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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di LUGLIO 2014

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aggiornamento al 22.07.2014

aggiornamento al 15.07.2014

aggiornamento all'08.07.2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 22.07.2014

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAMentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento.
E ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione rispetto al contributo di concessione di talché, sotto il versante processuale, non si può utilizzare lo strumento dell’azione di accertamento per determinare l’importo di tale obbligazione pecuniaria.
---------------
La norma regionale impone al richiedente il titolo edilizio di reperire gli standard necessari per l’ampliamento aggiuntivo richiesto. In via alternativa, lo stesso richiedente può provvedere alla monetizzazione degli standard mediante pagamento “di una somma commisurata al costo di acquisizione di altre aree equivalenti per estensione e comparabili per ubicazione e destinazione a quelle per le quali sussiste l’obbligo di cessione”.
In estrema sintesi, in base alla norma in questione il richiedente il titolo edilizio o trasferisce al Comune le aree necessarie per il soddisfacimento degli standard o consegna una somma di danaro idonea per acquisire tali aree: tale monetizzazione va, cioè, necessariamente quantificata con riferimento “al costo di acquisizione” di aree equivalenti.
Nella determinazione delle somme da corrispondere per tale monetizzazione, cioè, il Comune deve fare specifico riferimento alle somme occorrenti per “acquisire” le aree necessarie per realizzare gli standard, cioè deve effettuare un calcolo puntuale ed articolato di quanto dovrebbe in concreto spendere per acquisire al suo patrimonio le aree necessarie, comprensive, ad esempio, di tutte le spese (cioè sia delle spese vive, che dell’attività lavorativa del personale del Comune) per acquisire sul libero mercato delle aree “equivalenti per estensione e comparabili per ubicazione e destinazione a quelle per le quali sussiste l’obbligo di cessione”.
In definiva, nella quantificazione di tale monetizzazione il Comune deve effettuare in concreto (e non in astratto come sembra abbia fatto nel caso in esame) un calcolo preciso di tutte le spese che dovrebbe sopportare per acquisire sul libero mercato delle aree “equivalenti”, in modo tale da rendere nella sostanza equivalente per il soggetto interessato la scelta tra il procedere alla diretta acquisizione delle aree ed la loro cessione al Comune o il procedere al pagamento della relativa “monetizzazione”, dato che eventuali costi aggiuntivi non debbono e non possono in alcun modo gravare sulla collettività, ma debbono essere posti necessariamente a carico del soggetto che altera il corretto rispetto degli standard.
Mentre non può di certo ritenersi ammissibile al riguardo la possibilità per il Comune di quantificare tali costi ipotizzando il ricorso per l’acquisizione di tale aree allo strumento espropriativo, dato che i soggetti proprietari di tali aree, eventualmente da espropriare, non possono in alcun modo subire una lesione dei loro intessi in relazione ad un’attività costruttiva realizzata da soggetti terzi per soddisfare interessi privati e non pubblici. Non può quindi ritenersi che, in via alternativa, il Comune possa considerare le spese necessarie per acquisire le aree necessarie non sul libero mercato, ma attraverso lo strumento pubblicistico dell’esproprio.
Ciò detto, sembra evidente l’erroneità del procedimento logico seguito nel caso di specie dal Comune e denunciato con il gravame, dato che l’Amministrazione ha determinato “in astratto” il valore delle aree (quantificandole in una somma di poco superiore alle € 100 al mq., senza previamente accertare i valori di mercato nella zona), maggiorandola di somme (costo dell’infrastruttura da realizzare e costo della progettazione dell’opera pubblica) non previste dalla normativa sopra richiamata.

Con il ricorso in esame -come sopra esposto- sono state nella sostanza contestate la modalità di determinazione da parte del Comune di Montesilvano della monetizzazione degli standard.
...
Con la deliberazione impugnata il Consiglio comunale di Montesilvano ha nella sostanza determinato in via generale i criteri per la monetizzazione degli standard, integrando e modificando la precedente propria deliberazione consiliare n. 3 del 29.01.2013, nei termini seguenti: ha ritenuto che tale monetizzazione avrebbe dovuto essere determinata aggiungendo al costo per l’acquisizione delle aree (determinato in € 109/mq) -da moltiplicarsi per un coefficiente correttivo rapportato all’indice di fabbricabilità territoriale- anche i seguenti costi:
a) il costo dell’infrastruttura da realizzare (pari a € 96,90/mq);
b) il costo della progettazione dell’opera pubblica (pari a € 7,90/mq).
Con i primi due motivi di ricorso -che possono esaminarsi congiuntamente- la società ricorrente ha dedotto che con la previsione di tali due voci aggiuntive per un verso si era violata L.R. Abruzzo 15.10.2012, n. 49, in quanto tale normativa concede ai soggetti l’alternativa tra la cessione delle aree e l’equivalente valore monetario, e per altro verso si era violato l’art. 23 della Costituzione, dato che era stato imposto un ulteriore contributo di urbanizzazione non previsto da alcuna norma di legge.
Tali doglianze, aventi carattere pregiudiziale ed assorbente, sono fondate.
Va al riguardo premesso che relativamente all’impugnativa di tale atto generale, avente natura discrezionale, sussiste di certo la giurisdizione di questo Tribunale, dal momento che la posizione giuridica soggettiva del privato ha l’indubbia consistenza dell’interesse legittimo.
Mentre -come è già stato autorevolmente precisato (Cons. St., sez. IV, 23.12.2013 n. 6211)- non si può utilizzare in questa sede lo strumento dell’azione di accertamento per la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard, ammessa al contrario solo per contestare la legittimità del contributo concessorio di cui all'art. 3 della L. 28.01.1977, n. 10. Si è, invero, al riguardo già chiarito che “mentre il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione rispetto al contributo di concessione di talché, sotto il versante processuale, non si può utilizzare lo strumento dell’azione di accertamento per determinare l’importo di tale obbligazione pecuniaria".
Ciò chiarito, va evidenziato che la norma regionale sopra ricordata impone al richiedente il titolo edilizio di reperire gli standard necessari per l’ampliamento aggiuntivo richiesto. In via alternativa, lo stesso richiedente può provvedere alla monetizzazione degli standard mediante pagamento “di una somma commisurata al costo di acquisizione di altre aree equivalenti per estensione e comparabili per ubicazione e destinazione a quelle per le quali sussiste l’obbligo di cessione”.
In estrema sintesi, in base alla norma in questione il richiedente il titolo edilizio o trasferisce al Comune le aree necessarie per il soddisfacimento degli standard o consegna una somma di danaro idonea per acquisire tali aree: tale monetizzazione va, cioè, necessariamente quantificata con riferimento “al costo di acquisizione” di aree equivalenti.
Nella determinazione delle somme da corrispondere per tale monetizzazione, cioè, il Comune deve fare specifico riferimento alle somme occorrenti per “acquisire” le aree necessarie per realizzare gli standard, cioè deve effettuare un calcolo puntuale ed articolato di quanto dovrebbe in concreto spendere per acquisire al suo patrimonio le aree necessarie, comprensive, ad esempio, di tutte le spese (cioè sia delle spese vive, che dell’attività lavorativa del personale del Comune) per acquisire sul libero mercato delle aree “equivalenti per estensione e comparabili per ubicazione e destinazione a quelle per le quali sussiste l’obbligo di cessione”.
In definiva, nella quantificazione di tale monetizzazione il Comune deve effettuare in concreto (e non in astratto come sembra abbia fatto nel caso in esame) un calcolo preciso di tutte le spese che dovrebbe sopportare per acquisire sul libero mercato delle aree “equivalenti”, in modo tale da rendere nella sostanza equivalente per il soggetto interessato la scelta tra il procedere alla diretta acquisizione delle aree ed la loro cessione al Comune o il procedere al pagamento della relativa “monetizzazione”, dato che eventuali costi aggiuntivi non debbono e non possono in alcun modo gravare sulla collettività, ma debbono essere posti necessariamente a carico del soggetto che altera il corretto rispetto degli standard.
Mentre non può di certo ritenersi ammissibile al riguardo la possibilità per il Comune di quantificare tali costi ipotizzando il ricorso per l’acquisizione di tale aree allo strumento espropriativo, dato che i soggetti proprietari di tali aree, eventualmente da espropriare, non possono in alcun modo subire una lesione dei loro intessi in relazione ad un’attività costruttiva realizzata da soggetti terzi per soddisfare interessi privati e non pubblici. Non può quindi ritenersi che, in via alternativa, il Comune possa considerare le spese necessarie per acquisire le aree necessarie non sul libero mercato, ma attraverso lo strumento pubblicistico dell’esproprio.
Ciò detto, sembra evidente l’erroneità del procedimento logico seguito nel caso di specie dal Comune e denunciato con il gravame, dato che l’Amministrazione ha determinato “in astratto” il valore delle aree (quantificandole in una somma di poco superiore alle € 100 al mq., senza previamente accertare i valori di mercato nella zona), maggiorandola di somme (costo dell’infrastruttura da realizzare e costo della progettazione dell’opera pubblica) non previste dalla normativa sopra richiamata.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso in esame deve, conseguentemente, essere accolto e, per l’effetto, deve essere annullato nella sua totalità l’atto impugnato, data l’erroneità dell’intero procedimento logico seguito dal Comune per procedere alla monetizzazione in parola. Mentre restano al riguardo ovviamente salvi gli ulteriori provvedimenti che l’Amministrazione andrà ad adottare in merito, attenendosi ai criteri sopra indicati.
Con riferimento a quanto sopra esposto ed a quanto al riguardo chiarito dal Giudice di appello (Cons. St., sez. IV, 23.12.2013 n. 6211), vanno infine dichiarate inammissibili le richieste di rideterminazione da parte di questo Tribunale del corrispettivo dovuto per la mancata cessione delle aree di standard e l’accertamento del diritto della ricorrente alla restituzione delle somme non dovute indebitamente versate a titolo di monetizzazione; mentre resta assorbita l’ultima della doglianze dedotte, che presuppone la legittimità dell’atto deliberativo in questione (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 15.07.2014 n. 346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

LAVORI PUBBLICI: CORRISPETTIVI per le PRESTAZIONI PROFESSIONALI dei LAVORI PUBBLICI (CNAPPC e CNI - 21.12.2013).
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Per facilitare il lavoro alle Stazioni appaltanti il Consiglio Nazionale degli Architetti ed il Consiglio Nazionale degli Ingegneri hanno realizzato un apposito software -a disposizione di tutti i professionisti- in grado di calcolare i compensi professionali in modo semplice e immediato.
Qui il link per scaricare il programma.

ARAN

PUBBLICO IMPIEGO: Modalità di calcolo del monte ore dei permessi sindacali di spettanza delle organizzazioni sindacali rappresentative nei luogo di lavoro - Personale delle Aree dirigenziali (guida operativa - maggio 2014).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: art. 12, D.Lgs. n. 81/2008 e successive modifiche e integrazioni - risposta ai quesiti sulla formazione dei lavoratori e dei datori di lavoro in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 11.07.2014 n. 12/2014).

APPALTI: OGGETTO: Monitoraggio delle esigenze di spazi finanziari, nell’ambito del patto di stabilità interno, degli enti locali e delle regioni per estinguere i debiti di parte capitale certi liquidi ed esigibili al 31.12.2013 (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, circolare 07.07.2014 n. 22).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 22.07.2014, "Approvazione della disciplina del procedimento di nomina, da parte della Giunta regionale, dei Commissari ad acta per il completamento della procedura di approvazione dei PGT di cui all’art. 25-bis, comma 3, della l.r. 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»" (deliberazione G.R. 11.07.2014 n. 2130).

ENTI LOCALI: G.U. 19.07.2014 n. 166 "Patto di stabilità interno per il triennio 2014-2016 per le province e i comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti (articoli 30, 31 e 32 della legge 12.11.2011, n. 183, come modificati dalla legge 27.12.2013, n. 147)" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, circolare 18.02.2014 n. 6).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 18.07.2014 n. 165 "Prime linee guida per l’avvio di un circuito collaborativo tra ANAC-Prefetture-UTG e Enti locali per la prevenzione dei fenomeni di corruzione e l’attuazione della trasparenza amministrativa" (Ministero dell'Interno, protocollo d'intesa 15.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 18.07.2014 n. 165 "Attuazione della direttiva 2012/27/UE sull’efficienza energetica, che modifica le direttive 2009/125/CE e 2010/30/UE e abroga le direttive 2004/8/CE e 2006/32/CE" (D.lgs. 04.07.2014 n. 102).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R Lombardia, supplemento n. 29 del 18.07.2014, "Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 05.12.2008, n. 31 (Testo unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale)" (L.R. 15.07.2014 n. 21).

PATRIMONIO: B.U.R Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 18.07.2014, "Approvazione criteri per l’assegnazione di contributi per la riqualificazione degli impianti sportivi di proprietà pubblica" (deliberazione G.R. 11.07.2014 n. 2119).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 16.07.2014, "Aggiornamento delle zone sismiche in Regione Lombardia (l.r. 1/2000, art. 3, c. 108, lett. d)" (deliberazione G.R. 11.07.2014 n. 2129).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: S. Cataleta, Procedure di gara, dichiarazione ex art. 38 d.lgs. 163/2003 s.m.i. e partecipazioni societarie - E’ obbligatorio dichiarare le partecipazioni societarie per le imprese che partecipano a gare pubbliche e per le eventuali controllanti. I riferimenti di legge (17.07.2014 - link a www.leggioggi.it).

URBANISTICA: D. Tramutoli, Impugnazione di piani urbanistici e interesse a ricorrere: quali requisiti?” (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. II, sentenza n. 1580 del 16.06.2014) (16.07.2014 - link a www.diritto.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: V. Vinciprova, MEPA per acquisizione di beni e servizi: sottosoglia per tutti, soprasoglia solo per i Comuni non capolouoghi - Obbligo per i Comuni non capoluogo del ricorso alle centrali di committenza e al mercato elettronico della pubblica amministrazione (MEPA) gestito da Consip (15.07.2014 - link a www.leggioggi.it).

LAVORI PUBBLICI: S. Lazzini, Dimezzamento cauzione provvisoria non necessario allegare la certificazione del sistema di qualità (13.07.2014 - link a www.diritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: G. Milizia, La PA deve rimborsare le spese legali ai propri dipendenti cui non era attribuibile alcuna colpa. Quale giurisdizione? (02.07.2014 - link a www.diritto.it).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: L. Catania, Incentivi alla progettazione. Quali novità per i tecnici dei Comuni? (25.06.2014 - link a www.giurdanella.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: B. Cirillo, Il POS negli studi: obbligo o onere? (03.06.2014 - link a www.diritto.it).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Commissioni bulgare k.o.. Senza la minoranza l'organo non è costituito. Se è impossibile insediarle si riespande la competenza del consiglio.
Una commissione consiliare può funzionare validamente pur in assenza del componente di minoranza? È possibile procedere alla costituzione delle commissioni consiliari prevedendo un numero di componenti, a prescindere dalla loro appartenenza? Sono attivabili dal consiglio comunale interventi sostitutivi al fine di consentire all'ente il perseguimento delle proprie finalità istituzionali?

In base a quanto disposto dall'articolo 38, comma 6, del decreto legislativo n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore, riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più possibile rappresentate anche nelle commissioni.
Nel caso di specie, il regolamento per l'organizzazione del consiglio comunale prevede che lo stesso possa istituire commissioni speciali, determinandone i poteri, l'oggetto ed il numero dei componenti e che l'insediamento ed il funzionamento delle suddette commissioni sono disciplinati dalle norme previste per le commissioni consiliari permanenti. Il regolamento per le commissioni consiliari dispone che ciascuna commissione è composta da tre membri di cui uno eletto dalle minoranze e due dalla maggioranza e che le sedute non sono valide se non è presente la maggioranza assoluta dei componenti.
Nella fattispecie in esame, il consiglio comunale, composto da quattordici consiglieri della maggioranza e due della minoranza, al fine di procedere all'adeguamento dello Statuto comunale e del Regolamento per il funzionamento del consiglio, ha avviato l'iter di costituzione di un'apposita commissione consiliare. In due successive sedute del consiglio sono stati eletti, oltre che i due rappresentanti della maggioranza, anche quelli di minoranza che, tuttavia, con atto contestuale alla avvenuta nomina, hanno rassegnato le proprie dimissioni dalla carica di componenti della istituenda commissione.
In base al principio consolidato in materia di organi collegiali, secondo il quale all'atto del primo insediamento l'organo deve essere completo in tutte le sue componenti per potersi dire legittimamente costituito e poter validamente operare, si ritiene che le dimissioni dei consiglieri di minoranza abbiano impedito, di fatto, la costituzione della commissione in argomento.
In assenza di specifiche previsioni recate dalle fonti di autonomia locale la questione deve essere esaminata alla luce di quei principi generali dai quali trarre utili orientamenti nel caso di specie.
Va rilevata anzitutto la natura delle commissioni consiliari. Esse non sono organi necessari dell'ente locale, cioè non sono componenti indispensabili della sua struttura organizzativa, bensì organi strumentali dei consigli ed, in quanto tali, costituiscono componenti interne dell'organo assembleare, prive di una competenza autonoma e distinta da quella a esso attribuita. In altri termini, le commissioni consiliari operano sempre e comunque nell'ambito della competenza dei consigli.
A fronte dell'oggettiva impossibilità di insediare validamente la commissione a causa della indisponibilità manifestata dai consiglieri di minoranza, la situazione di fatto verificatasi è tale da giustificare, in ragione del principio della continuità amministrativa, il riespandersi della competenza piena del consiglio comunale in ordine all'adeguamento dello statuto e del regolamento per il funzionamento del consiglio.
Non si ritiene praticabile la ipotesi prospettata, in sede di modifica regolamentare, di non indicare l'appartenenza politica dei componenti la commissione, in quanto ciò implicherebbe la violazione del vincolo all'osservanza del criterio proporzionale posto dalla norma primaria come limite alla potestà normativa dell'ente locale.
Ovviamente ciò non esclude che l'argomento della ricostituzione delle commissioni comunali possa essere iscritto all'ordine del giorno delle sedute consiliari fino alla sua positiva trattazione, fatte salve eventuali modifiche regolamentari (articolo ItaliaOggi del 18.07.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Procedimento disciplinare e lavoro straordinario.
La corte di Cassazione ha rilevato, nell'ambito del procedimento disciplinare, che la convocazione in orario lavorativo e nel luogo di lavoro non rientra tra i diritti del lavoratore, purché la convocazione in orari o luoghi diversi non si traduca, per le difficoltà della sua attuazione, in una violazione del diritto di difesa.
Il dipendente convocato al termine dell'orario di lavoro non può essere considerato in lavoro straordinario, mancando il presupposto di prestazione lavorativa resa nell'interesse dell'amministrazione.

Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di considerare come lavoro straordinario la convocazione di un dipendente, al termine dell'orario giornaliero di lavoro, a seguito di procedimento disciplinare avviato nei confronti del medesimo.
Preliminarmente si osserva, in linea generale, che l'art. 17, comma 1, del CCRL del 01.08.2002 precisa che le prestazioni di lavoro straordinario sono rivolte a fronteggiare situazioni di lavoro eccezionali e, pertanto, non possono essere utilizzate come fattore ordinario di programmazione del tempo di lavoro e di copertura dell'orario di lavoro.
Il comma 2 del citato articolo specifica altresì che le prestazioni di lavoro straordinario sono espressamente autorizzate (quindi, con atto formale) dal dirigente o figura equivalente, sulla base delle esigenze organizzative e di servizio individuate dall'ente, rimanendo esclusa ogni forma generalizzata di autorizzazione.
Premesso un tanto, si osserva come la giurisprudenza amministrativa
[1], secondo un consolidato orientamento, abbia affermato che, ai fini retributivi, occorre verificare in concreto la sussistenza delle ragioni di pubblico interesse che rendono necessario il ricorso a dette prestazioni.
Inoltre, si è ritenuto ammissibile il pagamento di lavoro straordinario, in assenza di formale autorizzazione, qualora lo svolgimento dell'attività lavorativa derivi da un preciso obbligo scaturente o da esigenze indispensabili o indifferibili o da norme inderogabili, oppure da scelte organizzative per la cui attuazione la relativa prestazione non possa esser affidata che al dipendente interessato, costretto a protrarre la propria attività oltre l'orario di servizio
[2].
Si sottolinea come, nella situazione rappresentata, non possano ravvisarsi i presupposti illustrati, in quanto non si tratta di svolgimento di attività lavorativa del dipendente nell'interesse dell'amministrazione di appartenenza, ma di mera partecipazione dello stesso ad un procedimento che lo coinvolge personalmente.
Inoltre, nello specifico, la Suprema Corte
[3] ha rilevato, nell'ambito del procedimento disciplinare, che la convocazione in orario lavorativo e nel luogo di lavoro non rientra tra i diritti del lavoratore, purché la convocazione in orari o luoghi diversi non si traduca, per le difficoltà della sua attuazione, in una violazione del diritto di difesa.
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[1] Cfr., ex multis, Cons. di Stato, sez. V, n. 3460 del 2009.
[2] Cfr. Cons. di Stato, sez. V, n. 1671 del 2014.
[3] Cfr. Cass. civ., sez. lavoro, n. 8845 del 2012
(17.07.2014 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI SERVIZI: Oggetto del contratto pubblico.
Domanda
In una gara per affidamenti di servizi è possibile prevedere, nell'oggetto dell'appalto, anche servizi a richiesta dell'amministrazione e tariffati a costo orario?
Risposta
L'Avcp con deliberazione n. 1 del 29.01.2014 ha precisato che il contratto, per affidamenti di servizi, non può essere caratterizzato da un contenuto prettamente «variabile» ossia determinabile in ragione delle necessità manifestate di volta in volta dall'Amministrazione nel periodo di efficacia del contratto stesso.
Infatti nei contratti pubblici l'oggetto, a differenza di quello dei contratti privatistici (che può anche essere «determinabile») deve essere sempre determinato.
L'esigenza di identificare in modo esatto e preciso l'oggetto del contratto pubblico è divenuta più stringente a seguito dell'entrata in vigore dpr 207/2010 il quale ha regolamentato, anche per gli appalti di servizi, la fase della progettazione nel presupposto che una carente progettazione comporta l'imprecisa definizione dell'oggetto del contratto.
L'Avcp, con determinazione n. 5/2013 ha evidenziato che «...la predisposizione di un progetto preciso e di dettaglio, atto a descrivere in modo puntuale le prestazioni necessarie a soddisfare specifici fabbisogni della stazione appaltante, appare come uno strumento indispensabile per ovviare al fenomeno di porre in gara non specifici servizi ma categorie di servizi».
Tale circostanza, peraltro, può rivelarsi limitativa della concorrenza, disincentivando la partecipazione alle gare d'appalto per le piccole e medie imprese che non sono in grado di garantire l'ampia gamma dei servizi compresi nelle categorie oggetto di gara (articolo ItaliaOggi Sette del 14.07.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Visite specialistiche.
Domanda
Un dipendente pubblico può giustificare l'assenza per visita specialistica con una dichiarazione sostitutiva di atto notorio?
Risposta
Con legge n. 125/2013 è stato convertito in legge con modifiche il decreto legge n. 101/ 2013, recante «Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni».
La legge di conversione introduce una disposizione in materia di assenze per malattia dei pubblici dipendenti al fine di contrastare il fenomeno dell'assenteismo nelle amministrazioni.
L' art. 55-septies, comma 5-ter, del dlgs 165/2001 prevede che «Nel caso in cui l'assenza per malattia abbia luogo per l'espletamento di visite, terapie, prestazioni specialistiche o esami diagnostici il permesso è giustificato mediante la presentazione di attestazione, anche in ordine all'orario, rilasciata dal medico o dalla struttura, anche privati, che hanno svolto la visita o la prestazione o trasmesse da questi ultimi mediante posta elettronica».
A seguito dell'entrata in vigore della novella, per l'effettuazione di visite, terapie, prestazioni specialistiche o esami diagnostici il dipendente deve fruire dei permessi per documentati motivi personali.
La giustificazione dell'assenza, avviene mediante attestazione redatta dal medico o dal personale amministrativo della struttura pubblica o privata che ha erogato la prestazione.
Il dipartimento della Funzione pubblica, con circolare n. 2/2014, ha precisato che l'attestazione di presenza può anche essere documentata mediante dichiarazione sostitutiva di atto notorio redatta ai sensi del combinato disposto degli artt. 47 e 38 del dpr n. 445/2000.
Le amministrazioni dovranno richiedere dichiarazioni dettagliate e circostanziate; le stesse dovranno inoltre attivare i necessari controlli sul loro contenuto ai sensi dell'art. 71 del citato decreto, provvedendo alla segnalazione all'autorità giudiziaria penale e procedendo per l'accertamento della responsabilità disciplinare nel caso di dichiarazioni mendaci (articolo ItaliaOggi Sette del 14.07.2014).

URBANISTICA: Assoggettabilità a concordato preventivo di un lotto inserito in un P.I.P..
In merito all'assoggettabilità alla procedura di concordato preventivo di un lotto ricompreso in un piano per insediamenti produttivi (P.I.P.) è dato riscontrare, in giurisprudenza, l'esistenza di pronunce volte ora a far prevalere l'interesse privato ora quello pubblico.
Secondo un primo filone interpretativo, la procedura diretta all'assegnazione di aree ricomprese in un piano per insediamenti produttivi andrebbe scissa in due fasi logicamente e cronologicamente distinte: il primo avente valenza pubblicistica il cui momento determinante è dato dall'espropriazione delle aree precedentemente inserite in un piano per gli insediamenti produttivi e che si concluderebbe con l'atto di trasferimento del lotto (in diritto di proprietà o in diritto di superficie) all'assegnatario; il secondo, di natura negoziale, che ha inizio con tale atto di assegnazione e che terminerebbe con la compiuta realizzazione dei lavori di costruzione.
Secondo altro orientamento, invece, l'intera procedura concernente l'assegnazione dei lotti inseriti in un'area P.I.P. e diretta alla realizzazione di determinati impianti sarebbe connotata da profili pubblicistici e dalla conseguente natura autoritativa dei poteri della pubblica amministrazione, che caratterizzerebbero non solo la fase che si conclude con l'espropriazione forzata delle aree ricomprese in un P.I.P. ma anche quella successiva che va dall'assegnazione del bene al privato fino alla realizzazione degli insediamenti produttivi.
Il divieto di assoggettamento a concordato preventivo sorgerebbe qualora si aderisse al secondo orientamento citato, stante il divieto di sottoporre a procedimento di esecuzione forzata (cui il concordato preventivo è riconducibile) tali aree, soggette ai poteri autoritativi della Pubblica Amministrazione.

Il Comune chiede di conoscere un parere in merito all'assoggettabilità alla procedura di concordato preventivo di un lotto ricompreso in un piano per insediamenti produttivi (P.I.P.).
Più in particolare, riferisce di aver ceduto in proprietà ad una ditta dei terreni da destinare a insediamenti produttivi
[1] ma che la convenzione-contratto, [2] benché trascritta nei pubblici registri immobiliari, non recava indicazione nella nota di trascrizione degli oneri posti a carico dell'acquirente. La convenzione conteneva, tra le altre, la puntuale prescrizione per cui 'il contratto di cessione potrà essere risolto unilateralmente dal Comune, fra gli altri, nel caso in cui il concessionario non osservi i termini di inizio ed ultimazione dei lavori di costruzione'.
I lavori, consistenti nella costruzione di un capannone ad uso magazzino e deposito, non sono stati portati a compimento nei termini stabiliti e successivamente prorogati. In conseguenza di un tanto, il Comune, con propria delibera, ha disposto di procedere alla risoluzione unilaterale del contratto di vendita, in applicazione della disposizione contenuta nella convenzione.
Tuttavia, in data antecedente la delibera della giunta comunale, la ditta in questione è stata posta in concordato preventivo, debitamente omologato dal Tribunale;
[3] nel decreto di omologazione il Tribunale ha nominato un liquidatore giudiziale il quale intende ora procedere alla vendita degli immobili in riferimento, posti a garanzia del pagamento dei creditori, concedendo al Comune la prelazione sull'acquisto a parità di prezzo.
Tutto ciò premesso, l'Ente chiede di sapere se la procedura di risoluzione unilaterale del contratto di vendita attivata dal Comune sia o meno opponibile alla procedura di concordato preventivo e, più in generale, quale delle due procedure debba considerarsi prevalente sull'altra.
Infine, chiede se l'articolo 12, comma 1-quater, del decreto legge 06.07.2011, n. 98 rubricato 'Acquisto, vendita, manutenzione e censimento di immobili pubblici' possa avere effetti limitativi rispetto alla procedura restitutoria come disciplinata nella convenzione-contratto in oggetto.
In via preliminare, nell'evidenziare la delicatezza della vicenda in esame, si osserva come non sia possibile fornire una soluzione univoca della questione posta, stante l'esistenza di pronunce volte ora a far prevalere l'interesse pubblico ora quello privato.
Di seguito, pertanto, si riportano, in chiave collaborativa, le pronunce espresse sull'argomento che possano orientare l'Ente nelle decisioni da assumere con riferimento alla vicenda in esame.
Secondo un primo filone interpretativo, la procedura diretta all'assegnazione di aree ricomprese in un piano per insediamenti produttivi andrebbe scissa in due fasi logicamente e cronologicamente distinte: il primo avente valenza pubblicistica il cui momento determinante è dato dall'espropriazione delle aree precedentemente inserite in un piano per gli insediamenti produttivi e che si concluderebbe con l'atto di trasferimento del lotto (in diritto di proprietà o in diritto di superficie) all'assegnatario; il secondo, di natura negoziale, che ha inizio con tale atto di assegnazione e che terminerebbe con la compiuta realizzazione dei lavori di costruzione.
Al riguardo, si considerino alcune pronunce, relative all'assegnazione di piani P.I.P, ancorché concernenti questioni diverse da quella in esame, nelle quali si afferma che: 'La P.A., nella realizzazione di un piano di insediamento produttivo (PIP), consistente nell'espropriazione di fondi da assegnare in proprietà ad imprenditori che intendano realizzarvi attività produttive, adotta atti e tiene comportamenti che costituiscono esercizio di poteri autoritativi e discrezionali, a fronte dei quali sussistono dei meri interessi legittimi pretensivi, fino a quando non sia formalizzato l'atto di trasferimento del fondo espropriato al legittimo assegnatario'
[4]. E ancora: 'Le convenzioni accessive (che servono a regolare i rapporti patrimoniali sorti col provvedimento) danno luogo ad una duplice serie di atti, l'una definita provvedimentale e l'altra definita negoziale, i cui rapporti sono regolati (in linea di massima) nel seguente modo: la P.A. è sempre libera di rideterminarsi in merito alla serie provvedimentale (ad esempio revocando l'atto di assegnazione), ma non può incidere autoritativamente su quella negoziale; i vizi del provvedimento si trasmettono al contratto (travolgendolo), ma non viceversa'. [5]
Se, dunque, a seguito del trasferimento del fondo espropriato all'assegnatario la funzione pubblicistica recede per lasciare spazio a quella privatistica, seguirebbe che le norme cui fare riferimento per la soluzione del caso in oggetto sarebbero quelle civilistiche in tema di priorità della trascrizione e di salvezza dei diritti dei terzi.
Atteso che il Comune non ha provveduto né a trascrivere la convenzione con i relativi pesi ed oneri né ha proceduto a comunicare all'acquirente dell'area la volontà, formalizzata in un atto di giunta, di voler applicare il disposto di cui all'articolo 5 della convenzione contenente la previsione di risoluzione unilaterale del contratto di vendita in caso di mancata ultimazione dei lavori entro il termine pattuito, seguirebbe l'inopponibilità alla procedura di concordato preventivo di detta clausola, sia che si qualifichi la stessa quale condizione risolutiva sia che la si consideri come clausola risolutiva espressa.
Più in particolare, qualora la clausola in oggetto fosse qualificata quale condizione risolutiva sarebbe dovuto seguire l'obbligo, non adempiuto, di sua annotazione nella nota di trascrizione del contratto di vendita, in conformità al disposto di cui all'articolo 2659, secondo comma, del codice civile,
[6] pena la sua inopponibilità ai terzi.
Regole diverse sussistono, invece, in relazione alla clausola risolutiva espressa. L'articolo 1456, del codice civile recita, infatti, che: 'I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. In questo caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all'altra che intende valersi della clausola risolutiva'. In altri termini, tale clausola non deve essere annotata nei registri immobiliari per la sua opponibilità ai terzi. Tuttavia, la legge prevede che la parte venditrice, qualora voglia avvalersi di essa debba comunicare all'altra parte tale volontà. Nel caso di specie, una tale comunicazione pare non essere avvenuta; né alcun rilievo avrebbe una comunicazione effettuata ora, atteso che la stessa sarebbe posteriore all'omologazione della procedura di concordato preventivo nei cui confronti sarebbe ormai inopponibile tale clausola.
A diverse conclusioni si addiverrebbe qualora si affermasse che l'intera procedura concernente l'assegnazione dei lotti inseriti in un'area P.I.P. e diretta alla realizzazione di determinati impianti sia caratterizzata da profili pubblicistici e dalla conseguente natura autoritativa dei poteri della pubblica amministrazione, che caratterizzerebbero non solo la fase che si conclude con l'espropriazione forzata delle aree ricomprese in un P.I.P. ma anche quella successiva che va dall'assegnazione del bene al privato fino alla realizzazione degli insediamenti produttivi.
A tale riguardo, si osserva, in via generale, che il piano per gli insediamenti produttivi (PIP) 'oltre ad essere uno strumento di pianificazione urbanistica nel senso tradizionale, costituisce uno strumento di politica economica, con la funzione di incentivare le imprese, offrendo loro, ad un prezzo «politico», previa espropriazione ed urbanizzazione, le aree occorrenti per il loro impianto o la loro espansione'.
[7]
Come evidenziato anche dalla giurisprudenza, le aree comprese nei piani per gli insediamenti produttivi (ex art. 27 l. n. 865 del 1971) e, a tal fine, espropriate, entrano a far parte del patrimonio indisponibile del Comune: «Nella formulazione dell'art. 27 non figura la precisazione, contenuta invece nell'art. 35, che le aree espropriate entrano a far parte del patrimonio indisponibile del comune o del consorzio, ma non vi è dubbio che tale effetto si determini anche in relazione ai piani per gli insediamenti produttivi, posto che anche in tal caso il bene viene ad essere destinato direttamente al soddisfacimento di una specifica finalità d'interesse pubblico. Pertanto neppure le aree incluse nei piani di insediamento produttivo, debitamente approvato, possono essere sottratte alla loro destinazione, 'se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano' (art. 830, secondo comma, c.c.) e questo porta a ritenere che esse si trovino in una condizione giuridica che ne preclude l'assoggettamento ad espropriazione forzata»
[8]
Tale filone giurisprudenziale, in conseguenza delle considerazioni sopra esposte, afferma, ulteriormente, che 'Con riguardo alle aree comprese nei piani di insediamenti produttivi ai sensi della L. 22.10.1971, n. 865, art. 27 -che vengano acquisite dal comune con lo strumento espropriativo per la realizzazione di impianti produttivi di carattere industriale, artigianale, commerciale e turistico-, qualora il comune, in conformità con detta disposizione, ceda le aree in proprietà mediante deliberazione dei competenti organi comunali e successiva convenzione, gli acquirenti acquisiscono la posizione di concessionari di beni pubblici soggetti ai poteri autoritativi dell'ente fino a quando non sia realizzata la finalità pubblicistica cui la cessione è diretta; che, in altri termini, l'attuazione di un P.I.P. e l'assegnazione di un lotto ivi inserito concorrono a comporre la fattispecie complessa della concessione amministrativa preordinata al perseguimento dell'interesse pubblico di una distribuzione del territorio a vantaggio di determinate categorie produttive e istituiscono tra assegnante ed assegnatario un rapporto unitario nel quale il momento convenzionale è servente e strumentale al momento pubblicistico'.
[9]
Ciò affermato riguardo alla natura giuridica dei beni ricompresi nei P.I.P., ed al fine di fornire ulteriori elementi necessari per la disamina delle questioni poste dall'Ente, è necessario ora prendere in esame alcune caratteristiche proprie della procedura concordataria cui risultano essere stati sottoposti i beni della ditta assegnataria delle aree PIP.
In particolare, la giurisprudenza ha affermato che 'in generale, ma tanto più quando si sia proceduto alla nomina di un commissario liquidatore, con compiti per molti aspetti non dissimili da quelli di un curatore fallimentare anche la fase esecutiva del concordato per cessione dei beni è riconducibile ad una più vasta categoria di procedimenti di esecuzione forzata'.
[10]
Atteso il vincolo che caratterizza le aree in oggetto, come sopra già esplicitato, dovrebbe seguire la non assoggettabilità delle stesse a concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori (c.d. concordato misto).
Nel caso in esame si deve, tuttavia, tenere in debita considerazione il fatto che dei pesi ed oneri contenuti nella convenzione stipulata tra il Comune e la ditta assegnataria dei lotti non è stata fatta menzione nella nota di trascrizione, di talché si pone il dubbio circa la loro opponibilità alla procedura concordataria.
A tal fine, la giurisprudenza, in relazione ad una fattispecie similare a quella in esame
[11], in cui, però, si era avuta la trascrizione dell'atto da cui risultavano i 'vincoli di indisponibilità del bene' anteriormente al pignoramento, ha affermato che: 'Emerge chiaramente che, nel caso di specie, l'atto dal quale risultano i vincoli di indisponibilità del bene a carico dell'acquirente erano stati trascritti in epoca anteriore al pignoramento e questo dispensa il collegio dall'affrontare l'ulteriore questione -peraltro già risolta positivamente da questa Corte (Cass. 06.08.1987, n., 6755)[12]- se il diverso valore déi due interessi in conflitto (da un lato, quello, tutto privato, al soddisfacimento del credito; dall'altro quello inerente alla conservazione della destinazione impressa al bene per una finalità d'interesse generale) renda (o meno) il vincolo opponibile al creditore procedente anche quando si manifesti in epoca successiva al pignoramento'.
Stando a quest'ultima pronuncia, sembrerebbe poter seguire l'opponibilità alla procedura concordataria.
Atteso il filone interpretativo in esame, volto a ritenere prevalente l'interesse pubblico nel corso dell'intera procedura relativa all'assegnazione dei lotti compresi in un'area P.I.P., sembrerebbe poter derivare la possibilità per il Comune di tutelare il suo interesse a rientrare nella disponibilità del bene.
[13]
Per completezza espositiva, si fa presente che, qualora venisse attuata la vendita dell'area in oggetto all'asta pubblica, l'aggiudicatario farebbe salvo il suo acquisto non potendosi più in tale sede ritenere prevalenti le esigenze di tutela dell'interesse pubblico su quello privato. Infatti, come la giurisprudenza ha avuto modo di osservare, 'l'applicazione espressa, fatta con l'art. 2929 c.c., del principio generale di tutela dell'affidamento incolpevole consente di ritenere che in base a tale principio vada appunto risolto il conflitto tra le ragioni di chi abbia acquistato in sede di vendita forzata e quelle del debitore espropriato o dell'eventuale terzo proprietario o titolare di diritti sul bene espropriato [...]. Quello dell'aggiudicatario è, dunque, un diritto soggettivo sul quale i rapporti tra debitore esecutato, creditore procedente ed eventuale terzo titolare di diritti sul bene assoggettato ad espropriazione non possono influire, neppure ove si sia trattato di rapporti di diritto pubblico implicanti l'esercizio di poteri autoritativi da parte dell'Amministrazione, trattandosi pur sempre di rapporti de iure terti e tale diritto non risultando in alcun modo connesso e, quindi, suscettibile d'essere affievolito, con i provvedimenti adottati da quest'ultima nei confronti di soggetti diversi, nell'ambito dei detti diversi rapporti'.
[14]
Passando a trattare dell'ultima questione posta, ovverosia l'applicabilità alla fattispecie in esame dei limiti all'acquisto di beni immobili sancito all'articolo 12 del decreto legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, nella legge 15.07.2011, n. 111, si rileva, innanzitutto, che pare non pertinente il richiamo, effettuato dall'Ente, al comma 1-quater di tale articolo 12, in quanto esso afferisce agli acquisti effettuati nell'anno 2013. Diversamente, il precedente comma 1-ter, riguarda le operazioni di acquisto effettuate a decorrere dal 01.01.2014. Recita tale comma 1-ter: 'A decorrere dal 01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio, previo rimborso delle spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia, con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo pattuito, nel sito internet istituzionale dell'ente'.
Benché non competa allo scrivente Ufficio interpretare disposizioni statali, parrebbe che la norma in oggetto non trovi applicazione con riferimento alla fattispecie in esame.
In particolare, si osserva che, nel caso di specie, il Comune rientrerebbe nella proprietà del bene come effetto dell'intervenuta risoluzione del contratto: trattasi del cosiddetto effetto restitutorio discendente dall'intervenuta risoluzione contrattuale in relazione al quale pare manchino tanto il requisito dell' 'acquisto' quanto quello della corresponsione di un 'prezzo', richiesti dal comma in commento.
In ogni caso, ferma restando la valutazione autonoma dell'Ente, in base agli indirizzi giurisprudenziali richiamati, in ordine alla prevalenza dell'interesse pubblico o privato, e dunque alla possibilità o meno di attivarsi per rientrare nella disponibilità del bene, pare che la fattispecie in esame non rientri comunque nell'ambito applicativo dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011. A sostegno di un tanto depone la circostanza per cui la giurisprudenza, intervenuta in merito all'individuazione dell'ambito applicativo di tale disposizione ha affermato che: 'Con riferimento alla riconducibilità dell'istituto dell'espropriazione per pubblica utilità nell'ambito applicativo della norma, si ritiene che la stessa disciplini le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo d'acquisto, quindi ai soli acquisti a titolo derivativo iure privatorum e non alle procedure espropriative'.
[15]
Altra pronuncia afferma, ancora, che: 'Detta ricostruzione interpretativa, a parere del Collegio, varrebbe a escludere dal campo di applicazione della norma vincolistica tutte le ipotesi in cui non si discuta di acquisti iure privatorum: di talché la corresponsione di un indennizzo, che non può certo rappresentare un corrispettivo o un prezzo d'acquisto non rientrerebbe nel novero di quelle soggette al divieto di cui al più volte citato articolo [...]'.
[16]
Si nota, al riguardo, come l'articolo 5 della convenzione-contratto stipulata tra le parti, nell'individuare gli obblighi nascenti in capo al Comune a fronte della restituzione dell'area, li identifichi nella 'restituzione delle somme già incamerate, decurtate delle spese, tasse e di 2/5 del valore a titolo di penale' e in un obbligo di indennizzo relativamente alle eventuali opere realizzate dal concessionario.
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[1] L'articolo 27 della legge 22.10.1971, n. 865 prevede che i Comuni dotati di piano regolatore o di programma di fabbricazione approvati possono formare, previa autorizzazione della Regione, un piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi. Il sesto comma del medesimo articolo stabilisce, poi, che: 'Il comune utilizza le aree espropriate per la realizzazione di impianti produttivi di carattere industriale, artigianale, commerciale e turistico mediante la cessione in proprietà o la concessione del diritto di superficie sulle aree medesime'.
[2] L'ultimo comma dell'articolo 27 della legge 865/1971 recita: 'Contestualmente all'atto di concessione, o all'atto di cessione della proprietà dell'area, tra il comune da una parte e il concessionario o l'acquirente dall'altra, viene stipulata una convenzione per atto pubblico con la quale vengono disciplinati gli oneri posti a carico del concessionario o dell'acquirente e le sanzioni per la loro inosservanza'.
[3] Il decreto di omologazione risulta essere di data antecedente la delibera comunale di risoluzione unilaterale del contratto di vendita.
[4] Cassazione civile, Sezioni Unite, ordinanza del 17.03.2010, n. 6405.
[5] TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I, sentenza del 16.11.2011, n. 533.
[6] Recita l'articolo 2659, secondo comma, c.c.: 'Se l'acquisto, la rinunzia o la modificazione del diritto sono sottoposti a termine o a condizione, se ne deve fare menzione nella nota di trascrizione.[...]'.
[7] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 05.07.1995, n. 539. Si vedano, altresì, le sentenze del TAR Campania, Salerno, sez. I, del 22.06.2004, n. 1553 ove si afferma che il Piano per le aree da destinare a insediamenti produttivi (PIP), previsto dall'art. 27, l. 22.10.1971, n. 865, ha la funzione, di 'stimolo alla espansione industriale del territorio comunale' e del TAR Campania, Napoli, sez. I, del 29.12.2005, n. 20711 la quale afferma che nell'istituto PIP 'il momento tradizionale di strumento urbanistico volto alla corretta gestione del territorio convive con la più pregnante dimensione di strumento di politica economica volto ad incentivare le imprese'.
[8] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 27.09.1997, n. 9508.
[9] Cassazione civile, Sezioni Unite, ordinanza del data 09.01.2013, n. 306. Interessante è anche Cassazione civile, sentenza 9508/1997 ove si afferma che: La disciplina pubblicistica ex art. 27 l. n. 865 cit. non si esaurisce alla fase di delimitazione, individuazione ed espropriazione delle aree ma caratterizza anche il trasferimento ai privati, da parte del Comune, delle aree suddette'. 'Il momento pianificatorio e quello convenzionale sono pertanto legati da un rapporto di interdipendenza: infatti, se la cessione trova il suo ineliminabile presupposto nell'esistenza del piano, quest'ultimo richiede, per la sua concreta attuazione, che l'area sia trasferita in proprietà (o concessa in superficie) ad un operatore economico. La cessione del bene non è quindi fine a sé stessa, ma concorre alla realizzazione dell'assetto urbanistico prefigurato nel piano'.
[10] Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza del 16.07.2008, n. 19506. Nello stesso senso, Tribunale di Udine, sentenza del 23.09.2011 ove si afferma che: 'A seguito della nuova formulazione dell'art. 169, R.D. n. 267/1942 (legge fallimentare), contenente espresso richiamo all'art. 45, R.D. n. 267/1942 (legge fallimentare), la procedura di concordato preventivo con cessione dei beni a fini di liquidazione è assimilabile, segnatamente nella fase della sua esecuzione, alla procedura di fallimento quale "procedimento di esecuzione forzata in senso lato". Anche nella procedura di concordato preventivo, infatti, la fase di esecuzione comporta l'imposizione di un vincolo indisponibile di destinazione sui beni del debitore al fine della soddisfazione dei creditori, lo spossessamento del debitore attraverso la nomina di un liquidatore ed il compimento degli atti in un contesto proceduralizzato.'
[11] La Corte di Cassazione nella sentenza 9508/1997 ha affrontato il problema della pignorabilità delle aree ricomprese nei piani per insediamenti produttivi ex art. 27, l. 865/1971 ed a tal fine espropriate. Si trattava di un caso in cui il Comune aveva trasferito ad un privato un lotto di terreno ricompreso nell'ambito di un PIP che era stato ipotecato e pignorato prima della realizzazione dell'impianto produttivo ad opera del privato cessionario. La convenzione tra comune e assegnatario recava tra le sue clausole quella per cui il comune avrebbe potuto procedere alla risoluzione dell'atto di trasferimento del terreno nel caso in cui l'opera non fosse stata ultimata entro un termine determinato. Diversamente dalla fattispecie in esame, tuttavia, si era avuta la trascrizione dell'atto da cui risultano i 'vincoli di indisponibilità del bene' in epoca anteriore al pignoramento.
[12] Si tratta della sentenza di Cassazione civile, sez. III, del 06.08.1987, n. 6755 relativa, tuttavia, a beni di proprietà comunale.
[13] A tale riguardo si riportano nuovamente alcuni punti della sentenza della Cassazione civile, n. 9508/1997, ove, dopo aver espresso l'assunto per cui le aree comprese nei P.I.P., ed a tale fine espropriate, entrano nel patrimonio indisponibile del Comune, si prosegue rilevando come la disciplina pubblicistica caratterizza anche la fase successiva del trasferimento dell'area e si esaurisce solo a seguito dell'avvenuta concreta attuazione degli obiettivi di piano con la realizzazione di un determinato insediamento produttivo. Afferma la sentenza che: 'Ne consegue che gli oneri e le sanzioni previste a carico dei privati nella convenzione relativa alla cessione sono preordinati alla tutela dell'interesse pubblico sicché il diritto (ndr: rectius divieto) di alienazione pattuito non ha efficacia meramente obbligatoria ex art. 1379 c.c. ma si estende anche nei confronti dei terzi; e la risoluzione decisa dal Comune non soggiace alla disciplina ex art. 1458, comma 2, c.c., che fa salvi i diritti dei terzi, tenuto conto che gli interessi dei privati (nello specifico caso quello del creditore pignorante) non possono prevalere, in assenza di espressa previsione di legge, su quelli pubblici'.
[14] Cassazione civile, Sezioni Unite, ordinanza del 09.09.2008, n. 22651.
[15] Corte dei Conti, delibera del 05.03.2014, n. 97.
[16] Corte dei Conti, sez. regionale di controllo per il Veneto, deliberazione del 12.06.2013, n. 151
(09.07.2014 - link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Richiesta di parere in merito alla riattivazione di complesso edilizio, originariamente destinato a stalla, e successivamente accatastato come deposito e ricovero attrezzi (Regione Emilia Romagna, parere 07.07.2014 n. 254756 di prot.).
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I fatti esposti nella richiesta di parere in oggetto necessitano, a parere di questo Servizio, di una diversa qualificazione giuridica, che per altro consente agevolmente, ed anzi richiede, il ripristino della destinazione originaria.
Gli elementi rilevanti del caso rappresentato dall’amministrazione comunale si possono così sintetizzare: (... continua).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Requisiti per definire un edificio esistente ad una determinata data (Regione Emilia Romagna, parere 07.07.2014 n. 254717 di prot.).
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Il Comune di Saludecio richiede parere in merito alla corretta interpretazione del paragrafo 14 della Delibera di Giunta regionale 11.07.2011, n. 987, nella parte in cui stabilisce che possono essere destinati all’attività agrituristica, gli edifici che siano “esistenti sul fondo alla data del 15.04.2009…”.
In particolare, si chiede quali siano i requisiti per poter considerar esistente un edificio ad una determinata data di riferimento. (... continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: parere su ripristino edilizio (Regione Emilia Romagna, parere 15.05.2014 n. 209512 di prot.).
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Si risponde alla richiesta di parere relativamente alla qualificazione di un intervento di rifacimento di un edificio da tempo crollato o demolito. (... continua).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: parere in merito localizzazione canile in zona agricola (Provincia di Pesaro e Urbino, parere 13.12.2005 n. 41339 di prot.).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: In merito all'assunzione a tempo determinato finalizzata alla sostituzione del dipendente in comando.
La Sezione rileva la necessità dell’integrale e rigoroso rispetto del complesso delle disposizioni, dei vincoli e dei “tetti di spesa” operanti, in forza del vigente ordinamento, in materia di personale, nei confronti degli enti sottoposti al patto di stabilità interno ai fini del concorso delle autonomie regionali e locali al rispetto degli obiettivi della finanza pubblica.
L’Ente locale, per poter procedere ad assunzioni di qualsiasi tipo (anche a tempo determinato), deve sia rispettare i vincoli del patto di stabilità, sia garantire che l’incidenza delle spese per il personale non sia superiore al 50% delle spese correnti, sia ridurre, in ogni caso, la complessiva spesa per il personale.
In particolare, per la verifica del rispetto di detta ultima condizione dovranno escludersi dal computo della spesa complessiva gli oneri sostenuti per il dipendente in comando (anticipati dal Comune e rimborsati dall’Ente utilizzatore), ma dovrà essere inclusa la spesa da sostenersi per l’unità di personale a tempo determinato.

La Sezione sottolinea, inoltre, che
compete all’Ente locale la puntuale e rigorosa verifica del rispetto in concreto dei limiti e vincoli statuiti dal legislatore. Evidenzia che, conseguentemente, restano ferme la piena e esclusiva discrezionalità dell’Ente nel procedere o meno all’assunzione in oggetto e le eventuali conseguenti responsabilità in capo ai dirigenti in caso di violazione di detti limiti e vincoli.
17. Pertanto, nel quadro normativo sopra delineato, ricorrendo i presupposti di cui al vigente art. 36 del D.Lgs. 165/2001, ove non sussistano le situazioni ostative all’assunzione di personale recate dall’art. 76, commi 4 e 7 del decreto legge 112/2008 convertito con legge 133/2008, e purché siano rispettati il dettato normativo di cui all’art. 1, comma 557, della legge 296/2006 e i principi fissati dall’art. 9, comma 28 del decreto legge 78/2010, convertito in legge 122/2010, la Sezione ritiene che un Comune sottoposto al patto di stabilità possa ricorrere ad assunzioni a tempo determinato per far fronte ad un temporaneo comando di un proprio dipendente.

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Con nota del 05.05.2014 il Presidente del Consiglio delle Autonomie Locali della Sardegna ha trasmesso alla Sezione regionale di controllo la deliberazione n. 16 del 17.04.2014 con la quale rimette alla Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge n. 131 del 2003, la richiesta di parere del Sindaco del Comune di Quartucciu in merito alla aderenza alla disciplina vincolistica in materia di assunzioni e di contenimento della spesa di personale di una assunzione a tempo determinato finalizzata alla sostituzione del dipendente in comando nell’ipotesi in cui detta assunzione rispetti i limiti di cui all’art. 9, comma 28, del DL 78/2010, il tetto di spesa di cui all’art. 1, comma 557, della legge 296/2006, e il limite di cui all’art. 76, comma 7, del DL 112/2008.
...
3. Il Comune di Quartucciu, che ha 12.947 abitanti ed è, pertanto, sottoposto ai vincoli del patto di stabilità, chiede se possa ritenersi rispettosa della generale disciplina vincolistica in materia di assunzioni e della normativa di contenimento della spesa di personale, un’assunzione a tempo determinato (ai sensi dell’art. 36 del D.Lgs. 165/2001) che sia finalizzata alla sostituzione di un dipendente in comando.
4. Preliminarmente si reputa opportuno introdurre alcuni cenni di inquadramento generale dell’istituto del comando. Il primo comma dell’art. 56 del Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, approvato con D.P.R. 10.01.1957, n. 3, prevede che “L'impiegato di ruolo può essere comandato a prestare servizio presso altra amministrazione statale o presso enti pubblici, esclusi quelli sottoposti alla vigilanza dell'amministrazione cui l'impiegato appartiene”; ... che “Il comando è disposto, per tempo determinato e in via eccezionale, per riconosciute esigenze di servizio o quando sia richiesta una speciale competenza”.
Per quanto concerne, in particolare, la pertinenza degli oneri per il trattamento economico del personale in questione, l’art. 57, comma 3, dello stesso DPR, dispone che “Alla spesa del personale comandato presso enti pubblici provvede direttamente ed a proprio carico l'ente presso cui detto personale va a prestare servizio. L'ente è, altresì, tenuto a versare all'amministrazione statale cui il personale stesso appartiene l'importo dei contributi e delle ritenute sul trattamento economico previsti dalla legge”.
Successivamente, il comma 12 dell’art. 70 del D.Lgs. n. 165 del 2001 (“Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”) ha statuito che “In tutti i casi, anche se previsti da normative speciali, nei quali enti pubblici territoriali, enti pubblici non economici o altre amministrazioni pubbliche, dotate di autonomia finanziaria sono tenute ad autorizzare la utilizzazione da parte di altre pubbliche amministrazioni di proprio personale, in posizione di comando, di fuori ruolo, o in altra analoga posizione, l'amministrazione che utilizza il personale rimborsa all'amministrazione di appartenenza l'onere relativo al trattamento fondamentale”.
5. Si consideri, in merito, che la giurisprudenza del Consiglio di Stato si è espressa nel senso che la posizione di comando del pubblico dipendente non determina la creazione di un nuovo rapporto di impiego, in sostituzione di quello precedente, ma semplicemente una modifica del solo rapporto di servizio, nel senso che le prestazioni di lavoro vengono fornite ad un'Amministrazione diversa da quella di appartenenza.
6. Si consideri, inoltre, che la Sezione delle Autonomie della Corte dei conti nelle linee guida ed i criteri cui devono attenersi, ai sensi dell'art. 1, comma 167, della legge 23.12.2005, n. 266 (finanziaria 2006) gli organi di revisione economico-finanziaria degli enti locali nella predisposizione delle relazioni sul bilancio di previsione e sul rendiconto dell'esercizio 2010 e nei i questionari allegati (in particolare nei questionari per le province e nei questionari per i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti) ha indicato espressamente, come componenti considerate ai fini della determinazione della spesa, ai sensi dell’art. 1 comma 557, della legge 27.12.2006, n. 296, le “somme rimborsate ad altre amministrazioni per il personale in posizione di comando”, e ha annoverato, invece, fra le componenti escluse, le “spese sostenute per il personale comandato presso altre amministrazioni per le quali è previsto il rimborso dalle amministrazioni utilizzatrici”.
7. Si richiama, infine, la circolare n. 9 del 17.02.2006 del Ministero dell’economia e delle finanze (che, ancorché riferita al triennio 2006-2008, è, in assenza di ulteriori provvedimenti, da ritenere tuttora operante), secondo la quale le spese sostenute dall’ente locale per il proprio personale comandato presso altre Amministrazioni e per le quali è previsto il rimborso da parte delle Amministrazioni utilizzatrici, vanno escluse dal computo ai fini della determinazione dei limiti consentiti sia per l’anno di riferimento (il 2004) che per gli esercizi interessati.
8. Per quanto concerne, invece, specificatamente la disciplina delle assunzioni di personale a tempo determinato, si richiama il disposto dell’art. 36 del decreto legislativo 165/2001 (novellato dall’art. 3, comma 79, della legge 24.12.2007, n. 244, successivamente sostituito con l’art. 49 del decreto legge 25.06.2008, n. 112, convertito con legge 06.08.2008, n. 133, e, infine, modificato con l’art. 4, comma 1 del decreto legge 31.08.2013, n. 101, convertito in legge 30.10.2013, n. 125) che, dopo aver affermato il principio che “le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato…..” prevede, “per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali” anche il ricorso a “forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal c.c. e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinati nell’impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti”.
La attuale formulazione della norma subordina, pertanto, il ricorso a tale tipologia di assunzioni alla sussistenza del duplice requisito della temporaneità e della eccezionalità dell’esigenza. Ai sensi dell’art. 36, comma 5-quater del decreto legislativo 165/2001 (introdotto dall’art. 4, comma 1, del decreto legge 31.08.2013, n. 101, convertito in legge 30.10.2013, n. 125) inoltre, “I contratti di lavoro a tempo determinato posti in essere in violazione del presente articolo sono nulli e determinano responsabilità erariale.”
9. Passando al merito del problema sottoposto all’attenzione della Sezione, deve premettersi che, sul piano concreto del provvedimento di comando oggetto del quesito, l’esame della Sezione, dovendo limitarsi agli aspetti generali ed astratti della questione, non può spingersi ad accertare se detto provvedimento di comando sia configurabile o meno in termini di atto dovuto ai sensi di specifiche normative (cfr. art. 17, comma 14, L. n. 127 del 1997) o se costituisca una scelta discrezionale dell’Ente, né a verificare quali siano state in concreto le ragioni portate dall’Ente a sostegno della scelta di autorizzare il comando.
Tuttavia, la Sezione non può non segnalare che l’operazione posta in essere, pur avendo un impatto finanziario neutro con riguardo all’Ente cedente, non è tale con riguardo all’insieme degli Enti sottoposti a vincoli di spesa per il personale e per le assunzioni, e che pertanto andrebbero sottoposte ad attenta valutazione di coerenza sia le ragioni della concessione dell’autorizzazione da parte dell’Ente cedente sia le sopravvenute necessità di sostituzione del dipendente ceduto.
10. Per quanto concerne in particolare l’ipotesi specifica di assunzione a tempo determinato finalizzata alla sostituzione del dipendente in comando presso altra pubblica Amministrazione, rappresentata dall’Ente richiedente, è imprescindibile che sia ravvisabile la presenza del duplice requisito della temporaneità e dell’eccezionalità dell’esigenza richiesto dal legislatore per il legittimo ricorso a tale tipologia di assunzioni.
11. E’ necessario, inoltre, che l’Ente locale verifichi in concreto che l’assunzione a tempo determinato rispetti sia gli obblighi di riduzione della spesa per il personale di cui all’art. 1, comma 557, della legge 296/2006, sia i principi di cui all’art. 9, comma 28, del DL 78/2010, convertito in legge 122/2010, sia i limiti di cui all’art. 76, comma 7, del DL 112/2008.
12. Per quanto riguarda specificatamente la riduzione della spesa per il personale degli enti sottoposti ai vincoli del patto di stabilità, l’art. 1, comma 557, della legge 27.12.2006, n. 296 (nel testo attualmente vigente a seguito delle modifiche introdotte dal comma 120 dell'art. 3, L. 24.12.2007, n. 244 e dal comma 1 dell’art. 76, D.L. 25.06.2008, n. 112 e poi così sostituito dal comma 7 dell’art. 14, D.L. 31.05.2010, n. 78, come modificato dalla relativa legge di conversione) dispone che “Ai fini del concorso delle autonomie regionali e locali al rispetto degli obiettivi di finanza pubblica, gli enti sottoposti al patto di stabilità interno assicurano la riduzione delle spese di personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell'IRAP, con esclusione degli oneri relativi ai rinnovi contrattuali, garantendo il contenimento della dinamica retributiva e occupazionale, con azioni da modulare nell'ambito della propria autonomia e rivolte, in termini di principio, ai seguenti ambiti prioritari di intervento: a) riduzione dell'incidenza percentuale delle spese di personale rispetto al complesso delle spese correnti, attraverso parziale reintegrazione dei cessati e contenimento della spesa per il lavoro flessibile; b) razionalizzazione e snellimento delle strutture burocratico-amministrative, anche attraverso accorpamenti di uffici con l'obiettivo di ridurre l'incidenza percentuale delle posizioni dirigenziali in organico; c) contenimento delle dinamiche di crescita della contrattazione integrativa, tenuto anche conto delle corrispondenti disposizioni dettate per le amministrazioni statali.”
13. Per quanto concerne specificatamente il ricorso a personale a tempo determinato, l’art. 9, comma 28, del DL 78/2010, convertito in legge 122/2010 (come modificato dalla legge di conversione 30.07.2010, n. 122, dall'art. 4, comma 102, lett. a) e b), L. 12.11.2011, n. 183, a decorrere dal 01.01.2012, dall'art. 4-ter, comma 12, D.L. 02.03.2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla L. 26.04.2012, n. 44, dall’ art. 9, comma 12, D.L. 28.06.2013, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 09.08.2013, n. 99, dall'art. 9, comma 8, D.L. 31.08.2013, n. 102, convertito, con modificazioni, dalla L. 28.10.2013, n. 124, e, successivamente, dall'art. 6, comma 3, D.L. 31.08.2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla L. 30.10.2013, n. 125) dispone che “A decorrere dall'anno 2011, le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, ... gli enti pubblici non economici, le università e gli enti pubblici di cui all'articolo 70, comma 4, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e successive modificazioni e integrazioni, ..., possono avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009. … Le disposizioni di cui al presente comma costituiscono principi generali ai fini del coordinamento della finanza pubblica ai quali si adeguano le regioni, le province autonome, gli enti locali e gli enti del Servizio sanitario nazionale. ...”.
14. Per quanto concerne, invece, i limiti alle assunzioni di personale, il comma 7 dell’art. 76 del decreto legge 25.06.2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla legge 06.08.2008, n. 133 (nel testo sostituito dall’art. 14, comma 9, del decreto legge 31.05.2010 n. 78, convertito in legge 30.07.2010, n. 122 e successivamente modificato dall'art. 1, comma 118, L. 13.12.2010, n. 220, a decorrere dal 01.01.2011, dall'art. 20, comma 9, D.L. 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla L. 15.07.2011, n. 111, dall'art. 28, comma 11-quater, D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla L. 22.12.2011, n. 214, dall'art. 4, comma 103, lett. a), L. 12.11.2011, n. 183, a decorrere dal 01.01.2012, dall'art. 4-ter, comma 10, D.L. 02.03.2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla L. 26.04.2012, n. 44, ed infine, dall'art. 1, comma 558, lett. a) e b), L. 27.12.2013, n. 147, a decorrere dal 01.01.2014) dispone che “E' fatto divieto agli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale è pari o superiore al 50 per cento delle spese correnti di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale; i restanti enti possono procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato nel limite del 40 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente. ...
Per gli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale è pari o inferiore al 35 per cento delle spese correnti sono ammesse, in deroga al limite del 40 per cento e comunque nel rispetto degli obiettivi del patto di stabilità interno e dei limiti di contenimento complessivi delle spese di personale, le assunzioni per turn-over che consentano l'esercizio delle funzioni fondamentali previste dall'articolo 21, comma 3, lettera b), della legge 05.05.2009, n. 42; in tal caso le disposizioni di cui al secondo periodo trovano applicazione solo in riferimento alle assunzioni del personale destinato allo svolgimento delle funzioni in materia di istruzione pubblica e del settore sociale
.”
Si segnala, in particolare, che la modifica introdotta al citato art. 76, comma 7, dal comma 103 dell’art. 4 della legge n. 183 del 2011, ha ristretto alle sole assunzioni “a tempo indeterminato” l’applicazione della parte della disposizione che consente agli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale è inferiore al 50 per cento delle spese correnti di procedere ad assunzioni di personale solo nel limite del 40 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente.
Pertanto, la citata normativa specifica non trova ad oggi applicazione con riferimento alle assunzioni a tempo determinato.
15. Con specifico riguardo al quesito proposto dal Comune, la Sezione rileva la necessità dell’integrale e rigoroso rispetto del complesso delle disposizioni, dei vincoli e dei “tetti di spesa” operanti, in forza del vigente ordinamento, in materia di personale, nei confronti degli enti sottoposti al patto di stabilità interno ai fini del concorso delle autonomie regionali e locali al rispetto degli obiettivi della finanza pubblica.
L’Ente locale, per poter procedere ad assunzioni di qualsiasi tipo (anche a tempo determinato), deve sia rispettare i vincoli del patto di stabilità, sia garantire che l’incidenza delle spese per il personale non sia superiore al 50% delle spese correnti, sia ridurre, in ogni caso, la complessiva spesa per il personale.
In particolare, per la verifica del rispetto di detta ultima condizione dovranno escludersi dal computo della spesa complessiva gli oneri sostenuti per il dipendente in comando (anticipati dal Comune e rimborsati dall’Ente utilizzatore), ma dovrà essere inclusa la spesa da sostenersi per l’unità di personale a tempo determinato.

16. La Sezione sottolinea, inoltre, che compete all’Ente locale la puntuale e rigorosa verifica del rispetto in concreto dei limiti e vincoli statuiti dal legislatore. Evidenzia che, conseguentemente, restano ferme la piena e esclusiva discrezionalità dell’Ente nel procedere o meno all’assunzione in oggetto e le eventuali conseguenti responsabilità in capo ai dirigenti in caso di violazione di detti limiti e vincoli.
17. Pertanto, nel quadro normativo sopra delineato, ricorrendo i presupposti di cui al vigente art. 36 del D.Lgs. 165/2001, ove non sussistano le situazioni ostative all’assunzione di personale recate dall’art. 76, commi 4 e 7 del decreto legge 112/2008 convertito con legge 133/2008, e purché siano rispettati il dettato normativo di cui all’art. 1, comma 557, della legge 296/2006 e i principi fissati dall’art. 9, comma 28 del decreto legge 78/2010, convertito in legge 122/2010, la Sezione ritiene che un Comune sottoposto al patto di stabilità possa ricorrere ad assunzioni a tempo determinato per far fronte ad un temporaneo comando di un proprio dipendente (Corte dei Conti, Sez. controllo Sardegna, parere 17.07.2014 n. 39).

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALIMini-Comune, no al segretario «dg». Corte conti Lombardia. Con 4.600 abitanti doppio incarico bollato come sperpero.
Va risarcito il Comune sotto i 15mila abitanti in cui il sindaco nomina a direttore generale il segretario comunale in assenza di specifiche esigenze locali e organizzative anche se il provvedimento, all'epoca del fatto, era consentito dalla legge e nel periodo considerato l'amministratore aveva lavorato ad atti di programmazione propri di tale figura gestionale ma facoltativi per i piccoli centri.
Lo ha stabilito la Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale per la Regione Lombardia, nella sentenza 27.06.2014 n. 122 in materia di responsabilità amministrativa.
Il Collegio, sulla base dei riscontri della Procura regionale su un caso denunciato al Comune di Carrobbio degli Angeli (Bergamo), ha condannato entrambi gli amministratori a risarcire a vario titolo l'accertato «sperpero di risorse pubbliche» (20.197,62 euro il totale delle indennità percepite) poiché la nomina è avvenuta in «dispregio delle più elementari regole di prudenza e di buona amministrazione» e con un «un compenso assolutamente spropositato in considerazione delle oggettive ridottissime dimensioni demografiche ed organizzative dell'ente».
Per la Corte, per un ente locale con circa 4.600 abitanti, un organico di 10 dipendenti e con un orario settimanale di 11 ore, la nomina del dg non era necessaria seppur prevista dalla legge all'epoca in vigore (comma 4, articolo 108, dlgs 267/2001 poi abrogato dal decreto legge 2/2010 e convertito in legge 42/2010), né era legittima se giustificata dal fatto che a tale figura era stata affidato il compito di preparare il Piano esecutivo di gestione, qui atto facoltativo e, secondo la Procura, solo abbozzato e mai adottato.
Secondo i giudici, le norme interne come lo statuto comunale e il Testo unico degli enti locali (articolo 97, comma 4, dlgs 267/2000) «non precludono al segretario comunale l'esercizio di poteri gestionali» e, in questo caso, anche la gestione delle aree «affari generali» e «servizi alla persona» proprie del segretario «non avrebbe comportato di per sé necessariamente alcun onere economico aggiuntivo per il Comune e quindi non specificamente soggette a remunerazione aggiuntiva sullo stipendio base»
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.07.2014 - articolo tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Se il Comune possa “effettuare assunzioni a tempo determinato in deroga al limite di spesa previsto dall’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78/2010 (riduzione del lavoro flessibile) ed all’obbligo di riduzione della spesa di personale (art. 1, comma 557, L. n. 296/2006) nei limiti delle somme che vengono trasferite dal Ministero della Giustizia a titolo di rimborso del trattamento economico e degli oneri riflessi dei dipendenti comandati”.
Le spese sostenute per le prestazioni lavorative del dipendente comandato sono da computarsi nella spesa per il personale ai sensi degli art. 1, comma 557, della L. n. 296/2006 per la determinazione della spesa massima consentita, con riferimento al “tetto di spesa” relativo all’anno precedente soltanto riguardo all’ente di destinazione e non per l’ente che concede il distacco, quale nella specie il Comune richiedente, rispetto a cui dette spese restano comunque escluse dal computo di cui all’art. 1, comma 557, della Legge 296/2006.
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Il Sindaco del Comune di Soriano nel Cimino (di 8.722 abitanti) ha formulato richiesta di parere riguardo a come debba interpretarsi il rispetto dei limiti alla spesa del personale di cui all’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78/2010 e all’art. 1, comma 557, della L. n. 296/2006, considerato che è in atto, nonostante le carenze di personale del Comune, la proroga ex art. 26 della L. n.468/1999 del comando di due dipendenti (uno di cat. D, pos. ec. D2 “Istruttore direttivo amministrativo” e l’altro di cat. C, pos. ec. C5 “Istruttore amministrativo”) presso l locale l’Ufficio del Giudice di pace.
Ciò premesso, il Sindaco ha, in particolare, richiesto se il Comune possa “effettuare assunzioni a tempo determinato in deroga al limite di spesa previsto dall’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78/2010 (riduzione del lavoro flessibile) ed all’obbligo di riduzione della spesa di personale (art. 1, comma 557, L. n. 296/2006) nei limiti delle somme che vengono trasferite dal Ministero della Giustizia a titolo di rimborso del trattamento economico e degli oneri riflessi dei dipendenti comandati.
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Quanto al quesito ermeneutico posto, l’art. 26 della L. n.468/1999 dispone, riguardo ai messi di conciliazione, al comma 4, che “Il personale dipendente comunale che opera ovvero che ha operato per almeno due anni presso gli uffici di conciliazione alla data di entrata in vigore della presente legge continua a prestare servizio, nella medesima posizione, presso l'ufficio del Giudice di pace esistente nel circondario, ed avente competenza anche per il comune già sede degli uffici di conciliazione soppressi”, sostanzialmente rendendo fisiologica la proroga del comando -presso l'ufficio del Giudice di pace- dei dipendenti comunali già comandati presso i vecchi uffici di conciliazione come messi, in presenza della richiesta del Presidente del tribunale (che abbia valutato come necessaria la proroga in considerazione delle esigenze organiche degli uffici giudiziari) e del consenso degli interessati.
Ai Comuni conseguentemente spetta il rimborso, da parte dell’Amministrazione della giustizia, delle somme erogate ai comandati a titolo di trattamento economico fondamentale, mentre il trattamento accessorio, compresa l’indennità di amministrazione, è direttamente erogato dalla P.A. presso cui i medesimi sono comandati.
L’art. 9, comma 28, DL 78/2010, come modificato dall’art. 4, comma 102, L. 183/2011, dall’art. 1, comma 6-bis, L. 14/2012 e dall’art. 4-ter, comma 12, L. 44/2012, prevede che “A decorrere dal 2011, le amministrazioni dello Stato anche ad ordinamento autonomo….possono avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009… A decorrere dal 2013 gli enti locali possono superare il predetto limite per le assunzioni strettamente necessarie a garantire l'esercizio delle funzioni di polizia locale, di istruzione pubblica e del settore sociale; resta fermo che comunque la spesa complessiva non può essere superiore alla spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2009.”.
Vero è, in linea generale, che l’istituto del comando non è da inquadrarsi tra le tipologie di assunzione di personale, costituendo una forma di mobilità di regola temporanea e che, quando ci si avvale di personale comandato, non si determina aumento di spesa di personale nell’ambito della pubblica amministrazione in generale e per l’Ente beneficiario del comando in particolare, trattandosi di un incarico temporaneo.
Nella specie, tuttavia, la questione è sollevata con riferimento alla spesa di personale non dell’Ente presso cui il comando è disposto, ma con riguardo a quella dell’Ente comandante.
La ratio della limitazione posta dall’articolo dall’art. 9, comma 28 citato, com’è noto, non è quella di ridurre il ricorso al comando o al distacco, che anzi incontrano il favor legis, in quanto garantiscono una più efficiente distribuzione del personale, con verosimili positive ricadute sui risultati della gestione amministrativa ed evitano un incremento della spesa pubblica globale, ma va identificata nella volontà di limitare la spesa connessa all’utilizzo delle forme di lavoro flessibile espressamente elencate che, al contrario di un comando o distacco, generano anche un incremento della spesa pubblica globale, oltre che della spesa di personale del singolo ente locale. Vi è però da operare un fondamentale distinguo.
In applicazione del principio di neutralità finanziaria, il Collegio ritiene che, per l’Ente utilizzatore la spesa relativa al personale in posizione di comando non possa essere assimilata ad una assunzione a tempo determinato e debba dunque essere esclusa dal computo della spesa del 2009, ai fin della applicazione della limitazione di cui all’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78 del 2010 (a condizione che la medesima spesa sia stata, come avviene di regola, figurativamente mantenuta dall’Ente cedente).
La spesa, per converso, figurativamente sostenuta dal Comune “comandante” nell’anno 2009, pur se non ne ha sopportato gli oneri sostanziali in quanto gli sono stati rimborsati dal Tribunale, deve essere considerata ai fini del calcolo del parametro stabilito dall’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78/2010.
Per cui il Comune richiedente può procedere a nuove assunzioni a tempo determinato soltanto se rispetta il limite del 50% di cui all’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78/2010, fatte salve ovviamente le eccezioni previste dalla norma stessa con effetto dal 2013, con riferimento alle assunzioni “strettamente necessarie a garantire l'esercizio delle funzioni di polizia locale, di istruzione pubblica e del settore sociale” e con le specificazioni previste dall’art.1, comma 6-bis del D.L. 2001 n.216, convertito dalla L. 24 febbraio 2012, n.14.
È opportuno, tuttavia, rammentare che le limitazioni del 50% della spesa 2009 per assunzioni flessibili previste dall’art. 9, comma 28, del D.L. 78/2010, s.m.i., peraltro, pur dove operanti, possono oggi essere modulate dall’ente locale -con regolamento- in considerazione delle sue ridotte dimensioni anche demografiche e delle correlate peculiarità operative (SS.RR. Del. n. 11/CONTR/12).
Il prevalente orientamento delle Sezioni di controllo della Corte dei conti, in sede consultiva ritiene, a proposito della diversa -ma analoga- questione della portata applicativa del divieto di assunzioni in caso di mancato rispetto del Patto di stabilità interno, che “perché possano essere ritenute neutrali (e, quindi, non assimilabili ad assunzioni/dimissioni), le operazioni di mobilità in uscita e in entrata devono intervenire tra enti entrambi sottoposti a vincoli di assunzioni e di spesa ed in regola con le prescrizioni del Patto di stabilità interno e rispettare gli obiettivi legislativi finalizzati alla riduzione della spesa e le disposizioni sulle dotazioni organiche” (SS.RR. Del. n. 59/CONTR/10).
Quanto al secondo profilo, giova rammentare che l’art. 1, comma 557, L. 296/2006, come riscritto dall’art. 14, comma 7, DL 78/2010, il quale dispone che: “...gli enti sottoposti al patto di stabilità interno assicurano la riduzione delle spese di personale,.. con azioni …rivolte…ai seguenti ambiti…:
a) riduzione dell'incidenza percentuale delle spese di personale rispetto al complesso delle spese correnti…;
b) razionalizzazione e snellimento delle strutture burocratico-amministrative…;
c) contenimento delle dinamiche di crescita della contrattazione integrativa...
” è stato interpretato da questa Corte nel senso che la riduzione della spesa per il personale deve essere progressiva e costante, a prescindere da criteri e parametri prefissati e deve essere operata con riferimento alla spesa di personale dell’anno immediatamente precedente, in un’ottica di responsabilizzazione ed autodeterminazione dell’ente (Corte conti, Sez. Autonomie, delibere n. 2 e n. 3/2010).
Ovviamente, a garanzia delle confrontabilità dei dati nei vari anni di riferimento, è necessario che la comparazione venga effettuata tra aggregati omogenei, con le medesime voci di inclusione ed esclusione (per l’individuazione delle componenti incluse nel calcolo della “spesa di personale”: Corte conti, Sez. Autonomie delib. n. 9/2010 recante le Linee Guida). Sempre in relazione all’interpretazione dell’art. 1, comma 557, L. 296/2006, si è rilevato che non sembra corretto definire la categoria contabile della “Spesa per il personale”, in termini puramente formali e nominalistici, riconducendo, cioè, ad essa qualsivoglia somma pagata al dipendente, ma occorre far riferimento “sia alla natura della specifica voce di spesa, sia all’impatto che può avere sulla gestione finanziaria dell’ente, nella richiamata prospettiva” (Sez. Autonomie n.16/2009).
Le Sezioni Riunite della Corte dei conti, con deliberazione n. 27/2011/CONTR, depositata in data 12 maggio 2011, hanno al riguardo precisato che “… l’accezione <<spesa di personale>>, tendenzialmente univoca, è suscettibile di diverse configurazioni (non a caso si parla di aggregato di <<spesa di personale>>) in ragione delle finalità perseguite dalle norme che di volta in volta vi fanno riferimento. Non si tratta naturalmente di figure ontologicamente diverse, ma di aggregazioni che possono essere suscettibili di diversa composizione”.
Le Sezioni Riunite hanno, quindi, posto in risalto la differenza tra l’aggregato da considerare ai fini del limite di cui al comma 557 della legge n. 296/2006, nel cui sistema applicativo “… si sono evidenziate anche alcune voci che non devono essere utilizzate ai fini del confronto, venendo escluse sia dall’aggregato relativo all’anno di riferimento che da quello nel quale viene verificato il rispetto dell’obiettivo di riduzione”) e quello rilevante nel rapporto tra la spesa corrente e la spesa del personale, rispetto a cui si tratta non di un obbligo di riduzione della spesa, ma di un vincolo di natura strutturale all’incremento della consistenza di personale, onde appare utile e maggiormente coerente, prendere in considerazione la spesa di personale nel suo complesso.
Ciò posto,
le spese sostenute per le prestazioni lavorative del dipendente comandato sono da computarsi nella spesa per il personale ai sensi degli art. 1, comma 557, della L. n. 296/2006 per la determinazione della spesa massima consentita, con riferimento al “tetto di spesa” relativo all’anno precedente soltanto riguardo all’ente di destinazione e non per l’ente che concede il distacco, quale nella specie il Comune richiedente, rispetto a cui dette spese restano comunque escluse dal computo di cui all’art. 1, comma 557, della Legge 296/2006 (Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio, parere 25.06.2014 n. 91).

LAVORI PUBBLICI: Sul risarcimento del danno per le colpevoli sospensioni dei lavori.
Deve rammentarsi che la disciplina generale sulle opere pubbliche recata dal R.D. n. 350 del 1895 affida all’ingegnere capo e al direttore dei lavori una molteplicità di attribuzioni volte a far sì che l’opera sia compiuta senza intralci, a perfetta regola d’arte e senza oneri aggiuntivi per la stazione appaltante.
Di particolare importanza, a tal fine, sono gli adempimenti che la legge affida ai tecnici dell’amministrazione nella fase antecedente all’indizione delle gare o all’apertura della trattativa privata (ove consentita), nonché al momento della consegna dei lavori alla ditta che dovrà eseguirli.
In particolare, l’art. 5, comma 1, prevede che, prima di bandire la gara per l’assegnazione dell’appalto o di aprire la trattativa privata, l’ingegnere capo deve provvedere, tramite il direttore dei lavori, alla «verificazione del progetto, in relazione al terreno, al tracciamento, al sottosuolo, alle cave, alle fornaci ed a quant’altro occorre per l’esecuzione dell’opera, affinché sia accertato che, all’atto della consegna, non si riscontreranno variazioni nelle condizioni di fatto sulle quali il progetto è basato o, riscontrandosene alcuna, si abbia tempo a prevenire l’apertura delle aste pubbliche o delle licitazioni, ovvero, quando trattasi di trattativa privata, la stipulazione del contratto, in base al progetto inesatto o non più esatto».
La finalità di tale disposizione è ovvia, mirando ad evitare che –salvo il caso di estrema urgenza ovvero quando «le condizioni del terreno sono naturalmente mutabili» (comma 3 dell’art. 5)– la mancata verificazione del progetto rispetto alla situazione oggettiva dei luoghi interessati non determini rallentamenti o sospensioni dei lavori, ovvero lievitazione dei costi per opere non previste.
Nello stesso senso milita l’art. 11, comma 1, del R.D. n. 350 del 1895, che obbliga l’ingegnere capo a sospendere la consegna dei lavori (salvo le ipotesi indicate nel comma 2) «qualora nonostante le disposizioni di cui al precedente art. 5, si riscontrassero all’atto della consegna delle differenze fra le condizioni locali ed il progetto …».
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Gli obblighi imposti all’ingegnere capo e al direttore dei lavori nella fase antecedente alla consegna dei lavori sono precipuamente finalizzati ad evitare che si verifichino le condizioni del ricorso alla sospensione dei lavori, che –è bene rammentarlo– è disciplinata dall’art. 16 del R.D. n. 350 del 1895 quale evenienza che appartiene alla patologia dell’esecuzione dell’opera, essendo autorizzabile «qualora circostanze speciali impediscano temporaneamente che i lavori procedano a regola d’arte».
Nella specie, se certamente sussistevano i presupposti per la sospensione dei lavori, va però rilevato che le «circostanze speciali» legittimanti la sospensione sono state provocate anche dalle gravi omissioni dell’appellante nell’esercizio delle funzioni di ingegnere capo e di direttore dei lavori.
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Le considerazioni fin qui svolte valgono, ovviamente, anche per la questione delle indagini geologiche, avendo queste determinato la sospensione dei lavori per non essere state effettuate –come dovuto– prima di dar corso all’appalto o, quanto meno, prima della consegna dei lavori.
E, comunque, in considerazione di quanto sostenuto dalla difesa, si deve precisare che all’appellante non si addebitano le spese sostenute per le indagini, ma il danno (pro quota) conseguente alle sospensioni dei lavori.

