.04.2011, dalla n. 2497 alla n. 2527; Cons. Stato Sez. V, 11.01.2011, n. 79; TAR Lombardia Milano Sez. II, 08.09.2011, n. 2183; TAR Lazio Roma Sez. I-quater, 23.06.2011, n. 5582; TAR Campania Napoli Sez. III, 16.06.2011, n. 3211; TAR Campania Napoli Sez. VIII, 09.06.2011, n. 3029; Cons. Stato Sez. V, 09.02.2010, n. 628) e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 31.05.2013, n. 3010; Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781).
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza. In questi casi il fattore tempo non agisce qui in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907; Cons. Stato, IV, 04.05.2012, n. 2592).
Al riguardo il Collegio rileva come di affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa della stessa (Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2009, n. 5509).
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento (TAR Brescia, Sez. I, 22.02.2010, n. 860).
Si rileva infine che, da un lato, consentire la possibilità di non sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero decorso di un notevole lasso di tempo, non determinato con precisione, significherebbe introdurre nel sistema un pericoloso elemento di indeterminatezza, perché la repressione di un dato abuso nel caso concreto sarebbe rimessa all’apprezzamento del singolo funzionario, oltretutto pressoché impossibile da sindacare nella presente sede giurisdizionale, con intuibile possibilità di strumentalizzazioni (TAR Campania Napoli, Sez. IV, 22.05.2013, n. 2679).
Dall’altro, a fronte dalla serie di condoni edilizi concessi negli ultimi decenni, ammettere la sostanziale estinzione di un abuso per il mero decorso del tempo significherebbe costruire una sorta di sanatoria di fatto che opererebbe anche quando l’interessato non abbia ritenuto di avvalersi del corrispondente istituto previsto dalla citata normativa premiale, e quindi senza nemmeno la necessità di versare le oblazioni da essa previste. Per altro verso, poi, si deve comunque escludere che si possa parlare di affidamento tutelabile nel momento in cui di detta normativa l’interessato non abbia ritenuto di avvalersi (TAR Campania Napoli Sez. IV, 19.03.2013, n. 1535; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 19.03.2013, n. 1536).
5) Infondato è il terzo motivo di ricorso dove parte ricorrente lamenta che l’amministrazione avrebbe adottato la sanzione demolitoria senza verificare se le opere fossero o meno sanabili.
Come in parte già indicato, l'abusività di un'opera edilizia costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria e non è necessaria valutazione, né, tantomeno una motivazione "ad hoc" sulla astratta non sanabilità dell'opera (TAR Campania Napoli Sez. VII, 27.05.2013, n. 2755; TAR Campania, sez. III, 27.09.2006, n. 8331; Consiglio Stato, sez. V, 30.11.2000, n. 6357) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 03.02.2015 n. 748 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e quello successivo di acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive e dell'area di sedime sono connessi e conseguenziali all'ordine di demolizione delle opere e di ripristino dello stato primitivo dei luoghi, con la conseguenza che non sono autonomamente impugnabili e sono soggetti a caducazione automatica nel caso di annullamento della presupposta ordinanza di demolizione.
Per le stesse ragioni, se è vero che la notifica dell'ordine di demolizione al proprietario, oltreché all'autore dell'abuso, è il presupposto per il successivo provvedimento di acquisizione del sedime al patrimonio comunale, è altrettanto vero che quest'ultimo, costituendo sanzione per l'inottemperanza dell'ordine di demolizione, non può essere pronunciato nei confronti di chi non sia stato destinatario dell'ordine di demolizione; pertanto, se la mancata notifica al proprietario dell'ordine demolitorio non inficia la legittimità dello stesso, nondimeno preclude l'emanazione del provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale.

Infatti, i provvedimenti di accertamento dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e quello successivo di acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive e dell'area di sedime sono connessi e conseguenziali all'ordine di demolizione delle opere e di ripristino dello stato primitivo dei luoghi, con la conseguenza che non sono autonomamente impugnabili e sono soggetti a caducazione automatica nel caso di annullamento della presupposta ordinanza di demolizione (ex multis Cons. St., sez. IV 07.07.2014 n. 3415).
Per le stesse ragioni, se è vero che la notifica dell'ordine di demolizione al proprietario, oltreché all'autore dell'abuso, è il presupposto per il successivo provvedimento di acquisizione del sedime al patrimonio comunale, è altrettanto vero che quest'ultimo, costituendo sanzione per l'inottemperanza dell'ordine di demolizione, non può essere pronunciato nei confronti di chi non sia stato destinatario dell'ordine di demolizione; pertanto, se la mancata notifica al proprietario dell'ordine demolitorio non inficia la legittimità dello stesso, nondimeno preclude l'emanazione del provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale (ex multis, TAR Napoli sez. VIII 07.11.2013 n. 4964)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 03.02.2015 n. 745 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza costante e consolidata, la comunicazione di avvio del procedimento non è necessaria a pena di legittimità quando ad essere esercitato è il potere repressivo degli abusi edilizi, che costituisce attività vincolata della p.a. con la conseguenza che i relativi provvedimenti (tra cui l’ordinanza di demolizione) costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della suddetta comunicazione, non essendoci spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
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La giurisprudenza nega da sempre la necessità della valutazione dei contrapposti interessi, salvo che il notevolissimo tempo decorso dalla realizzazione dell’abuso imponga una qualche riflessione sul punto; la quale cosa non rileva nel caso di specie, in quanto la data di realizzazione dell’abuso non è stata specificata e comunque avrebbe richiesto apposita prospettazione della parte ricorrente sul punto, prospettazione che è mancata.
Sul punto è esemplificativa la motivazione di TAR Toscana, sez. III, 20.12.2012 n. 2113, secondo la quale a fronte di ordinanza di demolizione di opera abusiva risalente a molti anni prima, la necessità di valutare la sussistenza di un interesse pubblico alla rimozione, ulteriore rispetto all'interesse al ripristino della legalità violata, si pone allorquando, a causa del notevole tempo trascorso e della protratta e colpevole inerzia dell'amministrazione, l'interessato abbia fatto giustificato affidamento sulla conservazione dell'abuso.
Pertanto, nonostante la remota epoca di costruzione del manufatto abusivo, non è prospettabile l'affidamento del destinatario della diffida qualora il manufatto medesimo sia stato oggetto di precedenti ordini di demolizione non eseguiti e di richieste di sanatoria e condono edilizio; inoltre, il fatto che esso ricada in zona sottoposta a vincolo paesaggistico identifica da sé solo un preminente interesse pubblico, costituzionalmente rilevante ex art. 9, comma 2, rispetto al quale l'interesse privato è necessariamente recessivo.

6.1. Il primo profilo (violazione dell’art. 7 della l. 241/1990) è chiaramente infondato, in quanto per giurisprudenza costante e consolidata, la comunicazione di avvio del procedimento non è necessaria a pena di legittimità quando ad essere esercitato è il potere repressivo degli abusi edilizi, che costituisce attività vincolata della p.a. con la conseguenza che i relativi provvedimenti (tra cui l’ordinanza di demolizione) costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio della suddetta comunicazione, non essendoci spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (sul punto, ex plurimis Cons. St., sez. IV, 26.08.2014 n. 4279; id., 07.07.2014 n. 3438; id., 20.05.2014 n. 2568; id., 09.05.2014 n. 2380; TAR Milano, sez. IV, 22.05.2014 n. 1324; TAR Napoli sez. IV, 16.05.2014 n. 2718; id., sez. II 15.05.2014 n. 2713).
6.2. Per le medesime ragioni, la giurisprudenza nega da sempre la necessità della valutazione dei contrapposti interessi (ex plurimis, TAR Lecce, sez. III 05.08.2014 n. 2127; TAR Napoli, sez. II. 09.06.2014 n. 3196), salvo che il notevolissimo tempo decorso dalla realizzazione dell’abuso imponga una qualche riflessione sul punto; la quale cosa non rileva nel caso di specie, in quanto la data di realizzazione dell’abuso non è stata specificata e comunque avrebbe richiesto apposita prospettazione della parte ricorrente sul punto, prospettazione che è mancata.
Sul punto è esemplificativa la motivazione di TAR Toscana, sez. III, 20.12.2012 n. 2113, secondo la quale a fronte di ordinanza di demolizione di opera abusiva risalente a molti anni prima, la necessità di valutare la sussistenza di un interesse pubblico alla rimozione, ulteriore rispetto all'interesse al ripristino della legalità violata, si pone allorquando, a causa del notevole tempo trascorso e della protratta e colpevole inerzia dell'amministrazione, l'interessato abbia fatto giustificato affidamento sulla conservazione dell'abuso.
Pertanto, nonostante la remota epoca di costruzione del manufatto abusivo, non è prospettabile l'affidamento del destinatario della diffida qualora il manufatto medesimo sia stato oggetto di precedenti ordini di demolizione non eseguiti e di richieste di sanatoria e condono edilizio; inoltre, il fatto che esso ricada in zona sottoposta a vincolo paesaggistico identifica da sé solo un preminente interesse pubblico, costituzionalmente rilevante ex art. 9, comma 2, rispetto al quale l'interesse privato è necessariamente recessivo.
Tale motivazione si attaglia perfettamente anche ai manufatti insistenti sul terreno di proprietà della Comitato, la quale, comunque, non ha articolato difese tali da far ritenere preminente il suo affidamento rispetto all’interesse pubblico alla demolizione dei fabbricati in questione, dei quali non ha neppure riferito l’epoca di costruzione
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 03.02.2015 n. 745 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa nozione di pertinenza urbanistica è estremamente rigorosa, in quanto l'attrazione di una costruzione in detta definizione, tale da escludere la sanzione demolitoria e acquisitoria prevista dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, presuppone l'integrazione dell'opera nell'organismo edilizio principale, integrazione che non ne consenta la fruizione o l'utilizzazione autonoma e separata.
Secondo una consolidata giurisprudenza, infatti, occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile, dal più ristretto concetto di pertinenza in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
In materia edilizia sono qualificabili come pertinenze solo le opere prive di autonoma destinazione e che esauriscano la loro destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico.
Il vincolo pertinenziale in senso urbanistico è dunque caratterizzato da un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, cioè da un nesso che non consenta, per natura e struttura dell'accessorio, altro che la destinazione della cosa a un uso pertinenziale durevole.
Ai fini urbanistici non possono ritenersi beni pertinenziali, con conseguente loro assoggettamento al regime proprio del permesso di costruire, gli interventi edilizi che, pur legati da un vincolo di servizio al bene principale, non sono tuttavia coessenziali ma ulteriori ad esso, in quanto suscettibili di un utilizzo in modo autonomo e separato e poiché occupano aree e volumi diversi.
Allo stesso modo la nozione di pertinenza va definita oltre che in ragione della necessità e oggettività del rapporto pertinenziale, anche in relazione alla consistenza dell'opera, che non deve essere tale da alterare in modo significativo l'assetto del territorio.
Il vincolo pertinenziale è, infatti, caratterizzato oltre che dal nesso funzionale, anche dalle dimensioni ridotte e modeste del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce, per cui soggiace a permesso di costruire la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa.

Quanto alla natura pertinenziale, essa è esclusa dalla tipologia degli edifici oggetto di ordinanza di demolizione, che occupano una superficie complessiva di 80 mq (si tratta di nuove costruzioni), e di due tettoie di cui una di dimensioni notevoli.
La parte non riferisce neppure a quale altro immobile dovrebbero ritenersi pertinenziali.
Va anche rilevato che la nozione di pertinenza urbanistica è estremamente rigorosa, in quanto l'attrazione di una costruzione in detta definizione, tale da escludere la sanzione demolitoria e acquisitoria prevista dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, presuppone l'integrazione dell'opera nell'organismo edilizio principale, integrazione che non ne consenta la fruizione o l'utilizzazione autonoma e separata (Cons. St., sez. VI, 23.06.2014 n. 3178).
Secondo una consolidata giurisprudenza (ex multis TAR Milano, Sez. II, 11.02.2005, n. 365; TAR Lazio, Sez. II, 04.02.2005, n. 1036), infatti, occorre distinguere il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile, dal più ristretto concetto di pertinenza in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
In materia edilizia sono qualificabili come pertinenze solo le opere prive di autonoma destinazione e che esauriscano la loro destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico (Cons. Stato Sez. IV, 10.05.2012, n. 2723; id., Sez. IV, 18.10.2010, n. 7549; id., Sez. IV, 31.03.2010, n. 1842).
Il vincolo pertinenziale in senso urbanistico è dunque caratterizzato da un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra cosa accessoria e principale, cioè da un nesso che non consenta, per natura e struttura dell'accessorio, altro che la destinazione della cosa a un uso pertinenziale durevole.
Ai fini urbanistici non possono ritenersi beni pertinenziali, con conseguente loro assoggettamento al regime proprio del permesso di costruire, gli interventi edilizi che, pur legati da un vincolo di servizio al bene principale, non sono tuttavia coessenziali ma ulteriori ad esso, in quanto suscettibili di un utilizzo in modo autonomo e separato e poiché occupano aree e volumi diversi (TAR Basilicata, 29.11.2008 , n. 915).
Allo stesso modo la nozione di pertinenza va definita oltre che in ragione della necessità e oggettività del rapporto pertinenziale, anche in relazione alla consistenza dell'opera, che non deve essere tale da alterare in modo significativo l'assetto del territorio (TAR Napoli, sez. II, 26.09.2008, n. 11309; Cons. Stato, Sez. V, n. 5828/2000).
Il vincolo pertinenziale è, infatti, caratterizzato oltre che dal nesso funzionale, anche dalle dimensioni ridotte e modeste del manufatto rispetto alla cosa cui esso inerisce, per cui soggiace a permesso di costruire la realizzazione di un'opera di rilevanti dimensioni, che modifica l'assetto del territorio e che occupa aree e volumi diversi rispetto alla res principalis, indipendentemente dal vincolo di servizio o d'ornamento nei riguardi di essa (Cons. Stato Sez. IV, 20.02.2013, n. 1059)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 03.02.2015 n. 745 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

TRIBUTI: La tassa rifiuti con aumenti motivati.
L'amministrazione comunale deve indicare nella delibera le ragioni che hanno comportato l'aumento delle tariffe della tassa rifiuti, con l'obbiettivo di coprire integralmente i costi del servizio, ma è insindacabile la scelta di privilegiare le utenze domestiche rispetto alle attività produttive. Quindi, può prevedere tariffe più elevate per le utenze non domestiche. La parte variabile della tariffa, infatti, deve essere rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al sevizio prestato e ai costi di gestione.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, V Sez., con la sentenza 03.02.2015 n. 504.
Per palazzo Spada, l'amministrazione ha «dato correttamente conto delle ragioni complessive che hanno determinato l'aumento generale delle tariffe, ai fini di una più adeguata copertura del costo del servizio»; inoltre, «ha esplicitato puntualmente la scelta di privilegiare l'utenza domestica rispetto alle attività produttive, specificamente individuando la quota di ripartizione dell'entrata tributaria». Del resto, la parte variabile della tariffa va rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al sevizio prestato e ai costi di gestione.
È da tempo che non c'è un'uniformità di vedute nella giurisprudenza amministrativa sulla necessità di motivare gli aumenti tariffari per lo svolgimento del servizio di raccolta e smaltimento rifiuti. Il Cds (sent. 5616/2010) ha sostenuto che il comune deve motivare la delibera che prevede un aumento delle tariffe Tarsu per coprire i costi del servizio.
E non può invocare genericamente la necessità di assicurare la tendenziale copertura totale della spesa, senza avere dati certi sullo scostamento tra entrate e costo del servizio. Quindi, non è esonerato da uno specifico obbligo di motivare l'incremento delle tariffe, nonostante la Cassazione (sentenza 22804/2006) abbia escluso questo adempimento per gli atti generali, come previsto dall'art. 3 della legge 241/1990.
Non la pensano allo stesso modo, però, i giudici di primo grado. Per esempio, il Tar Puglia, sez. Lecce (II), con la sentenza 1238/2013, ha stabilito che il comune non è tenuto a motivare l'aumento delle tariffe Tarsu. L'aumento può essere giustificato dalla necessità di coprire i costi del servizio. Secondo i giudici, per coprire le spese di gestione la p.a. può disporre incrementi percentuali per tutte le categorie di contribuenti, senza differenziazione, rendendo meno stringente l'obbligo di motivazione (articolo ItaliaOggi del 20.02.2015).

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza da lungo tempo consolidata, nei procedimenti preordinati all'emanazione di ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova applicazione l'obbligo di comunicare l'avvio dell'iter procedimentale, e questo in ragione della natura vincolata del potere repressivo esercitato, che rende di per sé inconfigurabile un qualunque apporto partecipativo del privato.
... per l'annullamento, previa sospensiva, dell'ordinanza del Dirigente del Settore Urbanistica del Comune di Massa n. 289 datata 05/05/1999 e notificata in data 07/05/1999, prot. n. 15182/99/3205, con cui si rigettava la domanda di concessione in sanatoria presentata dalla sig.ra A.E. in data 28/03/1986 e, per l'effetto, si ordinava alla stessa ricorrente la demolizione di tutte le opere abusivamente realizzate ed il ripristino dello stato dei luoghi entro il termine di sessanta giorni dalla notifica.
...
2. Con il primo motivo e il secondo motivo di ricorso sono dedotte, rispettivamente, la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990, per non avere la ricorrente ricevuto comunicazione dell’avvio del procedimento amministrativo di demolizione, e l’incompetenza dell’organo procedente.
2.1. I motivi sono infondati.
2.1.1. Per giurisprudenza da lungo tempo consolidata, nei procedimenti preordinati all'emanazione di ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova applicazione l'obbligo di comunicare l'avvio dell'iter procedimentale, e questo in ragione della natura vincolata del potere repressivo esercitato, che rende di per sé inconfigurabile un qualunque apporto partecipativo del privato (per tutte, cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 26.08.2014, n. 4279).
Nella specie, peraltro, dalla documentazione in atti si ricava che il Comune di Massa, a seguito dell’accesso eseguito presso la proprietà della ricorrente, ha provveduto in data 25.08.1998 a comunicare l’avvio del procedimento originato dall’accertamento ivi condotto, di modo che l’obbligo prescritto dall’invocato art. 7 della legge n. 241/1990 risulta, in realtà, assolto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 02.02.2015 n. 184 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il consolidato orientamento della Sezione, dal quale non vi sono ragioni per discostarsi, il vincolo imposto dall’art. 338 R.D. n. 1265/1934 e dall’art. 57 D.P.R. n. 285/1990 è un vincolo assoluto di inedificabilità ex lege, tale da prevalere addirittura anche su eventuali disposizioni urbanistiche contrarie, con conseguente insanabilità delle opere realizzate all’interno della fascia di rispetto cimiteriale a prescindere da qualsiasi valutazione in concreto della compatibilità del manufatto rispetto al vincolo medesimo.
Questo, dal canto suo, risponde a una pluralità di funzioni, quali assicurare condizioni di igiene e salubrità, garantire tranquillità e decoro ai luoghi di sepoltura, consentire futuri ampliamenti dell'impianto funerario, ed opera indipendentemente dal tipo di fabbricato, riguardando anche gli edifici sparsi.
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Il vincolo cimiteriale importa inedificabilità assoluta dell’area indipendentemente dalla tipologia di fabbricato e dalla natura pertinenziale dello stesso.

3. Con il terzo motivo, la ricorrente afferma che il provvedimento impugnato sarebbe viziato per difetto di motivazione e per falsa applicazione dell’art. 33 della legge n. 47/1985. Esso non recherebbe, infatti, alcuna indicazione circa l’epoca di esecuzione delle opere e quella di imposizione del vincolo cimiteriale, mentre, dalla certificazione urbanistica rilasciata dallo stesso Comune, l’area risulterebbe essere stata sottoposta a vincolo solo a seguito dell’approvazione del P.R.G. del 1972, quando le opere erano state oramai realizzate, fatta eccezione per semplici opere di rifinitura della costruzione.
3.1. Con il quarto motivo, quindi, la signora A. puntualizza come l’unico vincolo gravante sull’area prima del 1972 fosse quello di cui all’art. 338 R.D. n. 1265/1934, disposizione inapplicabile alle opere da lei eseguite, perché ricadenti al di fuori di un centro abitato. Per questo aspetto, del resto, la regolarità del fabbricato sarebbe stata espressamente riconosciuta dal Comune all’epoca dell’ampliamento del cimitero di Pariana, ed, in ogni caso, il vincolo imposto dall’art. 338 cit. non porrebbe una preclusione assoluta all’edificabilità, ma imporrebbe una semplice verifica di compatibilità igienico-sanitaria della presenza di abitazioni all’interno della fascia di rispetto del cimitero. Infine, nella specie, non sarebbe stata la ricorrente a edificare in violazione del vincolo, quanto il cimitero ad essere ampliato troppo a ridosso delle abitazioni preesistenti.
3.1.1. Anche tali censure, da esaminarsi congiuntamente, sono infondate.
3.2. Secondo il consolidato orientamento della Sezione, dal quale non vi sono ragioni per discostarsi, il vincolo imposto dall’art. 338 R.D. n. 1265/1934 e dall’art. 57 D.P.R. n. 285/1990 è un vincolo assoluto di inedificabilità ex lege, tale da prevalere addirittura anche su eventuali disposizioni urbanistiche contrarie, con conseguente insanabilità delle opere realizzate all’interno della fascia di rispetto cimiteriale a prescindere da qualsiasi valutazione in concreto della compatibilità del manufatto rispetto al vincolo medesimo. Questo, dal canto suo, risponde a una pluralità di funzioni, quali assicurare condizioni di igiene e salubrità, garantire tranquillità e decoro ai luoghi di sepoltura, consentire futuri ampliamenti dell'impianto funerario, ed opera indipendentemente dal tipo di fabbricato, riguardando anche gli edifici sparsi (per tutte, cfr. TAR Toscana, sez. III, 12.11.2013, n. 1553, e 12.07.2010, n. 2446; Cons. Stato, sez. IV, 27.10.2009, n. 6547).
Escluso, pertanto, che la nascita del vincolo in questione possa essere ricondotta all’approvazione del P.R.G. del 1972, che si limita a rinviare a leggi e regolamenti vigenti, la circostanza, pacifica, che gli abusi per cui è causa siano stati sin dall’origine realizzati all’interno della fascia di rispetto del cimitero di Pariana rende doveroso il diniego di condono, legittimando le scelte dell’amministrazione procedente ed evidenziando l’inconferenza dei rilievi svolti dall’interessato.
Al riguardo, basti osservare che il vincolo di rispetto del cimitero di Pariana risale ad epoca anteriore al 1958, anno in cui la fascia di rispetto venne ridotta da duecento a cento metri, mentre le opere abusive risultano completate entro il 1985, stando a quanto a suo tempo indicato dalla ricorrente nelle istanze di condono; la presenza delle opere all’interno della fascia di rispetto di cento metri è peraltro confermata proprio dal decreto sindacale dell’11.08.1998, dal quale non può farsi discendere il riconoscimento della legittimità urbanistico-edilizia delle costruzioni ivi presenti, trattandosi di provvedimento cui sono unicamente sottese valutazioni di matrice igienico-sanitaria effettuate dal Comune nella prospettiva dell’ampliamento del cimitero e non anche in quella, speculare, dell’assentibilità delle costruzioni esistenti all’interno della fascia di rispetto cimiteriale (dal decreto dell’11.08.1998 è assente, in definitiva, ogni valutazione circa la legittimità delle costruzioni sparse realizzate all’interno della fascia di rispetto, la presenza delle quali viene assunta al solo scopo di escludere che esse costituissero un centro abitato ai fini dell’art. 338 n. 1265/1934.
Quel che rileva ai fini di causa, piuttosto, è che dette costruzioni si trovassero all’interno della fascia di rispetto ben prima che il cimitero fosse ampliato).
3.3. I rilievi appena svolti danno altresì conto dell’adeguatezza motivazionale dell’atto impugnato, che fa dichiarata applicazione dell’art. 33 della legge n. 47/1985 previa indicazione del relativo presupposto giuridico-fattuale, vale a dire l’esistenza del vincolo cimiteriale di inedificabilità assoluta.
...
Con il sesto motivo, si sostiene infine che il diniego di sanatoria dovrebbe considerarsi abnorme in relazione ai manufatti accessori alla costruzione principale, trattandosi di opere pertinenziali non soggette a concessione e insuscettibili di sanzione demolitoria, ai sensi dell’art. 4, co. 2, della legge n. 47/1985.
La doglianza non tiene conto, tuttavia, del contenuto proprio del vincolo cimiteriale, che importa inedificabilità assoluta dell’area indipendentemente dalla tipologia di fabbricato e dalla natura pertinenziale dello stesso (fra le molte, cfr. TAR Toscana, sez. III, 11.06.2010, n. 1815, ma già, all’epoca dei fatti di causa, Cons. Stato, sez. V, 27.08.1999, n. 1006) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 02.02.2015 n. 184 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAA seguito dell'annullamento ministeriale dell'autorizzazione paesaggistica il Comune non può limitarsi a prendere atto della decisione dell'autorità statale, ma deve procedere ad un nuovo esame della domanda del privato, e cioè alla rinnovazione del procedimento valutativo di compatibilità paesaggistica per eliminare il vizio riscontrato in sede di controllo dalla Soprintendenza.
Diversamente, l’interessato si vedrebbe definitivamente privato della dovuta valutazione sulla compatibilità dell'intervento edilizio progettato con i valori paesaggistici tutelati.