La Procura regionale per la Basilicata ha contestato all’ing. C. la somma di euro 64.446,98, pari alla metà del danno complessivo, ravvisando il pari contributo causale del progettista non chiamato in giudizio in quanto deceduto. La Sezione territoriale ha imputato al convenuto l’importo ridotto di euro 25.000,00 comprensivi della rivalutazione monetaria, ritenendo di dover equamente valorizzare -a scomputo della condanna– altri concorsi causali oltre che le oggettive difficoltà dell’appalto.
La sentenza merita condivisione, per le motivazioni di seguito indicate, sia per quanto concerne il nesso di causalità sia per l’affermata sussistenza della colpa grave.
Circa il nesso di causalità, si osserva che le sospensioni dei lavori –la prima delle quali prese inizio (12.10.1993) quando erano intercorsi appena due-tre mesi dalla consegna dei lavori (16.07.1993) e dal concreto inizio degli stessi (05.08.1993)– si resero necessarie per la sottovalutazione, in sede progettuale, delle problematiche derivanti dalla esistenza di alcuni manufatti del Consorzio di bonifica della Val d’Agri, che interferivano con una parte del tracciato originario della strada. Si tratta, con ogni evidenza, come del resto dedotto dallo stesso appellante, di problematiche che dovevano essere prese in considerazione dal progettista, il quale -nella elaborazione del progetto esecutivo- avrebbe dovuto prevedere nel dettaglio, affinché fossero immediatamente eseguibili, le lavorazioni che si rendevano necessarie proprio in ragione della interferenza tra l’opera da realizzare e i manufatti esistenti.
Sennonché, dalla documentazione in atti (vedi deliberazione del Consiglio comunale n. 6 del 20.03.1991 e allegata relazione tecnica) risulta che il progettista aveva indicato tra le somme a disposizione gli importi previsti per «indagini geologiche» e «spostamento condotte irrigue», senza che a ciò corrispondesse la previsione delle opere da realizzare per tale spostamento e, soprattutto, rinviando alcune indagini geologiche alla fase dell’esecuzione dei lavori.
Da quanto fin qui evidenziato non discende, peraltro, che le sospensioni (e il conseguente risarcimento del danno riconosciuto all’impresa appaltatrice dal Collegio arbitrale) siano imputabili esclusivamente al progettista, dovendo invece affermarsi che l’appellante –prima, quale responsabile dell’Ufficio tecnico e ingegnere capo e, poi, quale direttore dei lavori- aveva l’obbligo giuridico e la concreta possibilità di evitare che l’appalto incorresse in quelle sospensioni.
Deve, in primo luogo, rammentarsi che la disciplina generale sulle opere pubbliche recata dal R.D. n. 350 del 1895 affida all’ingegnere capo e al direttore dei lavori una molteplicità di attribuzioni volte a far sì che l’opera sia compiuta senza intralci, a perfetta regola d’arte e senza oneri aggiuntivi per la stazione appaltante. Di particolare importanza, a tal fine, sono gli adempimenti che la legge affida ai tecnici dell’amministrazione nella fase antecedente all’indizione delle gare o all’apertura della trattativa privata (ove consentita), nonché al momento della consegna dei lavori alla ditta che dovrà eseguirli.
In particolare, l’art. 5, comma 1, prevede che, prima di bandire la gara per l’assegnazione dell’appalto o di aprire la trattativa privata, l’ingegnere capo deve provvedere, tramite il direttore dei lavori, alla «verificazione del progetto, in relazione al terreno, al tracciamento, al sottosuolo, alle cave, alle fornaci ed a quant’altro occorre per l’esecuzione dell’opera, affinché sia accertato che, all’atto della consegna, non si riscontreranno variazioni nelle condizioni di fatto sulle quali il progetto è basato o, riscontrandosene alcuna, si abbia tempo a prevenire l’apertura delle aste pubbliche o delle licitazioni, ovvero, quando trattasi di trattativa privata, la stipulazione del contratto, in base al progetto inesatto o non più esatto».
La finalità di tale disposizione è ovvia, mirando ad evitare che –salvo il caso di estrema urgenza ovvero quando «le condizioni del terreno sono naturalmente mutabili» (comma 3 dell’art. 5)– la mancata verificazione del progetto rispetto alla situazione oggettiva dei luoghi interessati non determini rallentamenti o sospensioni dei lavori, ovvero lievitazione dei costi per opere non previste.
Nello stesso senso milita l’art. 11, comma 1, del R.D. n. 350 del 1895, che obbliga l’ingegnere capo a sospendere la consegna dei lavori (salvo le ipotesi indicate nel comma 2) «qualora nonostante le disposizioni di cui al precedente art. 5, si riscontrassero all’atto della consegna delle differenze fra le condizioni locali ed il progetto …».
Sennonché, emerge dagli atti che l’appellante non ha operato nel rispetto delle fondamentali disposizioni sopra richiamate.
Va, al riguardo, rilevato che, se è vero –come questi sostiene– che il progetto venne approvato con deliberazione del Consiglio comunale dell’08.03.1989 senza il parere dell’Ufficio tecnico, è però altrettanto vero che quella deliberazione venne adottata al fine di sottoporre il progetto alla valutazione della Regione. A tale deliberazione seguì quella del 20.03.1991, con la quale il Consiglio comunale pervenne ad una nuova approvazione che si era resa necessaria –come risulta dal preambolo della deliberazione n. 6 del 1991- dalla circostanza che il progetto era stato rielaborato per tener conto dell’aumento dell’importo finanziato.
Orbene, risulta pacificamente dagli atti che il progetto rielaborato è stato approvato dal Consiglio comunale di Marsicovetere con deliberazione n. 6 del 1991 adottata previo parere favorevole, espresso in data 15.11.1990, dall’Ufficio tecnico nella persona del responsabile dell’Ufficio, ing. C.. Peraltro, l’ing. C. –nell’esaminare il progetto e i relativi allegati– espresse parere favorevole senza evidenziare, come avrebbe dovuto quale responsabile dell’Ufficio tecnico e, quindi, svolgendo le funzioni di ingegnere capo, che il progetto si presentava carente per l’omessa indicazione delle opere da eseguire in ragione della interferenza con i manufatti del Consorzio di bonifica e in quanto rinviava alla fase dell’esecuzione dei lavori le indagini geologiche connesse con tali (non specificate) opere.
Quindi, su quello stesso progetto approvato nel 1991 venne indetta la licitazione privata nel luglio del 1993, senza che si provvedesse alla previa verificazione imposta dall’art. 5, comma 1, del R.D. n. 350 del 1895; inoltre, la consegna dei lavori venne effettuata il 16.07.1993, senza che –neppure in quell’occasione– si prendesse atto «delle differenze fra le condizioni locali ed il progetto» ai fini di quanto prescritto dall’art. 11 dello stesso R.D. n. 350 del 1895.
Le circostanze sopra evidenziate –oltre ad indicare la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta dell’appellante e il danno subito dall’ente locale– valgono anche a connotare la condotta in termini di gravità, emergendo dagli atti di causa una significativa divergenza tra la condotta esigibile al professionista rispetto a quella in concreta tenuta.
Innanzitutto, non può dirsi –come ventilato dall’appellante- che l’interferenza tra la nuova opera e i manufatti del sistema irriguo fosse percepibile solo dal progettista, che aveva redatto anche il progetto per le opere del “Peschiera”.
Al riguardo, è sufficiente richiamare quanto evidenziato dallo stesso ing. C. nella nota diretta al Sindaco in data 16.11.1993 (prot. n. 2263), laddove è detto: «nel quadro economico relativo al progetto “esecutivo” approvato con delibera Consiglio Comunale n. 6 del 20/03/1991 … è prevista la somma di L. 30.000.000 genericamente riferita allo spostamento di condotte irrigue e ciò tra le somme a disposizione dell’Amministrazione. Tale lavoro non trova riscontro in nessun elaborato di progetto e pertanto va inteso a forfait senza alcun riferimento specifico al tipo di intervento da eseguire. Dai rilievi di consegna dell’impresa esecutrice, in contraddittorio con la Direzione dei Lavori, si è evidenziata l’esistenza di un insieme di tubazioni irrigue, in esercizio, di vario diametro … appartenenti al sistema irriguo “Peschiera”, che interessano parallelamente il tracciato della costruenda strada e in particolare le opere di fondazione del viadotto da realizzarsi. Per lo spostamento di tali condotte (vedi elaborati approvati dal Consorzio di Bonifica Alta Val D’Agri) nonché per gli interventi complementari e necessari, occorre una spesa presunta a preventivo di L. 202.995.238 …».
In sostanza, l’ing. C. ha rilevato solo dopo aver effettuato la consegna dei lavori quello che era doverosamente e agevolmente rilevabile prima che il progetto venisse approvato e avviato all’esecuzione e, cioè, che: il progetto non poteva qualificarsi come “esecutivo” in quanto lo spostamento delle condotte irrigue non trovava riscontro in nessun elaborato (tanto che i costi erano stati indicati a forfait solo tra le somme a disposizione); l’esistenza di condotte irrigue risultava dallo stesso progetto, ove si prevedeva (sia pur genericamente) lo «spostamento» delle stesse.
In ogni caso, anche ammesso che il percorso delle condotte non fosse agevolmente rilevabile nella sua interezza, l’esistenza di «un insieme di tubazioni irrigue» è stata riscontrata -come risulta dalla già menzionata nota del 16.11.1993 e dalla precedente informativa del 12.10.1993– durante le operazioni propedeutiche alla consegna dei lavori e in contraddittorio tra l’impresa e il direttore dei lavori. Sennonché, l’ing. C. (che ha cumulato le funzioni di ingegnere capo e di direttore dei lavori) non ha provveduto –come imposto dall’art. 11, comma 1, del R.D. n. 350 del 1895– a sospendere la consegna dei lavori, ma ha dato corso alla consegna senza considerare le conseguenze che ne sarebbero attendibilmente derivate. E, infatti, la consegna dei lavori -disposta nonostante le riscontrate «differenze fra le condizioni locali ed il progetto»- ha determinato la pressoché immediata necessità di sospendere i lavori per effettuare le indagini geognostiche omesse in sede progettuale e per elaborare varianti al progetto.
Tanto quanto fin qui chiarito, non si vede come possa disconoscersi la sussistenza di una colpevolezza grave, dovendosi rilevare che gli obblighi imposti all’ingegnere capo e al direttore dei lavori nella fase antecedente alla consegna dei lavori sono precipuamente finalizzati ad evitare che si verifichino le condizioni del ricorso alla sospensione dei lavori, che –è bene rammentarlo– è disciplinata dall’art. 16 del R.D. n. 350 del 1895 quale evenienza che appartiene alla patologia dell’esecuzione dell’opera, essendo autorizzabile «qualora circostanze speciali impediscano temporaneamente che i lavori procedano a regola d’arte». Nella specie, se certamente sussistevano i presupposti per la sospensione dei lavori, va però rilevato che le «circostanze speciali» legittimanti la sospensione sono state provocate anche dalle gravi omissioni dell’appellante nell’esercizio delle funzioni di ingegnere capo e di direttore dei lavori.
Le considerazioni fin qui svolte valgono, ovviamente, anche per la questione delle indagini geologiche, avendo queste determinato la sospensione dei lavori per non essere state effettuate –come dovuto– prima di dar corso all’appalto o, quanto meno, prima della consegna dei lavori. E, comunque, in considerazione di quanto sostenuto dalla difesa, si deve precisare che all’appellante non si addebitano le spese sostenute per le indagini, ma il danno (pro quota) conseguente alle sospensioni; in ogni caso, deve evidenziarsi che i primi giudici –nel mitigare congruamente l’addebito (da euro 64.446,98 oltre rivalutazione monetaria ad euro 25.000,00 comprensivi di rivalutazione)– hanno tenuto conto del fatto che i ritardi sono in parte dipesi dalle «carenze tecniche professionali riscontrate a carico della ditta» incaricata delle indagini geologiche.
3. In definitiva, per tutte le ragioni sopra evidenziate, l’appello va respinto, con conseguente integrale conferma della sentenza impugnata (Corte dei Conti, Sez. II giurisdiz. centrale d'appello, sentenza 10.06.2014 n. 397).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Per la nuova Via progettazione su un solo livello.
Oltre a introdurre una specifica procedura di bonifica semplificata, il decreto legge 91/2014 contiene ulteriori novità o modifiche delle disposizioni di tutela in materia ambientale.

Le più importanti sono le modifiche che il decreto «Competitività e ambiente» introduce in materia di Via (valutazione di impatto ambientale): le definizioni di progetto preliminare e definitivo sono sostituite da un'unica definizione di progetto ancorata ai livelli di progettazione disciplinati dal Codice sugli appalti pubblici.
Rispetto alla procedura di verifica, viene stabilito che i criteri di individuazione delle soglie dei progetti da sottoporre a tale procedura di screening saranno stabiliti con decreto ministeriale.
Infine, vengono apportate integrazioni ai sistemi di pubblicazione dei decreti Via e delle altre informazioni che devono essere messe a disposizione del pubblico, prevedendo anche la pubblicazione via web.
Un'altra modifica apportata all'articolo 216 del Dlgs 152/2006 (procedure di autorizzazione di impianti di gestione rifiuti) è volta a sottoporre le attività di trattamento degli aggregati, dei rifiuti di carta e di vetro, dei metalli, dei pneumatici e dei rifiuti tessili alle procedure semplificate di cui all'articolo 214 del medesimo decreto legislativo, ferma restando l'osservanza dei criteri e requisiti stabiliti a livello comunitario.
Questa previsione, dunque, comporta una semplificazione anche rispetto alla gestione di alcuni specifici rifiuti.
Vengono inoltre sottratte alla disciplina del testo unico ambientale le procedure per la gestione di rifiuti prodotti dai sistemi di difesa nazionale, i quali saranno sottoposti a una specifica disciplina definita di concerto dai ministeri competenti.
È poi il turno della bonifica delle aree militari, rispetto alle quali viene previsto l'inserimento di una norma ad hoc (articolo 241-bis) nel Codice ambientale. La norma prevede che per i siti esclusivamente destinati alla Difesa le Csc (concentrazione soglie di contaminazione) di riferimento sono quelle per i siti industriali e commerciali.
In caso di superamento di queste soglie, gli obiettivi di bonifica dovranno essere comunque stabiliti mediante specifica analisi di rischio che tenga anche conto del rischio per le aree limitrofe.
L'articolo 241-bis, dunque, prevede che in caso di declassamento del sito militare a destinazione residenziale, le soglie di riferimento dovranno essere quelle previste per tale destinazione (tabella 1, colonna A).
Inoltre, l'Istituto Superiore della Sanità dovrà definire sulla base delle informazioni che verranno fornite dal ministero della Difesa, le soglie di contaminazione di sostanze utilizzate per specifiche attività militari, che non sono considerate dalle normali tabelle di riferimento
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Bonifiche in tempi ridotti. Il Dl 91/2014 semplifica la procedura per il proprietario dell'area. Risanamento. La Conferenza di servizi deve approvare il piano presentato dal privato entro 90 giorni.
Bonifiche più veloci e più semplici.
Questo l'obiettivo del decreto legge «competitività e ambiente» in vigore dal 24 giugno scorso. Il Dl 91/2014 integra, infatti, il Dlgs 152/2006 con un nuovo articolo (articolo 242-bis) dedicato espressamente alla procedure semplificate di bonifica e messa in sicurezza dei siti contaminati.
La novità più rilevante riguarda sicuramente l'inversione degli schemi procedurali ordinari. In caso di bonifica di un sito contaminato, il soggetto interessato, volendo procedere in modo celere al recupero ambientale della propria area, potrà direttamente presentare agli enti un progetto di intervento volto a raggiungere i valori tabellari di legge (Csc) riferiti alla specifica destinazione d'uso del sito.
Non sarà più necessario, quindi, «caratterizzare» preliminarmente il sito sotto il controllo delle autorità, ma l'operatore potrà raccogliere in modo autonomo e sotto la propria responsabilità tutte le informazioni necessarie per predisporre il progetto di bonifica (anche mediante indagini private).
La «caratterizzazione» del sito in contraddittorio con l'Arpa, invece, sarà eseguita solo dopo il completamento dell'intervento per verificare il raggiungimento degli obiettivi. La validazione della stessa Arpa, dunque, costituirà certificazione di avvenuta bonifica.
Se gli obiettivi non vengono raggiunti, l'operatore dovrà integrare il progetto eseguito, il quale, tuttavia, verrà istruito secondo le procedure ordinarie, uscendo così dalla procedura semplificata.
Sarà quindi interesse degli operatori privati raccogliere ogni informazione utile al fine di progettare interventi efficaci e completi, così da evitare contaminazioni residuali e un allungamento della bonifica dell'area.
La nuova disposizione, inoltre, impone specifici termini entro cui deve essere svolta la procedura. La Regione (o i Comuni delegati a loro favore) dovrà convocare la conferenza di servizi per valutare il progetto di bonifica entro 30 giorni dalla sua ricezione e il progetto dovrà essere approvato nei successivi 90 giorni.
I lavori di bonifica autorizzati dovranno, quindi, essere completati entro dodici mesi da parte dell'operatore (salva la possibilità di proroga per ulteriori sei mesi). Decorso il termine, si perde il beneficio della procedura semplificata e si torna a quella ordinaria. Questo passaggio potrebbe comportare non pochi problemi di coordinamento, in quanto i lavori di bonifica potrebbero essere in corso.
Per quanto riguarda la caratterizzazione ex post, il nuovo articolo 242-bis prevede l'approvazione del relativo piano entro 45 giorni (è prevista in via sperimentale anche l'applicazione del silenzio assenso per i procedimenti avviati prima del 31.12.2017) e la validazione dei risultati dovrà essere rilasciata dall'Arpa entro 45 giorni dalla conclusione delle indagini.
La procedura semplificata si applica sia ai siti normali, che ai siti di interesse nazionale gestiti dal ministero dell'Ambiente.
La nuova previsione normativa è sicuramente interessante in quanto permette – almeno sulla carta – di avviare l'intervento di bonifica dopo 120 giorni dalla sua programmazione e di concludere formalmente la procedura con una ulteriore indagine la cui approvazione complessivamente non può durare più di 90 giorni.
Considerati anche i termini entro cui il privato deve completare l'intervento (dodici mesi), l'aspettativa concreta è che la bonifica di un sito contaminato possa essere completata entro 24 mesi. Un termine sicuramente ragionevole se si considera che, secondo la procedura ordinaria, soltanto l'approvazione del progetto di bonifica può richiedere 20 mesi dalla scoperta della contaminazione.
Il successo della semplificazione dipende dagli enti, i cui ritardi burocratici potrebbero vanificare l'intervento legislativo.
La procedura semplificata sembrerebbe essere ammessa solo a favore del soggetto non responsabile della contaminazione che voglia sostenere volontariamente i costi della bonifica e che si impegni a raggiungere come obiettivi le Csc, rinunciando così ad applicare l'analisi di rischio, strumento che in molti casi può rappresentare un valido aiuto per rendere sostenibili i costi dell'intervento
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2014).

LAVORI PUBBLICICig e dati sulle varianti fermano ancora i lavori. Appalti. Correttivi da approvare per far ripartire il sistema.
Tutte le amministrazioni che gestiscono appalti di lavori pubblici (comprese le società partecipate) devono trasmettere gli atti sulle varianti in corso d'opera all'autorità anticorruzione entro trenta giorni dalla loro approvazione.
La disposizione prevista dal l'articolo 37 del Dl 90/2014 presenta molti profili problematici nella sua applicazione, rispetto ai quali è parzialmente intervenuto a chiarimento il
comunicato del presidente 16.07.2014 dell'Anac.
Il nuovo dato normativo circoscrive le tipologie di varianti per cui è previsto l'obbligo di trasmissione dei documenti a quelle determinate da cause impreviste e imprevedibili, da eventi inerenti la natura dei beni verificatisi in corso di esecuzione o da rinvenimenti imprevisti, nonché a quelle che derivano da cause geologiche o idriche, quando rendano più onerosa la prestazione dell'appaltatore.
Rispetto a queste tipologie, tuttavia, l'articolo 37 non individua alcuna soglia di valore, per cui enti locali e società devono trasmettere la documentazione relativa anche a varianti di importo modesto.
In base alla disposizione non rientrano nell'obbligo le varianti derivanti da innovazioni normative e quelle conseguenti a errori progettuali. Lo spartiacque temporale è individuato nel 25 giugno (entrata in vigore del decreto): le varianti approvate a partire da quella data sono assoggettate all'obbligo, mentre ne restano escluse quelle approvate prima.
Per semplificare l'adempimento, l'Anac ha precisato che nella documentazione da inviare vanno ricompresi il provvedimento di approvazione, l'atto di validazione, la relazione del Rup e il quadro comparativo di variante, anche se le stazioni appaltanti devono essere disponibili (su richiesta) a fornire ogni altro documento progettuale utile.
Le stazioni appaltanti possono inviare i documenti mediante posta elettronica certificata, ma anche per posta ordinaria, dovendo tuttavia specificare nel l'oggetto che si tratta della comunicazione prevista dall'articolo 37 e dovendo indicare il codice identificativo gara.
Proprio in relazione al Cig, il presidente dell'Anac ha informato il governo dell'impossibilità, per l'autorità, di dar corso all'intesa approvata in Conferenza unificata sulla "sospensione" del diniego del codice ai Comuni non capoluogo che procedano ad acquisizioni di lavori, servizi o forniture in forma autonoma, senza avvalersi di uno dei modelli obbligatori previsti dal nuovo comma 3-bis dell'articolo 33 del Codice dei contratti, riformulato dal Dl 66/2014 al fine di sostenere procedure aggregate.
L'Autorità evidenzia, infatti, la valenza dell'obbligo normativo e l'impossibilità di sottrarsi allo stesso, sino a quando la disposizione non sarà cambiata con un intervento legislativo
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

TRIBUTI: Ici-Imu, l'accorpamento esenta. Imposte non dovute su aree e fabbricati con unica rendita. La pronuncia della Cassazione: si può parlare di pertinenza solo nel caso di separazione.
Un'area edificabile accorpata al fabbricato non può essere assoggettata a imposizione autonomamente. I due immobili hanno un'unica rendita catastale. La rendita, infatti, costituisce l'unico parametro per determinare la base imponibile. In questi casi non può essere preso a base di calcolo il valore di mercato dell'area, ancorché la stessa abbia un'autonoma capacità edificatoria e possa essere in qualsiasi momento scorporata e ceduta.

È quanto ha affermato la Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 10176/2014.
Secondo la Cassazione, dunque, non è soggetta al pagamento dell'Ici un'area edificabile accorpata a un fabbricato destinato ad attività commerciale, ancorché il titolare non abbia mai dichiarato al comune la sua natura pertinenziale. E non importa che l'area accatastata nella stessa partita urbana del fabbricato potrebbe essere in qualsiasi momento scorporata e ceduta come bene distinto rispetto al fabbricato.
I giudici di legittimità hanno ritenuto infondate le contestazioni formulate dal comune di Arezzo in ordine al fatto che il contribuente per non essere assoggettato al pagamento dell'imposta avrebbe dovuto dichiarare l'area come pertinenza del fabbricato. Per i giudici di legittimità, infatti, il soggetto accertato non aveva alcun obbligo di presentare la dichiarazione «perché la declaratoria di pertinenzialità rileva per escludere l'assoggettamento all'Ici di un'area edificabile accatastata autonomamente, mentre l'area per cui qui si discute è priva di autonomo accatastamento ed è compresa in una particella regolarmente accatastata e munita di rendita».
Come chiarito dalla Suprema corte, si può parlare di pertinenza solo nel caso in cui l'area sia separata dal fabbricato. La «graffatura» catastale tra i due beni esclude qualsiasi rapporto pertinenziale.
La dichiarazione del contribuente. Sussiste, invece, un contrasto giurisprudenziale sugli adempimenti che deve porre in essere il contribuente per ottenere l'esonero dal pagamento per le aree che possono essere qualificate pertinenziali. In particolare, emerge che le posizioni della giurisprudenza di merito non sono in linea con quanto sostenuto dalla Cassazione sulla necessità che il contribuente dichiari al comune la destinazione pertinenziale dell'area al servizio del fabbricato.
Per alcuni giudici di merito le aree edificabili non sono autonomamente soggette al pagamento dell'Ici, e quindi anche dell'Imu e della Tasi, se sono pertinenze dei fabbricati, anche se il contribuente non ha indicato questa destinazione nella dichiarazione. Per esempio, la Commissione tributaria regionale di Roma (sentenza 163/2013) è andata oltre quanto sostenuto dalla Cassazione, perché ha riconosciuto l'intassabilità del bene anche nel caso in cui il contribuente non abbia esposto nella dichiarazione la natura pertinenziale dell'area.
Ha però precisato che il titolare dell'immobile non è tenuto a pagare l'imposta comunale su un'area edificabile che sia pertinenza di un fabbricato, anche se non lo ha indicato nella dichiarazione, purché invii una comunicazione all'ente con lettera raccomandata con la quale lo informi della destinazione del bene, prima che venga emanato l'atto di accertamento. Naturalmente, è richiesto che il rapporto pertinenziale emerga dallo stato dei luoghi.
Nello specifico, l'esistenza di un pozzo artesiano sul terreno dal quale è possibile attingere l'acqua dal fabbricato oppure un marciapiede o un cornicione ubicati oltre la linea di confine del manufatto. In senso opposto sulla questione si è espressa la sezione tributaria della Corte di cassazione (sentenza 19638/2009), che ha riconosciuto il beneficio solo nei casi in cui il contribuente dichiari al comune l'utilizzo dell'immobile come pertinenza nella denuncia iniziale o di variazione.
I giudici di legittimità, tra l'altro, per eliminare il contenzioso che dura da anni sull'assoggettamento a Ici delle aree o giardini pertinenziali, hanno modellato l'articolo 2 del decreto legislativo 504/1992 che dà la definizione di pertinenza. Mentre questa norma si limita a stabilire che è parte integrante del fabbricato l'area occupata dalla costruzione e quella che ne costituisce pertinenza, la Cassazione va oltre e, dando una chiave di lettura «di conio giurisprudenziale», ha aggiunto che per non essere assoggettata a imposizione occorre un'apposita denuncia del contribuente sull'uso dell'area nel momento in cui avviene la destinazione.
Dal punto di vista fiscale, poi, è irrilevante la circostanza che un'area pertinenziale e una costruzione principale siano censite catastalmente in modo distinto, al fine di poter essere assoggettate a tassazione come un unico bene o di usufruire delle agevolazioni. Come precisato dalla commissione regionale, però, il vincolo pertinenziale deve essere visibile e va rilevato dallo stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che in catasto l'area e il fabbricato non risultino accorpati. In caso contrario, i due immobili sono soggetti a imposizione autonomamente.
Le stesse regole valgono per l'Imu e, da quest'anno, anche per la Tasi. Anche per questi tributi vengono richiamate le disposizioni contenute negli articoli 2 e 5 del decreto legislativo 504/1992. Sia per quanto riguarda la qualificazione dell'oggetto d'imposta sia per la determinazione dell'imponibile occorre fare riferimento alla normativa Ici. Per definire gli aspetti controversi della nozione di area edificabile, il legislatore è intervenuto due volte con norme di interpretazione autentica.
L'imposta è dovuta se l'area è inserita in un piano regolatore generale adottato dal consiglio comunale, ma non approvato dalla Regione. L'articolo 36, comma 2 del decreto-legge legge 223/2006 ha stabilito che un'area sia da considerare fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale deliberato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi.
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La Suprema corte: conta la destinazione.
La Cassazione (sentenza 5755/2005) ha da tempo affermato che per la pertinenza di un fabbricato non contano le risultanze catastali, ma la destinazione di fatto. Il terreno che costituisce pertinenza di un fabbricato non è soggetto a Ici e Imu come area edificabile, anche se iscritto autonomamente al catasto. Questo principio, ribadito più volte con altre pronunce, vale anche per la Tasi.
Per le aree edificabili, dunque, non si introduce alcuna particolare e nuova accezione di pertinenza ai fini Ici ma, semplicemente, se ne presuppone il significato, in quanto va fatto riferimento alla definizione fornita, in via generale, dall'articolo 817 del codice civile. Questa norma prevede che sono da considerare pertinenze le cose destinate in modo durevole al servizio o all'ornamento di un'altra cosa. Pertanto, per il vincolo pertinenziale serve sia la durevole destinazione della cosa accessoria a servizio o ornamento di quella principale, sia la volontà dell'avente diritto di creare la destinazione. Accertare la sussistenza di questo vincolo comporta un apprezzamento di fatto.
L'imposta comunale non può essere richiesta per l'assenza di accorpamento (cosiddetta «graffatura») dell'area al contiguo fabbricato, ancorché costituenti unità catastali separate. L'autonomo accatastamento non rende irrilevante l'uso di fatto del terreno come pertinenza. Tanto meno rileva la presenza o meno di segni grafici, che sono inconsistenti sul piano probatorio. Tuttavia, nonostante vengano ribaditi questi principi e la rilevanza della destinazione «di fatto» di un bene come pertinenza, non ci si può sottrarre all'obbligo di denuncia ogni volta che nella situazione possessoria del contribuente s'introduca una modificazione. Se l'interessato non ha affermato la sua pertinenzialità in via di specialità, vuol dire che ha voluto lasciare il bene nella sua condizione di area fabbricabile.
Qualora il contribuente voglia fruire dell'intassabilità dell'area, è tenuto a comunicare all'ente che è destinata a pertinenza del fabbricato sia nella denuncia originaria sia, qualora abbia omesso questa indicazione, in una successiva dichiarazione di variazione, che può essere presentata in qualsiasi momento (articolo ItaliaOggi Sette del 21.07.2014).

ENTI LOCALI - VARIPec, c'è obbligo con distinzioni. Esclusi i consorzi, le società in fallimento e le unità estere. Le indicazioni del Mise in merito alla comunicazione della Posta elettronica certificata.
Sono chiamate a dotarsi e a comunicare la Pec, la Posta elettronica certificata, al registro delle imprese le società di capitali, di persone (incluse le società semplici), le imprese individuali, le cooperative, le società in concordato preventivo e in quello liquidatorio. Anche le società estere con sede secondaria o unità locale in Italia hanno l'obbligo di attivare e comunicare l'indirizzo Pec al registro imprese. Sono esclusi dalla comunicazione Pec i consorzi, le società in fallimento e l'unità locali di imprese estere (che non abbiano una rappresentanza stabile in Italia) in quanto non iscritte nel registro delle imprese. L'impresa deve comunicare un solo indirizzo Pec presso il registro imprese della sede legale a prescindere dalle sedi secondarie e unità locali di cui dispone. La comunicazione della Pec al registro delle imprese va effettuata con la comunicazione unica ed è esente da diritti di segreteria e imposta di bollo.
Questo è quanto si legge nelle note di prassi (circ. 23.06.2014 n. 3670, circ. del 09.05.2014 n. 77684 e circ. del 15.01.2014 n. 6391) redatte dal Mise, direzione generale per il mercato e la concorrenza - divisione XXI - registro imprese (diretta da Gianfrancesco Vecchio).
La casella di Pec rappresenta il domicilio elettronico presso il quale la società o l'imprenditore, in forza di una presunzione legale, sono sempre raggiungibili (per legge, un messaggio di Pec si dà per notificato al momento della semplice consegna del plico informatico al server di posta del destinatario, e non al momento della effettiva apertura dello stesso), e che la sua iscrizione e successiva modificazione sono adempimenti che solo il legale rappresentante della società può validamente eseguire.
Le variazioni dell'indirizzo Pec dell'impresa devono essere comunicate al registro imprese in quanto l'indirizzo che compare sulla visura e nei certificato sia valido e attivo. La comunicazione di variazione è gratuita e va effettuata per via telematica. Nel caso in cui la comunicazione del proprio indirizzo di posta elettronica dovesse esser accompagnata anche dall'iscrizione di altri atti o fatti (per esempio nomina amministratori e trasferimento di sede legale) la domanda sarà soggetta all'imposta di bollo e ai diritti di segreteria dovuti per il corrispondente adempimento.
Impresa individuale e Pec. L'ufficio del registro delle imprese che riceve una domanda di iscrizione da parte di una impresa individuale che non ha iscritto il proprio indirizzo di posta elettronica certificata, in luogo dell'irrogazione della sanzione prevista dall'articolo 2630 del codice civile, sospende la domanda fino a integrazione della domanda con l'indirizzo di posta elettronica certificata e comunque per 45 giorni; trascorso tale periodo, la domanda si intende non presentata. Qualunque sia il tipo di atto o fatto di cui l'iscrizione è richiesta, di conseguenza, la stessa dovrà essere sospesa per il termine di legge fino a comunicazione dell'indirizzo di Pec. Ove quest'ultima non intervenga entro il termine della sospensione stessa (tre mesi per le società; 45 giorni per le impresse individuali) la domanda di iscrizione (dell'atto o fatto) dovrà essere respinta, considerandola come non presentata.
Una Pec per ogni impresa. Per ogni impresa (sia essa societaria o individuale) deve essere iscritto, nel registro delle imprese, un indirizzo di Pec alla stessa esclusivamente riconducibile. Qualora, l'ufficio del registro delle imprese rilevi, d'ufficio o su segnalazione di terzi, l'iscrizione di un indirizzo Pec, di cui sia titolare una determinata impresa, sulla posizione di un'altra o di più altre, dovrà avviare la procedura di cancellazione (art. 2191 c.c.), previa intimazione, all'impresa interessata (o alle imprese interessate), di sostituire l'indirizzo registrato con un indirizzo di Pec «proprio».
Questo è quanto si legge nella lettera circolare del 09.05.2014, prot. 77684 emanata dal Ministero dello sviluppo economico. I tecnici di prassi ricordano che le precedenti indicazioni operative fornite in passato, secondo cui era possibile, per le imprese, indicare l'indirizzo di Pec di un terzo ai fini dell'adempimento pubblicitario in parola, sono da ritenersi ormai superate.
Alle imprese nei cui confronti sia eventualmente adottato il provvedimento di cancellazione d'ufficio dell'indirizzo di Pec, dovrà essere applicata: nel caso di società, la specifica sanzione della sospensione della domanda per tre mesi, in attesa che sia integrata con l'indirizzo di Pec; e nel caso delle imprese individuali, la specifica sanzione della sospensione della domanda fino a integrazione della domanda con l'indirizzo di posta elettronica certificata e comunque per quarantacinque giorni. Trascorso tale periodo, la domanda si intende non presentata.
Doppio inadempimento per le imprese cancellate d'ufficio. Alle imprese nei cui confronti venga adottato il provvedimento di cancellazione d'ufficio si applica la procedura della sospensione e l'applicazione della sanzione pecuniaria. Infatti nella situazione configurata rilevano due distinti inadempimenti: il primo (la mancata comunicazione dell'indirizzo Pec), punito con la sospensione della domanda; il secondo (il non eseguito adempimento pubblicitario «principale») punito con la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dagli articoli 2630 (nel caso di imprese diverse dalle individuali) e 2194 (nel caso delle imprese individuali) del codice civile. Poiché, nei casi oggetto di esame, la ritardata iscrizione di un atto o fatto relativo all'impresa è stata determinata dal comportamento del legale rappresentante (nel caso delle società) o del titolare (nel caso delle imprese individuali), o, per essere più precisi, a detti soggetti è da ascrivere l'incompletezza della domanda di iscrizione dell'atto «principale», che ne ha determinato il respingimento, agli stessi dovrà essere contestata la violazione delle disposizioni interessate e, se del caso, comminata la sanzione pecuniaria prevista dalla legge (articolo ItaliaOggi Sette del 21.07.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti verdi su doppia corsia. Deroghe per residui agricoli, sanzioni light per aree verdi. Il dl 91/2014 ridisegna i confini della combustione illecita di scarti da sfalci e potature.
Per i residui verso, l'autosmaltimento procede su una doppia corsia. La distruzione mediante combustione di sfalci e potature, infatti, fuori dal regime autorizzatorio dei rifiuti è, seppur con limitazioni presidiate da pesanti sanzioni delittuose, permessa alle sole imprese agricole. Per tutti gli altri soggetti, privati e aziende, il disfarsene secondo le stesse modalità integra invece la fattispecie di «combustione illecita di rifiuti» prevista dall'articolo 256-bis del dlgs 152/2006 (c.d. «Codice ambientale») sebbene in questo caso punita con sanzioni che vanno da quelle meramente amministrative a quelle esclusivamente contravvenzionali.
A ridisegnare ulteriormente i confini dell'illecito in questione, introdotto dal dl 136/2013 e poi modificato dalla legge 6/2014, è il dl 91/2014, pubblicato sulla G.U. 24.06.2014 n. 144, in vigore dal giorno successivo e attualmente in corso di conversione in legge.
Sfalci e potature come «rifiuti». Tutto il variegato impianto sanzionatorio che punisce la «combustione illecita di rifiuti» ruota intorno alla volontà del «disfarsi» (o dell'intenzione di disfarsi) dei materiali in parola, poiché è tale elemento soggettivo a inquadrarli come tali, riconducendoli di conseguenza sotto la severa disciplina dei beni a fine vita prevista dalla parte IV del dlgs 152/2006. Ove, infatti, l'intenzione del detentore sia quella di destinare i residui verdi ad altra finalità (come il recupero energetico o l'utilizzo quale compost), lo stesso «Codice ambientale» contempla (anche) percorsi diversi, nel rispetto dei quali detti materiali possono essere gestiti fuori dal regime dei rifiuti (e quindi dalle relative sanzioni).
Sotto il profilo sistematico (che si riflette sul sistema sanzionatorio), gli sfalci e le potature costituenti «rifiuti» sono classificati in base alla loro provenienza: rientrano tra gli «urbani» (ex articolo 184, comma 2, lettera e), dlgs 152/2006) quelli provenienti da aree verdi (quali giardini, parchi, aree cimiteriali); costituiscono invece rifiuti «speciali» (ex articolo 184, comma 3, lettera a), stesso decreto) i residui generati da attività agricole e agro-industriali condotte ai sensi dell'articolo 2135 del codice civile.
E loro «combustione illecita». Alla citata dicotomia classificatoria di sfalci e potature «rifiuti» consegue, come accennato, una diversa disciplina in relazione alla loro distruzione mediante abbruciamento in assenza di apposita autorizzazione pubblica. Ai sensi del nuovo dl 91/2014 (che sul punto ha introdotto un nuovo comma, il 6-bis, al citato articolo 256-bis del dlgs 152/2006) non costituisce infatti illecito la combustione «in loco» dei materiali agricoli e forestali derivanti da sfalci, potature e ripuliture (dunque dei citati «rifiuti speciali»), purché l'abbruciamento sia condotto in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori ai tre metri cubi per ettaro in aree, periodi e orari individuati dal sindaco competente per territorio e comunque al di fuori dei periodi di massimo rischio incendi dichiarati dalle Regioni.
La combustione degli stessi residui di origine agricola fuori da detti parametri potrà però integrare l'illecito previsto dal citato articolo 256-bis dlgs 152/2006, punito in questo caso (poiché relativo a «rifiuti speciali») con la pena (base) della reclusione da 1 a 5 anni (più le eventuali sanzioni amministrative ex dlgs 231/2001). Il discorso cambia per sfalci e potature provenienti da «aree verdi» e classificati, come accennato, tra i «rifiuti urbani». Di questi non è mai consentito l'autosmaltimento senza autorizzazione, ma le sanzioni (in caso, dunque, di «combustione illecita») sono diverse sia per natura che per misura.
L'abbruciamento illecito dei citati rifiuti vegetali «urbani» è infatti punito (per espressa previsione dell'articolo 256-bis, comma 6, stesso decreto) «solo» con le pene previste dall'articolo 255 del «Codice ambientale», così declinate: sanzione amministrativa pecuniaria (di base, fino a tremila euro) in caso di condotta posta in essere da soggetti privati; sanzione penale contravvenzionale (di base, coincidente con l'arresto fino a 1 anno o l'ammenda fino 26 mila euro) in caso di condotta riconducibile ad titolari di Enti o imprese.
Sfalci e potature fuori dal regime dei rifiuti. Come accennato, lo stesso «Codice ambientale» consente in alcuni casi la gestione degli stessi materiali, sin dalla loro produzione, fuori dal regime dei rifiuti qualora le finalità siano diverse dal volersi di loro «disfare». In relazione ai residui vegetali provenienti da attività agricole l'articolo 185, comma 1, lettera f) del dlgs 152/2006 esclude infatti dall'ambito di applicazione della disciplina dei rifiuti «paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana».
Questo, è bene precisarlo, ferma restando la necessità di rispettare le particolari regole sui sottoprodotti e sul recupero energetico. Pedissequa deroga (alle regole sul regime dei rifiuti) non trova invece (più) collocazione nello stesso «Codice ambientale» in relazione ai residui organici provenienti da aree verdi. La parallela norma introdotta nello stesso articolo dlgs 152/2006 dalla legge 129/2010, ai sensi della quale potevano essere gestiti come sottoprodotti i materiali vegetali provenienti da manutenzione del verde pubblico e privato, è infatti stata abrogata dal successivo dlgs 205/2010.
Per tali materiali l'unica forma di riutilizzo espressamente concessa al di fuori del regime dei rifiuti continua ad essere dunque quella dell'autocompostaggio effettuato «in loco» dalle utenze domestiche (ed assimilate), come previsto dall'articolo 183, comma 1, lettera e) del dlgs 152/2006. Deroga alla quale può affiancarsi, ma timidamente, quella dell'utilizzo di ramaglia in barbecue o caminetti come combustibile. Fattispecie, quest'ultima, non espressamente contemplata dalla legge (anzi, osteggiata da alcune amministrazioni locali) ma inquadrabile (a parere di autorevole dottrina) in una condotta non guidata dalla volontà di «disfarsi» dei residui organici in parola, quindi non riconducibile alla gestione di rifiuti (articolo ItaliaOggi Sette del 21.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: INTERVISTA AL MINISTRO FRANCESCHINI/ «Beni culturali, basta dirigenti a vita».
Dirigenti da ricollocare, musei da valorizzare, sovrintendenze in cui fare ricerca con le università, gare sui servizi aggiuntivi da affidare a Consip, una società pubblica per la gestione di bookshop e ristoranti dei luoghi d'arte. Per Dario Franceschini è tempo di consuntivi, con il Dl art-bonus prossimo al traguardo e la riorganizzazione del ministero.
Perché la valorizzazione del patrimonio non ha funzionato?
Perché finora c'è stato un dibattito molto ideologico per cui la tutela è stata scioccamente rappresentata in contrasto con la valorizzazione. La riforma del ministero intende, invece, fare in modo che sia un fattore trainante della crescita. Abbiamo accorpato le sovrintendenze storico-artistiche con quelle del paesaggio, abbiamo creato i poli museali regionali e concesso più autonomia ai singoli musei. Dunque, le sovrintendenze si concentreranno sulla tutela, rafforzando il legame con le università e il Cnr. Il modello è quello dei policlinici universitari, che alla facoltà di medicina affiancano le cliniche universitarie, dove si fa studio e ricerca anche sul campo.
Nel nostro caso, le facoltà di beni culturali faranno riferimento alle sovrintendenze come luoghi dove imparare sul campo. Allo stesso tempo, i musei punteranno di più sulla valorizzazione. Per questo è stata creata una direzione centrale dei musei, alla quale faranno riferimento i poli museali regionali e i singoli musei, a 20 dei quali è stata affidata maggiore autonomia. Questi ultimi potranno, grazie alla norma inserita nel Dl art-bonus, selezionare con procedure pubbliche anche un manager esterno all'amministrazione. Ma non penso a un manager che fino a un momento prima si sia occupato di tondini di ferro. Penso a storici dell'arte, architetti, archeologi, che abbiano anche un master di gestione museale o che abbiano diretto grandi musei mondiali.
L'accorpamento delle sovrintendenze storico-artistiche con quelle del paesaggio ha creato malumori.
Preoccupazione che non so da dove arrivi. Le sovrintendenze miste sono già state sperimentate. Non mi sono inventato nulla.
Avete tagliato 37 dirigenti: 6 di prima fascia e 31 di seconda. C'è chi resterà a spasso?
No, perché si trattava di posizioni vacanti o ricoperte a interim.
Le direzioni regionali sono state depotenziate.
Non avranno più alcuna competenza tecnico-scientifica, che resta ai sovrintendenti. Saranno rette da dirigenti di seconda fascia e non più di prima e avranno una funzione di interfaccia con la regione. Funzione che si esprimerà anche attraverso il comitato di coordinamento regionale, che si occuperà pure, secondo una novità contenuta nel decreto art-bonus, dei pareri dei sovrintendenti, il cui limite è sempre stato di non poter essere discutibili, se non impugnandoli davanti ai giudici. Ora si prevede che il parere possa essere, da parte per esempio del comune, portato davanti al comitato, che potrà riesaminarlo entro 10 giorni. Si tratta di un forte deterrente, che sbarra la strada a pareri campati per aria.
Non c'è il rischio di fare un favore a chi vuole costruire a ogni costo?
Il comitato è tutto interno, formato da cinque dirigenti del ministero.
Dove finiranno gli attuali sovrintendenti regionali, che sono dirigenti di prima fascia?
Ho studiato con attenzione la mappa del ministero: era senza senso, costruita negli anni in base a persone fisiche, pressioni territoriali, pressioni politiche. L'ho ridisegnata senza guardare nomi e cognomi. Secondo le regole attuali, ogni dirigente deve avere un incarico corrispondente alla propria fascia. Quelli che resteranno fuori si ricollocheranno e la mia linea sarà di adottare la massima rotazione. Come si fa nella aziende. Non va bene che uno stia vent'anni nello stesso posto.
Vedremo tra breve nuove gare per assegnare i servizi aggiuntivi dei musei?
Sono per la competizione pubblico-privato. In Francia c'è una società pubblica che gestisce i bookshop e che partecipa alle gare con le società private. È un bel sistema. Non mi rassegno al fatto che la parte più redditizia dei musei sia necessariamente affidata ai privati. Se, però, oggi voglio competere non dispongo nella pubblica amministrazione di una società in grado di gestire in modo moderno un bookshop.
Nella prima fase, dunque, si farà, insieme a Consip, una gara nazionale per selezionare le imprese e poi si procederà alle gare nei singoli musei, così da interrompere le deroghe all'infinito. In futuro, però, vorrei si possa formare una società pubblica in grado di competere con quelle private. È facile nei grandi musei guadagnare con la gestione del bookshop o del ristorante: mi piacerebbe ci fosse una competizione virtuosa pubblico-privato
(articolo Il Sole 24 Ore del 20.07.2014).

EDILIZIA PRIVATAContatori intelligenti e check up nelle imprese. In Gazzetta Ufficiale il decreto sull'efficienza energetica.
Contatori intelligenti obbligatori, per consentire agli utenti di monitorare i consumi. Grandi imprese obbligate a fare il check up dei consumi energetici ogni quattro anni.
Sono solo alcune delle numerose misure contenute nel decreto legislativo per il recepimento della direttiva europea 2012/27/Ue sull'efficienza energetica, che modifica le direttive 2009/125/Ce e 2010/30/Ue e abroga le direttive 2004/8/Ce e 2006/32/Ce, dlgs 102 del 04.072014, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 165 di ieri e in vigore già da oggi.
Obiettivo del decreto –spiega la nota ufficiale della presidenza del Consiglio dei ministri– è la riduzione della dipendenza dell'Unione dalle importazioni di energia, sfruttando lo strumento dell'efficientamento energetico e mettendo in atto azioni volte a dare stimolo all'economia nell'attuale fase di crisi ed a contrastare i cambiamenti climatici in atto (si prevede in particolare una riduzione del 20% del consumo di energia primaria dell'Unione entro il 2020). Queste le principali misure contenute nel provvedimento:
• elaborazione di programmi di interventi di medio-lungo termine per la riqualificazione energetica degli edifici sia pubblici che privati;
• interventi annuali di riqualificazione energetica sugli immobili della pubblica amministrazione, a partire dal 2014 fino al 2020;
• obbligo per le grandi imprese e per le imprese energivore di eseguire una diagnosi di efficienza energetica nei siti ubicati sul territorio nazionale, da ripetersi ogni quattro anni;
• obbligo per gli esercenti l'attività di misura di fornire agli utenti contatori individuali che misurino con precisione il loro consumo effettivo e forniscano informazioni sul tempo effettivo d'uso (i contatori intelligenti);
• elaborazione di un rapporto che miri a individuare le soluzioni più efficienti per soddisfare le esigenze di riscaldamento e raffreddamento;
• superamento della struttura della tariffa elettrica progressiva rispetto ai consumi e adeguamento delle componenti ai costi dell'effettivo servizio;
• programma triennale di formazione ed informazione volto a promuovere l'uso efficiente dell'energia (contenente misure di sensibilizzazione delle pmi all'esecuzione di diagnosi energetiche e all'utilizzo di strumenti incentivanti finalizzati all'installazione di tecnologie efficienti, misure di stimolo di comportamenti che contribuiscano a ridurre i consumi energetici dei dipendenti della pubblica amministrazione, misure di sensibilizzazione dell'uso efficiente dell'energia domestica);
• promozione dei contratti di prestazione energetica, e introduzione di misure di semplificazione volte a promuovere l'efficienza energetica;
• istituzione di un Fondo nazionale per l'efficienza energetica per la concessione di garanzie o l'erogazione di finanziamenti, a favore di interventi coerenti con il raggiungimento degli obiettivi nazionali di efficienza energetica.
Soddisfazione è stata espressa da Assotermica, secondo la quale il decreto contiene un'importante novità in materia di evacuazione dei fumi di scarico degli impianti termici e aumenta significativamente i casi in cui è possibile scaricare a parete (da 4 a 6), rivedendo le tipologie e le caratteristiche dei generatori che possono beneficiare di tale semplificazione (articolo Italia Oggi 19.07.2014).

APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONEBandi dei Comuni ancora fermi. Serve una legge per i codici gara. Appalti. Dal Dl Pa cancellati i premi per la progettazione.
Scompaiono di nuovo i «premi Merloni», cioè gli incentivi, fino al 2% del valore dell'opera, destinati ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche impegnati in attività di progettazione.
Lo stop è arrivato da uno dei pochi emendamenti al decreto sulla Pubblica amministrazione approvati dalla commissione affari costituzionali della Camera.
La modifica, firmata da Elena Centemero (Forza Italia), cancella del tutto il meccanismo degli incentivi, e torna quindi alle prime bozze del decreto Pa: un'ipotesi iniziale abbandonata dal Governo, che nel testo definitivo aveva cancellato i premi solo per i dirigenti (in nome della «onnicomprensività» della loro retribuzione), lasciandoli agli altri dipendenti.
Il "compromesso" scritto nel testo originario del decreto non era di facile attuazione, perché avrebbe imposto di riscrivere le regole di distribuzione per adeguarle alla nuova e più ristretta platea. L'abrogazione tout court, che certo non farà piacere alle migliaia di dipendenti pubblici interessati, può essere considerata una buona notizia per ingegneri e architetti, che trovano per questa via nuove occasioni di lavoro. Il M5S, però, fa notare un altro effetto collaterale, legato al fatto che l'affidamento generalizzato all'esterno rischia di generare costi insostenibili per le amministrazioni in tempi di spending review e quindi di sfociare in una «paralisi dei progetti».
Sugli appalti, e più in generale sugli acquisti della Pubblica amministrazione, già grava peraltro il blocco prodotto dagli obblighi sugli acquisti centralizzati imposti a tutti i Comuni non capoluogo dal decreto Irpef. In Conferenza Stato-Città un accordo fra Governo e Comuni ha sancito il rinvio delle nuove regole al 2015 (1° gennaio per beni e servizi, 1° luglio per i lavori), ma la situazione non si è risolta.
In una lettera inviata a Palazzo Chigi e al Viminale, infatti, il presidente dell'Autorità anticorruzione Raffaele Cantone fa sapere di «aver appreso» dell'accordo in Conferenza, non spiega che l'Anac «non può esimersi dall'applicazione della disposizione vigente». I codici identificativi di gara (Cig), indispensabili per riavviare la macchina, ricominceranno a essere rilasciati solo dopo «un opportuno intervento normativo», che a questo punto «appare urgente». L'intesa, in effetti, anticipa un emendamento che dovrebbe essere presentato al decreto «competitività» (Dl 91/2014), che però ha appena iniziato il proprio iter parlamentare. L'approvazione è prevista per agosto, quindi prima di settembre sarà difficile veder ripartire gli acquisti.
Con un altro correttivo, la commissione Affari costituzionali ha escluso gli assessori dal divieto generale di affidare incarichi retribuiti ai pensionati
 (articolo Il Sole 24 Ore del 19.07.2014).

LAVORI PUBBLICIAl via la trasmissione all'Anac delle varianti approvate dopo il 25/6.
Al via l'obbligo di trasmettere all' Autorità nazionale anticorruzione (Anac) le varianti approvate dalle stazioni appaltanti dopo il 25 giugno; a breve però il parlamento, nella conversione del decreto-legge 90/2014, modificherà i contenuti dell'obbligo approvando modifiche, peraltro richieste dalla stessa Anac, che alleggeriranno gli adempimenti delle stazioni appaltanti.
È questa la situazione, in evoluzione, relativa all'applicazione dell'articolo 37 del decreto-legge 90/2014 in corso di esame presso la camera. Le stazioni appaltanti si troveranno quindi in una situazione di scarsa certezza giuridica, dovendo adesso partire con alcune indicazioni prontamente fornite dall'Anac ma relative a una norma assolutamente in progress.
Intanto è di mercoledì (16.07.2014) il comunicato del presidente dell'Authority, Raffaele Cantone, che ha chiarito alle stazioni appaltanti il contenuto dell'obbligo di trasmettere all'Anac alcune tipologie varianti in corso d'opera (escluse quelle per errore o omissione della progettazione e per esigenze derivanti da sopravvenute norme di legge) previsto dalla disposizione del decreto 90.
Il comunicato precisa che dovranno essere trasmesse all'Autorità anticorruzione le varianti approvate dopo il 25 giugno 2014, data di entrata in vigore del decreto-legge 90/2014. Sono tre le tipologie di varianti: quelle determinate da cause impreviste o imprevedibili, quelle derivanti da «sorprese geologiche» idriche e simili, non previste, che rendono notevolmente più onerosa la prestazione dell'appaltatore, e infine quelle determinate da eventi imprevisti o imprevedibili in fase di progettazione.
In questi casi il responsabile del procedimento, dovrà trasmettere con posta elettronica certificata, o con e-mail ordinaria, entro 30 giorni dall'approvazione, oltre al Cig (Codice identificativo gara) relativo al contratto oggetto di esecuzione tre documenti: una relazione illustrativa, l'atto di validazione e il provvedimento definitivo di approvazione della variante.
Non sarà invece necessario inviare il progetto esecutivo nella sua interezza, pur dovendo essere a disposizione in caso di richieste di approfondimenti da parte dell'Anac, ma le stazioni appaltanti devono essere disponibili a fornirlo qualora gli uffici dell'autorità lo dovessero richiedere (articolo ItaliaOggi del 18.07.2014).

ENTI LOCALIL'ammutinamento dei mini-enti. Ignorata la scadenza del 30/6 per le gestioni associate. Le prefetture stanno scrivendo ai comuni per richiamarli al rispetto dell'obbligo.
Piccoli comuni al rallentatore sulle gestioni associate. La scadenza del 30 giugno è stata perlopiù ignorata dalle amministrazioni interessate, che ora sono concentrate su quella di fine anno, entro la quale l'intero «core business» dei mini enti dovrà passare a livello di unione o convenzione.
Dal prossimo 1° gennaio, inoltre, dovranno essere attivate, per tutti i comuni non capoluogo, le centrali uniche di acquisto di beni e servizi, mentre per i lavori la recente intesa fra stato e autonomie concede tempo fino al 30.06.2015.

L'obbligo di gestire a livello sovraccomunale le funzioni fondamentali è stato previsto dall'art. 14 del dl 78/2010 ed interessa tutti i comuni inferiori a 5.000 abitanti, soglia che scende a 3.000 per quelli appartenenti o appartenuta a comunità montane.
Le funzioni da associare sono quelle identificate come fondamentali dalla legge statale: al momento, il relativo elenco è dettato dall'art. 14, comma 27, del dl 78 (come sostituito dall'art. 19, comma 1, del dl 95/2012), che ne enumera 10. Di queste solo una (anagrafe, stato civile e servizi elettorali) può continuare ad essere gestita singolarmente, mentre le altre vanno obbligatoriamente conferite ad una unione di comuni ovvero esercitate tramite una convenzione.
Il percorso attuativo è stato oggetto di continue proroghe: al momento, delle 9 funzioni obbligatorie, 3 sono state associate entro il 31.12.2012, altre 3 avrebbero dovuto esserlo entro il 30 giugno, mentre per le restanti 3 la scadenza è fissata al 31.12.2014.
I nodi, però, stanno venendo al pettine solo ora, dato che funzioni già devolute a livello sovraccomunale o erano già gestite in forma associata (ad esempio, servizi sociali) o sono piuttosto «leggere» (ad esempio, protezione civile o catasto). Il vero core business include le funzioni «pesanti» (come, ad esempio, amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo, servizi pubblici locali, pianificazione urbanistica ecc.) ed è ancora tutto da trasferire. Così come le procedure di acquisto, che tutti i comuni non capoluogo (anche se con più di 5.000 abitanti) devono centralizzare.
Non a caso, il termine del 30 giugno è stato perlopiù ignorato, anche se non è arrivata la proroga che invece è stata prevista (anche se non ancora disposta) sulle centrali uniche.
L'inadempimento, però, non sempre è passato sotto silenzio. Alcune prefetture, infatti, hanno scritto ai sindaci per ricordare la scadenza e chiedere notizie sullo stato dell'arte, ricordando che il mancato adempimento è sanzionato con il possibile esercizio del potere sostitutivo del governo attraverso il commissariamento degli enti inadempienti.
La sensazione, però, è che la maggior parte delle amministrazioni interessate arrivi impreparata alla scadenza, complice anche la recente tornata elettorale, che ha interessato circa 4.000 comuni, molti dei quali soggetti agli obblighi.
Inoltre, occorre ancora assimilare le numerose novità introdotte in materia dalla recente l 56/2014. Essa, fra l'altro, ha modificato la soglia demografica minima che le forme associative devono raggiungere, che rimane fissata in 10.000 abitanti, ma che ora vale anche per le convenzioni, oltre che per le unioni. Fanno eccezione le unioni già costituite, alle quali tale limite non si applica. Per i comuni montani, la soglia è 3.000 abitanti, ma le eventuali unioni devono essere formate da almeno tre comuni.
Restano salvi, tuttavia, il diverso limite demografico ed eventuali deroghe in ragione di particolari condizioni territoriali, individuati dalla regione. Ciò, si ritiene (contrariamente a quanto sostenuto da alcune regioni) anche rispetto alle leggi regionali anteriori alla legge Delrio (articolo ItaliaOggi del 18.07.2014).

APPALTI: Centrale unica, un'opportunità. La proroga è un toccasana, ma la misura è ineludibile. L'ampliamento della platea di enti a pochi giorni dall'entrata in vigore giustifica il rinvio.
Negli scorsi mesi, sulle pagine di questo giornale, abbiamo affrontato il tema della Centrale unica di committenza, rilevando il rischio della mancata approvazione della proroga all'entrata in vigore della struttura prevista dall'art. 33, comma 3-bis, del dlgs n. 163/2006 contenuta nel decreto milleproroghe (dl n. 150/2013) e delle conseguenze che la stessa avrebbe avuto sugli enti locali i quali avrebbero dovuto provvedere immediatamente alla costituzione della Centrale unica al fine di ottemperare agli obblighi di legge.
Oggi questo rischio è stato scongiurato, ma gli enti locali si trovano nelle medesime difficoltà.
Invero, l'art. 9, comma 4, del decreto legge 24.04.2014, n. 66 convertito con modificazioni dalla legge 23.06.2014, n. 89 ha novellato quanto disposto in origine dall'art. 33, comma 3-bis, estendendo l'obbligo di costituire la Centrale unica di committenza non solo ai comuni con popolazione inferiore a 5 mila abitanti, ma a tutti i comuni con eccezione dei capoluoghi di provincia.
Pertanto, a partire dallo scorso primo luglio i comuni non capoluogo di provincia procedono all'acquisizione di lavori, beni e servizi nell'ambito delle unioni dei comuni di cui all'articolo 32 del decreto legislativo 15.08.2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici, ovvero ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle province, ai sensi della legge 07.04.2014, n. 56. In alternativa, gli stessi comuni possono effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip spa o da altro soggetto aggregatore di riferimento.
Orbene, dall'analisi del disposto normativo, oltre all'estensione dell'ambito di applicazione della Centrale unica di committenza, emerge chiaramente tutte le tipologie di affidamento pubblico devono essere gestite dalla nuova struttura, ivi comprese gli affidamenti sotto soglia disciplinati dall'art. 125 del Codice degli appalti. L'unica eccezione è costituita dalla possibilità per gli enti locali di ricorrere agli strumenti del mercato elettronico gestiti da Consip spa (MePa) ovvero da un altro soggetto aggregatore come, a mero titolo d'esempio, le Centrali di committenza gestite dalle singole regioni.
Tale situazione ha di fatto determinato un temporaneo blocco dell'attività delle pubbliche amministrazioni locali che, a partire dall'entrata in vigore della norma, si sono viste negare dall'Avcp, confluita oggi nell'Anac, la concessione del Codice identificativo gara a meno che questo non sia stato richiesto per una procedura esperita attraverso una centrale unica di committenza ovvero mediante le altre possibilità offerte dal nuovo testo del comma 3-bis.
La ratio dell'istituzione della Centrale unica risiede nella volontà del legislatore di fare sistema fra i diversi enti locali al fine veder realizzare lavori pubblici e di ottenere servizi e forniture a un prezzo maggiormente competitivo e con una migliore qualità.
Tuttavia, la scrittura quasi integrale della norma quasi in concomitanza con l'entrata in vigore definitiva dell'istituto in commento ha determinato un blocco degli appalti, atteso che amministrazioni locali si sono trovate impreparate a far fronte ai nuovi obblighi di legge e in particolare quegli enti locali che non erano destinatari della Centrale unica di committenza nella stesura originaria della norma.
A tal proposito, la Conferenza stato-città e autonomie locali presso la presidenza del consiglio dei ministri, chiamata ad affrontare il tema su sollecitazioni dell'Anci e degli enti locali, ha deliberato nell'ambito della seduta tenutasi il 10 luglio scorso di differire l'entrata in vigore della Centrale unica di committenza, così come novellata dal testo dell'art. 9, comma 4, del dl n. 66/2014, al 01.01.2015 mediante la proposizione di un emendamento al dl n. 90/2014 in corso di conversione. Unitamente a ciò, nella medesima deliberazione si è concordato che l'Anac (Avcp) riprenda a concedere il Cig agli enti locali secondo la normativa previgente.
Orbene, le centrali uniche di committenza rappresentano un ineludibile approdo per gli enti locali le cui finalità è opportuno che vengano perseguite consentendo alle pubbliche amministrazioni locali di dotarsi degli assetti organizzativi adeguati tali da permettere di perseguire con sempre maggior efficacia e qualità l'interesse pubblico generale sotteso all'azione amministrativa (articolo ItaliaOggi del 18.07.2014).

ENTI LOCALINiente terzo mandato ai revisori locali. Il dl 66 pone fine a un contrasto giurisprudenziale.
Nel silenzio della conversione in legge del dl n.66/2014, il nostro legislatore introduce ex novo il comma 1-bis dell'art. 19, che modifica l'art. 235 del Tuel, sancendo in maniera inequivocabile che i revisori degli enti locali non possono svolgere l'incarico per più di due volte nello stesso ente locale. In sostanza: è vietato il terzo mandato. Oltre a questo, si introduce il comma 6-bis all'art. 241, che fissa un tetto alle spese di viaggio, vitto e alloggio del collegio pari al 50% del compenso al netto degli oneri fiscali e contributivi.
Il divieto al terzo mandato è nella sostanza una precisazione. Già la precedente norma non lo prevedeva in maniera esplicita, stando al tenore letterale della vecchia formulazione dell'art. 235, che affermava che i componenti del collegio dei revisori erano rieleggibili una sola volta. In un primo tempo vi era stata una chiusura netta alla rieleggibilità dei revisori degli enti locali con diverse pronunce dei giudici amministrativi, come evidenziato anche dal parere del Cndcec del 15.07.2009.
Nella stesso anno il Consiglio di stato con l'ordinanza n. 5324 cambia orientamento e afferma che la corretta interpretazione dell'art. 235, c.1, porta ad escludere una terza rielezione solo qualora questa sia consecutiva, poiché altrimenti la disposizione sarebbe un irrazionale ed ingiustificato divieto di elezione a vita per chi ha ricoperto l'incarico in un ente per due trienni nell'arco della propria attività professionale.
A dispetto dell'interpretazione del Consiglio di stato e delle proposte di modifica avanzate in tal senso, arriva con la conversione del decreto il verdetto definitivo. C'è da chiedersi che senso abbia questo divieto che avrebbe consentito, sempre in caso di sorteggio, di sfruttare le competenze professionali accumulate per un controllo più efficace.
Ma sembra che il legislatore voglia escludere dai potenziali sorteggiati i revisori con competenze acquisite, ampliando la platea dei potenziali fortunati. Ma è possibile basare l'efficacia dei controlli solo sulla fortuna del sorteggio? E d'altro canto, quale serio professionista investirebbe in conoscenza ed esperienze avendo come unico parametro di riconoscimento la fortuna, peraltro ridotta.
Il tetto alle spese di viaggio, vitto e alloggio sembra poi ridimensionare l'ambito regionale della nomina dei revisori, riprovincializzandolo nuovamente. Se questo è il punto a cui siamo arrivati, forse era meglio lasciare tutto com'era (articolo ItaliaOggi del 18.07.2014).

EDILIZIA PRIVATAValvole per il calore, anche in Lombardia sanzioni dal 2017. Efficienza energetica. Il chiarimento.
Mano a mano che si avvicina il termine fissato da alcune regioni (in primis, Piemonte e Lombardia) per l'adempimento degli obblighi di installare negli immobili situati all'interno di edifici condominiali le valvole termostatiche e i sistemi di regolamentazione e contabilizzazione del calore, aumentano le perplessità ed i dubbi sulla validità dei termini regionali, in quanto in contrasto con i differenti, e ben più tranquillizzanti, termini fissati per gli stessi incombenti dalla legislazione statale.
Nel recepire la direttiva sull'efficienza energetica, Piemonte e Lombardia avevano legiferato prima di tutti, fissando rispettivamente al 1° settembre e 01.08.2014 il termine per l'adeguamento degli impianti condominiali; il legislatore nazionale è intervenuto di recente fissando il termine ultimativo per dotare gli impianti condominiali di termoregolazione a inizio 2017.
Ci si chiede, pertanto, se il termine regionale debba prevalere su quello statale, e se quindi i piemontesi o lombardi che non si adeguino entro il 1° settembre o il 01.08.2014 siano passibili di sanzioni.
Proprio per fugare questi dubbi, il consigliere regionale lombardo Antonio Saggese ha rivolto un'interrogazione all'assessorato Ambiente.
La direzione generale dell'Assessorato ha ora precisato sottolineando che «l'articolo 9 della legge regionale 5/2013, pur non prorogando le scadenze previste per l'installazione dei dispositivi per la termoregolazione e la contabilizzazione del calore, ha disposto che le relative sanzioni non potranno essere applicate sino al 31.12.2016».
Pertanto eventuali inadempimenti potranno esser fatti rilevare dall'ente di controllo come elemento di non conformità dell'impianto termico, ma non potranno dare luogo a sanzioni. Queste ultime potranno essere applicate dal 01.01.2017 ma solo per inadempimenti riscontrati a decorrere dalla stessa data.
In sostanza, in Lombardia rimane l'obbligo di installare i sistemi di contabilizzazione del calore entro il 1° agosto, senza tuttavia che gli eventuali trasgressori possano essere passibili di alcuna sanzione.
Per quanto riguarda il Piemonte, l'Uppi Torino si è rivolta al presidente della Regione chiedendo che l'obbligo di dotarsi di sistemi che consentano la contabilizzazione del servizio calore venga rinviato visto la difficile congiuntura economica.
L'Uppi, in particolare, fa presente che le spese relative alla trasformazione degli impianti sarebbero in buona sostanza tutte a carico dei condomini "virtuosi" e in regola con il pagamento delle spese condominiali, che dovrebbero per non contravvenire alla legge ed evitare le sanzioni che diversamente graverebbero sul condominio, farsi carico anche delle quote non onorate dai (sempre più frequenti) condomini morosi.
      (articolo Il Sole 24 Ore del 18.07.2014).

ENTI LOCALIProvince kaputt ma in funzione. La legislazione strabica finisce per dar torto a se stessa. Da una parte lo Stato le ha abolite ma dall'altra ingiunge loro di assicurare i servizi.
Le province nel periodo transitorio dell'attuazione della legge Delrio debbono continuare ad assicurare i loro servizi. Parola del ministro per gli affari regionali, Maria Carmela Lanzetta, che lo ha ricordato in una, per certi versi sconcertante, nota rivolta ai presidenti delle giunte provinciali dello scorso 26 giugno, n. 98/gab.
La nota, a prima vista, non aggiunge nulla a quanto già prevede l'articolo 1, comma 89, della legge 56/2014, laddove si stabilisce «[_] le funzioni che nell'ambito del processo di riordino sono attribuite dalle province ad altri enti territoriali continuano ad essere da esse esercitate fino alla data dell'effettivo avvio di esercizio da parte dell'ente subentrante».
Tuttavia, la nota del Ministro Lanzetta afferma che la previsione normativa citata «è di massima importanza con riferimento all'esercizio di molte funzioni svolte a livello provinciale o alle quali le province, o talune di esse, concorrono».
Improvvisamente, dunque, a processo di revisione delle province largamente avviato, il governo, per voce del ministro per gli affari regionali, «scopre» che le province stesse gestiscono «servizi a favore dei cittadini» e che tali funzioni sono «molte» e, su tutte, «quelle correlate alla sicurezza della popolazione» (ad esempio in materia di prevenzione e gestione del rischio idro-geologico e del rischio sismico). La nota conclude auspicando «la piena operatività della struttura e la continuità dei servizi».
Peccato, però, che il Governo, a proposito di province, non brilli per coerenza. Infatti, mentre il ministro per gli affari regionali auspica la continuità dei servizi, c'è nella legge Delrio una previsione che inchioda proprio l'attività ordinaria di tutti i servizi: il richiamo, cioè, dell'articolo 163, comma 2, del d.lgs 267/2000 che impone alle province la gestione provvisoria, come se non avessero approvato il bilancio, fino al subentro dei nuovi presidenti e consigli.
Da un lato, dunque, la legge Delrio blocca totalmente ogni attività con la gestione provvisoria, mentre il «decreto Irpef», il d.l. 66/2014 convertito in legge 89/2014, chiede alle province un taglio di spesa corrente per contratti quasi 8 volte superiore a quello richiesto ai comuni; dall'altro, una nota del ministro per gli affari regionali auspica la normale gestione delle molte attività delle province, come se nulla fosse o come se le disposizioni normative vigenti fossero un semplice corredo.
È il segnale ulteriore del modo caotico col quale la riforma è stata pensata, adottata ed, ora, gestita. Infatti, è scaduto da oltre una settimana il termine per il Dpcm che dovrebbe indicare appunto quali funzioni (tra le «molte» «a favore dei cittadini») espletano le province dovrebbero essere attribuite ai comuni da parte dello Stato. Il decreto dovrebbe vedere la luce entro la fine di luglio, ma sembra evidente che sulla materia si navighi a vista (articolo ItaliaOggi del 17.07.2014 - articolo tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICIGare d'appalto a misura di piccola impresa. Lavori. Le tre proposte di Unindustria.
Tre proposte, per aumentare la partecipazione delle piccole imprese agli appalti pubblici. «Tra i grandi Paesi europei l'Italia è quello che ha una maggiore differenza tra la quota delle piccole imprese nell'economia e la loro percentuale di successo negli appalti pubblici», ha detto Angelo Camilli, presidente della Piccola industria di Unindustria (le imprese laziali) nel corso dell'assemblea annuale.
La crisi economica ha fatto sentire il suo peso: nel 2007 c'erano 55mila Pmi in grado di partecipare al mondo degli appalti, ha detto Alberto Baban, presidente della Piccola industria di Confindustria. Nel 2013 questo numero è sceso a 45mila e il rischio è che possano restare nel circolo virtuoso, con le regole di Basilea 3, solo poco più di mille aziende.
È necessario agire, ha detto Baban, che ha recepito le proposte di Camilli: e cioè dividere gli appalti di dimensione più rilevante in lotti più piccoli, (la Regione Lazio potrebbe attivarsi, in attesa di normative nazionali); una seconda misura riguarda la possibilità di riservare determinati contratti pubblici alle Pmi, seguendo l'esempio statunitense e andrebbe estesa a tutte le Pmi europee per evitare rischi di discriminazione degli altri stati membri.
Infine si potrebbe prevedere un obbligo per le grandi imprese, in caso di appalti consistenti, di avvalersi per una parte del contratto a una o più Pmi. Riattivare la domanda interna è fondamentale per reagire alla situazione economica, «l'acquisizione di beni e servizi da parte della Pa è un tema fondamentale. Siamo convinti che la domanda pubblica possa determinare effetti positivi per la crescita dell'economia», ha continuato Camilli.
Fermo restando che l'obiettivo per le Pmi sia quello di crescere, come ha sottolineato il presidente di Unindustria, Maurizio Stirpe. «Oggi non si può fare a meno di una crescita dimensionale che si può realizzare in modo personale oppure con alleanze di tipo orizzontale, come i consorzi, o verticali, come le filiere lunghe». In questi anni, ha evidenziato Stirpe, c'è stata una riduzione della committenza pubblica nel Lazio.
Il presidente della Regione, Nicola Zingaretti, ha annunciato, nel suo videomessaggio, un rilancio: venerdì, con la nuova programmazione, saranno annunciati 600 milioni in più e si arriverà ad una cifra di 2 miliardi 600 milioni. Ha anche annunciato che sui tempi dei pagamenti il Lazio nel 2015 si avvicinerà agli standard europei. C'è stato un recupero anche sull'utilizzo dei fondi Ue: da ultimo, nel dicembre 2013 il Lazio si è posizionato tra le prime tre Regioni
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.07.2014).

LAVORI PUBBLICI: Appalti, all'Anac le varianti approvate dal 25 giugno. Anticorruzione. Le istruzioni sulle verifiche dei lavori.
Le stazioni appaltanti devono comunicare all'Autorità nazionale anticorruzione l'adozione di tutte le varianti in corso d'opera approvate dal 25 giugno in poi, trasmettendo un'ampia serie di documenti.
Con il comunicato del presidente 16.07.2014, l'autorità anticorruzione fornisce le indicazioni per la corretta applicazione delle verifiche introdotte dall'articolo 37 del Dl 90/2014.
La disposizione stabilisce che entro 30 giorni dall'approvazione delle varianti, l'amministrazione trasmette il progetto esecutivo, l'atto di validazione e una relazione del responsabile del procedimento.
Il comunicato del presidente dell'Anac specifica gli atti che devono essere forniti all'Autorità, individuandoli nella relazione del responsabile del procedimento, nel quadro comparativo di variante, nell'atto di validazione e nel provvedimento definitivo di approvazione: non è quindi compreso nel set documentale l'intero progetto esecutivo, ma le stazioni appaltanti devono essere disponibili a fornirlo qualora gli uffici dell'autorità lo richiedano.
Nei vari documenti da trasmettere deve essere indicato, qualora non già presente, il codice identificativo gara (Cig).
La disposizione richiede l'invio delle varianti determinate da cause impreviste e imprevedibili, da eventi inerenti alla natura e alla specificità dei beni sui quali si interviene verificatisi in corso d'opera, da rinvenimenti imprevisti o non prevedibili nella fase progettuale, nonché quelle causate da difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche e simili, non previste, che rendano notevolmente più onerosa la prestazione dell'appaltatore (fattispecie regolata dall'articolo 1664, comma 2, del Codice civile).
Non devono pertanto essere inviate le varianti derivanti da nuove disposizioni legislative o causate da errori progettuali.
L'obbligo previsto dall'articolo 37 riguarda peraltro solo le varianti per lavori pubblici, non comprendendo quelle per appalti di beni e servizi, disciplinate dagli articoli 310 e 311 del Dpr 207/2010.
La stessa Anac, nel documento di osservazioni inoltrato al Governo sulle disposizioni del Dl 90/2014, ha sollecitato una modifica normativa che circoscriva sotto il profilo dimensionale il novero delle varianti sottoposte alla sua analisi: in base alla disposizione, infatti, ogni variante rientrante nelle tipologie previste deve essere trasmessa, anche se di importo modesto, mentre l'autorità ha suggerito di inserire nella norma una soglia di riferimento (pari a 5 milioni di euro).
La comunicazione e l'invio della documentazione riguarda le varianti approvate a far data dal 25 giugno (data di entrata in vigore del Dl 90/2014).
L'inoltro degli atti dovrà essere effettuato entro trenta giorni dall'approvazione, preferibilmente mediante posta elettronica certificata e, se non possibile, mediante posta ordinaria, specificando comunque nell'oggetto l'invio i riferimenti della norma e il Cig dell'appalto
(articolo Il Sole 24 Ore del 17.07.2014 - articolo tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI COMUNALIIl pensionato non fa l'assessore. Divieto alle p.a. di conferire cariche in organi di governo. Per limitare gli incarichi dirigenziali il dl 90 crea un pasticcio che la camera dovrà risolvere.
Fuori i pensionati dalle giunte. Va bene l'esigenza di svecchiare la politica e di ringiovanire i ruoli della p.a., ma questa volta sembra proprio che il governo Renzi abbia esagerato nell'opera di rottamazione, arrivando a vietare ai pensionati, non solo pubblici ma anche privati, di ricoprire l'incarico di assessore nei comuni.

È questo l'effetto di una norma, inserita nella riforma della pubblica amministrazione (dl 90/2014) e passata piuttosto inosservata.
Non però agli addetti ai lavori, già in fibrillazione per i possibili impatti sugli organi di governo locale. Per il momento infatti il divieto è pienamente in vigore, anche se in parlamento fioccano le proposte di modifica che invitano il governo a un rapido dietrofront.
Nella lodevole intenzione di limitare il conferimento di incarichi dirigenziali a chi è andato in pensione, il dl 90 ha modificato il decreto spending review di Mario Monti (dl 95/2012) stabilendo che è fatto divieto alle p.a. centrali e locali non solo di «attribuire incarichi di studio o consulenza a lavoratori privati o pubblici in quiescenza», ma anche di «conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni».
A far discutere è proprio quest'ultimo inciso che, seppur probabilmente pensato per svecchiare i cda delle aziende pubbliche, nella sua attuale formulazione chiude le porte delle giunte ai pensionati. A meno che gli incarichi non vengano assunti a titolo gratuito.
L'art. 5, comma 9, del dl 95/2012 (così come modificato dall'art. 6 del dl 90/2014) esclude dall'applicazione del divieto gli incarichi e le cariche presso «organi costituzionali», ma in questa definizione non possono trovare posto i comuni che, pur essendo previsti in Costituzione (art. 114), non assurgono al ruolo di organi costituzionali.
Dubbi di incompatibilità potrebbero anche sorgere con riguardo ai consiglieri comunali, titolari anch'essi di cariche di governo, anche se si fa notare che costoro sono tali per investitura popolare e non per nomina.
Ecco perché nel corposo fascicolo di emendamenti (1850 in tutto) alla riforma p.a., depositati in commissione affari costituzionali alla camera, hanno fatto capolino molte proposte di modifica all'art. 6, volte o a cancellare del tutto il divieto o a limitarlo esclusivamente al conferimento di incarichi di studio o consulenza. Come annunciato dal presidente della commissione, Francesco Paolo Sisto (Forza Italia), il voto sulle proposte di modifica giudicate ammissibili inizierà oggi pomeriggio e in quest'ottica i deputati del Pd in prima commissione si vedranno per sciogliere gli ultimi nodi riguardanti, in particolare, la soppressione delle sedi distaccate dei Tribunali amministrativi regionali, la riduzione degli oneri per le imprese delle Camere di commercio, la mobilità obbligatoria, l'accesso alla pensione per gli esodati della scuola (la cosiddetta «Quota 96») e la razionalizzazione delle sedi delle Autorità indipendenti.
Il governo per il momento sta alla finestra. «Siamo disponibili a miglioramenti», ha spiegato il ministro Marianna Madia, «ma vediamo prima il dibattito in Commissione e le prime votazioni». Le proposte dell'esecutivo potrebbero essere presentate anche a firma del relatore, Emanuele Fiano e dovrebbero recepire alcune delle richieste contenute negli emendamenti parlamentari. Se così fosse, il Pd potrebbe ritirare i suoi emendamenti (circa 500) per lasciare spazio alle modifiche dell'esecutivo. Ma sarà la riunione dei deputati democratici a decidere sul punto (articolo ItaliaOggi del 16.07.2014).

APPALTIAcquisti centralizzati, tutti vogliono la proroga. Recepita l'intesa del 10 luglio in Conferenza Stato-città.
Rinvio a fine 2014 dell'entrata in vigore dell'obbligo per i comuni non capoluogo di provincia di ricorrere a centrali di committenza per l'affidamento di contratti pubblici e dell'obbligo di «performance bond» per gli appalti integrati oltre i 100 milioni; posticipo dell'Avcpass a inizio o a metà 2015. Trasmissione delle varianti in corso d'opera all'Anac ma soltanto per appalti sopra soglia e di importo superiore al 10% del contratto.

Sono queste alcune delle proposte bipartisan contenute negli emendamenti presentati dai diversi gruppi parlamentari, in commissione affari costituzionali, al decreto-legge 90/2014.
La materia più delicata sulla quale anche il governo nei giorni scorsi ha anticipato un intervento riguarda la proroga di alcune disposizioni entrate in vigore il primo luglio, in primis l'obbligo per tutti i comuni non capoluogo di provincia di acquisire lavori, beni e servizi attraverso le centrali di committenza, la Consip, gli accordi consortili, o le unioni di comuni (previsto dall'articolo 9 della legge 89 che in un comma sostituisce integralmente il comma 3-bis dell'articolo 33 del codice dei contratti pubblici).
In queste prime due settimane l'applicazione della norma ha determinato una vero e proprio blocco delle gare perché i comuni sono molto in ritardo nell'organizzarsi e anche le centrali di committenza regionali spesso non risultano costituite e operative. Il problema è così rilevante che con una intesa siglata il 10 luglio la Conferenza stato-città-enti locali è stata richiesta una proroga da apportare in conversione del decreto 90/2014 e, nel frattempo, ha chiesto all'Anac di concedere ai comuni il Cig (codice identificativo gara) per ogni tipo di affidamento, indipendentemente dall'importo, nonostante il divieto di cui alla legge n. 89.
La richiesta di modifica è stata però accolta da tutti i gruppi parlamentari che hanno proposto di proroghe (che saranno appoggiate dal governo) a fine 2014 per gli appalti di forniture e servizi e a metà 2015 per i lavori. In alcuni casi si chiede anche di ripristinare la possibilità di affidamento in amministrazione diretta e in economia da parte dei comuni, dopo che la stessa legge 89 aveva eliminato questa possibilità. Un secondo motivo di blocco degli appalti è stato poi individuato nella messa a regime (sempre dal primo luglio) del sistema di verifica dei requisiti dei concorrenti fondato sulla banca dati nazionale dei contratti pubblici (con lo strumento dell'Avcpass), un sistema che ha diversi problemi applicativi e che vede anche in questo caso, le stazioni appaltanti molto indietro: qui la proroga proposta da maggioranza e opposizione è a fine 2014 o a metà 2015.
Il rinvio a fine 2014 viene poi proposto per l'obbligo di applicare la garanzia globale di esecuzione a tutti gli appalti integrati oltre i 100 milioni e (facoltà) agli appalti di sola esecuzione oltre i 75 milioni, norma del codice sospesa da anni, entrata però in vigore il 1° luglio. Molti emendamenti anche alle norme che riguardano l'Autorità anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone, fra cui quelli tesi a mitigare l'obbligo di trasmissione delle varianti all'Anac (soltanto per appalti sopra soglia e oltre un determinato importo).
Alcune proposte attribuiscono poi all'Anac anche il compito di gestire un elenco dei commissari di gara per le aggiudicazioni degli appalti, da scegliere a sorteggio e a rotazione. Sull'articolo 13 (divieto di incentivo del 2% limitato ai dirigenti tecnici della p.a., gli emendamenti sono invece del tutto divergenti: si va dalla soppressione alla modifica e all'estensione anche agli impiegati) (articolo ItaliaOggi del 16.07.2014).

APPALTIProtocollo legalità: «Stop all'appalto se c'è corruzione». Trasparenza. Firma al Viminale tra Alfano e Cantone.
Il numero uno dell'Anticorruzione, Raffaele Cantone, la definisce «una rivoluzione copernicana». E il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, annnuncia: «Attueremo la linea dura contro i corrotti usando le stesse misure di prevenzione previste per i mafiosi». Certo è che le prefetture da oggi devono essere in prima linea contro le infiltrazioni di tangenti e corruttori negli appalti pubblici.
Al Viminale ieri Cantone e Alfano hanno firmato il protocollo d'intesa che adotta le linee guida anticorruzione: fornisce indicazioni esecutive ai prefetti sulla base del decreto legge 90/2014. Norma che prevede, come aveva invocato Cantone, di integrare i poteri di controllo anti-infiltrazione mafiosa dei prefetti con un analogo meccanismo in funzione anti-corruzione nelle gare pubbliche.
Così, per definire norme ancora più severe contro le infiltrazioni mafiose, i protocolli di legalità stipulati finora dalle prefetture con i soggetti coinvolti nella gestione dell'opera pubblica –contraente generale, stazione appaltante e operatori della filiera dell'opera– d'ora innanzi dovranno contemplare anche condizioni di trasparenza e di legalità non solo in funzione antimafia. Con una novità decisiva: l'introduzione della clausola in capo alla stazione appaltante che può risolvere il contratto (articolo 1456 codice civile) «ogni qualvolta l'impresa non dia comunicazione del tentativo di concussione subito, risultante da una misura cautelare o dal disposto rinvio a giudizio nei confronti dell'amministratore pubblico responsabile dell'aggiudicazione» come si legge nel testo. Tanto che, sottolinea Cantone, «ho raccomandato alla società Expo di firmare subito il protocollo di legalità in modo che in tutti i bandi futuri sia prevista la risoluzione del contratto in presenza di fatti corruttivi: questa regola avrebbe evitato tanti problemi verificatisi finora».
In generale i prefetti, d'intesa con l'Anac (autorità nazionale anticorruzione), che lo richiede, adottano misure di intervento –fino alla gestione straordinaria– nei confronti dell'impresa coinvolta nei fatti di corruzione. L'obiettivo principale resta «garantire l'esecuzione del contratto pubblico nei tempi previsti». Per i prefetti in effetti è una sfida senza precedenti ma Cantone conta proprio sull'autorevolezza e l'impegno di questa figura istituzionale per incidere sul territorio in prevenzione anticorruzione, che è poi la grande scommessa dell'Anac.
Le prefetture, in base al recente Ddl sul riordino della Pa, accorperanno le altre strutture dello Stato in sede locale e rilanceranno il modello dell'Utg (ufficio territoriale del governo). I prefetti, che «eventualmente, dice la norma», come ricorda Alfano, entreranno nel ruolo unico della dirigenza statale, rappresentano tuttavia per il ministro dell'Interno «una specialità che si fonda su un insieme di competenze insostituibile nel sistema Italia».
Insomma, forse non entreranno in un serbatoio unico dei dirigenti statali. Ma serve, dice Alfano, «un'apertura alla riforma che potrà salvare il ruolo delle prefetture anche in futuro»
(articolo Il Sole 24 Ore del 16.07.2014).

CONDOMINIO: L'amministratore attiva il Pos. Servizi. È possibile che il condòmino voglia pagare con la moneta elettronica i ratei di spese.
L'onere di accettare, sopra i 30 euro, i pagamenti con carta bancaria coinvolge (almeno in teoria) anche gli amministratori di condominio. Che, al pari degli altri professionisti, di fronte a esplicita richiesta da parte di un cliente, non potrebbero rifiutarsi di incassare tramite pos le rate di pagamento. Sia quelle che comprendono il compenso professionale vero e proprio, sia quelle relative alla "prestazione di servizi", avendo l'amministratore un ruolo di esattore dei contributi condominiali come mandatario del condominio.
In caso di rifiuto, non è prevista per legge una specifica sanzione. Tuttavia -ben consapevoli che si sta ragionando su situazioni marginali e che potrebbero non accadere- il diniego potrebbe essere considerato "illegittimo" e far scattare la mora del creditore.
Ma ripercorriamo il quadro. L'articolo 15, comma 4, del Dl 179/2012 dispone, nella sua ultima versione, che «a decorrere dal 30.06.2014 i soggetti che effettuano la vendita di prodotti e di prestazioni di servizi, anche professionali, sono tenuti ad accettare anche pagamenti effettuati attraverso carte di debito». Tale disciplina si applica a tutte le professioni. Comprese quelle non organizzate in ordini o collegi, di cui all'articolo 1, secondo comma, della legge 4/2013; quindi anche agli amministratori. Che, per deduzione, in linea di principio dovrebbero dotarsi di pos per l'incasso dei propri compensi. Anche se solitamente l'amministratore paga da sé il proprio compenso, con bonifico dal conto condominiale che ha in gestione.
Siccome la legge parla di pagamenti elettronici anche per "prestazioni di servizi", in teoria nel suo ruolo di esattore delle quote dovute dai condomini, l'amministratore dovrebbe accettare il pagamento anche con carta per le rate delle spese condominiali, incassando le somme sul conto condominiale.
Ovviamente, i dubbi restano. E discendono da una norma che già di per sé non appare del tutto chiara. A iniziare dal fatto che il decreto 179 non fissa alcuna specifica sanzione a fronte di un diniego.
Tuttavia, volendo leggere le nuove disposizioni sotto tutti i risvolti teorici che comportano, un qualche rischio residuale esiste. Ove infatti il professionista non sia dotato di Pos e il condomino lo richieda, potrebbe configurarsi un "illegittimo rifiuto" a ricevere una prestazione, a norma dell'articolo 1206 del Codice civile. Che recita: «il creditore è in mora quando, senza motivo legittimo, non riceve il pagamento offertogli nei modi indicati o non compie quanto necessario affinché il debitore possa adempiere l'obbligazione». E che, nel successivo articolo 1207, parla anche di interessi aboliti e risarcimento danni.
Stando così le cose, occorre ribadire che per essere certi di non incorrere nel rischio, sarebbe buona norma per l'amministrare dotarsi di uno strumento (pur non obbligatorio) per i pagamenti elettronici. Oppure, in alternativa al pos e secondo una strada più pratica, che mette al riparo da qualsiasi problema di illegittimo rifiuto della prestazione, potrebbe far deliberare dall'assemblea con una decisione (preferibilmente assunta all'atto della nomina), che stabilisca una volta e per sempre che tutti i pagamenti di condominio all'amministratore si effettuano a mezzo mav bancario, bonifico bancario, contante o altre modalità, nel rispetto del Dlgs 231/2007. Il quorum per legittimare tale decisione sarà quello dei 500 millesimi e la maggioranza degli intervenuti in seconda convocazione ove la decisione sia presa successivamente alla nomina
 (articolo Il Sole 24 Ore del 15.07.2014).

SICUREZZA LAVOROObbligo d'esame per i corsi online. Salute e sicurezza. Se è a distanza.
Se la formazione in materia di salute e sicurezza sul lavoro è erogata con modalità tradizionale, in aula, non è obbligatoria la verifica finale, viceversa se avviene con modalità e-learning, la verifica è obbligatoria.
Questa l'indicazione fornita dal ministero del Lavoro con l'interpello 11.07.2014 n. 12.
Sempre in tema di formazione, il ministero ha precisato che qualsiasi associazione senza finalità di lucro riconosciuta dall'ordine o collegio professionale di riferimento può rientrare tra i soggetti formatori (interpello 10).
Inoltre le associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori, gli enti bilaterali e gli organismi paritetici possono effettuare attività formative e di aggiornamento direttamente o avvalendosi di strutture di loro diretta emanazione, includendo quelle effettuate tramite contratti di associazione e partecipazione in base all'articolo 2549 del codice civile, in quanto in tal caso l'attività formativa resta di diretta gestione dell'associante tramite l'associato (interpello 14).
Edilizia
Con l'interpello 13, invece, il ministero afferma che in un cantiere possono essere presenti più imprese affidatarie in quanto il committente può stipulare più contratti. Fermo restando che l'impresa affidataria può eseguire direttamente l'opera, con la propria organizzazione, ovvero concederla in subappalto in tutto o in parte a imprese esecutrici e/o lavoratori autonomi, cadrà su di essa l'obbligo di verificare le condizioni di sicurezza dei lavori affidati.
La valutazione dell'idoneità tecnico professionale dell'impresa affidataria da parte del committente varia a seconda che questa abbia concesso i lavori in subappalto o li esegua direttamente. Nel primo caso la verifica riguarderà il possesso delle capacità organizzative; nella seconda ipotesi riguarderà anche le capacità organizzative e la disponibilità di risorse umane e materiali, in relazione all'opera da realizzare, da parte delle imprese esecutrici.
Polizia e Vigili del fuoco
Anche nei confronti del personale della Polizia di Stato, del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco e degli uffici centrali e periferici dell'amministrazione della pubblica sicurezza e della protezione civile, devono essere garantite le condizioni di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, comprese quelle relative allo stress lavoro-correlato, che non possono essere derogati anche in presenza di «particolari esigenze connesse al servizio espletato».
L'attività di prevenzione consisterà nell'individuazione di tutti i rischi presenti all'interno dei luoghi di lavoro o ai quali gli stessi lavoratori possono essere esposti durante lo svolgimento delle loro mansioni, concordata con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp) e medico competente. Ferma restando la facoltà, per il datore di lavoro, di delegare i compiti relativi alla sicurezza (con esclusione della nomina del Rspp, valutazione dei rischi e redazione del relativo documento).
Perché la delega sia efficace occorre osservare le condizioni ex articolo 16 del Testo unico: il delegato deve possedere i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica funzione e deve avere l'autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.07.2014 - articolo tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIRiforma degli appalti in arrivo in Cdm. L'esame il 21 luglio. ma il parlamento vorrebbe una delega autonoma.
Il 21 luglio il Consiglio dei ministri esaminerà la delega per il recepimento delle direttive appalti pubblici e la riforma del codice dei contratti, ma non c'è accordo fra Governo e Parlamento che vorrebbe una delega autonoma dal disegno di legge europea in corso di approvazione; per Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac), la nuova legge dovrà essere scritta senza ascoltare la lobby dei costruttori.
Sono questi alcuni dei punti emersi ieri nel corso del convegno organizzato alla Camera dal gruppo parlamentare del Partito democratico dal titolo «Appalti pubblici e corruzione: dalla legittimità formale alla legalità sostanziale».
È stato il viceministro delle infrastrutture Riccardo Nencini ad anticipare che il governo esaminerà la norma di delega nel corso del Consiglio dei ministri programmato per il 21 luglio per farla approvare con la legge europea 2013-bis in corso di esame da parte del Parlamento.
Questa ipotesi però è stata subito bocciata dal presidente della Commissione lavori pubblici della Camera, Ermete Realacci che, per le numerose e profonde modifiche che saranno apportate, ha chiesto un disegno di legge delega autonomo che consenta alle commissioni di esaminare a fondo la materia (ma così ci vorrà più tempo).
In precedenza il viceministro Nencini aveva chiarito che la delega, una volta approvata dal Parlamento «servirà per recepire le direttive e asciugare profondamente ciò che è stato scritto in passato»; il tutto per potere completare la riforma entro un anno da oggi, «affrontando con determinazione anche il tema delle opere incompiute e lavorando sul tema della qualità progettuale».
Per il presidente Cantone, «dopo Tangentopoli non si è mai più intervenuti per prevenire la corruzione, ma si è proceduto allo smantellamento del sistema dei controlli».
Sul tema della riforma degli appalti Cantone ha affermato che «non si può tenere in vita un codice che vale soltanto per i lavori di serie B, mentre le grandi opere vanno sempre in deroga
».
Infine Cantone ha invitato Governo e Parlamento «a non perdere questa grande occasione e soprattutto a fare sì che le regole non siano scritte dalla lobby dei costruttori».
Secca la replica di Paolo Buzzetti dell'Ance: «Non mi trovo d'accordo: dopo il '92 abbiamo preso atto di dover proporre cose per il paese» (articolo ItaliaOggi del 15.07.2014 - articolo tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAVia ai moduli unificati per la Scia e i permessi.
Via libera ufficiale alla modulistica unificata per permessi di costruire e Scia (segnalazione certificata di inizio attività). I modelli sono allegati al testo dell'accordo 12.06.2014 in Conferenza unificata, pubblicato ieri sulla G.U. n. 161-supplemento ordinario n. 56 (si veda ItaliaOggi del 18 giugno scorso).
Queste le indicazioni dell'accordo: le Regioni, ove necessario, adeguano in relazione alle specifiche normative regionali di settore, i contenuti dei quadri informativi dei moduli su permessi di costruire e Scia; i comuni adeguano la modulistica in uso sulla base delle previsioni dell'accordo; le regioni e i comuni garantiscono la massima diffusione dei moduli i quali, ove necessario, sono aggiornati sulla base di successivi accordi che saranno assunti sempre in sede di Conferenza unificata (articolo ItaliaOggi del 15.07.2014 - articolo tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Autotutela con tempi più certi. Provvedimenti annullabili d'ufficio entro due anni. RIFORMA P.A./ Assunzioni bloccate per chi non garantisce l'accesso online dei dati.
Autotutela in tempi certi. I provvedimenti della pubblica amministrazione potranno essere annullati d'ufficio entro due anni dalla produzione degli effetti (se si tratta di provvedimenti di autorizzazione) o dal momento in cui sono stati attribuiti vantaggi economici. Ha finalmente una durata certa il «termine ragionevole», previsto dalla legge n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, per il ripensamento da parte della p.a.
In materia di segnalazione certificata di inizio attività, la pubblica amministrazione potrà fare dietrofront quando ci sia da prevenire il pericolo di danni alla salute, alla sicurezza pubblica o al patrimonio artistico, culturale e ambientale.

Nel secondo passaggio in consiglio dei ministri, il disegno di legge sulla «riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» (precedentemente ribattezzato «Repubblica semplice»), messo a punto dal ministro Marianna Madia, si è arricchito di molte novità che dovrebbero semplificare la vita a cittadini e imprese. Attraverso la digitalizzazione ma anche attraverso strumenti acceleratori quali il silenzio assenso, la Scia, l'autotutela e la conferenza di servizi che si potrà fare online e non sarà sempre obbligatoria.
Le p.a. saranno tenute a garantire l'accessibilità online alle informazioni e ai documenti in loro possesso. Chi non lo farà non potrà procedere a nuove assunzioni a tempo indeterminato.
La conferenza dei servizi non costituirà sempre un passaggio obbligato e potrà anche svolgersi attraverso l'utilizzo di strumenti informatici. Quando un'amministrazione statale deve fornire il proprio assenso, concerto o nulla osta per l'adozione di un provvedimento, sarà tenuta a farlo entro 30 giorni dalla richiesta, trascorsi i quali l'ok dovrà intendersi acquisito. E in caso di mancato accordo tra le amministrazioni, interverrà la presidenza del consiglio decidendo sulle modifiche da apportare.
Il ddl disegna tempistiche diverse a seconda degli interventi da attuare: 18 mesi per la digitalizzazione, 12 per la nuova conferenza di servizi, la riorganizzazione dell'amministrazione statale (con la trasformazione delle prefetture in Uffici territoriali di governo) e la riforma della dirigenza (che segnerà il superamento del tabù del posto fisso prevedendo la fuoriuscita dal ruolo unico del manager pubblico da troppo tempo senza incarico).
Ma entro sei mesi dall'entrata in vigore del disegno di legge (che dovrebbe approdare questa settimana in parlamento per essere esaminato da settembre) il primo atto della delega sarà il restyling delle norme in materia di anticorruzione, pubblicità e trasparenza contenute nel dlgs 39/2013. Gli ambiti applicativi della riforma, che ha creato più di una difficoltà negli enti, saranno meglio definiti e verranno ridotti gli oneri a carico delle p.a. (articolo ItaliaOggi del 15.07.2014).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti, licenziamento ko ma non cambia niente.
Non chiamateli licenziamenti anche se l'effetto è sempre la risoluzione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici privi di incarico.

La versione assestata del ddl legge-delega di riforma della pubblica amministrazione elimina la parola espressa «licenziamento», ma tratta la sorte dei dirigenti che restano senza incarichi esattamente allo stesso modo. Si stabilisce, infatti, che i dirigenti privi di incarico riceveranno il trattamento economico fondamentale e la parte fissa della retribuzione maturata prima dell'entrata in vigore dei decreti legislativi di attuazione della legge-delega, e verranno posti in disponibilità.
Lo schema di ddl aggiunge che detti dirigenti, a seguito di un determinato periodo di collocamento in disponibilità, decadranno dai ruoli unici. Il che equivale a dire, dunque, che verrà risolto il rapporto di lavoro. E, poiché il collocamento in disponibilità dura 24 mesi, a meno di modifiche speciali da parte dei decreti legislativi attuativi, basteranno due anni senza incarico perché i dirigenti di ruolo perdano il lavoro.
La configurazione del licenziamento dei dirigenti pubblici, contrariamente a quanto ha dichiarato la titolare del dipartimento della Funzione pubblica, Marianna Madia, secondo la quale vi sarebbe piena parità di posizione tra una dirigenza di ruolo e quella «di fiducia» politica soggetta allo spoil system, rivela una sperequazione evidente a svantaggio dei dirigenti di ruolo.
Infatti, sono soltanto i dirigenti che accedono ai ruoli unici per concorso a rischiare il licenziamento e la perdita secca del lavoro. I dirigenti a contratto, cooptati senza concorso dalla politica nella stragrande maggioranza dei casi assumono l'incarico dirigenziale avendo alle spalle un altro rapporto di lavoro. Infatti, ai sensi dell'articolo 19, comma 6, si tratta di magistrati o di professori o ricercatori universitari, avvocati dello Stato o anche di funzionari della medesima amministrazione conferente l'incarico dirigenziale.
Dunque, i dirigenti a contratto contano, in generale, su due rapporti di lavoro: quello «di provenienza», che diviene quiescente (si prevede, infatti l'aspettativa); e quello «di destinazione», cioè l'incarico dirigenziale conferito dall'organo di governo. Pertanto, quand'anche la dirigenza non di ruolo dovesse perdere l'incarico per scadenza del mandato ed esercizio dello spoil system, perderebbe, sì, l'incarico dirigenziale, ma non il lavoro (salvo il caso di persone provenienti dal privato che non riescano ad ottenere la collocazione in aspettativa).
I dirigenti di ruolo, invece, se restano privi di incarico per il tempo che indicheranno con maggior precisione i decreti delegati non avranno alcun paracadute: perderanno non solo l'incarico, ma, decadendo dal ruolo, subiranno la risoluzione del rapporto di lavoro.
L'assenza di un rapporto di simmetria tra il numero dei dirigenti di ruolo e il numero degli incarichi dirigenziali potrebbe agevolare non di poco l'opera degli organi politici intenzionati a disfarsi dei dirigenti «scomodo». Intasando, infatti, gli incarichi dirigenziali assumendo quanti più possibile dirigenti a tempo determinato, potrebbero mettere facilmente fuori gioco i dirigenti vincitori di concorsi «scomodi», eccependo l'assenza di incarichi disponibili e destinandoli alla disponibilità.
Si tratterebbe di un'apertura della strada verso il licenziamento, senza nemmeno dover scomodare il complicato processo di valutazione dei risultati: di fatto, non sarebbe necessario dimostrare che il mancato conferimento dell'incarico deriverebbe da carenze gestionali o dal mancato raggiungimento degli obiettivi fissati (articolo ItaliaOggi del 15.07.2014).

VARIBonus arredi a maglie larghe. Dai box ai conviventi: prevale la linea pro-contribuenti. I chiarimenti più recenti della prassi in materia di detrazioni per lavori di ristrutturazione.
Aperture positive per i contribuenti dalla
circolare 21.05.2014 n. 11/E in tema di detrazione per le ristrutturazioni. Dall'imperfezione della documentazione agli errori sui bonifici l'Agenzia si mostra di manica larga e concede qualche spiraglio ai contribuenti. La prima indicazione è stata necessaria per superare alcune perplessità sorte dal testo delle istruzioni contenute nel modello 730 di quest'anno.
Nelle stesse si legge, infatti, che il diritto alla detrazione spetta anche al familiare convivente del possessore o detentore dell'immobile purché lo stesso abbia sostenuto le spese e le fatture e i bonifici siano a lui intestati. Ciò non è però in linea con quanto già affermato dalla prassi nella circolare 20/E del 2011 al punto 2.1 in cui si è sostenuto che, nel caso in cui la fattura e il bonifico siano intestati a un solo comproprietario, mentre la spesa di ristrutturazione è sostenuta da entrambi, la detrazione spetta anche al soggetto che non risulti indicato nei predetti documenti, a condizione che nella fattura sia annotata la percentuale di spesa da quest'ultimo sostenuta.
In sostanza nella circolare 20/E si era dato prevalenza al pagamento delle spese rispetto all'intestazione dei documenti mentre ora nelle istruzioni al modello 730 sembrava intervenire una marcia indietro (seppur per un caso non identico).
La circolare 11/E ha però fugato i dubbi ribadendo la tesi meno restrittiva. La stessa ha, infatti, sostenuto che le istruzioni al modello 730/2014 dettano una regola per così dire generale (già sostenuta nella circolare 121 del 1998) che però deve essere coordinata con le ulteriori prese di posizione che concedono di dare il via libera alla possibilità che il familiare convivente seppur non intestatario dei documenti goda della detrazione a patto che i versamenti siano anche a lui riferibili. In tema di ripartizione del bonus l'Agenzia sottolinea anche che «l'annotazione sui documenti della percentuale di spesa sostenuta deve essere effettuata fin dal primo anno di fruizione del beneficio e che il comportamento dei contribuenti deve essere coerente con detta annotazione. È esclusa la possibilità di modificare, nei periodi d'imposta successivi, la ripartizione della spesa sostenuta».
Similare il caso di acquisto del box pertinenziale. Tale situazione è compresa tra gli interventi ammessi a fruire della detrazione per i lavori di ristrutturazione edilizia. È necessario però che sia costituito un vincolo pertinenziale derivando da ciò la necessità che la detrazione per gli interventi in esame abbia come presupposto l'acquisto da parte del proprietario o del titolare di un diritto reale sull'unità immobiliare che può costituire tale vincolo. Come conseguenza si ha che la detrazione competa al soggetto, familiare convivente, che ha effettivamente sostenuto la spesa, attestando sulla fattura che le spese per gli interventi agevolabili sono dallo stesso sostenute ed effettivamente rimaste a carico.
Un ulteriore chiarimento interviene in tema di lavori di ristrutturazione su parti comuni e immobile di proprietà del coniuge incapiente. Il caso è quello delle spese sulle parti comuni certificate dall'amministratore del condominio al proprietario che però non possiede reddito. Nel caso le rate condominiali sono state saldate con l'emissione di assegni su un conto corrente cointestato ai due coniugi. Anche su questo punto la risposta è stata positiva in quanto si è affermato che il contribuente-coniuge convivente del proprietario dell'immobile, ha la possibilità di portare in detrazione nella propria dichiarazione dei redditi le spese sostenute relative ai lavori condominiali pagate con assegno bancario tratto sul conto corrente cointestato ai due coniugi. In tal caso ai fini di provare quanto intervenuto occorre che il coniuge convivente indichi i propri estremi anagrafici e l'attestazione dell'effettivo sostenimento delle spese sul documento rilasciato dall'amministratore del condominio.
La terza presa di posizione riguarda un caso molto frequente ovvero quello in cui si constata un bonifico con causale errata: il bonifico è regolarmente effettuato, la ritenuta del 4% è applicata solo che ad esempio è indicato il riferimento normativo dell'agevolazione per la riqualificazione energetica degli edifici in luogo di quella previste per le ristrutturazioni edilizie. Anche qui giunge il via libera dell'Agenzia delle entrate la quale individua nell'effettuazione della ritenuta il fatto decisivo per il riconoscimento del bonus.
Partendo da ciò la circolare afferma che nell'ipotesi in cui l'indicazione nella causale del bonifico dei riferimenti normativi della detrazione per la riqualificazione energetica degli edifici in luogo di quella per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio sia dovuta a un mero errore materiale e non abbia pregiudicato l'applicazione della ritenuta d'acconto del 4%, «si ritiene che la detrazione possa comunque essere riconosciuta, nel rispetto degli altri presupposti previsti dalla norma agevolativa. Le medesime conclusioni possono applicarsi anche nel caso opposto in cui, per un errore materiale, nella causale del bonifico siano stati indicati i riferimenti normativi degli interventi di recupero del patrimonio edilizio in luogo di quelli della detrazione per la riqualificazione energetica degli edifici, fermo restando il rispetto dei presupposti per la fruizione di quest'ultima detrazione».
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Agevolazioni anche senza condominio.
Anche senza condominio il bonus è da riconoscere. Ma i condomini devono farsi parte diligente.
Una ulteriore questione superata dalla
circolare 21.05.2014 n. 11 riguarda il caso di assenza di costituzione del condominio e relative tabelle millesimali. Ci si chiedeva se i comproprietari potessero suddividere la spesa sulla base di un rendiconto che tenga conto degli importi effettivamente pagati o se sia necessario ripartire in parti uguali la spesa e anche se fosse possibile che tutti i comproprietari bonificassero la spesa all'impresa sulla base delle singole fatture emesse (non esistendo il soggetto giuridico «condominio» cui fatturare).
La risposta dell'Agenzia si basa sulla considerazione che in presenza di un «condominio minimo», edificio composto da un numero non superiore a otto condomini sono comunque applicabili le norme civilistiche sul condominio fatta eccezione, tra l'altro, l'obbligo di nomina dell'amministratore. Da ciò la circolare conclude che, al fine di beneficiare della detrazione per i lavori di ristrutturazione delle parti comuni i condomini che, non avendone l'obbligo, non abbiano nominato un amministratore devono però obbligatoriamente richiedere il codice fiscale. Con riguardo ai pagamenti gli stessi devono effettuare i bonifici indicando oltre al codice fiscale del condominio, anche quello del condomino che effettua il pagamento (il conto corrente bancario o postale può anche essere quello di uno dei condomini).
La detrazione spetterà soltanto in ragione delle spese effettivamente sostenute da ciascuno e per la ripartizione non può derogarsi al fatto che tutti devono concorrere alle stesse in ragione dei millesimi di proprietà o ai diversi criteri applicabili ai sensi del codice civile. Una volta chiarito l'obbligo del codice fiscale ne consegue anche che (vedi anche la circolare 57/E del 1998) i documenti giustificativi delle spese relative alle parti comuni dovranno essere intestati al condominio.
Nella sostanza una volta accertata l'esistenza dal condominio pur in assenza di amministratore saranno i condomini che dovranno farsi parte diligente in quanto titolare degli adempimenti necessari che consentono ai singoli di godere delle detrazione è e deve essere unicamente il «soggetto» condominio (articolo ItaliaOggi Sette del 14.07.2014).

APPALTIAppalti pubblici a rischio caos. Possibili blocchi per i bandi-tipo o per la banca dati. Gli effetti della soppressione dell'Avcp, in attesa del piano di riassetto di Cantone.
La soppressione dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ha inciso sugli organi ma non ancora sui compiti e sulle funzioni. Rimangono, infatti, separate le strutture dell'Avcp e dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac). Fino al piano di completo riassetto che presenterà Raffaele Cantone entro sei mesi, il rischio è che vi siano problemi di governance per molte attività gestite dalla struttura dell'Avcp, dal precontenzioso, al sistema informatico Avcpass, alla qualificazione delle imprese, con possibili rallentamenti delle attività stesse.

È questo l'effetto che, salvo correttivi apportati nella fase di conversione del decreto-legge 90/2014, potrebbe determinarsi sul settore degli appalti a seguito della soppressione dell'Avcp, disposta appunto dal decreto-legge 90/2014.
Il blocco potrebbe interessare l'emanazione di bandi-tipo e di linee guida in diversi ambiti di attività, dai lavori ai servizi, così come la gestione della banca dati nazionale dei contratti pubblici e il sistema di verifica dei requisiti (Avcpass), entrato in vigore dal 1° luglio, oltre all'Anagrafe delle stazioni appaltanti di cui alla legge 89/2014.
Ma problemi, nel medio termine, potrebbero esserci anche a livello europeo se è vero le nuove direttive europee sugli appalti pubblici (23, 24 e 25/2014) puntano con determinazione su strutture nazionali che, oltre ad avere il monitoraggio del mercato di riferimento, siano anche in grado di gestire sistemi informatici complessi, funzionali alla messa a regime di un trasparente «registro nazionale degli appalti».
Le funzioni dell'Avcp. Moltissime le funzioni della soppressa Autorità assorbite, in base al decreto 90/2014, dall'Anac e relative a tutti i contratti pubblici (anche forniture e servizi), che nel 2012 valevano 95,3 miliardi di euro, per 125.700 contratti stipulati oltre i 40 mila euro.
In particolare, in base al codice dei contratti, l'Avcp si occupa, anche con poteri sanzionatori e ispettivi, di: vigilare sui contratti pubblici, sull'osservanza della legislazione e sul sistema di qualificazione delle imprese di costruzioni; ha poi il compito di gestire il cosiddetto «precontenzioso» attivabile su ogni singola gara, di predisporre bandi-tipo obbligatori per le stazioni appaltanti, di presentare al governo e al parlamento una relazione annuale, di gestire la Banca dati nazionale dei contratti pubblici (dalla quale deriva anche il sistema Avcpass di verifica dei requisiti dichiarati in gara dai concorrenti).
La soppressione dell'Avcp e l'assorbimento da parte dell'Anac. Con effetto dal 25 giugno è scattata la soppressione dell'Avcp e l'immediata decadenza dei suoi organi, disposta con il decreto-legge 90/2014 di riforma della p.a. che assegna anche nuovi e incisivi poteri all'Anac (si veda altro articolo in pagina). Il decreto prevede anche che siano trasferiti all'Autorità presieduta da Raffaele Cantone «i compiti e le funzioni» dell'Avcp, una scelta che il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi ha dovuto accettare nonostante avesse avanzato la proposta di scorporare alcuni compiti dell'Avcp per portarli al suo dicastero (ma la partita, almeno sulla materia della qualificazione delle imprese, potrebbe riaprirsi con il recepimento delle direttive europee). Il trasferimento dovrà avvenire in base a un piano di completo passaggio delle funzioni e di riduzione del 20% delle spese e del personale che il presidente Anac dovrà predisporre entro fine 2014 e presentare al presidente del consiglio, Matteo Renzi.
La «convivenza» delle due strutture. In una recente delibera (la n. 102/2014) Cantone ha stabilito che «le attività dell'Anac connesse ai compiti e alle funzioni trasferiti a seguito della soppressione dell'Avcp, sono svolte in modo separato rispetto alle attività in materia di anticorruzione e trasparenza»; stesso concetto per la fase gestionale e amministrativa. In effetti, quindi, sembra che i due organismi operino come due branche della stessa società, ancorché su qualche materia (trasparenza, attività ispettiva) vi siano sovrapposizioni fra compiti dell'Avcp e dell'Anac. Tutto come prima, quindi, almeno così sembrerebbe.
I rischi per imprese e per le stazioni appaltanti. L'impressione generale è che la soppressione dell'Avcp abbia avuto più il senso dell'eliminazione dei suoi organi che non dell'organismo e che manchi ancora una chiara definizione delle competenze decisorie. In questa fase transitoria, in attesa del piano di Cantone, il rischio di impasse e di blocco delle attività potrebbe derivare dalla mancanza di indicazioni espresse sull'assunzione dei provvedimenti relativi a delicate funzioni della soppressa Avcp (precontenzioso, vigilanza sulle Soa, regolazione) usualmente oggetto di provvedimenti del Consiglio (soppresso). Le difficoltà per le imprese e per le stazioni appaltanti, che, per esempio, richiedono pareri all'Avcp non mancherebbero. Potrebbe essere utile chiarire che transitoriamente tutte le decisioni siano oggetto di delibera da parte del Consiglio Anac ancorché attinenti a funzioni non relative alla materia dell'«anticorruzione».
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Commissariamenti e controlli su varianti: i poteri assegnati all'Anac.
Dal commissariamento delle imprese oggetto di indagini giudiziari per reati contro la Pubblica amministrazione al controllo sulle varianti in corso d'opera: sono questi alcuni dei poteri assegnati all'Anac per la vigilanza sul settore degli appalti con il recente decreto-legge 90/2014. Il decreto prevede, per il singolo contratto, la possibilità che l'Anac proceda al «commissariamento» delle imprese coinvolte in indagini giudiziarie (anche per quelle di Expo 2015).
La possibilità scatta quando siano state «rilevate situazioni anomale e comunque sintomatiche di condotte illecite, o eventi criminali attribuibili a un'impresa aggiudicataria di un appalto». Sarà il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, a proporre al prefetto competente per territorio la rinnovazione, entro un termine determinato, degli organi sociali (mediante la sostituzione dei soggetti coinvolti) e, nel caso in cui l'impresa non si adegui nei termini stabiliti, la straordinaria e temporanea gestione dell'impresa appaltatrice, limitata alla completa esecuzione del contratto d'appalto oggetto di indagine.
Molto probabilmente questa misura sarà utilizzata poche volte dal momento che la prassi, in questi casi, vede i soggetti coinvolti dimettersi appena si ha sentore di un «fumus» di indagini. In alternativa il presidente Anac potrà proporre al prefetto di provvedere direttamente alla straordinaria e temporanea gestione dell'impresa appaltatrice (attività dichiarata di «pubblico interesse» anche ai fini delle eventuali conseguenze penali), saltando la procedura di sostituzione dei vertici dell'impresa. Gli «amministratori» che gestiranno la società su nomina del prefetto potranno essere al massimo tre (dotati di requisiti di «onorabilità e professionalità») e a essi verranno attribuiti tutti i poteri e le funzioni degli organi di amministrazione dell'impresa finalizzati al completamento dell'opera, con la conseguente «sospensione» dei poteri di disposizione e gestione dei titolari dell'impresa (sospesi anche i poteri dell'assemblea in caso di società).
Previsto anche il monitoraggio finanziario dei lavori relativi a infrastrutture strategiche e insediamenti produttivi. Il decreto prevede l'obbligo di trasmissione delle varianti all'Anac di tutte le varianti in corso d'opera (escluse quelle per errore o omissione della progettazione e per esigenze derivanti da sopravvenute norme di legge), unitamente al progetto esecutivo, all'atto di validazione e a una apposita nota del responsabile del procedimento. La trasmissione di questi atti dovrà avvenire entro trenta giorni dall'approvazione della variante da parte della stazione appaltante, per le valutazioni e gli eventuali provvedimenti di competenza che Anac potrà adottare (articolo ItaliaOggi Sette del 14.07.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAMateriali di scavo, gestione soft. Meno vincoli per riutilizzare riporti in attività di cantiere. Da Minambiente e Tar Lazio chiarimenti sui sottoprodotti: si evita la disciplina sui rifiuti.
I materiali di riporto escavati possono essere riutilizzati come ordinari beni, senza dunque passare dalla gravosa disciplina sui rifiuti, per riempimenti, rilevati e reinterri indifferentemente dalla quantità della loro componente antropica e origine storica, ma a condizione che rispettino i valori limite di inquinamento previsti dal dlgs 152/2006 (cd. «Codice ambientale») per la tutela delle acque e delle altre matrici dell'ecosistema.
A fornire nuovi chiarimenti sulla complessa disciplina relativa a terre e rocce da scavo (tra le quali normalmente rientrano i «riporti», miscela di terreno naturale e residui vari) è il «combinato disposto» di due recenti pronunce della pubblica amministrazione in risposta (sebbene a titolo ed effetti diversi) a molteplici dubbi applicativi: la nota 14.05.2014 n. 1338 del Minambiente e la
sentenza 10.06.2014 n. 6187 del TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis.
Le pronunce in parola intervengono su un castello normativo costituito da oltre 10 provvedimenti normativi e due pronunce della Corte costituzionale (tanti sono gli atti stratificatisi dal 2010 a oggi sul dlgs 152/2006) effettuando una ricognizione sui confini tra gestione dei materiali di scavo come «rifiuti», riutilizzo degli stessi come «sottoprodotti» e loro esclusione, a monte, da entrambe le categorie.
Terre, rocce e altri materiali da scavo. La disciplina dei materiali in questione lo ricordiamo, è attualmente rintracciabile negli articoli 183, 184, 184-bis, 184-ter e 185 del «Codice ambientale», nell'articolo 3 del dl 2/2012, nel dm Ambiente 161/2012 e nell'articolo 41-bis del dl 69/2013.
Da tale complesso normativo deriva che le terre e rocce da scavo sono, a monte, escluse dalla disciplina dei rifiuti (articolo 185, dlgs 152/2006): se non contaminate ed escavate nel corso di attività di costruzione, ove sia certo il loro riutilizzo allo stato naturale per i medesimi fini e nello stesso sito; sempre se non contaminate, ove siano riutilizzate, nel rispetto delle regole sui sottoprodotti, in sito diverso da quello di escavazione.
Le particolari regole da osservare per la gestione come sottoprodotti sono invece, rispettivamente: quelle dettate dal dm 161/2012 per i materiali provenienti da impianti sottoposti a disciplina «Via» (valutazione di impatto ambientale) o «Aia» (autorizzazione integrata ambientale) ex dlgs 152/2006; quelle dettate dall'articolo 184-bis dello stesso «Codice ambientale» unitamente alle norme recate dal citato articolo 41-bis, dl 69/2013 per i materiali provenienti da attività diverse dalle prime.
Tale sofisticato sistema giuridico si applica anche ai «materiali di riporto», come definiti dall'articolo 3 del dl 2/2012 (e successive, radicali, modifiche e integrazioni), provvedimento che li equipara al «suolo» (dunque, anche nella sua forma escavata) qualora sia accertato che non superino determinate soglie di inquinamento.
I chiarimenti del Minambiente... È su tale assetto normativo che interviene la nota Minambiente del 14.05.2014. Il Dicastero chiarisce innanzitutto le condizioni che rendono i citati «materiali di riporto» assimilabili alle altre terre e rocce da scavo, sottolineando come il ricorso alle norme tecniche del proprio dm 05.02.1998 (richiamato dall'articolo 3, dl 2/2012) sia relativo alle sole metodiche di analisi da utilizzare per verificarne il potere inquinante, e non agli specifici parametri da impiegare, i quali devono invece essere identificati (in accordo con le Autorità di controllo) sulla base delle caratteristiche dei residui.
Così come i limiti inquinanti da rispettare, che devono essere quelli previsti dallo stesso dlgs 152/2006 in relazione a bonifica dei siti inquinati e tutela delle acque. Nel caso di riutilizzo «in situ», avverte ancora il Minambiente, i valori da rispettare devono altresì essere i più stringenti tra i diversi eventualmente applicabili alle singole sub-aree presenti nel sito. Con la nota in parola il Dicastero si pronuncia anche sulle (più generali) regole che permettono la gestione come «sottoprodotti» dei materiali da scavo provenienti da impianti non sottoposti a «Via» o «Aia», precisando la portata delle «normali pratiche industriali o di cantiere», unici trattamenti ammessi sui residui in parola (senza farli scivolare nel regime dei rifiuti).
Tali «normali pratiche», previste sia dall'articolo 184-bis del dlgs 152/2006 che dall'articolo 41-bis del dl 69/2013 (e costituenti uno dei quattro elementi per qualificare i materiali come sottoprodotti), coincidono (sottolinea il Minambiente) unicamente con trattamenti che non hanno incidenza sulle caratteristiche chimico-fisiche delle sostanze ai fini del rispetto dei requisiti di protezione sanitaria e ambientale richiesti dal dlgs 152/2006. Ben rientra dunque in tali «pratiche», si precisa nella nota a titolo esemplificativo, la miscelazione del terreno non contaminato con la calce, com'è altrettanto estraneo alle stesse (invece) il mischiare terra contaminata con calce al fine di abbassarne il livello inquinante.
... E quelli del Tar Lazio. Con la successiva sentenza 10.06.2014 n. 6187, il Tribunale amministrativo del Lazio ha chiarito alcuni aspetti nodali relativi sia alla più generale definizione di «materiali di riporto» che al campo di applicazione del citato dm 161/2012 per la gestione delle terre da scavo come sottoprodotti.
In relazione al primo aspetto il giudice dei provvedimenti amministrativi ha sottolineato come la nuova nozione di «matrice materiale di riporto» introdotta dal dl 69/2013 (tramite riformulazione dell'articolo 3, dl 2/2012) abbia superato (con valenza generale, poiché posta da provvedimento di rango superiore) quella prevista dal (precedente) dm Ambiente 161/2012. E ciò allargando i confini della nozione: per il Tar non appare infatti più applicabile il limite del 20% massimo di componente antropica previsto dal dm del 2012 tra le condizioni per il legittimo riutilizzo dei materiali di riporto. Evidentemente, in quanto tale parametro non risulta essere più presente nella nuova definizione legislativa di «riporto» prevista dal dl 69/2013.
Dunque, ragionando in modo analogo, sembra superata anche la caratteristica di «storicità» di detti riporti voluta dal dm del 2012, laddove il regolamento indica(va) gli stessi come miscela eterogenea di terreno e materiali antropici «utilizzati nel corso dei secoli». Previsione, anche questa, che non trova più analoga collocazione nella nuova definizione del 2013. In relazione al campo di applicazione del dm 161/2012, il Tar Roma ha invece sottolineato come esso regolamento trovi effettivamente applicazione alle sole terre e rocce «da scavo» (materiali di riporto, come più sopra definiti, compresi), ad esclusione (quindi) dei residui di «lavorazione» di materiali lapidei (poiché oggetto di attività diversa dall'«estrazione»).
Infine lo stesso giudice ha specificato come lo stesso dm 161/2012 si applichi ai soli materiali da scavo utilizzati in siti diversi da quelli in cui sono stati escavati e (confermando quanto già suggerito dalla citata nota del Minambiente del precedente maggio) come esso regolamento sia però da rispettare in tutti gli impianti soggetti ad «Aia» o «Via» che i suddetti materiali generano, indifferentemente (dunque) da volumi prodotti (articolo ItaliaOggi Sette del 14.07.2014).

EDILIZIA PRIVATAModelli (quasi) unici per i lavori edili. Avviata la revisione dei documenti per il permesso di costruire e la segnalazione di inizio attività.
Con il Dl 90 del 24 giugno scorso il Governo rilancia la semplificazione nell'edilizia, attraverso la standardizzazione dei moduli del permesso di costruire e della Scia.
I moduli unici per tutti i Comuni italiani, una volta adottati, potranno effettivamente avviare il tentativo di unificare il lessico dell'edilizia, normalizzando gli eccessi prodotti nella materia del governo del territorio –in attesa della preannunciata riforma del titolo V della Costituzione– dall'attuale regionalismo spinto e dalla irrefrenabile tendenza della regolamentazione comunale (vero ostacolo della semplificazione nonostante gli sforzi governativi degli ultimi anni) a complicare la disciplina delle costruzioni con piani, programmi e regolamenti spesso cervellotici o "lunari" e comunque di difficile interpretazione?
A ben vedere la semplificazione è un percorso più culturale che giuridico e che pertanto parrebbe poter essere guidato da elementi semplici e formali come la modulistica unica, che hanno già dato buona prova di sé ,ad esempio, nel commercio e nella gestione del condono edilizio.
Insomma il legislatore, vista l'impossibilità di uniformare l'insostenibile eterogeneità della disciplina edilizia la sta forzando, consapevolmente o meno, in modelli unici che dovrebbero sensibilizzare le autonomie locali ad adottare linguaggi e requisiti prestazionali uniformi e più comprensibili.
Le tappe
Concretamente, il Dl 90 impegna Governo, Regioni e enti locali, a concludere, in Conferenza unificata, accordi per adottare, tenendo conto delle specifiche normative regionali, una modulistica unificata e standardizzata su tutto il territorio nazionale per presentare a Regioni e enti locali istanze, dichiarazioni e segnalazioni inerenti all'attività edilizia.
Il percorso è dunque tracciato. I primi modelli per la Scia edilizia e il permesso di costruire sono peraltro già stati condivisi con l'accordo cosiddetto "Italia Semplice" siglato il 12.06.2014 tra Governo, Regioni ed enti locali. Seguiranno gli ulteriori moduli in materia. L'utilizzo di modelli unici garantirà la semplificazione nella presentazione delle pratiche e assicurerà parità di condizioni tra i professionisti.
I nodi
Il progetto, per quanto ben indirizzato, non si manifesta di semplice attuazione. Ciascuno degli oltre 8mila Comuni italiani ai sensi dell'articolo 33 della legge urbanistica nazionale del '42 (disposizione che, per quanto abrogata dall'articolo 136, comma 2, del Dpr 380/2001, ha orientato tutti i regolamenti edilizi) ha creato la propria disciplina regolamentare e i modelli delle dichiarazioni e delle domande che recepiscono le previsioni urbanistiche ed edilizie locali, in modo del tutto eterogeneo.
Le diversità non scompariranno automaticamente con l'adozione dei modelli unici; quindi la riforma rischia di risolversi almeno in prima battuta in una mera semplificazione di forma, che potrebbe generare un aggravio istruttorio sostanziale (la bozza dei modelli, ad esempio, si compone di 30 pagine).
Se i modelli declinati secondo le peculiarità comunali prevedono dichiarazioni e indicazioni connesse alle specifiche previsioni locali e dunque idonee a valutare con immediatezza la rispondenza del progetto alle peculiarità tecniche applicabili, con i modelli unici nazionali c'è invece il rischio che la verifica di conformità del progetto alle leggi e ai regolamenti locali, si manifesti meno immediata con aggravio sui tempi di evasione delle pratiche e sulla stessa certezza dei rapporti con i cittadini.
L'auspicio è che comunque lo sforzo avviato dal Governo sia un passaggio, per quanto doloroso, efficace per il conseguimento di una disciplina urbanistica più coerente con le necessità di semplificazione e omogeneizzazione delle pratiche edilizie.
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La compilazione resta variabile. L'attuazione. Accordo tra Stato, Regioni ed enti locali sui testi per nuove costruzioni, restauro e risanamento.
Con l'accordo "Italia semplice" siglato lo scorso 12.06.2014 tra Governo, Regioni ed enti locali, sono stati condivisi i primi due modelli unici in materia edilizia.
Si tratta della richiesta di permesso di costruire e della segnalazione certificata di inizio attività, ossia dei due moduli correlati agli interventi edilizi di maggiore incisività quali, rispettivamente, le nuove costruzioni e il restauro e risanamento conservativo.
I nuovi moduli sono composti da tre distinte sezioni. La prima è dedicata all'individuazione del richiedente e ai dati fondamentali inerenti la qualificazione e localizzazione dell'intervento. Sono inoltre previsti specifici campi per la determinazione dell'onerosità o meno delle opere.
La seconda sezione riguarda invece l'identificazione dei soggetti coinvolti nella realizzazione dell'opera e, in particolare, dei titolari, dei progettisti e altri incaricati tecnici, nonché delle imprese esecutrici.
La terza sezione attiene infine all'asseverazione da parte del progettista responsabile delle peculiarità urbanistico-edilizie che caratterizzano il progetto e, quindi, include l'identificazione delle superfici e dei volumi, l'indicazione della classificazione urbanistica del bene, nonché le dichiarazioni concernenti il superamento delle barriere architettoniche, la sicurezza degli impianti, il consumo energetico, la prevenzione incendi e la normativa igienico-sanitaria.
La sezione contiene anche una esaustiva scheda per l'individuazione dei vincoli e delle tutele alle quali l'immobile è eventualmente assoggettato. I moduli appaiono lineari, completi e facilmente gestibili.
Nel loro formato digitale, i moduli sono progettati in modo da richiedere la compilazione delle sole informazioni necessarie a seconda del tipo di intervento indicato.
Prosegue dunque il processo di dematerializzazione e informatizzazione delle procedure edilizie che, sebbene possa generare qualche difficoltà di adeguamento per i professionisti, complessivamente dovrebbe portare ad un miglioramento dell'efficienza delle pubbliche amministrazioni, consentendo una più agevole gestione delle pratiche e un più efficiente controllo sullo sviluppo del territorio
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2014 - articolo tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICILa certificazione attenua i controlli. Le garanzie. Lo strumento è utilizzabile in fase preliminare o di esecuzione.
Se non vogliono correre il rischio di vedersi attribuire un rapporto di lavoro con i dipendenti dell'appaltatore o, ancor peggio, subire conseguenze penali, le aziende dovranno ponderare con attenzione l'eventuale risparmio economico derivante dalla stipula di un contratto di appalto per realizzare un'opera o per gestire un servizio.
Uno strumento per contenere i rischi derivanti da un contratto di appalto illecito è l'istituto della certificazione, previsto dall'articolo 84 del decreto legislativo 276/2003. A questo fine le imprese dovranno sottoporre il contratto di appalto alle commissioni di certificazione istituite presso le istituzioni pubbliche o private autorizzate (come gli enti bilaterali costituiti dalle associazioni di datori e prestatori di lavoro, le direzioni provinciali del Lavoro, le università).
I vantaggi sono duplici: da un lato il ricorso dei lavoratori si scontrerà con il contratto certificato, non impedendo, tuttavia, la possibilità del dipendente di ricorrere al giudice del lavoro. Dall'altro lato, invece, gli enti di controllo devono concentrare le attività investigative nei confronti di aziende che non hanno contratti certificati secondo le indicazioni della direttiva del ministro del Lavoro del 18.09.2008.

Con la circolare 11.02.2011 n. 5, come detto, il ministero del Lavoro pone le basi per individuare correttamente un appalto lecito.
In particolare, ribadendo l'opportunità di usare la certificazione per ridurre il contenzioso sulla qualificazione dei contratti di lavoro, il ministero ricorda che l'indagine dell'organo certificatore si orienterà a una disamina attenta della sussistenza degli elementi formali e sostanziali individuati dall'articolo 29, comma 1, del decreto legislativo 276/2003, non soltanto su base documentale, ma anche tramite dichiarazioni pubblicamente rese e acquisite dalle parti contraenti in sede di audizione nell'iter di certificazione.
Infatti, la procedura di certificazione può essere usata sia nella fase di formazione del contratto, sia in quella di esecuzione e attuazione del programma negoziale. In quest'ultima ipotesi, gli effetti della certificazione si produrranno dal momento di inizio del contratto, se la commissione ha appurato la regolarità dell'appalto anche nel periodo precedente.

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Rischio d'impresa, indice di regolarità. I criteri. L'attività preesistente va considerata come un fattore positivo.
Devono gravare sull'appaltatore l'organizzazione dei lavoratori e dei mezzi e il rischio di impresa.
È la linea dettata dal ministero del Lavoro nella circolare 11.02.2011 n. 5, che ha fissato tre criteri per un contratto d'appalto genuino.
L'appaltatore dovrà concretamente esercitare il potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori impiegati nell'appalto. Infatti, l'oggetto del contratto di appalto è un «fare», poiché l'appaltatore fornisce al committente un'opera o un servizio. Nella somministrazione di lavoro, invece, l'oggetto del contratto è un «dare» poiché il somministratore fornisce a un terzo forza lavoro da lui assunta. Del resto, il legislatore ha previsto che le agenzie per il lavoro debbano essere autorizzate dal ministero del Lavoro, proprio per garantire le parti contraenti lo svolgimento di questa attività senza la necessità di alcuna certificazione.
Un altro criterio è quello dell'organizzazione dei mezzi: sarà necessario valutare se il servizio si caratterizza per la prevalente o esclusiva necessità di lavoro intellettuale o comunque personale dei lavoratori impiegati nell'appalto. Si pensi ai contratti a basso tasso di materialità (servizi informatici, di pulizia) che cioè non hanno bisogno di mezzi, attrezzature e capitali e che si contraddistinguono invece per il know how aziendale in possesso dell'appaltatore (circolare del Lavoro 48/2004). In sostanza, la genuinità emergerà se ci sarà il potere organizzativo e direttivo dell'appaltatore nei confronti dei propri dipendenti specializzati.
Infine, il terzo elemento è l'assunzione del rischio di impresa da parte dell'appaltatore. Un criterio che sarà presente, secondo il ministero, in caso di attività imprenditoriale preesistente che è esercitata abitualmente, in caso di svolgimento di attività produttiva evidente e comprovata e in caso di pluricommittenza esercitata nel tempo. Il ministero del Lavoro ha ulteriormente chiarito, con le risposte a interpello n. 16/2009 e n. 77/2009, che si potrà ritenere genuino anche un appalto in cui l'appaltatore usa mezzi e attrezzature del committente, purché la responsabilità del loro utilizzo rimanga in capo all'appaltatore
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2014).

INCARICHI PROFESSIONALIL'obbligo del Pos non risparmia l'ente. Tracciabilità. Per l'attività d'impresa.
Dall'inizio di questo mese è entrato in vigore l'obbligo per i soggetti che effettuano l'attività di vendita di prodotti e di prestazione di servizi, anche professionali, di accettare anche pagamenti effettuati attraverso carte di debito.
Il Dm attuativo dello Sviluppo economico di concerto con il Mef del 24.01.2014 individua l'ambito oggettivo e soggettivo della disposizione coinvolgendo anche gli enti locali. Dal punto di vista oggettivo l'articolo 2, comma 1, del decreto prevede che l'obbligo si applichi a tutti i pagamenti disposti per l'acquisto di prodotti o la prestazione di servizi, mentre dal punto di vista soggettivo il soggetto obbligato è, ai sensi dell'articolo 1 lettera d), l'esercente, definito come il beneficiario, impresa o professionista, di un pagamento. Tale definizione riconduce nella previsione della norma anche gli enti locali, quando questi ricevono pagamenti per prestazioni di servizi o acquisto di prodotti nell'ambito di proprie attività rilevanti ai fini Iva.
L'ente locale è imprenditore quando esercita un'attività che rientra nel campo di applicazione dell'Iva ai sensi dell'articolo 4 del Dpr 633/1972 che, nel definire il requisito soggettivo, recita: «Per esercizio di imprese si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli articoli 2135 e 2195 del Codice civile».
Di conseguenza l'ente che soddisfa il requisito soggettivo ai fini Iva esercita attività d'impresa e rientra quindi tra i soggetti all'articolo 1, lettera d), del Dm 24.01.2014. Ne deriva che anche gli enti locali, per quanto riguarda incassi superiori a 30 euro relativi alle attività commerciali esercitate, dovranno dotare gli uffici che accettano pagamenti relativi a tali attività, tipicamente sportelli polivalenti e biblioteche, della tecnologia per accettare pagamenti mediante carte di debito. Peraltro, come già evidenziato da diverse associazioni professionali, e come ribadito nella risposta
all'Interrogazione a risposta in commissione 5-02936 del 04.06.2014, la norma non prevede alcuna sanzione specifica in caso di mancato assolvimento dell'obbligo.
Più complesse e da approfondire le conseguenze dal punto di vista civilistico per i responsabili degli enti, in quanto non accettare una forma di pagamento imposta dalla legge realizza la fattispecie della mora del creditore, ex articolo 1206 e seguenti del Codice civile, che prevede l'obbligo, a determinate condizioni, di rifondere le eventuali spese aggiuntive sopportate dal debitore per adempiere alla propria obbligazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2014 - articolo tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOCompensi elettorali in cerca di certezze. Straordinari. Ai non dirigenti.
Corto circuito sul pagamento degli straordinari elettorali per i responsabili di servizio non dirigenti: il contratto collettivo ne prevede la corresponsione insieme alla retribuzione di risultato e, quindi, nel prossimo anno. Ma il ministero dell'Interno richiede, entro settembre 2014, i mandati di pagamento per rimborsare i relativi oneri.
La questione sorge dall'articolo 39, comma 2, del Ccnl del 14.09.2000, secondo il quale, per i dipendenti titolari di posizione organizzativa, i compensi relativi a prestazioni straordinarie rese in occasione delle consultazioni elettorali o referendarie sono attribuiti «in coerenza con la disciplina della retribuzione di risultato». Si è discusso sul significato di tale previsione, dato che lo stesso contratto collettivo sottolineava che si prescinde dalla valutazione per il pagamento.
A chiarirne la portata è intervenuto il parere Ral_1559 dell'Aran del 28.10.2013. Secondo l'Agenzia, gli straordinari elettorali, alla categoria di dipendenti in questione, sono da riconoscere a consuntivo e in coincidenza con l'attribuzione della retribuzione di risultato. Per rafforzare il concetto, prosegue sottolineando che tali straordinari non possono essere pagati ai titolari di posizione organizzativa con le stesse modalità, anche temporali, previste per i restanti dipendenti. In sostanza, quindi, l'Aran afferma che gli straordinari elettorali sono da riconoscere contemporaneamente alla retribuzione di risultato, vale a dire non prima del 2015.
Sul versante completamente diverso si collocano le esigenze di procedere in tempi rapidi al rimborso degli oneri sostenuti dalle amministrazioni comunali per le consultazioni elettorali. La legge di stabilità 2014, modificando la previsione del Dl 8/1993, ha fissato nello spirare del quarto mese successivo al giorno delle elezioni il termine entro il quale l'ente deve presentare richiesta di rimborso delle spese elettorali, pena la perdita del diritto al rimborso stesso.
Fornendo chiarimenti in merito, il dipartimento per gli Affari interni e territoriali del ministero dell'Interno, con la circolare Fl 6/2014 del 30 aprile, dispone che al rendiconto debbano essere allegati, relativamente agli straordinari, la copia degli atti di liquidazione e i mandati di pagamento, in originale o in copia conforme. In sostanza, quindi, il predetto rendiconto deve essere presentato entro il 25 settembre e, per poter allegarne i mandati (o la copia), è necessario che gli straordinari siano pagati, al massimo, con la mensilità di agosto.
Quindi, che fare? O si disattende la norma contrattuale sulle modalità di corresponsione degli straordinari oppure si disapplica la disposizione sui rimborsi. Ma la prima strada può essere contestata soltanto in sede di verifica ispettiva, mentre la seconda mette immediatamente a repentaglio il rimborso. Urgono indicazioni ufficiali a riguardo, in assenza delle quali le amministrazioni obtorto collo saranno costrette a decidere per il male minore
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2014).

APPALTIMonitoraggio pagamenti a regime. Registro unico delle fatture e tutti gli importi da saldare sulla piattaforma elettronica.
Il Dl 66/2014 ha dato forte impulso alla digitalizzazione e automazione del monitoraggio dei debiti attraverso l'anticipazione dell'obbligo di fatturazione elettronica e l'interconnessione tra il Sistema di interscambio (Sdi) e la piattaforma di certificazione crediti (Pcc), a sua volta arricchita di nuove funzionalità. Gli articoli 25 (anticipazione al 31.03.2015 della fattura elettronica), 27 (trasparenza nella gestione dei debiti) e 42 (registro unico delle fatture) dello stesso provvedimento vanno letti congiuntamente, in quanto funzionali alla progressiva dematerializzazione dei documenti e automazione dei processi di spesa, dove la fattura rappresenta l'unità elementare alla base delle rilevazioni contabili.
L'articolo 27, comma 2, ha introdotto il monitoraggio di tutto il ciclo di vita dei debiti commerciali, compresa la contabilizzazione e il pagamento, finalizzato all'informazione in tempo reale all'andamento della spesa pubblica e al monitoraggio dei tempi di pagamento. In caso di trasmissione di fatture elettroniche, i dati di invio e ricezione saranno acquisiti dalla Pcc direttamente dal Sistema di interscambio. Per le fatture analogiche, il caricamento avverrà manualmente o in forma massiva, e potrà essere effettuato anche dal fornitore.
Con la fattura elettronica e l'integrazione del sistema contabile gestionale adottato alla Pcc, il sistema sarà più funzionale e veloce. Nel caso di sistemi contabili integrati (ad esempio il Sicoge per le amministrazioni statali che già ricevono le fatture attraverso il sistema di interscambio), tutto il processo di acquisizione e registrazione dei dati di contabilizzazione e pagamento avverrà automaticamente, mentre negli altri casi sarà da impostare con prevedibili difficoltà, soprattutto in fase di prima applicazione.
Il monitoraggio riguarda le fatture o richieste equivalenti emesse dai fornitori dal 01.01.2014, ancorché solo quelle spiccate dal 1° luglio scorso rientrano nelle ristrette tempistiche previste dall'articolo 27, comma 4, e dall'articolo 42 del Dl 66/2014 che prevedono, rispettivamente, la comunicazione ogni 15 del mese dei debiti scaduti e l'annotazione, entro 10 giorni dalla registrazione, delle fatture nel registro unico. Quest'ultimo può essere gestito attraverso apposite funzionalità della Pcc, ma sarà più facilmente tenuto nell'ambito del sistema contabile dell'ente, di cui fa parte, alimentando a sua volta la Pcc.
Il sistema segnalerà in automatico le fatture già caricate per le quali è scaduto il termine di pagamento, ma l'ente deve verificare che la data sia corretta dato che, in mancanza, la Pcc applica automaticamente i 30 giorni di legge. La prima scadenza è il 15.08.2014, anche se gli enti dovranno comunque procedere a caricare prima i dati relativi alle fatture (emesse dal 1° luglio) in caso di pagamento (articolo 7-bis, comma 5, del Dl 35/2013). Per le fatture emesse nel primo semestre 2014, la comunicazione, riferita ai soli debiti non ancora estinti, avverrà una tantum a settembre (si presume entro il giorno 30), come da circolare della Ragioneria 21/2014.
La
circolare 07.07.2014 n. 22 della RGS ha invece fissato al 21 luglio il termine perentorio per inviare attraverso la Pcc la comunicazione degli spazi finanziari, a valere sul patto di stabilità interno, di cui necessitano gli enti locali per estinguere nel 2014 i debiti certi, liquidi ed esigibili di parte capitale ancora in essere al 31.12.2013. Alla stessa data gli enti devono comunicare, a soli fini conoscitivi, anche l'ammontare dei debiti maturati al 31.12.2013 che non rientrano tra quelli certi, liquidi ed esigibili, per i quali è stata emessa fattura di pagamento ma non sussistono ancora i presupposti per la liquidazione. Regioni e Province dovranno comunicare anche i debiti al 31.12.2013 di qualunque natura nei confronti degli enti locali.
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Il calendario
Gli obblighi di monitoraggio dei debiti commerciali per la Pa
ENTRO 10 GIORNI DALLA RICEZIONE
Per ogni ente pubblico è già scattato l'obbligo di annotazione nel registro unico delle fatture o richieste equivalenti emesse dai fornitori a partire da questa data
21 LUGLIO 2014 (*)
Comunicazione degli spazi necessari per estinguere nel 2014 i debiti certi, liquidi e esigibili di parte capitale ancora in essere alla data del 31.12.2013
21 LUGLIO 2014
Comunicazione –a fini conoscitivi– dei debiti maturati al 31.12.2013 che non rientrano tra quelli certi, liquidi ed esigibili, per i quali è stata emessa fattura, ma non sussistono ancora i presupposti alla liquidazione
21 LUGLIO 2014
Per Regioni e Province comunicazione (a fini conoscitivi) dei debiti verso gli enti locali al 31.12.2013 di qualunque natura, con distinta annotazione di quelli correnti e quelli in conto capitale
ENTRO IL 15 DI OGNI MESE (**)
Comunicazione dei debiti per i quali sono scaduti i termini di pagamento nel mese precedente (valido per le fatture emesse a partire dal 01.07.2014)
SETTEMBRE 2014
Comunicazione dei dati di ricezione e contabilizzazione relativi alle fatture emesse dal 1° gennaio al 30.06.2014 per debiti non ancora estinti
CON L'ORDINE DI PAGAMENTO
Comunicazione alla piattaforma di certificazione crediti dei dati di ricezione, contabilizzazione e pagamento relativi alle fatture ricevute dai fornitori a partire dal 01.07.2014 (articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni stabili, tre vie per superare i limiti ai contratti. Personale, tempo indeterminato.
L'aumento delle assunzioni a tempo indeterminato che gli enti locali possono effettuare sulla base del Dl 90/2014 rischia di restare sulla carta. Questo perché il vincolo del non superamento del tetto alla spesa del personale dell'anno precedente e il negare un effetto prenotativo alla programmazione del fabbisogno del personale determinano, per molte amministrazioni, la impossibilità di utilizzare i maggiori plafond.

Una parziale limitazione di questo effetto può arrivare anche dal consolidamento della scelta compiuta dalla sezione regionale di controllo della magistratura contabile dell'Umbria (parere n. 15), per la quale il tetto alla spesa del personale deve essere calcolato sul bilancio preventivo e non sugli oneri effettivamente sostenuti, cioè sul conto consuntivo.
Gli enti locali soggetti al patto di stabilità devono restare, come tetto di spesa del personale, all'interno di quella dell'anno precedente. Il che può impedire di fatto nuove assunzioni. Facciamo un esempio: un dipendente cessa all'inizio dell'anno e uno nuovo viene assunto all'inizio dell'anno successivo. Se non riuscirà a ridurre in altro modo la spesa del personale nell'anno in cui effettua l'assunzione, il Comune non potrà effettuarla perché, con i nuovi oneri, supererà la spesa del personale dell'anno precedente, in cui la cessazione ha determinato l'effetto di fargli ridurre la spesa del personale. Il che determina una limitazione ulteriore alle assunzioni di personale rispetto a quelle dettate direttamente dal legislatore. Questo vincolo appare come irragionevole nel momento in cui il Governo ha ampliato le possibilità di assunzione di personale a tempo indeterminato da parte degli enti locali, parziale riapertura che si è realizzata con due scelte:
- in primo luogo, con l'aumento della percentuale dei risparmi derivanti dalle cessazioni che gli enti possono destinare alle nuove assunzioni: al 60%, per il biennio 2014/2015; all'80%, per il biennio 2016/2017; al 100%, dal 2018;
- poi attraverso l'abolizione del divieto per gli enti che, anche considerando la spesa per il personale delle società partecipate, superano la soglia massima del 50% nel rapporto tra spesa del personale e spesa corrente.
Per eliminare le limitazioni alle nuove assunzioni che derivano dal tetto alla spesa del personale vi sono almeno tre strade percorribili.
- La prima è quella di assumere, come già si fa per gli enti non soggetti al patto, come tetto di spesa non superabile quella di un dato anno o meglio, per evitare effetti di casualità, di un triennio.
- La seconda è quella di assegnare, scelta auspicata dalla stessa sezione autonomie della Corte dei conti, un effetto prenotativo sulla spesa del personale alla programmazione del fabbisogno del personale, cosicché l'inserimento di una assunzione in tale documento consente di aumentare convenzionalmente il tetto di spesa del personale dell'anno su cui fare poi il confronto nell'anno successivo.
- La terza risposta (di portata più limitata) è quella suggerita dai giudici contabili dell'Umbria di assumere, come base di confronto, la spesa del personale del bilancio preventivo, così da non farla diminuire a seguito di eventi casuali (il ritardo in un'assunzione, l'aspettativa di personale senza sostituzione, l'assenza del segretario, eccetera)
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2014).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: I poteri dell’Amministrazione statale non si estendono a un riesame complessivo delle valutazioni discrezionali compiute dalla Regione o da un ente sub-delegato, tale da consentire la sovrapposizione o sostituzione di una propria valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell'autorizzazione (paesaggistica), ma si estrinsecano in un controllo di mera legittimità, che comprende tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere per difetto d'istruttoria e carenza, illogicità o irrazionalità motivazionale.
Per completezza si deve però osservare che si attaglierebbe alla concreta fattispecie quella consolidata giurisprudenza secondo la quale i poteri dell’Amministrazione statale non si estendono a un riesame complessivo delle valutazioni discrezionali compiute dalla Regione o da un ente sub-delegato, tale da consentire la sovrapposizione o sostituzione di una propria valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell'autorizzazione, ma si estrinsecano in un controllo di mera legittimità, che comprende tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere per difetto d'istruttoria e carenza, illogicità o irrazionalità motivazionale (ex plurimis: Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9; Sez. VI, 11.09.2013, n. 4481; 12.04.2013, n. 1991) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 16.07.2014 n. 1843 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In base all’articolo 31, secondo e terzo comma del d.p.r. 06.06.2001 n. 380, il proprietario deve ritenersi passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell' abuso.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, in ogni caso, nell’ipotesi in cui il proprietario dimostri la sua assoluta estraneità all'abuso edilizio commesso da altri e manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso sia stato impossibilitato ad eseguire.

Occorre ricordare che, in base all’articolo 31, secondo e terzo comma del d.p.r. 06.06.2001 n. 380, il proprietario deve ritenersi passivamente legittimato rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell' abuso (ex plurimis: TAR Campania, Napoli, Sezione VIII, 26.04.2013 n. 2180; TAR Puglia, Lecce, Sezione III, 20.01.2014 n. 184).
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, in ogni caso, nell’ipotesi in cui il proprietario dimostri la sua assoluta estraneità all'abuso edilizio commesso da altri e manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso sia stato impossibilitato ad eseguire (tra le tante Consiglio di Stato, Sezione IV, 03.05.2011 n. 2639; TAR Sicilia, Palermo, Sezione III, 21.01.2013 n. 153; TAR Campania, Napoli, Sezione VIII, 17.09.2012 n. 3879; TAR Lazio, Sezione II, 14.02.2011 n. 1395; TAR Umbria, 25.11.2008, n. 787) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 16.07.2014 n. 1840 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le delibere comunali di adeguamento degli oneri di urbanizzazione possono trovare applicazione esclusivamente “per i permessi rilasciati a far tempo dall’epoca di adozione dell’atto deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore”.
L’art. 16 del D.P.R n. 380/2001 stabilisce che “la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all’atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell’interessato, può essere rateizzata” mentre “la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all’atto del rilascio, è corrisposta in corso d’opera con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione”.
Se i contributi concessori devono essere stabiliti, secondo la lettera della norma, al momento del rilascio del permesso di costruire, “a tale momento occorre dunque avere riguardo par l’entità dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio”.
Ciò significa che le delibere comunali di adeguamento degli oneri di urbanizzazione possono trovare applicazione esclusivamente “per i permessi rilasciati a far tempo dall’epoca di adozione dell’atto deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore”.
Di conseguenza, una volta che la determinazione degli oneri concessori sia correttamente avvenuta sulla base delle tabelle vigente all’epoca del rilascio del permesso di costruire, non può che rivelarsi “illegittima la pretesa dell’Amministrazione di addossare al titolare del permesso edilizio rilasciato anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento”.
D’altro canto la convenienza a realizzare o meno l’intervento edilizio non può prescindere da una valutazione degli oneri concessori quale significativa componente dei costo complessivo; per cui, un adeguamento del contributo ex post si tradurrebbe in un alea insopportabile per chi, ove a conoscenza di un diversa e maggiore entità del contributo, si sarebbe magari astenuto dall’iniziativa economica intrapresa.

Il ricorso pone una questione già affrontata da questo Tribunale (cfr. sent. n. 48 e n. 2058/2013) che, sulla base di una giurisprudenza consolidata, ha ritenuto di dover affermare la irretroattività delle determinazioni comunali a carattere regolamentare, con cui vengono stabiliti i criteri generali e le nuove tariffe e modalità di calcolo degli oneri concessori, in applicazione del principio “tempus regit actum”.
Il collegio, pertanto, non ravvisando motivo per un diverso orientamento, ritiene di poter ribadire le conclusioni raggiunte, richiamandone le argomentazioni svolte.
L’art. 16 del D.P.R n. 380/2001 stabilisce che “la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al comune all’atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell’interessato, può essere rateizzata” mentre “la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all’atto del rilascio, è corrisposta in corso d’opera con le modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione”.
Se i contributi concessori devono essere stabiliti, secondo la lettera della norma, al momento del rilascio del permesso di costruire, “a tale momento occorre dunque avere riguardo par l’entità dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio” (TAR Puglia–Lecce sent. n. 2058/2013).
Ciò significa che le delibere comunali di adeguamento degli oneri di urbanizzazione possono trovare applicazione esclusivamente “per i permessi rilasciati a far tempo dall’epoca di adozione dell’atto deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore” (TAR Puglia–Lecce sent. n. 48/2013).
Di conseguenza, una volta che la determinazione degli oneri concessori sia correttamente avvenuta sulla base delle tabelle vigente all’epoca del rilascio del permesso di costruire, non può che rivelarsi “illegittima la pretesa dell’Amministrazione di addossare al titolare del permesso edilizio rilasciato anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento”.
D’altro canto la convenienza a realizzare o meno l’intervento edilizio non può prescindere da una valutazione degli oneri concessori quale significativa componente dei costo complessivo; per cui, un adeguamento del contributo ex post si tradurrebbe in un alea insopportabile per chi, ove a conoscenza di un diversa e maggiore entità del contributo, si sarebbe magari astenuto dall’iniziativa economica intrapresa.
Nella specie, quindi, l’integrazione del costo di costruzione (Euro 4.970,88), richiesta dal comune di Castro a distanza di oltre cinque anni dal rilascio del permesso di costruire con oneri concessori a suo tempo definiti senza riserve, non può che apparire ingiustificata e contraria a quanto disposto dell’art. 16 del D.P.R. n. 380 la cui violazione viene dal ricorrente fondatamente denunciata (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 16.07.2014 n. 1838 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 successivamente all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse: il riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria, difatti, determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso.
L’interesse del responsabile dell’abuso, per conseguenza, si concentra in queste ipotesi sugli eventuali provvedimenti di rigetto della domanda di sanatoria prima e di demolizione poi.

Tanto premesso in fatto, si deve rammentare che, secondo il prevalente indirizzo della giurisprudenza amministrativa (per tutte, TAR Puglia, Lecce, Sezione III, 01.2012 n. 1447), cui questo Collegio aderisce, “la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 successivamente all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per carenza di interesse: il riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria, difatti, determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto dell’originario ricorso. L’interesse del responsabile dell’abuso, per conseguenza, si concentra in queste ipotesi sugli eventuali provvedimenti di rigetto della domanda di sanatoria prima e di demolizione poi (fra le ultime, Tar Campania Napoli, VII, 08.03.2012, n. 1202)” (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 16.07.2014 n. 1833 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il vincolo d’inedificabilità relativa quale la "fascia di rispetto stradale, a tutela di una viabilità esistente" esprime un limite di natura conformativa, che si traduce nell’obbligo di osservare determinate distanze delle costruzioni dal ciglio delle strade, ed è quindi insuscettibile di decadenza, con il trascorrere del periodo quinquennale, legislativamente previsto.
Invero, è già stato ribadito di recente quanto segue: “Ritorna all’attenzione del Collegio il problema della decadenza dei vincoli preordinati all’esproprio, di cui si è più volte occupata la giurisprudenza costituzionale ed amministrativa.
Il caso di specie, non ancora governato dalle previsioni di cui al DPR n. 327/2001, risulta riconducibile all’assetto normativo di cui alla legge fondamentale ed alle previsioni di cui all’art. 2 della legge 19.11.1968 n. 1187, le cui linee portanti, così come elaborate dalla giurisprudenza, possono compendiarsi nella sintetica ricostruzione che segue.
2.a.- Alla stregua dei principi espressi dalla Corte costituzionale, con la sentenza 20.05.1999, n. 179 –dichiarativa dell’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 7, n. 2, 3 e 4 e 40 della legge 17.08.1942, n. 1150, e 2, primo comma, della legge 19.11.1968, n. 1187, nella parte in cui consente all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di un indennizzo– i vincoli urbanistici non indennizzabili, e che sfuggono alla previsione del predetto articolo 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, e che devono essere indennizzati, sono:
a) quelli preordinati all’espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso l’imposizione a titolo particolare su beni determinati di condizioni di inedificabilità assoluta;
b) quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l’esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata a tale esproprio con l’approvazione dei piani urbanistici esecutivi;
c) quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge nell’ambito dell’art. 42 Cost. Il Consiglio di Stato ha più volte precisato che costituiscono vincoli soggetti a decadenza, ai sensi dell’articolo 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, quelli preordinati all’espropriazione, o che comportino l’inedificabilità, e che, dunque, svuotano il contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene in modo tale da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone significativamente il suo valore di scambio.
A seguito della scadenza dei vincoli di inedificabilità imposti dal piano regolatore generale, per effetto dell’art. 2 l. 19.11.1968 n. 1187, l’area resta assoggettata alla disciplina prevista dall’art. 4, ultimo comma, l. 28.01.1977 n. 10 o alla legislazione regionale ove esistente per i comuni sprovvisti di strumento urbanistico e non alla disciplina anteriore all’imposizione del vincolo o ricavabile dalle destinazioni proprie delle aree limitrofe.
2.b. Tanto premesso, la Suprema Corte di Cassazione, occupandosi della natura dei vincoli relativi alle opere di viabilità previste nel prg, ha chiarito che l’indicazione delle opere di viabilità nel piano regolatore generale (art. 7, comma 2, n. 1 l. 17.08.1942 n. 1150), pur comportando un vincolo di inedificabilità delle parti del territorio interessate, con le relative conseguenze nella scelta del criterio di determinazione dell’indennità di esproprio nel sistema dell’art. 5-bis l. 08.08.1992 n. 359, basato sulla edificabilità o meno dei suoli, non concreta un vincolo preordinato all’esproprio, a meno che tale destinazione non sia assimilabile all’indicazione delle reti stradali all’interno e a servizio delle singole zone (art. 13 l. n. 1150 del 1942) di regola rimesse allo strumento di attuazione, e come tali riconducibili ai vincoli imposti a titolo particolare, a carattere espropriativo.
2.c.- La giurisprudenza di merito ha chiarito, altresì, che la destinazione dell’area a fascia di rispetto della sede viaria non costituisce utilizzazione a fini pubblici dell’area stessa né introduce un vincolo preordinato all’esproprio, ma integra un vincolo di natura conformativa costituente un limite all’edificabilità dell’area che l’amministrazione può imporre nell’esercizio dei suoi poteri ampiamente discrezionali in tema di pianificazione del territorio e che trova la sua giustificazione nell’esigenza di tutela del superiore interesse pubblico alla sicurezza della circolazione stradale; pertanto, alla natura conformativa del vincolo consegue che lo stesso non soggiace a decadenza quinquennale”.
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La stessa conclusione, cui giunge la sentenza di questo Tribunale, testé citata, non costituisce, del resto, una voce isolata nella giurisprudenza amministrativa, ma è ribadita costantemente, come si ricava dalle massime seguenti (per citare solo le più recenti):
- “In caso di area ricadente in parte all’interno della “fascia di rispetto delle sedi stradali” e in parte in “sede stradale”, le porzioni di terreno ricadenti nella zona di rispetto della sede stradale sono soggette ad un vincolo conformativo non soggetto a decadenza, mentre la porzione di terreno ricadente in area destinata a sede stradale è soggetta ad un vincolo di natura espropriativa”;
- “Il vincolo di inedificabilità della “fascia di rispetto stradale” –che è una tipica espressione dell’attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una generalità di beni e di soggetti– non ha natura espropriativa, ma unicamente conformativa, perché ha il solo effetto di imporre alla proprietà l’obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente dall’eventuale instaurazione di procedure espropriative”.

A tale riguardo, la difesa del Comune ha opposto che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, il vincolo d’inedificabilità relativa in questione (fascia di rispetto stradale, a tutela di una viabilità esistente) esprimerebbe, invece, un limite di natura conformativa, che si traduce nell’obbligo di osservare determinate distanze delle costruzioni dal ciglio delle strade, ed è quindi insuscettibile di decadenza, con il trascorrere del periodo quinquennale, legislativamente previsto.
La tesi della difesa del Comune è condivisibile: si richiama, a tale proposito, la parte motiva della recente sentenza di questa Sezione Staccata di Salerno del TAR Campania - Sez. II, n. 1276 del 13.06.2013, ove è dato leggere quanto segue: “Ritorna all’attenzione del Collegio il problema della decadenza dei vincoli preordinati all’esproprio, di cui si è più volte occupata la giurisprudenza costituzionale ed amministrativa.
Il caso di specie, non ancora governato dalle previsioni di cui al DPR n. 327/2001, risulta riconducibile all’assetto normativo di cui alla legge fondamentale ed alle previsioni di cui all’art. 2 della legge 19.11.1968 n. 1187, le cui linee portanti, così come elaborate dalla giurisprudenza, possono compendiarsi nella sintetica ricostruzione che segue.
2.a.- Alla stregua dei principi espressi dalla Corte costituzionale, con la sentenza 20.05.1999, n. 179 –dichiarativa dell’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 7, n. 2, 3 e 4 e 40 della legge 17.08.1942, n. 1150, e 2, primo comma, della legge 19.11.1968, n. 1187, nella parte in cui consente all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di un indennizzo– i vincoli urbanistici non indennizzabili, e che sfuggono alla previsione del predetto articolo 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, e che devono essere indennizzati, sono:
a) quelli preordinati all’espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso l’imposizione a titolo particolare su beni determinati di condizioni di inedificabilità assoluta;
b) quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l’esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata a tale esproprio con l’approvazione dei piani urbanistici esecutivi;
c) quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge nell’ambito dell’art. 42 Cost. Il Consiglio di Stato ha più volte precisato che costituiscono vincoli soggetti a decadenza, ai sensi dell’articolo 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, quelli preordinati all’espropriazione, o che comportino l’inedificabilità, e che, dunque, svuotano il contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene in modo tale da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero diminuendone significativamente il suo valore di scambio.
A seguito della scadenza dei vincoli di inedificabilità imposti dal piano regolatore generale, per effetto dell’art. 2 l. 19.11.1968 n. 1187, l’area resta assoggettata alla disciplina prevista dall’art. 4, ultimo comma, l. 28.01.1977 n. 10 o alla legislazione regionale ove esistente per i comuni sprovvisti di strumento urbanistico e non alla disciplina anteriore all’imposizione del vincolo o ricavabile dalle destinazioni proprie delle aree limitrofe (ex multis Cons. St. Sez. V 03.10.1992 n. 924).
2.b. Tanto premesso, la Suprema Corte di Cassazione, occupandosi della natura dei vincoli relativi alle opere di viabilità previste nel prg, ha chiarito che l’indicazione delle opere di viabilità nel piano regolatore generale (art. 7, comma 2, n. 1 l. 17.08.1942 n. 1150), pur comportando un vincolo di inedificabilità delle parti del territorio interessate, con le relative conseguenze nella scelta del criterio di determinazione dell’indennità di esproprio nel sistema dell’art. 5-bis l. 08.08.1992 n. 359, basato sulla edificabilità o meno dei suoli, non concreta un vincolo preordinato all’esproprio, a meno che tale destinazione non sia assimilabile all’indicazione delle reti stradali all’interno e a servizio delle singole zone (art. 13 l. n. 1150 del 1942) di regola rimesse allo strumento di attuazione, e come tali riconducibili ai vincoli imposti a titolo particolare, a carattere espropriativo (Sez. I 06.11.2008 n. 26615).
2.c.- La giurisprudenza di merito ha chiarito, altresì, che la destinazione dell’area a fascia di rispetto della sede viaria non costituisce utilizzazione a fini pubblici dell’area stessa né introduce un vincolo preordinato all’esproprio, ma integra un vincolo di natura conformativa costituente un limite all’edificabilità dell’area che l’amministrazione può imporre nell’esercizio dei suoi poteri ampiamente discrezionali in tema di pianificazione del territorio e che trova la sua giustificazione nell’esigenza di tutela del superiore interesse pubblico alla sicurezza della circolazione stradale; pertanto, alla natura conformativa del vincolo consegue che lo stesso non soggiace a decadenza quinquennale (ex multis Tar Liguria Sez. I 01.02.2011 n. 172
)”.
La stessa conclusione, cui giunge la sentenza di questo Tribunale, testé citata, non costituisce, del resto, una voce isolata nella giurisprudenza amministrativa, ma è ribadita costantemente, come si ricava dalle massime seguenti (per citare solo le più recenti): “In caso di area ricadente in parte all’interno della “fascia di rispetto delle sedi stradali” e in parte in “sede stradale”, le porzioni di terreno ricadenti nella zona di rispetto della sede stradale sono soggette ad un vincolo conformativo non soggetto a decadenza, mentre la porzione di terreno ricadente in area destinata a sede stradale è soggetta ad un vincolo di natura espropriativa” (TAR Sicilia–Palermo – Sez. III, 24.05.2013, n. 1167); “Il vincolo di inedificabilità della “fascia di rispetto stradale” –che è una tipica espressione dell’attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una generalità di beni e di soggetti– non ha natura espropriativa, ma unicamente conformativa, perché ha il solo effetto di imporre alla proprietà l’obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo in funzione di salvaguardia della programmazione urbanistica, indipendentemente dall’eventuale instaurazione di procedure espropriative” (Consiglio di Stato – Sez. IV, 27.09.2012, n. 5113; conformi: TAR Puglia–Lecce, Sez. I, 19.10.2011, n. 1798; TAR Lombardia–Milano, Sez. IV, 21.04.2011, n. 1019).
Ne deriva che, trattandosi di vincolo conformativo anziché espropriativo, e non essendo quindi, il medesimo, soggetto a decadenza quinquennale, il motivo di diniego, impingente nella destinazione impressa alla zona, e nelle connesse previsioni, circa l’edificazione assentibile, contenute nelle N.T.A. del P.R.G., resiste alle censure espresse in ricorso (ammesso e non concesso che le stesse possano ritenersi compiutamente formulate sul punto).
Ne deriva che il motivo di ricorso sub 1), basato proprio sulla natura di “zona bianca” ascrivibile all’area “de qua”, non ha pregio, una volta venuto meno il presupposto, su cui si fondava; lo stesso dicasi per il motivo sub 2) (imperniato sull’asserito non superamento del limite volumetrico dello 0,03 mc/mq); mentre, quanto al difetto di motivazione circa le “modifiche inaccettabili del piano di campagna”, che l’intervento proposto avrebbe determinato, dedotto dal ricorrente sub 3), deve rimarcarsene l’irrilevanza, una volta stabilito che un altro motivo di diniego resisterebbe, in ogni caso, alle doglianze espresse in ricorso, giusta quanto anche sopra rilevato.
Per ciò che concerne, infine, l’asserita violazione dell’art. 10-bis della l. 241/1990, di cui alla quarta ed ultima censura, la stessa non merita accoglimento, posto che i nuovi motivi di definitivo diniego (i quali, non espressi nel preavviso ex art. 10-bis l. 241/1990, avrebbero determinato la violazione del principio del contraddittorio sostanziale), sono stati formulati, come sopra anche rilevato, in risposta alle osservazioni, rassegnate dal ricorrente nelle memorie prodotte, dopo aver ricevuto il detto preavviso di provvedimento negativo; sicché non può predicarsene la diversità, rispetto a quelli espressi precedentemente, dovendosi anzi rimarcare come il rispetto del canone del contraddittorio procedimentale si sia spinto, nella specie, fino alla formulazione di una ragione di rigetto dell’istanza di p. di c., ulteriore rispetto a quella, dirimente, del contrasto dell’intervento previsto con il vincolo di fascia di rispetto stradale, per il caso che quest’ultima non fosse stata ritenuta valida (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 16.07.2014 n. 1393 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ noto che, in presenza di una domanda di sanatoria di abusi edilizi, diventano inefficaci i precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizioni, inibitorie, ordine di sospensione dei lavori), sul presupposto, così come affermato da ricorrente giurisprudenza, che “sul piano procedimentale, il Comune è tenuto innanzi tutto a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono effettuando, comunque, una nuova valutazione della situazione mentre, dal punto di vista processuale, la documentata presentazione di istanza di condono comporta l’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso i pregressi provvedimenti repressivi”.
Ciò detto, il ricorso può essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, vista l’istanza di sanatoria presentata dal ricorrente e documentata in atti.
E’ noto, infatti, che, in presenza di una domanda di sanatoria di abusi edilizi, diventano inefficaci i precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizioni, inibitorie, ordine di sospensione dei lavori), sul presupposto, così come affermato da ricorrente giurisprudenza, che “sul piano procedimentale, il Comune è tenuto innanzi tutto a esaminare ed eventualmente a respingere la domanda di condono effettuando, comunque, una nuova valutazione della situazione mentre, dal punto di vista processuale, la documentata presentazione di istanza di condono comporta l’improcedibilità del ricorso per carenza di interesse avverso i pregressi provvedimenti repressivi” (Consiglio di Stato, Sez. V, 31.10.2012, n. 5553) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 16.07.2014 n. 1387 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Il Collegio osserva che, nella fattispecie in esame, l’incarico affidato ai legali esterni consisteva nella complessiva attività di assistenza e consulenza legale da espletarsi in favore del Comune, ovvero nella gestione di tutto il servizio di attività legale dell’amministrazione, comprensivo, come specificato nello schema di convenzione, di attività di consultazioni orali, scritte, e di redazione di pareri.
In sostanza, non si trattava, nello specifico, dell’affidamento, in via fiduciaria, di un singolo incarico o di una singola attività afferente ad una specifica vertenza legale, ma, piuttosto, della organizzazione di una complessiva attività di assistenza in favore dell’ente locale, da farsi rientrare, a pieno titolo, nella nozione ampia di consulenza legale.
Per tali ragioni, il Collegio ritiene che il Comune avrebbe dovuto attivare una procedura comparativa allo scopo di selezionare, secondo logiche concorrenziali, il proprio contraente.
A sostegno di tale conclusione, soccorre anche quanto previsto nello stesso Regolamento per la disciplina degli incarichi esterni, approvato dal Comune con delibera n. 102/2010 che, allo scopo di garantire la trasparenza e pubblicità dell’azione amministrativa, unitamente alla professionalità degli incarichi, ammette, all’art. 6, la possibilità di procedere al conferimento diretto di incarichi legali a professionisti esterni nelle sole e limitate ipotesi di rappresentanza e difesa in giudizio e di particolari consulenze, laddove l’ente locale reputi che la scelta di un determinato professionista risulti utile al buon esito della lite, prevedendo, negli altri casi, l’utilizzo di procedure selettive per la scelta del professionista esterno.
Il tutto in conformità con quanto previsto, in via generale, dall’art. 7, comma 6, del D. Lgs n. 165/2001, come modificato dall’art. 32 del D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006, a mente del quale le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione a professionisti esterni, potendo procedere al conferimento di incarichi individuali solo per soddisfare esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, ed alle condizioni e con i presupposti specificamente individuati dal legislatore.
Giova, inoltre, ricordare quanto espresso di recente dalla giurisprudenza contabile (Corte Conti, Sez. Reg. Controllo Basilicata, parere n. 8/2009) e dall’autorevole orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo la quale occorre distinguere la nozione di servizio legale da quella di singolo incarico difensivo, caratterizzandosi il servizio legale per un quid pluris, sotto il profilo dell’organizzazione, della continuità e della complessità, rispetto al singolo contratto d’opera intellettuale.
Mentre il patrocinio legale, infatti, costituendo il contratto volto a soddisfare il solo e circoscritto bisogno di difesa giudiziale del cliente, deve essere inquadrato nell’ambito della prestazione d’opera intellettuale, il servizio legale presenta qualcosa in più, per prestazione o modalità organizzativa, che giustifica il suo assoggettamento alla disciplina concorsuale.
L’affidamento di servizi legali è, a questa stregua, configurabile allorquando l’oggetto del servizio non si esaurisce nel patrocinio legale a favore dell’Ente, ma si configura quale modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso e articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisce.
Esso, quindi, soggiace alle regole delle procedure concorsuali di stampo selettivo, incompatibili con il solo contratto di conferimento del singolo e puntuale incarico legale, vista la struttura della fattispecie contrattuale, qualificata, alla luce dell’aleatorietà dell’iter del giudizio, dalla non predeterminabilità degli aspetti temporali, economici e sostanziali della prestazioni e dalla conseguente assenza di basi oggettive sulla scorta delle quali fissare i criteri di valutazione necessari in forza della disciplina recata dal codice dei contratti pubblici.