3.1. Il gravame è manifestamente fondato in relazione alle censure dedotte con il secondo e il terzo motivo.
3.1.1. L’autorizzazione paesaggistica rilasciata dal Comune di Orbetello, e annullata dalla Soprintendenza di Siena e Grosseto con il provvedimento qui impugnato, ha per oggetto lavori di ampliamento della sala ristorante, nonché la realizzazione di trentatre nuove cabine e di manufatti vari a uso magazzino, deposito, servizi igienici e opere di sistemazione esterne.
Essa fonda la propria motivazione, pur sintetica, sulla preesistenza di uno stabilimento balneare regolarmente autorizzato, rilievo che implica, evidentemente, la considerazione secondo cui l’impatto paesaggistico delle opere abusive dovrebbe considerarsi assorbito dalla trasformazione ambientale già prodotta a seguito della realizzazione del nucleo originario dello struttura.
3.1.2. Dal canto suo, la Soprintendenza fonda invece l’annullamento dell’autorizzazione comunale sulla pretesa insufficienza di elementi idonei a esplicitare i criteri valutativi alla stessa sottesi, spingendosi quindi a evidenziare i profili di incompatibilità fra la presenza dello stabilimento balneare e il vincolo ambientale gravante sull’area.
Tale giudizio di incompatibilità risulta, tuttavia, viziato nella misura in cui esorbita dall’oggetto dell’istanza di condono e investe l’intera struttura gestita dalla ricorrente: in questo senso, sono inequivocabili le espressioni utilizzate nel decreto di annullamento, ove vengono analizzati l’inserimento dello “stabilimento balneare… ai margini di una zona vincolata per la pineta di notevole interesse pubblico…“ e l’invasività delle “costruzioni realizzate” rispetto alla massa di vegetazione protetta dal vincolo, senza che vi sia modo di distinguere fra considerazioni di ordine generale riferibili alla struttura nella sua interezza, e considerazioni specificamente rivolte nei confronti delle sole opere abusive da condonare; né a diverse conclusioni può indurre la nota della Soprintendenza del 23.09.1999, in atti, la quale, nel precisare per quali ragioni il decreto di annullamento faccia menzione dello stabilimento nel suo insieme, costituisce un’inammissibile integrazione postuma della motivazione del provvedimento impugnato.
3.1.3. Se, pertanto, la valutazione espressa dalla Soprintendenza risulta indebitamente interferire con aspetti estranei all’istanza di condono, al contempo essa non si pronuncia sul rapporto fra le opere abusive e quelle preesistenti, regolarmente autorizzate (che, come detto, rappresenta il fondamento dell’autorizzazione a suo tempo rilasciata dal Comune), traducendosi di fatto nella non richiesta espressione di un giudizio di merito circa la stessa presenza in loco dello stabilimento balneare, anziché nella verifica di legittimità dell’operato del Comune relativamente alla materia oggetto di sanatoria.
4. Le considerazioni esposte conducono all’annullamento dell’impugnato decreto del 07.05.1999, assorbite le rimanenti doglianze. Ne discende la fondatezza dell’impugnativa proposta, con il ricorso n. 3019/1999 R.G., avverso il diniego di condono pronunciato dal Comune di Orbetello il 29.09.1999, del quale la ricorrente fa appunto valere, in prima battuta, il vizio di invalidità derivata da quella del presupposto annullamento dell’autorizzazione paesaggistica.
4.1. Il ricorso è fondato, del resto, anche in ordine al secondo motivo, con cui è dedotta la violazione da parte del Comune di Orbetello del dovere di ripronunciarsi sulla compatibilità ambientale dell’intervento da condonare.
Secondo la giurisprudenza della Sezione, dalla quale non vi sono ragioni per discostarsi, a seguito dell'annullamento ministeriale dell'autorizzazione paesaggistica il Comune non può, infatti, limitarsi a prendere atto della decisione dell'autorità statale, ma deve procedere ad un nuovo esame della domanda del privato, e cioè alla rinnovazione del procedimento valutativo di compatibilità paesaggistica per eliminare il vizio riscontrato in sede di controllo dalla Soprintendenza.
Diversamente, l’interessato si vedrebbe definitivamente privato della dovuta valutazione sulla compatibilità dell'intervento edilizio progettato con i valori paesaggistici tutelati (cfr. TAR Toscana, sez. III, 12.03.2013, n. 404) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 02.02.2015 n. 179 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

URBANISTICA: In linea generale, va ricordato l’orientamento prevalente a mente del quale ai sensi dell'art. 28 L. 17/08/1942 n. 1150, relativo ai piani particolareggiati ma applicabile in via analogica ai piani di lottizzazione, questi ultimi hanno una durata decennale, con la conseguenza che decorso il relativo termine essi perdono automaticamente efficacia.
Il termine iniziale a partire dal quale occorre computare il decennio prescrizionale, inoltre, non può identificarsi nell'ultimo giorno dell'efficacia decennale del piano di lottizzazione, bensì nella data di perfezione e di efficacia del titolo convenzionale che costituisce l'atto genetico fondativo dei pretesi diritti scaturenti dalla convenzione di lottizzazione e dei correlativi obblighi delle parti, ovvero dal diverso termine di durata del rapporto convenzionale eventualmente stabilito pattiziamente.
Impostazione, questa, da ritenersi senz'altro preferibile e più coerente con l'inquadramento dogmatico della convenzione di lottizzazione, nell'ambito degli accordi amministrativi di cui all'art. 11 della legge n. 241 del 1990. Se parte ricorrente invoca quel "contratto", quale fonte delle obbligazioni inadempiute del Comune, è a quell'atto genetico che occorre far riferimento per determinare la durata di efficacia del rapporto e delle relative obbligazioni, fino alla prescrizione dei diritti da esso scaturenti.
In definitiva, va ribadito che la durata massima di efficacia dei piani di lottizzazione è quella decennale propria dei piani particolareggiati e risponde ad un preminente interesse pubblico, essendo irragionevole il solo ipotizzare che le lottizzazioni convenzionate passano condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura.
Così pure, per contrastare tale orientamento condiviso dal Collegio non può ipotizzarsi una proroga tacita del termine di efficacia di una convenzione di lottizzazione, in conseguenza del rilascio di concessione edilizia da parte del Comune, ovvero in difetto di una espressa revoca della stessa convenzione o della modifica o della introduzione di un nuovo strumento urbanistico, poiché costituisce avviso pacifico in giurisprudenza che, in materia urbanistico-edilizia, l'amministrazione può correttamente manifestare la sua volontà soltanto mediante atti aventi la forma scritta e cioè, avuto presente il caso in esame, o con una nuova convenzione sempre che coerente con le previsioni urbanistiche del territorio comunale e con l'eventuale specifica qualità dei suoli, o con un riesame di quella scaduta, nell'esercizio, ovviamente, dei propri poteri discrezionali volti ad una nuova valutazione di tutti gli interessi in gioco.
Orbene, poiché il Collegio non ha motivo di discostarsi da tale avviso, va ribadito che lo strumento attuativo ha una durata decennale per cui, decorso il relativo termine, esso perde di efficacia e non può più costituire valido presupposto per il rilascio di qualsivoglia titolo abilitativo alla edificazione di manufatti.

... per l’accertamento dell’inadempimento di cui alla convenzione su progetto di lottizzazione nonché la condanna della stessa società –ex art. 2932 c.c.– all’adempimento in forma specifica con trasferimento a titolo gratuito ovvero, qualora non sia in tutto od in parte possibile, al risarcimento dei danni patiti a seguito della mancata realizzazione delle opere di urbanizzazione previste.
...
La presente controversia ha ad oggetto la domanda di adempimento della convenzione di lottizzazione, richiamata nella narrativa in fatto, stipulata fra il Comune ricorrente e la parte dante causa dell’odierna resistente.
Se in linea di fatto sono pacifici i dati di partenza, concernenti il contenuto dell’originaria convenzione e la mancata completa realizzazione delle opere di urbanizzazione nei termini previsti dalla convenzione, in sintesi il contenzioso verte su due tesi contrapposte: secondo la prospettazione ricorrente, l’annullamento degli atti di approvazione dell’opera pubblica che il Comune ha adottato in sostituzione di quanto previsto in convenzione, comporterebbe il risorgere degli originari impegni; secondo parte resistente, la convenzione avrebbe perso la propria efficacia per il tempo trascorso e, in ogni caso, i presunti crediti sarebbero caduti in prescrizione.
In linea generale, va ricordato l’orientamento prevalente a mente del quale ai sensi dell'art. 28 L. 17/08/1942 n. 1150, relativo ai piani particolareggiati ma applicabile in via analogica ai piani di lottizzazione, questi ultimi hanno una durata decennale, con la conseguenza che decorso il relativo termine essi perdono automaticamente efficacia (cfr. Cons. Stato, IV Sez., 07/02/2012 n. 2045; TAR Sardegna, II Sez., 31/03/2011 n. 294).
Il termine iniziale a partire dal quale occorre computare il decennio prescrizionale, inoltre, non può identificarsi nell'ultimo giorno dell'efficacia decennale del piano di lottizzazione, bensì nella data di perfezione e di efficacia del titolo convenzionale che costituisce l'atto genetico fondativo dei pretesi diritti scaturenti dalla convenzione di lottizzazione e dei correlativi obblighi delle parti, ovvero dal diverso termine di durata del rapporto convenzionale eventualmente stabilito pattiziamente. Impostazione, questa, da ritenersi senz'altro preferibile e più coerente con l'inquadramento dogmatico della convenzione di lottizzazione (cfr. ad es. Consiglio di Stato n. 214 del 2010), nell'ambito degli accordi amministrativi di cui all'art. 11 della legge n. 241 del 1990. Se parte ricorrente invoca quel "contratto", quale fonte delle obbligazioni inadempiute del Comune, è a quell'atto genetico che occorre far riferimento per determinare la durata di efficacia del rapporto e delle relative obbligazioni, fino alla prescrizione dei diritti da esso scaturenti.
In definitiva, va ribadito che la durata massima di efficacia dei piani di lottizzazione è quella decennale propria dei piani particolareggiati e risponde ad un preminente interesse pubblico, essendo irragionevole il solo ipotizzare che le lottizzazioni convenzionate passano condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura. Così pure, per contrastare tale orientamento condiviso dal Collegio (cfr. ad es. Consiglio di Stato n. 2045/2012) non può ipotizzarsi una proroga tacita del termine di efficacia di una convenzione di lottizzazione, in conseguenza del rilascio di concessione edilizia da parte del Comune, ovvero in difetto di una espressa revoca della stessa convenzione o della modifica o della introduzione di un nuovo strumento urbanistico, poiché costituisce avviso pacifico in giurisprudenza che, in materia urbanistico-edilizia, l'amministrazione può correttamente manifestare la sua volontà soltanto mediante atti aventi la forma scritta e cioè, avuto presente il caso in esame, o con una nuova convenzione sempre che coerente con le previsioni urbanistiche del territorio comunale e con l'eventuale specifica qualità dei suoli, o con un riesame di quella scaduta, nell'esercizio, ovviamente, dei propri poteri discrezionali volti ad una nuova valutazione di tutti gli interessi in gioco.
Orbene, poiché il Collegio non ha motivo di discostarsi da tale avviso, va ribadito che lo strumento attuativo ha una durata decennale per cui, decorso il relativo termine, esso perde di efficacia e non può più costituire valido presupposto per il rilascio di qualsivoglia titolo abilitativo alla edificazione di manufatti (cfr. Consiglio di Stato n. 200/2003).
Applicando tali coordinate alla presente controversia, concernente una convenzione stipulata nel 1983 con titoli rilasciati in data 1985 e 1987, all’epoca della proposizione del presente gravame (2013) il termine di efficacia era ampiamente decorso.
Nel caso di specie, invero, l’inefficacia della convenzione –nei termini azionati dal Comune– emerge altresì dall’accertata carenza del presupposto fondante l’asserita tempestività della domanda proposta con il presente ricorso. Infatti, il Comune agisce sulla scorta dell’affermazione a mente della quale gli atti di approvazione (datati 1997 e 1998) della diversa opera pubblica (in sostanza la palestra in luogo dei campi da tennis) avrebbero costituito tempestivo esercizio della facoltà di cui all’art. 3 della convenzione, a tenore del quale “L’amministrazione comunale si riserva, sino alla data del rilascio della concessione edilizia, di chiedere al lottizzante di realizzare altre opere di urbanizzazione secondaria, per un costo corrispondente alla differenza tra l’importo del contributo dovuto per oneri di urbanizzazione secondaria ed i costi delle opere eseguite direttamente…”. Solo in seguito all’annullamento di tali atti, con sentenze definitiva del 2011, avrebbe riniziato a decorrere il termine di efficacia dell’originaria convenzione.
Invero, già all’epoca dell’approvazione della nuova opera il termine decennale di efficacia era trascorso.
Peraltro, all’esito della disposta istruttoria, dall’esame delle delibere e degli atti di approvazione della nuova e diversa opera pubblica -la palestra- non risulta in alcun modo che tale approvazione sia avvenuta in esercizio del potere garantito dalla convenzione. Né altrimenti emerge il presunto collegamento con la convenzione medesima. Anzi, a conferma dell’impossibilità di ritenere invocabile la predetta clausola, il presunto esercizio risulterebbe comunque intempestivo rispetto alla stessa previsione convenzionale, atteso che l’approvazione della nuova opera (1998) è ampiamente successiva al termine individuato –ex art. 3, comma 7, della convenzione- nella data del rilascio del titolo edilizio (al più tardi individuabile nella volturazione del titolo originario, risalente al 1991). D’altronde, rettamente intesa la clausola si riferiva alla diversa possibilità di realizzare altre, ulteriori, opere di urbanizzazione secondaria nell’ambito delle stesse somme pattuite in convenzione, salvo il dovere di eventuale conguaglio ai sensi del successivo comma 8.
Dall’analisi degli atti -invocati da parte ricorrente quale esercizio del potere previsto in convenzione-, risulta solo la volontà di realizzare autonomamente ed indipendentemente una nuova opera pubblica, oggetto fra l’altro di autonomo finanziamento; è evidente che tale previsione non avrebbe senso laddove si ritenesse che la nuova opera dovesse andare semplicemente a sostituire quella prevista in convenzione, dovendo in tal caso ritenersi finanziata nell’ambito di tale pattuizione.
Ulteriormente indicativa della infondatezza della prospettazione ricorrente è la constatazione che in nessun passaggio delle precedenti controversie, né in specie nelle relative sentenze, si qualifica l’opera in questione in rapporto alla convenzione di lottizzazione.
Conseguentemente, appare fondata l’eccepita inefficacia della convenzione, al momento in cui il Comune con il presente ricorso ha agito per il relativo adempimento. L’annullamento degli atti approvativi della diversa opera pubblica non può quindi qualificarsi quale rimessione in termini del Comune in relazione alla richiesta di adempimento di una convenzione, la cui efficacia è da tempo scaduta.
Incidentalmente, va evidenziato come, in ogni caso, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione concernente la realizzazione dei campi da tennis sarebbe comunque imputabile(secondo principi civilistici pacificamente applicabili ex art. 11, comma 4, l. 241/1190) al comportamento della stessa parte originaria creditrice.
Con riferimento alla evidenziata infondatezza della tesi ricorrente, va altresì sottolineato che l’esercizio di una peculiare (rispetto alla natura convenzionale degli impegni) facoltà, quale quella di modifica od ampliamento della controprestazione, avrebbe dovuto costituire oggetto di espressa manifestazione di volontà, da portare a chiara e definitiva conoscenza della controparte che ne è la debitrice. Nella specie, all’opposto, con riferimento all’autonoma previsione di una nuova opera pubblica non vi è nulla che, nell’ambito degli atti di approvazione (gli unici rilevanti, non potendosi attribuire valore preminente, rispetto ai provvedimenti conclusivi, a mere note interlocutorie), la colleghi all’esercizio di tale facoltà di implementazione della prestazione.
Invero, a conferma di ciò, il giudizio conclusosi con l’annullamento di tali opere non ha preso in alcuna considerazione la convenzione, a conferma del fatto che l’approvazione della nuova opera pubblica è avvenuta in termini del tutto scollegati dalla predetta convenzione (e d’altronde ciò è ben plausibile alla luce del reale contenuto della clausola, come sopra ricostruito), nell’esercizio del generale ed ordinario potere facente capo al Comune (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 29.01.2015 n. 148 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTI: Dopo aver presentato l'offerta, scaduti i 180 gg., se l'impresa si svicola non può -eventualmente- impugnare l'esito sfavorevole della gara.
L’art. 11, comma 6, D.L.vo 12.04.2006 n. 163 −a norma del quale nelle gare d’appalto l’offerta del concorrente è vincolante per il periodo indicato nel bando e, in caso di mancata indicazione, per 180 giorni decorrenti dalla scadenza del termine per la sua presentazione, salvo che la Stazione appaltante chieda ai concorrenti il differimento di tale termine− è posto a protezione e tutela dell’offerente, il quale, decorso il termine, può ritenersi sciolto dall’offerta presentata.
Pertanto, la sussistenza del “vincolo” non significa che l’offerta decade ex lege decorso il termine, ma solo che l’offerente può svincolarsi da essa e se non dichiara di ritenersi sciolto, l’offerta non decade, con la conseguenza che la circostanza che allo scadere dei predetti 180 giorni il concorrente non abbia dichiarato di voler mantenere l’offerta non comporta la decadenza dell’offerta medesima.
In sostanza l’offerta è una proposta irrevocabile ed il mancato suo mantenimento per il periodo di comporto è presidiato da sanzioni economiche (escussione garanzia provvisoria) e di status (segnalazione all’Autorità).
Decorso tale periodo, invece, il concorrente ha il diritto potestativo di revocare lecitamente la proposta, senza incorrere ovviamente in alcuna sanzione.
Nel momento in cui il concorrente -ritenendo non più sostenibile o per lui conveniente l’offerta originariamente formulata- si dichiara sciolto dall’impegno assunto, egli si estranea dalla gara ed esce definitivamente dalla selezione per sua autonoma e insindacabile scelta.
Ne consegue che in questo caso la pregressa partecipazione alla procedura acquista un rilievo meramente fattuale, con conseguente carenza in capo al concorrente di ogni titolo legittimante per contestare nel merito le conclusioni di una competizione dalla quale egli infatti si è ritirato: e ciò in quanto –come recentemente chiarito da Ap n. 9 del 2014- la mera partecipazione (di fatto) alla gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso.

Come chiarito in giurisprudenza, l’art. 11, comma 6, D.L.vo 12.04.2006 n. 163 −a norma del quale nelle gare d’appalto l’offerta del concorrente è vincolante per il periodo indicato nel bando e, in caso di mancata indicazione, per 180 giorni decorrenti dalla scadenza del termine per la sua presentazione, salvo che la Stazione appaltante chieda ai concorrenti il differimento di tale termine− è posto a protezione e tutela dell’offerente, il quale, decorso il termine, può ritenersi sciolto dall’offerta presentata; pertanto, la sussistenza del “vincolo” non significa che l’offerta decade ex lege decorso il termine, ma solo che l’offerente può svincolarsi da essa e se non dichiara di ritenersi sciolto, l’offerta non decade, con la conseguenza che la circostanza che allo scadere dei predetti 180 giorni il concorrente non abbia dichiarato di voler mantenere l’offerta non comporta la decadenza dell’offerta medesima (cfr. CGA n. 1045 del 2012).
In sostanza l’offerta è una proposta irrevocabile ed il mancato suo mantenimento per il periodo di comporto è presidiato da sanzioni economiche (escussione garanzia provvisoria) e di status (segnalazione all’Autorità).
Decorso tale periodo, invece, il concorrente ha il diritto potestativo di revocare lecitamente la proposta, senza incorrere ovviamente in alcuna sanzione.
Nel momento in cui il concorrente -ritenendo non più sostenibile o per lui conveniente l’offerta originariamente formulata- si dichiara sciolto dall’impegno assunto, egli si estranea dalla gara ed esce definitivamente dalla selezione per sua autonoma e insindacabile scelta.
Ne consegue che in questo caso la pregressa partecipazione alla procedura acquista un rilievo meramente fattuale, con conseguente carenza in capo al concorrente di ogni titolo legittimante per contestare nel merito le conclusioni di una competizione dalla quale egli infatti si è ritirato: e ciò in quanto –come recentemente chiarito da Ap n. 9 del 2014- la mera partecipazione (di fatto) alla gara non è sufficiente per attribuire la legittimazione al ricorso (C.G.A.R.S.,
sentenza 29.01.2015 n. 84 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Indennizzi se l'abuso rovina la vista.
L'abuso edilizio «impalla» la vista al dirimpettaio, ma all'esito di una lunga causa non si può più abbattere l'intero terzo piano del condominio, che pure è stato realizzato in spregio delle norme urbanistiche. Attenzione, però: il panorama è un diritto e deve essere risarcito il proprietario dell'immobile che si ritrova deprezzato per via del manufatto che gli toglie la vista sul paesaggio.

È quanto emerge dalla sentenza 27.01.2015 n. 362 pubblicata dalla IV Sez. del Consiglio di Stato.
Ristoro e parametro. Accolto il ricorso del vicino dalla vista oscurata: il fatto che non sia più possibile la demolizione, come esecuzione in forma specifica della sentenza che riconosce l'illegittima sopraelevazione, non impedisce che il proprietario dell'immobile danneggiato possa ottenere un altro tipo di ristoro. Sbaglia il Tar Campania quando esclude che possa essere compensata la lesione patita per la perdita di aria e luce che scaturisce dalla costruzione realizzata contro legge.
In effetti la concessione edilizia assentita dal Comune che ha consentito l'edificazione del terzo piano si è rivelata in contrasto con le norme urbanistiche vigenti, il che danneggia inevitabilmente l'immobile del dirimpettaio. Ma il punto è: come risarcirlo? Due i parametri individuati dalla giurisprudenza: il pregio per il panorama di cui gode l'appartamento e che è riconosciuto dal mercato immobiliare e il deprezzamento commerciale dell'immobile susseguente al venir meno della panoramicità. A quantificare il danno sarà un docente universitario di estimo civile (articolo ItaliaOggi del 18.02.2015).

EDILIZIA PRIVATA: Diritto al panorama, la costruzione abusiva del vicino obbliga al risarcimento. Consiglio di Stato: il deprezzamento dell'immobile determina un danno ingiusto da risarcire.
Dato che “il panorama costituisce un valore aggiunto ad un immobile, che ne incrementa la quotazione di mercato e che corrisponde ad un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, la sua lesione, derivante dalla sopraelevazione o costruzione illegittima di un fabbricato vicino, determina un danno ingiusto da risarcire”.
Lo ha ribadito la IV Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 27.01.2015 n. 362.
LA SENTENZA DEL '96 DELLA CASSAZIONE. Palazzo Spada ha in proposito richiamato la sentenza n. 3679/1996 della Corte di Cassazione (sez. II), secondo la quale “il pregiudizio consistente nella diminuzione o esclusione del panorama goduto da un appartamento e tutelato dalle norme urbanistiche, secondo determinati standard edilizi a norma dell’art. 872 c.c., costituisce un danno ingiusto, come tale risarcibile la cui prova va offerta in base al rapporto tra il pregio che al panorama goduto riconosce il mercato ed il deprezzamento commerciale dell’immobile susseguente al venir meno o al ridursi di tale requisito”.
IL DIRITTO AL PANORAMA. Il “diritto al panorama”, di matrice prevalentemente pretoria, viene ricondotto nell’ambito delle norme del Codice Civile inerenti alle distanze, alle luci e alle vedute (artt. 900 - 907 c.c.).
Il Consiglio di Stato ha ricordato che in tema di diritto al panorama, la Cassazione ha chiarito che si è in presenza di una “servitù altius non tollendi nella quale l’utilitas è rappresentata dalla particolare amenità di cui il fondo dominante viene ad essere dotato per il fatto che essa attribuisce ai suoi proprietari il godimento di una particolare visuale, esclusa essendo la facoltà del proprietario del fondo servente di alzare costruzioni o alberature -quand’anche per altri versi consentite- che pregiudichino o limitino tale visuale.
La servitù in questione è una servitù negativa, perché conferisce al suo titolare non la facoltà di compiere attività o di porre in essere interferenze sul fondo servente, ma di vietare al proprietario di quest’ultimo un particolare e determinato uso del fondo stesso
” (Corte Cass., sez. II, 20.10.1997, n. 10250) (commento tratto da www.casaeclima.com - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Volumi, quali soffitte, stenditoi e locali di sgombero -come ha chiarito la giurisprudenza- non possono ritenersi “tecnici”, poiché in tale nozione rientrano solo i volumi destinati agli impianti tecnici strettamente necessari per consentire i servizi indispensabili all’abitazione (riscaldamento, impianti elettrici ed idraulici, ecc).
Per la stessa ragione non possono essere accolte le censure che sostengono come in detta categoria possano essere inseriti il sottotetto realizzato ad uso locale deposito ed il locale uso lavanderia.

Il secondo mezzo non scalfisce il dato obiettivo, posto in rilievo dal primo giudice, per cui il permesso ha assentito volumi, quali soffitte, stenditoi e locali di sgombero che, come ha chiarito la giurisprudenza, non possono ritenersi “tecnici”, poiché in tale nozione rientrano solo i volumi destinati agli impianti tecnici strettamente necessari per consentire i servizi indispensabili all’abitazione (riscaldamento, impianti elettrici ed idraulici, ecc).
Per la stessa ragione non possono essere accolte le censure che sostengono come in detta categoria possano essere inseriti il sottotetto realizzato ad uso locale deposito ed il locale uso lavanderia (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.01.2015 n. 357 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo d’inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale ha carattere assoluto e prescinde dalle caratteristiche dell’opera realizzata.
Infatti, il divieto di costruzione successivamente sancito dall’art. 9 della legge 24.07.1961, n. 729, dall’art. 19 della legge 06.08.1967, n. 765 (che ha aggiunto un art. 41-septies alla legge 17.08.1942, n. 1150) e dall’art. 4 del decreto ministeriale n. 1404 del 1968 non può essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l’esistenza di ostacoli materiali suscettibili di impedire future modifiche o di diverso utilizzo del tracciato o di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all’incolumità delle persone, ma appare correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile dal concessionario, all’occorrenza, per l’esecuzione dei lavori, per l’impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni (fattispecie relativa all’ipotesi di un immobile situato su una collina sovrastante il piano viario, con un dislivello di circa 70 metri, per la quale il principio è stato ritenuto eccezionalmente derogabile).

Benché variamente argomentata nei diversi suoi profili, la controversia riguarda in definitiva l’esistenza di un vincolo di rispetto autostradale e le conseguenze che ne discenderebbero circa le valutazioni, da parte dell’ente proprietario, in merito a un intervento edilizio progettato su di un immobile che si situa all’interno della fascia protetta.
All’appello dei privati, Autostrade oppone alcune eccezioni di inammissibilità. Così non è però del primo motivo, sulla scorta del quale la controversia può essere decisa senza che occorra prendere in esame le eccezioni rammentate.
Secondo gli indirizzi sia del Consiglio di Stato (cfr. per tutte sez. IV, 14.04.2010, n. 2076; sez. IV, 15.04.2013, n. 2062) che della Corte di cassazione (cfr. da ultimo sez. III, 21.02.2013, n. 4346), il vincolo d'inedificabilità gravante sulla fascia di rispetto autostradale avrebbe carattere assoluto e prescinderebbe dalle caratteristiche dell'opera realizzata. Infatti, il divieto di costruzione successivamente sancito dall'art. 9 della legge 24.07.1961, n. 729, dall’art. 19 della legge 06.08.1967, n. 765 (che ha aggiunto un art. 41-septies alla legge 17.08.1942, n. 1150) e dall’art. 4 del decreto ministeriale n. 1404 del 1968 non potrebbe essere inteso restrittivamente al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di impedire future modifiche o di diverso utilizzo del tracciato o di costituire, per la loro prossimità alla sede autostradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e all'incolumità delle persone, ma apparirebbe correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile dal concessionario, all'occorrenza, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito di materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limiti connessi alla presenza di costruzioni.
Traducendosi in un divieto assoluto di costruire, il vincolo in questione renderebbe pertanto legalmente inedificabili le aree site nella fascia di rispetto autostradale, indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e da qualunque necessità di accertamento in concreto.
In linea di principio, questa giurisprudenza è certo da condividere.
Peraltro, il Collegio non può trascurare la particolarità, anzi, senz’altro l’eccezionalità della situazione sottoposta al suo esame.
Non contestata in punto di fatto e comunque confermata dalla documentazione fotografica è la posizione dell’immobile in questione, che sorge su una collina sovrastante il piano viario. L’incremento edilizio è destinato a realizzarsi sul retro e non sul fronte che si affaccia verso la sede autostradale; le opere sul lato frontistante –secondo l’affermazione degli appellanti, ripetuta in udienza e non contraddetta– hanno carattere di manutenzione.
Il dislivello è stato variamente valutato: negli atti degli appellanti si parla di centinaia di metri; più realisticamente, in udienza, la difesa della parte privata –non contraddetta– si è riferita a uno scarto di 70 metri.
Misurata in altezza, la distanza del fabbricato dal viadotto autostradale sembra davvero al limite di quel valore di 60 metri, cui è collegato il vincolo di inedificabilità. Già, se così fosse, il vincolo in concreto non esisterebbe, a meno di non voler affermare incongruamente che, una volta accertata in piano una distanza inferiore, il vincolo conseguente si estenderebbe poi in altezza usque ad sidera.
Tuttavia, anche in disparte tale rilievo, l’effettivo stato dei luoghi è comunque tale da rendere necessarie un’interpretazione e un’applicazione ragionevoli delle norme richiamate, dunque con i temperamenti idonei anche a porle a riparo da qualunque possibile censura. In altri termini, in situazioni-limite come quella in esame, se non si vuole imporre alla proprietà privata una limitazione del tutto scissa da qualunque interesse pubblico, deve ritenersi che il soggetto competente possa rifiutare il proprio assenso solo indicando quelle ulteriori diverse “finalità perseguite con la normativa di cui si tratta e capaci di giustificarla” (cfr. Corte cost., 22.06.1971, n. 133) che -non essendo praticamente possibile una previsione di ampliamento o di diversa sistemazione del tracciato- verrebbero di fatto sacrificate dall’edificazione.
Nei termini sopra esposti, l’appello è fondato e va pertanto accolto, con annullamento –in riforma della sentenza impugnata– della determinazione negativa di Autostrade, fatto salvo il potere di quest’ultima di rinnovare la valutazione richiesta corredandola di un’adeguata motivazione (massima tratta da http://renatodisa.com - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.01.2015 n. 347 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

INCARICHI PROGETTAZIONE: In base all’art. 91 del d.lgs. n. 163, nel caso di valore della progettazione che non superi la soglia dei 100.000 euro gli incarichi di progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di progettazione, di direzione dei lavori, di coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione e di collaudo possono essere affidati a professionisti esterni.
Tale procedura sconta, peraltro, il rispetto della sia pur limitata concorrenzialità prescritta dall’art. 57, comma 6, e l’applicazione dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione, e la previa selezione di almeno cinque operatori economici, tra i quali la scelta deve essere effettuata secondo il criterio del prezzo più basso o dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
Ne deriva che l’applicazione del successivo art. 130, a norma del quale nell’affidamento dell’attività di direzione lavori il progettista incaricato ai sensi dell'articolo 90, comma 6, deve avere la priorità sugli altri soggetti scelti con le procedure previste dal presente codice per l'affidamento degli incarichi di progettazione trova due limiti, derivanti dalla stessa lettera della norma, e dal richiamo da essa operato ai principi di concorrenza ed economicità, e incontra due conseguenti condizioni, consistenti, appunto, nella circostanza che la scelta del progettista incaricato sia avvenuta mediante la procedura limitatamente concorrenziale sopra ricordata.

... per la riforma della sentenza del TAR CALABRIA - SEZ. STACCATA DI REGGIO CALABRIA SEZIONE I n. 223/2014, concernente affidamento incarico di progettazione esecutiva per la riqualificazione energetica degli edifici scolastici e abbattimento delle barriere architettoniche.
...
II) La sentenza impugnata ha correttamente rilevato che in base all’art. 91 del d.lgs. n. 163, nel caso di valore della progettazione che non superi la soglia dei 100.000 euro -circostanza che ricorre nel caso di specie- gli incarichi di progettazione, di coordinamento della sicurezza in fase di progettazione, di direzione dei lavori, di coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione e di collaudo possono essere affidati a professionisti esterni.
Tale procedura sconta, peraltro, il rispetto della sia pur limitata concorrenzialità prescritta dall’art. 57, comma 6, e l’applicazione dei principi di trasparenza, concorrenza, rotazione, e la previa selezione di almeno cinque operatori economici, tra i quali la scelta deve essere effettuata secondo il criterio del prezzo più basso o dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Ne deriva che l’applicazione del successivo art. 130, a norma del quale nell’affidamento dell’attività di direzione lavori il progettista incaricato ai sensi dell'articolo 90, comma 6, deve avere la priorità sugli altri soggetti scelti con le procedure previste dal presente codice per l'affidamento degli incarichi di progettazione trova due limiti, derivanti dalla stessa lettera della norma, e dal richiamo da essa operato ai principi di concorrenza ed economicità, e incontra due conseguenti condizioni, consistenti, appunto, nella circostanza che la scelta del progettista incaricato sia avvenuta mediante la procedura limitatamente concorrenziale sopra ricordata.
La sentenza impugnata erra, perciò, nel ritenere che la scelta di affidare la progettazione all’esterno abbia determinato automaticamente la conseguenza dell’obbligatoria preferenza a favore dei progettisti al momento dell'affidamento della direzione dei lavori. Questo errore si manifesta per un duplice ordine di motivi: innanzitutto, perché la scelta a monte, relativa al soggetto cui affidare la progettazione, non risulta sia stata rispettosa dei principi appena indicati, soprattutto per quanto riguarda la concorrenzialità tra almeno cinque potenziali interessati; in secondo luogo, perché diverse sono le Amministrazioni che hanno condotto le due fasi della procedura, la prima (attinente alla progettazione) di pertinenza della Provincia, la seconda, concernente la direzione dei lavori e la fase attuativa e di controllo, di spettanza dell’istituto scolastico, come, del resto, si legge nell’accordo stipulato tra l’ente locale e l’istituto Pizi.
L’errore appena considerato, peraltro, è rivelatore di un ben più grave fraintendimento da parte del primo giudice, che, pur sottolineando come gli accordi intervenuti tra le Amministrazioni coinvolte nel progetto (Ministero, Provincia, istituto scolastico) hanno assunto la funzione di regolare le specifiche competenze in ordine alle varie fasi del complesso procedimento e non hanno determinato alcuna deroga ai principi contenuti nel Codice dei contratti pubblici che assumono la natura di norme inderogabili, attribuisce portata assolutamente prevalente al principio di continuità della progettazione espresso nell'art. 130 del medesimo Codice, laddove una tale importanza non può che essere riconosciuta, secondo la scala di valore derivante dagli stessi principi comunitari (oltre che dalla lettera delle norme), alle istanze di trasparenza, economicità e concorrenzialità dell’azione amministrativa.
III) In conclusione, l’appello è fondato e deve essere accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata e reiezione del ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.01.2015 n. 337 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTI: Legittimo annullare la procedura. Gara da rifare se l'Avcpass è ko.
Se il sistema Avcpass non funziona la stazione appaltante può annullare la gara e rinnovarla.

È quanto afferma il C.G.A.R.S. con la sentenza 26.01.2015 n. 62 rispetto a una procedura avviata nei mesi scorsi da un comune che aveva correttamente richiesto nel bando di gara di indicare, tra i documenti da depositare a pena di esclusione, il c.d. «Passoe», ossia il codice «Pass operatore economico», da rilasciare da parte del sistema Avcpass, operativo da più di due anni presso la Banca dati nazionale dei contratti pubblici gestita dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac).
Era accaduto che più di un concorrente si fosse lamentato di un anomalo funzionamento del sistema Avcpass e della conseguente impossibilità di ottenere il Passoe. A tale riguardo, come previsto dalle procedure dell'Anac (all'epoca ancora Avcp), l'Autorità, richiesta dalla stazione appaltante di intervenire per sanare il malfunzionamento, non rese i chiarimenti richiesti.
Il consiglio di giustizia amministrativo ha avallato l'operato della stazione appaltante ritenendo che l'amministrazione «abbia corredato l'atto di ritiro di una idonea motivazione, avendo soprattutto riguardo al difettoso funzionamento della banca dati dell'Avcp e all'interesse pubblico da tutelare all'insegna del buon andamento dell'azione amministrativa», fra cui anche quello di insorgenza di contenziosi, il cui protrarsi avrebbe comportato il pericolo di perdere il finanziamento ottenuto per l'intervento oggetto dell'appalto.
Per i giudici, quindi, una volta assodato che non vi fossero modi per superare il malfunzionamento, l'annullamento era legittimo così come l'urgente rinnovazione, in tempi molto rapidi, della procedura; la sentenza concorda anche sul fatto che finiva comunque per assumere una valenza recessiva l'interesse privato dell'aggiudicatario provvisorio, titolare di una mera aspettativa all'aggiudicazione definitiva, rispetto all'interesse pubblico allo svolgimento della gara e alla conservazione del finanziamento conseguito a valere sui fondi europei.
È quindi legittima la revoca dell'aggiudicazione della prima procedura, anche se nel caso di specie viene riconosciuto un indennizzo all'aggiudicatario (articolo ItaliaOggi del 17.02.2015).

ATTI AMMINISTRATIVI:  Sull'illegittimità dell'ordinanza sindacale contingibile ed urgente circa la "Rimozione di rimorchio con sopra un piccolo trattore in area pubblica con attraversamento di area di interesse archeologico".
Come evidenziato dalla giurisprudenza ormai costante “il potere di ordinanza di cui all'art. 54 t.u.e.l. può essere legittimamente esercitato, quale immanente prerogativa sindacale di provvedere in via d'urgenza e contingibile alla tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica, nonché quando la violazione delle norme che tutelano i beni previsti dal d.m. del 05.08.2008 (situazioni di degrado o isolamento, tutela del patrimonio pubblico e della sua fruibilità, incuria ed occupazione abusiva di immobili, intralcio alla viabilità o alterazione del decoro urbano) non assuma rilevanza solo in sé stessa (poiché in tal caso soccorrono gli strumenti ordinari), ma qualora possa costituire la premessa per l'insorgere di fenomeni di criminalità suscettibili di minare la sicurezza pubblica, dato che, in tal caso, vengono in rilievo interessi che vanno oltre le normali competenze di polizia amministrativa locale. Soltanto nelle illustrate ipotesi il sindaco, in qualità di ufficiale di governo, assume il ruolo di garante della sicurezza pubblica e può provvedere, sotto il controllo prefettizio ed in conformità delle direttive del Ministero dell'Interno, alle misure necessarie a prevenire o eliminare i gravi pericoli che la possano minacciare”.
Il potere sindacale di ordinanza ex art. 54 d.lgs. n. 267/2000 non può, in breve, avere una valenza "creativa", ma deve limitarsi a prefigurare misure che assicurino il rispetto di norme ordinarie volte a tutelare l'ordinata convivenza civile, tutte le volte in cui dalla loro violazione possano derivare gravi pericoli per l'ordine pubblico e per la sicurezza pubblica, quale però non è, nel concreto, la fattispecie in esame, nella quale non è ravvisabile una siffatta "urgenza qualificata".