L’avv.to B.L.A., titolare di uno studio legale in Calabritto ed avvocato iscritto all’Albo del Foro di S. Angelo dei Lombardi (AV), ha impugnato la delibera n. 1 del 11.06.2013 con la quale il Comune di Caposele ha conferito agli avv.ti P.M. e T.R. l’incarico di collaborazione esterna ad alto contenuto di professionalità da svolgersi per la consulenza legale, giudiziale e stragiudiziale, a tutti gli organi comunali, per la durata di un anno.
Il ricorrente ha dedotto l’illegittimità di tale delibera per violazione dell’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, dell’art. 100 del T.U. n. 267/2000, del Regolamento sugli incarichi esterni del Comune di Caposele, approvato con delibera n. 102/2010, e dell’art. 33 del R.O. del Comune.
Ha, inoltre, censurato la delibera per illegittimità derivata dalla violazione degli artt. 21 e 23 della Carta Europea dei diritti dell’Uomo, dell’art. 51 della Costituzione, dell’art. 6 del T.U. n. 267/2000 e degli artt. 9 e 40 dello Statuto Comunale.
Da ultimo, ha censurato la violazione degli artt. 78 e 49 del T.U. n. 267/2000.
In sostanza, a detta del ricorrente, il Comune, vista la natura dell’incarico in questione, non avrebbe potuto procedere al suo diretto conferimento agli avv.ti M. e R. ma avrebbe dovuto porre in essere una procedura concorsuale di tipo selettivo, aperta alla partecipazione di tutti coloro che, in possesso dei titoli e requisiti richiesti, aspiravano al conseguimento dell’incarico.
Nella formazione della seduta consiliare del 10.06.2013, poi, non erano state rispettate le c.d. quote rosa, ed il Sindaco non si era astenuto, proponendo e affidando l’incarico al coniuge di un parente entro il quarto grado, sottoscrivendo, altresì, il parere tecnico sulla proposta di delibera impugnata.
Per tali ragioni la delibera andava annullata.
...
Passando, ora, al merito delle censure proposte, il Collegio ritiene che il ricorso sia fondato.
Il Collegio osserva che, nella fattispecie in esame, l’incarico affidato ai legali esterni consisteva nella complessiva attività di assistenza e consulenza legale da espletarsi in favore del Comune, ovvero nella gestione di tutto il servizio di attività legale dell’amministrazione, comprensivo, come specificato nello schema di convenzione, di attività di consultazioni orali, scritte, e di redazione di pareri. In sostanza, non si trattava, nello specifico, dell’affidamento, in via fiduciaria, di un singolo incarico o di una singola attività afferente ad una specifica vertenza legale, ma, piuttosto, della organizzazione di una complessiva attività di assistenza in favore dell’ente locale, da farsi rientrare, a pieno titolo, nella nozione ampia di consulenza legale.
Per tali ragioni, il Collegio ritiene che il Comune avrebbe dovuto attivare una procedura comparativa allo scopo di selezionare, secondo logiche concorrenziali, il proprio contraente.
A sostegno di tale conclusione, soccorre anche quanto previsto nello stesso Regolamento per la disciplina degli incarichi esterni, approvato dal Comune di Caposele con delibera n. 102/2010 che, allo scopo di garantire la trasparenza e pubblicità dell’azione amministrativa, unitamente alla professionalità degli incarichi, ammette, all’art. 6, la possibilità di procedere al conferimento diretto di incarichi legali a professionisti esterni nelle sole e limitate ipotesi di rappresentanza e difesa in giudizio e di particolari consulenze, laddove l’ente locale reputi che la scelta di un determinato professionista risulti utile al buon esito della lite, prevedendo, negli altri casi, l’utilizzo di procedure selettive per la scelta del professionista esterno.
Il tutto in conformità con quanto previsto, in via generale, dall’art. 7, comma 6, del D. Lgs n. 165/2001, come modificato dall’art. 32 del D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006, a mente del quale le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione a professionisti esterni, potendo procedere al conferimento di incarichi individuali solo per soddisfare esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, ed alle condizioni e con i presupposti specificamente individuati dal legislatore.
Giova, inoltre, ricordare quanto espresso di recente dalla giurisprudenza contabile (Corte Conti, Sez. Reg. Controllo Basilicata, parere n. 8/2009) e dall’autorevole orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo la quale occorre distinguere la nozione di servizio legale da quella di singolo incarico difensivo, caratterizzandosi il servizio legale per un quid pluris, sotto il profilo dell’organizzazione, della continuità e della complessità, rispetto al singolo contratto d’opera intellettuale.
Mentre il patrocinio legale, infatti, costituendo il contratto volto a soddisfare il solo e circoscritto bisogno di difesa giudiziale del cliente, deve essere inquadrato nell’ambito della prestazione d’opera intellettuale, il servizio legale presenta qualcosa in più, per prestazione o modalità organizzativa, che giustifica il suo assoggettamento alla disciplina concorsuale.
L’affidamento di servizi legali è, a questa stregua, configurabile allorquando l’oggetto del servizio non si esaurisce nel patrocinio legale a favore dell’Ente, ma si configura quale modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso e articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisce (Autorità per la Vigilanza sui Contratti, determina n. 4 del 07.07.2011).
Esso, quindi, soggiace alle regole delle procedure concorsuali di stampo selettivo, incompatibili con il solo contratto di conferimento del singolo e puntuale incarico legale, vista la struttura della fattispecie contrattuale, qualificata, alla luce dell’aleatorietà dell’iter del giudizio, dalla non predeterminabilità degli aspetti temporali, economici e sostanziali della prestazioni e dalla conseguente assenza di basi oggettive sulla scorta delle quali fissare i criteri di valutazione necessari in forza della disciplina recata dal codice dei contratti pubblici (Cons. Stato, sez. V. 11.05.2012 n. 2730).
Alla luce di tali argomentazioni, deve concludersi che, vista la natura e complessità dell’incarico conferito dal Comune di Caposele, la mancata attivazione di una procedura comparativa di tipo concorsuale, da parte dell’Ente locale, per la scelta del miglior contraente, abbia determinato l’illegittimità della delibera gravata, che, per tale ragione, deve essere annullata (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 16.07.2014 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La prescrizione di cui all’art. 8 del D.M. 1444/1968 (secondo cui, per le costruzioni da realizzarsi in zone C, che siano contigue o in diretto rapporto visuale con zone A, le altezze massime dei nuovi edifici non possono superare altezze “compatibili” con quelle degli edifici delle zone A) rimanda all’amministrazione la valutazione di compatibilità delle altezze delle nuove costruzioni rispetto a quelle esistenti in zona A, con un giudizio che è pacificamente caratterizzato da connotati di discrezionalità tecnica, quindi sindacabile solo nelle ipotesi in cui emergano elementi sintomatici dell’eccesso di potere sotto il profilo della illogicità manifesta, della erroneità dei presupposti di fatto e della sproporzionalità del rapporto tra esistente e realizzando in deroga.
Infine, anche il quarto motivo di ricorso risulta infondato.
Sul punto questo tribunale si è già espresso con la sentenza numero 41 del 2014, affermando che la prescrizione di cui all’art. 8 del D.M. 1444/1968 (secondo cui, per le costruzioni da realizzarsi in zone C, che siano contigue o in diretto rapporto visuale con zone A, le altezze massime dei nuovi edifici non possono superare altezze “compatibili” con quelle degli edifici delle zone A) rimanda all’amministrazione la valutazione di compatibilità delle altezze delle nuove costruzioni rispetto a quelle esistenti in zona A, con un giudizio che è pacificamente caratterizzato da connotati di discrezionalità tecnica, quindi sindacabile solo nelle ipotesi in cui emergano elementi sintomatici dell’eccesso di potere sotto il profilo della illogicità manifesta, della erroneità dei presupposti di fatto e della sproporzionalità del rapporto tra esistente e realizzando in deroga (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 16.07.2014 n. 1036 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La tutela del diritto di accesso, come previsto dall'art. 22, comma 2, della L. n. 241 del 1990 (come modificata dalla L. n. 69 del 2009), è preordinata al perseguimento di rilevanti finalità di pubblico interesse al fine di favorire la partecipazione e di assicurare l'imparzialità e la trasparenza dell'attività amministrativa.
La giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che la domanda di accesso:
a) deve avere un oggetto determinato o quanto meno determinabile, e non può essere generica;
b) deve riferirsi a specifici documenti senza necessità di un'attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta;
c) deve essere finalizzata alla tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il richiedente è portatore;
d) non può essere uno strumento di controllo generalizzato dell'operato della P.A.;
e) non può assumere il carattere di una indagine o un controllo ispettivo, cui sono ordinariamente preposti organi pubblici.
Ed ancora, è stato affermato che l'accesso c.d. defensionale, cioè propedeutico alla miglior tutela delle proprie ragioni in giudizio (già pendente o da introdurre), ovvero nell'ambito di un procedimento amministrativo, riceve protezione preminente dall'ordinamento atteso che, per espressa previsione normativa (art. 24, u.c., L. n. 241 del 1990), prevale su eventuali interessi contrapposti (in particolare sull'interesse alla riservatezza dei terzi, financo quando sono in gioco dati personali sensibili e, in alcuni casi, anche dati ultrasensibili.

Il ricorso è fondato.
Ed invero, la tutela del diritto di accesso, come previsto dall'art. 22, comma 2, della L. n. 241 del 1990 (come modificata dalla L. n. 69 del 2009), è preordinata al perseguimento di rilevanti finalità di pubblico interesse al fine di favorire la partecipazione e di assicurare l'imparzialità e la trasparenza dell'attività amministrativa (ex multis Cons. St., sez. IV, 14.04.2010, n. 2093).
La giurisprudenza amministrativa (ex multis Cons. St., sez. VI, 10.02.2006, n. 555) ha ritenuto che la domanda di accesso:
a) deve avere un oggetto determinato o quanto meno determinabile, e non può essere generica;
b) deve riferirsi a specifici documenti senza necessità di un'attività di elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario della richiesta (Cons. Stato, sez. VI, 20.05.2004, n. 3271; sez. IV, 09.08.2005, n. 4216);
c) deve essere finalizzata alla tutela di uno specifico interesse giuridico di cui il richiedente è portatore;
d) non può essere uno strumento di controllo generalizzato dell'operato della P.A. (ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 12.01.2011, n. 116; id., sez. IV, n. 2283/2002; TAR Campania Salerno, sez. II, 02.02.2011, n. 187);
e) non può assumere il carattere di una indagine o un controllo ispettivo, cui sono ordinariamente preposti organi pubblici (Cons. St., sez. IV, 29.04.2002, n. 2283; Tar Lazio, sez. II, 22.07.1998, n. 1201).
Ed ancora, è stato affermato che l'accesso c.d. defensionale, cioè propedeutico alla miglior tutela delle proprie ragioni in giudizio (già pendente o da introdurre), ovvero nell'ambito di un procedimento amministrativo, riceve protezione preminente dall'ordinamento atteso che, per espressa previsione normativa (art. 24, u.c., L. n. 241 del 1990), prevale su eventuali interessi contrapposti (in particolare sull'interesse alla riservatezza dei terzi, financo quando sono in gioco dati personali sensibili e, in alcuni casi, anche dati ultrasensibili (Cfr. C.S., Sez. VI, 03.02.2011 n. 783) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 16.07.2014 n. 1042 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittima la prescrizione della Soprintendenza, nell'espressione del proprio parere ex art. 167 d.lgs 42/2004, laddove impone la rimozione dell’impianto fotovoltaico costituito da tredici pannelli ed allocato sulla falda est del tetto relativo alla costruzione a due piani e motivato nei seguenti termini: “che enga rimosso l’impianto fotovoltaico e/o solare costituito da 13 pannelli installati sulla falda est, in quanto risulta in ordine alla posizione, alle dimensioni, alle forme, ai cromatismi, al trattamento superficiale e riflettente, estremamente stridente rispetto all’ambito nel quale si colloca e tale da alterare in modo negativo la visione del contesto paesaggistico circostante che si può percepire sia dal basso che da posizione elevata o a distanza”.
Il Ministero per i beni e le attività culturali impugna la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Veneto 10.10.2013 n. 1157 che ha accolto il ricorso proposto dai signori Pericolosi e Consolati avverso il parere della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Verona, Rovigo e Vicenza 10.06.2013 n. 8346 nella parte in cui imponeva la rimozione dell’impianto fotovoltaico costituito da tredici pannelli ed allocato sulla falda est del tetto relativo alla costruzione a due piani posta nel Comune di Malcesine (Verona).
L’Amministrazione appellante si duole della erroneità della sentenza e ne chiede la riforma, con consequenziale reiezione del ricorso di primo grado, sul rilievo della congruità e della compiutezza della motivazione addotta dalla Soprintendenza nel parere avversato in primo grado.
...
2. Rileva il Collegio che la manifesta fondatezza dell’appello consente la immediata definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60 Cod. proc. amm..
Nell’atto oggetto della impugnazione di primo grado, reso ai sensi dell’art. 167 e dell’art. 181 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), la Soprintendenza ha espresso il parere favorevole all’intervento edilizio programmato dagli odierni appellati sulla costruzione a due piani sita nel Comune di Malcesine (intervento consistente, nel suo insieme, nella apertura di alcune porte e finestre, nel rialzamento della falda di copertura, nell’abbassamento della falda posta ad est e nell’ installazione di pannelli fotovoltaici su falda est ed ovest), subordinando tuttavia il parere favorevole alla osservanza della seguente condizione prescrittiva: - “venga rimosso l’impianto fotovoltaico e/o solare costituito da 13 pannelli installati sulla falda est, in quanto risulta in ordine alla posizione, alle dimensioni, alle forme, ai cromatismi, al trattamento superficiale e riflettente, estremamente stridente rispetto all’ambito nel quale si colloca e tale da alterare in modo negativo la visione del contesto paesaggistico circostante che si può percepire sia dal basso che da posizione elevata o a distanza”.
3.- Ritiene il Collegio che, contrariamente a quanto rilevato dal giudice di primo grado, la Soprintendenza abbia dato una congrua motivazione riguardo alle ragioni che si frappongono alla definitiva allocazione dei pannelli fotovoltaici anche sulla falda est della costruzione (nella prospettiva particolare, cioè, del lago di Garda), a differenza di quanto assentito senza riserve o condizioni in relazione ai pannelli apposti sulla falda ovest dello stesso fabbricato.
L’autorità preposta alla tutela paesaggistica si è soffermata, in particolare, ad analizzare i distinti profili (posizione, dimensioni, forme, cromatismi) che la hanno spinta ad apporre la condizione al parere di compatibilità paesaggistica (per la restante parte, vale sottolineare, favorevole all’intervento) di tal che, considerata la puntualità e la congruità delle ragioni addotte a sostegno della condizione, non pare condivisibile quanto affermato dal giudice di primo grado a proposito del carattere stereotipato e “adattabile a qualsiasi caso” della motivazione dell’atto soprintendentizio.
Al contrario, si deve convenire con il Ministero appellante sul fatto che dalla lettura del parere risultano chiare e coerenti le ragioni ostative individuate, con una valutazione tecnico-discrezionale che è propria della tutela del patrimonio culturale e che risulta immune dai vizi di irragionevolezza o di errore nei presupposti, e che escludono la compatibilità paesaggistica dell’impianto fotovoltaico posizionato sul lato est del tetto in ragione del suo negativo impatto sul particolare paesaggio lacuale, stante la sua piena visibilità, anche a distanza, sia dal basso che dall’alto.
4.-Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello va accolto e, in riforma dell’impugnata sentenza, va respinto il ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.07.2014 n. 3637 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sulla contrattazione collettiva che le imprese partecipanti a procedure di affidamento di appalti pubblici sono tenute a rispettare.
La contrattazione collettiva che le imprese partecipanti a procedure di affidamento di appalti pubblici sono tenute a rispettare deve essere coerente con la natura delle prestazioni oggetto dei contratti posti a gara ("collegata alla realtà dell'operazione successiva"), a garanzia della corretta esecuzione degli stessi.
Questo profilo rileva ai fini della verifica della congruità dell'offerta, ma non già come ragione di esclusione dalla gara.
Per quanto concerne le cooperative sociali, esse sono pacificamente legittimati a partecipare a procedure di affidamento di appalti pubblici [art. 34, c. 1, lett. a), d.lgs. n. 163/2006] e la contrattazione collettiva cui sono soggette è applicabile "a tutti i diversi tipi di attività che le cooperative sociali possono svolgere", ivi compresa la raccolta dei rifiuti, in relazione al quale il contratto collettivo attualmente vigente contempla figure professionali coerenti con la tipologia di detta attività, tra cui operai qualificati ed autisti con patenti per la guida degli automezzi in essa impiegati (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.07.2014 n. 3571 - link a www.dirittodeiservizipubbici.it).

APPALTI SERVIZI: Sull'annullamento di una delibera comunale con cui è stato disposto l'affidamento in house del servizio di igiene urbana ad una società a partecipazione pubblica per mancanza dei requisiti del controllo analogo e della prevalenza dell'attività.
Deve essere annullata la delibera di un consiglio comunale con cui è stato disposto l'affidamento in house del servizio di igiene urbana ad una società a partecipazione pubblica, per mancanza dei requisiti prescritti ai fini di un legittimo affidamento senza gara ("controllo analogo" sulla società da parte degli enti soci e "destinazione prevalente dell'attività a favore dell'ente affidante").
Nel caso di specie, infatti, in considerazione della minima partecipazione che l'ente locale ha nella società e della situazione normativa, statutaria e fattuale della stessa, il medesimo non ha, nell'ambito della società affidataria posseduta in comune con gli altri enti locali, una posizione idonea a garantirgli la benché minima possibilità di partecipare al controllo di tale società. Il comune, infatti, non risulta prendere parte, in alcun modo, all'esercizio del controllo analogo sulla società in questione, neanche congiuntamente con gli altri comuni soci.
La minima partecipazione al capitale della società, costituita da una sola azione su 1200 totali e la circostanza che essa non partecipa agli organi direttivi e amministrativi della società, se non nelle forme del diritto comune ossia mediante la partecipazione, in qualità di socio, all'assemblea che nomina i membri del CdA, e non ha specifici poteri per indirizzarne o controllarne l'attività devono, dunque, escludere che il controllo esercitato dal comune affidante sulla società affidataria sia effettivo.
Il requisito del controllo analogo, necessario ai fini della legittimità dell'affidamento in house, è pertanto assente, come il requisito della prevalenza dell'attività. Infatti, la circostanza che la società affidataria svolga in favore dei vari enti locali soci, complessivamente considerati, solamente la metà della sua attività complessiva non consente di ritenere integrato anche il secondo requisito previsto ai fini di un legittimo affidamento in house (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 10.07.2014 n. 596 - link a www.dirittodeiservizipubbici.it).

INCARICHI PROFESSIONALIAl legale non spetta compenso ulteriore. Accordo per un riconoscimento onnicomprensivo.
Poiché il comune ha dimostrato che gli importi corrisposti all'avvocato erano onnicomprensivi per l'attività dallo stesso professionista svolta, si deve escludere ogni ulteriore riconoscimento economico.
A stabilirlo è stata la II Sez. civile della Corte di Cassazione, con sentenza 04.07.2014 n. 15403.
I supremi giudici hanno infatti osservato che riportando il testo della convenzione stipulata con il professionista, il comune ricorrente ha dimostrato l'onnicomprensività degli importi corrisposti al professionista per l'opera svolta sia come coordinatore e organizzatore del servizio legale dell'ente territoriale sia per i pareri espressi sia infine per la difesa e la rappresentanza in giudizio.
La sentenza della Corte di cassazione prendeva le mosse dalla citazione fatta dall'avvocato innanzi al giudice di pace al fine di far accertare l'ammontare delle proprie competenze per l'opera svolta in favore del comune, poiché il comune stesso non aveva inteso riconoscere la somma all'uopo richiesta.
L'ente aveva rilevato che con il professionista era intervenuta una convenzione, avente durata quinquennale, con la quale l'avvocato stesso, assieme ad altri, si era impegnato a difendere l'ente in vari giudizi e a prestare la propria opera di consulenza per un corrispettivo annuo stabilito.
Il giudice di pace rigettava la domanda, mentre il tribunale accolse parzialmente l'appello e condannò altresì l'ente territoriale a pagare la metà delle spese di lite afferenti al precedente giudizio, nonché di quelle del giudizio di appello, compensando la restante metà.
Il comune proponeva, quindi, ricorso per la cassazione della sentenza.
Appare in questa sede opportuno soffermarsi, seppure brevemente, sul rapporto, non sempre agevole, tra gli avvocati e gli enti pubblici, premettendo che tali professionisti non beneficiano di una disciplina specifica, pertanto è opportuno un frequente e costante ricorso alla elaborazione giurisprudenziale, utilissima come nel caso in esame, e che sta andando a sedimentare una vera e propria disciplina alla quale fare riferimento in caso di controversie tra i professionisti e gli enti pubblici.
Si sottolinea, inoltre, che il conferimento di incarichi a professionisti esterni, da parte degli enti pubblici, anche nell'ipotesi in cui il rapporto assuma una connotazione essenzialmente di tipo continuativo, è riconducibile sostanzialmente alla sfera della parasubordinazione, anche in ossequio a una consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione (articolo ItaliaOggi Sette del 21.07.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni dalle vecchie graduatorie. Pubblica amministrazione. Il Consiglio di Stato ribadisce il principio.
La Pubblica amministrazione per l'assunzione di nuovo personale deve attingere dalle graduatorie ancora valide ed efficaci relative ai precedenti concorsi. Tale principio non viene scalfito neppure da un'eventuale sopravvenienza normativa in grado di modificare requisiti ulteriori per l'ingresso e lo svolgimento delle medesime attività per l'amministrazione.
Il Consiglio di Stato, VI Sez., con la sentenza 04.07.2014 n. 3407, è ritornato sulle modalità di assunzione di nuovo personale pubblico. Nel caso di specie si trattava di un concorso bandito nel 2006 da un ateneo per la copertura di posti del profilo professionale già oggetto di concorso precedente del quale permaneva la relativa graduatoria, con la presenza di soggetti ritenuti idonei e non ancora assunti.
In tale circostanza, l'ateneo aveva sostenuto di non avere interesse allo scorrimento della graduatoria precedente, stante l'esigenza di avere a disposizione personale più qualificato alla luce delle modifiche normative intervenute dopo l'entrata in vigore del nuovo ordinamento universitario (legge 240/2010) con l'introduzione di rilevanti novità nel settore amministrativo e contabile non richieste, come requisiti, nel concorso precedente.
Il Consiglio di Stato ha tenuto fermo il principio di diritto già affermato in passato dall'Adunanza plenaria con il pronunciamento del 28.07.2011, n. 14, in virtù del quale la presenza di graduatorie concorsuali valide ed efficaci impone all'Amministrazione di utilizzare prioritariamente queste ultime. In quella circostanza ci si era, tuttavia, limitati a fissare il principio come regola di carattere generale, mentre ora, con la sentenza 3407/2014, si precisa che il suddetto principio si applica anche nell'ipotesi di sopravvenienze normative che abbiano modificato o preteso requisiti o condizioni ulteriori rispetto a quelle previste dal precedente concorso per il reclutamento di personale del medesimo profilo professionale.
Un nuovo concorso rappresenta, quindi, una situazione eccezionale, letta con sfavore dall'ordinamento vigente più recente in quanto contraria ai principi di economicità ed efficacia dell'azione amministrativa sanciti dallo stesso articolo 1 della legge 241/1990.
Diversi i riferimenti normativi presi in considerazione nell'emettere la sentenza. Si tratta del Testo Unico degli impiegati civili dello Stato (Dpr 3/1957), del regolamento sull'accesso agli impieghi nelle Pa (articolo 15, comma 7, del Dpr 487/1994), dell'articolo 35, comma 5-ter, del Dlgs 65/2001 in base al quale le graduatorie dei concorsi per il reclutamento del personale presso le Pa rimangono vigenti per un termine di tre anni dalla data di pubblicazione e, infine, dell'articolo 91, comma 4, del Dlgs 267/00 (Testo unico degli enti locali), secondo cui «per gli Enti locali le graduatorie concorsuali rimangono efficaci per un termine di tre anni dalla data di pubblicazione».
Il Consiglio ritiene insufficiente, per motivare un nuovo concorso, il mero richiamo alla sopravvenienza normativa, sulla base della considerazione che i continui interventi normativi e le relative modifiche rappresentano ormai «tratti indistinguibili coessenziali e comuni ad ogni settore della Pubblica amministrazione». In relazione alla prassi che contraddistingue l'attuale periodo storico, quindi, il «continuo mutamento del quadro normativo di riferimento di per sé elide la consistenza della motivazione adotta a sostegno dell'opzione del nuovo concorso».
Sicché, solo una maggiore continenza del legislatore e, con essa, il mutamento dell'attuale prassi normativa, potrà a questo punto giustificare, motivandola, la scelta di bandire un nuovo concorso in luogo dello scorrimento delle graduatorie vigenti per il reclutamento del personale
(articolo Il Sole 24 Ore del 18.07.2014).

VARICosta caro al trasgressore minacciare il vigilino
L'automobilista pizzicato in sosta irregolare colleziona anche una denuncia penale se si scalda troppo con l'ausiliario della sosta alzando il pugno verso l'operatore con tono minaccioso.

Lo ha confermato la Corte di cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 02.07.2014 n. 28521.
Un cittadino ha trovato una multa sul parabrezza e ha apostrofato il verificatore della sosta specificando che se non veniva tolta subito la sanzione sarebbe passato all'uso della forza.
Contro la conseguente condanna per resistenza a pubblico ufficiale l'interessato ha proposto censure agli ermellini ma senza successo. Un automobilista che minaccia di lesioni personali un verificatore della sosta per impedirgli di fare il proprio mestiere incorre sicuramente nel reato di resistenza a pubblico ufficiale previsto e punito dall'art. 337 del codice penale, specifica la sentenza.
Diversamente si versa nell'ipotesi prevista dall'art. 336 cp quando la violenza è orientata verso il pubblico ufficiale per costringerlo ad omettere l'atto prima dell'inizio della redazione dello stesso (articolo ItaliaOggi Sette del 21.07.2014).

APPALTI: Il file illeggibile esclude dalla gara per via telematica. Consiglio di Stato. I rischi sono a carico dell'impresa.
Nel caso in cui l'appalto preveda la trasmissione della domanda di partecipazione (e dei relativi allegati) unicamente in forma telematica, i rischi derivanti dalla illeggibilità del file trasmesso sono a esclusivo carico del partecipante. Non potendo quest'ultimo, per il principio del favor partecipationis, contestare in alcun modo l'esclusione, anche in difetto di colpa certa a proprio carico per le particolari modalità di invio dei documenti.
Così si sono espressi i giudici della III Sez. del Consiglio di Stato nella sentenza 02.07.2014 n. 3329, ribaltando in toto quanto invece deciso in primo grado. La vicenda trae spunto da una gara, la cui lex specialis prevedeva quale mezzo per l'inoltro della domanda unicamente l'utilizzo di un'apposita piattaforma informatica. Tuttavia, durante le operazioni di trasmissione, il file contenente la domanda di una società risultava di grandi dimensioni (più di 80 Mb) e soprattutto illeggibile. Nonostante la stazione appaltante avesse consentito alla società partecipante di operare un secondo invio, il medesimo esito negativo comportava da ultimo l'esclusione dalla gara.
Nel giudizio di primo grado il Tar aveva dato ragione alla società, riconoscendo l'illegittimità dell'esclusione per via della mancata individuazione dell'effettiva causa che aveva determinato il problema di lettura dei documenti. In senso opposto ha invece deciso il collegio, che ha rimarcato dapprima il fatto che la gestione informatizzata della gara non implica maggiori rischi, ma piuttosto risponde a un'esigenza semplificativa e di certezza della procedura, avente una funzione di legalità oggettiva e che, come tale, trascende la posizione di tutti e di ciascun operatore. Da cui deriva l'esigibilità per le imprese che partecipano all'appalto tramite una piattaforma informatica, di una peculiare diligenza nella trasmissione degli atti di gara compensata dalla possibilità di uso diretto della loro postazione informatica.
Nella fattispecie, quindi, non si tratta di tutelare il favor consistente nella più ampia partecipazione, in quanto l'utilizzo di una piattaforma informatica ben può implicare l'esclusione dalla gara del l'operatore economico, la cui domanda risulti illeggibile per un guasto non dei comandi di trasmissione, ma dell'originazione del relativo file.
E questo proprio perché le modalità telematiche rappresentano una regola posta a tutela della quanto più ragionevolmente rapida e sicura gestione dei flussi di informazioni sulla partecipazione alla gara, che garantisce (e non pregiudica) l'interesse pubblico generale della stazione appaltante
(articolo Il Sole 24 Ore del 21.07.2014).

INCARICHI PROFESSIONALICOMPENSI AVVOCATI/ La valenza decide l'importo liquidato.
Il compenso per un avvocato che ha svolto consulenza ed assistenza deve essere computato alla stregua della tariffa professionale, ma proporzionato alla reale consistenza e all'effettiva valenza professionale espletata.

Lo hanno stabilito i giudici della II Sez. civile della Corte di Cassazione, con sentenza 30.06.2014 n. 14800.
Si osserva che la liquidazione dell'onorario deve seguire il principio d'inderogabilità dei minimi tariffari, non assolutamente interpretando però tale assunto come preclusivo della necessità di riscontrare l'imprescindibile rapporto di proporzionalità tra la reale consistenza, l'effettiva valenza dell'opera professionale espletata ed il compenso erogando.
Si sottolinea inoltre che, alla luce della più recente normativa, il professionista legale non è più tenuto a comunicare il preventivo in forma scritta, a meno che non sia il cliente a richiederlo, caso in cui l'avvocato sarebbe obbligato a rendere nota la prevedibile misura del costo della prestazione, distinguendo fra oneri, spese, anche forfetarie, e compenso professionale. Resta, comunque, l'obbligo, nel rispetto del principio di trasparenza, di rendere edotto il cliente circa il livello di complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dello stesso.
Nei compensi, inoltre, non sono comprese le spese da rimborsare secondo qualsiasi modalità, compresa quella concordata in modo forfettario. Non sono altresì compresi oneri e contributi dovuti a qualsiasi titolo. I costi degli ausiliari incaricati dal professionista sono ricompresi tra le spese dello stesso. E l'attività stragiudiziale è liquidata, a norma di legge, tenendo conto del valore e della natura dell'affare, del numero e dell'importanza delle questioni trattate, del pregio dell'opera prestata, dei risultati e dei vantaggi, anche non economici, conseguiti dal cliente, dell'eventuale urgenza della prestazione.
Ai fini della liquidazione del compenso, infine, il valore della controversia viene determinato a norma del codice di procedura civile avendo riguardo, nei giudizi per azioni surrogatorie e revocatorie, all'entità economica della ragione di credito alla cui tutela l'azione è diretta, nei giudizi di divisione, alla quota o ai supplementi di quota in contestazione, e nei giudizi per pagamento di somme, anche a titolo di danno, alla somma attribuita alla parte vincitrice e non alla somma domandata (articolo ItaliaOggi Sette del 21.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze in edilizia: quando è necessaria la rimozione delle balconate?
La Corte di Cassazione conferma l'orientamento della giurisprudenza in materia di edificazione di balconate sulle facciate degli edifici
All'interno della labirintica tematica delle distanze in edilizia grande rilievo assumono le controversie sull'edificazione di balconate sulle facciate delle costruzioni edili: in tal senso è intervenuta l'importante sentenza 20.06.2014 n. 14118 della Corte di Cassazione, Sez. II civile, la quale conferma l'orientamento consolidato per cui vanno rimosse le vedute e le balconate costruite senza rispettare le distanze legali, con l’eccezione dell'eventuale acquisto del diritto di veduta per usucapione.
La Suprema Corte ha affermato testualmente che "
l'inosservanza delle distanze legali per l'apertura delle vedute concretizza una molestia di diritto legittimante il possessore del fondo finitimo ad esercitare l'azione di manutenzione, intesa a tutelare in via provvisoria ed immediata l'integrità del fondo medesimo con il ripristino dello stato dei luoghi".
Non va infatti dimenticato che la giurisprudenza civile ed amministrativa da anni reitera il seguente concetto: ovverosia che la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario, e pertanto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell’intercapedine (Consiglio di Stato, 05.12.2005, n. 6909).
La sentenza della Cassazione in questione fa riferimento alla costruzione (precedente al 1969) di una balconata in aggetto, "frontistante per buona parte l'immobile di proprietà dei convenuti" attraverso la quale si era dato inizio all'esercizio, continuativo e pacifico, di una servitù di veduta diretta ed obliqua in danno dell'edificio in questione.
Per la decisione finale i giudici si sono focalizzati sulla disciplina di usucapione e servitù. Ma per giungere a tale decisione viene data conferma evidente al fondamentale concetto: balconate e vedute edificate in spregio del rispetto delle distanze legali devono essere rimosse a spese di colui che ha cagionato l'abuso. Ovviamente l’usucapione può sanare la questione mediante il decorso del tempo (commento tratto da www.ediliziaurbanistica.it).

EDILIZIA PRIVATA: Troppa gente nei locali? Ok allo stop del comune.
Se il testo unico di pubblica sicurezza prevede procedimenti semplificati per l'agibilità dei locali con affluenza inferiore alle 200 persone ma il titolare della discoteca all'aperto ne consente l'accesso a 600, è legittima l'ordinanza del dirigente del Comune che dispone la sospensione dell'attività per dieci giorni.

Lo ha stabilito il TAR Puglia-Bari, (Sez. III), con la sentenza 18.06.2014 n. 746 con ciò convalidando la decisione dell'Ente locale che ha applicato, di fatto, due disposizioni del Tulps strettamente connesse, gli articoli 9 e 10, le quali prevedono da un lato l'obbligo di esercitare le attività oggetto di autorizzazioni o licenze amministrative, conformemente alle prescrizioni contenute nelle leggi e nelle altre fonti sub-primarie, dall'altro che la loro violazione costituisce un uso anomalo e quindi un abuso del titolo, da sanzionare ai sensi del citato art. 10.
Peraltro, secondo il Giudice amministrativo, a nulla rileva il fatto che gli articoli in questioni facciano riferimento ad autorizzazioni «di polizia» La Corte costituzionale ha infatti chiarito che l'art. 19 del dpr n. 616/1977 ha trasferito a Regioni ed Enti locali una serie di funzioni, prima demandate agli organi di pubblica sicurezza, riconducibili all'ambito dei poteri di «polizia amministrativa» per differenziarle da quelle propriamente di «pubblica sicurezza» che restano riservate allo stato (articolo ItaliaOggi del 15.07.2014).

URBANISTICAComuni, chi sbaglia paga. Danni da pianificazione urbanistica risarcibili. Il Tar Brescia condanna un ente che aveva penalizzato un'impresa
Se il comune approva un piano di lottizzazione d'ufficio illegittimo, in quanto volto a espellere dal territorio un'impresa (nel caso di specie ritenuta inquinante) favorendo l'insediamento di nuove tipologie di attività, scatta il diritto al risarcimento del danno. E a liquidarlo possono essere già i giudici amministrativi.

Esattamente quanto ha fatto il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 04.06.2014 n. 598, che ha condannato il comune di Pian Camuno a risarcire complessivamente circa 300 mila euro a favore di due imprese, attive nei settori del carbone e della siderurgia, gravemente penalizzate dalle scelte dell'amministrazione comunale.
Sul destino imprenditoriale di entrambe, proprietarie delle aree produttive (stabilimenti e pertinenze), si era abbattuta nel lontano 1997 la variante urbanistica del comune che assoggettava a piano di lottizzazione d'ufficio tutta l'area dove sorgevano gli stabilimenti per realizzare «una rinnovata zona artigianale con esclusione delle industrie inquinanti».
Ne è nato un contenzioso che si è trascinato per diversi anni e che ha portato alla richiesta di risarcimento danni causati dalla pianificazione urbanistica.
Le due imprese (difese dagli avvocati Gian Carlo Tanzarella, Elena Tanzarella e Massimo Compagnino) hanno reclamato una doppia lesione: il danno da mancata produzione, ossia il mancato guadagno perché, a loro dire, la nuova disciplina urbanistica introdotta con il piano di lottizzazione d'ufficio avrebbe impedito «un rilevante sviluppo dell'attività produttiva», e il «danno da zonizzazione», conseguente alla «situazione di incertezza» sofferta dalle aziende a seguito dei provvedimenti del comune.
La prima voce di risarcimento non è stata liquidata dai giudici. Per il Tar, infatti, non vi è prova che con la precedente destinazione urbanistica lo stabilimento produttivo si sarebbe potenziato secondo le attese dei ricorrenti (anzi, hanno fatto notare i magistrati bresciani «nella realtà vi sono invece segnali che indicano uno sviluppo molto più graduale e contenuto»).
Il danno da zonizzazione, invece, secondo il Tar, «è fonte di danno risarcibile». Come chiarito dai giudici, «se il disegno urbanistico può essere improntato a criteri ragionevoli (come l'allontanamento dal centro abitato delle industrie insalubri), l'uso del potere di pianificazione con finalità espulsive è sempre vietato». Quello che il comune può fare quando decide di allontanare imprese inquinanti dal territorio è solo incentivare la delocalizzazione «individuando soluzioni alternative praticabili, previo coinvolgimento degli interessati».
Tuttavia la quantificazione del danno è stata notevolmente ridotta dal Tar che, stimando in 50 anni la durata dei beni immobili produttivi, ha calcolato la differenza di valore determinatasi nel decennio (1997-2007) oggetto del ricorso. L'importo così liquidato (circa 600 mila euro) è stato poi ulteriormente ridotto in considerazione delle utilità che le imprese ricevono grazie alle urbanizzazioni realizzate dal comune e in considerazione del fatto che gran parte dei beni erano detenuti in leasing. Di qui la condanna del comune a pagare circa 300 mila euro più gli interessi legali dal 2007 (articolo Italia Oggi 19.07.2014).

APPALTI SERVIZIL'appalto corretto si vede dalla gestione. Nell'esternalizzazione di servizi l'appaltatore deve mantenere l'organizzazione delle prestazioni.
L'appalto di servizi può essere utile, purché sia genuino. Altrimenti, le aziende si espongono a rischi rilevanti, anche sul piano penale. Oggi le imprese esternalizzano spesso intere fasi del ciclo produttivo, affidandosi a ditte o a lavoratori esterni. Se da un lato appaltare un servizio consente ai datori di lavoro di usufruire di regimi normativi agevolati, legati alle dimensioni aziendali ridotte, o di sostenere un costo del lavoro contenuto, dall'altro lato la non genuinità dell'appalto comporta rischi importanti.
Vediamo, dunque, quali sono le indicazioni da seguire.
La prestazione acquisita
Un ruolo fondamentale è giocato dalle pronunce della Cassazione: la giurisprudenza traccia infatti una linea, che è molto utile seguire per conoscere i requisiti di un appalto corretto.
Con la sentenza 03.06.2014 n. 12357, la Suprema Corte ha affermato che, nell'appalto «endoaziendale», si configura l'intermediazione vietata di manodopera quando al committente è messa a disposizione una prestazione meramente lavorativa. Questo vale anche se l'appaltatore non è una società fittizia ma si limita alla gestione amministrativa della posizione del lavoratore, senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione.
Il caso su cui si è pronunciata la Cassazione nasce dal ricorso di un operaio, socio lavoratore di una cooperativa, che aveva prestato la sua attività alle dipendenze dell'impresa appaltatrice, in favore di una società ferroviaria. Sia il Tribunale, sia la Corte d'appello avevano accolto il ricorso, dichiarando la sussistenza di un rapporto di natura subordinata alle dirette dipendenze dell'utilizzatore delle prestazioni.
In sostanza, il lavoratore aveva ricevuto le direttive dal personale dell'appaltante e aveva svolto il proprio lavoro nei locali dell'utilizzatore insieme ai dipendenti di questo e con beni e strumenti di proprietà dello stesso. La Cassazione, condividendo il ragionamento del giudice del merito, afferma che c'è intermediazione e interposizione nelle prestazioni lavorative quando l'appaltatore mette a disposizione del committente una mera prestazione di lavoro, rimanendo in capo all'appaltatore i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione, finalizzata a un risultato produttivo autonomo.
Inoltre –precisa la sentenza– non è necessario per realizzare un'ipotesi di intermediazione vietata, che l'impresa appaltatrice sia fittizia: una volta accertata l'estraneità dell'appaltatore all'organizzazione e direzione del prestatore di lavoro nell'esecuzione dell'appalto, rimane irrilevante ogni questione inerente il rischio economico e l'autonoma organizzazione dello stesso (si veda anche Cassazione 6343/2013).
Il controllo e le mansioni
Nella sentenza 21030 del 27.11.2012, la Cassazione pone l'accento, invece, sulla possibilità di verifica e controllo diretto da parte del committente e sull'ingerenza nell'organizzazione del servizio. I lavoratori dell'appaltatore non devono sostituire in alcun modo i dipendenti del committente, né devono prendere ordini da soggetti diversi dall'appaltatore, anche se coordinati da un responsabile del committente.
Nella sentenza 8863 dell'11.04.2013, la Corte sposta l'attenzione sulle mansioni svolte dal lavoratore per conto dell'utilizzatore. Un socio lavoratore di una cooperativa di pulizie svolgeva attività di archivista in una banca, con la quale l'appaltatore aveva un contratto di appalto di servizi. La Corte d'appello aveva accolto il ricorso del dipendente, condannando l'istituto di credito all'assunzione con contratto subordinato sin dall'inizio della prestazione e al pagamento delle differenze retributive tra il contratto bancario e quello delle pulizie. La Cassazione rinvia alla Corte d'appello la decisione, spiegando che il caso non rientra nella disciplina prevista dall'articolo 1 della legge 1369/1960 (poi sostituita dal Dlgs 276/2003).
Per la Corte, l'articolo 1 della legge prevede che certe prestazioni di lavoro, possibili nell'ambito organizzativo dell'impresa pseudo-appaltante, vengano affidate all'impresa pseudo-appaltatrice. Esula, però, dalla previsione normativa il caso in cui l'impresa appaltatrice di certe prestazioni (pulizia) tolleri che suoi dipendenti eseguano prestazioni diverse (archivistiche) a vantaggio dell'appaltante, ma senza manifestazioni di volontà dei suoi organi competenti. In questo caso, l'impresa appaltante sarà tenuta alla sola remunerazione in base all'articolo 2126 del Codice civile.
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La check list e le sanzioni. I requisiti essenziali per verificare la genuinità dell'appalto di servizi.
1 - IL POTERE DIRETTIVO
Il controllo all'appaltatore
Un appalto per l'affidamento di un servizio o di un'opera potrà essere considerato genuino e, quindi, lecito, se il potere direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati è esercitato dall'appaltatore, con l'assunzione del relativo rischio. Non basta, infatti, la semplice gestione amministrativa del personale.
Si avrà invece un appalto illecito se si riscontrano questi indici: c'è similitudine di orario tra i dipendenti dell'appaltatore e quelli dell'appaltante; il pagamento delle retribuzioni è effettuato dal committente; i preposti dell'appaltante controllano direttamente i dipendenti; la richiesta delle ferie e dei permessi è presentata all'appaltante che decide se concederli; la scelta del numero di persone da impiegare nell'appalto è rimessa solo al committente; il controllo degli adempimenti dell'appaltatore è fatto dal committente
2 - IL RISCHIO DI IMPRESA
Rileva il rischio economico
Un altro elemento da valutare per la genuinità del contratto di appalto è l'assunzione da parte dell'appaltatore del rischio d'impresa, in base all'articolo 29 del Dlgs 276/2003.
In particolare, il rischio non è da intendere in senso tecnico-giuridico, ma economico, frutto dell'impossibilità di stabilire in anticipo i costi legati all'esecuzione del contratto di appalto, con la conseguenza legittima che l'appaltatore potrà incorrere in una perdita in caso di costi superiori al corrispettivo concordato. Il rischio riguarda anche la possibilità di non raggiungere il risultato legato alla stipulazione del contratto.
In sostanza, il corrispettivo dell'appalto dovrà essere subordinato al risultato produttivo dell'opera o del servizio e non alla semplice messa a disposizione di prestazioni di lavoro
3 - L'ORGANIZZAZIONE DEI MEZZI
Da valutare le competenze
L'organizzazione dei mezzi è un requisito importante per la genuinità dell'appalto. Non ci sarà interposizione di manodopera se il committente fa un conferimento di strumenti e di capitali minimo, tale da non annullare l'apporto organizzativo dell'appaltatore.
Per i «contratti di appalto concernenti lavori specialistici» (si pensi al settore del terziario avanzato), la speciale rilevanza delle competenze dei lavoratori impiegati (il know how) bilancia la mancanza di attrezzature e di beni strumentali di proprietà dell'appaltatore. Non ci sarà interposizione di manodopera neanche se il committente fornisce le materie prime a garanzia della qualità del prodotto da realizzare o perché devono essere trasformate dall'appaltatore. In questi casi, l'organizzazione dei mezzi può manifestarsi nell'esercizio del potere organizzativo e direttivo sui lavoratori
4 - L'OPERA O IL SERVIZIO
Il servizio è temporaneo
Un appalto è genuino se l'attività lavorativa dedotta in contratto rientra nell'oggetto sociale dell'azienda che fornisce l'opera o il servizio. Altri elementi necessari sono la temporaneità e la contingenza dell'opera o del servizio. Il personale impiegato nell'appalto non deve essere stabilmente inserito nell'organigramma aziendale del committente, e deve svolgere mansioni diverse dai dipendenti del committente.
Ci deve, poi, essere una distinzione netta ed effettiva tra i lavoratori dell'appaltatore e quelli dell'appaltante, tale da evitare rischi di commistione e di interferenza delle attività svolte. Non si potrà considerare illecito un contratto di appalto se la prestazione di lavoro svolta dai dipendenti dell'appaltatore impiegati nel servizio non rientra in maniera esclusiva negli obiettivi aziendali del committente
5 - LE SANZIONI
Puniti appaltatore e committente
La non genuinità dell'appalto determinerà l'ipotesi di interposizione illecita di manodopera. Le conseguenze saranno, innanzitutto, la possibilità del lavoratore impiegato nell'appalto di chiedere giudizialmente il riconoscimento e la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del committente, ossia del soggetto che ha esercitato effettivamente i poteri tipici del datore di lavoro, usandone concretamente la prestazione di lavoro.
Inoltre, un contratto di appalto illecito prevede conseguenze penali a carico dello pseudo-appaltatore e dello pseudo-committente. L'appaltatore e il committente, che abbiano messo in atto un contratto di appalto fittizio, sono entrambi soggetti all'ammenda di 50 euro per ogni lavoratore occupato e per ogni giornata
di occupazione
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.07.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Aria - Emissioni - Rilevanza limiti tabellari - Responsabilità in ordine al reato previsto dall'art. 674 c.p. - Presupposti e limiti.
Ai fini dell'affermazione di responsabilità in ordine al reato previsto dall'art. 674 c.p., nell'ipotesi di attività industriali che trovano la loro regolamentazione in una specifica normativa di settore, non è sufficiente ad integrare la fattispecie l'idoneità delle emissioni a recare disturbo o fastidio, occorrendo invece la puntuale e specifica dimostrazione che tali emissioni superino gli standards fissati dalla legge (in termini Sez. 3", 03.03.2004, n. 9757; Sez. 1^, 12.03.2002, n. 15717, Pagano ed altri) sez. 3, 2005 n. 9503, Montanaro; idem, 2006 n. 8299, P.M. in proc. Tortora ed altri).
Pertanto, quando esistono precisi limiti tabellari fissati dalla legge, non possono ritenersi "non consentite" le emissioni che abbiano, in concreto, le caratteristiche qualitative e quantitative già valutate ed ammesse dal legislatore. Discorso diverso va fatto in quei casi nei quali non esiste una predeterminazione normativa, gravando sul giudice penale l'obbligo di valutare la tollerabilità consentita, ma pur sempre con riferimento ai principi ispiranti le specifiche normative di settore, (Cass. Sez. 3^, 27.02.2008 n. 15653, Colombo ed altri). Fattispecie: emissione e deposito di polveri conseguenti da attività industriale.
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Getto pericoloso di cose - Configurabilità del reato - Presupposti - Art. 674 cod. pen..
La configurabilità del reato di getto pericoloso di cose è esclusa in caso di emissioni (nella specie, di polveri) provenienti da attività autorizzata o disciplinata dalla legge, e contenute nei limiti normativi o dell'autorizzazione, in quanto il rispetto dei predetti limiti implica una presunzione di legittimità del comportamento (Cass. Sez. 3^ 21.10.2010 n. 40849 Rocchi, idem 13.07.2011 n. 37495, P.M. in proc. Dradi e altro, secondo la quale all'espressione "nei casi non consentiti dalla legge" contenuta nella seconda parte dell'art. 674 cod. pen. deve attribuirsi un valore rigido; ancora, Sez. 3^ 09.01.2009 n. 15707, Abbaneo).
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Immissioni e limiti di tollerabilità - Criterio della "stretta tollerabilità" - Protezione dell'ambiente ed della salute umana - Valutazione da parte del giudice - Art. 844 cod. civ..
L'art. 844, secondo comma, cod. civ., nella parte in cui prevede la valutazione, da parte del giudice, del contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà che impone di leggere il cd. "preuso", tenendo conto che il limite della tutela della salute, è da ritenersi ormai intrinseco nell'attività di produzione oltre che nei rapporti di vicinato, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, dovendo considerarsi prevalente rispetto alle esigenze della produzione il soddisfacimento di una normale qualità della vita (Sez. 2^ Civ. 08.03.2010 n. 5564; in senso analogo Sez. 3^ 11.04.2006 n. 8420, secondo la quale deve ritenersi illegittima una produzione industriale, ancorché iniziata prima della edificazione dell'immobile limitrofo, che si sia svolta e poi proseguita senza la predisposizione di apposite misure di cautela idonee ad evitare o limitare l'inquinamento atmosferico).
Rientra, pertanto, nella facoltà del giudice disattendere la regola della priorità di uso la quale ha carattere di sussidiarietà, a condizione che sulla base degli accertamenti di fatto dallo stesso compiuti venga fornita idonea motivazione in ordine al superamento della soglia di tollerabilità (Sez. 2^ Civ. 11.5.2005 n. 9865; idem 10.01.1996 n. 161).
Il criterio della "stretta tollerabilità", deve essere inteso in termini più rigorosi rispetto al concetto civilistico di normale tollerabilità dettato dal menzionato art. 844 cod. civ., attesa l'inidoneità del criterio della "normale tollerabilità" ad approntare una protezione adeguata all'ambiente ed alla salute umana, allorché non vengano rispettati, nell'esercizio di un'attività industriale o più genericamente produttiva, i limiti e le prescrizioni previste dai provvedimenti autorizzatoli che la disciplinano (Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 08.05.2014 n. 18896 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Terre e rocce da scavo e materiali di risulta da demolizione - Trattamento congiunto - Qualifica di sottoprodotti - Esclusione - Attività e autorizzazioni - Disciplina vigente - Art. 186, 208, 214 e 256, c.1, lett. A), D. Lgs. n. 152/2006.
La non assimilazione degli inerti derivanti da demolizione di edifici o da scavi di strade alle terre e rocce da scavo è stata ribadita con il D.Lgs. n. 152/2006 (v., Sez. III, 13/09/2013, n. 37541, Paglialunga e altri; in precedenza: Sez. III, 12/06/2008 n. 37280 - dep. 01/10/2008, P., che, peraltro, precisa che le terre e rocce da scavo devono essere distinte dai materiali di risulta da demolizione, in quanto mentre lo scavo ha per oggetto il terreno, la demolizione ha per oggetto un edificio o, comunque, un manufatto costruito dall'uomo).
Nel caso in esame, non rileva, pertanto, la questione della qualificabilità come sottoprodotti e non rifiuti dei materiali costituiti da terre e rocce da scavo (né, quindi, la nuova disciplina derivante dall'art. 41-bis della legge 09.08.2013, n. 98, di conversione del c.d. decreto "del Fare", D.L. n. 69/2013, che introduce nell'ordinamento alcune disposizioni tese a disciplinare l'utilizzo, come sottoprodotti, dei materiali da scavo prodotti nel corso di attività e interventi autorizzati in base alle norme vigenti, in deroga a quanto previsto dal D.M. 10.08. 2012, n. 161, recante il regolamento per la disciplina dell'utilizzazione delle terre e rocce da scavo), atteso che, oltre terre e rocce da scavo propriamente definibili come tali, nell'impianto della società di cui l'imputato risultava amministratore venivano trattati, per sua stessa ammissione, materiali di risulta edile, diversi dalle terre e rocce da scavo, con conseguente necessità dell'autorizzazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.02.2014 n. 5470 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATALa forma di sanatoria ex art. 37 dpr 380/2001, differenziandosi dalla ipotesi di cui al precedente art. 36 d.p.r., riguarda le opere eseguite in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio attività nei casi di cui all’art. 22, commi 1 e 2, del d.p.r. medesimo, mentre per i casi di d.i.a. “alternativa” al permesso di costruire trova applicazione l’art. 36 cit..
7.1. Sotto il primo profilo va evidenziato che la s.c.i.a. in sanatoria di cui si discute risulta presentata ai sensi dell’art. 37 del d.p.r. n. 380/2001 che, per gli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio attività, consente il conseguimento della sanatoria nel caso in cui risulti la c.d. doppia conformità rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda, subordinatamente al pagamento da parte del responsabile dell'abuso o del proprietario di una a somma, non superiore a 5164 euro e non inferiore a 516 euro, stabilita dal responsabile del procedimento in relazione all'aumento di valore dell'immobile valutato dall'agenzia del territorio.
Tale forma di sanatoria, differenziandosi dalla ipotesi di cui al precedente art. 36 d.p.r.. cit. riguarda le opere eseguite in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio attività nei casi di cui all’art. 22, commi 1 e 2, del d.p.r. medesimo, mentre per i casi di d.i.a. “alternativa” al permesso di costruire trova applicazione l’art. 36 cit..
7.2 Ciò posto deve innanzitutto escludersi la fondatezza dell’assunto secondo cui alla sanatoria di cui all’art. 37 cit., non potrebbero applicarsi le innovazioni di cui 49, comma 4-bis, della legge 30.07.2010 n. 122, che, nel riformulare integralmente l'art. 19 della l. n. 241/1990, ha sostituito la dichiarazione di inizio attività (d.i.a.), con la segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.)
Al riguardo gli iniziali dubbi interpretativi sorti all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 122 cit. sull’applicabilità della s.c.i.a. alla materia edilizia motivati dal fatto che la novella riguardasse la sola materia della concorrenza e non del governo del territorio sono stati in un primo momento superati da una circolare del 16.09.2010 con cui l'Ufficio Legislativo del Ministero per la Semplificazione Normativa presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri (in risposta alla richiesta di chiarimenti inoltrata dall'Assessore Territorio e Urbanistica della Regione Lombardia del 16.09.2010) ha chiarito, anche alla luce dei lavori preparatori ricavabili dalla documentazione del Servizio Studi del Senato, che la "nuova" s.c.i.a. doveva considerarsi applicabile anche al settore degli interventi edilizi, giacché, ai sensi del comma 4-ter dell’art. 49 della legge n. 122 cit., le espressioni “segnalazione certificata di inizio attività” e “s.c.i.a.” sostituiscono rispettivamente quelle di “dichiarazione di inizio attività“ e “d.i.a.” “ovunque ricorrano” anche come parte di un’espressione più ampia sia nelle normative statali che in quelle regionali.
Il medesimo comma stabilisce altresì che la disciplina della s.c.i.a. contenuta nel novellato art. 19 della legge n. 241/1990 sostituisce direttamente, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto medesimo, quella di dichiarazione di inizio attività recata da ogni normativa statale e regionale.
Il dubbio in questione è stato poi definitivamente risolto a livello legislativo con l’entrata in vigore del decreto legge 13.05.2011 n. 70, che ha esteso l'istituto della segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.) anche al settore degli interventi edilizi. L'art. 5, comma 1, lettera b), del decreto-legge 13.05.2011, n. 70 (Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 12.07.2011, n. 106, ha poi chiarito che la S.C.I.A. trova applicazione anche con riguardo agli interventi edilizi precedentemente compiuti con la D.I.A.,con esclusione dei casi in cui la denuncia è alternativa o sostitutiva del permesso di costruire.
L’inerenza della s.c.i.a. al settore edilizio è stata poi confermata dalla Corte Costituzionale con sentenze 27.06.2012 n. 164 e 16.07.2012 n.188.
La natura generale della previsione normativa recata dal comma 3, in altri termini, si adatta compiutamente alla materia dell'edilizia, alla quale non vi è ragione per ritenere che non si riferisca. Del resto, si esporrebbe a censura di manifesta irragionevolezza una interpretazione contraria, che venisse a sottrarre gli interessi implicati dal governo del territorio all'applicabilità di un generale istituto del diritto amministrativo, la cui compatibilità con la SCIA è stata riconosciuta dallo stesso legislatore con il citato comma 3.
Di qui consegue che la indicazione legislativa nel senso della sostituzione della s.c.i.a. alla d.i.a. “ovunque ricorra”, anche come parte di un’espressione più ampia, implica altresì l’utilizzabilità del modulo procedimentale anche nei casi di cui all’art. 37 del d.p.r. n. 380/2001. Diversamente non si comprenderebbe la ragione di un’eventuale differenziazione di regime procedimentale, specie se si considera che il regime della s.c.i.a. rispetto alla d.i.a. è sostenuto dalla previsione della allegazione di una relazione tecnica asseverata e presenta per tale ragione maggiore incidenza e responsabilizzazione rispetto alla d.i.a..
Il decreto legge n. 70 cit. è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 110 del 13.05.2011 ed era quindi già entrato in vigore alla data della presentazione della s.c.i.a. in sanatoria in esame depositata il 24.05.2011 cui trova quindi applicazione (TAR Campania, Sez. VIII, sentenza 21.06.2013 n. 3230  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della legittimazione attiva al rilascio di titoli abilitativi nella materia edilizia, la giurisprudenza ritiene necessaria, sulla base degli artt. 11 e 23 del D.P.R. 380/2011, la titolarità del diritto di proprietà, ovvero di altro diritto reale od anche obbligatorio a condizione, in tale ultima ipotesi, del riconoscimento della disponibilità giuridica e materiale del bene nonché della relativa potestà edificatoria.
Quanto al promissario acquirente, la tesi che ne riconosce la legittimazione non è affatto pacifica in giurisprudenza, richiedendosi, anche in ipotesi di preliminare ad effetti anticipati, la specifica autorizzazione del proprietario promissario venditore all’esercizio dello ius aedificandi.
Tale opzione esegetica risulta ancor più corretta qualificando la relazione del promissario acquirente con l’immobile, anche in caso di preliminare ad effetti anticipati, quale “detenzione qualificata” e non già come possesso, secondo la più recente ricostruzione pretoria.
Ciò premesso, la posizione di promissario conduttore, in assenza di specifico consenso del proprietario, non è titolo di legittimazione idoneo al rilascio di titoli abilitativi, anche se a regime semplificato, mancando la disponibilità giuridica dell’area su cui realizzare l’intervento.

Ai fini della legittimazione attiva al rilascio di titoli abilitativi nella materia edilizia, la giurisprudenza ritiene necessaria, sulla base degli artt. 11 e 23 del D.P.R. 380/2011, la titolarità del diritto di proprietà, ovvero di altro diritto reale od anche obbligatorio a condizione, in tale ultima ipotesi, del riconoscimento della disponibilità giuridica e materiale del bene nonché della relativa potestà edificatoria (Consiglio di Stato sez. V 28.05.2001 n. 2881; id. sez. IV 25.11.2008, n. 5811; TAR Emilia Romagna Bologna 21.02.2007, n. 53; TAR Lombardia Milano sez II 31.03.2010, n. 842).
Quanto al promissario acquirente, la tesi che ne riconosce la legittimazione non è affatto pacifica in giurisprudenza, richiedendosi, anche in ipotesi di preliminare ad effetti anticipati, la specifica autorizzazione del proprietario promissario venditore all’esercizio dello ius aedificandi (Consiglio Stato, sez. IV, 18.01.2010, n. 144; Cassazione civile sez. III 15.03.2007, n. 6005; TAR Lazio-Latina 26.07.2005, n. 636). Tale opzione esegetica risulta ancor più corretta qualificando la relazione del promissario acquirente con l’immobile, anche in caso di preliminare ad effetti anticipati, quale “detenzione qualificata” e non già come possesso, secondo la più recente ricostruzione pretoria (ex multis Cassazione Sez. Unite 27.03.2008, n. 7930; id. sez. I 01.03.2010, n. 4863).
Ciò premesso, la posizione di promissario conduttore, in assenza di specifico consenso del proprietario, non è titolo di legittimazione idoneo al rilascio di titoli abilitativi, anche se a regime semplificato, mancando la disponibilità giuridica dell’area su cui realizzare l’intervento
(TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 18.06.2012 n. 1193 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con riferimento sia alle d.i.a. di cui alla normativa di settore (con particolare riferimento all’edilizia) sia al modello generale di cui all’art. 19 legge 241/1990, la giurisprudenza ritiene che presupposti indefettibili perché una d.i.a. possa essere produttiva di effetti siano la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione.
Infatti, il decorso del termine di trenta giorni non può avere alcun effetto di legittimazione dell'intervento, rispetto ad una dichiarazione inesatta o incompleta, con la conseguenza che l'Amministrazione ha la facoltà ed il potere di inibire l'attività o di sospendere i lavori.
Così opinando, tale potere non è equiparabile ad un potere di autotutela, poiché non vi è alcun provvedimento su cui intervenire, ma ad un “potere di verifica della non formazione della d.i.a.”, con conseguente ordine di interruzione dei lavori, così come d’altronde normativamente previsto per l’ipotesi di mendacio (vedi comma 3 art. 19 L. 241/1990); per tale motivo, l'esercizio di tale potere non è sottoposto al termine perentorio di trenta giorni, che presuppone invece che la d.i.a. sia completa nei suoi elementi essenziali.
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Tali coordinate interpretative, invero, risultano già fatte proprie da questa Sezione con specifico riferimento ai procedimenti per l’autorizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili -caratterizzati come detto dal connotato della specialità- laddove si è precisato che le attestazioni che devono accompagnare la denuncia di inizio attività prevista dall'art. 5 del D.lgs. 29.12.2003 n. 387 non possono che ricalcare in linea di massima la documentazione da produrre con l'istanza per l'ottenimento dell'autorizzazione, di cui ai commi terzo e quarto dell'articolo 12 del decreto legislativo 29.12.2003 n. 387.
Pertanto in assenza della documentazione, se pertinente ed essenziale, la dichiarazione d'inizio attività “non può reputarsi formalmente presentata” e quindi, dalla data del suo deposito, non può iniziare a decorrere il termine dilatorio di 30 giorni.
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A diverse conclusioni non può giungersi in relazione all’intervenuta qualificazione normativa (per effetto dell’art. 6, comma 1, lett. c), D.L. 13.08.2011, n. 138) della d.i.a. (e della s.c.i.a.) quale titolo abilitativo ex lege e non già di fattispecie provvedimentale a formazione tacita, come anticipato in via pretoria dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
Infatti, allorché il legislatore introduca fattispecie di liberalizzazione di attività, vale il principio dell'autoresponsabilità del dichiarante, in base al quale, la dichiarazione può ritenersi valida ed efficace soltanto se essa rispetti -oltre alle formalità estrinseche prescritte dall'ordinamento (essenzialmente dirette a rendere incontrovertibile la paternità di una determinata dichiarazione)- anche il canone dell'autosufficienza contenutistica, nel senso che occorre porre in condizione l’Amministrazione di poter effettivamente esercitare in concreto il potere inibitorio e di controllo previsto dalla legge. E ciò, si badi bene, non solo nell’interesse pubblico alla repressione delle attività abusive, ma nello stesso interesse del dichiarante a non esporsi inutilmente all’eventuale potere inibitorio e/o sanzionatorio una volta già realizzate le opere ed effettuati i correlati investimenti.
Le esigenze di concentrazione dei procedimenti e di tempestività e contenimento dei termini, poste alla base del decreto legislativo 29.12.2003 n. 387 in materia di autorizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, sia in riferimento alle fattispecie di autorizzazione unica che di d.i.a., non può allora esonerare il richiedente, secondo il suesposto principio della autoresponsabilità, dalla presentazione della documentazione prescritta dalla legge, al fine di consentire all’Amministrazione di effettuare preventivamente gli opportuni controlli su quanto l’interessato intenda realizzare.
Conclusivamente, anche in riferimento alle d.i.a. prescritte dalla normativa in materia di realizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili -per le quali in considerazione della specialità non pare ipotizzabile la sostituzione con la s.c.i.a. di cui all’art. 19 L. 241/1990- deve rimanere fermo il principio per cui le fattispecie di semplificazione astrattamente previste dal legislatore (statale o regionale) possono ritenersi “formate ed esistenti” soltanto quando esse risultino idonee, da sole, a soddisfare le esigenze informative indispensabili per l’esercizio del potere inibitorio–repressivo.

3.3. Tanto premesso, con riferimento sia alle d.i.a. di cui alla normativa di settore (con particolare riferimento all’edilizia) sia al modello generale di cui all’art. 19 legge 241/1990, la giurisprudenza ritiene che presupposti indefettibili perché una d.i.a. possa essere produttiva di effetti siano la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione (ex multis TAR Lombardia Milano II 09.12.2008 n. 5737; TAR Emilia-Romagna Bologna sez. II 17.07.2006 n. 142; Consiglio di Stato sez. IV 24.05.2010, n. 3263; TAR Lazio-Roma sez. I 02.12.2010, n. 35023).
Infatti, il decorso del termine di trenta giorni non può avere alcun effetto di legittimazione dell'intervento, rispetto ad una dichiarazione inesatta o incompleta, con la conseguenza che l'Amministrazione ha la facoltà ed il potere di inibire l'attività o di sospendere i lavori. Così opinando, tale potere non è equiparabile ad un potere di autotutela, poiché non vi è alcun provvedimento su cui intervenire, ma ad un “potere di verifica della non formazione della d.i.a.”, con conseguente ordine di interruzione dei lavori, così come d’altronde normativamente previsto per l’ipotesi di mendacio (vedi comma 3 art. 19 L. 241/1990); per tale motivo, l'esercizio di tale potere non è sottoposto al termine perentorio di trenta giorni, che presuppone invece che la d.i.a. sia completa nei suoi elementi essenziali (ex multis TAR Lombardia Milano II 09.12.2008, n. 5737).
3.4. Tali coordinate interpretative, invero, risultano già fatte proprie da questa Sezione con specifico riferimento ai procedimenti per l’autorizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili -caratterizzati come detto dal connotato della specialità- laddove si è precisato che le attestazioni che devono accompagnare la denuncia di inizio attività prevista dall'art. 5 del D.lgs. 29.12.2003 n. 387 non possono che ricalcare in linea di massima la documentazione da produrre con l'istanza per l'ottenimento dell'autorizzazione, di cui ai commi terzo e quarto dell'articolo 12 del decreto legislativo 29.12.2003 n. 387; pertanto in assenza della documentazione, se pertinente ed essenziale, la dichiarazione d'inizio attività “non può reputarsi formalmente presentata” e quindi, dalla data del suo deposito, non può iniziare a decorrere il termine dilatorio di 30 giorni (sentenza 02.10.2009, n. 2226).
3.5. A diverse conclusioni non può giungersi in relazione all’intervenuta qualificazione normativa (per effetto dell’art. 6, comma 1, lett. c), D.L. 13.08.2011, n. 138) della d.i.a. (e della s.c.i.a.) quale titolo abilitativo ex lege e non già di fattispecie provvedimentale a formazione tacita, come anticipato in via pretoria dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza 29.07.2011, n. 15).
Infatti, allorché il legislatore introduca fattispecie di liberalizzazione di attività, vale il principio dell'autoresponsabilità del dichiarante, in base al quale, la dichiarazione può ritenersi valida ed efficace soltanto se essa rispetti -oltre alle formalità estrinseche prescritte dall'ordinamento (essenzialmente dirette a rendere incontrovertibile la paternità di una determinata dichiarazione)- anche il canone dell'autosufficienza contenutistica, nel senso che occorre porre in condizione l’Amministrazione di poter effettivamente esercitare in concreto il potere inibitorio e di controllo previsto dalla legge. E ciò, si badi bene, non solo nell’interesse pubblico alla repressione delle attività abusive, ma nello stesso interesse del dichiarante a non esporsi inutilmente all’eventuale potere inibitorio e/o sanzionatorio una volta già realizzate le opere ed effettuati i correlati investimenti.
Le esigenze di concentrazione dei procedimenti e di tempestività e contenimento dei termini, poste alla base del decreto legislativo 29.12.2003 n. 387 in materia di autorizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, sia in riferimento alle fattispecie di autorizzazione unica che di d.i.a., non può allora esonerare il richiedente, secondo il suesposto principio della autoresponsabilità, dalla presentazione della documentazione prescritta dalla legge, al fine di consentire all’Amministrazione di effettuare preventivamente gli opportuni controlli su quanto l’interessato intenda realizzare (in questi termini, in riferimento all’art. 23 t.u. edilizia e all’art. 19 legge 241/1990, Consiglio di Stato sez. IV 24.05.2010 n. 3263; in riferimento alla d.i.a. per la realizzazione di impianti di telefonia mobile TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II, 17.07.2006, n. 1462.)
Conclusivamente, anche in riferimento alle d.i.a. prescritte dalla normativa in materia di realizzazione di impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili -per le quali in considerazione della specialità non pare ipotizzabile la sostituzione con la s.c.i.a. di cui all’art. 19 L. 241/1990- deve rimanere fermo il principio per cui le fattispecie di semplificazione astrattamente previste dal legislatore (statale o regionale) possono ritenersi “formate ed esistenti” soltanto quando esse risultino idonee, da sole, a soddisfare le esigenze informative indispensabili per l’esercizio del potere inibitorio–repressivo
(TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 18.06.2012 n. 1193 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’ubicazione del canile è compatibile con la destinazione d’uso a zona agricola e non rende necessaria alcuna variante dello strumento urbanistico generale.
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Sia il canile che l’azienda venatoria sono compatibili con la destinazione agricola dell’area e non è pacificamente necessaria la DIA per il canile, così come per l’azienda venatoria.

Comune di Bagnoregio ... contro Comune di Viterbo ...
per l'annullamento della DELIBERA 25/06 AVENTE AD OGGETTO: LAVORI DI COSTRUZIONE DEL CANILE MUNICIPALE IN LOC. FRACASSA - STRADA PROVINCIALE PRATOLEVA - IX CIRCOSCRIZIONE - CONTRODEDUZIONI E OSSERVAZIONI - 23-BIS.
...
Ritenuto e considerato in fatto ed in diritto quanto segue:
1 – Che a seguito di avviso pubblico in data 03.06.2004 il Comune di Viterbo si rendeva acquirente del terreno agricolo sito in località Fracassa, al confine del territorio del Comune di Viterbo con quelli di Bagnoregio e Celleno e ricadente nel perimetro dell'Azienda Faunistico- Venatoria "Carbonara", ed in data 16.12.2004 il Consiglio Comunale approvava il progetto preliminare dell'erigendo canile e contestualmente la variante urbanistica con la quale il terreno acquistato, "zonizzato" come E4 (zona agricola), veniva trasformato in F3 (servizi e attrezzature tecnologici e specializzati);
2 – Che, avendo avuto notizia di tali vicende, facevano pervenire osservazioni in opposizione al Comune, in tempi diversi, l'ing. Tecchi, la Signora Michelina Tecchi Cristofori Celiani (proprietaria di un'azienda agricola limitrofa alla zona in questione), il Comune di Bagnoregio, e alcuni cittadini (circa sessanta) residenti in prossimità del luogo;
...
9 – Che, tuttavia, ogni ulteriore approfondimento sull’eccezione in esame appare superfluo, considerato che il ricorso palesa comunque la propria non fondatezza nel merito;
10- Che, in particolare, quanto ai singoli motivi di ricorso:
1) l’ubicazione del canile è compatibile con la destinazione d’uso a zona agricola e non rende necessaria alcuna variante dello strumento urbanistico generale, e ciò fa perdere ogni rilievo alle censure sub 1;
2) dagli atti depositati in giudizio risulta lo svolgimento di un’adeguata istruttoria, che ha in particolare consentito di escludere la presenza di “insediamenti abitativi” in prossimità, senza con ciò escludere, ed anzi dando atto della presenza, di alcune abitazioni rurali, che risultano (restando del tutto irrilevanti eventuali fenomeni di edilizia “spontanea” o abusiva) del tutto compatibili con il canile, sulla premessa della sua compatibilità (riconosciuta dalla costante giurisprudenza) con la destinazione agricola della zona, facendo ciò cadere le censure sub 2;
3) la presenza di un inceneritore di portata maggiore rispetto alla taglia media di un cane viene adeguatamente motivata, nel progetto, con ragioni di economia di gestione, e da sola non lascia ipotizzare alcuno sviamento, come invece sostenuto nella censura sub 3;
4) le censure sub 4, comunque estranee allo osservazioni ed alla conseguenti controdeduzioni della delibera impugnata, non si sostanziano in alcuna specifica evidenziazione di illegittimità, e comunque appaiono contraddette dalle norme che sottopongono il canile municipale ad un’adeguata sorveglianza sanitaria e veterinaria, sempre necessaria, indipendentemente dal fatto che i possibili bersagli delle temute infezioni siano animali selvatici o domestici diversi da quelli dell’azienda venatoria in questione e dai cani da caccia dei relativi clienti;
5) quanto infine alla contestata violazione della normativa ambientale ed alla affermata mancata ponderazione dei valori ambientali, di cui l’azienda venatoria ricorrente sarebbe portatrice, osserva il Collegio che sia il canile che l’azienda venatoria sono compatibili con la destinazione agricola dell’area e che non è pacificamente necessaria la DIA per il canile, così come per l’azienda venatoria. Pertanto, non venendo neppure allegata alcuna censura relativa a specifiche presunte violazioni ambientali in danno dell’azienda (ed essendo, in ogni caso, gli “ospiti” del canile ristretti in un’area sorvegliata e ben confinata), la dedotta censura si palesa priva di consistenza;
11 – Che il ricorso , in disparte ogni considerazione circa la sua inammissibilità, palesa quindi la propria non fondatezza e deve pertanto essere respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 26.04.2011 n. 3583 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di box a servizio di un canile - Destinazione “zona agricola” - Incompatibilità urbanistica oggettiva e assoluta - Esclusione - Permesso di costruire - Diniego - Illegittimità - Fattispecie.
In materia urbanistica, non è configurabile una pretesa incompatibilità urbanistica oggettiva e assoluta tra la destinazione agricola e la realizzazione di box a servizio del canile, sia in quanto la destinazione agricola di una zona comporta che la stessa non può essere destinata ad insediamento abitativo residenziale, ma non preclude l'installazione di opere che nulla hanno a che vedere con la localizzazione della residenza della popolazione, sia in quanto, per ovvie ragioni, un ricovero per cani randagi è preferibile che venga ubicato in aperta campagna e quindi in zona agricola, salvo che il piano regolatore generale non preveda apposite localizzazioni (cfr., circa la compatibilità di un canile municipale con la destinazione a zona agricola, Consiglio di Stato, IV Sezione, 31.01.2005, n. 253).
Nella specie, è stato ritenuto illegittimo il provvedimento che negava il rilascio del permesso di costruire, per la realizzazione di 21 box destinati al ricovero di cani randagi, sul presupposto che “la zona interessata è classificata secondo il vigente P.R.G. come Zona E Agricola e viabilità esistente” e che le norme tecniche di attuazione, di detta zona, non contemplano l’intervento richiesto (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 21.11.2006 n. 10065 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAIl contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché il tipo di uso offre la giustificazione giuridica all’an debeatur, mentre le modalità concrete dell’uso danno la ragione del quantum.
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’alloggio, in quanto una diversa utilizzazione rispetto a quella stabilita nell’originario titolo abilitativo può determinare una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico.
In termini generali, il fondamento del contributo di urbanizzazione –da versare al momento del rilascio di una concessione edilizia– non consiste nell'atto amministrativo in sé bensì nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità eque per la comunità.
Pertanto, anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso cui si correla un maggior carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione al titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa: il mutamento è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici, cosicché la circostanza che le modifiche di destinazione d’uso senza opere non sono soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale non comporta ipso jure l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione.
Un diverso ragionamento sarebbe evidentemente inaccettabile, dal momento che gli interessati sarebbero altrimenti indotti a chiedere ed ottenere una concessione edilizia che sconta il pagamento di un minor contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare liberamente la destinazione d'uso originaria senza pagare i più elevati oneri che derivano dal maggior carico urbanistico.
Se è comunque indispensabile l’esame della fattispecie concreta per accertare se il nuovo insediamento o la nuova opera abbia determinato un incremento nella domanda di strutture ed opere collettive, nella specie il mutamento di destinazione –da residenziale ad ufficio– è riconducibile ad una classe diversa e più onerosa della precedente tale che, se la concessione fosse stata richiesta fin dall’origine per la nuova destinazione, avrebbe comportato un diverso e meno favorevole regime contributivo urbanistico: ai fini del calcolo dei cd. standard, l’ufficio di un’attività d’impresa assume la consistenza di un distinto ed autonomo centro d'attrazione, non riconducibile alle esigenze di normale vivibilità delle zone residenziali, ed è pertanto fonte di un maggiore carico urbanistico.
In definitiva, a fronte dell’accertato mutamento di destinazione d’uso l’amministrazione ha legittimamente provveduto a calcolare di nuovo il quantum dovuto in relazione al diverso carico urbanistico

La censura è priva di pregio.
Ad avviso della costante giurisprudenza (Consiglio di Stato, sez. V – 26/07/1984 n. 592; TAR Catania–31/07/1979 n. 408), il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché il tipo di uso offre la giustificazione giuridica all’an debeatur, mentre le modalità concrete dell’uso danno la ragione del quantum (Consiglio di Stato, sez. V – 23/05/1997 n. 529).
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.) nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione d’uso concretamente impressa all’alloggio, in quanto una diversa utilizzazione rispetto a quella stabilita nell’originario titolo abilitativo può determinare una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico (Sentenza Sezione 11/06/2004 n. 646; TAR Lombardia Milano, sez. II – 02/10/2003 n. 4502; Consiglio Stato, sez. V – 25/05/1995 n. 822).
In termini generali, il fondamento del contributo di urbanizzazione –da versare al momento del rilascio di una concessione edilizia– non consiste nell'atto amministrativo in sé bensì nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla presenza delle medesime, secondo modalità eque per la comunità (cfr. TAR Veneto, sez. II – 13/11/2001 n. 3699).
Pertanto, anche nel caso di modificazione della destinazione d'uso cui si correla un maggior carico urbanistico, è integrato il presupposto che giustifica l’imposizione al titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa: il mutamento è rilevante allorquando sussiste un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici, cosicché la circostanza che le modifiche di destinazione d’uso senza opere non sono soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale non comporta ipso jure l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione (cfr., in tal senso, sentenze Sezione 10/03/2005 n. 145 e 23/01/1998 n. 34).
Un diverso ragionamento sarebbe evidentemente inaccettabile, dal momento che gli interessati sarebbero altrimenti indotti a chiedere ed ottenere una concessione edilizia che sconta il pagamento di un minor contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare liberamente la destinazione d'uso originaria senza pagare i più elevati oneri che derivano dal maggior carico urbanistico.
Se è comunque indispensabile l’esame della fattispecie concreta per accertare se il nuovo insediamento o la nuova opera abbia determinato un incremento nella domanda di strutture ed opere collettive (TAR Piemonte, sez. I – 04/12/1997 n. 821; Consiglio di Stato, sez. V – 29/01/2004 n. 295), nella specie il mutamento di destinazione –da residenziale ad ufficio– è riconducibile ad una classe diversa e più onerosa della precedente tale che, se la concessione fosse stata richiesta fin dall’origine per la nuova destinazione, avrebbe comportato un diverso e meno favorevole regime contributivo urbanistico: ai fini del calcolo dei cd. standard, l’ufficio di un’attività d’impresa assume la consistenza di un distinto ed autonomo centro d'attrazione, non riconducibile alle esigenze di normale vivibilità delle zone residenziali, ed è pertanto fonte di un maggiore carico urbanistico (Consiglio Stato, sez. V – 19/05/1998 n. 626).
In definitiva, a fronte dell’accertato mutamento di destinazione d’uso l’amministrazione ha legittimamente provveduto a calcolare di nuovo il quantum dovuto in relazione al diverso carico urbanistico (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 07.11.2005 n. 1115).