... per l'annullamento dell'ordinanza n. 34/2008 del 13.09.2008 avente ad oggetto "Rimozione di rimorchio con sopra un piccolo trattore in area pubblica con attraversamento di area di interesse archeologico" emessa in data 13.09.2008 da parte del Sindaco di Valperga con cui si disponeva la rimozione immediata del rimorchio stesso, tramite il soccorso ACI di Torino ed il successivo deposito presso la ditta M. con sede in Bairo;
...
Con il ricorso in epigrafe il sig. G.C. ha lamentato, in primo luogo, l’illegittimità dell’ordinanza contingibile ed urgente per carenza dei requisiti prescritti dall’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000 per l’adozione di tale provvedimento.
Tale censura è fondata e meritevole di accoglimento.
Il caso in questione, nel quale il ricorrente aveva provvisoriamente parcheggiato, in uno spazio comunale al lato della via, separato dalla vicina ferrovia da un’altra strada e da una recinzione di cemento, il rimorchio, rimasto bloccato nel fango, per il tempo strettamente necessario a reperire una motrice più potente in grado di trascinarlo via dal pantano in cui era finito, non presenta, in verità, i requisiti di pericolo per l’incolumità pubblica o per la sicurezza urbana prescritti dalla legge per l’emissione di un’ordinanza sindacale contingibile ed urgente.
Come evidenziato dalla giurisprudenza ormai costante “il potere di ordinanza di cui all'art. 54 t.u.e.l. può essere legittimamente esercitato, quale immanente prerogativa sindacale di provvedere in via d'urgenza e contingibile alla tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica, nonché quando la violazione delle norme che tutelano i beni previsti dal d.m. del 05.08.2008 (situazioni di degrado o isolamento, tutela del patrimonio pubblico e della sua fruibilità, incuria ed occupazione abusiva di immobili, intralcio alla viabilità o alterazione del decoro urbano) non assuma rilevanza solo in sé stessa (poiché in tal caso soccorrono gli strumenti ordinari), ma qualora possa costituire la premessa per l'insorgere di fenomeni di criminalità suscettibili di minare la sicurezza pubblica, dato che, in tal caso, vengono in rilievo interessi che vanno oltre le normali competenze di polizia amministrativa locale. Soltanto nelle illustrate ipotesi il sindaco, in qualità di ufficiale di governo, assume il ruolo di garante della sicurezza pubblica e può provvedere, sotto il controllo prefettizio ed in conformità delle direttive del Ministero dell'Interno, alle misure necessarie a prevenire o eliminare i gravi pericoli che la possano minacciare” (cfr. Cons. St., Sez. VI, 31.10.2013 n. 5276).
Il potere sindacale di ordinanza ex art. 54 d.lgs. n. 267/2000 non può, in breve, avere una valenza "creativa", ma deve limitarsi a prefigurare misure che assicurino il rispetto di norme ordinarie volte a tutelare l'ordinata convivenza civile, tutte le volte in cui dalla loro violazione possano derivare gravi pericoli per l'ordine pubblico e per la sicurezza pubblica, quale però non è, nel concreto, la fattispecie in esame, nella quale non è ravvisabile una siffatta "urgenza qualificata".
Da qui la fondatezza, come detto, dei dedotti vizi di difetto di istruttoria e di motivazione, di eccesso di potere per travisamento dei fatti e di violazione dell’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato ed assorbimento di ogni altra doglianza (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 23.01.2015 n. 147 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTIAppalti, il vincitore è da risarcire se cambia il bando. Tar Calabria. Modifiche in autotutela.
Se prima di aggiudicare l’appalto la Pa cambia le norme con cui esso è stato bandito, l’impresa vincitrice ha diritto al risarcimento dei danni per responsabilità precontrattuale. Tali danni, in generale, equivalgono ai costi sostenuti confidando in buona fede nella sua stipula.
A precisarlo è il TAR Calabria-Reggio Calabria nella sentenza 23.01.2015 n. 94 dalla I Sez..
I giudici hanno condannato un Comune a risarcire un’azienda che si era rifiutata di firmare un contratto di appalto per un servizio di formazione professionale poiché l’ente, al momento della sottoscrizione ordinata da due sentenze amministrative, aveva modificato la prima versione del contratto stesso. In particolare, la nuova versione aveva previsto sistemi di finanziamento diversi rispetto a quelli del bando, violando i principi di buona fede fissati in materia dal Codice civile (articolo 1337, intitolato «Trattative e responsabilità precontrattuale»).
Il Comune, infatti, aveva accertato l’indisponibilità della copertura iniziale prevista da fondi europei e aveva poi stabilito in autotutela una nuova fonte di finanziamento con fondi propri, ma con clausole di pagamento mutate.
Secondo il collegio, la pubblica amministrazione deve risarcire l’aggiudicataria delle spese sostenute per le organizzare il servizio (nel caso in questione, attrezzature informatiche e arredi), poiché «nelle trattative precontrattuali costituite dallo svolgimento di una gara d’appalto indetta dalla pubblica amministrazione, rientrano nel danno emergente e nei limiti del cosiddetto interesse negativo quei costi che l’imprenditore aggiudicatario definitivo abbia sostenuto confidando in buona fede nell’imminente sottoscrizione del contratto, al fine della sua diligente esecuzione, per approvvigionamenti di materiali e forniture corrispondenti a quelli previsti nel progetto a base di gara».
Quando però, come in questo caso, i beni acquistati aumentano il patrimonio aziendale, il Tar afferma che serve «tenere conto del necessario bilanciamento tra il depauperamento monetario (scaturente dai costi vivi d’acquisto) e l’arricchimento patrimoniale dei beni aziendali insito nel possesso delle attrezzature acquistate e nella loro idoneità (anche astratta o potenziale) ad assolvere alle utilità proprie dell’impresa oltre le specifiche prestazioni dedotte nel contratto poi non sottoscritto»
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: Tenendo presente la differenza tra illegittimità degli atti ed illiceità del comportamento della PA, la giurisprudenza è univoca nell’ affermare che “la responsabilità precontrattuale della P.A. è configurabile in tutti i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, compia azioni o incorra in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede, alla cui puntuale osservanza è tenuto già nel procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente, ossia nel momento in cui entra in contatto con una pluralità di offerenti, instaurando con ciascuno di essi trattative (multiple o parallele) idonee a determinare la costituzione di rapporti giuridici, nel cui ambito è tenuto al rispetto di principi generali di comportamento posti dalla legge a tutela indifferenziata degli interessi delle parti.
Ne consegue che l'inosservanza di tale precetto, anche prima della conclusione della gara, determina l'insorgere della responsabilità della P.A. per violazione del dovere di correttezza previsto dall'art. 1337 cod. civ., a prescindere dalla prova dell'eventuale diritto all'aggiudicazione del partecipante”, riconoscendo la sussistenza di responsabilità per revoca di gara già aggiudicata con provvedimenti legittimi.

Nell’odierno giudizio, l’oggetto della controversia si è concentrato in ordine all’accertamento della responsabilità dell’Ente circa la mancata sottoscrizione di un contratto di appalto, aggiudicato all’odierna ricorrente, e da quest’ultima non sottoscritto per intervenuto mutamento del sistema di finanziamento del servizio, rispetto alle condizioni inizialmente previste nel bando di gara.
Più precisamente, il bando approvato con determina dirigenziale nr. 4561/2006 prevedeva, in merito alle modalità di effettuazione dei pagamenti, che l’erogazione del contributo sarebbe avvenuta con le seguenti modalità: “il 50% ad avvenuta dimostrazione di inizio lavori, previa presentazione di garanzia fideiussoria pari all’importo dell’anticipo di contributo concesso; il 30% ad avvenuta dimostrazione del sostenimento del 50% della spesa, previa presentazione di garanzia…; il 20% ad avvenuta rendicontazione finale” (finanziamento a valere sui fondi POR Calabria – FESR 2000/2006).
In sede di ottemperanza, il Comune così riformulava la clausola di finanziamento dell’intervento: “l’impresa affidataria avrà diritto al pagamento del corrispettivo mediante il versamento di: a) una quota pari al venti per cento del compenso complessivo al completamento dell’attività formativa dei primi cinque moduli previsti nel percorso formativo di “esperto in management aziendale” e dei primi tre moduli previsti nel percorso formativo di “esperto nell’utilizzo delle nuove tecnologie”; b) una quota pari al trenta per cento al completamento dell’attività prevista per entrambi i percorsi formativi; c) la residua quota del cinquanta per cento a conclusione dell’attività dell’intero progetto formativo (finanziamento con fondi di bilancio).
Tale mutamento normativo dello schema di contratto, scaturente dall’avvenuta sostituzione delle fonti di finanziamento originarie con somme di bilancio comunale, è stato ritenuto legittimo con la sentenza nr. 455/2013 di questo Tribunale, pronunciata inter partes, avendo l’Ente dato puntuale applicazione alla disposizione di cui all’art. 5, comma 1° del DL 79/1997.
In virtù della modifica rispetto allo schema di contratto posto a corredo del bando di gara cui ha preso parte, la ricorrente assume di non poter più aderire all’appalto, e chiede che le vengano riconosciuti i danni.
I) Sulla base delle risultanze degli atti e delle deduzioni delle parti, può succintamente qualificarsi la fattispecie in termini di responsabilità precontrattuale, atteso che si tratta di un contratto di appalto che la Stazione appaltante ha offerto alla sottoscrizione della parte ricorrente, in sede di ottemperanza alle sentenze in epigrafe, e che quest’ultima ha ritenuto di non poter sottoscrivere per l’avvenuto mutamento di clausole che riteneva essenziali rispetto a quelle contenute nello schema di bando posto a base della gara.
Tenendo presente la differenza tra illegittimità degli atti ed illiceità del comportamento della PA (Cons. Stato Sez. IV, 15.09.2014, n. 4674, TAR Campania-Salerno Sez. I, 12.05.2014, n. 925), la giurisprudenza è univoca nell’ affermare che “la responsabilità precontrattuale della P.A. è configurabile in tutti i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, compia azioni o incorra in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede, alla cui puntuale osservanza è tenuto già nel procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente, ossia nel momento in cui entra in contatto con una pluralità di offerenti, instaurando con ciascuno di essi trattative (multiple o parallele) idonee a determinare la costituzione di rapporti giuridici, nel cui ambito è tenuto al rispetto di principi generali di comportamento posti dalla legge a tutela indifferenziata degli interessi delle parti. Ne consegue che l'inosservanza di tale precetto, anche prima della conclusione della gara, determina l'insorgere della responsabilità della P.A. per violazione del dovere di correttezza previsto dall'art. 1337 cod. civ., a prescindere dalla prova dell'eventuale diritto all'aggiudicazione del partecipante” (Cass. civ. Sez. I, 03.07.2014, n. 15260), riconoscendo la sussistenza di responsabilità per revoca di gara già aggiudicata (Cons. Stato Sez. VI, 18.03.2014, n. 1335) con provvedimenti legittimi (TAR Sardegna Cagliari Sez. I, 11.03.2014, n. 205) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 23.01.2015 n. 94 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lavori mal eseguiti, risarcimento aggiuntivo.
Appalto: nell'ipotesi di cattiva esecuzione di parte dei lavori di risanamento e impermeabilizzazione dei box di uno stabile condominiale il risarcimento del danno si configura quale strumento aggiuntivo e generale rispetto ai due rimedi principali dell'adempimento e della risoluzione contrattuale.

Più precisamente secondo i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione (sentenza 22.01.2015 n. 1186), «ai sensi dell'art. 1453 c.c. al contraente inadempiente può essere chiesto dall'altro contraente l'adempimento o la risoluzione, salvo in ogni caso il risarcimento del danno che quindi viene a configurarsi come strumento ulteriore e generale rispetto ai due principali dell'adempimento e della risoluzione».
Il risarcimento del danno per equivalente, chiariscono all'uopo, costituirebbe una reintegrazione del patrimonio del creditore di una somma di denaro pari al valore della cosa o del servizio oggetto della prestazione inadempiuta, atteggiandosi, quindi, come «la forma tipica di ristoro del pregiudizio subito dal creditore per effetto dell'inadempimento del debitore»; il risarcimento in forma specifica, invece, essendo diretto al conseguimento dell'eadem res dovuta, tenderebbe a realizzare una forma più ampia di ristoro del pregiudizio dallo stesso arrecato, dal momento che oggetto della pretesa azionata non è la somma di denaro, bensì il conseguimento, da parte del creditore danneggiato, di una prestazione analoga, «nella sua specificità ed integrità», a quella cui il debitore era tenuto dal vincolo contrattuale.
Così argomentando, il collegio di legittimità ha accolto soltanto due dei sei motivi di ricorso promosso da un condominio contro la ditta appaltatrice, ribadendo che la domanda di risarcimento per equivalente deve intendersi già ricompresa nella più ampia domanda di risarcimento in forma specifica, attraverso l'eliminazione dei vizi; anzi evidenzia, richiamandosi ad alcuni precedenti giurisprudenziali, che rientrerebbe addirittura nei poteri discrezionali del giudice di merito attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente, dal momento che quest'ultimo costituisce «un «minus» rispetto a quello in forma specifica (articolo ItaliaOggi Sette del 23.02.2015).

EDILIZIA PRIVATAL’effetto acquisitivo di diritto è automatico per le opere abusive e la loro area di sedime, mentre richiede una specificazione, sulla base di adeguata motivazione, per quanto riguarda le aree ulteriori.
In proposito, invero, se va ribadito che l'acquisizione al patrimonio del Comune dell'opera abusiva e dell'area di sedime, si verifica "ex lege" (ossia automaticamente, una volta decorso infruttuosamente il termine di novanta giorni dalla notificazione dell'ordinanza di demolizione della costruzione abusiva) va tuttavia anche sottolineato che, mentre per l’area di sedime l’automatismo dell’effetto acquisitivo rende superflua ogni motivazione sul punto, l’individuazione di un’area ulteriore da acquisire ovvero di quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive (oltre a dover essere precisata con apposite indicazioni relative all’estensione) deve essere giustificata dalla ricorrenza di una esplicitazione delle opere necessarie ai fini urbanistico-edilizi che siano destinate ad occupare l’intera zona di terreno che il Comune intende acquisire.
Ne consegue che è illegittimo il provvedimento in esame laddove si dispone l'acquisizione gratuita al patrimonio del Comune, oltre che dell’area di sedime, anche della restante parte della particella catastale, risultando violato il principio di proporzione della sanzione rispetto all'entità della costruzione abusiva: infatti, nella fattispecie il Comune ha ritenuto di poter acquisire l’intero lotto su cui insiste l’opera abusiva (che è pressoché pari a dieci volte la superficie di quest’ultima) senza in alcun modo prendere come parametro la superficie occorrente alla realizzazione di opere analoghe secondo la vigente normativa urbanistica, bensì motivando in relazione alla mera congruità dell’area, in quanto inferiore al limite massima prescritto dalla norma.
Ed invero l’onere motivazionale tanto più si imponeva in parte qua in considerazione del rilievo che, come indicato dal Comune, l’area risulta altresì inedificabile, per cui il Comune doveva indicarne la destinazione (ad es. a verde pubblico) e l’area congrua alla realizzazione della impressa destinazione.

17. Il terzo ricorso per motivi aggiunti, nella parte in cui contesta l’area ulteriore a quella di sedime, acquisita al patrimonio comunale e individuata per la prima volta con l’atto oggetto di impugnativa, ovvero con il provvedimento prot. n. 32129/07 costituente integrazione del precedente atto di accertamento dell’inottemperanza, è invece fondato, alla stregua di quanto di seguito evidenziato.
17.1. Ed invero secondo l’orientamento giurisprudenziale seguito dalla Sezione, l’effetto acquisitivo di diritto è automatico per le opere abusive e la loro area di sedime, mentre richiede una specificazione, sulla base di adeguata motivazione, per quanto riguarda le aree ulteriori (da ultimo TAR Campania, Napoli, sez. VII n. 1969 del 04/04/2014 che richiama anche l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale detta specificazione per le aree ulteriori ben potrà esservi in un successivo momento -cfr. TAR Lazio-Roma n. 2031 del 07.03.2011; TAR Campania-Napoli n. 536 del 28.01.2011; TAR Campania-Napoli n. 22291 del 03.11.2010; TAR Campania-Napoli n. 3198 del 10.04.2007; TAR Sicilia-Palermo n. 1334 del 10.05.2007-, rimanendo fino ad allora preclusa l’immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari).
In proposito, invero, se va ribadito che l'acquisizione al patrimonio del Comune dell'opera abusiva e dell'area di sedime, si verifica "ex lege" (ossia automaticamente, una volta decorso infruttuosamente il termine di novanta giorni dalla notificazione dell'ordinanza di demolizione della costruzione abusiva) va tuttavia anche sottolineato che, mentre per l’area di sedime l’automatismo dell’effetto acquisitivo rende superflua ogni motivazione sul punto, l’individuazione di un’area ulteriore da acquisire ovvero di quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive (oltre a dover essere precisata con apposite indicazioni relative all’estensione) deve essere giustificata dalla ricorrenza di una esplicitazione delle opere necessarie ai fini urbanistico-edilizi che siano destinate ad occupare l’intera zona di terreno che il Comune intende acquisire.
17.2. Ne consegue che è illegittimo il provvedimento in esame laddove si dispone l'acquisizione gratuita al patrimonio del Comune, oltre che dell’area di sedime, anche della restante parte della particella catastale, risultando violato il principio di proporzione della sanzione rispetto all'entità della costruzione abusiva: infatti, nella fattispecie il Comune ha ritenuto di poter acquisire l’intero lotto su cui insiste l’opera abusiva (che è pressoché pari a dieci volte la superficie di quest’ultima) senza in alcun modo prendere come parametro la superficie occorrente alla realizzazione di opere analoghe secondo la vigente normativa urbanistica, bensì motivando in relazione alla mera congruità dell’area, in quanto inferiore al limite massima prescritto dalla norma (cfr. TAR Campania-Napoli n. 2761 del 27.05.2013; TAR Lazio latina n. 151 del 15.02.2011; TAR Campania-Napoli n. 4336 del 20.04.2005). Ed invero l’onere motivazionale tanto più si imponeva in parte qua in considerazione del rilievo che, come indicato dal Comune, l’area risulta altresì inedificabile, per cui il Comune doveva indicarne la destinazione (ad es. a verde pubblico) e l’area congrua alla realizzazione della impressa destinazione.
Pertanto, per tale sola parte il provvedimento in questione va annullato (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 22.01.2015 n. 437  - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTIL'art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 -nell’individuare le cause ostative alla partecipazione alle gare di affidamento di concessioni e degli appalti di lavori, forniture o servizi nonché alla stipula dei relativi contratti, con riferimento alle società- ricomprende nel novero dei soggetti, nei cui confronti devono sussistere i requisiti di ordine generale, i soci o il direttore tecnico se si tratta di società in nome collettivo, i soci accomandatari o il direttore tecnico se si tratta di società in accomandita semplice, gli amministratori muniti di poteri di rappresentanza o il direttore tecnico, o il socio unico persona fisica ovvero il socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci, se si tratta di altro tipo di società.
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Non può ragionevolmente dubitarsi della sussistenza dell’obbligo della dichiarazione ex art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 anche per i soci di maggioranza delle società con meno di quattro soci, obbligo la cui violazione determina l’esclusione dalla gara.
In mancanza, l’amministrazione appaltante non ha l’obbligo di esercitare il soccorso istruttorio, trattandosi nel caso in esame non già di completare o di integrare una dichiarazione già resa, ma di una dichiarazione completamente mancante (ex multis, Cons. St., sez. V, 28.04.2014, n. 2201, secondo cui nelle gare pubbliche, l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può essere considerata alla stregua di un'irregolarità sanabile, in applicazione del cd. dovere di soccorso di cui all'art. 46, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 e, quindi, non ne è permessa l'integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali, e ciò tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara).

5. E’ infondato il primo motivo di gravame, con cui il Comune di Neviano, deducendo “Erroneità della sentenza appellata nella parte in cui ha annullato l'aggiudicazione definitiva in favore della Visconti Costruzioni srl”, ha sostenuto che, diversamente da quanto ritenuto dai primi giudici, nel caso di specie l’omessa dichiarazione concernente il possesso dei requisiti ex art. 38 del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, da parte del socio di maggioranza (trattandosi di società di capitali con meno di quattro soci) non sarebbe stata sanzionata dal disciplinare di gara (punto 6, lett. c1) del disciplinare) con l’esclusione dalla gara, ed ha aggiunto che tale mancanza si sarebbe potuta (e dovuta) regolarizzare con l’esercizio del ‘soccorso istruttorio’, giacché nella domanda di partecipazione alla gara, conformemente alle previsioni della lex specialis, erano contenute tutte le indicazioni necessarie a consentire la consultazione dei registri camerali da parte della stessa amministrazione appaltante (consultazione da cui sarebbe emerso agevolmente proprio il nominativo del socio di maggioranza, nei cui confronti non sussisteva peraltro alcuna situazione ostativa ex art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006).
5.1. La Sezione osserva al riguardo che il citato art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 -nell’individuare le cause ostative alla partecipazione alle gare di affidamento di concessioni e degli appalti di lavori, forniture o servizi nonché alla stipula dei relativi contratti, con riferimento alle società- ricomprende nel novero dei soggetti, nei cui confronti devono sussistere i requisiti di ordine generale, i soci o il direttore tecnico se si tratta di società in nome collettivo, i soci accomandatari o il direttore tecnico se si tratta di società in accomandita semplice, gli amministratori muniti di poteri di rappresentanza o il direttore tecnico, o il socio unico persona fisica ovvero il socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci, se si tratta di altro tipo di società.
Il disciplinare di gara della gara de qua (punto 2.1., sub par. 2) ha espressamente previsto che la dichiarazione concernente il possesso dei requisiti di ordine generale e l’assenza di cause ostative, ex art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006, riguardava “tutte le persone fisiche di cui al precedente numero 1)”, tra cui “il socio unico o i soci di maggioranza in caso di società di capitali con meno di quattro soci”.
Il successivo punto 6, nel prevedere le “cause di esclusione in fase di ammissione”, stabiliva al punto c) che sarebbero stati “…altresì esclusi, prima dell’apertura della busta interna, gli offerenti: c1) che non hanno presentato una o più d’una delle dichiarazioni richieste, successivamente aperta per qualsiasi motivo, ad eccezione di quanto diversamente previsto dal presente disciplinare di gara; oppure che hanno presentato una o più d’una delle dichiarazioni richieste recanti indicazioni gravemente erronee, insufficienti, non pertinenti, non veritiere, comunque non idonee all’accertamento dell’esistenza di fatti, circostanze o requisiti per i quali sono prodotte, che non possono essere regolarizzate ai sensi dell’art. 46 del D.Lgs. 163/2006, oppure non sottoscritte dal soggetto competente o non corredate, anche cumulativamente, da almeno una fotocopia del documento di riconoscimento di ciascun sottoscrittore o dichiarante; per gli operatori nazionali l’esclusione non opera in assenza della dichiarazione di cui al capo 2.1, numero 1, purché siano dichiarate in modo in modo idoneo e sufficienti le indicazioni necessarie alla consultazione d’ufficio dei Registri della Camera di Commercio, Industria, Artigianato, Agricoltura, competente per territorio; (art. 13 –comma 3– Statuto delle imprese”.
5.2. Ciò posto, non può ragionevolmente dubitarsi della sussistenza dell’obbligo della dichiarazione ex art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 anche per i soci di maggioranza delle società con meno di quattro soci, obbligo la cui violazione determinava l’esclusione dalla gara, e che nel caso in esame è stato effettivamente violato.
Come infatti emerge dalla documentazione versata in atti, la dichiarazione resa dalla legale rappresentante della società appellante ai fini della partecipazione alla gara non contiene alcuna indicazione circa il socio di maggioranza, benché il modello predisposto dalla stessa amministrazione appaltante e concretamente utilizzato prevedesse uno specifico riquadro proprio per le società o i consorzi con meno di quattro soci, così che nessuna equivocità o incertezza poteva derivare, incolpevolmente per i concorrenti, dall’utilizzo del modello e tanto meno dalla tenore letterale della lex specialis.
Ciò esclude che l’amministrazione appaltante, come sostenuto dalla società appellante, avesse l’obbligo di esercitare il soccorso istruttorio, trattandosi nel caso in esame non già di completare o di integrare una dichiarazione già resa, ma di una dichiarazione completamente mancante (ex multis, Cons. St., sez. V, 28.04.2014, n. 2201, secondo cui nelle gare pubbliche, l'omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non può essere considerata alla stregua di un'irregolarità sanabile, in applicazione del cd. dovere di soccorso di cui all'art. 46, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 e, quindi, non ne è permessa l'integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali, e ciò tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall'ambiguità di clausole della legge di gara; sez. III, 09.05.2014, n. 2376; sez. IV, 29.05.2014, n. 2778; sez. V, 17.07.2014, n. 3807). Ciò sotto altro concorrente profilo rende irrilevante ed inutile, ai fini della eventuale sanatoria di tale omissione, la dichiarazione prodotta dal socio di maggioranza in ordine al possesso dei requisiti di cui all’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 solo in data 10.09.2013, laddove il termine per presentare la domanda di partecipazione alla gara de qua scadeva improrogabilmente il 27.05.2013.
Deve aggiungersi inoltre che l’esclusione dalla gara per l’omessa dichiarazione di cui si discute, oltre a ricollegarsi direttamente alle previsioni del d.lgs. n. 163 del 2006, era espressamente prevista, come rilevato in precedenza, dallo stesso disciplinare di gara, non potendo trovare accoglimento la suggestiva ricostruzione proposta dall’appellante secondo cui nel caso di specie troverebbe ingresso l’eccezione, pure prevista dal punto 6, c1, del disciplinare per essere comunque state fornite le indicazioni necessarie e sufficienti alla stazioni appaltanti per la consultazione d’ufficio dei Registri della Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura.
Al riguardo, va sottolineato che l’esclusione dalla gara è stata determinata non già dall’omessa indicazione del socio di maggioranza, ma dall’omessa dichiarazione -da parte di costui- del possesso dei requisiti di ordine generale del più volte ricordato art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 (così che il fatto che le indicazioni altrimenti contenute nella domanda fossero sufficienti alla consultazione dei registri della Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura non sono idonee a neutralizzare la mancanza della dichiarazione).
Le finalità perseguite con la dichiarazione che è mancata non consentono poi di apprezzare favorevolmente la tesi, propugnata dall’appellante, circa la necessaria interpretazione ‘sostanzialistica’ delle ricordate disposizioni della lex specialis (contrapposta a quella ‘formalistica’ che sarebbe stata accolta dai primi giudici), secondo cui l’esclusione non avrebbe potuto mai essere disposta o dichiarata, sussistendo in capo al socio maggioritario i requisiti di ordine generale ex art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.01.2015 n. 285 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTI: Premesso che, ai fini dell’ammissibilità della domanda di risarcimento del danno derivante dalla dichiarata illegittimità degli atti della procedura di gara, non è necessaria alcuna particolare indagine in ordine all’elemento soggettivo della responsabilità dell’amministrazione, essendo la stessa in re ipsa (ex multis, Cons. St., 3397/2013; 1478/2014, ciò in quanto il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività della tutela previsto dalla normativa comunitaria a condizione che la possibilità di riconoscere detto risarcimento non sia subordinata alla constatazione di un comportamento colpevole), deve rammentarsi che in tema di determinazione del danno da mancata aggiudicazione la giurisprudenza ha raggiunto le seguenti univoche conclusioni, dalle quali non vi è motivo di discostarsi:
   a) ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il danneggiato deve offrire la prova dell'an e del quantum del danno che assume di aver sofferto;
   b) in tema di risarcimento danni nei confronti della Pubblica amministrazione, il giudice amministrativo è chiamato a valutare (art. 30, comma 3, c.p.a.), senza necessità di eccezione di parte e acquisendo anche d'ufficio gli elementi di prova all'uopo necessari, se il presumibile esito del ricorso di annullamento dell'atto illegittimo e dell'utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe evitato in tutto o in parte il danno, secondo un giudizio di causalità ipotetica basato su una logica probabilistica che apprezzi il comportamento globale del ricorrente;
   c) spetta all'impresa danneggiata offrire la prova della percentuale di utile che avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, cod. proc. amm.). Quest'ultimo, infatti, intanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l'asimmetria informativa tra amministrazione e privato, la quale contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del principio dispositivo sancito in generale dall'art. 2697, comma primo, cod. civ.;
   d) il ricorso alla valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., è ammesso soltanto in presenza di situazione di impossibilità -o di estrema difficoltà- di una precisa prova sull'ammontare del danno;
   e) le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente neppure nel caso di consulenza tecnica d'ufficio cosiddetta "percipiente", che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente l'accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti;
   f) la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni. Al riguardo, va precisato che, per la configurazione di una ‘presunzione’, non occorre che l'esistenza del fatto ignoto rappresenti l'unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla scorta della regola della inferenza necessaria), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'id quod plerumque accidit (in virtù della regola dell'inferenza probabilistica), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici.
In ragione di ciò va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata, sia perché non può formularsi un giudizio di probabilità fondato sull’id quod plerumque accidit secondo il quale allegato l'importo a base d'asta può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al 10% del detto importo;
   g) il mancato utile spetta nella misura integrale solo se la concorrente dimostra di non aver potuto altrimenti utilizzare mezzi e maestranze, in quanto tenuti a disposizione in vista dell'aggiudicazione, sicché, in assenza di tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi, con la conseguente decurtazione del risarcimento di una misura a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum;
   h) anche per il cd. danno curricolare il presunto danneggiato deve offrire la prova puntuale del danno che asserisce di aver subito.
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Il criterio forfettario di quantificazione del danno, previsto per la diversa ipotesi di recesso ad nutum della stazione appaltante nella fase di esecuzione del contratto, proprio quale eccezione alla regola generale del principio secondo cui onus probandi incubit ei qui dicit, non è suscettibile di applicazione analogica alla fattispecie risarcitoria, introducendosi altrimenti una forma generalizzata di indennizzo predeterminato ed automatico, contrario alla stessa natura della tutela risarcitoria, oltre che agli ordinari principi probatori.
Si può tuttavia ammettere, fermo restando il principio fondamentale dell’onere della prova, che l’ammontare del risarcimento possa essere determinato in via equitativa nella misura del 10% dell’importo dell’offerta, solo se ed in quanto l’impresa abbia documentato di non aver potuto utilizzare, in quanto apprestati ed approntati in previsione dell’appalto da aggiudicare, mezzi e maestranze per l’esecuzione di altri contratti, ed in caso diverso potendo operarsi una decurtazione del risarcimento di una misura a titolo di aliunde perceptum.

6.1.1. Premesso che, ai fini dell’ammissibilità della domanda di risarcimento del danno derivante dalla dichiarata illegittimità degli atti della procedura di gara, non è necessaria alcuna particolare indagine in ordine all’elemento soggettivo della responsabilità dell’amministrazione, essendo la stessa in re ipsa (ex multis, Cons. St., sez. V, 21.06.2013, n. 3397; sez. IV, 27.03.2014, n. 1478, ciò in quanto il rimedio risarcitorio risponde al principio di effettività della tutela previsto dalla normativa comunitaria a condizione che la possibilità di riconoscere detto risarcimento non sia subordinata alla constatazione di un comportamento colpevole), deve rammentarsi che in tema di determinazione del danno da mancata aggiudicazione la giurisprudenza ha raggiunto le seguenti univoche conclusioni, dalle quali non vi è motivo di discostarsi (Cons. St., sez. V, 08.08.2014, n. 4242):
   a) ai sensi degli artt. 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., il danneggiato deve offrire la prova dell'an e del quantum del danno che assume di aver sofferto;
   b) in tema di risarcimento danni nei confronti della Pubblica amministrazione, il giudice amministrativo è chiamato a valutare (art. 30, comma 3, c.p.a.), senza necessità di eccezione di parte e acquisendo anche d'ufficio gli elementi di prova all'uopo necessari, se il presumibile esito del ricorso di annullamento dell'atto illegittimo e dell'utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe evitato in tutto o in parte il danno, secondo un giudizio di causalità ipotetica basato su una logica probabilistica che apprezzi il comportamento globale del ricorrente (Cons. St., Ad. Plen., 2011, n. 3);
   c) spetta all'impresa danneggiata offrire la prova della percentuale di utile che avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto, poiché nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, cod. proc. amm.). Quest'ultimo, infatti, intanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l'asimmetria informativa tra amministrazione e privato, la quale contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del principio dispositivo sancito in generale dall'art. 2697, comma primo, cod. civ.;
   d) il ricorso alla valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., è ammesso soltanto in presenza di situazione di impossibilità -o di estrema difficoltà- di una precisa prova sull'ammontare del danno;
   e) le parti non possono sottrarsi all'onere probatorio e rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente neppure nel caso di consulenza tecnica d'ufficio cosiddetta "percipiente", che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, demandandosi al consulente l'accertamento di determinate situazioni di fatto, giacché, anche in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse deducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti;
   f) la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni. Al riguardo, va precisato che, per la configurazione di una ‘presunzione’, non occorre che l'esistenza del fatto ignoto rappresenti l'unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla scorta della regola della inferenza necessaria), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull'id quod plerumque accidit (in virtù della regola dell'inferenza probabilistica), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici. In ragione di ciò va esclusa la pretesa di ottenere l'equivalente del 10% dell'importo a base d'asta, sia perché detto criterio non può essere oggetto di applicazione automatica ed indifferenziata, sia perché non può formularsi un giudizio di probabilità fondato sull’id quod plerumque accidit secondo il quale allegato l'importo a base d'asta può presumersi che il danno da lucro cessante del danneggiato sia commisurabile al 10% del detto importo;
   g) il mancato utile spetta nella misura integrale solo se la concorrente dimostra di non aver potuto altrimenti utilizzare mezzi e maestranze, in quanto tenuti a disposizione in vista dell'aggiudicazione, sicché, in assenza di tale dimostrazione, è da ritenere che l'impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi, con la conseguente decurtazione del risarcimento di una misura a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum;
   h) anche per il cd. danno curricolare il presunto danneggiato deve offrire la prova puntuale del danno che asserisce di aver subito.
6.1.2. Applicando tali principi alla fattispecie in esame, deve convenirsi con l’amministrazione appellante sull’erroneità della decisione impugnata, che, acriticamente aderendo alla richiesta della originaria ricorrente ed invocando un ‘consolidato’ indirizzo giurisprudenziale che per contro non è tale, ha quantificato il risarcimento del danno da mancata aggiudicazione nella misura del 10% dell’importo totale dell’appalto a base d’asta, ritenendo a tal fine sufficiente la prova del congelamento dei mezzi aziendali nelle more del contenzioso e riconoscendo altresì a titolo di danno curriculare un ulteriore importo pari al 3% della somma a base d’asta.
In effetti non può ammettersi un tale riconoscimento forfettario del danno subito, ciò costituendo un’inammissibile elusione dell’onere della prova dell’effettività del danno subito, con violazione degli articoli 30, 40 e 124, comma 1, c.p.a., oltre che dell’art. 2697 c.c., tanto più che –in applicazione dei principi costituzionali del diritto di difesa e del contraddittorio- va comunque consentito all’amministrazione resistente di poter contestare l’effettiva sussistenza dei danni e la loro quantificazione.
D’altra parte, il criterio forfettario di quantificazione del danno, previsto per la diversa ipotesi di recesso ad nutum della stazione appaltante nella fase di esecuzione del contratto, proprio quale eccezione alla regola generale del principio secondo cui onus probandi incubit ei qui dicit, non è suscettibile di applicazione analogica alla fattispecie risarcitoria, introducendosi altrimenti una forma generalizzata di indennizzo predeterminato ed automatico, contrario alla stessa natura della tutela risarcitoria, oltre che agli ordinari principi probatori (Cons. St., sez. V, 06.04.2009, n. 2143; 20.04.2012, n. 2317).
Si può tuttavia ammettere, fermo restando il principio fondamentale dell’onere della prova, che l’ammontare del risarcimento possa essere determinato in via equitativa nella misura del 10% dell’importo dell’offerta, solo se ed in quanto l’impresa abbia documentato di non aver potuto utilizzare, in quanto apprestati ed approntati in previsione dell’appalto da aggiudicare, mezzi e maestranze per l’esecuzione di altri contratti, ed in caso diverso potendo operarsi una decurtazione del risarcimento di una misura a titolo di aliunde perceptum (Cons. St., sez. V, 07.09.2013, n. 4376)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.01.2015 n. 285 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTI: Nessuna somma può essere invece riconosciuta, in difetto di specifica prova, a titolo di danno curriculare.
Occorre al riguardo premettere, per la esatta individuazione di tale categoria di danno, che di norma l'interesse alla aggiudicazione di un appalto, nella vita di un operatore economico, non si esaurisce nella sola esecuzione dell'opera e nei relativi ricavi diretti, ad essa ricollegandosi anche una serie di effetti favorevoli indiretti, quali l’immagine della società, il suo radicamento nel mercato, l’ampliamento della sua capacità industriale o commerciale.
Proprio a tali effetti indiretti deve pertanto ragionevolmente ricollegarsi la fattispecie del danno curriculare, che non può pertanto coincidere con il danno derivato direttamente dall’illegittimità dell’aggiudicazione e conseguentemente dal mancato legittimo conseguimento dell’appalto, né può essere ricompreso nella mera perdita di chanches: sennonché di nessuno di tali effetti indiretti è stato oggetto della necessaria prova, né è stata altrimenti provata la perdita di specifiche concrete possibilità di incrementare il proprio avviamento per la parte relativa al curriculum professionale, da intendersi anche come immagine e prestigio professionale, al di là dell’incremento degli specifici requisiti di qualificazione e di partecipazione alle singole gare

Nessuna somma può essere invece riconosciuta, in difetto di specifica prova, a titolo di danno curriculare.
Occorre al riguardo premettere, per la esatta individuazione di tale categoria di danno, che di norma l'interesse alla aggiudicazione di un appalto, nella vita di un operatore economico, non si esaurisce nella sola esecuzione dell'opera e nei relativi ricavi diretti, ad essa ricollegandosi anche una serie di effetti favorevoli indiretti, quali l’immagine della società, il suo radicamento nel mercato, l’ampliamento della sua capacità industriale o commerciale (Cons. St., sez. IV, 27.10.2010, n. 8253).
Proprio a tali effetti indiretti deve pertanto ragionevolmente ricollegarsi la fattispecie del danno curriculare, che non può pertanto coincidere con il danno derivato direttamente dall’illegittimità dell’aggiudicazione e conseguentemente dal mancato legittimo conseguimento dell’appalto, né può essere ricompreso nella mera perdita di chanches: sennonché di nessuno di tali effetti indiretti è stato oggetto della necessaria prova, né è stata altrimenti provata la perdita di specifiche concrete possibilità di incrementare il proprio avviamento per la parte relativa al curriculum professionale, da intendersi anche come immagine e prestigio professionale, al di là dell’incremento degli specifici requisiti di qualificazione e di partecipazione alle singole gare (su tali affermazioni di principio, v. Cons. St. sez. VI, 11.01.2010, n. 20; sez. VI, 21.05.2009, n. 3144; sez. VI, 09.06.2008, n. 2751; sez. IV, 06.06.2008, n. 2680; sez. V, 23.07.2009, n. 4594; sez. V, 12.02.2008, n. 491; sez. IV, 29.07.2008, n. 3723; Cass., 04.06.2007, n. 12929)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.01.2015 n. 285 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl muro di contenimento di un terrapieno artificiale deve essere considerato ai fini del rispetto delle distanze previste dal c.c. come nuova costruzione.
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Invero, nella specie è accaduto che la modifica intervenuta tra il muretto originariamente previsto e quello poi realizzato ha mutato la natura giuridica del manufatto edilizio, facendolo passare da elemento esteriore di recinzione della proprietà (che non pone un problema di rispetto delle distanze dal confine) a “muro di contenimento” qualificabile come “costruzione” e che deve quindi rispettare la distanza dal confine di proprietà, secondo la disciplina di cui all’art. 104 del R.E.; quest’ultima norma prevede che la distanza minima degli edifici dai confini “dovrà essere pari alla metà della distanza prevista tra gli edifici dalle norme di zona e potrà essere variata solamente nel caso in cui tra i confinanti si stabilisca una convenzione, per atto pubblico, in base alla quale venga assicurato il rispetto della distanza prescritta tra gli edifici”, norma di zona che (per stessa ammissione di parte ricorrente) deve essere individuata nell’art. 28 delle NTA al RE, relativo alla zone di completamento B1, che richiama l’art. 9 del DM 1444 del 1968 (quindi distanza tra edifici di 10 metri e distanza dai confini pari a 5 metri), con il risultato che la suddetta distanza sicuramente non è rispettata nel caso di specie, essendo l’opera realizzata sul confine.

Con la censura in esame i ricorrenti contestano il punto centrale della motivazione dell’Amministrazione e cioè si dolgono della qualificazione del muro così come realizzato quale “fabbricato” e quindi come opera chiamata a rispettare le distanze dai confini di proprietà.
La censura è infondata.
La Sezione ha avuto modo di affermare recentemente (sentenza 12.06.2014, n. 1028), con statuizione che il Collegio ribadisce, che “il muro di contenimento di un terrapieno artificiale debba essere considerato ai fini del rispetto delle distanze previste dal c.c. come nuova costruzione (TAR Genova sez. I, 21/11/2013 n. 1406; Cassazione civile sez. II 13.05.2013 n. 11388)”; dunque nella specie è accaduto che la modifica intervenuta tra il muretto originariamente previsto e quello poi realizzato ha mutato la natura giuridica del manufatto edilizio, facendolo passare da elemento esteriore di recinzione della proprietà (che non pone un problema di rispetto delle distanze dal confine) a “muro di contenimento” qualificabile come “costruzione” e che deve quindi rispettare la distanza dal confine di proprietà, secondo la disciplina di cui all’art. 104 del R.E.; quest’ultima norma prevede che la distanza minima degli edifici dai confini “dovrà essere pari alla metà della distanza prevista tra gli edifici dalle norme di zona e potrà essere variata solamente nel caso in cui tra i confinanti si stabilisca una convenzione, per atto pubblico, in base alla quale venga assicurato il rispetto della distanza prescritta tra gli edifici”, norma di zona che (per stessa ammissione di parte ricorrente) deve essere individuata nell’art. 28 delle NTA al RE, relativo alla zone di completamento B1, che richiama l’art. 9 del DM 1444 del 1968 (quindi distanza tra edifici di 10 metri e distanza dai confini pari a 5 metri), con il risultato che la suddetta distanza sicuramente non è rispettata nel caso di specie, essendo l’opera realizzata sul confine
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.01.2015 n. 122 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti di demolizione non soggiacciono all’onere procedimentale fissato dall’art. 7 della legge n. 241/1990, trattandosi di provvedimenti a carattere strettamente vincolato sul cui contenuto non può in alcun modo incidere l’apporto partecipativo del destinatario dell’atto.
Con il quarto mezzo di cui ai motivi aggiunti i ricorrenti contestano la gravata ordinanza di demolizione in quanto non preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento.
La censura è infondata.
La Sezione ha in più occasioni affermato, con orientamento che si ribadisce, che i provvedimenti di demolizione non soggiacciono all’onere procedimentale fissato dall’art. 7 della legge n. 241/1990, trattandosi di provvedimenti a carattere strettamente vincolato sul cui contenuto non può in alcun modo incidere l’apporto partecipativo del destinatario dell’atto (cfr., ex multis, TAR Toscana, III, 16.10.2012, n. 1616; Cons. St., VI, 24.09.2010 n. 7129); d’altra parte nella specie è certo che i ricorrenti hanno avuto modo di esplicitare ampiamente le loro posizioni difensive nelle varie fasi della procedura, sia in sede amministrativa che giudiziaria, con riferimento ad una pluralità di atti, tra cui anche la prima ordinanza di demolizione gravata con il ricorso principale, poi divenuto improcedibile; è quindi da escludere che l’omissione di ulteriore comunicazione di avvio renda illegittimo l’atto gravato, anche alla luce dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990
(TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.01.2015 n. 122 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

APPALTITar Lazio. Documenti solo originali per la verifica sugli appalti.
Nella fase di verifica dei requisiti di capacità tecnica e professionale, i fornitori e i prestatori di servizi devono fornire alla stazione appaltante i documenti originali, non essendo più consentita l’autocertificazione ammessa ad inizio gara.

L’ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, nella sentenza 21.01.2015 n. 993.
I giudici hanno bocciato il ricorso di una società di servizi contro l’esclusione da un appalto di progettazione software di gestione flussi informativi sui mercati elettrico e gas: aveva fornito documentazione «non idonea» a dimostrare la capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa come da Codice appalti (articolo 48).
Per la ricorrente, i requisiti erano stati provati –con l’aver già realizzato un software simile-, rispettando una delle modalità fissate dalla norma europea (articolo 48, direttiva 2004/18). Cioè «un elenco delle principali forniture o dei principali servizi effettuati negli ultimi tre anni, con indicazione dei rispettivi importi, date e destinatari» e, in quanto privati come in questo caso, con «una attestazione dall’acquirente» o, in mancanza, una dichiarazione dell’impresa.
Per il collegio, invece, anche se «il Codice dei contratti recepisce, all’articolo 42, la regola comunitaria invocata», non consente di «riproporre dichiarazione sostitutiva analoga a quella già presentata in sede di prequalifica». Perché in quest’ultima fase ci sono ragioni di speditezza, mentre in quella di verifica del possesso dei requisiti è necessaria la documentazione probatoria vera e propria
(articolo Il Sole 24 Ore del 19.02.2015 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl ricorso per l'accesso non può essere utilizzato per costringere l'amministrazione a formare documenti amministrativi, potendosi il rimedio di cui all'art. 25 l. 241/1990 impiegare esclusivamente al fine di ottenere il rilascio di copie di documenti già formati ed in possesso della stessa: "Il diritto di accesso di cui agli artt. 23 e segg. L. 07.08.1990 n. 241 è limitato ai documenti già formati e in possesso del soggetto intimato, e non può avere ad oggetto la formazione di atti non ancora venuti ad esistenza", o l'imposizione alla p.a. di un'attività di elaborazione di dati e documenti.
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L’art. 22 della legge 07.08.1990 n. 241 individua i soggetti interessati all'accesso ai documenti amministrativi in tutti coloro che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale si chiede l'accesso.