EDILIZIA PRIVATA: L'esenzione dal versamento degli oo.uu. e del costo di costruzione, ex art. 9 L. n. 10/1977, non si applica alle opere pubbliche realizzate da un soggetto non rientri nella nozione di ente istituzionalmente competente.
L'art. 9, comma 1, lett. f), della legge 28.01.1977, n. 10 enuncia due requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo speciale regime di gratuità della concessione, l'uno di carattere oggettivo e l'altro di carattere soggettivo.
Per effetto del primo la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale mentre, per effetto del secondo, devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente.
In merito al primo aspetto, non vi è dubbio che il caso di specie (ndr: uffici ed ambulatori nuova sede INAIL) rientri nella previsione normativa e ciò è provato dall’espresso contenuto della concessione edilizia rilasciata dal Comune.
Difficoltà di ordine interpretativo nascono in ordine al possesso in capo alla impresa COGECAR s.r.l. del requisito soggettivo di “ente istituzionalmente competente”.
In questo senso, è necessario individuare la ratio dell’esenzione in argomento che è finalizzata sì ad agevolare l'esecuzione di opere dalle quali la collettività possa trarne una utilità ma anche ad evitare che il soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse corrisponda un contributo che verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro pagamento.
In questo senso, la disposizione si rivolge, oltre che agli enti pubblici, a quelle figure soggettive che non agiscono per esclusivo scopo lucrativo ovvero che accompagnano al lucro un collegamento giuridicamente rilevante con l'amministrazione, sì da rafforzare il legame istituzionale con l'azione del soggetto pubblico per la cura degli interessi della collettività.
Tale raccordo, peraltro, deve essere idoneo ad assicurare, grazie alla presenza del soggetto pubblico, un contemperamento dell'obiettivo privatistico dell'esecutore dell'opera con il fine pubblicistico realizzato, come ad esempio nel caso del concessionario di opera pubblica, il quale, pur mirando al conseguimento di un lucro d'impresa, è parificabile a pieno titolo al soggetto che cura istituzionalmente l'esecuzione di opere di interesse generale.
Ciò premesso, nella fattispecie controversa non è dato apprezzare il requisito soggettivo, poiché l’impresa ricorrente non può essere ricompressa nella nozione di ente istituzionalmente competente.
A questo fine, il fatto che l’immobile fosse destinato ad ospitare la nuova sede dell’INAIL non porta conseguentemente a ritenere sussistente l’elemento soggettivo che, al contrario, deve essere verificato sulla base di altri fattori di collegamento.
In questo quadro, la circostanza di aver partecipato ad una gara indetta dall’INAIL per l’acquisto di un immobile, da costruire e da destinare al predetto istituto (con successiva stipula del contratto di compravendita di cosa futura), non esclude il fatto che la COGECAR S.r.l. abbia comunque operato e programmato l'intervento edilizio in qualità di soggetto privato e che la valutazione dei costi dell'opera e dei margini di lucro sia stata eseguita nell'ambito delle specifiche competenze dell'impresa.
La COGECAR s.r.l. ha conservato, nel caso di specie, la sua veste di operatore economico privato ed ha quindi conseguito un utile in posizione comune a quella di ogni altro libero operatore nel mercato, segnando così un netto distacco rispetto all'ipotesi in cui l'opera viene costruita dall'ente istituzionalmente competente.

... per l'annullamento, con tutti gli atti preordinati, consequenziali e connessi, della concessione edilizia n. 14 del 25.01.1999 e relativo avviso di rilascio del Comune di Monza, avente ad oggetto la costruzione di un edificio direzionale (uffici ed ambulatori nuova sede INAIL), nella parte in cui impone il versamento del contributo commisurato al costo di costruzione, stabilito in £. 572.637.084, e degli oneri di urbanizzazione, stabiliti in £. 294.584.085, ovvero per la declaratoria del diritto della ricorrente alla esenzione dal pagamento di oneri concessori e la conseguente condanna del Comune di Monza alla restituzione della somma di £. 845.751.170 oltre interessi e rivalutazione.
...
La censura avanzata dalla ricorrente non appare fondata condividendo il Collegio l’interpretazione dell’art. 9, comma 1, lett. f), della legge 28.01.1977, n. 10 fornita dalla prevalente giurisprudenza amministrativa (per tutte, Cons. St., sez. V, 20.07.2000, n. 3860).
La norma enuncia, infatti, due requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo speciale regime di gratuità della concessione, l'uno di carattere oggettivo e l'altro di carattere soggettivo.
Per effetto del primo la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale mentre, per effetto del secondo, devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente.
In merito al primo aspetto, non vi è dubbio che il caso di specie rientri nella previsione normativa e ciò è provato dall’espresso contenuto della concessione edilizia rilasciata dal Comune.
Difficoltà di ordine interpretativo nascono in ordine al possesso in capo alla impresa COGECAR s.r.l. del requisito soggettivo di “ente istituzionalmente competente”.
In questo senso, è necessario individuare la ratio dell’esenzione in argomento che è finalizzata sì ad agevolare l'esecuzione di opere dalle quali la collettività possa trarne una utilità ma anche ad evitare che il soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse corrisponda un contributo che verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro pagamento.
In questo senso, la disposizione si rivolge, oltre che agli enti pubblici, a quelle figure soggettive che non agiscono per esclusivo scopo lucrativo ovvero che accompagnano al lucro un collegamento giuridicamente rilevante con l'amministrazione, sì da rafforzare il legame istituzionale con l'azione del soggetto pubblico per la cura degli interessi della collettività.
Tale raccordo, peraltro, deve essere idoneo ad assicurare, grazie alla presenza del soggetto pubblico, un contemperamento dell'obiettivo privatistico dell'esecutore dell'opera con il fine pubblicistico realizzato, come ad esempio nel caso del concessionario di opera pubblica, il quale, pur mirando al conseguimento di un lucro d'impresa, è parificabile a pieno titolo al soggetto che cura istituzionalmente l'esecuzione di opere di interesse generale.
Ciò premesso, nella fattispecie controversa non è dato apprezzare il requisito soggettivo, poiché l’impresa ricorrente non può essere ricompressa nella nozione di ente istituzionalmente competente.
A questo fine, il fatto che l’immobile fosse destinato ad ospitare la nuova sede dell’INAIL non porta conseguentemente a ritenere sussistente l’elemento soggettivo che, al contrario, deve essere verificato sulla base di altri fattori di collegamento.
In questo quadro, la circostanza di aver partecipato ad una gara indetta dall’INAIL per l’acquisto di un immobile, da costruire e da destinare al predetto istituto (con successiva stipula del contratto di compravendita di cosa futura), non esclude il fatto che la COGECAR S.r.l. abbia comunque operato e programmato l'intervento edilizio in qualità di soggetto privato e che la valutazione dei costi dell'opera e dei margini di lucro sia stata eseguita nell'ambito delle specifiche competenze dell'impresa.
La COGECAR s.r.l. ha conservato, nel caso di specie, la sua veste di operatore economico privato ed ha quindi conseguito un utile in posizione comune a quella di ogni altro libero operatore nel mercato, segnando così un netto distacco rispetto all'ipotesi in cui l'opera viene costruita dall'ente istituzionalmente competente.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 09.02.2004 n. 653).

AGGIORNAMENTO AL 15.07.2014

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 prevede che l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica nei casi di “lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”, “impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica”, “lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria” ai sensi dell'articolo 3 del d.P.R. n. 380/2001.
A tale riguardo:
- il Collegio ritiene di non doversi discostare da una interpretazione del testo normativo fedele alla lettera, la quale esclude l’accertamento di compatibilità paesaggistica nel caso di creazione o aumento di superfici utili “o” volumi;
- il Consiglio di Stato ha chiarito che “il divieto di incremento dei volumi edilizi imposto ai fini della tutela del paesaggio preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume...la natura del volume edilizio realizzato non rileva sul giudizio di compatibilità paesaggistica ex post delle opere, in cui la nuova volumetria, quale che sia la sua natura, impone una valutazione di compatibilità con i valori paesaggistici dell'area ex ante, essendo precluse autorizzazioni postume di opere che abbiano comportato nuovi volumi ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. n. 42 del 2004”;
- “quanto al rilievo dei volumi seminterrati o interrati…la Sezione richiama e ribadisce in questa sede la propria consolidata giurisprudenza, per la quale -come si desume dall'articolo 167, comma 4, del medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica quando l'abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza paesaggistica per le opere da realizzare”.
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Il parere ministeriale (di cui alla nota 13.09.2010 n. 16721 di prot. dell’Ufficio legislativo del Ministero B.A.C.) -nell’intento di evitare interpretazioni eccessivamente formalistiche della normativa- escluderebbe la necessità dell’autorizzazione paesaggistica con riferimento a incrementi di volume o di superficie “di minima entità”, che non risultino “neppure visibili” e che non rechino pregiudizio ai valori protetti “in quanto oggettivamente non percepibili”. 
Tuttavia, si ritiene di dover condividere la posizione della Soprintendenza, laddove afferma che “la normativa invocata prescinde da valutazioni soggettive e discrezionali inerenti alla percettibilità delle opere eseguite sine titulo, la cui ammissibilità ai benefici di legge va valutata –trattandosi di deroga al divieto generale di rilascio di autorizzazioni in via postuma– con tassativo riferimento a quanto disposto dall’art. 167, comma 4, d.lgs. n. 42/2004”.
Ancora, in relazione all’ambiente urbano circostante –secondo la ricorrente “di scarsissimo valore paesaggistico attesa la presenza di grandi edifici anonimi e privi di qualsiasi qualità architettonica”– la Soprintendenza utilmente richiama quanto da tempo affermato dal Consiglio di Stato circa il fatto che “non può affermarsi la sussistenza dei vizi di difetto di istruttoria e di motivazione in relazione al fatto che l'area in parola fosse stata nel corso del tempo degradata e parzialmente urbanizzata e che le aree circostanti fossero state notevolmente alterate… l'avvenuta edificazione di un'area o le sue condizioni di degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall'intento di proteggere i valori estetici o culturali ad essa legati, poiché l'imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l'imposizione al proprietario delle cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell'integrità dello stesso”; e che “siccome la qualificazione di rilevanza paesaggistico-ambientale di un sito non è determinata dal suo grado d'inquinamento -ché, allora, in tutti i casi di degrado ambientale sarebbe preclusa ogni ulteriore protezione del paesaggio riconosciuto meritevole di tutela-, ne consegue che l'imposizione del relativo vincolo serve piuttosto a prevenire l'aggravamento della situazione ed a perseguirne il possibile recupero”.
In ogni caso, la Soprintendenza rileva che l’immobile “non apporta un contributo alla qualificazione delle vedute d’insieme del luogo e non può essere ritenuto migliorativo per il paesaggio rispetto all’edificio preesistente”.

Il Collegio ritiene che la Soprintendenza abbia agito correttamente, per le ragioni di seguito illustrate.
L’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 prevede che l’autorità amministrativa competente accerta la compatibilità paesaggistica nei casi di “lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”, “impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica”, “lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria” ai sensi dell'articolo 3 del d.P.R. n. 380/2001.
Nel caso in esame la mancanza della necessaria autorizzazione paesaggistica riguarda l’intero fabbricato. Il decorso del tempo dopo il rilascio del p.d.c. n. 23/2008 non muta il fatto che l’immobile per il quale esso è stato rilasciato era e resta abusivo dal punto di vista paesaggistico. Sicché, per la Soprintendenza, i lavori realizzati in assenza di autorizzazione paesaggistica non possono che essere costituiti dall’intera costruzione.
A tutto concedere -e così risulta aver ragionato la Soprintendenza- il raffronto, avente lo scopo di verificare la natura e la consistenza dei lavori ai fini della ammissibilità di una valutazione paesaggistica postuma, può dunque essere compiuto assumendo come parametro di riferimento l’immobile originariamente acquisito dalla ricorrente.
A tale riguardo, occorre premettere che:
- il Collegio ritiene di non doversi discostare da una interpretazione del testo normativo fedele alla lettera, la quale esclude l’accertamento di compatibilità paesaggistica nel caso di creazione o aumento di superfici utili “o” volumi;
- il Consiglio di Stato ha chiarito che “il divieto di incremento dei volumi edilizi imposto ai fini della tutela del paesaggio preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume...la natura del volume edilizio realizzato non rileva sul giudizio di compatibilità paesaggistica ex post delle opere, in cui la nuova volumetria, quale che sia la sua natura, impone una valutazione di compatibilità con i valori paesaggistici dell'area ex ante, essendo precluse autorizzazioni postume di opere che abbiano comportato nuovi volumi ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. n. 42 del 2004” (sez. II, parere 06.06.2012, n. affare 04814/2011);
- “quanto al rilievo dei volumi seminterrati o interrati…la Sezione richiama e ribadisce in questa sede la propria consolidata giurisprudenza, per la quale -come si desume dall'articolo 167, comma 4, del medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i volumi interrati e seminterrati: così come per essi è applicabile il divieto di sanatoria quando sono realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il rilascio della sanatoria paesaggistica quando l'abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi natura), così essi hanno una propria rilevanza paesaggistica per le opere da realizzare” (sez. VI, sent. n. 4503/2013).
Nella fattispecie, la Soprintendenza ha rilevato che “originariamente il fabbricato rurale aveva due piani (seminterrato, destinato a stalla, e piano terra, di fatto rialzato, adibito a residenza) oltre al sottotetto della copertura a capanna, mentre la costruzione attuale ha tre piani (più il sottotetto non praticabile, ma comunque dotato di botola e bucature), con superfici utili incrementate, di cui il livello inferiore (con altezza netta di 2,70 m) è seminterrato con tre lati in gran parte fuori terra, tanto da essere predisposti ad avere più aperture, e dovrebbe essere adibito a vari usi (autorimessa con portico antistante, locale pluriuso, cantina, wc, disimpegno ecc.) nonché presenta, rispetto al fabbricato preesistente, una sagoma con altezze alla gronda (nonché al colmo e all’interpiano) prevalentemente maggiori, la conformazione e l’estensione delle facciate sostanzialmente variate e sia caratteristiche tipologiche generali che l’assetto del tetto significativamente mutati”.
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La ricorrente lamenta la violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, per non avere la Soprintendenza sufficientemente motivato, nel provvedimento finale, in merito alle controdeduzioni prodotte dalla stessa ricorrente in riscontro alla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.
La censura non convince.
Il parere della Soprintendenza argomenta in ordine a tutte le questioni ivi sollevate: il carattere abusivo delle opere, la consistenza obiettiva delle costruzioni, l’insussistenza dei presupposti di cui alla
nota 13.09.2010 n. 16721 di prot. dell’Ufficio legislativo del Ministero B.A.C., la ritenuta incongruenza di alcune parti della documentazione, le caratteristiche della zona nella quale si trova il fabbricato.
In particolare, il richiamato parere ministeriale -nell’intento di evitare interpretazioni eccessivamente formalistiche della normativa- escluderebbe la necessità dell’autorizzazione paesaggistica con riferimento a incrementi di volume o di superficie “di minima entità”, che non risultino “neppure visibili” e che non rechino pregiudizio ai valori protetti “in quanto oggettivamente non percepibili”.
Sul punto, la Soprintendenza ha correttamente osservato che tali condizioni non risultano verificate nel caso oggetto del presente giudizio, nel quale si riscontrano mutamenti della sagoma (altezze alla gronda, al colmo e all’interpiano prevalentemente maggiori), delle facciate (per conformazione ed estensione), delle caratteristiche tipologiche generali, dell’assetto del tetto, nonché interferenze della nuova struttura con l’andamento del terreno circostante.
In ogni caso, si ritiene di dover condividere la posizione della Soprintendenza, laddove afferma che “la normativa invocata prescinde da valutazioni soggettive e discrezionali inerenti alla percettibilità delle opere eseguite sine titulo, la cui ammissibilità ai benefici di legge va valutata –trattandosi di deroga al divieto generale di rilascio di autorizzazioni in via postuma– con tassativo riferimento a quanto disposto dall’art. 167, comma 4, d.lgs. n. 42/2004”.
Ancora, in relazione all’ambiente urbano circostante –secondo la ricorrente “di scarsissimo valore paesaggistico attesa la presenza di grandi edifici anonimi e privi di qualsiasi qualità architettonica”– la Soprintendenza utilmente richiama quanto da tempo affermato dal Consiglio di Stato circa il fatto che “non può affermarsi la sussistenza dei vizi di difetto di istruttoria e di motivazione in relazione al fatto che l'area in parola fosse stata nel corso del tempo degradata e parzialmente urbanizzata e che le aree circostanti fossero state notevolmente alterate… l'avvenuta edificazione di un'area o le sue condizioni di degrado non costituiscono ragione sufficiente per recedere dall'intento di proteggere i valori estetici o culturali ad essa legati, poiché l'imposizione del vincolo costituisce il presupposto per l'imposizione al proprietario delle cautele e delle opere necessarie alla conservazione del bene e per la cessazione degli usi incompatibili con la conservazione dell'integrità dello stesso” (sez. VI, sent. n. 3556/2010); e che “siccome la qualificazione di rilevanza paesaggistico-ambientale di un sito non è determinata dal suo grado d'inquinamento -ché, allora, in tutti i casi di degrado ambientale sarebbe preclusa ogni ulteriore protezione del paesaggio riconosciuto meritevole di tutela-, ne consegue che l'imposizione del relativo vincolo serve piuttosto a prevenire l'aggravamento della situazione ed a perseguirne il possibile recupero” (Cons. Stato, VI, 27.04.2010, n. 2377).
In ogni caso, la Soprintendenza rileva che l’immobile “non apporta un contributo alla qualificazione delle vedute d’insieme del luogo e non può essere ritenuto migliorativo per il paesaggio rispetto all’edificio preesistente”.
Alla luce di tutto quanto sopra considerato, il ricorso è infondato e deve pertanto essere respinto
(TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 04.07.2014 n. 1192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer consolidati principi, il divieto di incremento dei volume edilizi imposto ai fini della tutela del paesaggio preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra “volume tecnico” ed altro tipo di volume.
Ai sensi dell’art. 146, comma 4, D.Lgs. n. 42 del 2004, l'autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere , al di fuori dai casi tassativamente previsti dall'art. 167, commi 4 e 5.
Con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l'esame di compatibilità paesaggistica possa essere postergato all'intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato), così tutelando più rigorosamente i beni sottoposti al vincolo paesaggistico, ad eccezione delle opere tassativamente indicate nello stesso art. 167 del D.Lgs. n. 42 del 2004 riguardanti lavori che, pur se realizzati in assenza o difformità dell'autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Tuttavia, nel caso in esame, correttamente la Soprintendenza ha escluso la ricorrenza della fattispecie derogatoria appena richiamata, atteso che i vani realizzati sul terrazzo di copertura (tre vani, per una superficie complessiva di 30 mq. ed un’altezza di cm. 250) hanno comportato un aumento delle volumetrie dell'edificio e, per di più, un'opera rilevante sul piano della sua percezione visiva nel contesto paesaggistico di riferimento.
A tal proposito, non può condividersi l'approccio interpretativo dell'appellante, che mira a neutralizzare il profilo dell'aumento volumetrico determinato dai vani ospitanti impianti tecnici, richiamando la normativa sui cosiddetti volumi tecnici.
Nella prospettiva della tutela del paesaggio, in cui assume preminenza l’impatto visivo ed estetico dell’insieme architettonico dei volumi, alla nozione di “volume tecnico”, come volume destinato ad ospitare un impianto o parte di esso che, per ragioni di funzionalità, di igiene o di sicurezza non potrebbe essere allocato nella volumetria assentita o comunque assentibile, non può essere riconosciuto il medesimo rilievo assegnato sul piano del carico urbanistico.
Pertanto, la natura del volume edilizio realizzato (sia o meno qualificabile come volume tecnico) non rileva sul giudizio di compatibilità paesaggistica ex post delle opere, in cui la nuova volumetria, quale che sia la sua natura, impone una valutazione di compatibilità con i valori paesaggistici dell'area (che deve compiersi da parte della autorità preposta alla tutela del vincolo, ovvero dalla competente Soprintendenza in sede di redazione di un suo parere) ex ante, essendo precluse autorizzazioni postume di opere che abbiano comportato nuovi volumi ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. n. 42 del 2004.

Con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, il ricorrente in oggetto ha chiesto l’annullamento, previa sospensione, del parere della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per la Provincia di Lecce, Brindisi e Taranto in data 13.10.2008, con cui la sua richiesta di autorizzazione in sanatoria alla realizzazione di volumi tecnici su fabbricato di sua proprietà, eretti in assenza di titolo abilitativo, è stata giudicata non rientrante nei casi di sanatoria postuma previsti dall’art. 167 del d. lgs. n. 42/2004.
...
Con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente sostiene che i vani realizzati, per la loro natura di “volumi tecnici”, come tali inidonei a determinare creazione di superfici utili o volumi o aumento di quelli legittimamente realizzati, sarebbero sanabili ai sensi dell’art. 167, n. 4 d.lgs. n. 42/2004 e che, pertanto, illegittimamente la Soprintendenza avrebbe ritenuto non esperibile il procedimento di autorizzazione in sanatoria, senza esaminare, nel merito, l’entità dell’abuso (da considerarsi “piccolo abuso”).
Il motivo è infondato.
Per consolidati principi (Cons. St. Sez. VI, 20.6.2012, n. 3578, Sez. IV, 28.03.2011, n. 1879; 04.05.2010, n. 2565), il divieto di incremento dei volume edilizi imposto ai fini della tutela del paesaggio preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra “volume tecnico” ed altro tipo di volume.
Ai sensi dell’art. 146, comma 4, D.Lgs. n. 42 del 2004, l'autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere , al di fuori dai casi tassativamente previsti dall'art. 167, commi 4 e 5.
Con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l'esame di compatibilità paesaggistica possa essere postergato all'intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato), così tutelando più rigorosamente i beni sottoposti al vincolo paesaggistico, ad eccezione delle opere tassativamente indicate nello stesso art. 167 del D.Lgs. n. 42 del 2004 riguardanti lavori che, pur se realizzati in assenza o difformità dell'autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Tuttavia, nel caso in esame, correttamente la Soprintendenza ha escluso la ricorrenza della fattispecie derogatoria appena richiamata, atteso che i vani realizzati sul terrazzo di copertura (tre vani, per una superficie complessiva di 30 mq. ed un’altezza di cm. 250) hanno comportato un aumento delle volumetrie dell'edificio e, per di più, un'opera rilevante sul piano della sua percezione visiva nel contesto paesaggistico di riferimento.
A tal proposito, non può condividersi l'approccio interpretativo dell'appellante, che mira a neutralizzare il profilo dell'aumento volumetrico determinato dai vani ospitanti impianti tecnici, richiamando la normativa sui cosiddetti volumi tecnici.
Nella prospettiva della tutela del paesaggio, in cui assume preminenza l’impatto visivo ed estetico dell’insieme architettonico dei volumi, alla nozione di “volume tecnico”, come volume destinato ad ospitare un impianto o parte di esso che, per ragioni di funzionalità, di igiene o di sicurezza non potrebbe essere allocato nella volumetria assentita o comunque assentibile, non può essere riconosciuto il medesimo rilievo assegnato sul piano del carico urbanistico.
Pertanto, la natura del volume edilizio realizzato (sia o meno qualificabile come volume tecnico) non rileva sul giudizio di compatibilità paesaggistica ex post delle opere, in cui la nuova volumetria, quale che sia la sua natura, impone una valutazione di compatibilità con i valori paesaggistici dell'area (che deve compiersi da parte della autorità preposta alla tutela del vincolo, ovvero dalla competente Soprintendenza in sede di redazione di un suo parere) ex ante, essendo precluse autorizzazioni postume di opere che abbiano comportato nuovi volumi ai sensi dell’art. 167 D.Lgs. n. 42 del 2004 (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 06.09.2012 n. 3807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Alla Camera dei Deputati è stato approvato un emendamento importante (ndr: in quale norma non è dato conoscere) che prevede, in relazione ai pareri dei soprintendenti che oggi sono in qualche misura non discutibili e non ricorribili se non attraverso la procedura davanti all'autorità giudiziaria ordinaria o amministrativa, per la prima volta, un meccanismo interno al Ministero che consenta, su richiesta di un'altra amministrazione pubblica, un comune, una regione o d'ufficio da parte del Ministero di riesaminare, dentro il Ministero stesso, quel parere togliendo in questo modo questa eccezionalità ai pareri dei sovrintendenti che fino ad oggi non erano ridiscutibili, nemmeno per le vie gerarchiche del Ministero.
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Camera dei Deputati, question-time del 09.07.2014 interrogazione n. 3-00932.
Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. — Per sapere – premesso che:
(... omissis)
- sotto altri aspetti
nella regione Friuli Venezia Giulia, come già rilevato in altri recenti atti di sindacato ispettivo indirizzati al Ministro interrogato, si è riscontrata una rilevante difficoltà nei rapporti tra la soprintendenza gestita dall'architetto M.G.P. e i soggetti pubblici locali per ritardi inaccettabili nell'inoltro dei pareri, per assenza di motivazioni a giustificazione di diversa valutazione rispetto alle commissioni locali per il paesaggio;
- un tale comportamento a giudizio degli interroganti rappresenta un grave atto di scorrettezza istituzionale, tale da configurare una lesione dell'autonomia del Friuli Venezia Giulia e, quindi, un conflitto di attribuzione tra regione e Stato;
- a seguito della posizione assunta dalla soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici del Friuli Venezia Giulia, il consiglio comunale di Trieste, in data 07.04.2014, avrebbe approvato la delibera che regolamenta i dehor, ossia gli arredi esterni dei locali, imponendo norme stringenti per i gestori degli esercizi pubblici;
- la delibera è entrata in vigore il 30.04.2014 ed entro tale data dovevano essere presentate al comune le domande conformi al nuovo regolamento, le quali hanno richiesto un iter molto complesso, con obbligo di presentazione di un progetto redatto da un professionista;
- gli esercenti, per far accomodare i propri clienti negli spazi esterni circostanti ai locali, sono tenuti ad acquisire l'autorizzazione monumentale da parte della soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del Friuli Venezia Giulia;
- la richiesta monumentale è necessaria per ottenere il rilascio dell'autorizzazione da parte del comune, ma l’iter non ha tempi certi e non prevede la possibilità del ricorso al silenzio-assenso, col rischio di paralizzare l'attività commerciale;
- il danno economico causato dall'entrata in vigore della suddetta delibera è stato rilevante. I gestori che in passato hanno investito negli arredi esterni sono stati costretti, in molti casi, a sostenere nuovi investimenti, i cui costi, specie in questo momento di crisi, sono stati pesanti, con ricadute negative per la clientela, andando a deprimere ulteriormente il settore turistico;
- la totale mancanza di certezza sui tempi di approvazione delle domande rischia di scoraggiare i gestori dall'effettuare gli investimenti necessari, spingendo molti di loro a rinunciare agli spazi esterni, con ricadute negative sul servizio, sull'occupazione e, in generale, sull'economia del territorio;
- è, inoltre, recente, nell'imminenza dell'avvio della stagione turistica estiva, l'invio ad enti locali e strutture ricettive di autorizzazioni contraddittorie, rese anche pubbliche da organi di informazione per tale evidenza, che recitano testualmente: «
Vista la documentazione descrittiva degli interventi, quali: tavoli, sedie, sgabelli, tavoli rialzati, divani, poltrone, pedane, fioriere ed elementi perimetrali di cui all'istanza sopra richiamata e ritenuto che gli stessi sono da ritenersi ammissibili in rapporto alle disposizioni del vigente decreto legislativo n. 42 del 2004 (...), questa soprintendenza (...) autorizza a condizione l'esecuzione degli interventi di collocazione di tavoli, sedie, sgabelli e tavoli rialzati, di cui alla documentazione descrittiva pervenuta in allegato all'istanza a riscontro con l'esclusione dei divani, poltrone, pedane, fioriere e pannelli separatori, in quanto tale allestimento impedisce la leggibilità d'insieme e la godibilità dello spazio urbano vincolato ai sensi dell'articolo 10, comma 4, lettera g), del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo n. 42 del 2004, e successive modificazioni ed integrazioni»;
- tali provvedimenti presentano secondo gli interroganti un'evidentissima contraddizione tra motivi e dispositivo, che deriva dall'erronea valutazione dei fatti e da un'illogicità e irragionevolezza della motivazione, cosa che di norma è ricondotta all'eccesso di potere:
-
quali siano gli esiti dell'ispezione compiuta dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo negli uffici della soprintendenza per i beni culturali della regione Piemonte, quali conseguenze disciplinari abbia comportato e se il Ministro interrogato non ritenga necessario predisporre un particolare sistema di controllo sull'operato delle soprintendenze, percorrendo anche l'ipotesi di riservare le assegnazioni dei lavori sotto soglia ad imprese di ridotte dimensioni legate al territorio di riferimento, e, in particolare, quali iniziative intenda assumere nei confronti del soprintendente.
...
DARIO FRANCESCHINI, Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo.
Signor Presidente, l'onorevole Allasia ricorda bene che abbiamo affrontato questo tema di carattere generale anche questa mattina.
Qui è stato approvato un emendamento importante che prevede, in relazione ai pareri dei soprintendenti che oggi sono in qualche misura non discutibili e non ricorribili se non attraverso la procedura davanti all'autorità giudiziaria ordinaria o amministrativa, per la prima volta, un meccanismo interno al Ministero che consenta, su richiesta di un'altra amministrazione pubblica, un comune, una regione o d'ufficio da parte del Ministero di riesaminare, dentro il Ministero stesso, quel parere togliendo in questo modo questa eccezionalità ai pareri dei sovrintendenti che fino ad oggi non erano ridiscutibili, nemmeno per le vie gerarchiche del Ministero.
Quindi, questo tema sono ben consapevole che esista; sono ben consapevole del fatto che non ci sia nulla di più sbagliato che semplificare dividendo il Paese in due tra chi è a favore e chi è contro le soprintendenze; è una cosa assurda e caricaturale, perché le soprintendenze non fanno altro che applicare l'articolo 9 della Costituzione che prevede il dovere di tutela; naturalmente ci sono comportamenti positivi e comportamenti negativi, ma io devo assolutamente respingere la sua affermazione secondo cui ci sarebbe abuso di potere. Ci sarà qualche caso isolato che va giustamente perseguito dall'autorità giudiziaria, ma le sovrintendenze svolgono la funzione loro assegnata dalla Costituzione (...omissis) (INTERROGAZIONE A RISPOSTA IMMEDIATA IN ASSEMBLEA N. 3/00932 DELL'08.07.2014 - link a http://banchedati.camera.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Bruciatura di residui vegetali provenienti da attività agricola - D.L. 91/2014 - "campo libero" (Prefettura di Avellino, nota 08.07.2014 n. 15444 di prot.).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica (CGIL-FP di Bergamo, giugno 2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: RIFORMA DE LLA P.A. – Meno vincoli per aziende speciali e società partecipate (CGIL-FP di Bergamo, nota 10.07.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: RIFORMA DELLA P.A. – Mobilità obbligatoria e volontaria - la versione definitiva contenuta nel D.L. 90/2014 (CGIL-FP di Bergamo, nota 08.07.2014).

UTILITA'

CONSIGLIERI COMUNALIGuida per gli Amministratori Locali - aggiornata alla legge Delrio n. 56/2014 (Cittalia e Anci Lazio, luglio 2014).

LAVORI PUBBLICI: Unità Tecnica Finanza di Progetto (UTFP): 100 domande & 100 risposte (II edizione - maggio 2014 - tratto da www.cipecomitato.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 15.07.2014, "Disposizioni in ordine alle acquisizioni di forniture e servizi in economia, ai sensi dell’art. 125 del d.lgs. n. 163/2006 e s.m.i e del relativo regolamento di attuazione" (deliberazione G.R. 11.07.2014 n. 2104).
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Tanto per avere un'idea di come operano in regione ... e se c'è qualcosa di buono da scopiazzare per i propri regolamenti comunali.

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 14.07.2014 n. 161, suppl. ord. n. 56, "Accordo tra il Governo, le regioni e gli enti locali, concernente l’adozione di moduli unificati e semplificati per la presentazione dell’istanza del permesso di costruire e della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) edilizia. Accordo, ai sensi dell’articolo 9, comma 2, lett. c) del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281 (Repertorio atti n. 67/CU)" (Conferenza Unificata, accordo 12.06.2014).
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Poiché i moduli unificati di cui sopra sono valevoli per tutta Italia ed affinché in ogni regione li si possa modificare in maniera personalizzata ovverosia in conformità con la propria legislazione regionale, di seguito i due moduli in formato Word:
1- modello del Permesso di Costruire
2- modello della SCIA

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 11.07.2014 n. 159 "Regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, costruzione ed esercizio delle attività di demolizioni di veicoli e simili, con relativi depositi, di superficie superiore a 3000 m2" (Ministero dell'Interno, decreto 01.07.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 28 dell'11.07.2014, "Disposizioni per la razionalizzazione di interventi regionali negli ambiti istituzionale, economico, sanitario e territoriale" (L.R. 08.07.2014 n. 19).
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Di particolare interesse si leggano:
Art. 19 - (Modifiche alla l.r. 7/2012)
Art. 20 - (Modifiche alla l.r. 5/2010)
Art. 22 - (Disposizioni per l’attuazione del decreto del Presidente della Repubblica 13.03.2013, n. 59 «Regolamento recante la disciplina dell’autorizzazione unica ambientale e la semplificazione di adempimenti amministrativi in materia ambientale gravanti sulle piccole e medie imprese e sugli impianti non soggetti ad autorizzazione integrata ambientale, a norma dell’articolo 23 del decreto-legge 09.02.2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 04.04.2012, n. 35». Modifica dell’articolo 32 della l.r. 24/2006)
Art. 23 - (Modifiche alla l.r. 86/1983)
Art. 25 - (Modifica dell’articolo 5 della l.r. 13/2001)
Art. 26 - (Modifiche alla l.r. 11/2001)
Art. 29 - (Modifiche all’articolo 2 della l.r. 1/2000)
Art. 30 - (Modifica alla l.r. 14/2012)
Art. 31 - (Proroga dei termini per l’approvazione dei PGT per i comuni soggetti a commissariamento e modifica dell’articolo 13 della l.r. 12/2005)
Art. 33 - (Disposizioni in materia di agibilità degli edifici) 

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 dell'11.07.2014, "Conclusione del procedimento relativo all’aggiornamento, per il 2014, dell’Albo regionale delle imprese boschive (l.r. 31/2008, art. 57)" (decreto D.S. 07.07.2014 n. 6497).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 10.07.2014, "Differimento al 15.10.2014 dell’entrata in vigore di alcune disposizioni in materia di impianti termici, approvate con decreto 5027 dell’11.06.2014" (decreto D.U.O. 07.07.2014 n. 6518).
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A seguito della proroga del Ministero dello Sviluppo Economico, approvata con Decreto Ministeriale del 20.06.2014, Regione Lombardia con Decreto regionale n. 6518 del 07.07.2014 ha ridefinito le scadenze relative all’entrata in vigore di alcune disposizioni.
Di seguito è possibile scaricare una sintesi che illustra le nuove regole e le relative modalità e tempistiche di entrata in vigore.

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 10.07.2014, "Disposizioni regionali per il trattamento e l’utilizzo, a beneficio dell’agricoltura, dei fanghi di depurazione delle acque reflue di impianti civili ed industriali in attuazione dell’art. 8, comma 8, della legge regionale 12.07.2007, n. 12. Conseguente integrazione del punto 7.4.2, comma 6, n. 2) della d.g.r. 18.04.2012, n. IX 3298, riguardante le linee guida regionali per l’autorizzazione degli impianti per la produzione di energia elettrica da fonti energetiche rinnovabili" (deliberazione G.R. 01.07.2014 n. 2031).

APPALTICentrali Uniche di Committenza: tutto rinviato al 2015.
La conferenza Stato-città nella seduta del 10 luglio u.s., ha sancito un accordo sull’obbligo per i Comuni di ricorrere alle Centrali uniche di committenza. E’ stata approvata un’intesa governo-enti locali che posticipa l’entrata in vigore della norma, contenuta nell’art. 9, D.L. n. 66 del 2014, convertito in legge 89 del 2014.
In particolare, viste le difficoltà applicative delle disposizioni, viene rimandata all’01.01.2015 l’applicazione della norma per l’acquisto di beni e servizi da parte delle amministrazioni e al 01.07.2015 l’applicazione di quella riguardante gli appalti dei lavori pubblici.
Inoltre, si stabilisce che nel frattempo gli atti compiuti dai Comuni sono fatti salvi e si dà indicazione all’ANAC di concedere i cig (Codici identificativi gara) anche ai Comuni non capoluogo, che dal 1° luglio non abbiano potuto ricorrere alle acquisizioni con le attuali modalità previste (intesa 10.07.2014 Conferenza Stato-Città e autonomie locali).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 09.07.2014, "Informatizzazione delle comunicazioni di azioni e modifiche non soggette ad autorizzazione concernenti gli impianti di distribuzione di carburanti per autotrazione sulla rete stradale ordinaria, sulle autostrade e raccordi autostradali e gli impianti per gli aeromobili/natanti ad uso pubblico e relative indicazioni operative" (decreto D.G. 02.07.2014 n. 6398).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

SEGRETARI COMUNALI: F. Colacicco, DIRITTI DI ROGITO E COMPARTECIPAZIONE (Gazzetta Amministrativa n. 4/2013).
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Riflessioni e considerazioni sui diritti di rogito e compartecipazione dei segretari comunali e provinciali.

COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: S. Fifi, DEL POTERE DI DELEGA E DEL DOVERE DI CONTROLLO DEL SINDACO (Gazzetta Amministrativa n. 4/2013).
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La facoltà per legge di delegare ai dirigenti del proprio organico le funzioni tecniche e amministrative esulanti l’indirizzo generale non esonera il sindaco da un dovere di costante controllo di quelle particolari funzioni che pure per legge sono ad egli riservate, come la materia ambientale e, segnatamente, dei rifiuti. Ciò, a maggior ragione, in presenza di particolari contingenze.

PUBBLICO IMPIEGO: E. Pierantozzi, ANCORA SUL RIPARTO DI GIURISDIZIONE IN MATERIA DI AFFIDAMENTO DI INCARICHI DIRIGENZIALI DA PARTE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE (Gazzetta Amministrativa n. 4/2013).
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Nel caso di procedimento amministrativo finalizzato all’attribuzione di incarichi dirigenziali di fascia superiore, avviato con invito a presentare domande e comprovare titoli e requisiti professionali, secondo il TAR del Lazio la circostanza che l’Amministrazione abbia poi selezionato i candidati senza svolgere una effettiva comparazione tra gli stessi e senza stilarne una graduatoria esclude l’applicabilità dell’art. 63, co. 4, del d.lgs. n. 165/2001 e comporta la giurisdizione del giudice ordinario.

PUBBLICO IMPIEGO: S. Russo, IL DIRITTO ALLA CORRESPONSIONE DELL'INDENNITÀ PER FERIE NON GODUTE SOGGIACE ALLA PRESCRIZIONE ORDINARIA DECENNALE (Gazzetta Amministrativa n. 4/2013).
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Il compenso sostitutivo per mancata fruizione delle ferie spettanti al prestatore di lavoro costituisce credito di natura risarcitoria e non retributiva.

PUBBLICO IMPIEGO: D. Iannone e S. Del Vasto, LA RETRIBUZIONE “EXTRA” DEL PUBBLICO DIPENDENTE (Gazzetta Amministrativa n. 4/2013).
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L’analisi si ripropone due obiettivi. Il primo attiene alla necessità di fornire elementi per determinare il principio di carattere generale secondo il quale è legittimo e doveroso corrispondere al dipendente pubblico non dirigente emolumenti ulteriori. Il secondo riguarda l’esigenza di individuare l’ambito di onnicomprensività dell’emolumento da erogare al dipendente pubblico dirigente.

APPALTI: M. De Cilla, SULL’OBBLIGO DI DICHIARARE IL SOGGETTO SUBAPPALTATORE NELL’OFFERTA (Gazzetta Amministrativa n. 4/2013).
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Subappalto necessario e facoltativo: ultime novità dal Consiglio di Stato.

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Elezioni, vale il manifesto. La prorogatio decorre dalla pubblicazione. Come determinare la decorrenza della limitazione dei poteri dei consiglieri.
Ai fini della decorrenza della limitazione dei poteri dei consigli comunali agli atti urgenti e improrogabili, prevista dall'art. 38, comma 5, del dlgs n. 267/2000, la data di pubblicazione del decreto di indizione dei comizi elettorali coincide con la pubblicazione del manifesto elettorale da effettuarsi a cura del sindaco quarantacinque giorni prima della data delle elezioni?

Ai sensi dell'art. 38, comma 5, del dlgs. n. 267/2000, i consigli comunali durano in carica per un periodo di cinque anni sino all'elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la pubblicazione del citato decreto di indizione dei comizi elettorali, a adottare gli atti urgenti e improrogabili.
A tale proposito l'art. 38 citato va coordinato in combinato disposto con l'art. 18, comma 1, del dpr n. 570 del 1960, nel quale si prevede che il sindaco è tenuto, con la pubblicazione di un manifesto da effettuarsi quarantacinque giorni prima della data delle elezioni, a comunicare agli elettori, in quanto soggetti destinatari, il dispositivo del decreto prefettizio di indizione dei comizi elettorali con la data fissata per le elezioni.
Pertanto, al fine di individuare la decorrenza dell'operatività della disciplina recata dall'art. 38, comma 5, del dlgs n. 267/2000, dovrà farsi riferimento in via esclusiva alla data di pubblicazione del manifesto elettorale previsto dall'art. 18, comma 1, del dpr n. 570/1960 citato.
Da tale data, quindi, i consigli comunali saranno tenuti a limitare la propria attività all'adozione degli «atti urgenti e improrogabili» (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Composizione della giunta.
È legittima la decisione di un sindaco di modificare la propria giunta, cooptando nell'organo esecutivo anche assessori appartenenti a forze politiche di opposizione, in caso di mutamento della compagine di governo dell'ente rispetto al risultato scaturito dalle elezioni amministrative?

Nella fattispecie in esame, a un anno circa dall'insediamento della amministrazione, a fronte dell'eventualità di una crisi del rapporto fiduciario tra il sindaco e la propria maggioranza, alcuni esponenti della originaria opposizione avrebbero accettato di sostenere il capo dell'esecutivo, al fine di scongiurare la fine anticipata della consiliatura e il conseguente commissariamento dell'ente.
La situazione prospettata si inquadra nell'ambito dei possibili mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto del passaggio dei consiglieri dalla maggioranza alla minoranza e viceversa.
Il principio generale del divieto di mandato imperativo sancito dall'articolo 67 della Costituzione, pacificamente applicabile a ogni assemblea elettiva, assicura a ogni consigliere l'esercizio del mandato ricevuto dagli elettori, pur conservando verso gli stessi la responsabilità politica, con assoluta libertà, ivi compresa quella di far venir meno l'appartenenza dell'eletto alla lista o alla coalizione di originaria appartenenza (cfr. Tar, Trentino-Alto Adige, Trento n. 75/2009).
Nel caso di specie non sono, pertanto, ravvisabili profili di illegittimità, ancor più se si consideri che il ricorso alla formula delle «larghe intese» locali, si è determinato proprio al fine di scongiurare la realizzazione di quegli eventi, (dimissioni del sindaco, approvazione di mozione di sfiducia, dimissioni ultra dimidium dei consiglieri) che avrebbero costituito il presupposto giuridico per lo scioglimento anticipato del consiglio comunale (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ordinanza ex art. 192, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006, per ripristino dello stato dei luoghi in caso di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti.
L'art. 192, D.Lgs. n. 152/2006, sancisce il divieto di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel sottosuolo (comma 1) e prevede la misura dell'ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti e di ripristino dei luoghi nei confronti dell'autore della violazione ambientale e, in via solidale, del proprietario dell'area di cui sia accertata, in contraddittorio da parte dei soggetti preposti al controllo, la responsabilità a titolo di dolo o colpa (comma 3).
Sulla base di questo assetto normativo, che ripone la responsabilità del proprietario di un'area per il danno causato all'ambiente dall'abbandono incontrollato di rifiuti sull'elemento soggettivo del dolo o della colpa, la giurisprudenza ha affermato l'illegittimità e ha annullato gli ordini di smaltimento di rifiuti rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua sola qualità, ma in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità soggettiva della condotta.

Il Comune riferisce di un'area privata, in relazione alla quale sono stati effettuati e notificati accertamenti di illeciti amministrativi in materia ambientale (nella specie, abbandono di rifiuti), e chiede un parere un ordine alla possibilità di notificare l'ordinanza ex art. 192, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006
[1] al soggetto che, successivamente ai suddetti accertamenti, ha acquistato una quota indivisa della suddetta area.
L'art. 192, D.Lgs. n. 152/2006, sancisce il divieto di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e nel sottosuolo (comma 1). La violazione del divieto comporta, per chi ne sia autore, l'obbligo di procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate (comma 3).
Al fine di poter meglio inquadrare la misura ripristinatoria di cui all'art. 192, comma 3, richiamato, si ritengono utili alcuni cenni all'evoluzione normativa in materia, avvenuta conformemente alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza in ordine all'individuazione dei soggetti responsabili delle violazioni ambientali nei cui confronti emettere l'ordinanza di rimozione dei rifiuti
[2].
La prima disciplina recata dall'art. 9, D.P.R. 10.09.1982, n. 15, prevedeva l'emissione dell'ordinanza sindacale di sgombero delle aree in danno dei 'soggetti obbligati'
[3]; successivamente, l'art. 14, D.Lgs. 05.02.1997, n. 22, includeva tra i soggetti obbligati al ripristino dello stato dei luoghi, a titolo di responsabilità solidale, il proprietario dell'area, ma richiedendo espressamente l'imputabilità allo stesso, a titolo di dolo o colpa, della violazione del divieto di abbandono [4].
La previsione del requisito dell'imputabilità soggettiva della violazione ambientale, ad opera dell'art. 14 del D.Lgs. n. 22/1997, ha positivizzato l'orientamento giurisprudenziale assolutamente maggioritario formatosi sul disposto dell'art. 9, D.P.R. n. 15/1982, nel senso che l'ordine di smaltimento dei rifiuti non potesse essere rivolto al proprietario come tale, se non in quanto egli potesse ritenersi 'obbligato' a causa di un comportamento -anche omissivo- di corresponsabilità con l'autore dell'abbandono illecito dei rifiuti. E questo in considerazione della natura dell'ordine di smaltimento, configurato quale sanzione avente carattere ripristinatorio, che presuppone l'accertamento della responsabilità da illecito in capo al destinatario
[5].
Il disposto dell'art. 192, D.Lgs. n. 152/2006, riproduce il tenore dell'abrogato art. 14 sopra citato, con riferimento alla necessaria imputabilità a titolo di dolo o colpa, e in più integra il precedente precetto precisando che l'ordine di rimozione può essere adottato esclusivamente 'in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo'
[6]. Infatti, solo partecipando concretamente alla fase di accertamento, tali soggetti possono evidenziare eventuali elementi a loro discolpa, che l'amministrazione deve congruamente valutare [7].
Sulla base di questo assetto normativo, la giurisprudenza ha affermato l'illegittimità e ha annullato gli ordini di smaltimento di rifiuti rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua sola qualità, ma in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità soggettiva della condotta
[8].
Pertanto, secondo la costante giurisprudenza amministrativa, l'ordinanza di rimozione dei rifiuti deve essere preceduta dalla comunicazione, prevista dall'art. 7 della L. n. 241/1990, di avvio del procedimento ai soggetti interessati, ai fini dell'effettiva instaurazione di un contraddittorio procedimentale con questi soggetti
[9].
Un tanto premesso e venendo alla questione posta dall'Ente circa la possibilità di notificare l'ordinanza di rimozione dei rifiuti e di ripristino dei luoghi, oltre che al soggetto autore dell'abbandono, anche al soggetto divenuto proprietario di una quota indivisa dell'area successivamente all'accertamento dello stato di abbandono e all'individuazione dell'autore dell'illecito, si osserva che questo risulta possibile a condizione che venga accertata la sua responsabilità soggettiva, in relazione alla violazione ambientale di che trattasi.
Più precisamente, ai sensi dell'art. 192, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006, occorre che gli organi preposti al controllo
[10] provvedano a svolgere un'attività istruttoria mirata ad accertare il suo coinvolgimento doloso o colposo, che si concluda con l'accertamento della sussistenza dell'elemento soggettivo, quanto meno di quello della colpa [11].
Qualora, invece, l'attività di accertamento compiuta dall'amministrazione procedente nei confronti del comproprietario dell'area -divenuto tale successivamente all'accertamento dello stato abbandono e all'individuazione di chi ne è stato l'autore- si concluda con l'esclusione della sua responsabilità soggettiva e dunque con l'archiviazione nei suoi confronti del procedimento finalizzato all'emissione dell'ordinanza sindacale di sgombero, ne deriva che questa non potrà essere emessa a suo carico, per mancanza dei presupposti di legittimità previsti dall'art. 192, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006, postulanti, appunto, l'accertamento della responsabilità da illecito in capo al destinatario del provvedimento
[12].
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[1] D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, recante: 'Norme in materia ambientale'.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 08.02.2005, n. 323.
[3] Si riporta il testo dei primi due commi dell'art. 9 in commento, non più in vigore, sostituito prima dall'art. 14 del D.Lgs. n. 22/1997 e poi dall'art. 192 del D.Lgs. n. 152/2006: '1. È vietato l'abbandono, lo scarico o il deposito incontrollato dei rifiuti in aree pubbliche e private soggette ad uso pubblico.
2. In caso d'inadempienza, il sindaco, allorché sussistano motivi sanitari, igienici od ambientali, dispone con ordinanza, previa fissazione di un termine per provvedere, lo sgombero di dette aree in danno dei soggetti obbligati'.
[4] Si riporta il testo dell'art. 14 in commento, abrogato dal D.Lgs. n. 152/2006: "1. L'abbandono e il deposito incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati.
2. È altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle acque superficiali e sotterranee.
3. Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 50 e 51, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa. Il sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate".
[5] Consiglio di Stato, sez. V, 08.02.2005, n. 323. Nello stesso senso, Consiglio di Stato, sez. V, 08.03.2005, n. 935, secondo cui l'abbandono di rifiuti configura una figura specifica di atto illecito, punito dall'ordinamento con sanzioni amministrative in quanto viola una norma di tutela ambientale in danno della collettività, che ripone la responsabilità del proprietario di un'area per il danno causato all'ambiente dall'abbandono incontrollato di rifiuti proprio sull'elemento soggettivo del dolo o della colpa.
[6] Consiglio di Stato, sez. V, 25.08.2008, n. 4061, che espone una sintesi della giurisprudenza amministrativa in tema di responsabilità per illecito abbandono di rifiuti; Consiglio di Stato, sez. V, 19.03.2009, n. 1612; TAR Puglia, sez. I, 07.02.2008, n. 375; Consiglio di Stato, sez. V, 08.02.2005, n. 323.
[7] TAR Sardegna, sez. II, 02.09.2011, n. 915. Conforme, TAR Abruzzo Pescara, sez. I, 23.04.2013, n. 237, che sottolinea la rilevanza del contraddittorio per l'apporto procedimentale che i soggetti interessati possono fornire, quanto meno in riferimento all'accertamento delle effettive responsabilità per l'abusivo deposito dei rifiuti. Nello stesso senso, TAR Campania, Napoli, sez. V, 03.03.2014, n. 1294.
[8] TAR Lombardia, sez. IV, 29.01.2014, n. 312; TAR Campania, Napoli, sez. V, 03.03.2014, n. 1294; TAR Abruzzo Pescara, sez. I, 23.04.2013, n. 237; TAR Calabria, sez. I, 19.11.2012, n. 747; TAR Sardegna, sez. II, 02.09.2011, n. 915.
[9] Consiglio di Stato, n. 4061/2008, cit.; TAR Abruzzo Pescara, n. 237/2013, cit.; TAR Calabria, n. 747/2012, cit..
[10] L'abbandono di rifiuti configura illecito punito con sanzione amministrativa (v. nota 5). L'art. 13 della L. n. 689/1981 prevede due categorie di soggetti competenti ad eseguire gli accertamenti di violazioni amministrative: gli ufficiali o agenti di polizia giudiziaria ed i generici organi addetti al controllo sull'osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista una sanzione amministrativa. In particolare, il comma 4 dell'art. 13 riconosce espressamente agli organi di polizia giudiziaria il potere di accertare le violazioni punite con sanzioni amministrative (cfr. Stefania Pallotta, Spunti teorico-pratici in materia di accertamento degli illeciti amministrativi ambientali, su www.dirittoambiente.com). È inoltre il caso di ricordare, in questa sede, la titolarità in capo ai comuni dei poteri di polizia amministrativa in materia di rifiuti. Infatti: l'art. 9, D.P.R. n. 616/1977, prevede che 'i comuni... sono titolari delle funzioni di polizia amministrativa nelle materie ad essi rispettivamente trasferite o attribuite'; l'art. 158, comma 2, D.Lgs. n. 112/1998, prevede che 'le regioni e gli enti locali sono titolari delle funzioni e dei compiti di polizia amministrativa nelle materie ad essi rispettivamente trasferite o attribuite. La delega di funzioni amministrative dallo Stato alle regioni e da queste ultime agli enti locali, anche per quanto attiene alla subdelega, ricomprende anche l'esercizio delle connesse funzioni e compiti di polizia amministrativa'; l'art. 195, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006, in tema di vigilanza e accertamento degli illeciti in materia di rifiuti, fa espressamente salve le disposizioni di cui al citato D.Lgs. n. 112/1998. Una lettura coordinata dei testi normativi richiamati porta a concludere che nella materia 'gestione dei rifiuti', affidata ai comuni dall'art. 198 d.lgs. 152/06, questi ultimi siano titolari dei connessi poteri di polizia amministrativa. (Cfr. Bruno Cristinao, L'ispettore ambientale (o ecovigile) quale organo di polizia amministrativa di derivazione comunale, su diritto.it).
[11] L'elemento soggettivo della colpa non è agevolmente configurabile (Consiglio di Stato, sez. V, 08.03.2005, n. 935) e va accertato caso per caso, in relazione alle particolarità del caso concreto. Per il Supremo Giudice amministrativo, non sembra a tal fine essere sufficiente la culpa in vigilando, dacché afferma che in ogni caso il dovere di diligenza, che fa carico al titolare del fondo, non può arrivare al punto di richiedere una costante vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire l'abbandono dei rifiuti (sentenza n. 935/2008, cit.). Per il Supremo Giudice amministrativo, inoltre, l'elemento soggettivo (dolo o colpa) non può rinvenirsi nella mera conoscenza di un fatto di cui altri siano i responsabili (Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 04.03.2008, n. 807).
[12] Cfr. Consiglio di Stato, n. 323/2005, cit.
(08.07.2014 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI SERVIZI: Affidamento gestione rete di distribuzione energia a servizio di immobili comunali.
La giurisprudenza afferma, in generale, per tutti i contratti in cui sia parte una p.a. il necessario rispetto dei principi dell'evidenza pubblica.
In particolare, l'affidamento a ditta privata dell'attività di gestione della rete di distribuzione di energia elettrica per immobili comunali, in ragione della sua natura di servizio svolto a favore del Comune, che ne fruisce alla stregua di un qualsiasi altro soggetto, e non alla collettività, deve qualificarsi come appalto di servizi e richiede il ricorso ad una procedura di gara di appalto.

Il Comune chiede un parere in ordine alle modalità di affidamento della gestione di una rete di distribuzione di energia elettrica, di sua proprietà, realizzata a servizio di proprie strutture malghive.
In via preliminare, è importante far osservare che per tutti i contratti in cui sia parte una p.a. la giurisprudenza ha affermato il necessario rispetto dei principi dell'evidenza pubblica. Osserva infatti il Supremo Giudice amministrativo che il principio di concorrenza e quelli -che ne rappresentano attuazione e corollario- di trasparenza, non discriminazione e parità di trattamento, costituendo principi fondamentali del diritto comunitario, si elevano a principi generali di tutti i contratti pubblici e sono direttamente applicabili a prescindere dalla ricorrenza di specifiche norme comunitarie o interne e in modo prevalente su eventuali disposizioni di segno contrario
[1].
Ciò premesso, la tipologia di procedura da utilizzare per l'affidamento del servizio di gestione della rete elettrica è condizionata dall'atteggiarsi del rapporto contrattuale tra l'Ente e la ditta privata e dall'essere o meno coinvolta, in detto rapporto, l'utenza.
Su tali fattori, invero, l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP)
[2] ha fondato le proprie considerazioni in ordine alla qualificazione della natura del rapporto giuridico intervenuto tra un comune e una ditta privata per le attività di gestione del servizio elettrico su immobili comunali.
L'AVCP ha innanzitutto delineato i tratti distintivi del contratto di concessione di pubblico servizio rispetto a quello di appalto di servizio, e dunque: assunzione del rischio economico relativo alla gestione del servizio a carico del concessionario, a differenza che nell'appalto, ove l'esecutore è remunerato dalla stazione appaltante; versamento di un canone all'amministrazione concedente, diversamente da quanto avviene nell'appalto, ove è la stazione appaltante a versare un corrispettivo alla ditta esecutrice dei servizi/lavori; rapporto trilaterale che coinvolge l'amministrazione, il gestore e gli utenti destinatari del pubblico servizio, mentre nell'appalto il rapporto è bilaterale, esaurendosi tra erogatore del servizio e amministrazione
[3].
Un tanto precisato, l'AVCP ha configurato quale appalto il contratto con cui un comune ha affidato la gestione degli impianti elettrici di immobili comunali ad una ditta privata, argomentando dalla circostanza che, nella fattispecie al suo esame, il rischio della gestione non appare a carico del concessionario, che in realtà riceve un canone annuale dall'amministrazione, e dal fatto che il rapporto appare essere bilaterale, coinvolgendo solamente la p.a. e la ditta, per cui le prestazioni del servizio sono dirette unicamente al comune e non alla collettività, e pertanto non rientrano nella nozione di servizio pubblico locale
[4].
Del pari, il Consiglio di Stato muove dalla natura del servizio oggetto di affidamento per derivarne la relativa modalità di affidamento. In particolare, il Supremo Giudice amministrativo ha osservato che il servizio 'gestione calore' per immobili comunali, comprensivo, per quanto qui di interesse, anche dei lavori di manutenzione degli impianti, non presenta i caratteri di servizio pubblico, in quanto trattasi di un servizio che non viene svolto dal comune a favore della collettività, ma viene erogato in senso inverso cioè a favore del Comune. Pertanto, l'affidamento a ditta privata di un siffatto servizio deve avvenire previo il necessario espletamento di una procedura concorsuale di appalto
[5].
Allo stesso modo, il Tribunale regionale di giustizia amministrativa, sezione Bolzano, ha affermato che il 'servizio energia' per edifici comunali, comprensivo, per quanto qui di interesse, della gestione degli impianti, non possa qualificarsi come 'servizio pubblico', poiché le prestazioni sono dirette unicamente al comune, che ne fruisce alla stregua di un qualsiasi altro soggetto, e non alla collettività. Dunque, l'affidamento del 'servizio energia' deve qualificarsi come appalto di servizi, non come concessione di un pubblico servizio
[6].
Venendo al caso di specie e alla luce delle considerazioni espresse, si ritiene che l'affidamento dell'attività di gestione della rete di distribuzione di energia elettrica per immobili comunali, in ragione della sua natura di servizio svolto a favore del Comune
[7], richieda il ricorso ad una procedura di gara di appalto [8].
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[1] TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 21.05.2008, n. 1978, che richiama Consiglio di Stato, sez. VI, 30.01.2007, n. 362; 30.12.2005, n. 7616; 25.01.2005, n. 168.
[2] AVCP, deliberazione n. 12 del 26.01.2011.
[3] Sulla distinzione tra concessione e appalto, cfr. anche Consiglio di Stato, 16.04.2014, n . 1863.
[4] In tal senso, l'AVCP richiama il Parere dell'Autorità n. 201 del 17.07.2008 e il Consiglio di Stato, sez. V, 10.03.2003, n. 1289.
[5] Consiglio di Stato, sez. V, 10.03.2003, n. 1289.
[6] Tribunale regionale di giustizia amministrativa, sezione Bolzano, 08.03.2007, n. 91. Sull'argomento di recente anche la Corte di Cassazione (Cass. civ., S.U., ord. n. 12252/2009) ha osservato che 'la linea di demarcazione tra appalti pubblici di servizi e concessioni di servizi [...] è netta, poiché l'appalto pubblico di servizi, a differenza della concessione, riguarda di regola i servizi resi alla pubblica amministrazione e non al pubblico degli utenti'. Conclusivamente, osserva l'AVCP, nella concessione di servizi il destinatario del servizio pubblico è l'utenza, la quale paga un ticket al concessionario (Cfr. AVCP, deliberazione n. 47 del 04.05.2011, che richiama l'ordinanza della Cassazione n. 12252/2009).
[7] Cfr. Cons. St., n. 1289/2003, cit..
[8] Si ritiene comunque di precisare, richiamando quanto espresso in premessa sui contratti pubblici in generale, che anche le concessioni di servizi devono garantire il più ampio confronto concorrenziale; a tal fine è pertanto auspicabile un regime pubblicitario degli affidamenti in concessione che, in ragione della rilevanza dell'importo dell'affidamento, si estenda anche a livello europeo in linea con i principi di adeguata pubblicità e trasparenza, applicabili anche alle concessioni di servizi in quanto espressamente richiamati dall'art. 30 del D.Lgs. n. 163/2006 (Cfr. AVCP, deliberazione n. 47/2011, cit.)
(01.07.2014 - link a www.regione.fvg.it).

CORTE DEI CONTI

PATRIMONIO: Il Comune non può legittimamente contribuire al pagamento del canone di locazione di un immobile, di proprietà privata, destinato ad ospitare la locale caserma dei Carabinieri.
Ferma restando l’importanza degli strumenti di concertazione interistituzionale e la rilevanza degli obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da perseguire nell’ambito degli appositi programmi, di cui all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007, tuttavia la Sezione ritiene che non possano rientrare nell’ambito degli anzidetti strumenti le forme di contribuzione come quella in esame, volte al pagamento del canone di locazione.
Ciò anche in considerazione del carattere non episodico della contribuzione, che deve presumersi possa interessare la gestione del bilancio dell’ente bel oltre l’esercizio in corso e che, pertanto, mal si attaglia alla natura transitoria degli accordi in questione, la cui durata in generale è annuale.
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Il Sindaco del Comune di Russi ha inoltrato a questa Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 131/2003, una richiesta di parere avente ad oggetto la possibilità di contribuire legittimamente al pagamento del canone di locazione di un immobile, di proprietà privata, destinato ad ospitare la locale caserma dei Carabinieri.
Il Sindaco di Russi ha spiegato che l’edificio che ospitava la Stazione dei Carabinieri è stato dichiarato parzialmente inagibile e che l’Arma, attualmente, per poter svolgere l’attività di presidio, in attesa di una soluzione adeguata, sta fruendo di un ufficio nella sede municipale, concesso gratuitamente dal Comune con delibera di giunta. Per completezza è stato evidenziato che non vi sono immobili di proprietà del comune adatti allo scopo ed è stato manifestato il timore che l’Arma possa non essere in grado di sostenere l’onere di locazione dell’edificio che sarà in futuro individuato.
Questa Sezione, considerata la natura generale della problematica, che imponeva un’interpretazione e un’applicazione unitaria della stessa, tenuto conto della circostanza che alcune sezioni regionali di controllo si erano già espresse prospettando una soluzione alla quale non riteneva di potersi conformare, rimetteva al Presidente della Corte dei conti la valutazione dell’opportunità di deferire alla Sezione delle autonomie, ovvero alle Sezioni riunite, la questione di massima in ordine alla possibilità, per gli enti locali, in base al quadro normativo vigente, di contribuire alle ordinarie spese di locazione delle caserme. L’alternativa era di ritenere detta spesa legittimamente imputabile al bilancio comunale soltanto in presenza di uno specifico accordo, finalizzato ad incrementare effettivamente la sicurezza pubblica.
La pronuncia di questa Sezione sulla richiesta di parere era conseguentemente sospesa e ne veniva data comunicazione ai Sindaco richiedente. Successivamente, il Presidente della Corte dei conti rimetteva la questione alla Sezione delle autonomie, che si è espressa con deliberazione n. 16/SEZAUT/2014/QMIG, del 27.05.2014.
...
La Costituzione italiana, all’articolo 117, comma 2, lett. h), include, tra le materie di legislazione statale esclusiva, “ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale”. Il successivo articolo 118, al comma 3, aggiunge che “la legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell’articolo 117 (…)”. Anche la potestà regolamentare in materia spetta conseguentemente allo Stato, poiché l’art. 117, comma 6, stabilisce che “la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni”.
In merito alla funzione amministrativa concernente ordine pubblico e sicurezza, occorre ricordare che, a seguito della riforma costituzionale del 2001, è venuto meno il parallelismo tra poteri legislativi e amministrativi; pertanto, il legislatore statale non incontra ostacoli di natura costituzionale nell’attribuire, in materia, funzioni agli enti locali, come ha previsto, per esempio, in favore del sindaco, reso garante della sicurezza urbana, mediante l’art. 6 del d.l. 23.05.2008, n. 92, rubricato “misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”, convertito, con modificazioni, dalla legge 24.07.2008, n. 125.
Nell’ambito di un progressivo coinvolgimento degli enti locali in materia di ordine e sicurezza pubblica, il legislatore statale ha disciplinato la possibilità di stipulare convenzioni tra il Ministero dell’interno e gli enti territoriali, allo scopo di incrementare i servizi di pubblica sicurezza. L’art. 39 della legge 16.01.2003, n. 3 (“Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione”), rubricato “Convenzioni in materia di sicurezza”, ha stabilito che “
Nell’ambito delle direttive impartite dal Ministero dell’interno per il potenziamento dell’attività di prevenzione, il Dipartimento della pubblica sicurezza può stipulare convenzioni con soggetti pubblici e privati dirette a fornire, con la contribuzione degli stessi soggetti, servizi specialistici, finalizzati ad incrementare la sicurezza pubblica. La contribuzione può consistere nella fornitura dei mezzi, attrezzature, locali, nella corresponsione dei costi aggiuntivi sostenuti dal Ministero dell’interno, nella corresponsione al personale impiegato di indennità (…)”.
Similmente, l’art. 1, comma 439, della legge 27.12.2006, n. 296, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)”, ha stabilito che “per la realizzazione di programmi straordinari di incremento dei servizi di polizia, di soccorso tecnico urgente e per la sicurezza dei cittadini, il Ministro dell’Interno e, per sua delega, i prefetti, possono stipulare convenzioni con regioni e gli enti locali che prevedano la contribuzione logistica, strumentale o finanziaria delle stesse regioni e degli enti locali”.
Il fondamento di tali previsioni, ovviamente, non è da rinvenire nell’art. 118, comma 3, della Costituzione, il quale introduce la possibilità di concordare forme di coordinamento tra Stato e Regioni nelle materie de quibus, bensì più semplicemente nella generale possibilità che ha il legislatore di disciplinare la materia.
Pertanto, nell’ordinario gli oneri finanziari per la locazione di locali in favore delle Forze di Polizia statali sono da considerare a carico dello Stato, al quale è intestata in via esclusiva la materia dell’“ordine pubblico e sicurezza”; tuttavia il quadro normativo facoltizza il Ministero dell’interno a stipulare convenzioni con gli enti territoriali dirette a fornire, con la contribuzione di questi ultimi, servizi specialistici finalizzati ad incrementare la sicurezza pubblica.
Il fine di raggiungere un più efficace controllo del territorio rispetto a quello ordinariamente assicurato (la norma fa riferimento, infatti, a “servizi specialistici”), quindi, giustifica il sacrificio straordinario che comuni e province possono decidere di sostenere contribuendo alla funzione in argomento, allo scopo di rafforzarla sul proprio territorio, anche mediante fornitura di locali. In mancanza di un accordo, infatti, avente lo scopo di conseguire una maggiore sicurezza, non può che operare il principio generale in forza del quale le risorse assegnate agli enti territoriali sono destinate a finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.
Sulla problematica de qua, si sono espresse diverse sezioni di queste Corte.
La Sezione di controllo della Regione Friuli–Venezia Giulia, con deliberazione 16.12.2004, n. 25, ha ritenuto legittima la riduzione del canone di un contratto di locazione inerente l’uso, come caserma dei Carabinieri, di un immobile di proprietà comunale, contratto già concluso, ma non ancora approvato dal Ministero dell’interno. Alla base della richiesta di riduzione, avanzata dal locale Prefetto, si poneva la circolare emanata dal Ministero dell’interno – Dip. della pubblica sicurezza, 12.05.2004, n. 600, la quale invitava, appunto, i prefetti a proporre agli enti pubblici titolari degli immobili destinati a caserme una riduzione del canone, in ragione dell’interesse delle comunità locali a garantire la funzionalità dei servizi di polizia, nella prospettiva di una sicurezza partecipata, nella quale gli enti locali dovrebbero assumere un ruolo rilevante, anche nell’assicurare la presenza di presidi delle forze dell’ordine sul territorio.
La Sezione di controllo per il Friuli-Venezia Giulia ha giudicato legittima la riduzione del canone, valorizzando il disposto di cui all’art. 39 della legge 3/2003, il quale, secondo quanto affermato dalla citata sezione “sottende l’esistenza di un interesse pubblico alla condivisione delle esigenze di ordine pubblico, intestate non solo all’amministrazione statale (Ministero dell’interno), ma partecipate anche dalle singole amministrazioni locali”. Ha concluso il collegio evidenziando che il comune istante “proprio per favorire la presenza sul territorio comunale della caserma dei carabinieri, può quindi ben rinunciare a parte del canone locatizio”.
La questione in argomento è stata in seguito oggetto di analisi da parte della Sezione di controllo per la Regione Sardegna, la quale si è pronunciata con deliberazione 28.01.2010, n. 3. La richiesta di parere riguardava la possibilità, per il comune istante, di sostenere i costi di locazione di un immobile da reperire sul mercato e da destinare a caserma dell’Arma dei Carabinieri.
La richiamata sezione, nel rispondere, ha innanzitutto evidenziato che l’art. 118, comma 3, della Costituzione prevede forme di coordinamento tra Stato e Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza; inoltre, ha richiamato le disposizioni mediante le quali, nel tempo, sono state disciplinate modalità di collaborazione tra l’amministrazione statale e quelle territoriali per rafforzare la sicurezza locale. In particolare, sono state ricordate le già menzionate previsioni di cui all’art. 39 della legge 3/2003 e art. 1, comma 439, legge 296/2006, nonché i piani coordinati di controllo del territorio aventi ad oggetto una stretta collaborazione tra Polizia municipale e provinciale e organi della Polizia di stato ed, infine, il “patto per la sicurezza” siglato tra il Ministero dell’interno e l’A.N.C.I. il 20.03.2007.
Sulla base del delineato quadro normativo, la Sezione di controllo per la Sardegna ha concluso che le esigenze di tutela dell’ordine pubblico si inseriscono nel quadro dei rapporti e delle valutazioni da assumersi in sede interistituzionale, secondo le procedure previste dalla legge. In tale contesto concertativo, potrebbero assumersi le deliberazioni dello Stato e degli enti territoriali, incidenti sulle rispettive dotazioni finanziarie, in relazione ad eventuali forme di contribuzione alla spesa necessarie per le esigenze di salvaguardia della sicurezza pubblica.
La Sezione regionale di controllo per la Campania, con deliberazione 13.03.2012, n. 66, esprimendosi in merito alla possibilità per un comune di contribuire al pagamento dell’affitto per i locali in uso alla caserma dei Carabinieri, pur dichiarando l’inammissibilità oggettiva della questione, ha citato, mostrando di condividerla, la soluzione prospettata dalla Sezione di controllo per la Sardegna con la richiamata deliberazione 3/2010.
Diversa la posizione prospettata dalla Sezione regionale di controllo per la Calabria, mediante deliberazione 28.04.2009, n. 289. La richiesta di parere aveva ad oggetto la legittimità della spesa, a carico del bilancio comunale, per la costruzione di un immobile da destinare a caserma dei Carabinieri. Detto collegio, pur dichiarando la questione inammissibile, ha svolto alcune considerazioni. Innanzitutto ha rimarcato come la possibilità di partecipazione alla gestione della pubblica sicurezza, da parte delle regioni e degli enti locali, sia prevista nell’ambito di appositi programmi straordinari di incremento dei servizi specialistici di polizia, alla cui realizzazione i soggetti pubblici in questione possono partecipare contribuendovi, e come detta partecipazione, in ogni caso, debba essere disciplinata attraverso specifiche convenzioni appositamente stipulate tra gli enti locali interessati ed il Ministro dell’interno (o, per sua delega, il Prefetto).
Pertanto, essendo disciplinato un articolato contesto di cooperazione interistituzionale nel campo dei servizi specialistici di polizia, che appariva carente nella concreta vicenda segnalata, si è ritenuto che l’operazione prospettata non fosse realizzabile.
Alla luce di quanto evidenziato, emergeva un contrasto tra l’interpretazione che dell’art. 39, legge 3/2003, dell’art. 1, comma 439, legge 296/2006, e più in generale dell’intero quadro normativo in materia, hanno dato le Sezioni di controllo Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Campania e la lettura, ad avviso di questo collegio preferibile, fornita dalla Sezione di controllo per la Calabria. Il conflitto interpretativo riguardava l’ambito di estensione della facoltà che hanno gli enti territoriali di contribuire al pagamento del canone di locazione di un immobile, destinato ad ospitare una caserma di una Forza di Polizia statale.
Tale possibilità era stata riconosciuta da diverse sezioni regionali di controllo in misura abbastanza ampia, sulla base dell’interesse alla condivisione delle esigenze di ordine e sicurezza pubblica; al contrario, questa Sezione riteneva dovesse essere limitata ai casi in cui si miri, mediante specifica convenzione, a perseguire un incremento della sicurezza pubblica. Solo a seguito della stipulazione di una specifica convenzione, avente lo scopo di incrementare la sicurezza, infatti, sembra potersi giustificare un impegno finanziario degli enti locali, i quali non dovrebbero, al contrario, essere chiamati a contribuire alle ordinarie spese di locazione delle caserme, poste ad esclusivo carico dello Stato.
Il contrasto interpretativo induceva questa Sezione a rimettere la questione di massima al Presidente della Corte dei conti allo scopo di stabilire se gli enti locali possano contribuire alle ordinarie spese di locazione delle caserme, o se tale possibilità sia loro consentita solo in presenza di uno specifico accordo finalizzato ad incrementare effettivamente la sicurezza pubblica.
La Sezione delle autonomie, con deliberazione 09.06.2014 n. 16 (disponibile sul sito web della Corte al quale si rinvia) ha risolto la questione di massima, rendendo una pronuncia di orientamento che, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 174/2012, costituisce esercizio di funzione nomofilattica e, pertanto, vincola le sezioni regionali di controllo. In particolare, mostrando di condividere l’orientamento espresso da questa Sezione, ha evidenziato quanto segue: “(…) la Costituzione, pur attribuendo allo Stato la competenza esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza (art. 117, comma 2, lett. h), tuttavia, riconosce, nella nuova formulazione dell’art. 118, l’esigenza di stabilire, con legge statale, forme di coordinamento fra Amministrazioni statali e periferiche, in vista del potenziamento della sicurezza a livello locale.
Al riguardo, deve osservarsi che una specifica base normativa e soprattutto finanziaria è stata posta dall’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007, che autorizza i Prefetti a stipulare convenzioni con le Regioni e gli enti locali per realizzare programmi straordinari, tesi ad un potenziamento dei presidi di sicurezza sul territorio, accedendo alle risorse logistiche, strumentali e finanziarie messe a disposizione dagli enti che aderiscono.
(…) La finalità di potenziamento della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza trova pieno riconoscimento nell’ambito dell’autonomia degli enti, che sono chiamati a valutare le necessità della collettività amministrata in termini di priorità e di compatibilità finanziarie e gestionali e, sulla scorta di tali valutazioni, ad avviare le eventuali concertazioni interistituzionali, volte all’adozione di specifici protocolli d’intesa che individuino obiettivi e risorse.
Peraltro, ferma restando l’importanza degli strumenti di concertazione interistituzionale e la rilevanza degli obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da perseguire nell’ambito degli appositi programmi, di cui all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007, tuttavia l
a Sezione ritiene che non possano rientrare nell’ambito degli anzidetti strumenti le forme di contribuzione come quella in esame, volte al pagamento del canone di locazione. Ciò anche in considerazione del carattere non episodico della contribuzione, che deve presumersi possa interessare la gestione del bilancio dell’ente bel oltre l’esercizio in corso e che, pertanto, mal si attaglia alla natura transitoria degli accordi in questione, la cui durata in generale è annuale” (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 07.07.2014 n. 173).

APPALTICentrale unica acquisti senza scappatoie.
Sulla centralizzazione degli acquisti, niente da fare per i comuni non capoluogo di provincia. Infatti, in assenza di deroghe legislative, la disposizione contenuta nel decreto legge n. 66/2014 che impone il ricorso ad una centrale di committenza escludendo l'affidamento diretto, deve intendersi tassativa e di carattere speciale, quindi prevalente alle disposizioni in materia contenute nel codice dei contratti pubblici.

La querelle sull'obbligo di centralizzazione degli acquisti prevista dall'articolo 9 del decreto Irpef, pertanto, si completa con un nuovo tassello che giunge dal
parere 02.07.2014 n. 144 rilasciato pochi giorni fa dalla sezione regionale di controllo della Corte dei conti Piemonte.
Come si ricorderà la norma sopra richiamata prevede che i comuni non capoluogo di provincia procedono all'acquisizione di lavori, beni e servizi nell'ambito delle unioni dei comuni, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici anche delle province, residuando lo spazio per negoziazioni dirette solo a mezzo degli strumenti elettronici di acquisto gestiti dalla Consip o da altro soggetto aggregatore di riferimento. Che il quadro sia prossimo alla paralisi è anche dato dal fatto che la norma in questione ha cancellato la deroga introdotta dalla legge di stabilità 2014 per gli acquisti inferiori a 40 mila euro spiazzando, di fatto, la maggior parte dei comuni, tenuto conto che l'obbligo sino ad oggi ha riguardato i comuni con meno di 5 mila abitanti.
È pur vero (si veda ItaliaOggi di ieri) che, per sbloccare l'impasse dopo l'allarme lanciato dal presidente Anci, Piero Fassino, il legislatore si sta muovendo con una soluzione. Ovvero l'inserimento di un emendamento ad hoc, al testo di conversione di un decreto legge attualmente in discussione in parlamento (i boatos danno favorito il ddl di riforma della p.a.), che rinvii l'operatività della norma del decreto Irpef in due scadenze. La prima, al 1° gennaio del prossimo anno, per quanto riguarda gli acquisti di beni e servizi, la seconda al 30.06.2015 per l'acquisizione di lavori.
A chiudere il cerchio, come detto, il parere della Corte dei conti piemontese che, in risposta ad una richiesta del comune di Torre Canavese (To), ha giustamente sottolineato il carattere tassativo della disposizione richiamata, non potendo ammettere deroghe a favore dell'affidamento diretto, così come previsto dall'articolo 125 del codice dei contratti pubblici.
Secondo la magistratura contabile piemontese, la ratio della nuova disciplina è quella di soddisfare le esigenze di semplificazione dei centri di acquisto, inserendosi nel solco dell'indirizzo comunitario (il riferimento è alla direttiva Appalti 2014/24), che ha registrato nei mercati degli appalti pubblici della Ue, «una forte tendenza all'aggregazione della domanda da parte dei committenti pubblici, al fine di ottenere economie di scala». Quindi, ha rilevato la Corte, dal tenore letterale della disposizione si conferma l'aggregazione obbligatoria per i comuni non capoluogo di provincia, per le procedure contrattuali relative all'affidamento dei contratti di lavori, servizi e forniture.
Non ci sono pertanto margini che possano aprire ad alcuna deroga. I comuni interessati sono tenuti a costituire la centrale di committenza nell'ambito delle unioni di comuni, ove esistenti, oppure si siedono attorno ad un tavolo e sottoscrivono un accordo consortile avvalendosi dei propri uffici.
In conclusione, per rispondere al parere formulato dal primo cittadino di Torre Canavese, la Corte ha rilevato che la nuova disposizione di finanza pubblica ex articolo 9 del dl n. 66/2014, assume nell'ordinamento carattere di specialità e, quindi, di prevalenza rispetto alla norma generale ex art. 125 del codice dei contratti pubblici che, allo stato attuale, non è percorribile (articolo ItaliaOggi del 09.07.2014).