... per l'annullamento del silenzio-rifiuto in virtù del quale Poste Italiane S.p.A. ha negato alla ricorrente il diritto di accesso agli atti richiesti con istanza del 25.06.2014;
...
Quanto al merito della controversia, il ricorso è infondato.
Con riferimento alla richiesta della pianta organica del Centro di Sarzana, il documento richiesto non è esistente e dovrebbe essere all’uopo formato dalla resistente.
Sul punto il collegio evidenzia che, come ormai pacifico in giurisprudenza, “il ricorso per l'accesso non può essere utilizzato per costringere l'amministrazione a formare documenti amministrativi, potendosi il rimedio di cui all'art. 25 l. 241/1990 impiegare esclusivamente al fine di ottenere il rilascio di copie di documenti già formati ed in possesso della stessa: "Il diritto di accesso di cui agli artt. 23 e segg. L. 07.08.1990 n. 241 è limitato ai documenti già formati e in possesso del soggetto intimato, e non può avere ad oggetto la formazione di atti non ancora venuti ad esistenza" (TAR Puglia, Bari, 31.05.2001 n. 2032), o l'imposizione alla p.a. di un'attività di elaborazione di dati e documenti (Cons. St., sez. VI, 10.04.2003, n. 1925, e 19.09.2000, n. 4882; sez. V, 01.06.1998, n. 718)” (TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 06.02.2004, n. 278)
Quanto alla richiesta riferita alla consistenza numerica dei “distacchi” operati dalla resistente, deve ritenersi che si tratti di dati in relazione ai quali la ricorrente non vanti alcun interesse qualificato.
L’art. 22 della legge 07.08.1990 n. 241, infatti, individua i soggetti interessati all'accesso ai documenti amministrativi in tutti coloro che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale si chiede l'accesso (Cons. Stato, Sez. IV, 09.05.2014, n. 2379) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 15.01.2015 n. 4 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Secondo l’art. 41 del Codice del processo amministrativo il termine di impugnazione decorre dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge.
Per i provvedimenti di organo monocratico comunale, quali i provvedimenti dirigenziali, non è prevista la pubblicazione per la loro efficacia, come si desume, a contrario, artt. 124-134 del t.u. n. 267/2000 dai quali si può dedurre che la pubblicazione è prevista solo per le delibere degli organi collegiali ai fini della loro efficacia.
Ne consegue che la pubblicazione all’albo dei provvedimenti dirigenziali, non essendo prevista dalla legge, non è idonea a determinare la presunzione di conoscenza legale degli atti medesimi.

L’eccezione di tardività è infondata.
Secondo l’art. 41 del Codice del processo amministrativo il termine di impugnazione decorre dalla notificazione, comunicazione o piena conoscenza, ovvero, per gli atti di cui non sia richiesta la notificazione individuale, dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione se questa sia prevista dalla legge o in base alla legge.
Per i provvedimenti di organo monocratico comunale, quali i provvedimenti dirigenziali, non è prevista la pubblicazione per la loro efficacia, come si desume, a contrario, artt. 124-134 del t.u. n. 267/2000 dai quali si può dedurre che la pubblicazione è prevista solo per le delibere degli organi collegiali ai fini della loro efficacia (Tar Toscana, sez. III, 08.02.2006 n. 341).
Ne consegue che la pubblicazione all’albo dei provvedimenti dirigenziali, non essendo prevista dalla legge, non è idonea a determinare la presunzione di conoscenza legale degli atti medesimi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 14.01.2015 n. 132 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha chiarito che gli artt. 185 e 186 del decreto correttivo del codice dell'ambiente, approvato con d.lgs. 16.01.2008, n. 4, esprimono il principio per cui se tali materiali non sono contaminati ed hanno una destinazione ben definita, possono essere sottratti alla disciplina generale sui rifiuti, e rientrano tra le materie prime secondarie.
Il suddetto principio è stato confermato in sede d’appello dal Consiglio di Stato secondo cui “l’art. 186, infatti, esclude dalla categorie dei rifiuti le terre e le rocce da scavo sempre che la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione superiore ai limiti previsti dalle legge vigenti e dal decreto Ministro dell’ambiente 25.10.1999, n. 471”.
Pertanto, le terre e rocce da scavo sono rifiuti solo se contaminate.

4. Venendo al primo motivo di ricorso, esso è infondato.
L’art. 3.9 del P.I.I. permette il deposito in discarica di rifiuti inerti provenienti da scavo e demolizioni, aventi finalità di bonifica o di ripristino ambientale nell'ambito di cava, purché non contenenti materiali pericolosi.
La giurisprudenza ha chiarito che gli artt. 185 e 186 del decreto correttivo del codice dell'ambiente, approvato con d.lgs. 16.01.2008, n. 4, esprimono il principio per cui se tali materiali non sono contaminati ed hanno una destinazione ben definita, possono essere sottratti alla disciplina generale sui rifiuti, e rientrano tra le materie prime secondarie (TAR Valle d’Aosta, 16/04/2008 n. 33).
La sentenza è stata confermata sul punto in sede d’appello dalla sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 10/05/2013 n. 2542, secondo la quale “l’art. 186 infatti esclude dalla categorie dei rifiuti le terre e le rocce da scavo sempre che la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione superiore ai limiti previsti dalle legge vigenti e dal decreto Ministro dell’ambiente 25.10.1999, n. 471”.
Chiarito quindi che le terre e rocce da scavo sono rifiuti solo se contaminate, è chiaro che la prosecuzione dell’attività della discarica, una volta interrotta l’attività estrattiva, è possibile solo con il conferimento di inerti contaminati, purché non pericolosi.
Ciò non comporta la violazione dell’art. 3.9 del P.I.I. del Parco in quanto la norma ammette il conferimento di inerti aventi finalità di bonifica o di ripristino ambientale nell'ambito di cava ed in quanto il requisito della pericolosità, richiesto dalla norma del piano, non coincide con quello della sua contaminazione. Infatti le rocce e terre da scavo pericolose sono quelle con Codice CER 170503, mentre le terre e rocce da scavo ammesse nella discarica in questione sono quelle diverse da quelle pericolose di cui al Codice CER 170503.
Il primo motivo di ricorso va quindi respinto.
5. Venendo all’esame del secondo motivo di ricorso esso è infondato.
L’ammissione in discarica di rifiuti provenienti da siti contaminati non costituisce una modifica sostanziale dell’autorizzazione ambientale precedente, in quanto anche prima della modifica normativa introdotta dal D.Lgs. 4/2008 l’art. 186 del Codice dell’Ambiente chiariva che “le terre e rocce da scavo………… non costituiscono rifiuti e sono, perciò, esclusi dall'ambito di applicazione della parte quarta del presente decreto solo nel caso in cui, anche quando contaminati,….. la composizione media dell'intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti e dal decreto di cui al comma 3”.
E’ chiaro quindi che anche prima dell’atto impugnato era possibile depositare nella discarica terre e rocce da scavo inquinate ma non pericolose, trattandosi addirittura di materie prime secondarie e non di rifiuti.
Il secondo motivo di ricorso e l’intero ricorso vanno quindi respinti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 14.01.2015 n. 132 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa “vicinitas” –ossia la sussistenza di uno stabile collegamento tra il suolo del ricorrente e quello interessato dai lavori– costituisce una condizione necessaria e sufficiente per la proposizione dell’impugnativa del permesso di costruire.
Da tale assunto necessariamente consegue che, ai fini dell’ammissibilità del gravame, è da escludere che gravi sul ricorrente l’onere di dimostrare –contrariamente a quanto asserito dalle controparti– di aver subito un effettivo e concreto pregiudizio.

Tali eccezioni sono infondate, atteso che:
- come riconosciuto dalla stessa Amministrazione resistente, il ricorrente è proprietario di un immobile confinante con quello oggetto del permesso di costruire. Orbene, il Collegio ritiene che tale circostanza valga a supportare la legittimazione all’impugnazione.
Come più volte affermato dalla giurisprudenza in materia, la “vicinitas” –ossia la sussistenza di uno stabile collegamento tra il suolo del ricorrente e quello interessato dai lavori– costituisce, infatti, una condizione necessaria e sufficiente per la proposizione dell’impugnativa. Da tale assunto necessariamente consegue che, ai fini dell’ammissibilità del gravame, è da escludere che gravi sul ricorrente l’onere di dimostrare –contrariamente a quanto asserito dalle controparti– di aver subito un effettivo e concreto pregiudizio (cfr., tra le altre, C.d.S., Sez. IV, 06.08.2013, n. 4148; C.d.S., Sez. IV, 01.07.2013, n. 3543; TAR Lazio, Latina, Sez. I, 28.10.2014, n. 896; TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 28.01.2014, n. 163)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 09.01.2015 n. 228 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: In linea con i principi generali che governano la trasformazione del territorio, l’utilizzazione a fini edificatori delle zone C impone la previa adozione di uno strumento attuativo, idoneo a definire la corretta ed ordinata realizzazione degli interventi edilizi anche sotto il profilo delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
E’, in ogni caso, anche noto che –come più volte ribadito anche dalla giurisprudenza– la previa adozione di uno strumento urbanistico attuativo o c.d. “di dettaglio” diviene ininfluente e, comunque, perde rilevanza nelle ipotesi in cui si tratti di aree ormai completamente edificate o, meglio, urbanizzate, ossia già dotate di adeguati servizi pubblici.

Il ricorrente sostiene, ancora, che la normativa di P.R.G. imponeva, in ogni caso, la “previa adozione di uno strumento urbanistico preventivo" e afferma, pertanto, che l’Amministrazione “mai avrebbe potuto intervenire come ha fatto, con intervento edilizio diretto”, anche per l’inapplicabilità dell’art. 29 delle N.T.A. (il quale si riferisce ad area di “modesta dimensione”).
Anche tale censura è priva di giuridico fondamento.
In proposito, appare opportuno ricordare che il su richiamato art. 29 –nel disciplinare la “zona residenziale C”– dispone, tra l’altro, che: “Comprende le zone di espansione degli aggregati urbani e frazionali.
All’interno di tali zone il Comune, con il programma di attuazione di cui al precedente art. 6 , può individuare le aree inedificate di modeste dimensioni immediatamente limitrofe ai centri abitati dotate di accessibilità diretta alla rete infrastrutturale urbana esistente, in cui l’attuazione del P.R.G. è consentita per intervento edilizio diretto.
Per tutte le altre aree comprese nelle zone omogenee C, la utilizzazione a scopo edificatorio può avvenire solo mediante intervento urbanistico preventivo
”.
Ciò detto, risulta evidente che –in linea con i principi generali che governano la trasformazione del territorio– l’utilizzazione a fini edificatori delle zone C impone la previa adozione di uno strumento attuativo, idoneo a definire la corretta ed ordinata realizzazione degli interventi edilizi anche sotto il profilo delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
E’, in ogni caso, anche noto che –come più volte ribadito anche dalla giurisprudenza– la previa adozione di uno strumento urbanistico attuativo o c.d. “di dettaglio” diviene ininfluente e, comunque, perde rilevanza nelle ipotesi in cui si tratti di aree ormai completamente edificate o, meglio, urbanizzate, ossia già dotate di adeguati servizi pubblici (cfr., tra le altre, C.d.S., Sez. V, 22.06.2004, n. 4350; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 26.01.2011, n. 228; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 04.01.2011, n. 4; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 11.06.2009, n. 3218).
Orbene, tale condizione è da ritenere –nel caso di specie– sussistente
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 09.01.2015 n. 228 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI lavori di rinterro non assumono rilevanza edilizia in relazione alla destinazione d’uso finale dell’area livellata.
A tal fine occorre, invece, valutare l'entità dell'intervento che si intende eseguire, stante la possibilità di intendere con l’espressione “livellamento” sia spostamenti insignificanti sotto il profilo dell'assetto dell'insediamento abitativo per i quali non vi è necessita alcuna concessione edilizia, sia rilevanti trasformazioni del territorio.
Nel caso di specie è indiscutibile la rilevanza urbanistica assunta dall’intervento sanzionato in quanto, come può evincersi dalle fotografie allegate al verbale della P.M., i lavori di rinterro hanno interessato una vasta porzione di suolo aperto.

... per l'annullamento previa sospensione, dell'ordinanza n. 35, emessa dal Dirigente dell'Ufficio Assetto del Territorio del Comune di Pietrasanta in data 31/05/1999, notificata in data 16/06/1999, con la quale il Dirigente suddetto ha ingiunto alla Società ricorrente la demolizione, nel termine di gg. 90 dalla notifica dell'ordinanza stessa, delle opere eseguite in Pietrasanta, Via ..., sul terreno di cui al fg. di mappa 13 del mappale 1100, così descritte: riempimento di terreno rappresentato in Catasto nel foglio di mappa 13 del mappale 1100 di mq. 540 mediante posa in opera di materiale terroso misto e pietre al fine di adeguarne la quota a quella del terreno attiguo dove la Soc. Tarabella Marmi S.r.l. svolge la propria attività di lavorazione del marmo (con avviso che in caso di inottemperanza saranno acquisite di diritto gratuitamente al patrimonio del Comune con le modalità di cui ai commi 3, 4 e 5 dell'art. 7 della richiamata Legge 28/02/1985 n. 7);
...
La Società ricorrente impugna il provvedimento in epigrafe affermando, nel primo motivo di ricorso, che i lavori da essa eseguiti senza titolo consisterebbero nel livellamento di due porzioni di terreno di sua proprietà precedentemente collocate su quote diverse per renderne più agevole l’uso come deposito a cielo aperto. Il tutto senza realizzare alcuna opera edilizia.
Tale intervento, ai sensi dell’art. 7 del D.L. n. 9/1982, avrebbe dovuto essere assentito mediante autorizzazione e sarebbe, quindi, sanzionabile solo con misure di carattere pecuniario.
Il motivo è infondato.
Diversamente da quanto afferma la ricorrente i lavori di rinterro non assumono rilevanza edilizia in relazione alla destinazione d’uso finale dell’area livellata. A tal fine occorre, invece, valutare l'entità dell'intervento che si intende eseguire, stante la possibilità di intendere con l’espressione “livellamento” sia spostamenti insignificanti sotto il profilo dell'assetto dell'insediamento abitativo per i quali non vi è necessita alcuna concessione edilizia, sia rilevanti trasformazioni del territorio (Cons. Stato, V, 21/12/1989 n. 877, Cons. Stato, IV, 23/07/2012 n. 4204).
Nel caso di specie è indiscutibile la rilevanza urbanistica assunta dall’intervento sanzionato in quanto, come può evincersi dalle fotografie allegate al verbale della P.M., i lavori di rinterro hanno interessato una vasta porzione di suolo aperto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 07.01.2015 n. 10 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPIANI REGOLATORI/ Il Consiglio di stato. Il preliminare non è variante sostanziale.
L'approvazione, da parte del consiglio comunale, dei progetti preliminari di opere pubbliche comunali, intercomunali e delle Comunità montane, riguardanti aree che il Prg non destina in tutto o in parte a servizi pubblici, costituisce adozione di variante non sostanziale al piano regolatore generale stesso.

Questo ha affermato la IV Sez. del Consiglio di Stato con sentenza 29.12.2014 n. 6386.
I supremi giudici amministrativi hanno, poi, osservato che la scelta di intraprendere l'edificazione e allocazione di un'opera di pubblico interesse rientra nella più lata discrezionalità dell'amministrazione, ed è sindacabile soltanto per manifesta abnormità. Pertanto le scelte effettuate dall'Amministrazione per la destinazione delle singole aree, al momento dell'adozione del piano regolatore generale o di variante al medesimo, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato giurisdizionale, salvo che non siano affette da errori di fatto o da abnormi illogicità.
Dottrina e giurisprudenza a tale proposito parlano, infatti, di sindacato c.d. «debole» in quanto trova la sua giustificazione quale frutto di una tipica discrezionalità amministrativa, coinvolgente la comparazione e ponderazione dell'interesse pubblico fondamentale con gli altri interessi, pubblici o privati, in gioco e infatti se il giudice ritiene le valutazioni dell'Amministrazione corrette, ragionevoli, proporzionate e attendibili, non deve spingersi oltre fino ad esprimere proprie autonome scelte, perché, altrimenti, assumerebbe egli la titolarità del potere.
Il Consiglio di stato ha, poi, evidenziato come quanto osservato dai privati al piano regolatore generale adottato dal Comune costituisce un mero apporto collaborativo alla formazione dello strumento urbanistico e non da luogo a peculiari aspettative, per cui la reiezione, ovvero anche un accoglimento parziale, non richiede una specifica motivazione (articolo ItaliaOggi Sette del 09.02.2015).

URBANISTICALa scelta di intraprendere la edificazione ed allocazione di un’opera di pubblico interesse rientra nella più lata discrezionalità dell’amministrazione, ed è sindacabile soltanto per manifesta abnormità.
Detto sindacato “debole” si giustifica in quanto la scelta se dotarsi o meno dell’opera e la collocazione dell'opera pubblica medesima è il frutto di una tipica discrezionalità amministrativa, coinvolgente la comparazione e ponderazione dell'interesse pubblico fondamentale con gli altri interessi, pubblici o privati, in gioco.
Di qui la forma di sindacato consentita al giudice, definita "sindacato debole", nel senso che questo, dopo aver accertato in modo pieno i fatti e aver verificato il processo logico-valutativo svolto dalla P.A. in base a regole tecniche o del buon agire amministrativo, anch'esse sindacate, se ritiene le valutazioni dell'Amministrazione corrette, ragionevoli, proporzionate e attendibili, non deve spingersi oltre fino ad esprimere proprie autonome scelte, perché, altrimenti, assumerebbe egli la titolarità del potere.
Il giudice non può, cioè, sostituirsi ad un potere già esercitato, ma deve solo stabilire se la valutazione complessiva operata nell'esercizio del potere debba essere ritenuta corretta sia sotto il profilo delle regole tecniche applicate, sia nella fase di contestualizzazione della norma posta a tutela della conformità, che nella fase di raffronto tra i fatti accertati ed il parametro contestualizzato.
Può quindi affermarsi che le scelte effettuate dall'Amministrazione per la destinazione delle singole aree, al momento dell'adozione del piano regolatore generale o di variante al medesimo, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato giurisdizionale, salvo che non siano affette da errori di fatto o da abnormi illogicità; sicché, sia nella formazione di uno strumento urbanistico generale, che nell’adozione delle varianti le scelte discrezionali dell'amministrazione riguardo alla destinazione delle singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quelle che si possono evincere dai criteri generali e discrezionali seguiti nell'impostazione del piano.

E’ noto –e costituisce presupposto condiviso dal Collegio- che la scelta di intraprendere la edificazione ed allocazione di un’opera di pubblico interesse rientra nella più lata discrezionalità dell’amministrazione, ed è sindacabile soltanto per manifesta abnormità.
Detto sindacato “debole” si giustifica (ex aliis TAR Veneto Venezia Sez. II, 01.06.2011, n. 935) in quanto la scelta se dotarsi o meno dell’opera e la collocazione dell'opera pubblica medesima è il frutto di una tipica discrezionalità amministrativa, coinvolgente la comparazione e ponderazione dell'interesse pubblico fondamentale con gli altri interessi, pubblici o privati, in gioco. Di qui la forma di sindacato consentita al giudice, definita "sindacato debole", nel senso che questo, dopo aver accertato in modo pieno i fatti e aver verificato il processo logico-valutativo svolto dalla P.A. in base a regole tecniche o del buon agire amministrativo, anch'esse sindacate, se ritiene le valutazioni dell'Amministrazione corrette, ragionevoli, proporzionate e attendibili, non deve spingersi oltre fino ad esprimere proprie autonome scelte, perché, altrimenti, assumerebbe egli la titolarità del potere. Il giudice non può, cioè, sostituirsi ad un potere già esercitato, ma deve solo stabilire se la valutazione complessiva operata nell'esercizio del potere debba essere ritenuta corretta sia sotto il profilo delle regole tecniche applicate, sia nella fase di contestualizzazione della norma posta a tutela della conformità, che nella fase di raffronto tra i fatti accertati ed il parametro contestualizzato.
Può quindi affermarsi che le scelte effettuate dall'Amministrazione per la destinazione delle singole aree, al momento dell'adozione del piano regolatore generale o di variante al medesimo, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato giurisdizionale, salvo che non siano affette da errori di fatto o da abnormi illogicità; sicché, sia nella formazione di uno strumento urbanistico generale, che nell’adozione delle varianti le scelte discrezionali dell'amministrazione riguardo alla destinazione delle singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quelle che si possono evincere dai criteri generali e discrezionali seguiti nell'impostazione del piano (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 12.03.2009, n. 1431)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.12.2014 n. 6386 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: L’opera è “pubblica” se ed in quanto l’Ente procedente la ritenga destinata (nei limiti di un giudizio non abnorme o manifestamente assurdo) a fini pubblicistici.
Non cessa di esserlo perché non ammessa a finanziamento, il che come si è detto costituisce fisiologica eventualità.
La giurisprudenza amministrativa e quella civilistica, concordemente, considerano detta evenienza una mera eventualità, che non incide sulla natura intrinseca dell’opera:
- ”non è vietato ad un ente locale il ricorso per la realizzazione di opere e lavori pubblici alla contrazione di mutui o di altre forme di finanziamento, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, così che è legittima la deliberazione, con la quale venga approvato il progetto esecutivo di un' opera pubblica che comporti la necessità della copertura finanziaria, purché sia effettivamente indicata l'esistenza della copertura con la relativa attestazione da parte del responsabile del servizio finanziario”;
- “in tema di compenso del professionista per l'elaborazione di un progetto di opera pubblica, la cui corresponsione sia subordinata al finanziamento dell' opera da parte della Regione e alla presentazione della richiesta di finanziamento e gestione della relativa pratica da parte del Comune beneficiario dell' opera stessa, l'affidamento della stessa, nelle more dell'elaborazione del progetto da parte del professionista, ad altro soggetto privato, costituisce comportamento contrario a buona fede, in violazione dell'art. 1358 cod. civ., che determina l'avveramento fittizio della condizione, ai sensi dell'art. 1359 cod. civ., in quanto cagionato dal comportamento della parte portatrice di un interesse contrario all'avveramento)".
Tanto che, come si è rilevato immediatamente prima, è sovente che gli Enti locali configurino la concessione del finanziamento qual condizione sospensiva (o risolutiva) di contratti privatistici stipulati che certamente non incide sulla “natura” dell’opera che ci si prefigge di realizzare.
E’ insegnamento consolidato della antevigente giurisprudenza –di inalterata validità- quello per cui “il difetto di inserimento dell'opera nel programma triennale non rende illegittima la sua realizzazione nel caso in cui sia finanziata attraverso fondi differenti rispetto a quelli contemplati in ambito di redazione del programma stesso, in quanto in base all'art. 14 n. 9, L. n. 109 dell'11.02.1994, sost. dall'art. 4, L. n. 413 del 1998, 'le opere pubbliche, non inserite nel programma triennale , possono essere realizzate sulla base di un autonomo piano di finanziamento che non utilizzi risorse già previste tra i mezzi finanziari dell'amministrazione al momento della formazione dell'elenco”.
La mancata concessione del finanziamento, non inficia quindi la natura pubblicistica dell’opera.

L’opera è “pubblica” se ed in quanto l’Ente procedente la ritenga destinata (nei limiti di un giudizio non abnorme o manifestamente assurdo) a fini pubblicistici.
Non cessa di esserlo perché non ammessa a finanziamento, il che come si è detto costituisce fisiologica eventualità.
La giurisprudenza amministrativa e quella civilistica, concordemente, considerano detta evenienza una mera eventualità, che non incide sulla natura intrinseca dell’opera (ex aliis: Cons. Stato Sez. V, 26.09.2013, n. 4766 ”non è vietato ad un ente locale il ricorso per la realizzazione di opere e lavori pubblici alla contrazione di mutui o di altre forme di finanziamento, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, così che è legittima la deliberazione, con la quale venga approvato il progetto esecutivo di un' opera pubblica che comporti la necessità della copertura finanziaria, purché sia effettivamente indicata l'esistenza della copertura con la relativa attestazione da parte del responsabile del servizio finanziario”; Cass. civ. Sez. I, 02.01.2014, n. 12 “in tema di compenso del professionista per l'elaborazione di un progetto di opera pubblica, la cui corresponsione sia subordinata al finanziamento dell' opera da parte della Regione e alla presentazione della richiesta di finanziamento e gestione della relativa pratica da parte del Comune beneficiario dell' opera stessa, l'affidamento della stessa, nelle more dell'elaborazione del progetto da parte del professionista, ad altro soggetto privato, costituisce comportamento contrario a buona fede, in violazione dell'art. 1358 cod. civ., che determina l'avveramento fittizio della condizione, ai sensi dell'art. 1359 cod. civ., in quanto cagionato dal comportamento della parte portatrice di un interesse contrario all'avveramento)".
Tanto che, come si è rilevato immediatamente prima, è sovente che gli Enti locali configurino la concessione del finanziamento qual condizione sospensiva (o risolutiva) di contratti privatistici stipulati che certamente non incide sulla “natura” dell’opera che ci si prefigge di realizzare.
E’ insegnamento consolidato della antevigente giurisprudenza –di inalterata validità- quello per cui “il difetto di inserimento dell'opera nel programma triennale non rende illegittima la sua realizzazione nel caso in cui sia finanziata attraverso fondi differenti rispetto a quelli contemplati in ambito di redazione del programma stesso, in quanto in base all'art. 14 n. 9, L. n. 109 dell'11.02.1994, sost. dall'art. 4, L. n. 413 del 1998, 'le opere pubbliche, non inserite nel programma triennale , possono essere realizzate sulla base di un autonomo piano di finanziamento che non utilizzi risorse già previste tra i mezzi finanziari dell'amministrazione al momento della formazione dell'elenco” (TAR Toscana Firenze Sez. III, 16.04.2004, n. 1162 ).
La mancata concessione del finanziamento, non inficia quindi la natura pubblicistica dell’opera
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.12.2014 n. 6386 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

URBANISTICA: Le osservazioni dei privati al piano regolatore generale adottato dal Comune costituiscono meri apporti collaborativi alla formazione dello strumento urbanistico e non danno luogo a peculiari aspettative, per cui la loro reiezione, ovvero un loro accoglimento parziale, non richiede una specifica motivazione, e ciò quand'anche esse siano state accettate con deliberazione del Consiglio comunale.
Va in primis rammentato che secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, condiviso dal Collegio, le osservazioni dei privati al piano regolatore generale adottato dal Comune costituiscono meri apporti collaborativi alla formazione dello strumento urbanistico e non danno luogo a peculiari aspettative, per cui la loro reiezione, ovvero un loro accoglimento parziale, non richiede una specifica motivazione, e ciò quand'anche esse siano state accettate con deliberazione del Consiglio comunale (cfr. TAR Piemonte, sez. I, 25.09.2008, n. 2080; Consiglio Stato, sez. IV, 11.10.2007, n. 5357): tale principio trova applicazione a maggior ragione nel caso di specie, laddove già il Consiglio comunale aveva respinto le osservazioni dei ricorrenti ritenendole non accoglibili nel merito
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.12.2014 n. 6386 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAntenne autorizzate. Annullamento ko. Il Tar Abruzzo accoglie il ricorso di una società.
La mancata realizzazione della fase partecipativa va rapportata al costante orientamento interpretativo per cui l'espressa assimilazione normativa fra le stazioni radio base e le opere di urbanizzazione primaria (comma 3 dell'art. 86, dlgs 259/2003) rende l'installazione di tali manufatti compatibile con qualunque destinazione di zona e, pertanto, l'interesse pubblico all'annullamento del provvedimento autorizzativo non è quindi rinvenibile in re ipsa, ma deve essere adeguatamente evidenziato dall'amministrazione.

Con questa motivazione il TAR Abruzzo-Pescara (sentenza 18.12.2014 n. 528) ha accolto il ricorso di una società che aveva richiesto l'autorizzazione alla realizzazione di una stazione radio base (Srb) per telefonia mobile, da collocare nella zona centrale di una città.
Il comune a seguito del rilascio dell'autorizzazione, con successivi separati provvedimenti disponeva dapprima la sospensione dei lavori e contestualmente avviava il procedimento di revoca dell'atto di assenso culminato, poi, nell'annullamento del provvedimento stesso.
La società ricorrente contestava, tra l'altro, la legittimità dell'atto di annullamento ritenendolo carente della necessaria valutazione in ordine all'interesse pubblico perseguito dal Comune.
L'avvenuta realizzazione della struttura sulla base di un titolo valido impone l'evocazione di ragioni sostanziali e di preminente interesse pubblico idonei a rimetterne in discussione la localizzazione. La sottoposizione del programma annuale alle osservazioni di chiunque abbia interesse evidenzia che le fasi procedimentali connesse alla presentazione del programma non possono essere recuperate nella successiva e consequenziale sede autorizzatoria, non essendo in questa previsti adempimenti a fini partecipativi.
È necessario, quindi che in sede di annullamento venga resa sia un'adeguata rappresentazione dell'interesse pubblico che si intende salvaguardare, sia della considerazione dell'interesse contrapposto sorto in conseguenza della produzione pressoché integrale degli effetti tipici dell'atto, ossia dell'avvenuta realizzazione dell'opera assentita (articolo ItaliaOggi Sette del 09.02.2015).

EDILIZIA PRIVATAE’ da ritenere che le questioni inerenti i pretesi limiti del potere dispositivo del concessionario non possano essere risolte nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione.
Precisato che la posizione legittimante si configura anche in presenza di diritti personali di godimento purché attribuiscano al titolare la facoltà di attuare interventi sull’immobile, va osservato che l’amministrazione è per certo chiamata a svolgere un’attività istruttoria per accertare la sussistenza di idoneo titolo legittimante in capo a colui che chiede il rilascio del titolo edilizio, ma non è invece tenuta a svolgere “alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità dell’immobile allegato da colui che presenta l’istanza”.
Sulle questioni attinenti a profili meramente civilistici, infatti, “l'amministrazione non può e non deve fondare alcuna preclusione al rilascio del titolo edilizio ... anche in ragione della clausola di salvaguardia generale che fa salvi i diritti dei terzi. Pertanto, in sede di rilascio di concessione od autorizzazione edilizia, l'amministrazione deve limitarsi a verificare che il richiedente sia proprietario od abbia comunque la disponibilità dell'area interessata, non essendo necessario compiere ulteriori ed autonome indagini circa l'esistenza e/o la natura (reale o personale) di diritti vantati da terzi, che la legge fa comunque salvi”.
Perciò “non incombe in capo alla PA l’ulteriore onere di effettuare complesse indagini e ricognizioni giuridico documentali sul titolo di proprietà depositato dal richiedente. Il Comune deve limitarsi ad accertare l’astratta titolarità della proprietà in capo a costui, senza doverla accertare in concreto. La giurisprudenza maggioritaria è infatti concorde nell’affermare che “ai fini del rilascio del permesso di costruire l’amministrazione è onerata del solo accertamento della sussistenza del titolo astrattamente idoneo da parte del richiedente alla disponibilità dell’area oggetto dell’intervento edilizio”.

Il primo rilievo di legittimità dell’autorizzazione è dato dal fatto che “a) l’intervento ricade su un immobile di proprietà comunale destinato a parcheggio multipiano la cui gestione è affidata a ditta del settore; i lavori di realizzazione della SRB sull’immobile comunale non sono mai stati autorizzati dal settore Patrimonio né dalla Giunta Comunale”.
La ricorrente deduce che la legittimazione a conseguire l’autorizzazione le deriva da regolare contratto di locazione stipulato con la società concessionaria che gestisce il parcheggio pluripiano su cui è collocato l’impianto. Sia il Comune che gli intervenienti sostengono in senso contrario che l’atto concessorio non attribuiva alla concessionaria il potere di disporre dell’immobile.
La censura è fondata.
E’ infatti da ritenere che le questioni inerenti i pretesi limiti del potere dispositivo del concessionario non possano essere risolte nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione.
Precisato che la posizione legittimante si configura anche in presenza di diritti personali di godimento purché attribuiscano al titolare la facoltà di attuare interventi sull’immobile, va osservato che l’amministrazione è per certo chiamata a svolgere un’attività istruttoria per accertare la sussistenza di idoneo titolo legittimante in capo a colui che chiede il rilascio del titolo edilizio, ma non è invece tenuta a svolgere “alcuna ulteriore e minuziosa indagine che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità dell’immobile allegato da colui che presenta l’istanza” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 21.08.2013 n. 4234; Sez. V, 04.02.2004 n. 368).
Sulle questioni attinenti a profili meramente civilistici, infatti, “l'amministrazione non può e non deve fondare alcuna preclusione al rilascio del titolo edilizio ... anche in ragione della clausola di salvaguardia generale che fa salvi i diritti dei terzi. Pertanto, in sede di rilascio di concessione od autorizzazione edilizia, l'amministrazione deve limitarsi a verificare che il richiedente sia proprietario od abbia comunque la disponibilità dell'area interessata, non essendo necessario compiere ulteriori ed autonome indagini circa l'esistenza e/o la natura (reale o personale) di diritti vantati da terzi, che la legge fa comunque salvi” (TAR Piemonte, Sez. I, 22.05.2013 n. 617).
Perciò “non incombe in capo alla PA l’ulteriore onere di effettuare complesse indagini e ricognizioni giuridico documentali sul titolo di proprietà depositato dal richiedente. Il Comune deve limitarsi ad accertare l’astratta titolarità della proprietà in capo a costui, senza doverla accertare in concreto. La giurisprudenza maggioritaria è infatti concorde nell’affermare che “ai fini del rilascio del permesso di costruire l’amministrazione è onerata del solo accertamento della sussistenza del titolo astrattamente idoneo da parte del richiedente alla disponibilità dell’area oggetto dell’intervento edilizio” (TAR Campania-Salerno, Sez. II, 02.05.2013 n. 1043).
Essendo pertanto salvo il diritto del Comune di tutelare la propria posizione sostanziale di proprietario dell’immobile, ai fini del rilascio del titolo edilizio lo Sportello Unico doveva limitarsi, come correttamente ha originariamente fatto, a constatare l’esistenza di un titolo legittimante astrattamente idoneo a consentire l’edificazione (qual era il contratto di locazione), non spettandogli l’ulteriore compito di verificare d’ufficio (la questione non era infatti in alcun modo emersa nel corso del procedimento di primo grado) se il concessionario comunale avesse a sua volta titolo a locare parti dell’immobile a terzi.
E’ perciò da escludersi che l’autorizzazione fosse viziata per tale ragione (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 18.12.2014 n. 528 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - VARIVendita di edifici abusivi: il salvataggio si complica. Ora non basta la semplice autodichiarazione del venditore. Sanzioni. Nuovo rigido orientamento della Cassazione: nullità dei contratti assoluta.
La Cassazione mette un freno alla compravendita di immobili abusivi. Con un recente cambio di orientamento i giudici hanno sancito la nullità senza eccezioni degli atti di trasferimento dei beni, bloccando la possibilità di evitare la nullità con dichiarazioni anche non veritiere.
Per contrastare l’abusivismo, gli articoli 40 e 17 della legge 47/1985 (il secondo dei due poi trasfuso nell’articolo 46 del testo unico n. 380/2001), sanciscono la nullità degli atti giuridici aventi ad oggetto diritti reali relativi ad edifici, o loro parti, nel caso in cui la parte alienante non indichi gli estremi del titolo abilitativo o della concessione in sanatoria, oppure non alleghi copia della domanda di condono.
Entrambe le norme, però, offrono una scialuppa di salvataggio: se la mancata indicazione o allegazione negli atti al momento della stipula non è dipesa dalla insussistenza del titolo abilitativo, i documenti mancanti possono essere confermati anche da una sola delle parti con un atto successivo, che contenga la menzione omessa o il documento mancante, «purché sia redatto nella stessa forma del precedente». Quindi, nel caso di compravendita, con un ulteriore atto pubblico.
L’indirizzo prevalente della Suprema corte (da ultimo, sezione II, n. 16876/2013) ha privilegiato finora una nullità di tipo formale, tanto che era sufficiente che l’atto pubblico contenesse la dichiarazione dell’alienante, anche a prescindere dalla veridicità del contenuto per evitare la nullità, «in quanto per la validità del contratto è necessaria unicamente l’esistenza dell’autodichiarazione urbanistica dell’alienante e non la veridicità della stessa». Questo orientamento poggia su aspetti giuridico-formali quali il carattere tassativo delle ipotesi di nullità e la preclusione di applicarle in via analogica a fattispecie non espressamente contemplate da una norma. Negli stessi termini si è posta anche la giurisprudenza amministrativa (da ultimo Consiglio di Stato, sezione IV, sentenza n. 46/2014).
La differenza tra nullità formale e sostanziale non è solo teorica: nel primo caso, qualora la dichiarazione del venditore pur presente nel rogito sia falsa, l’acquirente potrebbe proporre solo una domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento (Cassazione, II sezione n. 20714/2012), soggetta a prescrizione ordinaria decennale, ma non un’azione per farne dichiarare la nullità, che è imprescrittibile, le cui conseguenze travolgerebbero anche i successivi contratti (salvi gli effetti di un’usucapione eventualmente intervenuta).
La Cassazione ha anche ripetutamente affermato che la sanzione della nullità per compravendite di immobili abusivi non riguarda il preliminare di vendita che ha natura obbligatoria, per cui non vi è nullità del successivo contratto definitivo di vendita (sezione III, n. 28456/2013). In più, anche se il preliminare ha ad oggetto un immobile privo della concessione edificatoria, spetta egualmente al mediatore il diritto alla provvigione.
Più di recente si è però verificato un cambio di rotta da parte della Cassazione (ora in attesa di ulteriori conferme), che con la
sentenza 05.12.2014 n. 25811 ha ribadito il nuovo orientamento inaugurato con le pronunce n. 28194/2013 e n. 23591/2013.
In particolare in quest’ultima pronuncia, i giudici rilevano come lo scopo perseguito dal legislatore è quello di rendere incommerciabili gli immobili non in regola dal punto di vista urbanistico, per cui sarebbe del tutto in contrasto con questa finalità la previsione della nullità per motivi meramente formali degli atti di trasferimento di immobili regolari dal punto di vista urbanistico o per i quali è in corso la pratica per la loro regolarizzazione, consentendo invece il valido trasferimento di immobili non regolari, lasciando alle parti l’eventuale iniziativa sul piano dell’inadempimento contrattuale.
Infatti si potrebbe prospettare la possibilità per le parti di eludere la finalità della norma, stipulando il contratto formalmente valido e poi concludendo una transazione con la quale il compratore rinunzi al diritto a far valere l’inadempimento della controparte. La Corte quindi, nonostante l’imperfetta formulazione della norma, si è schierata a favore di una nullità sostanziale degli atti di trasferimento di immobili se effettivamente non in regola con la normativa urbanistica.
Ulteriore conseguenza è la nullità anche del contratto preliminare per la vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico, poiché, pur non avendo effetti traslativi ha comunque ad oggetto un bene abusivo, quindi quindi nullo per contrarietà a legge.
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Il silenzio-assenso non si forma più in modo automatico. La strategia. Richiesta da confermare al Comune.
Il mutato orientamento della Cassazione sulla natura sostanziale della nullità degli atti riguardanti costruzioni abusive potrebbe aprire scenari problematici sulla validità nel tempo dei trasferimenti immobiliari.
L’articolo 40 della legge 47/1985 stabilisce infatti che, in alternativa all’indicazione del titolo abilitativo, anche rilasciato in sanatoria, sia possibile effettuare un atto pubblico allegando copia della sola domanda di condono, con gli estremi della sua presentazione e del pagamento dell’oblazione. Ma questo dimostra solo la validità formale dell’atto; si può scoprire in seguito, anche a distanza di anni, che sull’istanza non si è mai formato il silenzio-assenso per cui l’abuso non è stato sanato.
Infatti, per costante giurisprudenza del Consiglio di Stato (n. 63/2014, n. 5090/2014, n. 3097/2013), la sola presentazione di una domanda di condono non costituisce un titolo abilitativo edilizio, il suo accoglimento non avviene ope legis e per la formazione del silenzio-assenso non è sufficiente il solo decorso del termine biennale fissato dall’articolo 35 della legge 47/1985. Il meccanismo pertanto non opera ogni qualvolta manchino i presupposti di fatto e di diritto previsti dalla norma, avendo ad oggetto opere non condonabili, o quando l’oblazione autoliquidata dalla parte interessata non corrisponda a quanto dovuto, oppure quando la documentazione risulti incompleta e quando la domanda si presenti dolosamente infedele.
Volendo avere più sicurezza sulle sorti di un’istanza di condono edilizio alla quale non abbia fatto seguito un provvedimento espresso, sarà quindi opportuno chiedere all’amministrazione comunale il rilascio di una attestazione, di natura ricognitiva, in ordine alla effettiva formazione del provvedimento tacito di sanatoria dell’abuso.
Una risposta negativa porterà, ovviamente, a escludere la trasferibilità del bene realizzato in assenza o totale difformità da titolo, ma un problema potrebbe porsi anche nel caso in cui la Pa rimanga inerte e non fornisca alcuna risposta. Al riguardo, infatti, va segnalato quell’orientamento secondo cui il ricorso contro il silenzio previsto dall’articolo 31 del Codice del processo amministrativo non può trovare applicazione -e va dichiarato inammissibile- in tutti i casi in cui la legge attribuisce al silenzio dell’amministrazione un valore legale tipico, di rigetto di un’istanza ritualmente presentata, oppure di accoglimento, come per il condono edilizio (Tar Puglia-Bari, n. 610/2013).
Non resterebbe quindi che proporre nei confronti del Comune una domanda volta ad accertare l’effettiva sussistenza di tutti i requisiti che la legge indica come necessari alla formazione del provvedimento tacito di condono.
Questa strada potrebbe però risultare rischiosa, perché, pur se ritenuta ammissibile da parte della giurisprudenza già prima dell’emanazione del Dlgs n. 104/2010 (Consiglio di Stato, sezione VI sentenza n. 717/2009), l’attuale codice del processo amministrativo non prevede una azione di accertamento tra quelle proponibili nei confronti della Pa
 (articolo Il Sole 24 Ore del 16.02.2015).

CONDOMINIOAvviso via e-mail solo se è certificata. Assemblea. Convocazioni nulle.
L’avviso di convocazione dell’assemblea condominiale non può essere comunicato con un’e-mail ordinaria, pena la possibile invalidazione della deliberazione succesivamente adottata. Perché le forme di comunicazione dell’avviso di convocazione sono individuate dall’articolo 66 delle Disposizioni di attuazione del Codice civile sono tassative.
Questa la conclusione cui è giunto il TRIBUNALE di Genova con la sentenza 23.10.2014 n. 3350.
A partire dal 18.06.2013 (legge 220/2012), infatti, l’avviso dev’essere comunicato a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o consegna a mano.
Nel caso risolto dal Tribunale di Genova la comunicazione era stata inviata per mezzo di un’e-mail ordinaria e il condòmino destinatario, assente all’assemblea, aveva poi impugnato la delibera per omessa convocazione. Il giudice ha dato ragione al condomino: il Legislatore della riforma –si legge nella sentenza– mediante la specifica indicazione delle modalità di convocazione ha tipizzato le forme di comunicazione dell’avviso, privilegiando quelle che consentono di avere certezza della conoscibilità dello stesso.
In questo contesto, si legge nella sentenza, le comunicazioni via e-mail sono valide solamente se avvengono tra indirizzi di posta elettronica certificata, poiché solo a queste la legge riconosce il valore della tradizionale raccomandata
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.02.2015).

EDILIZIA PRIVATASenza concessione c'è l'illecito. Nullo il contratto di appalto per costruire l'immobile. La Cassazione: nessuno spazio ad atti posticipati di convalida con effetti retroattivi.
Il contratto di appalto per la costruzione di un immobile senza concessione edilizia è nullo, avendo un oggetto illecito, per violazione delle norme imperative in materia urbanistica e non può essere convalidato in virtù di una concessione posticipata con effetti retroattivi.