URBANISTICALa realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, quale condizione cui è subordinato il rilascio del permesso di costruire, non può essere soddisfatta attraverso la realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria, tanto più se da realizzarsi in area esterna all’ambito territoriale interessato dal Piano attuativo.
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Con la nota indicata in epigrafe l’Ente ha formulato alla Sezione una richiesta di motivato avviso in materia di corretta individuazione delle modalità di riconoscimento dello scomputo degli oneri di urbanizzazione posti a carico dei privati proprietari in ragione della relativa compatibilità con i vincoli di bilancio imposti agli Enti locali.
...
1. L’Ente interroga la Sezione sull’ammissibilità di procedere allo scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria in aree di urbanizzazione rientranti in Piani particolareggiati di iniziativa privata, nonché sull’ammissibilità dello scomputo anche con riferimento a opere esterne all’ambito.
Chiede inoltre se sia ammissibile lo scomputo degli oneri connessi a opere di urbanizzazione secondaria per gli interventi specificati al comma 3 dell’articolo 5 del D.P.Reg. n. 18/2012, ma posti esternamente all’ambito (come ad esempio per la manutenzione straordinaria di una scuola).
Chiede in ultimo se, alla luce delle previsioni recate dall’art. 29 della L.R. 19/2009-Codice regionale dell’edilizia, nonché dall’art. 6 del relativo Regolamento attuativo di cui al D.P.Reg. n. 18/2012 citato, il costo di costruzione possa essere soggetto a scomputo e, in caso affermativo, per quali categorie di opere.
Preliminarmente, ritiene il Collegio di dover evidenziare taluni profili di carattere sistematico, utili a meglio inquadrare la fattispecie prospettata dal Comune sotto il profilo degli istituti sia contabili che ordinamentali che in essa ricorrono.
A tal proposito, vale ricordare che l’articolo 13 della legge n. 1150 del 1942 prevede che il Piano regolatore generale sia attuato a mezzo di piani particolareggiati di esecuzione “nei quali devono essere indicate le reti stradali e i principali dati altimetrici di ciascuna zona e debbono inoltre essere determinati: le masse e le altezze delle costruzioni lungo le principali strade e piazze; gli spazi riservati ad opere od impianti di interesse pubblico; gli edifici destinati a demolizione o ricostruzione ovvero soggetti a restauro o a bonifica edilizia; le suddivisioni degli isolati in lotti fabbricabili secondo la tipologia indicata nel piano; gli elenchi catastali delle proprietà da espropriare o da vincolare; la profondità delle zone laterali a opere pubbliche, la cui occupazione serva ad integrare le finalità delle opere stesse ed a soddisfare prevedibili esigenze future. Ciascun piano particolareggiato di esecuzione deve essere corredato dalla relazione illustrativa e dal piano finanziario di cui al successivo articolo 30”.
Alla luce della normativa richiamata risulta pacifico che il piano particolareggiato, quale principale strumento di attuazione, ha la funzione fondamentale di rendere specifiche e dettagliate le direttive del piano regolatore generale, che non potrà modificare, essendo illegittimo il provvedimento di adozione di un piano particolareggiato in variante al piano regolatore generale, ai sensi degli articoli 7 e 13 della legge n. 1150 del 1942.
Dal punto di vista della disciplina contabile,
si ricorda che le entrate derivanti dalla riscossione degli oneri di urbanizzazione connessi al rilascio dei permessi di costruire sono iscritte al Titolo IV del bilancio, mentre la legislazione finanziaria degli ultimi anni ha posto precisi e cogenti vincoli di destinazione alle risorse così introitate.
Infatti, mentre dalla legge regionale n. 22 del 29.12.2010 (Legge finanziaria per il 2011) era consentito ai Comuni, per gli anni 2011 e 2012, utilizzare i proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni previste dal Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, anche interamente per il finanziamento di spese correnti, la legge finanziaria regionale per il 2013 (l.r. n. 27/2012) ha eliminato tale possibilità, con la conseguenza che per gli esercizi finanziari 2013 e 2014 le relative entrate potranno finanziare esclusivamente le spese in conto capitale (cfr. art. 14, comma 38, l.r. finanz. cit.).
Ancora, rimanendo in tema di corretta gestione della contabilità pubblica, deve osservarsi che
le entrate derivanti dal versamento di tali oneri devono essere considerate disponibili nel bilancio dell’Ente non dal momento del loro accertamento, ma da quello della effettiva riscossione, al fine di evitare il cosiddetto criterio dell’“accertato per riscosso”, il quale può provocare temporanei vuoti di cassa e ingenerare il ricorso ad anticipazioni di tesoreria, in deroga al principio di contemporanea corresponsione del contributo all’atto del rilascio del permesso di costruire.
La disciplina sul contributo per il rilascio del permesso di costruire, per la Regione Friuli Venezia Giulia è posta all’art. 29 della legge regionale n. 19 dell’11.11.2009-Codice regionale dell’edilizia- mentre ulteriori norme di dettaglio in materia di oneri e convenzioni edilizie sono poste dal relativo Regolamento di attuazione di cui al d.P.R. 20.01.2012, n. 18 (artt. 5-7 del Capo II, recante, per l’appunto, “Disposizioni in materia di oneri e convenzioni edilizie”).
Dal complesso delle disposizioni citate si evince che il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione, determinato secondo le modalità e i parametri indicati al citato art. 29.
Gli oneri concessori sono stabiliti con delibera del Consiglio comunale con riferimento alle tabelle parametriche definite per classi di Comuni in relazione alla dimensione e alla fascia demografica dei Comuni; alle caratteristiche territoriali, alle destinazioni di zona previste dagli strumenti urbanistici vigenti; agli standard o rapporti minimi inderogabili tra insediamenti residenziali o produttivi e spazi pubblici o destinati a verde pubblico o a parcheggio, da osservarsi nella redazione degli strumenti urbanistici comunali.
La quota di contributo inerente gli oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune all’atto del rilascio del permesso di costruire e può essere rateizzata a richiesta dell’interessato.
A scomputo totale o parziale del contributo dovuto, il richiedente il permesso di costruire può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione richieste dal Comune, nel rispetto della normativa in materia di contratti pubblici, ovvero, anche, costituire diritti perpetui di uso pubblico su aree, secondo le modalità e le garanzie stabilite dal Comune. Le opere realizzate o i diritti perpetui di uso pubblico sulle aree interessate sono acquisiti al patrimonio indisponibile del Comune e devono rientrare nell’aggiornamento dell’inventario.
Il momento di passaggio della proprietà e della titolarità di dette opere pubbliche deve individuarsi nell’atto di collaudo e di consegna dei lavori al Comune.
2. Venendo al merito dei quesiti, può osservarsi che, tanto alla luce di un criterio ermeneutico di tipo letterale, quanto di tipo logico-sistematico,
le opere di urbanizzazione primaria e secondaria si configurano come istituti tra loro diversi e non sovrapponibili quanto a natura, funzioni e finalità.
Vale in tal senso richiamare l’art. 5 del citato Regolamento attuativo del Codice regionale dell’edilizia, il quale distingue le opere di urbanizzazione rilevanti ai fini della determinazione dell’incidenza dei relativi oneri, in opere di urbanizzazione primaria e secondaria (primo comma), dettandone, al comma successivo una distinta elencazione, conformemente, peraltro, a quanto stabilito in sede statale dal d.P.R. n. 380/2001 (rispettivamente, ai commi 7, 7-bis e 8 dell’art. 16).
Rientrano nella prima categoria le strade locali, spazi di sosta e parcheggi, nuclei elementari di verde, fognature, rete idrica, illuminazione pubblica, rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas, cavi per il passaggio di reti di telecomunicazioni.
Appartengono alla seconda: le strade di quartiere e di scorrimento, asili nido e scuole di ogni ordine e grado, chiese, impianti sportivi di quartiere, aree verdi, impianti di smaltimento dei rifiuti, sedi locali di forze dell’ordine, vigili del fuoco, protezione civile.
Deve pertanto ritenersi che dalle richiamate disposizioni,
sia di fonte statale che regionale, emerge come le opere di urbanizzazione primaria e secondaria siano considerate separatamente dal legislatore in ragione della loro diversa funzione e che la relativa ratio debba essere rinvenuta non tanto e non solo nell’attribuire un’entrata ai Comuni, quanto piuttosto nell’assicurare l’esecuzione delle opere o in via diretta (a scomputo del contributo dovuto a titolo di permesso di costruire), ovvero mediante la corresponsione del relativo costo (cfr. in tal senso sez. reg.le Piemonte,
parere 20.05.2010 n. 40, nonché sez. reg.le Lombardia, parere 15.09.2008 n. 66).
Sulla base di tale generale ricostruzione normativa e interpretativa, il Collegio osserva che va dunque coerentemente intesa anche la previsione recata dal sesto comma dell’ art. 29 della legge regionale 19/2009, laddove prevede che: “La deliberazione del Consiglio comunale(…) determina, altresì, la misura percentuale della compensazione fra oneri di urbanizzazione primaria e secondaria e fra oneri di urbanizzazione e costo di costruzione per gli interventi previsti dal comma 2” .
Trattasi, evidentemente, di una norma che, introducendo una mera facoltà per il Comune, non può porsi in contrasto con il preminente interesse pubblico a che l’Amministrazione comunale usufruisca delle opere di urbanizzazione, in ragione della loro diversa funzione: di rendere effettivamente edificabile l’area su cui sorgerà l’intervento edilizio, dotandola dei manufatti e dei servizi indispensabili per l’agibilità e la fruibilità del fabbricato secondo la destinazione d’uso, quanto a quelle di urbanizzazione primaria; di arricchire la comunità urbanizzata nel suo complesso di strutture e servizi a fini generali (asili, parchi, biblioteche, impianti sportivi, etc.) quanto a quelle di urbanizzazione secondaria.
In sostanza, deve ritenersi che
solo allorché risultino comunque salvaguardate le diverse esigenze di ordinato sviluppo del territorio, conseguenti agli interventi di trasformazione urbanistica, cui sono distintamente finalizzate le opere di urbanizzazione della prima e della seconda categoria, sarà possibile prevedere, in via residuale, ipotesi di compensazione a carico del privato proprietario.
Peraltro, deve ancora osservarsi che ulteriori elementi orientativi per l’interprete possono trarsi dalla evoluzione normativa in materia di disciplina delle opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione, intervenuta in epoca successiva alla disposizione regionale richiamata.
A livello statale, l’art. 45, comma 1, del D.L. n. 201 del 06.12.2011 ha infatti introdotto all’art. 16 del d.P.R. n. 380/2001 il comma 16-bis, che così dispone: “Nell’ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l’esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7, di importo inferiore alla soglia di cui all’articolo 28, comma 1, lett. c), del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, funzionali all’intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163”.
Con tale norma, il legislatore, in un’ottica di semplificazione, ha stabilito che
nell’ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati, nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria, di importo inferiore alla soglia comunitaria, è a carico del titolare del permesso di costruire, è sottratta alla disciplina del Codice dei contratti pubblici e può essere realizzata direttamente (ovvero con affidamento diretto e senza ricorso a procedure di gara, negoziata o a evidenza pubblica) dai soggetti attuatori di piani urbanistici e dai titolari di un permesso di costruire.
La novella normativa appare coerente con la diversità ontologica e funzionale sopra richiamata: “
Le opere di urbanizzazione primaria e secondaria appartengono, in effetti, a tipologie di interventi che hanno funzione differente: le prime sono costituite da quelle opere indispensabili ad assicurare l’edificabilità di un’area sotto il profilo dell’igiene, della viabilità e della sicurezza; le seconde sono costituite da quelle infrastrutture necessarie alla vita civile e comunitaria(…)”.. E ancora: “(…) mentre le prime hanno una funzione sostanzialmente servente rispetto ai singoli organismi edilizi, in quanto ne garantiscono le condizioni minime di fruibilità ed assicurano i servizi indispensabili alla civile convivenza (strade, parcheggi, fognature, etc.), le seconde mirano ad assicurare migliore vivibilità ad un ambito territoriale più vasto di quello oggetto dell’intervento da realizzare e sono a servizio dell’intera comunità (scuole, mercati di quartiere, delegazioni comunali, chiese, etc.)" (cfr. deliberazione 03.05.2012 n. 46 AVCP).
Diversamente, ovvero
allorché si consentisse un trattamento in termini di reciproca fungibilità delle due categorie di opere, si consentirebbe di soddisfare in maniera difforme dalle prescrizioni normative da ultimo introdotte dal legislatore statale nella materia dei contratti pubblici il preminente interesse pubblico a che l’amministrazione comunale usufruisca delle opere di urbanizzazione in ragione della loro diversa funzione (cfr. sez. reg.le controllo Piemonte
parere 20.05.2010 n. 40 cit.).
Nel medesimo ordine di considerazioni non constano peraltro interventi ulteriori sul versante della disciplina regionale nel settore in esame; mentre, sul versante propriamente contabile, l’intervento del legislatore regionale è consistito, come sopra ricordato (vd. art. 14, comma 38, l.r. n. 22/2010) unicamente nell’escludere tra le possibili destinazioni dei proventi delle concessioni edilizie, l’utilizzo per il finanziamento di spese di parte corrente, senza nulla aggiungere in merito a eventuali possibili operazioni di compensazione tra gli oneri concessori e il valore della realizzazione delle opere di urbanizzazione poste a carico del privato proprietario.
Da tale complesso e articolato iter evolutivo, con riguardo ai quesiti posti dal Comune richiedente, deve conclusivamente osservarsi che
la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, quale condizione cui è subordinato il rilascio del permesso di costruire, non può essere soddisfatta attraverso la realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria, tanto più se da realizzarsi in area esterna all’ambito territoriale interessato dal Piano attuativo.
Rimangono assorbiti gli ulteriori quesiti di cui ai punti 2. e 3.della richiesta formulata dal Comune (Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia Giulia, parere 24.06.2014 n. 112).

PATRIMONIODanno erariale se il canone di locazione è troppo basso.
L'affidamento oneroso di un immobile comunale a soggetti privati che, in concreto non apporta alcun beneficio per le casse comunali, esponendole anzi a una perdita, è fonte di danno erariale cui devono rispondere innanzi al giudice contabile sia il funzionario che ha disposto tale affidamento sia il sindaco colpevole di aver omesso qualsiasi controllo sulla gestione della struttura comunale.

È quanto ha messo nero su bianco la Sez. giurisdizionale della Corte dei Conti Toscana, nel testo della sentenza 23.05.2014 n. 96, con la quale ha condannato un funzionario del comune di Forte dei Marmi e il sindaco della cittadina versiliana per aver affidato, nel triennio 2008-2011, a ditte private la gestione di spazi espositivi all'interno del locale palazzetto dello sport.
Ditte che hanno versato canoni di concessioni molto bassi che, al termine della manifestazione, non hanno coperto le spese di allestimento sopportate dall'amministrazione comunale. A detta del collegio giudicante, è inequivocabile che la scelta di destinare gli spazi espositivi non ha apportato alcuna utilità al comune. Anzi, come dimostrato dalla procura, l'aver concesso l'uso della struttura alla condizioni praticate nel concreto si è rivelata una scelta antieconomica, poiché l'amministrazione ha subito forti perdite conseguenti alla spese per allestimento e condizionamento di tali spazi, che non hanno trovato neppure copertura con i canoni di affitto versati dagli aggiudicatari.
A corollario della decisione, il collegio ha ravvisato che non ritenersi che tale esborso trovi giustificazione nell'utilità, ovvero nel vantaggio che ne sarebbe conseguito per l'immagine della città e per il rilancio del turismo, poiché in atti non è stata fornita prova di tale circostanza.
Le parti, per dimostrare l'assenza del danno, avrebbero dovuto provare che l'esposizione allestita nel palazzetto dello sport avrebbe assunto un peso determinante nell'aumento delle presenze in loco anche procedendo a dei raffronti delle presenze negli anni in cui non vi si erano tenute tali iniziative (articolo ItaliaOggi dell'08.07.2014).

NEWS

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAIl regolamento edilizio diventa «unico», appalti nella legge comunitaria. L'agenda. Legge europea il 21, decreto a fine mese.
Parte il forcing del governo per rimettere in moto edilizia e infrastrutture. Il decreto legge sblocca-Italia di fine mese sarà preceduto dal varo in Consiglio dei ministri della norma delega per il recepimento delle nuove direttive 24 e 25 del 2014 in materia di appalti e concessioni. La norma delega, che darà il via a una revisione radicale dell'attuale tandem codice-regolamento appalti con la riduzione ipotizzata da 600 a 200 articoli, entrerà infatti nella nuova «legge europea» che il governo ha in programma di varare il 21 luglio, accelerando anche in questo caso i tempi (l'obiettivo è anche quello di presentarsi in Europa nel semestre italiano con un'operazione di disboscamento di direttive non recepite).
Nel decreto legge sblocca-Italia ci saranno anzitutto risorse finanziarie dal Tesoro e da fondi Ue per far ripartire i cantieri, che si attestano per ora, dopo l'incontro Padoan-Lupi di venerdì, in una forchetta compresa fra 1,5 e 3 miliardi che, grazie alla leva dei cofinanziamenti pubblici locali e privati, potrebbe arrivare a 12-15 miliardi di investimenti da mettere in moto (sono compresi anche quelli delle concessionarie autostradali). Fra le opere che saranno finanziate grandi classici (come la ferrovia Napoli-Bari, l'Alta velocità Brescia-Padova e il raddoppio della tirrenica Livorno-Civitavecchia) e nuovi ingressi fra le opere prioritarie come, per esempio, il quadruplicamento della ferrovia Firenze-Pistoia-Lucca.
Nello «sblocca-Italia», però, ci sarà anche un pacchetto robusto di norme per semplificare e snellire le procedure relative ai lavori edilizi privati. La norma che promette di essere la più dirompente in senso positivo è l'introduzione di un regolamento edilizio standard nazionale che dovrà valere per tutti gli 8.057 comuni, salva ovviamente la possibilità data a ciascun comune di integrare o introdurre modifiche al regolamento-tipo.
Una novità che avrebbe il merito di superare drasticamente lo spezzatino normativo e amministrativo che di fatto costituisce un ostacolo alla trasparenza e una barriera a una competizione leale fra professionisti e imprese da comune a comune. Senza contare che non di rado nei regolamenti edilizi si nascondono, proprio grazie alla loro complessità, definizioni, sistemi di calcolo, regole che poco hanno a che fare con un trasparente interesse generale.
Nelle settimane scorse a rompere un atteggiamento prudente e in alcuni casi addirittura ostile delle professioni sul regolamento unico edilizio era stato il presidente del Consiglio nazionale degli architetti (Cna), Leopoldo Freyrie, con una presa di posizione innovativa. Ovviamente l'apertura di credito del Cna metteva alcuni paletti come quelli di essere un regolamento «sostenibile» sotto il profilo ambientale, introdurre riferimenti alle «prestazioni» superando il regime delle «prescrizioni», assorbire le regole igienico sanitarie, stabilire livelli essenziali delle prestazioni degli edifici uguali per tutti in Italia. La richiesta è, insomma, che, al di là dell'aspetto formale, la rivoluzione del regolamento edilizio unico sia anche sostanziale e di contenuto.
Nella legge europea dovrebbe entrare il testo con i criteri di delega per il recepimento delle direttive 24 e 25 messo a punto dalla commissione ministeriale guidata dal viceministro alle Infrastrutture, Riccardo Nencini: la proposta introduce una rivoluzione a 360° che prenderà corpo in un arco di sei mesi.
Tra le novità di quel testo (su cui si veda Il Sole 24 Ore dell'11 giugno scorso) concorrenza e gare generalizzate con limitazione delle deroghe solo a pochi casi codificati, riduzione delle stazioni appaltanti, semplificazioni e «riduzione degli oneri documentali» a carico di imprese e professionisti, «miglioramento del le condizioni di accesso al mercato» per le Pmi, revisione delle Soa e della qualificazione, introduzione del débat public per la consultazione dei cittadini sui progetti, risoluzione delle controversie alternative al giudice anche per la fase della gara e dell'aggiudicazione, strumenti finanziari innovativi e incentivi per il project financing. Sarà azzerato il codice appalti e sarà «armonizzata» la legge obiettivo alle regole generali (articolo Il Sole 24 Ore del 13.07.2014).

ENTI LOCALI - VARIUn pin unico per tutta la p.a.. Partirà dal 2015. Potere sostitutivo del governo sugli atti. Il ministro Madia ha illustrato il ddl «riapprovato» dal cdm. Utg al posto delle prefetture.
Un pin unico per accedere a tutti i servizi della pubblica amministrazione e ricevere nel proprio domicilio digitale, o a casa, certificati e atti della p.a. Sarà attivo dal 2015, ma in versione ridotta perché tutte le funzionalità saranno implementate entro la fine della legislatura.
Mille giorni, questo l'orizzonte temporale che il governo Renzi si è dato per avvicinare la p.a. ai cittadini-utenti grazie all'utilizzo delle moderne tecnologie. Parte dalla digitalizzazione la lunga conferenza stampa convocata ieri dal ministro della funzione pubblica Marianna Madia per spiegare i contenuti del disegno di legge delega «Repubblica semplice», già licenziato lo scorso 13 giugno, e nuovamente approvato nel consiglio dei ministri di giovedì. Un doppio passaggio in cdm che il ministro spiega come necessario «per migliorare e rendere più incisivo il testo» che approderà in parlamento. Anche se, ha annunciato, sarà esaminato a partire da settembre per non ingolfare il lavoro estivo delle camere impegnate nella conversione dei decreti legge n. 90 e n. 91 (riforma p.a. e crescita).
Dal ruolo unico della dirigenza al silenzio-assenso, dalla riforma delle conferenze di servizi al taglio delle prefetture trasformate in Uffici territoriali del governo, il leitmotiv della delega può riassumersi così: garantire ai cittadini risposte immediate dalla p.a., evitando che il gioco dei veti incrociati, dei concerti rimandati alle calende greche, delle conferenze di servizi in stallo possa bloccare la vita dello stato.
Di qui la regola generale del silenzio-assenso che scatterà decorsi 30 giorni da quando la p.a. proponente invia il provvedimento all'ente di cui si richiede il concerto senza riceverne osservazioni. Il silenzio-assenso sarà rafforzato dal potere sostitutivo che il governo potrà usare per dirimere le controversie sorte tra p.a. proponente e p.a. concertante.
L'istituzione del ruolo unico della dirigenza dovrà segnare, secondo il ministro, un cambiamento culturale epocale. «Bisogna uscire dalla logica che il dirigente statale sia di proprietà dell'ente di appartenenza. Il manager pubblico deve sentirsi servitore dello stato, della Repubblica, deve abbandonare la logica di frammentarietà che ha fino ad oggi contraddistinto l'agire amministrativo. Per questo il ruolo unico è utile perché consentirà una maggiore osmosi di personale dirigenziale tra p.a. centrali e locali». Stesso discorso per i dipendenti che tra mobilità obbligatoria (in un raggio di 50 km) e volontaria andranno là dove c'è reale bisogno di risorse umane. I passaggi di carriera, poi, non saranno più automatici ma legati al merito. Se si vale, ha spiegato Madia, si potranno bruciare le tappe.
«Oggi invece un funzionario di seconda fascia deve attendere che si liberi un posto per passare alla prima, domani non sarà più così, gli incarichi saranno più mobili». Nel ruolo unico i futuri dirigenti entreranno per concorso e troveranno collocamento autocandidandosi sulla base degli interpelli (offerte di posti) provenienti dalle singole amministrazioni. Sarà poi una commissione formata da tre esperti super partes a valutare i curricula.
L'unitarietà della dirigenza nel progetto Renzi-Madia va di pari passo col rafforzamento dell'azione di governo anche a livello locale. Le prefetture lasceranno il posto agli Uffici territoriali di governo (dovrebbero essere 40 ma il ministro non ha voluto dare numeri certi perché tutto dipenderà dall'attuazione sul territorio della legge Delrio) in cui i cittadini potranno interfacciarsi con le singole articolazioni dello stato sul territorio (Sovraintendenze, uffici regionali dell'Agenzia delle entrate e della Ragioneria dello stato) con evidente risparmio di tempi e di costi.
Infine un accenno al decreto p.a. all'esame della camera. I lavori stanno per entrare nel vivo con il deposito di una valanga di emendamenti in commissione affari costituzionali. Il ministro si è detta «aperta a valutare ogni modifica migliorativa al testo». A cominciare dalla soppressione delle otto sedi distaccate dei Tar che ha provocato una levata di scudi da parte di giudici e avvocati amministrativisti. In commissione sono stati presentati emendamenti volti a salvare i Tar delle città sedi di Corte d'Appello (Lecce, Reggio Calabria, Salerno, Brescia, Catania).
«Sono disposta a cambiare idea», ha dichiarato il ministro, «se mi convincono che ci sono ragioni oggettive legate al funzionamento della giustizia per mantenerli. Ma se si tratta si iniziative localistiche dei singoli deputati per salvare i Tar del proprio collegio allora non ci sto» (articolo ItaliaOggi del 12.07.2014).

LAVORI PUBBLICIParte il monitoraggio del Mef sulla spesa in opere pubbliche.
Al via dal 1° ottobre il monitoraggio del Mef sulle opere pubbliche. L'obiettivo è ottenere un quadro d'insieme finalizzato ad una migliore allocazione delle risorse finanziarie.

Gli uffici del Mef stanno inviando e-mail a 13 mila destinatari, tra pubbliche amministrazioni, società concessionarie di opere pubbliche o titolari di interventi infrastrutturali, per avere informazioni relative allo stato di avanzamento dei lavori, agli affidamenti, ai pagamenti effettuati, agli indicatori fisici (ad esempio, quanti chilometri di una certa strada sono effettivamente in corso di realizzazione, o realizzati). Dopo il censimento iniziale seguiranno aggiornamenti trimestrali in modo da garantire un monitoraggio continuativo nel tempo.
I titolari delle opere devono fornire solo quelle informazioni che non siano già state trasmesse in altri contesti. Per questo le e-mail del Mef contengono le credenziali di accesso alla Banca dati delle amministrazioni pubbliche della Ragioneria dello Stato dove, a partire dal 1° settembre, i 13 mila destinatari possono verificare direttamente i dati già presenti nei sistemi del Mef e provenienti da altre amministrazioni con cui il ministero ha stretto accordi.
Per sfruttare questa facilitazione, il Mef invita i titolari delle opere a integrare e aggiornare i codici identificativi dei progetti (Cup e Cig), nei sistemi dei soggetti loro referenti che sono: l'ex Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (oggi confluita nell'Autorità nazionale anticorruzione), la presidenza del consiglio dei ministri (che assegna il Cup a ciascun investimento pubblico) e il Siope, gestito da Banca d'Italia per conto dello stesso Mef, dove vengono registrati i mandati di pagamento. In questo modo viene assicurata la compatibilità delle informazioni provenienti da sistemi differenti, altrimenti non integrabili (articolo ItaliaOggi del 12.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Per la termoregolazione potestà regionale. Impianti. Conflitto tra leggi nazionali e del Piemonte e della Lombardia.
Il decreto legislativo approvato il 30 giugno dal Governo, che fissa a fine 2016 il termine per provvedere alla termoregolazione degli impianti di riscaldamento, quando alcune regioni (in particolare Piemonte e Lombardia) avevano già stabilito lo stesso termine a inizio agosto o inizio settembre 2014, apre un nuovo contrasto tra norme statali e regionali in materia di riscaldamento.
Il «distacco»
Più volte la Cassazione civile (7518/2006, 5974/2004, 8924/2001) ha ribadito il diritto del condomino (purché non derivino squilibri di funzionamento dell'impianto centralizzato o aggravio di spese per gli altri condomini) di "staccarsi" dall'impianto di riscaldamento condominiale. Un orientamento recepito poi con legge 220/2012. Tuttavia, alcune regioni avevano di fatto già in precedenza vietato il distacco del condomino: in particolare il Piemonte (legge regionale 13/2007) ha stabilito l'impossibilità di staccarsi negli edifici con oltre quattro unità abitative, con relative sanzioni economiche per i trasgressori.
Intervenendo nuovamente in materia, la Cassazione ha ribadito (sentenza 9526/2014) il proprio consolidato orientamento favorevole alla possibilità di distacco, senza neppure prendere in considerazioni le differenti disposizioni legislative regionali e anzi, in riferimento alla legge 220/2012, rilevando come «ed è questo, per la verità, un orientamento giurisprudenziale che ha assunto adesso veste di diritto positivo».
Il termine
Il contrasto si pone ora fra leggi regionali (ad esempio Piemonte e Lombardia) e legge statale anche per quanto riguarda il termine concesso ai cittadini per adeguarsi alle nuove disposizioni in materia di termoregolamentazione: ci si deve attenere al termine (fine 2016) fissato dallo Stato o a quello "regionale" ben più prossimo, Piemonte 1° settembre e Lombardia 01.08.2014? E analogamente: in Piemonte ci si può staccare dall'impianto condominiale, come prevede la legge dello Stato, oppure bisogna attenersi alla legge regionale, che lo vieta?
Per rispondere a queste domande occorre fare riferimento alla materia regolata dalle predette disposizioni di legge, o per meglio dire occorre verificare se questa materia è riservata o meno dalla Costituzione alla disciplina legislativa statale.
Utili indicazioni, in proposito, si ricavano dal parere (datato 2012 ma tuttora valido) dato dalla Regione Piemonte, ove si specifica che la «tutela della qualità dell'aria e la finalità di riduzione delle emissioni in atmosfera attengono alla materia esclusiva statale della tutela dell'ambiente», mentre il «miglioramento delle prestazioni energetiche degli edifici con contestuale riduzione dei relativi consumi e promozione di energie rinnovabili ricade nelle materie di potestà legislativa concorrente».
La conclusione, allora, dovrebbe logicamente essere la seguente: per gli interventi volti a ridurre i consumi, quali sono certamente quelli relativi alla regolamentazione dell'impianto, dovrebbero prevalere le normative regionali, data la possibilità delle regioni di legiferare in materia, mentre non vi è ragione in materia di "distacco", dove per lo più ci si è sempre basati, nel concederlo o meno, sul miglioramento o meno della qualità dell'aria che ne può derivare, di non ritenere prevalente la normativa statale (del resto con "l'avallo" della Cassazione che lo ammette.
Gli stessi interventi legislativi (Piemonte) regionali, del resto, hanno evidenziato che la tematica del distacco del riscaldamento centralizzato investe aspetti di disciplina pertinenti da un lato al diritto privato, e dall'altro ambiti di disciplina pertinenti al diritto pubblico ambientale e segnatamente alla tutela della qualità dell'aria , materia quest'ultima come detto riservata all'intervento del legislatore nazionale
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.07.2014).

APPALTI - ENTI LOCALISlittano centrale unica e bilanci. Acquisti centralizzati all'01/01 e 01/07/2015. Preventivi al 30/09. La conferenza stato-città ha dato il via libera alla doppia proroga chiesta dall'Anci.
Rinvio al 01.01.2015 per gli acquisti centralizzati di beni e servizi da parte dei comuni non capoluogo e al 01.07.2015 per i lavori. Mentre per approvare il bilancio di previsione di quest'anno, tutti gli enti locali avranno tempo fino al prossimo 30 settembre.

La conferenza stato-città e autonomie locali di ieri, confermando le aspettative della vigilia, con l'intesa 10.07.2014 ha dato il via libera alla doppia proroga sulle centrali uniche e sui preventivi 2014.
Anzi, in realtà, le proroghe sono tre.
Infatti, come anticipato da ItaliaOggi dell'8 luglio, per la centralizzazione degli acquisti di prevedono due nuove scadenze: 01.01.2015 per i beni e i servizi e 01.07.2015 per i lavori. Il correttivo verrà inserito nella legge di conversione del dl 90/2014 (quello sulla riforma della p.a.) al momento all'esame della camera.
La modifica, quindi, non entrerà in vigore subito, per cui rimane il rischio di un blocco, sia pure temporaneo, delle procedure.
Tuttavia, l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (ora soppressa e incorporata nell'Autorità anticorruzione) sarebbe disponibile a rilasciare comunque il codice identificativo di gara (Cig), in deroga al divieto previsto dallo stesso dl 66 (si veda altro pezzo in pagina).
Da chiarire anche la sorte degli acquisti di modesto valore, che in precedenza la giurisprudenza contabile riteneva esclusi dall'obbligo e che oggi, invece, vi rientrano (con la sola esclusione dell'amministrazione diretta), come confermato dal recente parere n. 144/2014 della sezione regionale di controllo per il Piemonte (si veda ItaliaOggi del 9 luglio).
A tal fine, in parlamento è stato presentato un emendamento allo stesso dl 90 (primo firmatario Massimo Fiorio, Pd), che si propone di mantenere, almeno per interventi urgenti e di importi limitati (ossia fino a 40.000 euro), l'autonomia procedurale di affidamento da parte dei comuni. Ciò, sottolinea Fiorio, anche per non espellere dal mercato le piccole e medie imprese, che non dispongono dei requisiti tecnici, economici e professionali per partecipare a gare su importi elevati.
Anche sul bilancio, nessuna sorpresa. A fronte della richiesta dell'Anci di spostare al 15 settembre l'attuale scadenza del 31 luglio, si è decisa una proroga più ampia, fino al 30 settembre (si veda ItaliaOggi del 5 luglio). Resta fermo, però, il termine del 10 settembre per l'approvazione delle deliberazione sulle aliquote e le detrazioni della Tasi, mentre andrà chiarito se resterà obbligatoria la salvaguardia degli equilibri contabili, che in base all'art. 193 del Tuel deve essere anch'essa messa in calendario entro il 30 settembre. Al riguardo, sarebbe opportuno prevedere una deroga per gli enti che licenzieranno il preventivo a settembre, come accaduto lo scorso anno.
Nella stessa delibera di rinvio dei bilanci, l'Anci ha poi chiesto al governo un'anticipazione del fondo di solidarietà per velocizzare i tempi rispetto all'iter normale del decreto ministeriale che ne regola il riparto.
«La ragione principale che ci ha spinto, nostro malgrado, a chiedere il differimento», ha spiegato al termine della riunione il presidente Anci, Piero Fassino, «riguarda il gran numero di comuni andati al voto nell'ultima tornata amministrativa. Questo ha, di fatto, impedito alle nuove amministrazioni di predisporre i bilanci, su cui pesano anche problematiche normative e finanziarie ancora irrisolte».
«Questo rinvio», ha aggiunto Fassino, «non è una grande convenienza per i sindaci, tuttavia è necessario per poter mettere le amministrazioni nelle condizioni di chiudere esercizi già in sofferenza».
Sempre riguardo i bilanci, il presidente Anci ha segnalato il problema delle province «che devono essere messe nelle condizioni di poter non solo gestire l'indifferibile e l'inderogabile, ma tutte le funzioni ordinarie a loro assegnate». Il sindaco di Torino ha portato un esempio concreto. «Chiudendo il 31 dicembre, non possiamo rischiare di trovarci senza risorse per una nevicata dei primi di gennaio».
Da qui la richiesta di provvedere «quanto prima su un problema delicatissimo e urgente, anche in vista della nascita delle nuove città metropolitane che rischiano di inglobare enti già in forte sofferenza economica e finanziaria» (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2014).

APPALTIL'Anac dovrà rilasciare il codice identificativo gara agli enti.
L'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) deve consentire ai comuni non capoluogo di fare le gare di appalto se non hanno già attuato meccanismi di centralizzazione degli acquisiti, disapplicando quindi il divieto in vigore dal 1° luglio, di concedere il Cig (codice identificativo gara) ai comuni non capoluogo di provincia.
È questa l'indicazione contenuta nell'intesa 10.07.2014 conferenza stato-città-enti locali siglata ieri dal ministro dell'interno, Angelino Alfano, e dal segretario della conferenza, Caterina Cittadino.
Il problema nasce dalle modifiche apportate all'articolo 33 del codice dei contratti pubblici con la legge 89/2014, di conversione del decreto legge 69/2014 che, nell'introdurre il comma 3-bis, impedisce ai comuni non capoluoghi di provincia di effettuare gare di appalto pubblico e li obbliga ad acquisire lavori, beni e servizi attraverso soggetti aggregatori della domanda (che dovranno in futuro essere non più di 35), cioè le centrali di committenza, la Consip, gli accordi consortili, o le unioni di comuni.
In caso di inosservanza dell'obbligo di ricorrere al «soggetto aggregatore», è previsto che l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (cioè l'Anac di Raffaele Cantone che l'ha assorbita) non rilasci alle stazioni appaltanti il codice identificativo di gara (Cig), adempimento necessario per potere bandire ogni gara.
L'applicazione in questi primi dieci giorni della norma sta però determinando una vera e propria paralisi in molte realtà territoriali che si concretizza nel blocco delle gare, perché i comuni sono molto in ritardo (avendo sempre sperato in una proroga dell'obbligo) e anche le centrali di committenza regionali non risultano spesso costituite e operative.
Nell'atto approvato ieri si prende atto dei rilievi formulati dall'Anci, che ha denunciato il rischio blocco delle gare (vedi ItaliaOggi del 27.06.2014) e ha richiesto una proroga per consentire ai comuni di mettersi in regola, e si è ritenuto opportuno un adeguato percorso che consenta agli enti locali di adeguarsi.
Le motivazioni attengono al fatto che i soggetti aggregatori non sono «né organizzati, né operativi», inoltre «Consip e le altre centrali di committenza non coprono tutte le esigenze e l'area vasta che avrà funzioni di centrale di committenza sarà operativa soltanto dal 01.10.2015».
Da qui la richiesta di proroga da apportare in conversione del decreto 90/2014 e l'indicazione espressa all'Anac («deve») di concedere il codice identificativo gara per ogni tipo di affidamento, indipendentemente dall'importo, disapplicando quindi una legge dello stato (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2014).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPiù assunzioni, ma non per tutti. Penalizzati vigili, welfare, istruzione e i piccoli comuni. La riforma della p.a. innalza i limiti al turnover ma cancella le deroghe settoriali.
Più spazio alle nuove assunzioni, ma stop alle deroghe settoriali. Possono essere sintetizzate in questi termini le modifiche introdotte dal decreto legge sulla p.a. (dl 90/2014) in materia di limiti alle spesa di personale degli enti locali.
Le maggiori novità interessano gli enti soggetti al Patto, per i quali il limite al turnover dei dipendenti a tempo indeterminato viene innalzato, dall'attuale 40%, al 60% per gli anni 2014-2015, all'80% per il biennio 2016-2017, per arrivare al 100% nel 2018. Ricordiamo che le percentuali vanno applicate alla spesa relativa al personale di ruolo cessato nell'anno precedente.
Di fatto, però, le maglie si allargano solo per i comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti, dato che per le province rimane il blocco totale delle assunzioni imposto, nelle more del completamento del riordino, dall'art. 16, comma 9, del dl 95/2012.
Per gli enti non soggetti al patto, invece, ossia per i comuni con meno di 1.000 abitanti e per le unioni di comuni, rimane confermata la regola del turnover integrale «per teste» fissata dall'art. 1, comma 562, della legge 296/2006.
Sia gli enti soggetti che quelli non soggetti devono comunque continuare a garantire il contenimento della spesa complessiva di personale: nel primo caso, il parametro di riferimento è l'anno precedente, mentre nel secondo è la spesa sostenuta nell'anno 2008.
Con l'abrogazione dell'art. 76, comma 7, del dl 112/2008, invece, è stato eliminato il divieto di effettuare nuove assunzioni per gli enti la cui spesa di personale pesa più del 50% della spesa corrente. Ovviamente, viene meno anche l'obbligo, ai fini della verifica di tale limite, di consolidare la spesa di aziende speciali, istituzioni e partecipate. A queste ultime, inoltre, non si applicano più in via diretta gli stessi vincoli previsti per gli enti controllanti, ma solo un (assai più blando) potere di coordinamento da parte di questi ultimi con l'obiettivo di garantire la «graduale riduzione» dell'incidenza degli oneri di personale su quelli correnti.
Fin qui, tutto bene. La cancellazione dell'art. 76, comma 7, tuttavia, comporta l'eliminazione del regime agevolato che dimezzava il peso delle nuove assunzioni nell'istruzione, nei servizi sociali e nella polizia locale. In questi ambiti, quindi, c'è un peggioramento, dal momento che il turnover scende dall'80% al 60%. Sparisce anche la possibilità, per gli enti con spese di personale inferiori al 35% di quelle correnti, di sostituire integralmente i vigili cessati dal servizio.
Altra restrizione riguarda la possibilità di cumulare le risorse assunzionali accumulate e non utilizzate, che viene circoscritta all'ultimo triennio.
Nessuna novità per il lavoro flessibile, con la conferma del limite del 50% rispetto al 2009 previsto dall'art. 9, comma 28, del dl 78/2010.
Da segnalare, infine, una questione relativa alle unioni di comuni. La legge Delrio (l. 56/2014), nel riscrivere l'art. 32 del Tuel, ha eliminato il comma 5 (che era stato inserito dall'art. 19 del dl 95). Tale disposizione recitava: «All'unione sono conferite dai comuni partecipanti le risorse umane e strumentali necessarie all'esercizio delle funzioni loro attribuite. Fermi restando i vincoli previsti dalla normativa vigente in materia di personale, la spesa sostenuta per il personale dell'Unione non può comportare, in sede di prima applicazione, il superamento della somma delle spese di personale sostenute precedentemente dai singoli comuni partecipanti. A regime, attraverso specifiche misure di razionalizzazione organizzativa e una rigorosa programmazione dei fabbisogni, devono essere assicurati progressivi risparmi di spesa in materia di personale».
Ora il dubbio è se la novella faccia venire meno l'obbligo di garantire che l'unione rispetti il limite rappresentato dalla spesa aggregata dei comuni aderenti. Sul punto, si propende per la risposta negativa, sulla scorta della consolidata giurisprudenza contabile e delle finalità di contenimento della spesa pubblica sottese all'obbligo di gestione in forma associata delle funzioni (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2014).

SEGRETARI COMUNALISegretari in rivolta. Sull'abolizione dei diritti di rogito. La categoria ha manifestato davanti a Montecitorio.
L'abolizione dei diritti di rogito «snatura la figura del segretario comunale, che è di supporto al cittadino, oltre che all'amministrazione». E spianare la strada ad ex direttori generali, «non vincitori di concorso e legati alla politica», affinché possano ricoprire tale incarico, «rischia di incidere sul principio di imparzialità del funzionario».
È un coro di critiche (ma anche di proposte) quello che si leva dalla categoria dei segretari comunali, protagonista ieri mattina di una manifestazione, a Roma, dinanzi a palazzo Montecitorio, per contestare le norme contenute nel decreto 90/2014 (misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari), varato lo scorso 13 giugno dal consiglio dei ministri e attualmente all'esame del parlamento.
Netta contrarietà ai contenuti dell'articolo 10 del provvedimento, che stabilisce sia l'abrogazione dei diritti di rogito della categoria, sia l'eliminazione della ripartizione del provento annuale dei diritti di segreteria; le nuove regole, infatti, attribuiscono ai comuni e alle province l'intero ricavo, abolendo in tal modo sia la quota destinata allo stato, sia quella relativa ai contratti rogati spettante ai funzionari.
Un taglio, quest'ultimo, «dalle conseguenze gravissime», commenta a ItaliaOggi Maria Concetta Giardina, responsabile della sezione Unadis dei segretari comunali, «perché con le somme che ci vengono sottratte noi paghiamo la nostra formazione, i corsi che ci fanno progredire in carriera. E, mancando le risorse per svolgere attività di aggiornamento e perfezionamento», sottolinea, «si indebolisce il dipendente e lo si condanna a non avere un futuro».
Rivendicano di essere «i primi collaboratori dei sindaci», però rifiutano di operare in una condizione di «soggettività», essendo l'unica figura, si lamentano, «che da 17 anni subisce lo spoil system», poiché molto spesso chi vince le elezioni seleziona la sua squadra seguendo logiche di partito, «facendo perdere credibilità all'istituzione». A dar loro appoggio, in piazza, il primo cittadino di Parma, Federico Pizzarotti, convinto che «rispetto alle tariffe notarili, quanto spetta ai segretari comunali rappresenta un indubbio risparmio per le amministrazioni. Avevo molte aspettative, riguardo alla riforma della p.a.», prosegue, «ma si stanno infrangendo dinanzi ad alcune decisioni, come questo ridimensionamento dei segretari comunali, che non mi sembra vadano a beneficio dei cittadini».
Ad oggi, si contano circa 3.500 appartenenti all'albo, in Italia, e la media reddituale «si aggira sui 70-80 mila euro lordi annui», dichiara Giampiero Vangi (responsabile per la categoria del sindacato Diccap) che tiene a evidenziare quale sia il carico di responsabilità sulle spalle dei colleghi, «perché se, ad esempio, si sbaglia la registrazione di un atto, non è il comune a pagare, bensì tutto ricade sul personale rogante, tenuto a corrispondere 250 euro di sanzione».
Osteggiata duramente, poi, la scelta del governo di Matteo Renzi di far entrare a ruolo persone che hanno ricoperto in precedenza la carica di direttore generale, non essendo passate attraverso la trafila del concorso pubblico; una delle proposte emendative suggerite alle forze politiche che esprimono loro vicinanza (in particolare al Ncd e a Fi) riguarda delle modifiche all'attuale funzionamento dell'albo, per consentire ai dirigenti che hanno dato buona prova di se stessi di poter aspirare a funzioni apicali negli enti di massima dimensione, «ma come scelta professionale, non in maniera episodica, venendo nominati, magari per qualche anno, in virtù di mera appartenenza politica».
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Ma la competenza non è stata cancellata.
Per i segretari comunali resta in piedi la possibilità di rogare i contratti e, se richiesti, il dovere di procedere. L'abolizione della compartecipazione ai diritti di rogito disposta dall'articolo 10 del dl 90/2014 non elimina la competenza dei segretari a svolgere le funzioni di ufficiale rogante, ma sta sortendo l'effetto di indurre molti segretari a rinunciare o, quanto meno ventilare di farlo, a rogare i contratti, anche a scopo di protesta ed evidenziare che la compartecipazione ai diritti di rogito non rientri pienamente nel principio di onnicomprensività della retribuzione, molti segretari comunali ritengono di potersi astenere dallo svolgere il compito.
Tuttavia, il dl 90/2014 ha sì abolito il compenso per l'attività di ufficiale rogante, ma non ha intaccato l'articolo 97, comma 4, lettera c), del dlgs 267/2000, ai sensi del quale il segretario «può rogare tutti i contratti nei quali l'ente è parte e autenticare scritture private e atti unilaterali nell'interesse dell'ente». L'utilizzo del verbo «potere» non deve trarre in inganno. La legge non attribuisce al segretario la facoltà di scegliere se rogare i contratti o meno, bensì evidenzia che in via straordinaria detta funzione, negli enti locali, può essere svolta non solo dal notaio, ma anche appunto dal segretario comunale.
Dunque, si tratta di una vera e propria attribuzione di potestà giuridica e non di una facoltà. Per dirla meglio, i segretari comunali hanno il dovere di svolgere la funzione. Specie se vi sia una formale ed esplicita richiesta a procedere da parte del sindaco o dei dirigenti e funzionari che debbono intervenire nell'atto per la sua sottoscrizione. La funzione rogante deve essere considerata ancora obbligatoria e vigente, per evidenti ragioni di risparmio e razionalità organizzativa. L'affidamento del compito di rogare i contratti degli enti ai notai si rivelerebbe per la riforma della p.a un boomerang devastante.
Infatti, non solo aumenterebbero i costi (per l'amministrazione, ma anche per le imprese appaltatrici), ma si ridurrebbero anche le entrate connesse alla funzione: se non è l'ufficiale rogante segretario comunale a rogare l'atto pubblico in forma amministrativa o autenticare la scrittura privata, infatti, mancano totalmente i presupposti per acquisire i connessi diritti di rogito da parte del comune. A questa disfunzione si collegherebbe, come già rilevato, anche quella organizzativa, connessa alla necessità di scegliere il notaio e concordare con un soggetto esterno all'organizzazione sede, tempi e modi per la stipulazione. Il rallentamento e la complicazione operativa sono evidentemente percepibili.
Dovesse passare, dunque, l'idea che ai segretari è consentito non svolgere più la funzione rogante, per i comuni si determinerebbe una situazione estremamente vicina al caos. Indubbiamente, l'unico modo per rimediare in modo efficace sarebbe rivedere prontamente il contenuto dell'articolo 10 del dl 90/2014, anche perché difficilmente è dimostrabile che la maggiore efficienza della p.a. passi per l'abolizione della compartecipazione dei segretari ai diritti di rogito (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2014).

INCARICHI PROFESSIONALI: L'obbligo di Pos non elimina l'adeguata verifica. Antiriciclaggio. Pagamenti ai professionisti.
Il controverso obbligo di pagamento con Pos ha un impatto soft sulla normativa antiriciclaggio. L'articolo 49 del dlgs 231 del 2007, sugli adempimenti relativi all'uso del contante, stabilisce che è vietato il trasferimento a qualsiasi titolo di denaro contante o strumenti al portatore per importi pari o superiori a 1000 euro. Sono quindi consentiti liberamente e in ogni sede, a qualsiasi titolo (oneroso o gratuito, ad es. per pagamenti o donazioni), movimenti in contanti fino a 999,99 euro. Ciò sta a significare, per quanto qui interessa, che presso gli esercizi commerciali e tutti i soggetti toccati dal decreto appena entrato in vigore, i pagamenti in contanti restano liberi fino alla predetta soglia.
Questi concetti, tuttavia, non sono parsi affatto ovvi nei primi giorni di vigenza dell'obbligo di Pos. Si è pensato ad un divieto assoluto del contante, o quantomeno fino ai 30 euro, dato che la legge prevede l'obbligo di dotarsi di Pos per garantire ai clienti pagamenti con carte bancomat e prepagate (non di credito, poiché si parla di strumenti che funzionino «previo deposito di fondi in via anticipata da parte dell'utilizzatore») dai 30 euro in su.
Inoltre, per i liberi professionisti contabili e legali, obbligati dalle norme antiriciclaggio alla cosiddetta "adeguata verifica" e alla registrazione di rapporti ed operazioni occasionali pari o superiori ai 15.000 euro su registro cartaceo dedicato, resta comunque l'obbligo della prima, mentre la registrazione dei pagamenti avverrebbe solo per somme pari o superiori ai 15.000 (o diversa soglia scelta dal professionista medesimo), ricordando che deve trattarsi non di parcelle, esentate dalla annotazione.
Potrebbe però darsi il caso che con il Pos il cliente voglia fare arrivare al professionista dei soldi che, dal conto corrente di quest'ultimo, il cliente debba consegnare a una controparte a fronte di una transazione o qualsivoglia altro debito pecuniario il cui pagamento avvenga tramite un legale. Si ricorda che questi casi comportano comunque una adeguata verifica (con richiesta dello «scopo e natura» dell'operazione e del «titolare effettivo» della medesima). Ciò rientrerebbe nella fattispecie prevista dall'art. 12, comma 1, lettera c), numero 2, del decreto 231/2007, a fronte della quale si dovrebbe prescindere anche dalla soglia dei 15.000 euro.
Un problema invece ben più serio potrebbe porsi nel momento in cui il cliente voglia usare il Pos ma frazionare il pagamento in più tranche. L'acconto oggi, il saldo fra un mese, ad esempio. Se l'acconto non supera i 1.000 euro, si potrà pagarlo in contanti. Ma il saldo dovrà avvenire per forza con Pos o assegno o bonifico, in quanto -trattandosi della medesima operazione, consulenza o rapporto continuativo che dir si voglia- se il cliente versasse dell'altro contante, superando il limite suddetto, potrebbe incorrere nel «cumulo» di cui sempre all'art. 49, comma 1, della legge antiriciclaggio, che usa l'avverbio «complessivamente» quando pone, per l'appunto, il divieto ai trasferimenti di contante.
Qui si rileva un assurdo già nella normativa in questione, soprattutto con la soglia così bassa ai 1.000 euro (unica in Europa). Si costringe al pagamento tracciato, a procurarsi un bancomat o carta o assegni anche chi non ha un rapporto di conto corrente bancario o postale (e in Italia trattasi di circa 2 milioni di cittadini). È appena il caso di ricordare che il reato di evasione fiscale si realizza, sempre in sintesi, quando una prestazione economica non viene supportata da alcun documento giustificativo, a prescindere da come sia stata pagata.
E ciò non si risolve con i blocchi ai pagamenti, quelli leciti, obbligando inoltre un cittadino italiano o comunitario in Italia a possedere strumenti diversi dal contante. Tra l'altro, per importi di cui si parla non vi sarebbe reato fiscale, ai sensi del decreto legislativo 74 del 2000, ma solo una violazione amministrativa. Come dovrà comportarsi il professionista che si veda chiedere dal cliente di effettuare più pagamenti sopra soglia, paradossalmente senza mai usare il contante, visto che i bancomat hanno limiti di importo spendibile giornaliero? Anche il frequente utilizzo di strumenti di debito o carte di credito viene considerato un indicatore di anomalia dalla Banca d'Italia nelle sue istruzioni sulle segnalazioni di operazioni sospette.
Banale, ma non ultima, la domanda sui pagamenti «misti», dati i limiti di spendibilità, ai quali si sarà costretti comunque, magari dando il rimanente in contanti, seppure sotto soglia. Le autorità li considerano comunque pagamenti elusivi delle norme contro il riciclaggio. Ciò qualora il bancomat, essendo ad addebito immediato, dovesse considerarsi «contante». Un maggiore raccordo tra norme è auspicabile
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIRipartono le gare nei Comuni. Gli obblighi di centralizzazione degli acquisti si spostano al 2015. Enti locali. Via libera immediato agli appalti e proroga al 1° gennaio per beni e servizi e al 1° luglio per i lavori.
Possono ripartire gli acquisti e gli appalti nei Comuni non capoluogo di Provincia, bloccate dall'entrata in vigore il 1° luglio scorso delle nuove regole sulle centrali uniche di committenza, perché dei nuovi obblighi si riparlerà solo nel 2015: anche le procedure già avviate nei Comuni in queste settimane possono proseguire perché i relativi atti vengono fatti salvi.
La Conferenza Stato-Città di ieri ha formalizzato l'accordo che sposta e sdoppia la scadenza dell'entrata in vigore dei nuovi vincoli: in pratica (come anticipato sul Sole 24 Ore del 4 luglio) l'obbligo di agire attraverso Unioni di Comuni, accordi consortili, altri «soggetti aggregatori» o la Consip viene spostato al 1° gennaio prossimo per l'acquisto di beni e servizi, e al 1° luglio per quel che riguarda gli appalti di lavori.
Il nuovo calendario sarà scritto in un emendamento da introdurre nella legge di conversione al decreto sulla Pubblica amministrazione oppure a quello sullo sviluppo, ma per registrare gli effetti concreti del nuovo accordo non bisognerà attendere la fine del percorso parlamentare: il blocco generalizzato degli acquisti appalti nei quasi 8mila Comuni non capoluogo è dovuto al fatto che a partire dal 1° luglio l'Autorità di vigilanza sugli appalti non ha più potuto rilasciare i codici identificativi di gara (Cig) indispensabili per lo svolgimento delle procedure, e ovviamente l'accordo raggiunto ieri fra Governo e amministrazioni locali dà indicazione all'Autorità di ricominciare a distribuire i codici.
La vicenda interviene proprio nelle settimane in cui sul versante della spending review si lavora alle regole per "superare" le migliaia di stazioni appaltanti attuali riducendole a poche decine, e mostra bene tutte le difficoltà che si incontrano quando si passa dalle strategie ai tentativi di applicazione. La storia infinita delle centrali uniche nasce infatti alla fine del 2011 quando il decreto «Salva-Italia» (articolo 23, commi 4 e 5 del Dl 201/2011) impone una centrale unica provinciale per l'acquisizione di lavori, servizi e forniture superiori a 4mila euro nei Comuni fino a 5mila abitanti.
Di proroga in proroga, la scadenza originaria del 31.03.2012 è stata spostata fino al 1° luglio scorso, ma alla vigilia del nuovo termine il decreto con il bonus Irpef (articolo 9, comma 4 del Dl 66/2014) ha modificato la regola, cancellando la salvaguardia per gli acquisti fino a 40mila euro di valore ed estendendo l'obbligo di "centralizzazione" a tutti i Comuni non capoluogo di Provincia. Con il nuovo decreto, la centrale provinciale non è l'unica strada, perché tra le opzioni ci sono come accennato le Unioni di Comuni, gli accordi consortili o la Consip (che però non è praticabile per quanto riguarda i lavori), ma sul territorio questi «soggetti aggregatori» sono ancora tutti da costruire.
Un'altra prova delle difficoltà che si incontrano quando si prova a superare l'articolazione in singoli enti locali e procedere per aree più ampie arriva dal settore del gas, dove è stato definito il nuovo calendario per le gare. Il calendario è stato messo nero su bianco dal ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, e prevede uno slittamento di otto mesi per gli ambiti di primo raggruppamento, di sei mesi per gli ambiti del secondo, terzo e quarto raggruppamento e di quattro mesi per quelli che rientrano nel quinto e sesto raggruppamento
(articolo Il Sole 24 Ore dell'11.07.2014).

ENTI LOCALIBilanci, oggi l'ok alla proroga. In stato-città.
Slitta al 30 settembre il termine per l'approvazione del bilancio 2014 degli enti locali.

Il via libera (scontato) arriverà oggi dalla Conferenza stato-città, che darà parere favorevole alla terza proroga in poco più di sei mesi. Il record dello scorso anno, quanto la dead-line venne spostata fino al 30 novembre, non è lontano.
Restano da affrontare due problemi di coordinamento. Da un lato, quello con la normativa relativa alla Tasi, che lascia tempo solo fino al 10 settembre ai sindaci che non lo hanno ancora fatto per fissare aliquote e detrazioni con effetti sull'anno di imposta corrente. In ogni caso, i comuni potranno provvedere anche prima di varare il preventivo, dato che l'unico vincolo è che la deliberazione consiliare sulla Tasi preceda l'approvazione del bilancio. Essa, però, deve essere successiva alla deliberazione di giunta che approva il relativo schema, dato che le decisioni sui tributi devono essere sempre basarsi su motivate esigenze finanziarie.
Il secondo problema riguarda la salvaguardia degli equilibri contabili, che in base all'art. 193 del Tuel deve essere messa in calendario entro il 30 settembre. Al riguardo, sarebbe opportuno prevedere una deroga per gli enti che licenzieranno il preventivo a settembre, come accaduto lo scorso anno (articolo ItaliaOggi del 10.07.2014).

VARICon le gomme da neve si circola anche d'estate.
Le gomme da neve permettono all'utente di circolare in regola anche d'estate purché vengano rispettate tutte le condizioni previste dalla carta di circolazione del veicolo. E solo nella rara ipotesi in cui siano state installati pneumatici con indice di velocità inferiore occorrerà sostituirli entro il 15 maggio. La questione della sostituzione dei pneumatici invernali con quelli estivi ha destato molta preoccupazione negli utenti dopo le notizie generaliste diffuse dai media. In pratica però nessuna norma obbliga gli automobilisti ad affrettarsi per smontare le gomme invernali eccetto il caso in cui i pneumatici scelti abbiano un indice di velocità inferiore all'ordinario.

Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con la circolare n. 1049/2014.
A norma di legge i pneumatici invernali possono essere utilizzati anche tutto l'anno senza incorrere in sanzione. Purché si tratti di gomme con requisiti corrispondenti a quelli indicati nella carta di circolazione del veicolo. Durante il periodo invernale, a parere del ministero, possono essere installati anche pneumatici con codici di velocità inferiori a quelli previsti dal libretto del veicolo, fino a Q (ovvero 160 km/h).
Con la nota ministeriale è stato spiegato qual è il periodo di riferimento di questa deroga che non corrisponde al lasso temporale evidenziato dalla direttiva sull'uso dei dispositivi invernali 16.01.2013. Ovvero dal 15 novembre al 15 aprile. Viene infatti allargata la forbice dal 15 ottobre al 15 maggio.
In pratica per evitare un eccessivo affollamento dei centri di assistenza viene consentita la circolazione con le gomme invernali anche con codici di velocità inferiori a quelle previste dal libretto di circolazione fino al 15 maggio di ogni anno. Solo per questa tipologia di gomme invernali quindi non è permesso circolare tutto l'anno senza incorrere in multe. La generalità degli automobilisti possono stare tranquilli.
Nessun organo di polizia potrà sanzionare un utente che avrà scelto di mantenere il proprio treno di gomme invernali anche nel periodo caldo. Magari proprio per completarne l'usura prima dell'arrivo del nuovo periodo invernale (articolo ItaliaOggi del 09.07.2014).

APPALTIAppalti supermonitorati. Conti dedicati e solo bonifici per le ditte. Lo prevede il decreto sulle semplificazioni p.a. per le grandi opere.
Rafforzato il monitoraggio finanziario sulle imprese che partecipano ai grandi appalti. Gli aggiudicatari dovranno avere conti dedicati per i pagamenti e utilizzare solo bonifici. Previsto un prelievo dello 0,6 per mille sull'importo del contratto, che andrà a finanziare il sistema di monitoraggio.

È quanto prevede l'articolo 36 del dl 90/2014 (decreto p.a.), all'esame della camera, che interviene sulla disciplina del monitoraggio finanziario dei grandi lavori infrastrutturali (opere della ex legge Obiettivo), stabilendo che si seguano le modalità e le procedure, anche informatiche, individuate dalla delibera Cipe n. 145 del 2011 (che dovrà però essere aggiornata).
La disposizione stabilisce inoltre un obbligo per le stazioni appaltanti di adeguamento degli atti generali di propria competenza rispetto alle modalità di monitoraggio indicate nella delibera n. 45 del 2011 e ai suoi futuri aggiornamenti. Si prevede anche una opportuna disciplina transitoria per i contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto legge (25.06.2014), consentendo l'adeguamento delle modalità di controllo dei flussi finanziari di cui alla delibera 45/2011 entro sei mesi.
Come accennato, con una nuova delibera del Cipe saranno dettate le disposizioni di aggiornamento delle modalità di esercizio del sistema di monitoraggio finanziario contenute nella delibera n. 45/2011, allo scopo di dare attuazione alla norma e di recepire le indicazioni contenute nei decreti legislativi n. 228 e n. 229 del 2011 (sul monitoraggio ex ante ed ex post delle opere) e nella delibera del Cipe n. 124 del 2011.
Per l'implementazione del sistema di monitoraggio finanziario viene autorizzata una spesa di 1.321.000 euro per l'anno 2014 alla cui copertura si provvede con una quota del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell'usura. Agli oneri per la gestione ordinaria del sistema, che vengono quantificati dal governo in 617.000 euro annui, si provvederà invece con le risorse derivanti da una percentuale dell'importo dei contratti, nella misura dello 0,0006 per cento, che devono essere versate dai soggetti aggiudicatari annualmente e fino alla messa in esercizio degli interventi medesimi, a decorrere dall'anno 2014.
Il monitoraggio dei flussi finanziari delle grandi opere è previsto dall'articolo 161, comma 6-bis del codice dei contratti pubblici (con riguardo all'uso del sistema Siope-Sistema Informatico delle operazioni e degli enti pubblici) e l'articolo 176, comma 3, dello stesso codice rinvia al Cipe per i dettagli attuativi e operativi. La delibera n. 45 del 2011, fra i diversi oneri, stabilisce l'obbligo istituzionale di «conti correnti dedicati», da utilizzare per tutti gli incassi e i pagamenti relativi alla realizzazione dell'opera, l'obbligo di pagamento solo tramite bonifici elettronici Sepa (Single euro payments area) e l'obbligo, per i titolari dei suddetti conti dedicati, di richiedere alla propria banca di fornire un servizio di «esito» dei singoli pagamenti e di comunicare gli estratti conto all'ente che cura il monitoraggio.
Nella medesima delibera si precisa, inoltre, che le attività svolte e i risultati ottenuti sono stati utilizzati per l'elaborazione del «progetto Capaci» (Creating automated procedures against criminal infiltration in public contracts), che è stato cofinanziato dall'Unione europea e che la sperimentazione del monitoraggio finanziario prosegue in sede di attuazione del progetto Capaci, con l'obiettivo di mettere a punto alcuni applicativi informatici, tra cui in particolare quelli concernenti un sistema di warning automatico (articolo ItaliaOggi del 09.07.2014).

APPALTIGare con proroga. La centrale unica slitta al 2015. Pronto emendamento ad hoc. Due date per il rinvio.
Un emendamento al decreto sulla p.a. per rinviare l'obbligo di centralizzazione degli acquisti imposto ai comuni non capoluogo. Con due nuove scadenze: 01.01.2015 per i beni e i servizi e 30.06.2015 per i lavori.

È questa la soluzione al momento più gettonata per ovviare al caos creato dall'art. 9 del dl 66/2014, che, a decorrere dal 1° luglio scorso, ha imposto a tutti i comuni, tranne quelli capoluogo di provincia, di approvvigionarsi esclusivamente facendo ricorso a una centrale di committenza (da istituire all'interno delle unioni o mediante accordo consortile) ovvero a un soggetto aggregatore.
La norma, al momento, non fa sconti, avendo anche cancellato la deroga (introdotta dalla legge 147/2013) per gli acquisiti in economia o per importi inferiori a 40.000 euro.
Come denunciato dall'Anci, la maggior parte dei comuni non è pronta ad adeguarsi, anche perché, in base alla normativa previgente, l'obbligo riguardava solo quelli con meno di 5.000 abitanti. Per alcune categorie di lavori e servizi (si pensi alle manutenzioni edilizie o ai servizi sociali), non è neppure possibile fare ricorso a Consip, trattandosi di prodotti non standardizzabili.
Da qui la richiesta di una proroga, su cui fin da subito il governo si è dimostrato favorevole. Delle due soluzioni disponibili sul piano tecnico -ossia un emendamento a uno dei decreti legge in via di conversione oppure l'adozione di un nuovo provvedimento d'urgenza- al momento sembra favorita la prima. Il correttivo dovrebbe confluire nella legge di conversione del dl 90/2014 (quello sulla riforma della p.a., al momento all'esame della camera) e prevedere due scadenze differenziate per beni e servizi (01.01.2015) e per i lavori (30.06.2015).
Nelle more del perfezionamento della norma, comunque, l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (ora soppressa e incorporata nell'Autorità anticorruzione) sarebbe disponibile a rilasciare comunque il codice identificativo di gara (Cig), in deroga al divieto previsto dallo stesso dl 66.
Da più parti, inoltre, si sottolinea la necessità di chiarire anche la sorte degli acquisti di modesto valore, che in precedenza la giurisprudenza contabile riteneva esclusi dall'obbligo e che oggi sembrerebbero, invece, rientrarvi almeno in parte (con la sola esclusione dell'amministrazione diretta) (articolo ItaliaOggi dell'08.07.2014).

PUBBLICO IMPIEGOProvince, i dipendenti per ora non si spostano. Pubblico impiego. Slitta il ridisegno di attività e organici.
Avrebbe dovuto vedere la luce entro oggi la nuova geografia delle funzioni locali, chiamata anche a redistribuire fra Regioni e Comuni il personale impegnato nelle attività che le Province "leggere" dovrebbero abbandonare. I tre mesi dall'approvazione della riforma, pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» il 7 aprile scorso, sono passati senza nemmeno fissare in agenda un incontro con i sindacati, tappa necessaria per arrivare agli accordi sulla redistribuzione del personale, e i tempi si allungano.
I calendari elastici sono il classico effetto collaterale dell'ingorgo di decreti attuativi che accompagna il sovrapporsi delle leggi approvate, ma in questo caso l'incrocio è ancora più complesso. In gioco, infatti, c'è anche il decreto sulla Pubblica amministrazione, che fissa il principio della mobilità "libera" entro 50 chilometri dalla sede di prima assegnazione e sembra quindi aprire una via più facile per spostare i dipendenti: resta il fatto, però, che senza la riassegnazione delle funzioni su lavoro, ambiente e sugli altri settori che dovrebbero essere abbandonati dalle Province resta impossibile decidere dove e come trasferire i dipendenti.
Anche perché nel frattempo il clima dei rapporti con i sindacati si sta scaldando. Ieri Cgil, Cisl e Uil hanno annunciato una «mobilitazione generale del personale degli enti locali» perché le incertezze nel settore si intensificano.
Tra i cronoprogrammi saltati c'è, per esempio, anche quello previsto dal comitato temporaneo fra Governo ed enti locali che dovrebbe risolvere la grana dei contratti integrativi fuori regola, e che entro giugno avrebbe dovuto preparare una nuova circolare e una direttiva all'Aran nel tentativo di evitare il danno erariale per i dirigenti e le richieste di restituzione di soldi ai dipendenti.
Al momento non si è visto ancora nulla, anche perché la strada adatta a superare lo stallo che coinvolge Roma, Vicenza, Reggio Calabria e tanti altri Comuni (a Milano l'annuncio della Giunta di voler adeguare gli integrativi della Polizia locale ha originato una protesta per il 10 luglio, giorno dell'ultimo concerto di Vasco Rossi a San Siro) è quella di una revisione normativa.
Intanto per domani è in calendario a Roma la manifestazione dei segretari comunali contro l'addio ai diritti di rogito scritto nel decreto sulla Pa e la loro confluenza in un ruolo unico della dirigenza abbozzato dalla legge delega
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PATRIMONIOPer l'edilizia scolastica pagamenti liberi dal Patto. Enti locali. Firmati i decreti per sbloccare 404 interventi.
Il primo capitolo del piano governativo per l'edilizia scolastica diventa operativo: dopo il via libera dell'ufficio del bilancio di Palazzo Chigi sono stati infatti pubblicati due decreti del presidente del Consiglio che individuano gli sconti sul Patto di stabilità assegnati a 404 Comuni che nelle settimane scorse ne hanno fatto richiesta. Parte così uno dei tre filoni del programma per rinnovare le scuole, che secondo i progetti del Governo dovrebbe riguardare 20.845 edifici e mettere in campo 1,094 miliardi fra quest'anno e il prossimo.
I provvedimenti traducono in pratica una misura del decreto Irpef (articolo 48 del Dl 66/2014), che permette di non considerare nel Patto di stabilità una dote di 122 milioni di euro per quest'anno e altrettanti per l'anno prossimo da destinare ai pagamenti di investimenti nell'edilizia scolastica. I progetti da agevolare per questa via sono stati trovati con lo scambio di lettere avviato il 3 marzo scorso tra il presidente del consiglio e i sindaci, chiamati a segnalare i cantieri in corso o in programma, interamente finanziabili da risorse comunali ma ostacolati dai vincoli di finanza pubblica. Lo sblocco dei pagamenti sarà comunicato ufficialmente a ogni amministrazione dalla Ragioneria generale, secondo le procedure consuete del Patto di stabilità, ma in allegato ai due provvedimenti è già riportato l'elenco dei beneficiari con le somme liberate per ciascuno di loro.
Da questo punto di vista, la notizia più importante arriva a Paese, in provincia di Treviso, dove il via libera vale poco più di 3 milioni di euro: seguono i 2,5 milioni riconosciuti a Sorrento (Napoli) e i due milioni liberati a Cavallino Treporti (Venezia). Per il momento, le risorse escluse dalle regole ordinarie di finanza pubblica locale finiscono qui, ma il Governo assicura che con il prossimo Documento di economia e finanza saranno assegnati altri spazi finanziari: già in cantiere, del resto, c'è una riprogrammazione dei fondi Ue che dovrebbe portare nuovi aiuti alla scuola (si veda il servizio a pagina 2).
Proprio da un'operazione di questo tipo, del resto, sono già stati tratti i 510 milioni di euro individuati dal Cipe nella delibera del 30 giugno scorso, che ha formalizzato la decisione di reindirizzare all'edilizia scolastica risorse non utilizzate nell'ambito dei fondi di Sviluppo e Coesione. In questo caso gli interventi sono più piccoli ma più numerosi, perché una prima tranche, da 400 milioni, è destinata a finanziare 2.480 opere per la messa in sicurezza e l'agibilità delle scuole, con un valore medio da circa 160mila euro l'uno.
Questo pacchetto di opere nasce dal decreto «Fare» del Governo Letta, e gli enti locali hanno tempo fino al 30 ottobre per aggiudicare gli appalti e ottenere i finanziamenti. L'altra quota, da 110 milioni, sarà invece destinata al "rammendo", cioè a piccoli interventi di manutenzione e ripristino che dovrebbero riguardare 7.081 edifici. Altri 300 milioni, secondo i programmi di Palazzo Chigi, dovrebbero arrivare nel 2015
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAIn cortile i caricabatterie per auto elettriche. Energia verde. L'installazione delle «colonnine» con maggioranza semplificata.
Il Condominio diventa sempre più "Eco". Dal 1° giugno è diventato possibile installare nelle aree condominiali le cosiddette "colonnine" per la ricarica elettrica delle auto.
È questa una delle novità inserite nella legge 134/2012, che ha convertito, con modificazioni, il Dl 83/2012. L'articolo 17-quinquies, n. 2 e n. 3, dispone che «Fatto salvo il regime di cui all'articolo 1102 del codice civile, le opere edilizie per l'installazione delle infrastrutture di ricarica elettrica dei veicoli in edifici in condominio sono approvate dall'assemblea di condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dall'articolo 1136, secondo comma, del codice civile» e che «Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 2, il condomino interessato può installare, a proprie spese, i dispositivi di cui al citato comma 2, secondo le modalità ivi previste. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo comma, e 1121, terzo comma, del Codice civile».
L'intervento è inquadrabile tra le innovazioni "agevolate" perché, deroga ai quorum deliberativi previsti per le innovazioni, e richiama il quorum ordinario dell'articolo 1136, comma 2 (sia per la prima che per la seconda convocazione), ossia la maggioranza dei partecipanti all'assemblea ed almeno la metà del valore dell'edificio.
I limiti posti all'installazione sono quelli indicati nell'articolo 1120 del Codice civile, cioè che, con l'installazione, non vengano danneggiate le parti comuni o alterata la sicurezza o il decoro dell'edificio oppure ostacolato o compromesso l'uso delle parti comuni anche ad un solo condomino.
A fronte di una richiesta individuale di apposizione di una colonnina in un'area comune, l'amministratore è tenuto a convocare l'assemblea entro 30 giorni. Tale richiesta deve contenere l'indicazione del contenuto specifico e delle modalità di esecuzione dell'intervento proposto. In mancanza l'amministratore deve invitare senza indugio il condomino proponente a fornire le necessarie integrazioni.
Qualora però il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni, il condomino interessato può installare, a proprie spese, i dispositivi con possibilità, per i condomini che volessero avvalersi dell'impianto di ricarica in futuro, di poterlo utilizzare contribuendo alle spese di esecuzione e di manutenzione dell'opera (articolo 1121). In tal caso l'installazione rientra nella disciplina e nei limiti dell'articolo 1102, anche se tali limiti non escludono quelli dell'articolo 1120.
Tale "novità" relativa alla realizzazione di impianti di ricarica dei veicoli elettrici mediante l'installazione di colonnine adibite alla ricarica rientra nell'ambito di un progetto più ampio che coinvolge non solo i condomini ma anche i Comuni (molti dei quali hanno già aderito, come ad Bari, Roma, Bologna, Milano, Salerno, Treviso, Brindisi, Parma, Cagliari, Napoli, Firenze, Genova).
Si tratta di opere di urbanizzazione primaria realizzabili su tutto il territorio comunale in regime di esenzione dal contributo di costruzione.
Entro il 01.06.2014 i Comuni avrebbero dovuto adeguare i loro regolamenti edilizi. Decorso inutilmente il termine, le Regioni hanno la facoltà di annullare il permesso di costruire rilasciato in precedenza
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2014).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 37 del d.P.R. n. 380/2001, rubricato “Interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio attività e accertamento di conformità”, non contempla –a differenza dell’art. 36 dello stesso T.U. relativo alle opere realizzate in mancanza di permesso di costruire– alcuna forma di silenzio significativo.
Come affermato in fattispecie analoghe dalla giurisprudenza, il privato può dunque censurare la condotta omissiva dell'Amministrazione nelle forme del silenzio-inadempimento, atteso che nessun silenzio-significativo può ritenersi perfezionato.
Il procedimento disciplinato dal comma 4 dell'articolo 37, infatti, “non è suscettibile di definizione tacita, sia perché la norma, a differenza che per l'art. 36 del medesimo testo unico, non prevede esplicitamente una ipotesi di silenzio-significativo, sia perché la stessa stabilisce che il procedimento si chiuda con un provvedimento espresso, con il quale il responsabile del procedimento stabilisce la somma che il responsabile dell'abuso deve versare in relazione all'aumento di valore dell'immobile”.

... per l'annullamento del silenzio-rifiuto serbato dal comune di Capaccio in ordine all'istanza di accertamento di conformità relativa ad una struttura alberghiera sita in via s.s.18 loc. Cerro.
...
L’art. 37 del d.P.R. n. 380/2001, rubricato “Interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio attività e accertamento di conformità”, non contempla –a differenza dell’art. 36 dello stesso T.U. relativo alle opere realizzate in mancanza di permesso di costruire– alcuna forma di silenzio significativo.
Come affermato in fattispecie analoghe dalla giurisprudenza richiamata dallo stesso ricorrente, il privato può dunque censurare la condotta omissiva dell'Amministrazione nelle forme del silenzio-inadempimento, atteso che nessun silenzio-significativo può ritenersi perfezionato.
Il procedimento disciplinato dal comma 4 dell'articolo 37, infatti, “non è suscettibile di definizione tacita, sia perché la norma, a differenza che per l'art. 36 del medesimo testo unico, non prevede esplicitamente una ipotesi di silenzio-significativo, sia perché la stessa stabilisce che il procedimento si chiuda con un provvedimento espresso, con il quale il responsabile del procedimento stabilisce la somma che il responsabile dell'abuso deve versare in relazione all'aumento di valore dell'immobile” (TAR Campania Napoli, sez. VII, sent. n. 1145/2011).
Alla luce di quanto sopra considerato, in accoglimento delle istanze del ricorrente, devono pertanto essere dichiarati l’illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Capaccio e l’obbligo in capo allo stesso di provvedere sull’istanza del ricorrente, nel termine di cui in dispositivo, nominando un Commissario ad acta per il caso di ulteriore inerzia dell’Amministrazione (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 10.07.2014 n. 1259 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di diniego del permesso di costruire determina una contrazione del ius aedificandi e, quindi –pur essendo il risultato di un’attività vincolata, consistente nella verifica della conformità o meno dell’intervento edilizio proposto rispetto alla disciplina dettata dalla legge e dagli strumenti urbanistici– necessita di una completa e circostanziata motivazione, esplicativa delle reali ragioni ostative al rilascio del titolo abilitativo, dovendosi consentire all’interessato di tutelarsi in sede giurisdizionale ovvero di superare, laddove possibile, le ragioni ostative addotte dall’amministrazione mediante una modifica del progetto originariamente elaborato.
In giurisprudenza, cfr. la decisione del TAR Campania Napoli, Sez. VIII, n. 2438 del 2009, nella cui parte motiva è dato, in particolare, leggere: “Al riguardo, giova rammentare che il provvedimento di diniego del permesso di costruire determina una contrazione del ius aedificandi e, quindi –pur essendo il risultato di un’attività vincolata, consistente nella verifica della conformità o meno dell’intervento edilizio proposto rispetto alla disciplina dettata dalla legge e dagli strumenti urbanistici– necessita di una completa e circostanziata motivazione, esplicativa delle reali ragioni ostative al rilascio del titolo abilitativo, dovendosi consentire all’interessato di tutelarsi in sede giurisdizionale ovvero di superare, laddove possibile, le ragioni ostative addotte dall’amministrazione mediante una modifica del progetto originariamente elaborato (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 26.09.2006, n. 4655; 18.10.2006, n. 4981; 10.09.2007, n. 3149; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 20.11.2006, n. 9983; sez. VI, 12.03.2007, n. 1789)” (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 10.07.2014 n. 1257 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: - “Ai sensi dell’art. 2, l. 07.08.1990 n. 241 il procedimento amministrativo va concluso, anche con un atto sfavorevole per il richiedente, in quanto nel nostro ordinamento è considerato diritto fondamentale del cittadino sapere se una sua istanza rivolta alla Pubblica amministrazione merita o non accoglimento; l’obbligo in questione non sussiste solo nei casi di silenzio assenso o di silenzio rigetto, di meccanismi di semplificazione della d.i.a. o della s.c.i.a., di manifesta infondatezza della domanda o mera reiterazione di istanze già evase dall’Amministrazione con provvedimenti espressi <e di istanze volte a sollecitare l’esercizio del potere di autotutela>”;
- “Il meccanismo del silenzio, nel rito speciale disciplinato dall’art. 117 c. p. a., come quello in esame, è diretto ad accertare se l’inerzia serbata dalla P. A. in ordine all’istanza del privato vanti o meno l’obbligo di adottare il provvedimento esplicito richiesto con l’istanza stessa e sussiste in tale contesto l’obbligo di provvedere in quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni di quest’ultima.
Pertanto, l’Amministrazione non ha l’obbligo di pronunciarsi su un’istanza finalizzata ad ottenere un provvedimento in via di autotutela: l’attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell’atto amministrativo mediante l’istituto del silenzio rifiuto non è infatti coercibile “ab extra”, costituendo l’esercizio del potere di autotutela facoltà ampiamente discrezionale della P. A., in quanto il potere di autotutela si esercita d’ufficio e non su istanza di parte, avente valore di mera sollecitazione per la quale non c’è obbligo giuridico di provvedere”;
- “Non sussiste la possibilità di fare ricorso alla procedura del silenzio rifiuto allo scopo di provocare il ricorso dell’Amministrazione all’autotutela; tale divieto trova il proprio fondamento nell’esigenza di evitare il superamento della regola della necessaria impugnazione dell’atto amministrativo nel termine di decadenza.
Siffatto éscamotage presuppone, in definitiva, una sequenza procedimentale in cui sussista un provvedimento non impugnato, e l’intrapresa della procedura del silenzio rifiuto allo scopo di provocare l’adozione di un secondo provvedimento, volto a mettere nel nulla quello non tempestivamente impugnato; la richiesta dei privati, rivolta all’Amministrazione, di esercizio dell’autotutela, è una mera denuncia, con funzione sollecitatoria, ma non fa sorgere in capo all’Amministrazione stessa alcun obbligo di provvedere”.

Dalla lettura della nota dell’11.10.2012, si verifica che la stessa aveva, in pratica, lo stesso oggetto della precedente, sostanziandosi, anch’essa, in una richiesta di rettifica del punteggio di cui sopra.
Trattandosi, quindi, sia nel primo sia nel secondo caso, di istanze dirette a stimolare l’esercizio, da parte del Presidente del Corecom Campania, dei propri poteri di rettificare, in autotutela, la graduatoria già pubblicata, e rimasta inoppugnata, nessun obbligo di provvedere poteva dirsi sussistere, in capo all’Amministrazione, e tanto conformemente all’orientamento pacificamente espresso dalla giurisprudenza in materia, di cui sono testimonianza, da ultimo, le seguenti decisioni:
- “Ai sensi dell’art. 2, l. 07.08.1990 n. 241 il procedimento amministrativo va concluso, anche con un atto sfavorevole per il richiedente, in quanto nel nostro ordinamento è considerato diritto fondamentale del cittadino sapere se una sua istanza rivolta alla Pubblica amministrazione merita o non accoglimento; l’obbligo in questione non sussiste solo nei casi di silenzio assenso o di silenzio rigetto, di meccanismi di semplificazione della d.i.a. o della s.c.i.a., di manifesta infondatezza della domanda o mera reiterazione di istanze già evase dall’Amministrazione con provvedimenti espressi <e di istanze volte a sollecitare l’esercizio del potere di autotutela>” (TAR Marche, Sez. I, 21/03/2014, n. 369);
- “Il meccanismo del silenzio, nel rito speciale disciplinato dall’art. 117 c. p. a., come quello in esame, è diretto ad accertare se l’inerzia serbata dalla P. A. in ordine all’istanza del privato vanti o meno l’obbligo di adottare il provvedimento esplicito richiesto con l’istanza stessa e sussiste in tale contesto l’obbligo di provvedere in quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni di quest’ultima. Pertanto, l’Amministrazione non ha l’obbligo di pronunciarsi su un’istanza finalizzata ad ottenere un provvedimento in via di autotutela: l’attivazione del procedimento di riesame della legittimità dell’atto amministrativo mediante l’istituto del silenzio rifiuto non è infatti coercibile “ab extra”, costituendo l’esercizio del potere di autotutela facoltà ampiamente discrezionale della P. A., in quanto il potere di autotutela si esercita d’ufficio e non su istanza di parte, avente valore di mera sollecitazione per la quale non c’è obbligo giuridico di provvedere” (TAR Roma (Lazio), Sez. II, 02/10/2013, n. 8543);
- “Non sussiste la possibilità di fare ricorso alla procedura del silenzio rifiuto allo scopo di provocare il ricorso dell’Amministrazione all’autotutela; tale divieto trova il proprio fondamento nell’esigenza di evitare il superamento della regola della necessaria impugnazione dell’atto amministrativo nel termine di decadenza. Siffatto éscamotage presuppone, in definitiva, una sequenza procedimentale in cui sussista un provvedimento non impugnato, e l’intrapresa della procedura del silenzio rifiuto allo scopo di provocare l’adozione di un secondo provvedimento, volto a mettere nel nulla quello non tempestivamente impugnato; la richiesta dei privati, rivolta all’Amministrazione, di esercizio dell’autotutela, è una mera denuncia, con funzione sollecitatoria, ma non fa sorgere in capo all’Amministrazione stessa alcun obbligo di provvedere” (Consiglio di Stato, Sez. V, 03/05/2012, n. 2549) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 10.07.2014 n. 1252 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAnche un mancato versamento dei contributi mette fuori gara.
Anche per un mancato versamento di soli 278 euro di contributi si può legittimamente essere esclusi da un appalto pubblico.

È quanto afferma la sentenza 10.07.2014 (causa C-358/12) della X Sez. della Corte di giustizia europea dichiarando compatibile con il Trattato Ue la disciplina italiana che consente di escludere anche chi ha commesso una violazione superiore a 100 euro.
La vicenda riguardava una gara per l'affidamento di un appalto di lavori di manutenzione straordinaria, da aggiudicare al massimo ribasso, di importo inferiore alla soglia comunitaria dei cinque milioni di euro. Un concorrente aveva dichiarato di «non avere commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali», secondo quanto previsto dall'articolo 38, comma 1, lettera i), del codice dei contratti pubblici.
In sede di verifica del Durc la stazione appaltante accertava invece che il concorrente, aggiudicatario della gara, aveva omesso di effettuare, entro il termine richiesto, i versamenti relativi al mese di maggio 2011, di importo pari a 278 euro e corrispondenti alla totalità dei versamenti contributivi dovuti per tale mese. In considerazione dell'infrazione la stazione appaltante annullava l'aggiudicazione, ancorché fosse stato effettuato il tardivo versamento.
A seguito dell'impugnativa dell'impresa, il Tar Lombardia proponeva questione pregiudiziale alla corte Ue per sapere se fosse coerente con il principio di proporzionalità la disciplina italiana che (dm lavoro del 24.10.2007) considera «grave» lo scostamento pari o superiore al 5% tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione o, comunque, uno scostamento superiore a 100 euro. La corte europea, dopo avere in termini generali affermato che l'applicazione di una disposizione come quella prevista dal codice potrebbe essere tale da ostacolare la partecipazione più ampia possibile di offerenti alle procedure di aggiudicazione, precisa che «una restrizione siffatta può essere giustificata qualora essa persegua un obiettivo legittimo di interesse pubblico e purché rispetti il principio di proporzionalità».
Sotto il primo profilo i giudici europei considerano che accertarsi dell'affidabilità, della diligenza e della serietà dell'offerente nonché della correttezza del suo comportamento nei confronti dei suoi dipendenti, «costituisca un obiettivo legittimo di interesse generale». Sotto il secondo profilo, i parametri previsti per la «gravità» della violazione «garantiscono non solo la parità di trattamento degli offerenti ma anche la certezza del diritto, principio il cui rispetto costituisce una condizione della proporzionalità di una misura restrittiva».
Per cui anche 101 euro di violazione legittimano l'esclusione dalla gara. Ciò vale sotto soglia (rispetto al Trattato), ma anche sopra soglia sarebbe lo stesso perché, dice la sentenza, gli stati membri hanno la facoltà di applicare le norme europee con un grado di rigore che potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello nazionale (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: L'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad esso, per cui il Comune, stante l'efficacia conformativa della sentenza del giudice amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato adottando i provvedimenti consequenziali.
Tali provvedimenti non devono, peraltro, avere ad oggetto necessariamente la demolizione delle opere realizzate, l'art. 38, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, prescrivendo, in caso di annullamento del permesso di costruire, una nuova valutazione da parte del dirigente del competente ufficio comunale riguardo la possibilità di restituzione in pristino; qualora la demolizione non risulti possibile, il Comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini fissati dallo stesso art. 38, D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Dalla previsione di cui all'art. 38 del DPR 380/2001, che prevede, come sopra rilevato, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative in caso di permesso di costruire annullato in via giurisdizionale, non deriva un generale divieto di rinnovazione dei permessi di costruire annullati in sede giurisdizionale per vizi di carattere sostanziale.
La norma non implica, invero, alcun generale divieto di rinnovazione dei permessi di costruire annullati in sede giurisdizionale per vizi di carattere sostanziale.
Non può ritenersi, pertanto, che la concessione edilizia in sanatoria sarebbe ammissibile solo in caso di annullamento della prima per motivi procedurali o formali, rimanendone, conseguentemente, esclusa la legittimità in ordine all'annullamento dell'originaria concessione per motivi sostanziali di contrarietà allo strumento urbanistico.
A ciò va aggiunto che l'affidamento del privato a poter conservare l'opera realizzata sulla base di un titolo edilizio successivamente annullato non é tutelato in via generale, ma é rimesso alla discrezionalità del legislatore, al quale compete emanare norme speciali di tutela come la potenziale commutabilità della sanzione demolitoria in quella pecuniaria (da cui la disciplina dell’art. 38 d.P.R. n. 380 del 2001), ovvero un regime di favore in sede di condono edilizio, come avvenuto con l'art. 39, l. n. 724 del 1994.