Lo ha stabilito la II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 09.10.2014 n. 21350.
Nel caso concreto il proprietario di un terreno alluvionato ha concluso un contratto di appalto per la realizzazione di un fabbricato da adibire a stalla. L'appaltatore ha realizzato il lavoro commissionato ma, all'atto della richiesta di pagamento, si è visto eccepire il rifiuto del committente. All'imprenditore non è rimasto che rivolgersi al giudice ordinario, il quale ha concesso un decreto ingiunto per la somma dei lavori pattuita dai due contraenti.
Il committente si è prontamente opposto al decreto spiegando il perché non volesse onorare i suoi debiti: da un lato, ha osservato come il contratto di appalto fosse nullo a cagione della mancanza del permesso di costruire per realizzare la stalla; dall'altro ha sottolineato al giudice l'inadempimento dell'appaltatore, reo di avergli consegnato l'opera finita con grande ritardo. L'opposto si è difeso rimarcando che l'assenza del permesso fosse circostanza nota fin dall'inizio, e comunque irregolarità sanata con effetto retroattivo dalla concessione successivamente rilasciata dall'Ente; quanto al ritardo nella consegna, invece, il costruttore ha insistito nel ribadire che questo non poteva essergli addebitato perché dovuto alle condizioni climatiche che avevano reso impossibile il rispetto delle tempistiche.
Il tribunale, con sentenza confermata in sede di appello, ha rigettato l'opposizione del committente. Per entrambi i giudici di merito, infatti, doveva escludersi la nullità del contratto di appalto, essendo stato accertato che la concessione edilizia -già richiesta prima dell'inizio dei lavori- era stata rilasciata posticipatamente, con efficacia retroattiva e con idoneità, anche in ipotesi di concessione in sanatoria, a determinare l'estinzione del reato di abuso edilizio, in relazione all'accertamento di conformità e di non contrasto delle opere in questione con lo strumento urbanistico vigente.
Il committente, fermo nel non voler onorare il proprio debito, si è rivolto -in ultima istanza- alla Suprema corte di cassazione cui è stato chiesto l'annullamento della sentenza della corte territoriale. Il proprietario ha insistito nel ribadire la nullità del contratto stipulato finanche in presenza della concessione retroattiva, stante l'impossibilità di procede alla convalida di un contratto nullo. Di talché -ha osservato la difesa del costruttore- una cosa sono gli effetti prodotti dalla concessione sul piano amministrativo e penale, altro è la validità del contratto a monte.
Gli ermellini, nel dare ragione al ricorrente, hanno tacciato di erroneità l'apprezzamento svolto dalla corte d'appello: la concessione edilizia, infatti, non può sopperire anche all'invalidità originaria cui va affetto il contratto d'appalto per l'esecuzione di lavori. La decisione dei giudici di secondo grado, secondo la Corte, si pone in contrasto con il principio, già in passato affermato, secondo cui «il contratto di appalto per la costruzione di un immobile senza concessione edilizia è nullo, ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c., avendo un oggetto illecito, per violazione delle norme imperative in materia urbanistica, con la conseguenza che tale nullità, una volta verificatasi, impedisce sin dall'origine al contratto di produrre gli effetti suoi propri e ne impedisce anche la convalida ai sensi dell'art. 1423 c.c.».
La Corte non trascura l'esistenza di orientamenti meno severi in materia: alcune corti, in particolare, hanno precisato che «l'illiceità del contratto di appalto è ravvisabile solo ove esso sia, di fatto, eseguito in carenza di concessione e non pure per il solo fatto che quest'ultima sia rilasciata dopo la data della stipulazione del contratto, di appalto, ma prima della realizzazione dell'opera». In questi caso -si osserva- non sarebbe conforme alla «mens legis» la sanzione di nullità di un contratto il cui adempimento sia stato, per espressa volontà delle parti, posposto al previo ottenimento della concessione o autorizzazione richiesta.
Nella vicenda in esame, tuttavia, la concessione edilizia era pervenuta quando i lavori erano stati da tempo eseguiti. Non si verteva, quindi, nel caso di contratto sospensivamente condizionato, in forza di presupposizione, al previo ottenimento dell'atto amministrativo, mancante al momento della relativa stipulazione, bensì in quello di contratto interamente eseguito cui ha fatto seguito il provvedimento autorizzatorio. Per questo motivo la Corte ha rigettato il ricorso, per l'effetto affermando la nullità del contratto e ribadendo, ai fini civilistici, la totale irrilevanza dell'estinzione dell'illecito penale per abusivismo edilizio (articolo ItaliaOggi Sette del 09.02.201).
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MASSIMA
Il contratto di appalto per la costruzione di un immobile senza concessione edilizia è nullo, ai sensi degli artt. 1346 e 1418 c.c. per illiceità dell’oggetto qualora esso sia eseguito in carenza di concessione e non pure per il solo fatto che quest'ultima sia rilasciata dopo la data della stipulazione del contratto, di appalto, ma prima della realizzazione dell'opera, posto che non sarebbe conforme alla "mens legis" la sanzione di nullità irrogata per un contratto il cui adempimento sia stato intenzionalmente posposto al previo ottenimento della concessione o autorizzazione richiesta, con una condotta, quindi, aderente al precetto normativo, potendosi il contratto stesso, considerare sospensivamente condizionato, in forza di presupposizione, al previo ottenimento dell'atto amministrativo, mancante al momento della relativa stipulazione (tratta da www.neldiritto.it).

EDILIZIA PRIVATADa tempo sono stati messi in rilievo principi -da pacifica e datata giurisprudenza- che evidenziano il carattere permanente dell’illecito edilizio e come l’interesse pubblico alla repressione dell’abuso risieda nella stessa natura del provvedimento repressivo, essendo, come suol dirsi, “in re ipsa”.
L’applicazione dei due principi preclude che possano aver rilievo, rispettivamente, il lungo lasso di tempo trascorso tra l’epoca dell’abuso e la data del provvedimento repressivo e, sul fronte della posizione incisa, che detto arco temporale obblighi l’Amministrazione a valutare un eventuale affidamento nel frattempo ingeneratosi nel responsabile dell’abuso.
A quest’ultimo riguardo deve peraltro osservarsi che l’affidamento può assumere rilevanza, originando la necessità di un più intenso onere di motivazione, solo in presenza di atti o comportamenti dell’amministrazione dai quali esso possa effettivamente ed attendibilmente trarre fonte. Ma tali elementi non è dato nella fattispecie riconoscere, nemmeno nel certificato di agibilità che, lungi dal legittimare l’abuso, altro non è che l’attestazione che quanto realizzato non è pericoloso sotto il profilo dell’accesso delle persone.
Né, al fine di dimostrare la legittimità dell’intervento (e quindi l’illegittimità della sua demolizione), può utilizzarsi la disposizione di legge che individua nella necessaria conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie, il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del suddetto certificato (art. 24, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 per cui il soggetto titolare del permesso di costruire è tenuto a chiedere il certificato di agibilità).
Si tratta di una interpretazione del tutto rovesciata della cennata prescrizione giuridica, la cui corretta lettura conferma che il certificato è illegittimo se rilasciato in assenza della accertata conformità dell’intervento realizzato rispetto a quello assentito e non può quindi in alcun modo legittimarlo.

L’appello del Comune di Lanciano, che avversa dette motivazioni, è fondato.
Il gravame evidenzia in materia principi che da tempo sono stati messi in rilievo da pacifica e datata giurisprudenza e che pongono in rilievo anzitutto il carattere permanente dell’illecito edilizio (cfr. ex multis, Cons. di Stato, sez. V, n. 2544/2000) ed evidenziano come l’interesse pubblico alla repressione dell’abuso risieda nella stessa natura del provvedimento repressivo, essendo, come suol dirsi, “in re ipsa” (v., fra le numerose, Cons. di Stato, sez. V, n. 104/1985).
L’applicazione dei due principi preclude che possano aver rilievo, rispettivamente, il lungo lasso di tempo trascorso tra l’epoca dell’abuso e la data del provvedimento repressivo e, sul fronte della posizione incisa, che detto arco temporale obblighi l’Amministrazione a valutare un eventuale affidamento nel frattempo ingeneratosi nel responsabile dell’abuso.
A quest’ultimo riguardo deve peraltro osservarsi che l’affidamento può assumere rilevanza, originando la necessità di un più intenso onere di motivazione, solo in presenza di atti o comportamenti dell’amministrazione dai quali esso possa effettivamente ed attendibilmente trarre fonte. Ma tali elementi non è dato nella fattispecie riconoscere, nemmeno nel certificato di agibilità che, lungi dal legittimare l’abuso, altro non è che l’attestazione che quanto realizzato non è pericoloso sotto il profilo dell’accesso delle persone.
Né, al fine di dimostrare la legittimità dell’intervento (e quindi l’illegittimità della sua demolizione), può utilizzarsi la disposizione di legge che individua nella necessaria conformità dei manufatti alle norme urbanistico-edilizie, il presupposto indispensabile per il legittimo rilascio del suddetto certificato (art. 24, comma 3, del D.P.R. n. 380/2001 per cui il soggetto titolare del permesso di costruire è tenuto a chiedere il certificato di agibilità).
Si tratta di una interpretazione del tutto rovesciata della cennata prescrizione giuridica, la cui corretta lettura conferma che il certificato è illegittimo se rilasciato in assenza della accertata conformità dell’intervento realizzato rispetto a quello assentito e non può quindi in alcun modo legittimarlo (Cons. Stato, sez. V, 30.04.2009 n. 2760, citato dal TAR, si limita infatti a confermare che il certificato può essere rilasciato solo in caso di conformità dell’intervento) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.06.2013 n. 3182 - link a www.giustizia-amminitrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Eliminato il duplice riferimento terminologico (licenza di abitabilità e licenza di agibilità), il legislatore del 2001 ha optato per l’onnicomprensivo termine di “certificato di agibilità” attestante l’idoneità abitativa di qualsiasi edificio.
Secondo la nuova formulazione, l’ambito di operatività del certificato di agibilità risulta più esteso rispetto al passato, essendo richiesto non solo per i nuovi organismi edilizi, ma anche per gli interventi eseguiti sugli stessi che possiedano l’attitudine a modificare le condizioni igieniche e sanitarie preesistenti.
Ai fini dell’accertamento dell’agibilità di un edificio ciò che rileva non è tanto la qualificazione giuridica dell’intervento (ristrutturazione, restauro o risanamento conservativo, oppure manutenzione straordinaria o realizzazione di sole opere interne), quanto piuttosto la qualità e l’entità dell’intervento, nonché i suoi riflessi sulla condizione di salubrità della costruzione o di sue parti.
Il certificato di agibilità è dunque necessario per tutti gli organismi edilizi destinati a un utilizzo che comporti la permanenza dell'uomo che può risolversi sia nel soggiorno prolungato, com'è per le abitazioni, sia nella semplice frequentazione, com’è per l'immobile destinato a un'attività produttiva, che deve comunque essere di durata tale da richiedere la presenza di condizioni minime di igiene e salubrità.
In base a quanto previsto dagli artt. 24 e 25 del D.P.R. n. 380 del 2001, il certificato di abitabilità delle costruzioni costituisce un'attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente.
Ne deriva la legittimità, in via generale, dello svolgimento da parte degli organi comunali competenti di ogni indagine utile al fine di effettuare una consapevole valutazione sulla sussistenza delle surriferite condizioni, soprattutto quando in un edificio siano state realizzate modifiche strutturali, che implicano anche un cambiamento dell'uso degli spazi.
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Tenuto conto che la disciplina vigente dpr 380/2001 presenta una ipotesi di silenzio-assenso nell’ipotesi di istanza di agibilità presentata agli Uffici competenti e rispetto alla quale gli stessi non hanno adottato alcun provvedimento espresso, occorre pur tuttavia verificare se l’ordinamento ha previsto casi in cui vi siano criticità riferibili alla acquisibilità implicita –per effetto del silenzio– della dichiarazione di agibilità.
Sul punto vale la pena rammentare che:
   a) in caso di istanza di condono edilizio, il rilascio del c.d. certificato di agibilità può avvenire in deroga soltanto alle norme di tipo secondario e/o regolamentare, ma non anche in deroga alle disposizioni normative di fonte primaria e/o di legge, soprattutto se attinenti alla materia dell'igiene pubblica e dell'inquinamento del suolo, in quanto diversamente, in caso di adesione ad una possibile interpretazione di tipo estensivo delle norme in materia di condono edilizio, l'art. 35, comma 14, della legge 28.02.1985 n. 47 (come le altre norme analoghe ad essa succedute nel tempo in materia di condoni edilizi) sarebbe palesemente incostituzionale per contrasto con il fondamentale principio della tutela della salute ex art. 32 Cost., inteso non solo come diritto alla salute del singolo individuo, ma anche come diritto dell'intera collettività alla salubrità dell'ambiente;
   b) il suesposto orientamento si pone perfettamente in linea con quello espresso dalla Corte Costituzionale la quale, con sentenza n. 256 del 18.06.1996, ha avuto modo di precisare, per un verso, che il certificato di abitabilità non deve necessariamente autorizzare in maniera uniforme tutto l'edificio o parte di esso, dovendo essere distinti gli usi abitativi o di semplice agibilità, quando alcuni locali siano utilizzabili solo come accessori o come locali non destinabili a usi abitativi stabili o come depositi o con altri usi non abitativi, quando non siano strutturalmente idonei sotto il profilo igienico-sanitario per una abitabilità piena, ancorché oggetto di concessione edilizia in sanatoria nonché, per altro verso, la circostanza che le norme sul condono edilizio prevedano, a seguito della concessione in sanatoria, il rilascio del certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, purché non sussista contrasto con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni, "non riguarda i requisiti richiesti da disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità (...) a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all'art. 221 T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui all'art. 4 del D.P.R. n. 425 del 1994), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica (...).
Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari" (così, testualmente, la sentenza della Corte costituzionale n. 256 del 1996 citata);
   c) se è dunque vero che, in base a quanto previsto dagli art. 24 e 25, del n. 380 del 2001, il certificato di agibilità delle costruzioni costituisce un'attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente, appare altrettanto legittimo che una valutazione sulla sussistenza di dette condizioni, sia richiesta a fronte di modifiche strutturali che implicano anche un cambiamento dell'uso degli spazi e che dunque il Comune non perda, neppure per l’ipotesi di rilascio implicito del certificato ovvero per effetto di condono, il potere-dovere di verificare la sussistenza effettiva di dette condizioni di salubrità e di intervenire laddove siano riscontrate carenze.

5. - Al di là dei profili in fatto che caratterizzano la presente controversia, sotto il profilo giuridico va evidenziato che:
A) l’art. 4 del D.P.R. 22.04.1994 n. 425 ebbe a prevedere che per utilizzare un edificio fosse necessario ottenere il certificato di agibilità il cui rilascio da parte del sindaco era condizionato alla presentazione di una serie di documenti idonei ad attestare la sussistenza di determinati standards minimi di salubrità. Nel contempo l’art. 5 di detto testo normativo abrogava l’art. 221, primo comma, del regio decreto 27.07.1934 n. 1265 relativamente alla disciplina del procedimento per il rilascio del certificato.
L’intervento normativo in esame ha modificato in termini sostanziali l’istituto dell’agibilità, mutando la denominazione dell’atto da “autorizzazione” amministrativa a “certificato”, semplificando il procedimento di rilascio, e, soprattutto, estendendo l’ambito di valutazione ad interessi diversi e ulteriori rispetto a quelli connaturati alla tutela di carattere meramente sanitario; in altri termini, al concetto di agibilità si è andato sostituendo quello di “vivibilità” della costruzione, che inerisce ad una condizione dell’abitare complessivamente rispettosa della dignità dell’individuo;
B) successivamente gli articoli da 24 a 26 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 hanno fissato la disciplina attualmente vigente. Anzitutto –per come è ricordato nella relazione illustrativa che ha accompagnato il predetto decreto presidenziale– il legislatore ha provveduto a ricondurre ad unità i termini di agibilità e abitabilità spesso utilizzati indifferentemente nella normativa precedente.
Inizialmente nel linguaggio normativo il termine “licenza di abitabilità” era stato utilizzato in relazione agli immobili ad uso abitativo, mentre il termine “licenza di agibilità” relativamente a quelli non residenziali, quali opifici, uffici, esercizi pubblici e commerciali. In un secondo tempo, il legislatore aveva operato una diversa classificazione, riconducendo all’agibilità la disciplina generale della stabilità e della sicurezza dell’immobile e all’abitabilità la disciplina speciale dei requisiti dell’immobile rispetto a specifiche destinazioni d’uso.
In effetti, alcune disposizioni normative e, soprattutto, una certa prassi giurisprudenziale, avevano indotto a pensare che all’interno del nostro ordinamento esistessero due diversi tipi di certificazioni. In realtà, le due espressioni, se pur diversamente utilizzate, erano di fatto omogenee e non richiedevano procedimenti amministrativi diversi. Dimostrativo ne è il fatto che il corredo documentale dell’istanza, come pure le indagini tecniche preliminari al rilascio del certificato, non cambiavano a seconda del tipo di unità immobiliare da certificare, fatta salva, ovviamente, l’esigenza di valutare la presenza di requisiti igienico-sanitari diversi in ragione dell’uso previsto.
Eliminato il duplice riferimento terminologico, il legislatore del 2001 ha optato per l’onnicomprensivo termine di “certificato di agibilità” attestante l’idoneità abitativa di qualsiasi edificio. Secondo la nuova formulazione, l’ambito di operatività del certificato di agibilità risulta più esteso rispetto al passato, essendo richiesto non solo per i nuovi organismi edilizi, ma anche per gli interventi eseguiti sugli stessi che possiedano l’attitudine a modificare le condizioni igieniche e sanitarie preesistenti.
Ai fini dell’accertamento dell’agibilità di un edificio ciò che rileva non è tanto la qualificazione giuridica dell’intervento (ristrutturazione, restauro o risanamento conservativo, oppure manutenzione straordinaria o realizzazione di sole opere interne), quanto piuttosto la qualità e l’entità dell’intervento, nonché i suoi riflessi sulla condizione di salubrità della costruzione o di sue parti.
Il certificato di agibilità è dunque necessario per tutti gli organismi edilizi destinati a un utilizzo che comporti la permanenza dell'uomo che può risolversi sia nel soggiorno prolungato, com'è per le abitazioni, sia nella semplice frequentazione, com’è per l'immobile destinato a un'attività produttiva, che deve comunque essere di durata tale da richiedere la presenza di condizioni minime di igiene e salubrità;
C) in base a quanto previsto dagli artt. 24 e 25 del D.P.R. n. 380 del 2001, il certificato di abitabilità delle costruzioni costituisce un'attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza  delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente.
Ne deriva la legittimità, in via generale, dello svolgimento da parte degli organi comunali competenti di ogni indagine utile al fine di effettuare una consapevole valutazione sulla sussistenza delle surriferite condizioni, soprattutto quando in un edificio (per come è avvenuto nel caso in esame) siano state realizzate modifiche strutturali (cfr., in argomento, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 16.03.2011 n. 740), che implicano anche un cambiamento dell'uso degli spazi (si veda sul punto la relazione prodotta in data 26.10.2010 con allegazione di documenti dall’amministrazione del Condominio dello stabile in questione);
D) l'art. 25, commi 3-5, del D.P.R. n. 380 del 2001 prevede un procedimento di rilascio del certificato di agibilità, articolato sui seguenti principi fondamentali:
   1) il procedimento deve essere concluso nel termine di 30 giorni dalla ricezione della domanda di rilascio del certificato di agibilità o di 60 giorni, nel caso in cui il ricorrente si sia avvalso della possibilità di sostituire con autocertificazione il parere dell'A.S.L. previsto dall'art. 5, 3° comma, lett. a), del D.P.R. n. 380 del 2001;
   2) il decorso del termine per la definizione del procedimento, importa la formazione del silenzio assenso sull'istanza di rilascio del certificato di agibilità;
   3) il termine del procedimento può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro quindici giorni dalla domanda, esclusivamente per la richiesta di documentazione integrativa, che non sia già nella disponibilità dell'amministrazione o che non possa essere acquisita autonomamente; in tal caso, il termine per la conclusione del procedimento ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa;
   4) il rilascio del certificato di agibilità non impedisce l'esercizio del potere di dichiarazione di inagibilità di un edificio o di parte di esso ai sensi dell'articolo 222 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265 (art. 26 D.P.R. n. 380 del 2001).
6. – Fermo quanto sopra e tenuto conto che la disciplina suesposta presenta una ipotesi di silenzio-assenso nell’ipotesi di istanza di agibilità presentata agli Uffici competenti e rispetto alla quale gli stessi non hanno adottato alcun provvedimento espresso, occorre pur tuttavia verificare se l’ordinamento ha previsto casi in cui vi siano criticità riferibili alla acquisibilità implicita –per effetto del silenzio– della dichiarazione di agibilità.
Sul punto vale la pena rammentare che:
   a) in caso di istanza di condono edilizio, il rilascio del c.d. certificato di agibilità può avvenire in deroga soltanto alle norme di tipo secondario e/o regolamentare, ma non anche in deroga alle disposizioni normative di fonte primaria e/o di legge, soprattutto se attinenti alla materia dell'igiene pubblica e dell'inquinamento del suolo, in quanto diversamente, in caso di adesione ad una possibile interpretazione di tipo estensivo delle norme in materia di condono edilizio, l'art. 35, comma 14, della legge 28.02.1985 n. 47 (come le altre norme analoghe ad essa succedute nel tempo in materia di condoni edilizi) sarebbe palesemente incostituzionale per contrasto con il fondamentale principio della tutela della salute ex art. 32 Cost., inteso non solo come diritto alla salute del singolo individuo, ma anche come diritto dell'intera collettività alla salubrità dell'ambiente (sul punto cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15.04.2004 n. 2140 e 13.04.1999 n. 414 nonché TAR Sardegna 29.10.2002 n. 1422);
   b) il suesposto orientamento si pone perfettamente in linea con quello espresso dalla Corte Costituzionale la quale, con sentenza n. 256 del 18.06.1996, ha avuto modo di precisare, per un verso, che il certificato di abitabilità non deve necessariamente autorizzare in maniera uniforme tutto l'edificio o parte di esso, dovendo essere distinti gli usi abitativi o di semplice agibilità, quando alcuni locali siano utilizzabili solo come accessori o come locali non destinabili a usi abitativi stabili o come depositi o con altri usi non abitativi, quando non siano strutturalmente idonei sotto il profilo igienico-sanitario per una abitabilità piena, ancorché oggetto di concessione edilizia in sanatoria nonché, per altro verso, la circostanza che le norme sul condono edilizio prevedano, a seguito della concessione in sanatoria, il rilascio del certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, purché non sussista contrasto con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni, "non riguarda i requisiti richiesti da disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità (...) a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all'art. 221 T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui all'art. 4 del D.P.R. n. 425 del 1994), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica (...) Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari" (così, testualmente, la sentenza della Corte costituzionale n. 256 del 1996 citata);
   c) se è dunque vero che, in base a quanto previsto dagli art. 24 e 25, del n. 380 del 2001, il certificato di agibilità delle costruzioni costituisce un'attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente, appare altrettanto legittimo che una valutazione sulla sussistenza di dette condizioni, sia richiesta a fronte di modifiche strutturali che implicano anche un cambiamento dell'uso degli spazi e che dunque il Comune non perda, neppure per l’ipotesi di rilascio implicito del certificato ovvero per effetto di condono, il potere-dovere di verificare la sussistenza effettiva di dette condizioni di salubrità e di intervenire laddove siano riscontrate carenze (cfr. sul punto TAR Veneto, Sez. III, 02.01.2009 n. 6 nonché TAR Basilicata, Sez. I, 29.11.2008 n. 916) (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 18.01.2012 n. 181).