Il D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) all’art. 38 disciplina gli interventi eseguiti in base a permesso annullato disponendo che “1. In caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'Agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia è notificata all'interessato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa.
2. L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36.
2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma 3, in caso di accertamento dell'inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo
”.
In applicazione di detta disposizione la giurisprudenza (Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 3571 del 13.06.2011) ha affermato il principio che l'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad esso, per cui il Comune, stante l'efficacia conformativa della sentenza del giudice amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato adottando i provvedimenti consequenziali.
Tali provvedimenti non devono, peraltro, avere ad oggetto necessariamente la demolizione delle opere realizzate, l'art. 38, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, prescrivendo, in caso di annullamento del permesso di costruire, una nuova valutazione da parte del dirigente del competente ufficio comunale riguardo la possibilità di restituzione in pristino; qualora la demolizione non risulti possibile, il Comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini fissati dallo stesso art. 38, D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Dalla previsione di cui all'art. 38 del DPR 380/2001, che prevede, come sopra rilevato, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative in caso di permesso di costruire annullato in via giurisdizionale, non deriva un generale divieto di rinnovazione dei permessi di costruire annullati in sede giurisdizionale per vizi di carattere sostanziale.
La norma non implica, invero, alcun generale divieto di rinnovazione dei permessi di costruire annullati in sede giurisdizionale per vizi di carattere sostanziale.
Non può ritenersi, pertanto, che la concessione edilizia in sanatoria sarebbe ammissibile solo in caso di annullamento della prima per motivi procedurali o formali, rimanendone, conseguentemente, esclusa la legittimità in ordine all'annullamento dell'originaria concessione per motivi sostanziali di contrarietà allo strumento urbanistico (Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 7731 del 02.11.2010).
A ciò va aggiunto che l'affidamento del privato a poter conservare l'opera realizzata sulla base di un titolo edilizio successivamente annullato non é tutelato in via generale, ma é rimesso alla discrezionalità del legislatore, al quale compete emanare norme speciali di tutela come la potenziale commutabilità della sanzione demolitoria in quella pecuniaria (da cui la disciplina dell’art. 38 d.P.R. n. 380 del 2001), ovvero un regime di favore in sede di condono edilizio, come avvenuto con l'art. 39, l. n. 724 del 1994 (Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 4770 del 10.08.2011) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 08.07.2014 n. 1171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'insussistenza dell'obbligo del concorrente che dichiari di voler avvalersi del subappalto per alcune specifiche lavorazioni di indicare già in sede di presentazione dell'offerta il nominativo dell'impresa subappaltrice.
Dal combinato disposto degli artt. 37, c. 11, e 118, c. 2, del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, e 92 del D.P.R. 05.10.2010, n. 207, non si evince espressamente l'esistenza dell'obbligo del concorrente, che dichiari di voler avvalersi del subappalto per alcune specifiche lavorazioni, di indicare già in sede di presentazione dell'offerta il nominativo dell'impresa subappaltrice. L'affidamento in subappalto (o in cottimo), come espressamente stabilito dal ricordato art. 118, è infatti sottoposto alle seguenti condizioni:
a) che i concorrenti all'atto dell'offerta o l'affidatario, nel caso di varianti in corso di esecuzione, abbiano indicato i lavori o le parti di opere che intendono subappaltare (o concedere in cottimo);
b) che l'affidatario provveda al deposito del contratto di subappalto presso la stazione appaltante almeno venti giorni prima della data di effettivo inizio dell'esecuzione delle relative prestazioni;
c) che al momento del deposito del contratto di subappalto presso la stazione appaltante l'affidatario trasmetta altresì la certificazione attestante il possesso da parte del subappaltatore dei requisiti di qualificazione richiesti dal presente codice in relazione alla prestazione subappaltata e la dichiarazione del subappaltatore attestante il possesso dei requisiti generali di cui all'art. 38;
d) che non sussista, nei confronti dell'affidatario del subappaltato (o del cottimo), alcuno dei divieti previsti dall'art. 10 della l. 31.05.1965, n. 575, e successive modificazioni.
Del resto, va rimarcata la netta diversità del subappalto rispetto a quella contenuta nella l. 11.02.1994, n. 109, che imponeva fin dal momento della formulazione dell'offerta l'indicazione del nominato dell'impresa subappaltatrice (previsione peraltro soppressa già dall'art. 9 della l.n. 415 del 1998). Né in senso diverso può invocarsi l'applicazione nel caso di specie del principio del c.d. subappalto necessario, elaborato dalla giurisprudenza, secondo cui la indicazione dell'impresa subappaltatrice già all'atto della presentazione dell'offerta (e la dimostrazione del possesso da parte dell'impresa subappaltatrice dei requisiti di qualificazione) sarebbe necessaria nelle ipotesi in cui il richiamo al subappalto sarebbe necessario in ragione del mancato autonomo possesso, da parte del concorrente, dei necessari requisiti di qualificazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.07.2014 n. 3449 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche.
L'art. 133, c. 1, lett. b) ed f), del c.p.a., in tema di rapporti di concessione di beni pubblici ed in materia urbanistico-edilizia e di uso del territorio (incluso il fenomeno espropriativo), ha salvaguardato la giurisdizione del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, regolata dalla previgente normativa, di cui all'art. 143, c. 1, lett. a), del r.d. n. 1775/1933.
Tale giurisdizione va estesa anche ai provvedimenti che, pur se promananti da autorità diverse da quelle specificamente preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche e concorrano, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere idrauliche, ivi compresi pure i provvedimenti espropriativi o di occupazione d'urgenza delle aree occorrenti per la realizzazione dell'opera idraulica, oltre agli atti comunque influenti sulla sua localizzazione sul suo spostamento.
Tale principio rileva indipendentemente dalla ragione che abbia determinato l'adozione di detti provvedimenti, quindi anche se non connessi al regime delle acque e quindi anche se resi necessari dalla tutela dell'ambiente o di un bene artistico o da valutazioni tecniche in funzione della salvaguardia dell'incolumità pubblica o ancora da mere ragioni di opportunità amministrativa.
Pertanto può affermarsi che, mentre esulano dalla giurisdizione del Tribunale delle Acque delle Acque Pubbliche (e rientrano in quella del g.a.) i provvedimenti incidenti sulla materia e sul regime delle acque pubbliche in via meramente strumentale ed indiretta, vi rientrino i provvedimenti di approvazione del progetto definitivo per la realizzazione di una centrale idroelettrica, previa V.I.A., gli atti concernenti la costituzione di una servitù coattiva, mediante procedura espropriativa, per il passaggio della condotta necessaria per la realizzazione dell'opera, nonché il relativo permesso di costruzione, atti tutti incidenti in maniera diretta ed immediata sul regime delle acque pubbliche.
In particolare è stata ritenuta la sussistenza della giurisdizione del Tribunale Superiore in caso di impugnativa di provvedimenti influenti sulla localizzazione dell'opera idraulica o sul suo spostamento, nonché sulla definizione delle sue caratteristiche e sulla sua realizzazione, nonché sui provvedimenti di occupazione ed espropriazione di opere necessarie per realizzare la condotta idraulica relativa alla costruzione di una centrale idroelettrica contestata dal titolare del fondo ove era previsto il transito interrato di una nuova condotta di adduzione finalizzata alla canalizzazione delle acque per il successivo sfruttamento idroelettrico.
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Sussiste la giurisdizione di legittimità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, a norma dell'art. 143, c. 1, lett. a), del r.d. n. 1775 del 1933, oltre che con riguardo alle questioni investenti gli interessi pubblici connessi al regime delle acque strettamente inteso (demanialità delle acque, contenuto o limiti di una concessione di utenza, nonché questioni di carattere eminentemente tecnico relative alla distribuzione ed all'uso delle acque pubbliche ed ai diritti di derivazione o utilizzazione dell'utenza nei confronti della P.A.), ogni volta che siano impugnati provvedimenti amministrativi caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a stabilire o modificare la localizzazione di esse o ad influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimenti.
Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato la sussistenza della giurisdizione di legittimità del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche sui ricorsi avverso i provvedimenti in materia di acque pubbliche, "allorquando i provvedimenti impugnati incidono direttamente ed immediatamente sulla materia delle acque, concorrendo in concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere idrauliche, i rapporti con i concessionari ovvero a determinare i modi di acquisto dei beni necessari all'esercizio e/o alla realizzazione delle opere stesse o a stabilirne e/o a modificare la localizzazione di esse o influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o revoca dei relativi provvedimento...Non rientrano, per contro, in tale speciale competenza giurisdizionale le controversie che hanno per oggetto atti solo strumentalmente inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime delle acque" (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.07.2014 n. 3436 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per pacifica giurisprudenza, il vincolo cimiteriale determina una tipica situazione di inedificabilità ex lege, suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque per considerazioni di interesse pubblico.
Quanto sopra, in presenza delle condizioni specificate nel comma 4 dell’art. 338, non anche per agevolare singoli proprietari, che abbiano effettuato abusivamente, o intendano effettuare, interventi edilizi su un’area, resa a tal fine indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la peculiare sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura, senza esclusione di ulteriori esigenze di mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
L’unico procedimento, attivabile dai singoli proprietari all’interno della fascia di rispetto, pertanto, è quello finalizzato agli interventi di cui all’art. 338, comma 7, dello stesso r.d. n. 1265/1934 (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti), restando attivabile solo d’ufficio –per i motivi anzidetti– la procedura di riduzione della fascia inedificabile in questione.
Fermo restando, quindi, che solo il Consiglio Comunale –non su istanza di singoli cittadini, ma per ragioni di interesse pubblico– può intervenire per ridurre l’ampiezza di detta fascia, per le decisioni da assumere su eventuali istanze di autorizzazione edilizia, anche in sanatoria, vale il riparto generale di competenze, che assegna ai dirigenti gli ordinari atti di gestione (come peraltro ribadito, in materia di sanatoria, dal terzo comma del citato art. 36 d.P.R. n. 380/2001).

In base al citato art. 338, comma 4, r.d. n. 1265/1934, infatti, “Il Consiglio Comunale può approvare, previo parere favorevole delle competete azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o l’ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri, quando ricorrano, anche alternativamente, le seguenti condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per particolari condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti;
b) l’impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della classificazione prevista ai sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari
”.
La norma sopra riportata ha carattere derogatorio, in via eccezionale, rispetto alla regola –enunciata al primo comma del medesimo articolo– secondo cui “I cimiteri debbono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. E’ vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici…”.
Per pacifica giurisprudenza, il vincolo cimiteriale determina quindi una tipica situazione di inedificabilità ex lege, suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque per considerazioni di interesse pubblico. Quanto sopra, in presenza delle condizioni specificate nel ricordato comma 4 dell’art. 338, non anche per agevolare singoli proprietari, che abbiano effettuato abusivamente, o intendano effettuare, interventi edilizi su un’area, resa a tal fine indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la peculiare sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura, senza esclusione di ulteriori esigenze di mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale (cfr. Cass. civ. sez. I, 23.06.2004, n. 11669; Cons. St., sez. II, 07.03.1990, parere n. 1109; Cons. St., sez. IV, 11.10.2006, n. 6064; Cons. St., sez. V, 02.04.1991, n. 379, 29.03.2006, n. 1593, 03.05.2007, n. 1934 e 14.09.2010, n. 6671).
L’unico procedimento, attivabile dai singoli proprietari all’interno della fascia di rispetto, pertanto, è quello finalizzato agli interventi di cui all’art. 338, comma 7, dello stesso r.d. n. 1265/1934 (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti), restando attivabile solo d’ufficio –per i motivi anzidetti– la procedura di riduzione della fascia inedificabile in questione.
Fermo restando, quindi, che solo il Consiglio Comunale –non su istanza di singoli cittadini, ma per ragioni di interesse pubblico– può intervenire per ridurre l’ampiezza di detta fascia, per le decisioni da assumere su eventuali istanze di autorizzazione edilizia, anche in sanatoria, vale il riparto generale di competenze, che assegna ai dirigenti gli ordinari atti di gestione (come peraltro ribadito, in materia di sanatoria, dal terzo comma del citato art. 36 d.P.R. n. 380/2001) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.07.2014 n. 3410 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sfugge al Collegio un orientamento secondo cui la realizzazione di muri di cinta di altezza inferiore a tre metri (articolo 878 del Codice civile) sarebbe in ogni caso assoggettabile al solo regime della denuncia di inizio di attività di cui all’articolo 22 e, in seguito, al regime della segnalazione certificata di inizio di attività di cui al nuovo articolo 19 della l. n. 241 del 1990.
Il Collegio, tuttavia, osserva anzitutto che la norma di cui all’art. 878 del Codice civile attiene ai rapporti interprivati nelle costruzioni (non di cognizione del giudice amministrativo), mentre qui si tratta di identificare il tipo di titolo edilizio in rapporto all’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio; e ritiene che prevalenti ragioni sistematiche inducano a coniugare il richiamato orientamento con quello secondo cui la configurabilità di un intervento edilizio quale ‘nuova costruzione’ (con quanto ne consegue ai fini del previo rilascio dei necessari titoli abilitativi) debba essere valutata secondo un’ottica sostanziale, avendo prioritario riguardo all’effettiva idoneità del singolo intervento a determinare significative trasformazioni urbanistiche e edilizie del territorio.
In particolare, indipendentemente dal dato meramente quantitativo relativo all’altezza del manufatto (nel caso di specie l’appellante riferisce un’altezza al colmo pari a 1,70 mt.), appare necessario il permesso di costruire nelle ipotesi in cui il singolo intervento determini un’incidenza sull’assetto complessivo del territorio di entità ed impatto tali da produrre un’apprezzabile trasformazione urbanistica o edilizia.
Si tratta di un’evenienza che ricorre nel caso in esame, dal momento che –come condivisibilmente osservato dal primo giudice– il muro di cinta qui non assume una mera funzione di difesa della proprietà da ingerenze materiali, vale a dire una funzione strumentale all’esercizio del ius excludendi alios (il che sarebbe stato possibile anche attraverso la realizzazione di una semplice cancellata), ma dà luogo a una significativa e permanente trasformazione territoriale attraverso un consistente manufatto caratterizzato da un rilevante ingombro visivo e spaziale, incidente sul deflusso delle acque e condizionante il passaggio dell’aria, di per sé non indispensabile in relazione alla dichiarata funzione di semplice protezione della proprietà.
Sotto questo aspetto, deve essere qui puntualmente confermato l’orientamento secondo cui se è vero che la realizzazione di recinzioni, muri di cinta e cancellate rimane assoggettata al regime della d.i.a. (in seguito: s.c.i.a.) laddove non superi in concreto la soglia della trasformazione urbanistico-edilizia, occorre –invece- il permesso di costruire, ove detti interventi superino (come nel caso in esame) tale soglia.

2. L’appello è infondato.
2.1. Risulta dirimente ai fini della presente decisione stabilire se l’intervento edilizio rientrasse fra quelli di nuova costruzione (di cui agli articoli 3, comma 1, lettera e) e 10 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) per i quali è richiesto il rilascio del permesso di costruire ovvero fra quelli per i quali è richiesta unicamente la denuncia di inizio di attività di cui all’articolo 22 del medesimo d.P.R. n. 380 del 2001 (in seguito: segnalazione certificata di inizio di attività ai sensi dell’articolo 19 della l. 07.08.1990, n. 241, nel testo introdotto dal comma 4-bis dell’articolo 49 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, come convertito con modificazioni dalla l. 30.07.2010, n. 122).
Al riguardo non sfugge al Collegio un orientamento secondo cui la realizzazione di muri di cinta di altezza inferiore a tre metri (articolo 878 del Codice civile) sarebbe in ogni caso assoggettabile al solo regime della denuncia di inizio di attività di cui all’articolo 22 e, in seguito, al regime della segnalazione certificata di inizio di attività di cui al nuovo articolo 19 della l. n. 241 del 1990 (in tal senso: Cons. Stato, IV, 03.05.2011, n. 2621).
Il Collegio, tuttavia, osserva anzitutto che la norma di cui all’art. 878 del Codice civile attiene ai rapporti interprivati nelle costruzioni (non di cognizione del giudice amministrativo), mentre qui si tratta di identificare il tipo di titolo edilizio in rapporto all’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio; e ritiene che prevalenti ragioni sistematiche inducano a coniugare il richiamato orientamento con quello secondo cui la configurabilità di un intervento edilizio quale ‘nuova costruzione’ (con quanto ne consegue ai fini del previo rilascio dei necessari titoli abilitativi) debba essere valutata secondo un’ottica sostanziale, avendo prioritario riguardo all’effettiva idoneità del singolo intervento a determinare significative trasformazioni urbanistiche e edilizie del territorio.
In particolare, indipendentemente dal dato meramente quantitativo relativo all’altezza del manufatto (nel caso di specie l’appellante riferisce un’altezza al colmo pari a 1,70 mt.), appare necessario il permesso di costruire nelle ipotesi in cui il singolo intervento determini un’incidenza sull’assetto complessivo del territorio di entità ed impatto tali da produrre un’apprezzabile trasformazione urbanistica o edilizia.
Si tratta di un’evenienza che ricorre nel caso in esame, dal momento che –come condivisibilmente osservato dal primo giudice– il muro di cinta qui non assume una mera funzione di difesa della proprietà da ingerenze materiali, vale a dire una funzione strumentale all’esercizio del ius excludendi alios (il che sarebbe stato possibile anche attraverso la realizzazione di una semplice cancellata), ma dà luogo a una significativa e permanente trasformazione territoriale attraverso un consistente manufatto caratterizzato da un rilevante ingombro visivo e spaziale, incidente sul deflusso delle acque e condizionante il passaggio dell’aria, di per sé non indispensabile in relazione alla dichiarata funzione di semplice protezione della proprietà.
Sotto questo aspetto, deve essere qui puntualmente confermato l’orientamento secondo cui se è vero che la realizzazione di recinzioni, muri di cinta e cancellate rimane assoggettata al regime della d.i.a. (in seguito: s.c.i.a.) laddove non superi in concreto la soglia della trasformazione urbanistico-edilizia, occorre –invece- il permesso di costruire, ove detti interventi superino (come nel caso in esame) tale soglia.
Si aggiunga al riguardo che l’impatto quali-quantitativo sortito dal manufatto in parola risulta tanto più rilevante laddove si osservi che è posto su un’affollata zona litoranea sul cui complessivo equilibrio il manufatto in questione incide in senso certamente sensibile.
2.1.2. Né può in alcun modo essere condivisa la tesi dell’appellante il quale sottolinea che l’intervento in questione si sarebbe limitato al mero ripristino di una porzione di muro già esistente già al momento dell’acquisto dell’area (e successivamente crollato), nonché a una modesta sopraelevazione della recinzione sul lato nord e ovest.
In particolare, anche ad ammettere in punto di fatto la circostanza per cui l’appellante avrebbe realizzato la mera ricostruzione di un muro in larga parte già esistente, ciò non esclude la configurabilità dell’intervento in questione quale ‘nuova costruzione’ ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera e) del d.P.R. n. 380 del 2001., sussistendone tutti relativi presupposti.
In particolare, le opere realizzate dall’odierno appellante, in quanto sostitutive di interventi edilizi mai in precedenza assistiti da alcun titolo abilitativo, erano da qualificarsi comunque quali interventi di ‘nuova costruzione’, irrilevante essendo –ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile- il dato solo materiale relativo alla preesistenza fisica delle opere
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.07.2014 n. 3408 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PATRIMONIO: La sdemanializzazione di un bene pubblico, quando non derivi da un provvedimento espresso, deve risultare da altri atti o comportamenti univoci da parte dell’amministrazione proprietaria i quali siano concludenti e incompatibili con la volontà di quest'ultima di conservare la destinazione del bene stesso all’uso pubblico, oppure da circostanze tali da rendere non configurabile un'ipotesi diversa dalla definitiva rinuncia al ripristino della funzione pubblica del bene.
Ne consegue che la sdemanializzazione non si può desumere dal mero fatto che il bene non sia più adibito, per un certo tempo a detto uso.

In ogni caso il Collegio ritiene che nel caso in esame debba essere richiamato l’orientamento secondo cui la sdemanializzazione di un bene pubblico, quando non derivi da un provvedimento espresso, deve risultare da altri atti o comportamenti univoci da parte dell’amministrazione proprietaria i quali siano concludenti e incompatibili con la volontà di quest'ultima di conservare la destinazione del bene stesso all’uso pubblico, oppure da circostanze tali da rendere non configurabile un'ipotesi diversa dalla definitiva rinuncia al ripristino della funzione pubblica del bene. Ne consegue che la sdemanializzazione non si può desumere dal mero fatto che il bene non sia più adibito, per un certo tempo a detto uso (in tal senso: Cons. Stato, IV, 14.12.2002, n. 6923) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.07.2014 n. 3408 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall'art. 146, comma 5,…il potere della Soprintendenza continua a sussistere.
La perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l'obbligo di concludere la fase del procedimento.

2. Sulla tardività del parere della Soprintendenza:
Neppure può trovare accoglimento la censura di tardività del parere. Come già più volte ribadito da questo Tribunale, non vi è infatti nell’invocato articolo 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio alcuna espressa comminatoria di decadenza della Soprintendenza dall’esercizio del relativo potere, decorso il termine ivi previsto. In tal senso si è espresso anche il Consiglio di Stato: “nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall'art. 146, comma 5,…il potere della Soprintendenza continua a sussistere”, “la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l'obbligo di concludere la fase del procedimento” (sezione VI, sentenza n. 4914/2013) (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 04.07.2014 n. 1195 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'illegittimità della clausola di un bando di gara che prevede la certificazione sin dal momento della presentazione della domanda a pena di esclusione, esulando tale prescrizione dall'art. 46, c. 1-bis, d.lgs. 163/2006.
In materia di servizi e forniture, nell'assenza di un sistema accreditato di qualificazione (che, viceversa, per gli appalti di lavori pubblici è rimesso alle SOA, cui compete anche l'attestazione del possesso della certificazione di qualità aziendale), l'art. 43, d.lgs. n. 163 del 2006, stabilisce che le stazioni appaltanti, qualora richiedano la presentazione di certificazione di qualità aziendale rilasciata da organismi indipendenti, fanno riferimento ai sistemi di assicurazione della qualità basati su una serie di norme europee in materia e certificati di organismi conformi alle norme europee relative alla certificazione; in ogni caso, le stazioni appaltanti riconoscono i certificati equivalenti rilasciati da organismi stabiliti in altri Stati membri ed ammettono parimenti altre prove relative all'impiego di misure equivalenti di garanzia della qualità prodotte dagli operatori economici.
Si tratta di una norma che, nell'ammettere la produzione in gara di "certificati equivalenti" e di "altre prove relative all'impiego di misure equivalenti di garanzia", codifica principi di carattere generale, essendo finalizzata a favorire la più ampia partecipazione degli operatori economici alla gare pubbliche in condizioni di parità e di non discriminazione, oltre che a garantire la ragionevolezza e la proporzionalità dei requisiti soggettivi di partecipazione.
Ciò determina la conseguenza che, pur essendo il possesso del requisito elemento essenziale, è illegittima la clausola che ne prevede la certificazione sin dal momento della presentazione della domanda a pena di esclusione, esulando tale prescrizione in via escludente dagli elementi indicati dall'art. 46, c. 1-bis, d.lgs. 163/2006 che ha introdotto il principio della tassatività delle clausole di esclusione, limitando la discrezionalità delle stazioni appaltanti in tal senso. La tassatività delle ipotesi di esclusione, infatti, assurge ormai a principio generale relativo ai contratti pubblici e costituisce specificazione del principio di proporzionalità (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 02.07.2014 n. 3621 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sull'irrilevanza dell'apposizione alle dichiarazioni ex art. 38 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 e ss.mm.ii., relative a terzi, della precisazione "per quanto a propria conoscenza".
E' irrilevante l'apposizione alle dichiarazioni ai sensi dell'art. 38 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 ss.mm.ii. relative a terzi della precisazione "per quanto a propria conoscenza", in quanto aderente al dato normativo contenuto nell'art. 47, co. 2, del d.P.R. 28.12.2000 n. 445, a cui rimanda il detto art. 38, il quale dispone che "la dichiarazione resa nell'interesse proprio del dichiarante può riguardare anche stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza"; pertanto siffatta precisazione non può considerarsi alla stregua di una esclusione di responsabilità del dichiarante, che nel rendere la dichiarazione si assume le conseguenze ad essa riconnesse, ma di un semplice richiamo al dato normativo.
Inoltre, il dichiarante non è tenuto ad indicare le ragioni per le quali non ha potuto produrre le dichiarazioni dei diretti interessati, quindi l'eventuale omissione di siffatta indicazione non può costituire causa di esclusione dalla gara, ben potendo invece la stazione appaltante -a fronte di una compiuta identificazione di tali soggetti- procedere essa stessa alle opportune verifiche, anche attraverso il casellario giudiziale e altri archivi pubblici ai quali essa ha accesso, diversamente dal dichiarante (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 02.07.2014 n. 3325 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAI fiumi e i torrenti sono soggetti a tutela paesistica di per sé stessi, a prescindere dall’iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche, che ha efficacia costitutiva del vincolo paesaggistico solo per le acque fluenti di minori dimensioni e importanza, vale a dire per i corsi d’acqua che non sono né fiumi né torrenti.
Per quanto detto poi innanzi, con riguardo alla presenza del vincolo paesaggistico e con riferimento all'ultimo motivo di appello ripreso dai motivi aggiunti in primo grado, il Collegio rileva:
a) la legittimità dell'acquisizione al patrimonio comunale del bene abusivo a seguito dell'inottemperanza all'ordine di demolizione e alla mancata presentazione nel termine (peraltro prorogato) dell'istanza di permesso di costruire in sanatoria;
b) che dagli accertamenti tecnici effettuati dal Comune di Drapia è emerso che il fabbricato è stato costruito nella fascia di rispetto di 150 metri dalla sponda o piedi d'argine del torrente Lumia, in area dunque sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi degli articoli 142 e seguenti del d.lgs. n. 42 del 2004.
E', infatti, priva di consistenza l'argomentazione dell'appellante in ordine alla non soggezione a vincolo del citato torrente perché non ricompreso nell'elenco delle acque pubbliche. Vale invero rammentare che i fiumi e i torrenti sono soggetti a tutela paesistica di per sé stessi, a prescindere dall’iscrizione negli elenchi delle acque pubbliche, che ha efficacia costitutiva del vincolo paesaggistico solo per le acque fluenti di minori dimensioni e importanza, vale a dire per i corsi d’acqua che non sono né fiumi né torrenti (Cons. Stato, VI, 04.02.2002, n. 657).
Il fabbricato in questione non è, quindi, sanabile e bene ha provveduto l’Amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.06.2014 n. 3264 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: La riforma delle autonomie locali e la parallela affermazione del principio di distinzione tra la funzione di indirizzo politico-amministrativo e le attività di gestione amministrativa rendono evidente, infatti, che il rilascio di provvedimenti edilizi spetta ai dirigenti del competente servizio, anche in mancanza di un'espressa disposizione statutaria o regolamentare che recepisca la norma generale.
Nel merito e con riferimento al primo degli atti impugnati, non sussistono dubbi in ordine alla denunciata incompetenza dell'organo che ha adottato la nota del 17.10.2002 (recante la firma dell’assessore all’urbanistica).
La riforma delle autonomie locali e la parallela affermazione del principio di distinzione tra la funzione di indirizzo politico-amministrativo e le attività di gestione amministrativa rendono evidente, infatti, che il rilascio di provvedimenti edilizi spetta ai dirigenti del competente servizio, anche in mancanza di un'espressa disposizione statutaria o regolamentare che recepisca la norma generale (Cons. Stato, sez. V, 09.10.2007, n. 5232 e 28.12.2001, n. 6465; TAR Napoli, sez. VI, 07.11.2012, n. 4441) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 27.06.2014 n. 1142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: La mancata impugnazione dell'atto impositivo del vincolo (come della dichiarazione di pubblica utilità) preclude la possibilità di farne valere l'illegittimità derivata in sede di impugnativa di atti successivi.
Costituisce principio pacifico in seno al procedimento espropriativo, infatti, che la mancata impugnazione dell'atto impositivo del vincolo (come della dichiarazione di pubblica utilità) preclude la possibilità di farne valere l'illegittimità derivata in sede di impugnativa di atti successivi (ex multis TAR Piemonte 21.05.2010, n. 2438; Cons. Stato, sez. IV, 15.05.2008, n. 2246).
Ne conseguirebbe l’inammissibilità del gravame per difetto di interesse, poiché la ricorrente si duole, sotto il profilo sostanziale, dell'illegittimità degli atti impugnati proprio in relazione all'irragionevolezza e al difetto di proporzionalità della scelta urbanistica, divenuta non modificabile stante la perdurante efficacia dell'inoppugnata deliberazione, resa intangibile dalla mancata tempestiva impugnazione
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 27.06.2014 n. 1142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Per recinzione deve intendersi un manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni, secondo la nozione elaborata dalla giurisprudenza civile in materia di muro di cinta ex art. 878 c.c..
Sotto il profilo amministrativo, si è ritenuto che la posa di una recinzione, anche in muratura, da parte del proprietario, non ha di per sé il fine di imprimere all'area una destinazione diversa da quella prevista dalle norme urbanistiche, essendo solo diretta a far valere lo ius excludendi alios che costituisce contenuto tipico del diritto di proprietà. Secondo detta linea interpretativa, anche la presenza di un vincolo di P.R.G. non può incidere di per sé negativamente sulla potestà del dominus di chiudere in qualunque tempo il proprio fondo ai sensi dell'art. 841 c.c., tramite la costruzione di una recinzione.
La descritta facoltà è legittimamente sacrificabile solamente quando ricorrano le condizioni previste dall'ordinamento in funzione di superiori interessi pubblici, dei quali va dato conto nella motivazione attraverso il loro bilanciamento con le opposte ragioni di cui sono portatori i soggetti privati coinvolti: così il P.R.G. -in materia di recinzioni della proprietà privata- può dettare particolari prescrizioni ispirate a fini di tutela ambientale, ad esempio individuando particolari modalità costruttive da adottare e disponendo l'uso di specifici materiali, purché ciò avvenga nel rispetto del principio generale di buona amministrazione, sancito dall'art. 97 della Carta costituzionale, e dei canoni di logicità, equità, imparzialità ed economicità, nonché delle norme di diritto positivo di carattere inderogabile.
È di conseguenza inammissibile un generalizzato divieto di recinzione dei fondi, perché esso sostanzialmente elimina un attributo essenziale tipico del diritto di proprietà, espressamente confermato dalla richiamata disciplina codicistica. In questo senso, neppure la presenza del vincolo espropriativo derivante da una previsione di piano regolatore priva il proprietario di tale diritto, né è con esso incompatibile, posto che tale previsione si limita ad attribuire al fondo una qualità giuridica, esponendolo all’acquisizione alla mano pubblica, ma non lo sottrae alla disponibilità del proprietario fino a quando non vengano emessi idonei atti ablativi (di espropriazione o di occupazione d’urgenza) previa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
Né, d’altra parte, la realizzazione della recinzione costituisce fattore ostativo -sul piano giuridico o materiale- alla futura ed eventuale attuazione del vincolo.

Va premesso che per recinzione deve intendersi un manufatto essenzialmente destinato a delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni, secondo la nozione elaborata dalla giurisprudenza civile in materia di muro di cinta ex art. 878 c.c. (cfr. Cass. civ., sez. II 03.09.1991 n. 9348 e 15.11.1986 n. 6737).
Sotto il profilo amministrativo, si è ritenuto -con impostazione già condivisa da questa sezione (TAR Piemonte, sez. I - sentenza 22.05.2013 n. 617)- che la posa di una recinzione, anche in muratura, da parte del proprietario, non ha di per sé il fine di imprimere all'area una destinazione diversa da quella prevista dalle norme urbanistiche, essendo solo diretta a far valere lo ius excludendi alios che costituisce contenuto tipico del diritto di proprietà. Secondo detta linea interpretativa, anche la presenza di un vincolo di P.R.G. non può incidere di per sé negativamente sulla potestà del dominus di chiudere in qualunque tempo il proprio fondo ai sensi dell'art. 841 c.c., tramite la costruzione di una recinzione (TAR Napoli, sez. II 04.02.2005 n. 803; TAR Milano, sez. II, 11.02.2005, n. 367).
La descritta facoltà è legittimamente sacrificabile solamente quando ricorrano le condizioni previste dall'ordinamento in funzione di superiori interessi pubblici, dei quali va dato conto nella motivazione attraverso il loro bilanciamento con le opposte ragioni di cui sono portatori i soggetti privati coinvolti: così il P.R.G. -in materia di recinzioni della proprietà privata- può dettare particolari prescrizioni ispirate a fini di tutela ambientale, ad esempio individuando particolari modalità costruttive da adottare e disponendo l'uso di specifici materiali, purché ciò avvenga nel rispetto del principio generale di buona amministrazione, sancito dall'art. 97 della Carta costituzionale, e dei canoni di logicità, equità, imparzialità ed economicità, nonché delle norme di diritto positivo di carattere inderogabile (TAR Friuli Venezia Giulia, 23.07.2001, n. 421).
È di conseguenza inammissibile un generalizzato divieto di recinzione dei fondi, perché esso sostanzialmente elimina un attributo essenziale tipico del diritto di proprietà, espressamente confermato dalla richiamata disciplina codicistica. In questo senso, neppure la presenza del vincolo espropriativo derivante da una previsione di piano regolatore priva il proprietario di tale diritto, né è con esso incompatibile, posto che tale previsione si limita ad attribuire al fondo una qualità giuridica, esponendolo all’acquisizione alla mano pubblica, ma non lo sottrae alla disponibilità del proprietario fino a quando non vengano emessi idonei atti ablativi (di espropriazione o di occupazione d’urgenza) previa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera (TAR Milano, sez. II, 11.02.2005, n. 367; TAR Brescia, sez. I, 05.02.2008, n. 40; TAR Bari sez. III, 22.02.2006, n. 572).
Né, d’altra parte, la realizzazione della recinzione costituisce fattore ostativo -sul piano giuridico o materiale- alla futura ed eventuale attuazione del vincolo (TAR Milano, sez. II, 19.06.2009, n. 4072)
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 27.06.2014 n. 1142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL'onere di immediata impugnazione del bando di concorso è circoscritto al caso della contestazione di clausole escludenti, riguardanti requisiti di partecipazione, che siano “ex se” ostative all'ammissione dell'interessato, o, al più, impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, dovendo le altre clausole essere ritenute lesive ed impugnate insieme con l'atto di approvazione della graduatoria definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva.
Invero, a fronte di una clausola illegittima della “lex specialis” di gara, ma non impeditiva della partecipazione, il concorrente non è ancora titolare di un interesse attuale all'impugnazione, poiché non sa ancora se l'astratta e potenziale illegittimità della predetta clausola si risolverà in un esito negativo della sua partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in una effettiva lesione della situazione soggettiva che solo da tale esito può derivare.

Ritiene la Sezione che le censure in esame non siano condivisibili perché condivide il tradizionale e prevalente insegnamento giurisprudenziale, secondo cui l'onere di immediata impugnazione del bando di concorso è circoscritto al caso della contestazione di clausole escludenti, riguardanti requisiti di partecipazione, che siano “ex se” ostative all'ammissione dell'interessato, o, al più, impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale (Consiglio di Stato, Sez. V, 21.11.2011, n. 6135), dovendo le altre clausole essere ritenute lesive ed impugnate insieme con l'atto di approvazione della graduatoria definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva; invero, a fronte di una clausola illegittima della “lex specialis” di gara, ma non impeditiva della partecipazione, il concorrente non è ancora titolare di un interesse attuale all'impugnazione, poiché non sa ancora se l'astratta e potenziale illegittimità della predetta clausola si risolverà in un esito negativo della sua partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in una effettiva lesione della situazione soggettiva che solo da tale esito può derivare (Consiglio di Stato, sez. III, 10.12.2013, n. 5909)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.06.2014 n. 3203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In materia di appalti pubblici, il silenzio serbato dalla stazione appaltante a seguito di informativa in ordine all'intento di proporre ricorso giurisdizionale ex art. 243-bis del d.lgs. n. 163/2006 non corrisponde alla figura del silenzio-rigetto, perché il testo della norma lascia intendere che il legislatore non abbia voluto dar vita a un procedimento contenzioso o para-contenzioso a tutela di una posizione giuridica soggettiva, ma solo offrire all'Ente pubblico l'opportunità di un riesame in via di autotutela; l’inerzia al riguardo nulla aggiunge all’assetto di interessi previsto nel provvedimento principale e da punto di vista sostanziale ha contenuto meramente confermativo, che, non essendo foriero di autonomi effetti lesivi, non è suscettibile di doverosa impugnazione.
L'impresa partecipante alla gara per l'affidamento di un pubblico appalto non ha quindi l'onere di impugnare il diniego espresso (o il silenzio) della stazione appaltante sull'istanza di ritiro perché la disposizione contenuta nell'ultimo comma dell'art. 243-bis del d.lgs. n. 163/2006, in virtù della quale "il diniego totale o parziale di autotutela, espresso o tacito, è impugnabile solo unitamente all'atto cui si riferisce, ovvero, se quest'ultimo è già stato impugnato, con motivi aggiunti", è da considerare norma meramente processuale, volta ad assicurare che la necessaria impugnazione del provvedimento lesivo e quella (soltanto eventuale) del diniego di autotutela, siano trattate nell'ambito di un "simultaneus processus".
La non obbligatorietà dell’impugnazione di detto silenzio rende inidonea la mancata formulazione di specifiche censure al riguardo con il ricorso introduttivo del giudizio a comportarne l’inammissibilità nella parte in cui è volto all’annullamento degli ulteriori provvedimenti concretamente lesivi.

La Sezione condivide al riguardo al giurisprudenza secondo la quale, in materia di appalti pubblici, il silenzio serbato dalla stazione appaltante a seguito di informativa in ordine all'intento di proporre ricorso giurisdizionale ex art. 243-bis del d.lgs. n. 163/2006 non corrisponde alla figura del silenzio-rigetto, perché il testo della norma lascia intendere che il legislatore non abbia voluto dar vita a un procedimento contenzioso o para-contenzioso a tutela di una posizione giuridica soggettiva, ma solo offrire all'Ente pubblico l'opportunità di un riesame in via di autotutela; l’inerzia al riguardo nulla aggiunge all’assetto di interessi previsto nel provvedimento principale e da punto di vista sostanziale ha contenuto meramente confermativo, che, non essendo foriero di autonomi effetti lesivi, non è suscettibile di doverosa impugnazione (Consiglio di Stato, sez. III, 29.12.2012, n. 6712).
L'impresa partecipante alla gara per l'affidamento di un pubblico appalto non ha quindi l'onere di impugnare il diniego espresso (o il silenzio) della stazione appaltante sull'istanza di ritiro perché la disposizione contenuta nell'ultimo comma dell'art. 243-bis del d.lgs. n. 163/2006, in virtù della quale "il diniego totale o parziale di autotutela, espresso o tacito, è impugnabile solo unitamente all'atto cui si riferisce, ovvero, se quest'ultimo è già stato impugnato, con motivi aggiunti", è da considerare norma meramente processuale, volta ad assicurare che la necessaria impugnazione del provvedimento lesivo e quella (soltanto eventuale) del diniego di autotutela, siano trattate nell'ambito di un "simultaneus processus".
La non obbligatorietà dell’impugnazione di detto silenzio rende inidonea la mancata formulazione di specifiche censure al riguardo con il ricorso introduttivo del giudizio a comportarne l’inammissibilità nella parte in cui è volto all’annullamento degli ulteriori provvedimenti concretamente lesivi
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.06.2014 n. 3203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' da considerare illegittimo il criterio di valutazione dell'offerta prezzo che, mediante una formula aritmetica, conduca ad esiti opposti a quelli prefissati dal bando, dal momento che, anche se i criteri di attribuzione dei punteggi all’offerta economica possono essere molteplici, ciò che conta è che, nell'assegnazione degli stessi, venga utilizzata tutta la potenziale gamma differenziale prevista; ciò in particolare con riguardo alla voce prezzo, al fine di evitare uno svuotamento della sostanziale efficacia della componente economica dell'offerta.
Se è vero che la Commissione di gara per l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, nell'attribuzione del punteggio agli elementi costituenti l'offerta tecnica, gode di ampia discrezionalità, tuttavia questa può essere oggetto di sindacato giurisdizionale quando, come nel caso che occupa, presenti macroscopiche irrazionalità e incongruenze, tenuto conto che la gamma di attribuzione di punteggi per l’offerta economica con la formula in questione oscillava in pochi punti e che il bando aveva stabilito che l’individuazione della offerta economicamente più vantaggiosa sarebbe stata effettuata con il metodo aggregativo compensatore di cui all’allegato “G” al d.P.R. n. 207/2010, che invece attribuisce rilevanza al ribasso percentuale offerto.
Ciò posto, nessun rilievo può assumere, con riguardo alla legittimità della clausola in questione, la circostanza che con il bando la stazione appaltante si fosse auto vincolata al suo rispetto e che i partecipanti avessero fatto affidamento su di essa.

Osserva in proposito la Sezione che al riguardo non possono che condividersi le argomentazioni riguardo all’inidoneità della formula in questione a garantire un idoneo apprezzamento della offerta economica mediante attribuzione di punteggi simili a fronte di offerte recanti percentuali di ribasso notevolmente diverse, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, per il quale è da considerare illegittimo il criterio di valutazione dell'offerta prezzo che, mediante una formula aritmetica, conduca ad esiti opposti a quelli prefissati dal bando, dal momento che, anche se i criteri di attribuzione dei punteggi all’offerta economica possono essere molteplici, ciò che conta è che, nell'assegnazione degli stessi, venga utilizzata tutta la potenziale gamma differenziale prevista; ciò in particolare con riguardo alla voce prezzo, al fine di evitare uno svuotamento della sostanziale efficacia della componente economica dell'offerta (Consiglio di Stato, sez. V, 15.07.2013, n. 3802 e 31.03.2012, n. 1899).
Se è vero che la Commissione di gara per l'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, nell'attribuzione del punteggio agli elementi costituenti l'offerta tecnica, gode di ampia discrezionalità, tuttavia questa può essere oggetto di sindacato giurisdizionale quando, come nel caso che occupa, presenti macroscopiche irrazionalità e incongruenze, tenuto conto che la gamma di attribuzione di punteggi per l’offerta economica con la formula in questione oscillava in pochi punti e che il bando aveva stabilito che l’individuazione della offerta economicamente più vantaggiosa sarebbe stata effettuata con il metodo aggregativo compensatore di cui all’allegato “G” al d.P.R. n. 207/2010, che invece attribuisce rilevanza al ribasso percentuale offerto.
Ciò posto, nessun rilievo può assumere, con riguardo alla legittimità della clausola in questione, la circostanza che con il bando la stazione appaltante si fosse auto vincolata al suo rispetto e che i partecipanti avessero fatto affidamento su di essa
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.06.2014 n. 3203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALINelle gare d'appalto niente orticelli per le università. Il consiglio di stato dice no all'affidamento di attività reperibili sul mercato da operatori privati.
Le università non possono essere affidatarie da altre amministrazioni di attività che potrebbero essere acquisite sul mercato da altri operatori privati; illegittimo l'accordo di cooperazione anche se prevede il solo rimborso spese; illegittima la gara riservata alle sole università.

È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 23.06.2014 n. 3130, con riguardo ad una gara di importo pari a 195.000 euro per l' affidamento, con accordo di collaborazione ex art. 15 della legge 241/1990, della redazione del Piano di governo del territorio (Pgt) comunale, aperta ai soli istituti universitari, pubblici e privati.
Il Consiglio di stato, ribaltando la sentenza di primo grado su ricorso della Consulta regionale degli ordini della Lombardia, premetteva che nel caso specifico il contratto non conteneva una «disciplina» di attività comuni agli enti, ma regolava gli interessi tra un ente pubblico che offriva prestazioni di ricerca e consulenza deducibili in contratti di appalto pubblico di servizi ed un diverso ente pubblico che, conformandosi a precetti normativi, domandava tali prestazioni in quanto strumentali allo svolgimento dei propri compiti istituzionali. Pertanto era «da escludere la configurabilità di una cooperazione tra enti pubblici finalizzata a garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune a questi ultimi».
Secondo i giudici di palazzo Spada, gli obiettivi delle direttive sugli appalti e di tutto il diritto europeo, consistono, in positivo, nell'imporre alle amministrazioni il rispetto della concorrenza laddove debba affidare attività economicamente contendibili e, in negativo, nell'escludere la gara quando non vi siano rischi di distorsioni del mercato interno.
Pertanto si può parlare di accordi fra amministrazioni quando si tratta di «disciplinare attività non deducibili in contratti di diritto privato, perché non inquadrabili in alcuna delle categorie di prestazioni elencate nell'allegato II-A alla direttiva 2004/18» e non quando un'amministrazione, come, nel caso specifico, una Università, si ponga rispetto all'accordo come operatore economico (prestatore di servizi), verso un corrispettivo anche non implicante il riconoscimento di un utile economico, ma solo il rimborso dei costi (articolo ItaliaOggi del 10.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTILegittima la «fee» sulla gara digitale. Appalti. Per il Consiglio di Stato.
La forte spinta al risparmio presente nel decreto legge 66/2014, con centrali uniche di committenza, trova conferma in alcuni casi di acquisti effettuati attraverso gare telematiche, esaminate dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con sentenza 17.06.2014 n. 3042.
La vicenda riguardava la Provincia di Bolzano e l'appalto per la fornitura di mezzi di contrasto per esami radiologici. La Bayer era stata esclusa da un appalto che partiva dal prezzo base di 170mila euro, perché non aveva accettato la clausola che le imponeva, se vincitrice, il pagamento di un corrispettivo al gestore del sistema telematico. Il bando infatti imponeva a chi fosse risultato aggiudicatario di versare un corrispettivo al gestore del sistema (nel caso specifico, pari al 0,4% dell'importo aggiudicato). Occorreva infatti presentare una dichiarazione di accettazione del corrispettivo dovuto al gestore del sistema telematico di acquisto.
Il Codice degli appalti consente alle stazioni appaltante di avvalersi, nella scelta del contraente, di un soggetto, anche esterno alle stazioni medesime, per la gestione tecnica dei sistemi informatici di negoziazione e ciò, insieme con una previsione normativa di principio, consente alle stazioni appaltanti di porre a carico dell'impresa aggiudicataria la remunerazione dei costi di funzionamento del sistema informatico di negoziazione.
Una generica possibilità di rivolgersi agli aggiudicatari per tali spese, è prevista qualora si utilizzi il sistema informatico di negoziazione predisposto dal ministero dell'Economia. La norma cardine, poi, è prevista nella legge di contabilità di Stato 2240/1923, articolo 16-bis, secondo la quale sono poste a carico del contraente privato le spese contrattuali (di copia, stampa, carta bollata e tutte le altre inerenti i contratti). Ed in effetti anche la contribuzione alle spese dei sistemi informatici di gara, sotto forma di commissioni di transazione, può qualificarsi come spesa contrattuale, che si sostituisce alle vecchie spese inerenti i contratti stipulati secondo forme non telematiche: in conseguenza è possibile chiedere ai concorrenti di versare un corrispettivo, se aggiudicatari, in proporzione all'importo assegnato.
Del resto, osserva il Consiglio di Stato, attraverso aste elettroniche e gare telematiche diventa più agevole la partecipazione e quindi più imprese possono concorrere, anche se logisticamente distanti rispetto al luogo di svolgimento della gara, con risparmi di costi gravanti sulle imprese. Quindi, in definitiva le modalità di gara telematica sono un beneficio per le stesse imprese partecipanti, e da ciò deriva la possibilità di porre a carico dell'impresa aggiudicataria una commissione di transazione. Oltretutto, la commissione transazione (transaction fee) non grava sulle imprese concorrenti in ragione della mera partecipazione, ma è imposta esclusivamente all'impresa che diventa aggiudicataria. Questa spesa contrattuale, va calcolata già in sede di formulazione dell'offerta e quindi non comporta un'unilaterale prestazione patrimoniale imposta che l'articolo 23 della Costituzione ammette solo con una copertura legislativa.
Inoltre, il Codice degli appalti vieta che si pongano a carico degli operatori economici contributi di carattere amministrativo, ma al solo fine di ostacolare albi o elenchi di operatori ammessi al sistema, in cui l'imposizione di un contributo di carattere amministrativo graverebbe sulle imprese partecipanti in quanto tali, a prescindere dall'aggiudicazione del singolo appalto
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIOTerrazzo, paga chi fa il danno. Quando c' è stata incuria va adottato il principio della responsabilità. Infiltrazioni. Il sistema di ripartizione un terzo-due terzi non funziona se la colpa è imputabile.
La II Sez. civile della Corte di Cassazione, con ordinanza 13.06.2014 n. 13526 (presidente Triola, relatore D'Ascola), torna sul tema del risarcimento dei danni da infiltrazioni all'appartamento sottostante al lastrico solare: chi deve pagare le spese?
Secondo la seconda sezione, che ha rimesso la questione alle sezioni unite, quando un condomino o un terzo subisce un danno, non c'è un obbligo di ripartire le "spese" condominiali in base agli articoli 1123 e seguenti del Codice civile, quanto di risarcire lo stesso ai sensi degli articoli 2043 e seguenti. Quindi va individuato il responsabile del danno e questo (che sia il condominio nel suo complesso per la mancata manutenzione o il singolo titolare dell'uso esclusivo per la cattiva gestione del lastrico) dovrà pagare tutto il danno.
Esula dunque dal contenuto e dagli obiettivi degli articoli 1123 e seguenti l'ipotesi del danno arrecato a terzi, in quanto il "danno" è l'elemento materiale della fattispecie di illecito civile. Quando ricorre un danno sorge infatti non un obbligo di "spesa", ma un obbligo risarcitorio. Così, quando le spese necessarie per la manutenzione delle parti comuni dell'edificio e per l'eliminazione dei pregiudizi arrecati (proprio a causa dell'omessa manutenzione o riparazione di quelle parti) alle singole unità immobiliari di proprietà esclusiva, o comunque a terzi, abbiano la loro fonte in una particolare condotta, commissiva od omissiva di uno o più condomini, andrebbe unicamente affermata la responsabilità di questi ultimi, ai sensi dell'articolo 2043 del Codice civile, dedicato proprio al «risarcimento per fatto illecito». E il soggetto danneggiato (anche se a sua volta sia un condòmino) assume la posizione di terzo rispetto ai condomini responsabili dell'omessa manutenzione o del cattivo uso del bene.
Nella sentenza impugnata davanti alla Suprema corte, la Corte d'appello di Roma aveva fatto applicazione del principio affermato diciassette anni fa dalle sezioni unite (sentenza 3672/1997) secondo la quale dei danni causati all'appartamento sottostante per le infiltrazioni d'acqua provenienti dal lastrico o dal terrazzo a livello di proprietà o di uso esclusivo, deteriorato per difetto di manutenzione, rispondono, in base alle proporzioni stabilite dall'articolo 1126 del Codice civile, tutti i condomini ai quali il bene stesso serve da copertura. Che quindi sono chiamati a pagare in proporzione dei due terzi, mentre il titolare della proprietà superficiaria o dell'uso esclusivo del lastrico o del terrazzo nella misura del terzo residuo.
Nell'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, invece, i giudici della Seconda Sezione evidenziano come gli obblighi di contribuzione alle spese (articoli 1123, 1125 e 1126) riguardino il diritto dei proprietari e l'utilità che essi traggono dai beni e non l'imputazione del danno subito dai terzi, che prescinde, di regola, dalla condotta dell'utilizzatore, e risale (in particolare nel caso in esame), nella mancata solerzia del condominio nell'apprestare le riparazioni prima che si produca il pregiudizio per l'appartamento sottostante. Ciò, indipendentemente da qualsiasi colpa del condòmino che abbia l'uso esclusivo del lastrico o la proprietà della terrazza.
Le perplessità della seconda sezione civile vanno condivise: La Cassazione (sentenza 3672/1997) aveva affermato che la responsabilità per i danni si ricollegasse non al disposto dell'articolo 2051 del Codice quanto alla titolarità del diritto reale e, perciò, dovesse considerarsi come conseguenza del l'inadempimento delle obbligazioni di conservare le parti comuni, poste a carico dei condomini (articolo 1123) e del titolare della proprietà superficiaria o dell'uso esclusivo (articolo 1126). Le norme sulla ripartizione degli oneri condominiali, (articoli 1123, 1124, 1125 e 1126) dovrebbero, invece, ritenersi sempre inutilizzabili in relazione alle obbligazioni risarcitorie dei condòmini verso i terzi
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2014).

APPALTI SERVIZI: Società in house detenute congiuntamente da più enti pubblici.
I precedenti della Corte di Giustizia dell'UE hanno più volte chiarito che nel caso in cui venga fatto ricorso ad un'entità posseduta in comune da più autorità pubbliche, il "
controllo analogo" può essere esercitato congiuntamente da tali autorità, senza che sia indispensabile che detto controllo venga esercitato individualmente da ciascuna di esse.
Il concetto è stato ribadito dalla giurisprudenza nazionale, nel senso che il requisito del controllo analogo deve essere verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico, sicché è sufficiente che la signoria della mano pubblica sull'ente affidatario, purché effettiva e reale, sia esercitata dagli enti partecipanti nella loro totalità, senza che necessiti una verifica della posizione dominante di ogni singolo ente.
Peraltro, pur non richiedendosi che ciascun partecipante detenga da solo un potere di controllo individuale, nondimeno si esige che il controllo esercitato sull'entità partecipata non si fondi soltanto sulla posizione dominante dell'autorità pubblica che detiene una partecipazione di maggioranza del capitale sociale.
È necessario, infatti, che anche il singolo socio possa vantare una posizione più che simbolica, idonea, per quanto minoritaria, a garantirgli una possibilità effettiva di partecipazione alla gestione dell'organismo del quale è parte; sicché, una presenza puramente formale nella compagine partecipata o in un organo comune incaricato della direzione della stessa, non risulterebbe sufficiente.
La giurisprudenza comunitaria sottolinea inoltre la necessità che detto controllo analogo si esplichi sotto forma di partecipazione sia al capitale, sia agli organi direttivi dell'organismo controllato.
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La giurisprudenza comunitaria non specifica attraverso quali sistemi operativi debba estrinsecarsi la presenza di ciascun socio negli organi direttivi e con quale modalità concreta quest'ultimo debba concorrere al controllo analogo.
La prassi conosce svariate meccanismi, fondati ora sulla nomina diretta e concorrente di singoli rappresentanti (uno per ogni socio) in seno al consiglio di amministrazione della società; ora sulla partecipazione mediata agli organi direttivi attraverso la nomina da parte dell'assemblea di consiglieri riservati ai soci di minoranza.
Valida alternativa è offerta dagli strumenti di carattere parasociale, che operano attraverso la predisposizione di organismi di controllo, costituiti dai rappresentanti di ciascun ente locale, muniti di penetranti poteri di verifica preventiva sulla gestione dell'attività ordinaria e straordinaria del soggetto in house, tali da rendere l'organo amministrativo privo di apprezzabile autonomia rispetto alle direttive delle amministrazioni partecipanti.
E' dato pacifico in giurisprudenza, infine, che il controllo debba essere esercitato non solo in forma propulsiva ma anche attraverso l'esercizio -in chiave preventiva- di poteri inibitori, volti a disinnescare iniziative o decisioni contrastanti con gli interessi dell'ente locale direttamente interessato al servizio.
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In materia di società in house detenute congiuntamente da più enti pubblici, la giurisprudenza non manca di sottolineare la necessità che il relativo consiglio di amministrazione non abbia rilevanti poteri gestionali di carattere autonomo, e che l'ente pubblico affidante (la totalità dei soci pubblici) eserciti, pur se con moduli fondati su base statutaria, poteri di ingerenza e di condizionamento superiori a quelli tipici del diritto societario e caratterizzati da un margine di rilevante autonomia della governance rispetto alla maggioranza azionaria.
Risulta a ciò indispensabile che le decisioni strategiche e più importanti siano sottoposte al vaglio preventivo dell'ente affidante o, in caso di in house frazionato -come nella fattispecie in esame- all'approvazione della totalità degli enti pubblici soci (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 13.06.2014 n. 1069 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAEdifici storici vincolati. Progettazione e direzione lavori agli architetti. Il Tar del Veneto esclude gli ingegneri dalle opere di restauro e ripristino.
Vietata la progettazione e la direzione lavori di immobili vincolati nel settore dei beni culturali; la competenza è degli architetti e non esiste un problema di «discriminazione inversa» dei nostri ingegneri con i colleghi degli altri paesi europei.

È quanto afferma il TAR Veneto, Sez. I, con la sentenza 03.06.2014 n. 743 relativa a un affidamento di progettazione e di direzione dei lavori di un immobile culturale (ex museo) sito in una area vincolata, aggiudicato, a seguito di procedura negoziata, a un ingegnere, ma impugnato da un architetto per violazione dell'art. 52, comma 2, del rd 23.10.1925 n. 2537.
La norma del '25 affida infatti alle competenze dell'architetto le opere di edilizia civile di rilevante carattere artistico e il restauro e ripristino degli edifici contemplati dall'articolo 22 del codice dei beni culturali.
Secondo un orientamento precedente dello stesso Tar, questa norma si sarebbe posta in violazione del diritto comunitario, che avrebbe quindi equiparato i due titoli, e doveva essere disapplicata. A tale tesi ha fatto riferimento il comune nel disporre l'affidamento all'ingegnere, ritenendo che anche da quanto affermato in sede comunitaria si sarebbe potuto dedurre l'esistenza, nel caso contrario, di una forma di discriminazione inversa, o «alla rovescia», che avrebbe penalizzato gli ingegneri italiani rispetto ai colleghi europei.
Sul punto la sentenza della Corte europea del 21.02.2013 (C111-12) ha stabilito il principio per cui, in base alla normativa sul riconoscimento dei diplomi, certificati e altri titoli del settore dell'architettura e sulle misure destinate ad agevolare l'esercizio effettivo del diritto di stabilimento e di libera prestazione della professione di architetto (artt. 10 e 11 della direttiva 85/384/Cee), i professionisti con un titolo rilasciato in un altro stato membro, che abilita all'esercizio di attività nel settore dell'architettura, «possono svolgere, in quest'ultimo stato, attività riguardanti immobili di interesse artistico solamente qualora dimostrino, eventualmente nell'ambito di una specifica verifica della loro idoneità professionale, di possedere particolari qualifiche nel settore dei beni culturali».
Sulla base di questo principio il Consiglio di stato (sezione VI, n. 21/2014) ha successivamente escluso, contrariamente alla tesi del comune veneto affidatario dell'incarico, che si possa produrre un effetto di «reverse discrimination». I giudici veneti, aderendo a quanto sostenuto dal Consiglio di stato, affermano adesso che le norme comunitarie non impongono all'Italia di ritenere che il diploma di laurea in architettura e quello in ingegneria civile si pongano sullo stesso piano (e quindi che i due titoli risultino equivalenti).
Inoltre le stesse norme, afferma la sentenza veneta, non consentono a tutti gli ingegneri europei (tranne gli italiani) di esercitare attività comprese anche nelle competenze degli architetti, perché quel che conta è avere svolto un corso di studi finalizzato dell'attività di architetto, anche se con diploma diverso. Da ciò quindi l'inidoneità dell'ingegnere a partecipare alla procedura e, quindi a essere affidatario dell'incarico (articolo ItaliaOggi del 09.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il Collegio non intende decampare dai principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio e della Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da illecita attività provvedimentale dell’amministrazione in forza dei quali:
a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e che non consente di configurare la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius;
b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta, evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza), grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto l’illegittimo esercizio della funzione pubblica;
c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della p.a.;
d) al di fuori del settore degli appalti (governato da autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di rilevante complessità del fatto, della influenza determinante dei comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da successiva declaratoria di incostituzionalità della norma applicata dall’amministrazione;
e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non).
Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto.
Al contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale; in quest’ottica, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano —ad una valutazione ex ante— del tutto inverosimili.

Il Collegio non intende decampare dai principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio e della Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da illecita attività provvedimentale dell’amministrazione (cfr. ex plurimis e da ultimo, Cass. civ., sez. III, 22.10.2013, n. 23993; sez. un., 23.03.2011, n. 6594; sez. un., 11.01.2008, n. 576 e 582; Cons. Stato, ad. plen., 19.04.2013, n. 7; ad. plen., 23.03.2011, n. 3; sez. III, 19.03.2014, n. 1357; sez. V, 17.01.2014, n. 183; sez. V, 31.10.2013, n. 5247; sez. V, 21.06.2013, n. 3408; sez. III, 30.05.2012, n. 3245; sez. IV, 22.05.2012, n. 2974; sez. IV, 02.04. 2012, n. 1957; sez. IV, 31.01.2012, n. 482; cui si rinvia a mente dell’art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a.), in forza dei quali:
a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e che non consente di configurare la tutela degli interessi c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius;
b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta, evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza), grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto l’illegittimo esercizio della funzione pubblica;
c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile (oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando vi sia una rilevante probabilità di risultato utile frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della p.a.;
d) al di fuori del settore degli appalti (governato da autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di rilevante complessità del fatto, della influenza determinante dei comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da successiva declaratoria di incostituzionalità della norma applicata dall’amministrazione;
e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in forza dei quali un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non); il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art. 41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto; al contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale; in quest’ottica, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano —ad una valutazione ex ante— del tutto inverosimili (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.05.2014 n. 2708 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno non patrimoniale -da intendersi come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul “fare areddittuale” del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendo il soggetto medesimo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno- deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, potendo peraltro anche in tale evenienza assumere precipuo rilievo la prova per presunzioni.
Ne discende che il prestatore di lavoro, che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di c.d. danno biologico), subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, posto che tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo e che pertanto non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, nel mentre incombe al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base all’anzidetta regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ.

Per quanto poi concerne l’aspetto che qui segnatamente rileva, ossia il nesso causale tra l’illecito e il danno subito, va parimenti rimarcato che l’onnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., pur nelle ipotesi in cui consegue alla violazione di diritti inviolabili della persona (ad es. il diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.), costituisce pur sempre un’ipotesi di danno-conseguenza, il cui ristoro è in concreto possibile solo a seguito dell’integrale allegazione e prova in ordine alla sua consistenza materiale ed in ordine alla sua riferibilità eziologica alla condotta del soggetto asseritamente danneggiante.
Ne consegue, quindi, che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, da parte di colui che si pretende danneggiato, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo.
In una con i principi elaborati dalle sezioni unite della Corte di cassazione (cfr. le celebri sentenze gemelle sez. un., nn. 26973, 26974, 26975 del 2008, successivamente si vedano gli affinamenti elaborati da Cass. civ., sez. III, 2228 del 2012) e dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio (n. 7 del 2013 cit.), si rileva che mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno non patrimoniale -da intendersi come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul “fare areddittuale” del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendo il soggetto medesimo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno- deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, potendo peraltro anche in tale evenienza assumere precipuo rilievo la prova per presunzioni; ne discende che il prestatore di lavoro, che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di c.d. danno biologico), subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, posto che tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo e che pertanto non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, nel mentre incombe al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base all’anzidetta regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.05.2014 n. 2708 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: L'impresa perde l'appalto se omette i costi di sicurezza aziendali.
L'impresa perde l'appalto pubblico quando non indica i costi di sicurezza aziendali, anche se è lo stesso committente a escludere la necessità del Duvri, il documento unico di regolarità contributiva, perché il servizio messo a gara non lo impone. Il fatto che l'amministrazione escluda la sussistenza di rischi d'interferenze non autorizza l'impresa a ignorare nella sua offerta gli oneri di tutela dei lavoratori che scaturiscono direttamente dalla legge.

Lo stabilisce il TAR Lazio-Roma, con la sentenza 20.05.2014 n. 5309, pubblicata dalla Sez. III-bis.
È la stessa l'amministrazione, nella specie, dichiarare non sussistenti i rischi da interferenze, che risultano pari a zero, «tenuto conto della natura strettamente intellettuale del servizio». Ma ciò non esclude l'onere per l'impresa di prevedere e quantificare in sede di offerta i costi della sicurezza da «rischio specifico»: la necessità deriva direttamente dalla norme di legge che sono poste a presidio di diritti fondamentali dei lavoratori e, quindi, sussiste anche quando il disciplinare di gara non contiene alcuna previsione al riguardo.
Accolto il ricorso incidentale della concorrente: l'impresa doveva essere subito esclusa dalla procedura. In particolare, spiegano i giudici amministrativi, si definisce «costo della sicurezza aziendale», il valore determinato come frazione percentuale delle spese generali che l'impresa sostiene nell'esecuzione dell'appalto, in base alla tipologia dei lavori dell'opera e alla stato dei luoghi.
È stata la legge 98/2013, che ha convertito il dl fare (decreto legge 69/2013) a introdurre il comma 3-bis dell'articolo 82 del codice dei contratti pubblici, il decreto legislativo 163/06: la novella impone che il costo del lavoro deve essere valutato puntualmente in quanto «costo puro e incomprimibile», che non può essere assoggettato al mercato: la verifica non può limitarsi a un mero controllo di congruità formulato su valutazioni in base a meri parametri e decontestualizzate.
Fra i costi della sicurezza, dunque, rientrano anche gli esborsi riferibili in modo generico alla sicurezza «nel» luogo di lavoro (articolo ItaliaOggi del 12.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia in area sottoposta a vincolo paesaggistico - Cd. super DIA - Preventivo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica - Artt. 6, 22 e 44, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 - Art. 181 del D.Lgs. n. 42/2004 e 734 c.p..
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, sia se eseguibili mediante "semplice" denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 22, commi primo e secondo, del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sia se eseguibili in base alla cosiddetta super DIA, prevista dal comma terzo della citata disposizione, necessitano del preventivo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo (Cass. Sez. 3, n. 8739 del 21/01/2010 - dep. 04/03/2010, Perna).
Solo per gli interventi di restauro e risanamento conservativo e per quelli di manutenzione straordinaria non comportanti alterazione dello stato dei luoghi o dell'aspetto esteriore degli edifici, la D.I.A. non deve essere preceduta dall'autorizzazione paesaggistica.
Opere nel sottosuolo in zone sottoposte a vincolo - Realizzazione in difetto di autorizzazione - Reato di cui all'art. 181 D.Lgs. n. 42/2004 - Configurabilità.
Il reato di cui all'art. 181 D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 si configura anche relativamente ad opere realizzate, in difetto di autorizzazione, nel sottosuolo di zone sottoposte a vincolo, atteso che il citato art. 181 vieta l'esecuzione di lavori di qualunque genere su beni paesaggistici e che anche per tali opere si realizza una modificazione, anche se non immediatamente visibile, dell'assetto del territorio (Cass. Sez. 3, n. 7292 del 16/01/2007 - dep. 22/02/2007, Armenise ed altro).
Opera abusiva - Sequestro preventivo e reati paesaggistici - Il periculum in relazione al reato paesaggistico - Art. 181 D.Lgs. n. 42/2004.
In tema di sequestro preventivo per reati paesaggistici, la sola esistenza di una struttura abusiva integra il requisito dell'attualità del pericolo indipendentemente dall'essere l'edificazione ultimata o meno, in quanto il rischio di offesa al territorio ed all'equilibrio ambientale, a prescindere dall'effettivo danno al paesaggio, perdura in stretta connessione con l'utilizzazione della costruzione ultimata (Cass. Sez. 3, n. 24539 del 20/03/2013 - dep. 05/06/2013, Chiantone).
Interventi edilizi costituiti in una tettoia di copertura - Preventivo rilascio del permesso di costruire - Art. 44, lett. b), del d.P.R. n. 380/2001 - Caso di configurabilità.
Integra il reato previsto dall'art. 44, lett. b), del d.P.R. n. 380 del 2001 la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di copertura che, non rientrando nella nozione tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una propria individualità fisica e strutturale, costituisce parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata (Cass. Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013 - dep. 15/10/2013, Salanitro e altro) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.04.2014 n. 16687 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi in parziale difformità dall'autorizzazione paesaggistica - Configurabilità del reato ex art. 181 d.lgs. n. 42/2004 - Natura formale di reato di pericolo.
L'art. 181 d.lgs. n. 42/2004 sanziona la condotta di chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegua lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici.
La norma in esame non distingue tra parziale o totale difformità, come avviene invece per la disciplina urbanistica, cosicché è idonea a configurare il reato in esame ogni difformità significativa dall'intervento autorizzato e tale da vanificare gli scopi di tutela e controllo che il legislatore ha assicurato agli organi competenti attraverso la preventiva verifica della consistenza delle opere da eseguire (Cass. Sez. III n. 19077, 07/05/2009; Cass. Sez. III n. 10478, 12/03/2007).
Pertanto, in tema di violazioni paesaggistiche, è pacifica la natura formale di pericolo del reato contemplato dall'art. 181 d.lgs. 42/2004 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.01.2014 n. 3655 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - AMBIENTE-ECOLOGIAIn problematiche che afferiscono a pericoli per la salute pubblica, sovente si fa ricorso ad ordinanze contingibili ed urgenti adottate dal Sindaco quale Ufficiale di Governo al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini, per la cui esecuzione è anche possibile richiedere al Prefetto l’assistenza della forza pubblica.
Detto potere di urgenza può essere esercitato solo per affrontare situazioni di carattere eccezionale ed impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall’ordinamento giuridico in presenza di un preventivo accertamento della situazione che deve fondarsi su prove concrete e non su mere presunzioni, anche se l’obiettivo può essere di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini.
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Invero, la stessa Corte Costituzionale ha rimarcato che il Sindaco non può adottare provvedimenti a “contenuto normativo ed efficacia a tempo indeterminato”, potendo derogare alla normativa primaria solo in maniera temporalmente delimitata e nei limiti della “concreta situazione di fatto che si intende fronteggiare” dovendosi infatti garantire il principio di legalità sostanziale posto alla base dello Stato di diritto.
Le ordinanze sindacali in questione incidono d’altra parte sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare che, pur indirizzati alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque restrizioni ai soggetti considerati.
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La partecipazione degli interessati al procedimento si attiva in prima battuta attraverso la obbligatoria comunicazione di avvio come disciplinata dagli artt. 7 e 8 della Legge n. 241 del 1990, comunicazione che, per espressa previsione normativa, può peraltro venire omessa ove sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, fermo restando che, in termini generali, l’Amministrazione è sempre tenuta a rendere conto della sussistenza di tali ragioni di urgenza qualificata, e che i principi appena enunciati si attagliano alle peculiarità del caso in esame.
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La giurisprudenza più recente ritiene che ai sensi dell'art. 192 D.L.vo 03.04.2006, n. 152 l'Ente proprietario (e, in sua vece, l’Ente gestore) della strada ha l'obbligo di provvedere alla pulizia della stessa in modo da non creare danno o pericoli alla circolazione.
Pertanto spetta alla detta P.A. procedere alla raccolta dei rifiuti abbandonati da terzi “sull'area di sedime della strada stessa” a prescindere dalla sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa del detto proprietario.
La soluzione è invece diversa allorché si tratti di rifiuti solidi non pericolosi abusivamente depositati nelle “vicinanze” dell'area stradale e non risulti riscontrabile né tanto meno denunciato alcun profilo soggettivo di dolo o quanto meno di colpa in capo all' Ente proprietario o gestore.
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L’art. 192 del Decr. Legisl. n. 152/2006 ha dunque introdotto una sanzione amministrativa di tipo reintegratorio, potendo essere adottata anche in assenza di una situazione in cui sussista l’urgente necessità di provvedere con efficacia e immediatezza e avente a contenuto l’obbligo di rimozione, di recupero o di smaltimento e di ripristino a carico del responsabile del fatto di discarica o immissione abusiva, a carico, cioè, di “chiunque viola i divieti di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti sul suolo”, in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o di colpa.
La norma, pertanto, ai fini dell’imputabilità della condotta del divieto di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti sul suolo, richiede, a carico del proprietario o dei titolari di diritti reali o personali sul bene, un comportamento titolato di dolo o colpa, così come richiesto per l’autore materiale, mentre le conseguenze sanzionatorie connesse alla violazione del divieto di abbandono incontrollato di rifiuti sul suolo o nel suolo sono accollate anche al proprietario dell’area, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia a lui imputabile a titolo di dolo o di colpa.
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L’art. 14 del D.lgs. n. 285/1992 dispone che "Gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi” e con riferimento alla fattispecie di insistenza dei rifiuti abbandonati sull'area di sedime di una strada, questa norma è stata effettivamente in passato interpretata come speciale rispetto all’art. 198 del D.lgs. 152/2006 che, in materia di gestione di rifiuti urbani e assimilati, sancisce la competenza dei Comuni per la raccolta, trasporto e avvio a smaltimento dei rifiuti urbani.
Infatti la pulizia della strada, interferendo direttamente con la stessa funzionalità dell'infrastruttura e con la sicurezza della viabilità, non può non fare capo direttamente al soggetto gestore (proprietario, concessionario o comunque affidatario della gestione del bene) sul quale gravano speciali doveri di vigilanza, controllo e conservazione, doveri che rivestono carattere di oggettività e prescindono dai profili di dolo o colpa, affermandosi tale carattere di specialità anche rispetto alla previsione di cui all’art. 192 del D.lgs. n. 152/2006 che, in materia di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo, prevede l’obbligo di provvedere all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi non solo in capo agli autori dell’illecito, ma anche, in solido con essi, del proprietario e del titolare di diritti reali o personali di godimento sull'area, purché tale violazione sia loro imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo, laddove l’obbligo di mantenere la pulizia delle strade e di loro pertinenze è imposto al proprietario dal citato art. 14 del Codice della strada a prescindere dalla contestazione di un comportamento doloso o colposo.
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L'ordine di rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto al proprietario solo quando ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell'illecito, per avere cioè posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo, dovendosi escludere che la norma configuri un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva.
Ne discende la illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità soggettiva della condotta; tale orientamento è stato di recente confermato anche con riferimento al disposto di cui all'art. 192 del D.lgs. 152/2006.

- Premesso che, in simili problematiche che afferiscono a pericoli per la salute pubblica, sovente si fa ricorso ad ordinanze contingibili ed urgenti adottate dal Sindaco quale Ufficiale di Governo al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini, per la cui esecuzione è anche possibile richiedere al Prefetto l’assistenza della forza pubblica; detto potere di urgenza può essere esercitato solo per affrontare situazioni di carattere eccezionale ed impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati dall’ordinamento giuridico in presenza di un preventivo accertamento della situazione che deve fondarsi su prove concrete e non su mere presunzioni (ex multis, TAR Piemonte, II, 12.06.2009, n. 1680), anche se l’obiettivo può essere di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini (TAR Lazio, Roma, II, 17.06.2009, n. 5726; Cons. Stato, V, 07.04.2003, n. 1831; 02.04.2001, n. 1904; Cass. Civ., SS.UU., 17.01.2002, n. 490);
- Rilevato che la stessa Corte Costituzionale (07.04.2011, n.115), nel dichiarare la illegittimità costituzionale del comma 4 del citato art. 54 quale introdotto dal D.L. n. 92/2008 convertito in Legge n. 125/2008 nella parte in cui comprende la locuzione “anche” prima delle parole “contingibili e urgenti”, ha rimarcato che il Sindaco non può adottare provvedimenti a “contenuto normativo ed efficacia a tempo indeterminato”, potendo derogare alla normativa primaria solo in maniera temporalmente delimitata e nei limiti della “concreta situazione di fatto che si intende fronteggiare” dovendosi infatti garantire il principio di legalità sostanziale posto alla base dello Stato di diritto; le ordinanze sindacali in questione incidono d’altra parte sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare che, pur indirizzati alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque restrizioni ai soggetti considerati;
- Considerato in via preliminare che la partecipazione degli interessati al procedimento si attiva in prima battuta attraverso la obbligatoria comunicazione di avvio (cfr. Cons. Stato, V, 25.08.2008, n. 4061) come disciplinata dagli artt. 7 e 8 della Legge n. 241 del 1990, comunicazione che, per espressa previsione normativa, può peraltro venire omessa ove sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, fermo restando che, in termini generali, l’Amministrazione è sempre tenuta a rendere conto della sussistenza di tali ragioni di urgenza qualificata, e che i principi appena enunciati si attagliano alle peculiarità del caso in esame;
- Ricordato che la giurisprudenza più recente ritiene che ai sensi dell'art. 192 D.L.vo 03.04.2006, n. 152, vale a dire della norma invocata dalla stessa Amministrazione resistente, l'Ente proprietario (e, in sua vece, l’Ente gestore) della strada ha l'obbligo di provvedere alla pulizia della stessa in modo da non creare danno o pericoli alla circolazione; pertanto spetta alla detta P.A. procedere alla raccolta dei rifiuti abbandonati da terzi “sull'area di sedime della strada stessa” a prescindere dalla sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa del detto proprietario (cfr. Cons. Stato, IV, 18.6.2009, n. 4005). La soluzione è invece diversa allorché si tratti di rifiuti solidi non pericolosi abusivamente depositati nelle “vicinanze” dell'area stradale e non risulti riscontrabile né tanto meno denunciato alcun profilo soggettivo di dolo o quanto meno di colpa in capo all' Ente proprietario o gestore (TAR Campania, Napoli, V, 05.12.2008, n. 21013);
- Chiarito che l’art. 192 del Decr. Legisl. n. 152/2006, attualmente vigente e che ha riprodotto l'art. 14, comma 3, del Decr. Legisl. n. 22/1997, dispone che “Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 50 e 51, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa. Il sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate”.
La fattispecie normativa (per la sua esegesi, cfr. Cons. Stato, V, 25.08.2008, n. 4061) ha dunque introdotto una sanzione amministrativa di tipo reintegratorio, potendo essere adottata anche in assenza di una situazione in cui sussista l’urgente necessità di provvedere con efficacia e immediatezza (TAR Veneto, III, 29.09.2009, n. 2454) e avente a contenuto l’obbligo di rimozione, di recupero o di smaltimento e di ripristino a carico del responsabile del fatto di discarica o immissione abusiva, a carico, cioè, di “chiunque viola i divieti di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti sul suolo”, in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o di colpa; la norma, pertanto, ai fini dell’imputabilità della condotta del divieto di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti sul suolo, richiede, a carico del proprietario o dei titolari di diritti reali o personali sul bene, un comportamento titolato di dolo o colpa, così come richiesto per l’autore materiale, mentre le conseguenze sanzionatorie connesse alla violazione del divieto di abbandono incontrollato di rifiuti sul suolo o nel suolo sono accollate anche al proprietario dell’area, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia a lui imputabile a titolo di dolo o di colpa (ex multis, TAR Calabria, Catanzaro, I, 20.10.2009, n.1118; Cons. Stato, V, 19.03.2009, n. 1612; TAR Sardegna, 18.05.2007, n. 975; 19.09.2004, n. 1076; TAR Puglia, Bari, 27.02.2003, n. 872; TAR Lombardia, Milano, I, 26.01.2000, n. 292);
- Atteso che, a mente dell’art. 14 del D.lgs. n. 285/1992, “Gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi” e che, con riferimento alla fattispecie di insistenza dei rifiuti abbandonati sull'area di sedime di una strada, questa norma è stata effettivamente in passato interpretata come speciale rispetto all’art. 198 del D.lgs. 152/2006 che, in materia di gestione di rifiuti urbani e assimilati, sancisce la competenza dei Comuni per la raccolta, trasporto e avvio a smaltimento dei rifiuti urbani.
Infatti la pulizia della strada, interferendo direttamente con la stessa funzionalità dell'infrastruttura e con la sicurezza della viabilità, non può non fare capo direttamente al soggetto gestore (proprietario, concessionario o comunque affidatario della gestione del bene) sul quale gravano speciali doveri di vigilanza, controllo e conservazione, doveri che rivestono carattere di oggettività e prescindono dai profili di dolo o colpa (TAR Campania, Napoli, V, 11.07.2006, n. 7428; TAR Puglia, Lecce, I, 18.06.2008, n. 487), affermandosi tale carattere di specialità anche rispetto alla previsione di cui all’art. 192 del D.lgs. n. 152/2006 che, in materia di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo, prevede l’obbligo di provvedere all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi non solo in capo agli autori dell’illecito, ma anche, in solido con essi, del proprietario e del titolare di diritti reali o personali di godimento sull'area, purché tale violazione sia loro imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo, laddove l’obbligo di mantenere la pulizia delle strade e di loro pertinenze è imposto al proprietario dal citato art. 14 del Codice della strada a prescindere dalla contestazione di un comportamento doloso o colposo;
- Ritenuto, a distanza di anni, di aderire al più recente orientamento giurisprudenziale (TAR Molise, 28.05.2010, n. 227; TAR Sicilia, Palermo, I, 20.01.2010, n. 584), autorevolmente avallato anche dal Giudice d'Appello (Cons. Stato, V, 25.01.2005, n. 136), secondo il quale l'ordine di rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto al proprietario solo quando ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell'illecito, per avere cioè posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo, dovendosi escludere che la norma configuri un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva; ne discende la illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità soggettiva della condotta; tale orientamento è stato di recente confermato anche con riferimento al disposto di cui all'art. 192 del D.lgs. 152/2006 (Cons. Stato, V, 19.03.2009, n. 1612; 25.08.2008, n.4061) (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 20.05.2013 n. 2586 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAQuando lo strumento urbanistico non prevede l’obbligo di osservare un determinato distacco dal confine, trova applicazione il principio della prevenzione temporale (art. 873 ss. c.c.), secondo cui il proprietario che costruisce per primo determina, in concreto, le distanze da osservare dalle altre costruzioni sui fondi vicini, il che vale anche rispetto a successive sopraelevazioni.
Solo in presenza di una norma regolamentare che prescrive una distanza tra fabbricati con riguardo al confine, infatti, si pone l'esigenza di un'equa ripartizione tra proprietari confinanti dell'onere di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni, con la conseguenza che, in assenza di una siffatta prescrizione, deve trovare applicazione il principio della prevenzione.
Lo stesso principio vale anche nel caso in cui la distanza tra gli edifici resti regolata dalla norma suppletiva dettata dall’art. 17, co. 1, lett. c), della legge n. 765/1967 (che ha inserito nella legge n. 1150/1942 l’art. 41-quinquies, applicabile non soltanto ai Comuni sprovvisti di piani regolatori e programmi di fabbricazione, ma anche a quelli dotati di regolamento edilizio non contenente prescrizioni sulle distanze), poiché tale norma, al pari dell’art. 873 c.c., non fa alcun riferimento ai confini e non può, dunque, essere interpretata nel senso di imporre, sia pur implicitamente, un distacco rispetto agli stessi (cfr. Cass., SS.UU., 01.08.2002, n. 11489: «la distanza tra gli edifici non è prevista dalla norma come fissa, essendo, invece, mobile e variabile con riferimento all'altezza dell'edificio successivo; il che, da un canto, conferma che il confine tra i due fondi non assume alcun rilievo nella struttura della norma, dall'altro evidenzia, come dato imprescindibile, che la norma, così com’é strutturata, presuppone la preesistenza di un fabbricato, solo rispetto al quale, non già rispetto al confine (od anche rispetto al confine), viene prescritta la distanza minima, da determinarsi in relazione all'altezza del nuovo edificio»).
Si tratta di un ragionamento che è pianamente estensibile alle distanze di cui all’art. 9 D.M. n. 1444 del 02.04.1968, ugualmente prive di ogni riferimento ai confini ed espresse, ancora una volta, in termini mobili e variabili con riguardo alla altezza di edifici preesistenti (ovvero alla larghezza, maggiorata, della sede stradale interposta) oppure ancora in termini assoluti tra i fabbricati stessi (nel senso della applicabilità del principio di prevenzione anche con riferimento al D.M. 1444/1968, cfr., implicitamente, TAR Campania Napoli, n. 1899/2011): tutto ciò senza che, naturalmente, la circostanza che il preveniente possa aver costruito una parete finestrata, anziché non finestrata, possa mutare la consistenza di questo dato normativo e influire sulla applicabilità della regola della prevenzione.
Al riguardo, la giurisprudenza, ancor prima della suddetta pronuncia delle Sezioni Unite, ha espressamente ritenuto che dall’art. 9 n. 2 del D.M. n. 1444/1968 è desumibile la inesistenza di un obbligo di rispettare in ogni caso una distanza minima dal confine, ove non prevista negli strumenti urbanistici locali, e ha sostenuto che, in applicazione del principio di prevenzione, esso va interpretato nel senso che tra una parete finestrata e l’edificio antistante va rispettata la distanza di metri dieci, con conseguente obbligo del prevenuto di arretrare la propria costruzione (fino ad una distanza di metri cinque dal confine, se il preveniente, nel realizzare tale parete finestrata, ha rispettato una distanza di almeno metri cinque dal confine; in caso contrario, ossia se il preveniente abbia realizzato una parete finestrata ad una distanza dal confine inferiore a metri cinque, il vicino, in alternativa all'arretrare la propria costruzione fino a rispettare la distanza di dieci metri, può scegliere d'imporre al preveniente di chiudere le aperture ed a sua volta costruire con parete non finestrata rispettando la metà della distanza legale dal confine, oppure di procedere all’interpello di cui all’art. 875, co. 2, c.c. per la comunione forzosa del muro che non si trovi sul confine, ove ne ricorrano le condizioni, od ancora, nel caso di costruzione sul confine, chiedere la comunione del muro o costruire in aderenza).

Ebbene, per condivisibile indirizzo, quando lo strumento urbanistico non prevede l’obbligo di osservare un determinato distacco dal confine, trova applicazione il principio della prevenzione temporale (art. 873 ss. c.c.), secondo cui il proprietario che costruisce per primo determina, in concreto, le distanze da osservare dalle altre costruzioni sui fondi vicini (cfr. C.d.S., sez. IV, 04.02.2011, n. 802), il che vale anche rispetto a successive sopraelevazioni (cfr. C.d.S., sez. V, 10.01.2012, n. 53).
Solo in presenza di una norma regolamentare che prescrive una distanza tra fabbricati con riguardo al confine, infatti, si pone l'esigenza di un'equa ripartizione tra proprietari confinanti dell'onere di salvaguardare una zona di distacco tra le costruzioni, con la conseguenza che, in assenza di una siffatta prescrizione, deve trovare applicazione il principio della prevenzione.
Lo stesso principio vale anche nel caso in cui la distanza tra gli edifici resti regolata dalla norma suppletiva dettata dall’art. 17, co. 1, lett. c), della legge n. 765/1967 (che ha inserito nella legge n. 1150/1942 l’art. 41-quinquies, applicabile non soltanto ai Comuni sprovvisti di piani regolatori e programmi di fabbricazione, ma anche a quelli dotati di regolamento edilizio non contenente prescrizioni sulle distanze: cfr. C.d.S., sez. V, 23.05.2000, n. 2983), poiché tale norma, al pari dell’art. 873 c.c., non fa alcun riferimento ai confini e non può, dunque, essere interpretata nel senso di imporre, sia pur implicitamente, un distacco rispetto agli stessi (cfr. Cass., SS.UU., 01.08.2002, n. 11489: «la distanza tra gli edifici non è prevista dalla norma come fissa, essendo, invece, mobile e variabile con riferimento all'altezza dell'edificio successivo; il che, da un canto, conferma che il confine tra i due fondi non assume alcun rilievo nella struttura della norma, dall'altro evidenzia, come dato imprescindibile, che la norma, così com’é strutturata, presuppone la preesistenza di un fabbricato, solo rispetto al quale, non già rispetto al confine (od anche rispetto al confine), viene prescritta la distanza minima, da determinarsi in relazione all'altezza del nuovo edificio»).
Si tratta di un ragionamento che è pianamente estensibile alle distanze di cui all’art. 9 D.M. n. 1444 del 02.04.1968, ugualmente prive di ogni riferimento ai confini ed espresse, ancora una volta, in termini mobili e variabili con riguardo alla altezza di edifici preesistenti (ovvero alla larghezza, maggiorata, della sede stradale interposta) oppure ancora in termini assoluti tra i fabbricati stessi (nel senso della applicabilità del principio di prevenzione anche con riferimento al D.M. 1444/1968, cfr., implicitamente, TAR Campania Napoli, sez. II, 01.04.2011, n. 1899): tutto ciò senza che, naturalmente, la circostanza che il preveniente possa aver costruito una parete finestrata, anziché non finestrata, possa mutare la consistenza di questo dato normativo e influire sulla applicabilità della regola della prevenzione.
Al riguardo, la giurisprudenza, ancor prima della suddetta pronuncia delle Sezioni Unite, ha espressamente ritenuto (cfr. Cass., sez. II, 07.03.2002, n. 3340) che dall’art. 9 n. 2 del D.M. n. 1444/1968 è desumibile la inesistenza di un obbligo di rispettare in ogni caso una distanza minima dal confine, ove non prevista negli strumenti urbanistici locali, e ha sostenuto che, in applicazione del principio di prevenzione, esso va interpretato nel senso che tra una parete finestrata e l’edificio antistante va rispettata la distanza di metri dieci, con conseguente obbligo del prevenuto di arretrare la propria costruzione (fino ad una distanza di metri cinque dal confine, se il preveniente, nel realizzare tale parete finestrata, ha rispettato una distanza di almeno metri cinque dal confine; in caso contrario, ossia se il preveniente abbia realizzato una parete finestrata ad una distanza dal confine inferiore a metri cinque, il vicino, in alternativa all'arretrare la propria costruzione fino a rispettare la distanza di dieci metri, può scegliere d'imporre al preveniente di chiudere le aperture ed a sua volta costruire con parete non finestrata rispettando la metà della distanza legale dal confine, oppure di procedere all’interpello di cui all’art. 875, co. 2, c.c. per la comunione forzosa del muro che non si trovi sul confine, ove ne ricorrano le condizioni, od ancora, nel caso di costruzione sul confine, chiedere la comunione del muro o costruire in aderenza)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 14.05.2013 n. 2495 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli spazi per parcheggio di natura pertinenziale e obbligatoria non vanno considerati ai fini del calcolo della volumetria complessiva consentita e della determinazione della superficie coperta.
Si tratta di un principio che deve essere in questa sede riaffermato, salve diverse previsioni di piano o regolamentari.
Per un verso, infatti, l'art. 9 della legge 24.03.1989, n. 122, prevede che «i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti» (cui fa eco l’articolo 6 della legge della Regione Campania n. 19 del 28.11.2001, secondo cui la realizzazione in aree libere, anche non di pertinenza del lotto dove insistono gli edifici, ovvero nel sottosuolo di fabbricati o al pianterreno di essi, di parcheggi da destinare a pertinenze di unità immobiliare è soggetta a permesso di costruire non oneroso, anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti): il che consente di concludere che la realizzazione di autorimesse e parcheggi pertinenziali effettuata in locali siti a piano terra o totalmente al di sotto del piano di campagna naturale non è soggetta alla disciplina urbanistica che regola le nuove costruzioni fuori terra.
Per altro verso, sin dal 1967 il legislatore, in ragione del crescente impatto della motorizzazione di massa sull’ordinato assetto urbano, ha dapprima imposto nelle nuove costruzioni appositi spazi per parcheggi, in misura non inferiore a un mq per ogni 20 mc di costruzione (art. 41-sexies legge 1155/1942, introdotto dall’art. 18 della l. n. 765/1967); poi ha sancito che tali spazi costituiscono pertinenze delle costruzioni (art. 26 l. n. 47/1985); da ultimo, ha raddoppiato lo spazio da destinare obbligatoriamente a parcheggio pertinenziale degli edifici (art. 2 l. n. 122/1989: un mq per ogni 10 mc di costruzione) e stabilito che i relativi interventi costituiscono opere di urbanizzazione, come tali esenti da contributo di concessione (art. 11 l. n. 122/1989): con ciò inducendo ad individuare nella mancanza di carico urbanistico dei parcheggi obbligatori e pertinenziali (a differenza dei parcheggi non pertinenziali, apportatori di carico urbanistico) la ragione per escluderne la computabilità nella cubatura complessiva consentita.
Da tutto quanto detto consegue, in definitiva, che non concorre al calcolo della volumetria assentibile il parcheggio pertinenziale che sia realizzato, come previsto nel caso di specie, al piano terreno di un edificio esistente, per il quale il rapporto di pertinenzialità deve essere visto in relazione appunto alla suddetta normativa speciale in materia di parcheggi dettata dalla legge n. 122 del 1989 e dalla l.r. n. 19 del 2001, e non già con riferimento alla disciplina di carattere generale sugli interventi pertinenziali di cui all'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001.

Peraltro, anche su un piano generale la giurisprudenza di questa Sezione ha già espresso l’avviso che gli spazi per parcheggio di natura pertinenziale e obbligatoria non vanno considerati ai fini del calcolo della volumetria complessiva consentita e della determinazione della superficie coperta (cfr. TAR Campania Napoli, sez. II, 23.06.2010, n. 15731).
Si tratta di un principio che deve essere in questa sede riaffermato, salve diverse previsioni di piano o regolamentari.
Per un verso, infatti, l'art. 9 della legge 24.03.1989, n. 122, prevede che «i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti» (cui fa eco l’articolo 6 della legge della Regione Campania n. 19 del 28.11.2001, secondo cui la realizzazione in aree libere, anche non di pertinenza del lotto dove insistono gli edifici, ovvero nel sottosuolo di fabbricati o al pianterreno di essi, di parcheggi da destinare a pertinenze di unità immobiliare è soggetta a permesso di costruire non oneroso, anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti): il che consente di concludere che la realizzazione di autorimesse e parcheggi pertinenziali effettuata in locali siti a piano terra o totalmente al di sotto del piano di campagna naturale non è soggetta alla disciplina urbanistica che regola le nuove costruzioni fuori terra (cfr., ex multis, C.d.S., sez. IV, 13.07.2011 n. 4234, C.d.S., sez. IV, 26.09.2008 n. 4645).
Per altro verso, sin dal 1967 il legislatore, in ragione del crescente impatto della motorizzazione di massa sull’ordinato assetto urbano, ha dapprima imposto nelle nuove costruzioni appositi spazi per parcheggi, in misura non inferiore a un mq per ogni 20 mc di costruzione (art. 41-sexies legge 1155/1942, introdotto dall’art. 18 della l. n. 765/1967); poi ha sancito che tali spazi costituiscono pertinenze delle costruzioni (art. 26 l. n. 47/1985); da ultimo, ha raddoppiato lo spazio da destinare obbligatoriamente a parcheggio pertinenziale degli edifici (art. 2 l. n. 122/1989: un mq per ogni 10 mc di costruzione) e stabilito che i relativi interventi costituiscono opere di urbanizzazione, come tali esenti da contributo di concessione (art. 11 l. n. 122/1989): con ciò inducendo ad individuare nella mancanza di carico urbanistico dei parcheggi obbligatori e pertinenziali (a differenza dei parcheggi non pertinenziali, apportatori di carico urbanistico) la ragione per escluderne la computabilità nella cubatura complessiva consentita (cfr. TAR Friuli Venezia Giulia, 12.06.2006, n. 426).
Da tutto quanto detto consegue, in definitiva, che non concorre al calcolo della volumetria assentibile il parcheggio pertinenziale che sia realizzato, come previsto nel caso di specie, al piano terreno di un edificio esistente, per il quale il rapporto di pertinenzialità deve essere visto in relazione appunto alla suddetta normativa speciale in materia di parcheggi dettata dalla legge n. 122 del 1989 e dalla l.r. n. 19 del 2001, e non già con riferimento alla disciplina di carattere generale sugli interventi pertinenziali di cui all'art. 3 del D.P.R. n. 380/2001
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 14.05.2013 n. 2495 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’autorizzazione all’installazione di impianti pubblicitari è subordinata alla valutazione in ordine alla sua compatibilità con il diverso interesse pubblico generale alla ordinata regolamentazione degli spazi pubblicitari nel territorio e nell’ambiente (che non possono essere indiscriminatamente lasciati alla libera iniziativa privata pur se configurabili come forma di attività economica), e, quindi, essa costituisce oggetto di una specifica disciplina, non sovrapponibile o confondibile con quella edilizia, considerato che l’art. 3 del decreto legislativo 15.11.1993 n. 507 prevede che i comuni, nel disciplinare con proprio regolamento le modalità di effettuazione della pubblicità, stabiliscano limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie esclusivamente in relazione ad esigenze di pubblico interesse.
Premesso:
- con il ricorso in esame proposto il 30.6-1.7 del 2011 la società De Sanctis Pubblicità, a mezzo di due motivi di censura per violazione di legge ed eccesso di potere, ha domandato l’annullamento del provvedimento dirigenziale emesso dal IV Settore comunale (impianti pubblicitari) il 25.05.2011, recante diffida e dichiarazione di decadenza relativamente a permessi in precedenza rilasciati per l’installazione di impianti pubblicitari che vengono ritenuti tardivamente collocati (rispetto a 30 giorni dal rilascio del permesso e in assenza della dichiarazione di inizio lavori) e, perciò, da considerare abusivi;
- il comune di Rieti, con le controdeduzioni, ha formulato talune eccezioni, di difetto di legittimazione attiva (per essere stato il ricorso proposto dal signor Paolo De Sanctis in proprio anziché nella sua veste di amministratore della De Sanctis Pubblicità s.r.l. alla quale è stato rilasciato il permesso del 07.05.2010), di genericità della domanda d’annullamento (per le argomentazioni confuse e caotiche), di tardività del secondo motivo d’impugnazione, diretto a contestare la quantità degl’impianti pubblicitari autorizzati con l’atto concessorio del 2010;
- la relazione ministeriale, constatate tanto la poco chiarezza del ricorso quanto la confusione nelle controdeduzioni comunali, ha concluso per l’accoglimento del ricorso nell’assunto che dall’atto impugnato non sarebbe dato di evincere il tipo di violazione commessa.
Considerato:
- va disattesa l’eccezione, formulata dal comune, di difetto di legittimazione del ricorrente, con cui si sostiene, formalisticamente, l’estraneità del ricorrente alla pretesa facente invece capo alla società della quale il ricorrente è amministratore. La legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere e subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa. Essa dev'essere accertata in relazione non alla sua concreta sussistenza, da contrastare con adeguata prova, bensì in ordine alla sua affermazione contenuta nell’atto introduttivo del giudizio. Conseguentemente l’indagine volta a verificarne l’esistenza dev'essere unicamente diretta ad accertare la coincidenza, dal lato attivo, tra il soggetto che propone la domanda e colui che nella stessa domanda è affermato titolare del diritto. Nella specie, sussiste coincidenza fra l’attore e la società che nella domanda è individuata ed affermata come destinataria della pretesa attorea, come tale risultante anche dagli stessi atti di provenienza comunale (il ricorrente ha ritirato il permesso accordato nella dichiarata qualità di amministratore della società) e, del resto, il comune non ha neppure contestato tale titolarità del rapporto controverso;
- da respingere è altresì la eccepita genericità dell’impugnazione. Sul punto, è sufficiente rilevare che l’inammissibilità dell’impugnazione per genericità dei motivi sussiste solo quando il giudice non sia posto in grado di comprendere quali vizi il ricorrente deduca per sostenere l’invalidità del provvedimento impugnato (Consiglio Stato, sez. IV, 17.02.2009 n. 912). Fuori da questi limiti, è dovere del giudicante interpretare il ricorso ed esaminare le censure ancorché non organicamente articolate, ricavandole dal contesto del ricorso e della richiesta formulata. Nel caso di specie emerge con sufficiente chiarezza che il ricorrente ha impugnato soltanto l’atto di decadenza del permesso assentito e si duole della relativa pronuncia ritenendola ingiustificata e perciò illegittima;
- in collegamento, è quindi priva di pregio anche l’altra eccezione circa la tardiva impugnazione della quantità degli impianti pubblicitari autorizzati con l’atto concessorio del 2010, perché questo provvedimento non è stato impugnato, e il secondo motivo di censura è unicamente diretto a mettere in luce il contesto decisionale e operativo del comune, tacciato di atteggiamento persecutorio;
- nel merito, il ricorso dev’essere accolto poiché non possono essere condivise le motivazioni poste dal comune a base dell’automatica decadenza pronunciata a termini dell’art. 15 del decreto del Presidente della repubblica 06.06.2001 n. 380 (“...Il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere completata, non può superare i tre anni dall’inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita”...) in relazione all’art. 10, comma 5, del regolamento sugl’impianti pubblicitari (“L’autorizzazione potrà essere revocata qualora l’installazione non avvenga entro trenta giorni dal rilascio della stessa...");
- al riguardo, va premesso che si sta discorrendo in materia di impianti pubblicitari e dell’installazione di un totem e di cinque fioriere, il che esclude che a tale tipologia di attività debba applicarsi senz’altro la disposizione recata dal citato art. 15 del d.P.R. n. 380/2001 in tema di osservanza del termine (di trenta giorni previsto dal regolamento), quando poi lo stesso suo art. 10, comma 5, prevede come possibile e discrezionale la relativa decadenza della concessione accordata;
- l’autorizzazione all’installazione di impianti pubblicitari è subordinata alla valutazione in ordine alla sua compatibilità con il diverso interesse pubblico generale alla ordinata regolamentazione degli spazi pubblicitari nel territorio e nell’ambiente (che non possono essere indiscriminatamente lasciati alla libera iniziativa privata pur se configurabili come forma di attività economica), e, quindi, essa costituisce oggetto di una specifica disciplina, non sovrapponibile o confondibile con quella edilizia, considerato che l’art. 3 del decreto legislativo 15.11.1993 n. 507 prevede che i comuni, nel disciplinare con proprio regolamento le modalità di effettuazione della pubblicità, stabiliscano limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie esclusivamente in relazione ad esigenze di pubblico interesse;
- nell’atto impugnato non sono neppure evidenziate esigenze d’utilità sociale ovvero di tutela ambientale o di valenza estetica che inibiscano l’esercizio di tali forme pubblicitarie senza violare l’art. 41 della Costituzione, e da esso non è dato neanche evincere il tipo di violazione commessa dal ricorrente, come giustamente posto in risalto dalla relazione ministeriale;
- d’altro canto, quanto all’effettiva sussistenza nella specie dei presupposti di fatto relativi all’inerzia dell’interessato e pur a riguardare la fattispecie in una visuale di decadenza automatica, va pure rilevato come il comune non abbia minimamente contrastato la circostanza dedotta nel ricorso, che l’installazione è avvenuta entro i 30 giorni alla presenza, sul luogo di ubicazione degli impianti e d’inizio lavori, di un vigile urbano (dott.ssa Carla Francia) e del responsabile dell’ufficio tecnico comunale (signora Catia Rossi);
- conclusivamente, per tutte le considerazioni sopra sviluppate, la censura di carenza di motivazione della pronuncia di decadenza è fondato e il ricorso va accolto, annullando l’atto impugnato (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 16.04.2013 n. 1801 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di un atto vincolato, non preceduto dal preavviso ex art. 10-bis L. n. 241/1990, va considerato operante il disposto della prima parte dell'art. 21-octies della stessa legge, che impedisce al Giudice di annullare l'atto che sia affetto da tale vizio procedimentale.
Ne consegue che non può essere inficiato dalla omessa comunicazione di avvio del procedimento il provvedimento negativo sulla richiesta di autorizzazione in sanatoria di opere realizzate in carenza del titolo abilitativo, trattandosi di determinazione costituente atto vincolato, indipendentemente dalla partecipazione dell'interessato.

Anche il secondo motivo è infondato.
In presenza di un atto vincolato, non preceduto dal preavviso ex art. 10-bis L. n. 241/1990, va considerato operante il disposto della prima parte dell'art. 21-octies della stessa legge, che impedisce al Giudice di annullare l'atto che sia affetto da tale vizio procedimentale (Cons. Stato Sez. V, 03.09.2009, n. 5169).
Ne consegue che non può essere inficiato dalla omessa comunicazione di avvio del procedimento il provvedimento negativo sulla richiesta di autorizzazione in sanatoria di opere realizzate in carenza del titolo abilitativo, trattandosi di determinazione costituente atto vincolato, indipendentemente dalla partecipazione dell'interessato (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 06.09.2012 n. 3807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO ALL'08.07.2014

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di abusi ambientali, non sanabili perché non rientranti nella casistica ex art. 167 d.lgs. 42/2004, legittimamente l'istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica è da subito rigettata dal responsabile dell'Ufficio Tecnico, senza perdere tempo ad acquisire il parere della Commissione Paesaggio e, soprattutto, il successivo parere (obbligatorio e vincolante) della Soprintendenza.
I lavori (abusivamente) effettuati (in area paesaggisticamente vincolata) non sono, invero, riconducibili:
- né ai casi di cui alla lettera a) del comma 4 del richiamato articolo 167 (lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati),
- né alle ipotesi di cui alla successiva lettera b) (impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica),
- né si configurano quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del d.P.R. n. 380/2001 (lett. c) del medesimo comma).
Pertanto, posto che, per pacifico e consolidato orientamento giurisprudenziale, ove le opere risultino diverse da quelle sanabili e indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono che procedere alla reiezione dell’istanza di sanatoria, con l’unica eccezione a tale rigida prescrizione per il caso in cui i lavori, pur realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
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Inoltre, per sostenere l’illegittimità del provvedimento impugnato non può invocarsi l’omessa acquisizione del parere vincolante della Soprintendenza, di natura endoprocedimentale.
Osserva il Collegio che l’attuale disposto dell’articolo 21-octies della L. 241/1990, come novellata dalla L. 15/2005, ha oramai chiaramente disposto che le violazioni procedimentali intanto rilevano ai fini dell’annullamento giurisdizionale dell’atto in quanto risulti che la loro mancanza avrebbe condotto ad un esito provvedimentale diverso.
Invero, nel caso di specie, il parere della competente Soprintendenza non avrebbe certamente potuto essere favorevole, attesa la sussistenza di abusi perpetrati in zona soggetta a tutela paesaggistica e, pertanto, il provvedimento gravato, quale atto dal contenuto vincolato, non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente adottato.
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L’articolo 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42/2004, invero, prevede l’irrogazione della sanzione penale, oltre che nelle ipotesi di cui alla lettera a), anche nel caso di esecuzione di lavori in assenza di autorizzazione paesaggistica o in difformità da essa, che “ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi.” (lettera b).
In sintesi, le richiamate disposizioni sanciscono il divieto di eseguire lavori su beni paesaggistici comportanti creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati, senza il previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica o in difformità da quella in ipotesi ottenuta, dalla cui violazione scaturisce l’applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 167 e 181 del Codice Urbani, ossia la rimessione in pristino, la sanzione amministrativa pecuniaria e, nei casi, tra l’altro, di ampliamento superiore a settecentocinquanta metri cubi, la pena della reclusione da uno a quattro anni.
La circostanza, quindi, che il ricorrente senza che fosse stata rilasciata autorizzazione paesaggistica in variante abbia abusivamente realizzato una volumetria inferiore a quella prevista per l’irrogazione della sanzione penale, lo esime dalla comminatoria di tale sanzione ma non certo dalla soggezione alle misure afflittive contemplate dal plesso normativo testé richiamato per gli abusi di minore entità che non risultano, però, ascrivibili, come nel caso in esame, alle fattispecie per le quali, ferma restando l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, è consentito il rilascio di autorizzazione paesaggistica postuma.
Ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica proposti dal sig. E.N., contro l’Ente Consorzio Parco Regionale dei Colli di Bergamo, per l’annullamento, rispettivamente, quanto al ricorso n. 7188 del 2012, del provvedimento n. 513 del 01.02.2011, e, quanto al ricorso n. 7189 del 2012, del provvedimento n. 531 dell’11.02.2010, in relazione al diniego di compatibilità paesaggistica per opere concernenti “formazione di deposito agricolo ad uso promiscuo, stabulazione mobile animali, coltivazione di fiori e piante esotiche”, in Via Maresana a Ponteranica (BG);
...
Le censure dedotte, riassunte in narrativa, sono infondate.
Va, in primo luogo, ricordato che l’intervento edilizio di cui si controverte è stato realizzato in area sita in Via Maresana, Comune di Ponteranica, soggetta a tutela paesaggistica in base al vincolo di cui all’art. 142, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 42/2004, in quanto ricadente all’interno del perimetro di Parco Regionale dei Colli di Bergamo zona C1/b, parco agricolo forestale del P.T.C.. Un’area, quindi, per la quale, a mente dell’art. 146 del Codice Urbani, vige l’obbligo di presentare alle Amministrazioni competenti il progetto degli interventi che si intendono intraprendere e di astenersi dall’avviare i lavori fino a quando non sia stata rilasciata autorizzazione paesaggistica.
Orbene, nel caso di specie, assume rilievo la circostanza che il ricorrente ha intrapreso i lavori senza che fossero stati rilasciati l’autorizzazione paesaggistica in variante e il necessario titolo abilitativo edilizio.
L’intervento effettuato dal ricorrente è consistito, perciò, in lavori abusivamente realizzati, per i quali legittimamente il Parco dei Colli di Bergamo, all’esito degli accertamenti delle Guardie del Parco e del Responsabile edilizia privata del Comune di Ponteranica, cui era seguita la nota del medesimo Comune in data 06/03/2009, citata in premessa, con il gravato atto n. 513/2011 ha dichiarato non accoglibile l’istanza del 27/07/2009 di accertamento di compatibilità paesaggistica per le opere eseguite in assenza di autorizzazione paesaggistica, in ottemperanza a quanto disposto dagli articoli 181, commi 1-ter e 1-quater e 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004, successivamente emettendo il provvedimento intimativo del ripristino n. 1970/2011.
Del resto il predetto diniego, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, non poteva giungere “inaspettato”, dal momento che il N. stesso era pienamente a conoscenza della circostanza che il precedente diniego era stato annullato non per inesatta valutazione dell’entità degli abusi realizzati, ma in quanto erroneamente sottoscritto da soggetto carente della relativa competenza (il Presidente del Consorzio).
Tanto è vero che l’avversato provvedimento riproduce la ricostruzione dell’iter logico-giuridico operata attraverso la citazione delle ragioni di fatto, delle fasi procedimentali espletate, dei presupposti giuridici sottesi all’atto n. 531/2010, richiamando, nelle premesse, il preavviso di rigetto in data 01/12/2010 con il quale si comunicava che l’istanza del ricorrente non poteva essere accolta in quanto “trattasi di richiesta di compatibilità paesistica per opere consistenti in ampliamento di un edificio con destinazione agricola in Via Maresana nel Comune di Ponteranica, realizzate in assenza di titoli abilitativi edilizi nonché della relativa autorizzazione paesaggistica, che hanno determinato (documentazione agli atti) aumento volumetrico e di superficie utile derivante dall’ampliamento e sottochiusura delle gronde esterne del deposito agricolo esistente (mc. 66,08 e sup. coperta m. 29,82)", e, quindi, operando un evidente rinvio per relationem a siffatte motivazioni.
Occorre, in ogni caso, precisare che, il provvedimento in questione, oltre a dar conto di quanto sopra rilevato, dà evidenza, altresì, della circostanza che le osservazioni presentate dall’istante a seguito della comunicazione di preavviso di rigetto della richiesta di compatibilità paesaggistica, valutate puntualmente dalla Commissione preposta alla determinazione delle sanzioni ripristinatorie o pecuniarie inerenti interventi realizzati in assenza di autorizzazioni paesaggistiche entro il perimetro del Parco dei Colli, non consentivano di superare i motivi ostativi al rilascio della certificazione di compatibilità paesaggistica, in quanto “l’intervento non autorizzato pertinente le opere fuori terra del deposito agricolo ha determinato creazione di nuovo volume, come evidenziato negli elaborati grafici allegati e come ammesso nelle osservazioni presentate, pertanto non è riconducibile alla tipologia di lavori di cui possa essere richiesta la compatibilità paesaggistica ai sensi del c. 4 art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 e s.m.i.”.
Prive di pregio risultano, quindi, le censure volta a dimostrare la genericità e l’indeterminatezza del contenuto del provvedimento impugnato, nonché l’affermazione riferita al fatto che i lavori realizzati “si caratterizzano per il modesto ampliamento di un deposito funzionale all’attività di imprenditore agricolo”.
E, alla luce delle considerazioni fin qui svolte sulla scorta della documentazione in atti, che non si trattasse di “abusi minori”, ossia delle fattispecie marginali contemplate all’articolo 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, per i quali era consentito accedere alla procedura di accertamento della compatibilità paesaggistica, non è revocabile in dubbio.
I lavori effettuati non erano, invero, riconducibili né ai casi di cui alla lettera a) del comma 4 del richiamato articolo 167 (lavori, realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati), né alle ipotesi di cui alla successiva lettera b) (impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica), né si configuravano quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del d.P.R. n. 380/2001 (lett. c) del medesimo comma).
Pertanto, posto che, per pacifico e consolidato orientamento giurisprudenziale, ove le opere risultino diverse da quelle sanabili e indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono che procedere alla reiezione dell’istanza di sanatoria (ex plurimis, Cons. Stato, VI, n. 3578/2012), con l’unica eccezione a tale rigida prescrizione per il caso in cui i lavori, pur realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati, nel caso di specie, l’Ente Parco, a motivo del fatto che le trasformazioni apportate avevano comportato aumenti di superficie utile e volume, ha escluso la ricorrenza della fattispecie derogatoria appena richiamata, ed ha emanato, ai sensi degli articoli 167 e 181 del Codice Urbani, il contestato provvedimento di diniego di compatibilità paesaggistica e il conseguente provvedimento sanzionatorio di ripristino, con il quale si ordinava la “demolizione delle opere inerenti l’ampliamento volumetrico dei fronti nord, est ed ovest a piano terra del fabbricato a destinazione deposito/ripostiglio (locale pluriuso, bagno, angolo cottura vivande, ingresso vano scala, come indicato negli elaborati allegati alla richiesta di compatibilità paesaggistica pg. 3379 del 27.07.2009 TAV. 03)”.
A ciò si aggiunga, come evidenziato dall’Amministrazione riferente, che con la circolare esplicativa emanata dal medesimo Ministero n. 33 del 26.06.2009 è stato chiarito che per “volumi” si intende “qualsiasi manufatto costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla destinazione d’uso del manufatto, ad esclusione dei volumi tecnici”.
Né risulta conferente alla specificità della questione in trattazione, la citazione da parte del ricorrente di precedenti pronunce dei giudici amministrativi territoriali lombardi, non essendo fornita alcuna prova di quale possa essere il “guadagno ambientale” derivante dalla realizzazione di opere, quali quelle oggetto della odierna controversia, eseguite nella suddetta area vincolata in totale assenza di titoli autorizzatori e abilitativi.
Neppure rileva l’invocazione delle norme contenute nella L.R. della Regione Lombardia n. 12/2005, non solo perché le stesse non hanno intaccato la tutela del paesaggio, ma anche perché, nel caso di specie, il manufatto in questione ricade in area vincolata paesaggisticamente e dunque è assoggettato ad autorizzazione da parte degli organi preposti alla tutela del vincolo.
Inoltre, per sostenere l’illegittimità del provvedimento impugnato non può invocarsi l’omessa acquisizione del parere vincolante della Soprintendenza, di natura endoprocedimentale.
Osserva il Collegio che l’attuale disposto dell’articolo 21-octies della L. 241/1990, come novellata dalla L. 15/2005, ha oramai chiaramente disposto che le violazioni procedimentali intanto rilevano ai fini dell’annullamento giurisdizionale dell’atto in quanto risulti che la loro mancanza avrebbe condotto ad un esito provvedimentale diverso.
Invero, nel caso di specie, il parere della competente Soprintendenza non avrebbe certamente potuto essere favorevole, attesa la sussistenza di abusi perpetrati in zona soggetta a tutela paesaggistica e, pertanto, il provvedimento gravato, quale atto dal contenuto vincolato, non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente adottato.
Non meritevole di favorevole apprezzamento è anche l’affermazione del ricorrente laddove sostiene che nessuna sanzione poteva essergli inflitta, dal momento che l’aumento di volumetria realizzato risultava inferiore alla misura prevista dall’articolo 181-bis del codice dei beni culturali e del paesaggio.
La domanda di rilascio di autorizzazione paesaggistica postuma, infatti, è stata presentata dal ricorrente ai sensi degli articoli 167, comma 5 e 181, commi 1-ter e 1-quater, disposizioni che prevedono la possibilità di una valutazione postuma della compatibilità paesaggistica per i cennati interventi di minore rilevanza e consistenza, all’esito della quale si applicano comunque le sanzioni amministrative ma non quelle penali stabilite per il reato contravvenzionale contemplato dall’articolo 181, comma 1.
L’articolo 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42/2004, invero, prevede l’irrogazione della sanzione penale, oltre che nelle ipotesi di cui alla lettera a), anche nel caso di esecuzione di lavori in assenza di autorizzazione paesaggistica o in difformità da essa, che “ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per cento della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento della medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato una nuova costruzione con una volumetria superiore ai mille metri cubi.” (lettera b).
In sintesi, le richiamate disposizioni sanciscono il divieto di eseguire lavori su beni paesaggistici comportanti creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati, senza il previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica o in difformità da quella in ipotesi ottenuta, dalla cui violazione scaturisce l’applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 167 e 181 del Codice Urbani, ossia la rimessione in pristino, la sanzione amministrativa pecuniaria e, nei casi, tra l’altro, di ampliamento superiore a settecentocinquanta metri cubi, la pena della reclusione da uno a quattro anni.
La circostanza, quindi, che il ricorrente senza che fosse stata rilasciata autorizzazione paesaggistica in variante abbia abusivamente realizzato una volumetria inferiore a quella prevista per l’irrogazione della sanzione penale, lo esime dalla comminatoria di tale sanzione ma non certo dalla soggezione alle misure afflittive contemplate dal plesso normativo testé richiamato per gli abusi di minore entità che non risultano, però, ascrivibili, come nel caso in esame, alle fattispecie per le quali, ferma restando l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, è consentito il rilascio di autorizzazione paesaggistica postuma.
In base al complesso delle considerazioni sin qui svolte, pertanto, il ricorso n. 7188/2012 non può essere accolto (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 19.04.2013 n. 1888 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: R. Lasca, L'omofonia del termine “incarichi” usato dal legislatore delegato pro TRASPARENZA e anti CORRUZIONE - Corretto? Mica tanto. Semmai: due pesi e due misure per la stessa finalità! Ma c'è comunque tanto da dire su entrambi i versanti normativi! (25.06.2014).

SINDACATI

INCENTIVO PROGETTAZIONE - SEGRETARI COMUNALI: RIFORMA DELLA P.A. – tagli all’avvocatura e alla progettazione interna dei dirigenti, stop ai diritti di rogito dei segretari comunali (CGIL-FP di Bergamo, nota 28.06.2014).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 07.07.2014, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 30.06.2014, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 30.06.2014 n. 81).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 04.07.2014 n. 153 "Proroga del termine per adeguare i modelli di libretto e i rapporti di efficienza energetica degli impianti di climatizzazione" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 20.06.2014).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 04.07.2014 "Classificazione dei piccoli comuni non montani della Lombardia in zone che presentano simili condizioni di sviluppo socio-economico e infrastrutturale ai sensi dell’art. 2 della legge regionale 05.05.2004, n. 11 e classificazione generale dei piccoli comuni della Lombardia" (deliberazione G.R. 01.07.2014 n. 2008).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 04.07.2014 "Approvazione delle «Indicazioni operative per la classificazione e la declassificazione amministrativa della rete viaria in Regione Lombardia»" (decreto D.S. 30.06.2014 n. 5660).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 03.07.2014, "Approvazione del programma regionale di gestione dei rifiuti (P.R.G.R.) comprensivo di piano regionale delle bonifiche (P.R.B.) e dei relativi documenti previsti dalla valutazione ambientale strategica (VAS); conseguente riordino degli atti amministrativi relativi alla pianificazione di rifiuti e bonifiche" (deliberazione G.R. 20.06.2014 n. 1990).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: F. Gavioli, Carenza dei requisiti di partecipazione alla gara: imprese sanzionate (04.07.2014 - tratto da www.ipsoa.it).

VARI: R. D'Isa, La vendita di cosa altrui e di cosa parzialmente altrui (02.07.2014 - tratto da http://renatodisa.com).
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Sommario:
A) Vendita di cosa altrui
   1) La produzione dell’effetto reale
   2) Disciplina giuridica – pag. 6
   3) Vendita di cosa altrui venduta come propria
   4) Rifiuto del terzo
B) Vendita di cosa parzialmente altrui

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: OGGETTO: Istanza di Interpello - Cessioni a titolo gratuito al Comune, di aree ed opere di urbanizzazione – Applicabilità dell’articolo 32 del DPR n. 601 del 1973 (Agenzia delle Entrate, risoluzione 03.07.2014 n. 68/E).

ENTI LOCALI: OGGETTO: Articolo 243, comma 3-bis, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 – Organo di revisione economico-finanziaria delle unioni di comuni che svolgono tutte le funzioni fondamentali dei comuni membri – Articolo 1, comma 110, lett. c), della legge 07.04.2014, n. 56 – facoltà di svolgimento in forma associata da parte delle unioni di comuni delle funzioni dell’organo di revisione (Ministero dell'Interno, Dipartimento per gli Affari Interni e Territoriali, circolare 03.07.2014 n. 12/2014 - link a http://finanzalocale.interno.it).

LAVORI PUBBLICI: Oggetto: Legge 80/2014, art. 12: nuovi riferimenti normativi riguardanti le condizioni per la partecipazione alle gare d’appalto per i lavori – Quote nei raggruppamenti temporanei orizzontali (ANCE Bergamo, circolare 01.07.2014 n. 131).

APPALTI - CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PATRIMONIO: DECRETO-LEGGE 24.04.2014, N. 66 “MISURE URGENTI PER LA COMPETITIVITÀ E LA GIUSTIZIA SOCIALE” CONVERTITO NELLA LEGGE 23.06.2014, N. 89 - Nota di lettura sugli articoli di interesse per i Comuni e scadenzario delle norme di attuazione (ANCI, 30.06.2014).

APPALTI - ENTI LOCALI: OGGETTO: PIATTAFORMA PER LA CERTIFICAZIONE DEI CREDITI. MODALITÀ DI TRASMISSIONE DEI DATI. REGOLE TECNICHE PER LA COMUNICAZIONE DEI DATI RIFERITI A FATTURE (O RICHIESTE EQUIVALENTI DI PAGAMENTO). ART. 27 DECRETO LEGGE 24.04.2014 N. 66, CONVERTITO CON MODIFICAZIONI DALLA LEGGE 23.06.2014, N. 89 (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria Generale dello Stato, circolare 25.06.2014 n. 21).

EDILIZIA PRIVATALa disciplina nazionale della certificazione energetica - Guida operativa 2014 (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 19-20.06.2014 n. 657-2013/C).
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Sommario:
1. LA CERTIFICAZIONE ENERGETICA: NORMATIVA, SCOPI E FUNZIONI: 1.1. La normativa; 1.2. L’adeguamento normativo alla direttiva 2010/31/UE; 1.3. Il rilascio dell’attestato di prestazione energetica a partire dal 6 giugno 2013; 1.4. Scopi; 1.5. Funzioni; 1.6.1 Gli obblighi in materia di certificazione energetica;
2. L’OBBLIGO DI DOTAZIONE DELL’ATTESTATO DI PRESTAZIONE ENERGETICA: 2.1. I presupposti; 2.2. Gli edifici da dotare di certificazione energetica a prescindere da un loro trasferimento o locazione (cd. “presupposto oggettivo”); 2.3. Gli edifici da dotare di certificazione energetica in occasione del trasferimento e/o locazione (cd. “presupposto contrattuale”); 2.4. L’obbligo di dotazione per gli atti traslativi (dopo il D.L. 145/2013); 2.5. La locazione; 2.6. Il preliminare e le trattative contrattuali; 2.7. Il trasferimento e la locazione di immobile da costruire; 2.8. Esclusioni oggettive dall’obbligo di dotazione; 2.9. Gli immobili soggetti a vincolo culturale e paesaggistico;
3. L’OBBLIGO DI ALLEGAZIONE DELL’ATTESTATO DI PRESTAZIONE ENERGETICA: 3.1. La disciplina dopo il D.L. 145/2013; 3.2. L’obbligo di allegazione e l’obbligo di dotazione; 3.3. L’obbligo di allegazione e ruolo del Notaio; 3.4. L’allegazione dell’attestato di certificazione rilasciato prima del 6 giugno 2013; 3.5. Il riutilizzo di un attestato già allegato a precedente atto;
4. L’OBBLIGO DI CONSEGNA DELL’ATTESTATO DI PRESTAZIONE ENERGETICA: 4.1. Sussistenza di un autonomo obbligo di consegna;
5. L’OBBLIGO DI INFORMATIVA: 5.1. I presupposti; 5.2. La clausola;
6. GLI OBBLIGHI IN MATERIA DI CERTIFICAZIONE ENERGETICA CON RIGUARDO ALLE DIVERSE TIPOLOGIE DI ATTI: 6.1. Gli atti traslativi a titolo oneroso; 6.2. Gli atti traslativi a titolo gratuito; 6.3. Gli atti non traslativi; 6.4. I casi particolari; 6.5. Le locazioni; 6.6. Il ruolo del Notaio;
7. LE SANZIONI: 7.1. Le sanzioni per il caso di violazione dell’obbligo di dotazione; 7.2. Le sanzioni per il caso di violazione dell’obbligo di allegazione; 7.3. Le sanzioni per il caso di violazione dell’obbligo di consegna; 7.4. Le sanzioni per il caso di violazione dell’obbligo di dichiarazione di ricevuta informativa; 7.5. La sanzione amministrativa “in luogo” della nullità; 7.6. Adempimenti successivi all’applicazione della sanzione pecuniaria;
8. LA VALIDITÀ TEMPORALE DELL’ATTESTATO DI PRESTAZIONE ENERGETICA: 8.1. Le condizioni di validità dell’attestato di prestazione energetica; 8.2. Certificazione energetica e libretti degli impianti; 8.3. Certificazione energetica e decadenza;
9. I SOGGETTI CERTIFICATORI: 9.1. I certificatori abilitati; 9.2. I requisiti di indipendenza e imparzialità; 9.3. La disciplina in tema di certificazione; 9.4 La disciplina regionale.

SEGRETARI COMUNALI: Oggetto: Legge 27.12.2013, n. 147. Deliberazione del Consiglio nazionale d'amministrazione dell'Agenzia autonoma per la gestione dell'Albo dei segretari comunali e provinciali n. 275/2001 (Ministero dell'Interno, Albo Nazionale dei Segretari Comunale e Provinciali, nota 09.06.2014 n. 3636 di prot.).

CORTE DEI CONTI

APPALTIIn assenza di deroghe legislative, deve ritenersi che il Comune (non capoluogo di provincia) non può procedere ad acquisire autonomamente neppure lavori, servizi e forniture d’importo inferiore ad euro 40.000 mediante affidamento diretto, poiché la nuova disposizione di finanza pubblica, che ha novellato il comma 3-bis dell'articolo 33 del Codice dei contratti pubblici, assume nell’ordinamento carattere di specialità, e quindi di prevalenza, rispetto alla norma generale di cui all’art. 125, commi 8 e 11, dello stesso Codice.
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Le opzioni organizzative previste dalla norma per costituire la centrale di committenza a cui possono rivolgersi i Comuni sono:
(1) nell'ambito delle unioni dei comuni di cui all'articolo 32 del TUEL, ove esistenti, ovvero
(2) costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici, oppure
(3) ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle province, ai sensi della legge 07.04.2014, n. 56, residuando lo spazio per negoziazioni autonome solo a mezzo gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro soggetto aggregatore di riferimento.

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Con la nota richiamata in epigrafe il Sindaco del Comune di Torre Canavese (TO) chiede alla Sezione un parere in merito alla corretta interpretazione dell’art. 33, comma 3-bis, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, come riformulato dal decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito in legge 23.06.2014, n. 89.
In particolare, chiede se sia corretto ritenere che un Comune non capoluogo di provincia, avente popolazione inferiore a mille abitanti, non possa acquisire autonomamente lavori, servizi e forniture d’importo inferiore ad euro 40.000, mediante affidamento diretto, come invece previsto dall’art. 125, commi 8 e 11, dello stesso Codice dei contratti pubblici.
...
Il comma 3-bis dell'articolo 33 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici), aggiunto all’originario articolato dall'art. 23, comma 4, D.L. 06.12.2011, n. 201, conv. in L. 22.12.2011, n. 214, ha subìto una prima modifica da parte dell'art. 1, comma 4, D.L. 06.07.2012, n. 95, conv. in L. 07.08.2012, n. 135 e, successivamente, da parte dell'art. 1, comma 343, L. 27.12.2013, n. 147, a decorrere dal 01.01.2014.
Con l’art. 9, comma 4, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito in legge 23.06.2014, n. 89, il Legislatore è nuovamente intervenuto sul testo normativo in discorso, sostituendolo con il seguente: «3-bis. I Comuni non capoluogo di provincia procedono all'acquisizione di lavori, beni e servizi nell'ambito delle unioni dei comuni di cui all'articolo 32 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici anche delle province, ovvero ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle province, ai sensi della legge 07.04.2014, n. 56. In alternativa, gli stessi Comuni possono acquisire beni e servizi attraverso gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro soggetto aggregatore di riferimento. L’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture non rilascia il codice identificativo gara (CIG) ai comuni non capoluogo di provincia che procedano all’acquisizione di lavori, beni e servizi in violazione degli adempimenti previsti dal presente comma.».
Il nuovo testo dell’articolo è volto a soddisfare le esigenze di semplificazione dei centri d’acquisto e si inserisce nella direzione auspicata, a livello comunitario, nella recente Direttiva Appalti 2014/24/UE (59° considerando) che ha registrato nei mercati degli appalti pubblici dell’Unione una forte tendenza all’aggregazione della domanda da parte dei committenti pubblici, al fine di ottenere economie di scala, come prezzi e costi delle transazioni più bassi, nonché un miglioramento e una maggior professionalità nella gestione degli appalti.
Il comma in questione conferma, dunque, l’aggregazione obbligatoria per i Comuni, con esclusione degli enti locali capoluogo di provincia, per le procedure contrattuali per l’affidamento dei contratti di lavori, servizi e forniture.
Peraltro, nel testo novellato non è stata riprodotta la deroga alla disciplina in discorso, che era stata recentemente introdotta dall’art. 1, comma 343, della Legge 27.12.2013, n. 147 (Legge di stabilità per il 2014) il quale aveva aggiunto, alla fine del richiamato comma 3-bis, il seguente periodo: «Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle acquisizioni di lavori, servizi e forniture, effettuate in economia mediante amministrazione diretta, nonché nei casi di cui al secondo periodo del comma 8 e al secondo periodo del comma 11 dell'articolo 125».
Le opzioni organizzative previste dalla norma per costituire la centrale di committenza a cui possono rivolgersi i Comuni sono, pertanto:
(1) nell'ambito delle unioni dei comuni di cui all'articolo 32 del TUEL, ove esistenti, ovvero
(2) costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei competenti uffici, oppure
(3) ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle province, ai sensi della legge 07.04.2014, n. 56, residuando lo spazio per negoziazioni autonome solo a mezzo gli strumenti elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro soggetto aggregatore di riferimento.

Conclusivamente,
in assenza di deroghe legislative, deve ritenersi che il Comune richiedente il parere non possa procedere ad acquisire autonomamente neppure lavori, servizi e forniture d’importo inferiore ad euro 40.000 mediante affidamento diretto, poiché la nuova disposizione di finanza pubblica, che ha novellato il comma 3-bis dell'articolo 33 del Codice dei contratti pubblici, assume nell’ordinamento carattere di specialità, e quindi di prevalenza, rispetto alla norma generale di cui all’art. 125, commi 8 e 11, dello stesso Codice (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 02.07.2014 n. 144).

SEGRETARI COMUNALISul danno erariale per aver conferito al Segretario Comunale la funzione di Direttore Generale.
La richiesta risarcitoria avanzata dalla Procura regionale si riferisce in concreto all’ingiustificato esercizio, da parte del Sindaco e del Segretario comunale, della facoltà prevista dall’art. 108, comma 4 del D.Lgs. n. 267 del 18.08.2000 nel testo all’epoca vigente, che consentiva, nei Comuni con numero di abitanti inferiore a 15.000, di attribuire al Segretario comunale la funzione di Direttore Generale, con riconoscimento della relativa indennità.
...
Passando ora al merito il Collegio deve rilevare, contrariamente a quanto affermato dalla difesa dei convenuti, che le norme interne non precludono al Segretario comunale l’esercizio di poteri gestionali e prova di ciò è il fatto che gli stessi decreti di nomina non imputano al Segretario alcuna specifica funzione, rispetto a quelle poi in concreto esercitate.
Ne consegue che,
pur considerando gli atti di nomina quale espressione del potere di organizzazione dell’Ente, la condotta dei convenuti appare non conforme a ragionevolezza in applicazione dei principi di buona gestione a cui deve ispirarsi l’azione amministrativa, che è attività non libera ma vincolata nel fine. Infatti, le finalità dell’agire amministrativo sono riconducibili ai concetti di buon andamento e di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., come appare evidente dall’art. 1, comma 1 della Legge n. 241 del 1990 (nel testo modificato dall’art. 1 della Legge n. 15 del 2005 e dall’art. 7, comma 1, lett. a) della Legge n. 69 del 2009), il quale stabilisce che: “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano i singoli procedimenti, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario”.
Inoltre, dal contesto lavorativo in cui il Rapisarda ha ricevuto le funzioni e la conseguente indennità di Direttore Generale (Comune di 4.600 abitanti, con un organico di 10 dipendenti e con orario settimanale di 11 ore) risulta evidente che i convenuti hanno agito in dispregio delle più elementari regole di prudenza e di buona amministrazione, avendo concordato un compenso assolutamente spropositato in considerazione delle oggettive ridottissime dimensioni demografiche ed organizzative dell’Ente.
Tanto premesso
nel caso di specie deve rilevarsi che il conferimento al Rapisarda delle due aree gestionali “affari generali” e “servizi alla persona” non avrebbe comportato di per sé necessariamente alcun onere economico aggiuntivo per il Comune perché rientranti nelle funzioni attribuibili per legge e per previsione statutaria al Segretario comunale, e quindi non specificamente soggette a remunerazione aggiuntiva sullo stipendio base.
Va da sé che la rilevata irragionevolezza degli atti di nomina è la diretta conseguenza del comportamento tenuto dai convenuti, comportamento che ha cagionato un rilevante danno all’Ente locale ed è ascrivibile ad un atteggiamento gravemente colposo da parte loro.
Di tale danno sono responsabili il Sindaco Parsani per aver adottato i contestati provvedimenti di attribuzione al Rapisarda delle funzioni di Direttore generale, e il Rapisarda stesso, che, nella sua qualità, ha omesso di rilevarne l’irragionevolezza, ed ha così beneficiato dell’indennità connessa.
Sul punto il Collegio deve anche precisare che la gravità della colpa non è attenuata dagli obiettivi raggiunti dall’Ente sotto la direzione del Dott. Rapisarda in quanto la prestazione lavorativa, in particolare quella relativa al livello di vertice della struttura amministrativa deve tendere ad ottenere i risultati programmati e i contratti collettivi di lavoro della categoria prevedono a tal fine specifici istituti per l’incentivazione della produttività.
Sussistono, quindi, tutti gli elementi essenziali costitutivi della responsabilità amministrativa.
Passando ora alla quantificazione del danno deve rilevarsi che effettivamente il Rapisarda nel periodo in esame (settembre 2009 - dicembre 2010) ha percepito solo l’indennità di direzione e non anche quella di risultato (cfr. all. n. 8 del fascicolo della difesa).
Di conseguenza, questa Sezione, pur in assenza di evidenze documentali che possano attestare l’effettivo risparmio in tal senso ottenuto dal Comune di Carrobbio degli Angeli, ritiene comunque di doverne tener conto, ai fini dell’esercizio del potere riduttivo.
Il Collegio ritiene altresì di tener conto del fatto che la Giunta comunale del Comune di Carrobbio degli Angeli con delibera n. 79/2009 ha espresso il proprio parere favorevole alla nomina del Rapisarda a Direttore Generale ed al conferimento a quest’ultimo della conseguente indennità (cfr. all. n. 4 del fascicolo della difesa).
Infatti, tale circostanza, anche se non incide direttamente sull’apporto causale alla produzione del danno, in quanto la Giunta comunale non è di certo l’Organo titolato ad emanare l’atto di nomina in esame, tuttavia assume un non trascurabile rilievo sul fronte dell’elemento soggettivo. Infatti, pur se non è sufficiente per elidere l’elemento della colpa grave, ne viene in concreto ad attenuare la consistenza.
Ancora, il Collegio rileva che pur rappresentando il PEG, come già detto, solo uno degli elementi da valutare per poter qualificare come ragionevole o meno l’atto di nomina a Direttore Generale, va comunque tenuto conto anche del fatto che, nel caso di specie, quest’ultimo è stato quanto meno abbozzato dal Rapisarda per il 2011.
Di conseguenza, a fronte dell’importo di danno azionato dalla Procura regionale, ai convenuti può essere imputata la minor somma di euro 10.000,00, ad oggi già rivalutata oltre gli interessi legali, calcolati a decorrere dalla data di deposito della sentenza e sino al saldo effettivo, somma che deve essere ripartita addebitandone il 40% al Sindaco Parsani (euro 4.000,00) ed il 60% al Dott. Rapisarda (euro 6.000,00), in ragione della professionalità specifica di quest’ultimo che, nella veste di Segretario comunale, e quindi organo di consulenza generale dell’Ente, disponeva di maggiori elementi per prevedere le ricadute negative della contestata condotta (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 27.06.2014 n. 122).

ENTI LOCALIAll'ente «capofila» sconti anche se manca l'accordo. Patto. Tra i piccoli Comuni.
Nel Patto di stabilità interno la base di calcolo degli obiettivi è costituita dalla media della spesa corrente triennale (per il 2014 il triennio di riferimento è il 2009/2011) senza alcuna riduzione (circolare 5/2013 della Ragioneria generale dello Stato).
In questo quadro, era stata segnalata (si veda Il Sole 24 Ore 24.08.2013) la situazione insostenibile in cui si sarebbero venuti a trovare i Comuni capofila delle convenzioni create dagli enti fino a 5mila abitanti per gestire le funzioni fondamentali, perché avrebbero dovuto conteggiare nella base di calcolo anche le spese degli altri Comuni.
Per rimediare è stato consentita (legge 147/2013, comma 534) ai Comuni capofila la riduzione degli obiettivi scorporando dalla base di calcolo le spese a carico degli altri Comuni, prevedendo tuttavia un simmetrico aumento degli obiettivi di questi ultimi. Il meccanismo individuato da Anci e ministero del l'Economia è stato un accordo tra i Comuni interessati. L'accordo però, dal momento che non è sostenuto da nessuna norma, spesso è stato respinto dai Comuni che avrebbero dovuto aumentare il proprio obiettivo. Uno di questi ha interpellato il ministero del l'Economia, che ha però ribadito la necessità dell'intesa.
È stata allora interessata la Sezione regionale lombarda della Corte dei conti, che (parere 28.05.2014 n. 191) ha argomentato che i Comuni non capofila devono fornire i dati richiesti, sottoscrivendo (da parte del sindaco e del responsabile finanziario) il modulo messo a disposizione dall'Anci. In caso di rifiuto, la Corte ritiene che il Comune capofila possa comunicare direttamente al l'Anci i dati richiesti dalla norma. La Corte fa presente che senza la possibilità di comunicazione diretta dei dati da parte del comune capofila, la norma rischia di risultare inapplicabile in mancanza di adesione dei Comuni non capofila alla luce del lasso di tempo trascorso (ad esempio base di calcolo 2009-2011 e gestione diretta del servizio nel 2014 da parte di un Comune precedentemente convenzionato).
La sezione conclude precisando che la corretta applicazione della procedure sarà verificata dalla stessa Corte nel controllo sul rispetto del Patto.
L'assunto della Corte è pienamente condivisibile, anche per la elementare ragione che un Comune non può essere condannato a conteggiare spese di altri enti in presenza di una legge specifica che lo esenta da questa illogica incombenza e in assenza, per converso, di una norma che costringa gli altri Comuni convenzionati ad aderire all'accordo
 (articolo Il Sole 24 Ore del 30.06.2014).

QUESITI & PARERI

CONDOMINIO: Ascensore installabile autonomamente.
Domanda
Sono l'amministratore di un condominio, un condomino del quale intende realizzare un ascensore a proprie spese e ritiene non necessaria l'autorizzazione dell'assemblea. Vorrei conoscere quale è l'orientamento della giurisprudenza in materia.
Risposta
La pretesa del condomino appare fondata. Anche di recente la Cassazione ha affermato (sent. n. 10582/2014, che ha confermato la sentenza della Corte di appello) che è legittima l'installazione di un ascensore esterno a servizio e a spese di un solo condomino, senza previa autorizzazione dell'assemblea.
L'installazione dell'ascensore esterno a servizio esclusivo di un'unità immobiliare costituisce un'innovazione legittima che può essere eseguita a spese del proprietario (pertanto non richiede l'autorizzazione del condominio) se non pregiudica la stabilità o il decoro architettonico dell'edificio.
In base alla propria giurisprudenza (Cass. n. 14096/2012), la Suprema corte ha affermato che «in tema di condominio, l'installazione di un ascensore, al fine dell'eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un cortile e di un muro comuni, deve considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell'art. 1102 c.c., senza che, ove siano rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da tale norma, rilevi, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c. sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per effetto del richiamo ad essa operato nell'art. 3, 2° c., della legge n. 13/1989, non trovando detta disposizione applicazione in ambito condominiale»
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014).

ENTI LOCALI - VARI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Minori, conta la residenza. Per scegliere l'ente che deve pagare il ricovero. Se la potestà dei genitori è stata sospesa si fa riferimento al tutore.
Qual è, ai sensi della legge 08.11.2000, n. 328, l'ente locale competente al pagamento delle rette di ricovero di una minore affidata, con provvedimento delle forze dell'ordine, a una struttura protetta sita in un comune diverso da quello ove la stessa era precedentemente ospitata e dalla quale si è allontanata volontariamente?

La disciplina di riferimento per determinare la residenza di un minore è l'art. 45 del codice civile, per il quale «il minore ha il domicilio nel luogo di residenza della famiglia o del tutore». Per quanto riguarda l'attribuzione degli oneri connessi alla degenza di un soggetto presso strutture residenziali, la legge n. 328/2000 stabilisce, all'art. 6, il principio che essi siano imputabili all'ente presso il quale, prima del ricovero, il soggetto abbia la propria residenza.
Nel caso di specie, il Tribunale dei minorenni, con proprio decreto, ha confermato l'inserimento della ragazza in una struttura stabile, già disposto con precedente provvedimento, e ha puntualizzato che «vige un ordine di collocamento in struttura della minore, mai revocato, con divieto di prelevamento per chiunque, che non occorre reiterare ma solo attuare (il che per altro impedisce qualsiasi dismissione della stessa dall'attuale struttura in cui si trova)».
Ciò posto, la provvisoria collocazione della ragazza in una struttura situata in un comune diverso da quello individuato dal Tribunale dei minorenni nei propri provvedimenti, disposta in situazione di emergenza da parte delle forze dell'ordine, mantiene comunque fermo l'onere economico a carico dell'amministrazione o delle amministrazioni come individuabili, oggettivamente, nel momento di inizio della prestazione.
Nel caso di specie, indipendentemente dall'accertamento della residenza dei genitori, a cui peraltro è stata sospesa la potestà sulla minore, occorre fare riferimento esclusivamente alla residenza del tutore nominato dal Tribunale (nella ipotesi in cui tale nomina sia avvenuta con provvedimento antecedente o simultaneo all'inizio della prestazione), alla luce del già citato articolo 45 del codice civile
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Indennità di fine mandato.
Un amministratore locale, al momento della nomina a sindaco, era già assessore provinciale e da subito ha optato per l'indennità prevista per tale carica - in virtù del divieto di cumulo stabilito dal comma 5, art. 82 del dlgs: 267/2000. Ha continuato a percepire tale indennità sino a quando la provincia è stata commissariata, poi, dal mese successivo, ha iniziato a percepire l'indennità quale sindaco dell'ente. Come deve essere quantificata l'indennità di fine mandato da corrispondere a tale amministratore in qualità di sindaco uscente?

L'art. 82, comma 8, del decreto legislativo n. 267/2000 ha introdotto l'indennità di fine mandato per il sindaco e il presidente della provincia. Dalla formulazione testuale della disposizione si evince che la stessa costituisce «un'integrazione» dell'indennità di funzione prevista in favore del sindaco alla fine dell'incarico amministrativo.
L'istituto ha trovato espressa previsione e regolamentazione nell'art. 10 del decreto ministeriale n. 119/2000, che ne ha stabilito la misura in un'indennità mensile spettante per ogni 12 mesi di mandato, proporzionalmente ridotto per periodi inferiori all'anno. Inoltre, la misura dell'indennità si correla essenzialmente alla funzione svolta dal percipiente per il periodo di concreto esercizio dei poteri sindacali.
Per quanto più attiene alle modalità di calcolo dell'indennità in argomento, il ministero dell'interno, con circolare n. 5 del 05.06.2000 e, successivamente, con circolare n. 4 del 28.06.2006, ha ribadito quanto definito in merito dal Consiglio di stato, all'uopo interpellato, con il parere espresso nell'adunanza della sezione prima del 19.10.2005, con cui viene riconfermato che l'emolumento de quo va commisurato all'indennità effettivamente corrisposta, per ciascun anno di mandato.
Nel caso di specie, al sindaco uscente deve essere calcolata l'indennità di fine mandato solo per il periodo intercorrente dal momento in cui lo stesso ha iniziato a percepire l'indennità quale sindaco dell'ente a quello in cui è cessato il mandato, coincidente con le consultazioni elettorali, e cioè per l'arco di tempo in cui lo stesso ha percepito l'indennità in qualità di sindaco
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014).

VARI: Iva 10% per stufa a pellet.
Domanda
È possibile avvalersi dell'Iva ridotta al 10% per l'installazione di una stufa a pellet?
Risposta
La risposta è affermativa, con precisazioni. L'intera prestazione di fornitura e montaggio può fruire dell'aliquota Iva 10% se la stufa a pellet è utilizzabile per il solo riscaldamento dell'ambiente in quanto non suscettibile di riscaldare anche l'acqua sanitaria né l'acqua eventualmente presente nell'impianto di riscaldamento.
In caso contrario, invece, la stufa a pellet assume le caratteristiche di una caldaia e diviene così un
«bene significativo» agli effetti stabiliti dalla normativa (art. 7, 1° comma, lett. b), legge n. 488/1999): in quanto bene significativo, l'Iva al 10% si applica se il valore dello stesso non supera la metà del valore dell'intera prestazione di servizi, altrimenti, se eccede il 50%, l'Iva al 10% si applica solo in parte (precisamente, sulla parte di corrispettivo che non è riconducibile a beni significativi nonché sulla differenza tra il valore complessivo della prestazione e il valore del bene significativo) mentre, per la parte restante, la prestazione soggiace all'aliquota Iva ordinaria (22%). In pratica, come esemplificato nella guida al recupero edilizio dell'Ag. delle entrate (pagg. 20-21), su una prestazione di complessivi euro 10.000, 6.000 dei quali riferibili a un bene significativo, l'aliquota del 22% si applica solo su 2.000, e quella del 10% sui restanti 8.000.
È, tuttavia, necessario che l'operazione si configuri come prestazione di servizi –di manutenzione ordinaria o straordinaria– e non come semplice fornitura della stufa a pellet, per cui deve essere accompagnata necessariamente anche dall'installazione al fine di massimizzare il beneficio fiscale relativo all'Iva.
Se, invece, la prestazione rientrasse all'interno di un'attività di recupero di rango ancor più elevato (ossia, restauro, risanamento conservativo o ristrutturazione), l'intero corrispettivo potrebbe fruire dell'Iva al 10%, senza necessità di scorporare il valore dei beni significativi individuati tassativamente dal dm 29/12/1999 (caldaie, ascensori e montacarichi, infissi esterni e interni, video citofoni, apparecchiature di condizionamento e riciclo dell'aria, sanitari e rubinetteria da bagni, impianti di sicurezza).
Rammentiamo anche che non si può applicare l'Iva al 10% ai materiali o ai beni forniti da un soggetto diverso da quello che esegue i lavori, ai materiali o ai beni acquistati direttamente dal committente, alle prestazioni professionali (anche se rese nell'ambito degli interventi finalizzati al recupero edilizio), alle prestazioni di servizi resi in esecuzione di subappalti all'impresa esecutrice dei lavori (in tal caso, peraltro, l'impresa subappaltatrice deve fatturare con l'aliquota Iva ordinaria del 22% all'impresa appaltatrice principale ma questa può poi fatturare la prestazione al committente con l'Iva al 10%, se ricorrono i presupposti) (articolo ItaliaOggi Sette del 30.06.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Proroga incarico di posizione organizzativa.
L'art. 42, comma 4, del CCRL del 07.12.2006 prevede che gli incarichi di posizione organizzativa siano conferiti per un periodo non superiore alla durata del mandato elettorale del sindaco.
L'eventuale disciplina regolamentare, che disponga la proroga degli incarichi alla scadenza del mandato elettorale del sindaco, sembra consentita soltanto se limitata al periodo strettamente necessario all'affidamento dei nuovi incarichi da parte del sindaco neoeletto.

Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla proroga dei poteri gestionali dei titolari di posizione organizzativa, allo scadere del mandato amministrativo del sindaco, fino a nuova nomina. L'Ente precisa che il vigente regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi nulla prevede in merito e rappresenta l'esigenza di evitare l'interruzione dello svolgimento dell'attività gestionale dell'Amministrazione.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione, valutazione e relazioni sindacali della Direzione Generale, si osserva quanto segue.
La disciplina contrattuale contemplata all'art. 42, comma 4, del CCRL del 07.12.2006 dispone che, negli enti privi di qualifiche dirigenziali, le funzioni correlate all'affidamento dell'incarico di titolarità di posizione organizzativa sono conferite a tempo determinato, per un periodo non superiore al mandato elettivo in corso del sindaco all'atto dell'affidamento e, comunque, non inferiore ad un anno.
La citata clausola contrattuale sottolinea, pertanto, la temporaneità degli incarichi in argomento, che si caratterizzano per la loro natura fiduciaria, in quanto legati alla durata del mandato elettivo in corso del sindaco all'atto del conferimento, durata che è indicata come limite massimo temporale e che non può, in ogni caso, essere superata. Un tanto anche in coerenza con la disciplina del Testo Unico n. 267/2000.
Conseguentemente, dalla formulazione della norma contrattuale in esame sembra evincersi che la durata minima fissata per l'attribuzione dell'incarico di posizione organizzativa corrisponda ad un periodo di almeno un anno (periodo peraltro conciliabile con le esigenze correlate a tale responsabilità e con l'annualità della valutazione degli interessati).
Pertanto, la previsione contrattuale ha indicato con chiarezza la durata minima degli incarichi in argomento, nonché quella massima coincidente con il periodo di mandato del sindaco, non prevedendo ipotesi di proroga degli incarichi di posizione organizzativa.
Si è, quindi, dell'avviso che si possa ricorrere a tale istituto solo in casi eccezionali, in cui non sia possibile procedere altrimenti, per ragioni di preminente interesse pubblico.
L'ANCI ha evidenziato come alcune previsioni inserite in atti regolamentari degli enti locali, che dispongano una limitata proroga degli incarichi in argomento, alla scadenza del mandato elettorale del sindaco e per un periodo decisamente inferiore all'anno (introducendo una disciplina complementare a quella stabilita a livello contrattuale, che detta le regole generali) trovi valido motivo giustificativo esclusivamente nell'intento di evitare la creazione di un 'vuoto gestionale', nella fase di avvicendamento politico-amministrativo, con particolare riferimento alla realtà di enti di piccole o medie dimensioni
[1].
Qualora gli enti non abbiano approvato una disciplina regolamentare in relazione alla proroga in oggetto, si ritiene che, nelle more dell'affidamento dei nuovi incarichi di posizione organizzativa, il sindaco neo eletto possa attribuire la diretta responsabilità della gestione dei servizi al segretario comunale, ai sensi dell'art. 97, comma 4, lett. d), del d. lgs. 267/2000, richiamato espressamente dall'art. 42, comma 1, del CCRL del 07.12.2006.
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[1] Cfr. parere dell'11.06.2007
(30.06.2014 - link a www.regione.fvg.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Assegnazione temporanea/comando.
Stante il disposto di cui all'art. 1, comma 413, della l. 228/2012, sembra potersi evincere che, con il consenso di tutte le parti interessate, l'assegnazione temporanea di personale delle pubbliche amministrazioni possa essere consentita anche in deroga al limite temporale dei tre anni, previsto all'art. 30, comma 2-sexies, del d.lgs. 165/2001.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di utilizzare ancora, mediante l'istituto del comando/assegnazione temporanea, un dipendente comunale, considerato che lo stesso ha già operato funzionalmente, alle dipendenze dell'Amministrazione istante, per un periodo di tre anni.
Preliminarmente si informa che a tutt'oggi non è pervenuto alcun chiarimento, da parte del Dipartimento della funzione pubblica, in risposta al quesito inoltrato dallo scrivente
[1] in ordine all'interpretazione della fattispecie contemplata all'art. 30, comma 2-sexies, del d.lgs. 165/2001, come novellato dall'art. 13 della l. 183/2010. Detta norma, stabilisce che le pubbliche amministrazioni, per motivate esigenze organizzative, risultanti dai documenti di programmazione previsti all'articolo 6 del medesimo decreto legislativo 165/2001 [2], possono utilizzare in assegnazione temporanea, con le modalità previste dai rispettivi ordinamenti, personale di altre amministrazioni per un periodo non superiore a tre anni, fermo restando quanto già previsto da norme speciali sulla materia, nonché il regime di spesa eventualmente previsto da tali norme e dallo stesso decreto legislativo. Dalla formulazione della richiamata disposizione non emerge con chiarezza se la fattispecie dell'assegnazione temporanea di personale coincida o si differenzi dall'istituto del comando.
Ad ogni buon conto, in attesa di riscontro da parte dell'Autorità competente, si osserva che l'art. 1, comma 413, della l. 228/2012 (legge di stabilità 2013) ha stabilito che, a decorrere dal 01.01.2013, i provvedimenti con i quali sono disposte le assegnazioni temporanee del personale delle pubbliche amministrazioni in applicazione della norma in esame, sono adottati d'intesa tra le amministrazioni interessate, con l'assenso del dipendente in questione.
Una siffatta formulazione potrebbe lasciar intendere che, con il consenso di tutte le parti coinvolte, l'assegnazione temporanea di personale possa essere disposta anche in deroga ai limiti temporali fissati dalla norma medesima.
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[1] Vedasi precedente nota n. prot. 10086 del 02.04.2014, indirizzata a codesto Ente.
[2] Documento di programmazione triennale del fabbisogno del personale
(27.06.2014 - link a www.regione.fvg.it).

APPALTI SERVIZI: Proroga del servizio di raccolta, trasporto e smaltimento rifiuti.
Qualora nel bando di gara e nel capitolato speciale d'appalto sia contemplata la possibilità di prorogare il contratto per il tempo necessario all'espletamento di una nuova gara, si ritiene che non sia necessaria la stipulazione di un contratto di proroga, risultando sufficiente l'accettazione da parte dell'appaltatore della determinazione di proroga adottata dall'Ente.
La Comunità Montana, su delega di 25 Comuni del suo territorio, ha indetto nel 2011 una gara europea aperta per la gestione del servizio di raccolta, trasporto e smistamento dei rifiuti, al termine della quale ha stipulato un contratto di durata triennale che scadrà il prossimo 30.06.2014. Come appreso per le vie brevi, nel capitolato speciale d'appalto era prevista la possibilità di prorogare il contratto per un periodo massimo pari a sei mesi, al fine di consentire all'Ente di espletare le procedure di reperimento di un nuovo contraente, tramite nuova gara aperta.
In considerazione del fatto che tale proroga comporta soltanto uno spostamento in avanti della scadenza dell'attuale contratto, e che il servizio sarà svolto agli stessi patti e condizioni del contratto principale, chiede l'Ente se vi sia la necessità di stipulare con la ditta appaltatrice un 'contratto di proroga' relativo all'importo aggiuntivo, ovvero se sia sufficiente far sottoscrivere all'appaltatore la determinazione di proroga per integrale accettazione, oltre ad una lettera commerciale avente valore contrattuale, fermi restando l'adeguamento del deposito cauzionale e l'acquisizione della documentazione prevista dalla vigente normativa.
Sentito il Servizio provveditorato e servizi generali di questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Preliminarmente pare opportuno ricordare che si ha una proroga tecnica nel momento in cui la stazione appaltante decide di avvalersi della facoltà di prolungare l'efficacia del contratto spostando in avanti la sua scadenza, a condizioni invariate.
Tale proroga trova generalmente fondamento nella lex specialis della gara, così che tutti i concorrenti siano a conoscenza della facoltà della stazione appaltante di potervi, in determinate circostanze, fare ricorso.
Nel caso di specie, stando a quanto affermato dall'Ente instante, la possibilità di proroga per sei mesi del contratto in essere è stata indicata nel bando di gara e nel capitolato speciale d'appalto.
Di conseguenza, nel momento in cui l'appaltatore ha sottoscritto il contratto iniziale, ha anche accettato tale eventualità, costituendo la clausola parte integrante del contratto stesso.
Perciò, in capo all'appaltatore, non sussisterebbe nemmeno la facoltà di rispondere negativamente, poiché, in questo caso, verrebbe meno agli accordi sottoscritti inizialmente.
Infatti, in relazione all'accettazione, da parte dell'appaltatore, della proroga in parola, si osserva che secondo l'AVCP 'il riscontro negativo alla richiesta di proroga inviata alla stazione appaltante potrebbe (...) qualificarsi come inadempimento ad uno degli obblighi derivanti dal contratto e conseguentemente legittimare la stazione appaltante all'incameramento della cauzione costituita dal fornitore'
[1].
Lo slittamento in avanti del termine dell'appalto, peraltro già ipotizzato nel contratto, non costituisce quindi una modifica sostanziale allo stesso, poiché restano inalterate tutte le condizioni di svolgimento dell'appalto.
Si ritiene, pertanto, che non sia necessaria la stipulazione di un contratto di proroga, risultando sufficiente l'accettazione da parte dell'appaltatore della determinazione di proroga.
Si rileva infine che, come stabilito dall'AVCP, qualora la proroga sia concessa per garantire la prosecuzione dello svolgimento del servizio (in capo al precedente affidatario) nelle more dell'espletamento delle procedure necessarie per l'individuazione di un nuovo soggetto affidatario, non è nemmeno necessario chiedere un nuovo codice CIG
[2].
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[1] AVCP, deliberazione n. 85 del 10.10.2012.
[2] AVCP, FAQ sulla tracciabilità dei flussi finanziari
(20.06.2014 - link a www.regione.fvg.it).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA: Prefabbricati e tendoni, serve il permesso. L'installazione di strutture smontabili a uso stagionale non rientra nell'attività edilizia libera.
Titoli abilitativi. Secondo i giudici il requisito dell'utilizzo ricorrente nel tempo prevale su quello dell'impianto leggero e dei materiali impiegati.

L'ultimo intervento in ordine di tempo è quello della legge 80/2014, di conversione del Dl 47, che ha escluso l'obbligo di acquisire un titolo abilitativo per le roulotte, i camper e le case mobili, ma solo se posti all'interno di strutture ricettive all'aperto (si veda l'altro articolo in pagina). Il tema dei permessi edilizi relativi alle strutture leggere e temporanee, però, è molto più ampio, ed è sempre al centro dell'attenzione dei giudici.
Il Dpr 380/2001 ricomprende tra gli interventi di «nuova costruzione» –per la cui esecuzione è necessario il previo rilascio di un titolo abilitativo– l'installazione di manufatti leggeri, anche se prefabbricati, e le strutture di qualsiasi genere (articolo 3, comma 1, lettera e.5, prima parte). Tra queste strutture, in particolare, rientrano anche le roulotte, i camper, le case mobili e le imbarcazioni che vengano adibiti ad abitazione, ambienti di lavoro, depositi o magazzini, e che –proprio per tale destinazione– non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee e di carattere precario.
Le opere «precarie»
La giurisprudenza si è soffermata da tempo sulla nozione di «precarietà» delle opere e sugli elementi distintivi che queste devono possedere al fine di stabilire se farle rientrare nell'ambito dell'attività edilizia libera o ricondurle tra le nuove costruzioni. La Corte costituzionale, con la sentenza 278/2010, poi ripresa nella pronuncia 171/2012, ha ricordato che per la normativa statale ogni trasformazione permanente del territorio necessita di titolo abilitativo e ciò anche ove si tratti di strutture mobili, quando queste strutture non abbiano carattere precario.
La pronuncia chiarisce sul punto che la nozione di «precarietà» deve intendersi in una duplice accezione: quella «oggettiva», correlata «alle tipologie dei materiali utilizzati» per l'intervento, e quella «funzionale», che risulta invece «caratterizzata dalla temporaneità dell'intervento». La distinzione operata dalla Consulta si richiama a un orientamento progressivamente consolidatosi nel tempo, che ha fatto assumere decisivo rilievo alla «precarietà funzionale» e che è stato ribadito dalla VI sezione del Consiglio di Stato nella sentenza n. 2846 del 03.06.2014. Qui si evidenzia che la precarietà di un'opera, quale condizione che esclude il permesso di costruire, presuppone un utilizzo del bene specifico e temporalmente limitato.
Sul punto i giudici di Palazzo Spada sottolineano poi che il concetto di «temporaneità» dell'uso non deve essere confuso con quello di «stagionalità», perché quest'ultima non è volta a soddisfare un bisogno eccezionale, provvisorio o contingente. Le opere stagionali, insomma, non sono precarie e costituiscono nuova costruzione. E questo fa passare in secondo piano l'elemento oggettivo e la tipologia del materiale utilizzato, se l'intervento è funzionale a soddisfare esigenze permanenti, «a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (ad esempio: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato a un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo» ed è quindi idoneo ad alterare lo stato dei luoghi e ad incrementare il carico urbanistico.
Bocciata la tensostruttura
Nello stesso senso si pone la recente decisione del Tar Lombardia-Brescia (Sezione I, 04.06.2014, n. 600), che ha esaminato il caso di una tensostruttura in montanti di metallo e teloni di plastica, stabilendo che la stessa –pur se dotata di meccanismi che la rendono retrattile– non si colloca nell'attività edilizia libera, ma tra tra gli interventi di nuova costruzione, di cui all'articolo 3 comma 1-e.5, prima parte del Testo unico, trattandosi di manufatti leggeri, utilizzati come ambienti di lavoro oppure come deposito o magazzino e non diretto a soddisfare esigenze meramente temporanee.
Né si potrebbe assimilare la tensostruttura alle serre mobili stagionali (comma 1-e), poiché non presenta un'utilizzazione differenziata nel corso dell'anno; né alle opere contingenti e temporanee destinate a essere rimosse entro 90 giorni (comma 2-b), essendo evidente che l'utilità del manufatto non implica alcuna scadenza; né alle aree di sosta esterne contenute nei limiti dell'indice di permeabilità (comma 2-c), in quanto oltre alla platea in calcestruzzo esiste un volume reale o virtuale; né, infine, alle modifiche della destinazione d'uso dei locali aziendali (comma 2-e-bis), in quanto non si sostituisce a un preesistente spazio attrezzato qualificabile come locale dell'impresa.
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01 | NON SONO PRECARIE LE STRUTTURE STAGIONALI
La «precarietà» dell'opera –che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire– postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità. Non possono essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un'utilizzazione perdurante nel tempo, per i quali l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.
Consiglio di Stato, sezione VI, 03.06.2014, n. 2842
02 | C'È LOTTIZZAZIONE ANCHE CON OPERE MODESTE
È legittimo un provvedimento che contesta una lottizzazione abusiva nel caso in cui il privato non si sia limitato alla semplice recinzione del fondo e realizzazione di una strada sterrata, ma abbia eseguito opere che denunciano in modo inequivoco l'intenzione di procedere a una lottizzazione (apposizione di baracche di legno e/o roulotte, non accompagnate dal formale e legittimo esercizio di attività agricola).
Né si può sostenere che la modesta natura delle opere non comporti la trasformazione irreversibile del fondo: tale argomento non può valere per la lottizzazione repressa dall'articolo 18 della legge 47/1985 (vedi oggi l'articolo 30 del Dpr n. 380/2001), poiché questa è qualificata da modificazioni fisiche anche solo dell'uso dell'area che, a prescindere dalla loro entità, si pongano in contrasto con le destinazioni stabilite dal Prg.
Consiglio di Stato, sezione IV, 19.02.2013, n. 1028
03 | L'ECCEZIONE DETTATA PER I CAMPEGGI
La collocazione di case mobili sarebbe, in astratto, definibile come «nuova costruzione», secondo l'articolo 3, comma 1, lettera e), Dpr 380/2001. La disposizione, infatti, cita anche la «installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee». Tuttavia, la disposizione va coordinata con le disposizioni regionali e con le peculiari esigenze di un'area destinata a campeggio, ovvero rientrante fra le «strutture ricettive all'aria aperta».
Consiglio di Stato, sezione VI, 05.04.2013, n. 1885
04 | NON SERVONO OPERE IRREVERSIBILI
Ai fini del rilascio della concessione edilizia, deve parlarsi di nuova costruzione in presenza di opere che comunque implichino una stabile –per quanto non irreversibile– trasformazione urbanistico-edilizia del territorio preordinata a soddisfare esigenze non precarie del committente sotto il profilo funzionale e della destinazione dell'immobile.
Consiglio di Stato, sezione IV, 24.07.2012, n. 4214
05 | IL TENDONE IN PVC NON È ATTIVITÀ LIBERA
Deve essere considerato intervento di nuova costruzione, come tale soggetto a permesso di costruire, l'installazione di un manufatto o di struttura di qualsiasi genere (anche roulotte, camper, case mobili o imbarcazioni) che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee.
In particolare è da escludersi che sia destinata a esigenze temporanee l'installazione di una voluminosa copertura in Pvc, per quanto stagionale, specie ove si tratti di struttura destinata all'esercizio di un'attività commerciale e di somministrazione, come tale ontologicamente «non temporanea». Nel caso specifico, la struttura veniva rimossa per un periodo di quattro mesi ogni anno.
Consiglio di Stato, sezione VI, 16.02.2011, n. 986
06 | LA TENSOSTRUTTURA IN PLASTICA E METALLO
Una tensostruttura in montanti di metallo e teloni di plastica costituisce nuova costruzione ex articolo 3 comma 1, lettera e.5 (prima parte) del Dpr n. 380/2001 (manufatti leggeri utilizzati come ambienti di lavoro oppure come depositi e magazzini, non diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee).
Tar Lombardia-Brescia, sezione I, 04.06.2014, n. 600
07 | LA ROULOTTE CON GLI ALLACCIAMENTI
È legittimo l'ordine di rimozione di una roulotte stabilmente installata all'interno di un suolo privato, senza il preventivo rilascio dell'atto di assenso edificatorio, nel caso in cui sia utilizzata a fini abitativi (nella specie l'utilizzazione a fini abitativi risultava dall'allaccio abusivo alle utenze di luce, gas e acqua). In tal caso, infatti, la roulotte deve qualificarsi come costruzione urbanisticamente rilevante, per la quale occorre il previo rilascio di permesso di costruire, stante la presenza di indici in grado di supportare il carattere non precario della installazione.
Tar Liguria, sezione I, 18.02.2014, n. 281
08 | NON OCCORRE L'ANCORAGGIO AL SUOLO
Anche per case mobili, camper e roulotte è necessario il permesso di costruire quando queste –a prescindere da uno stabile legame con il suolo– siano destinate a esigenze di tipo abitativo, lavorativo o di deposito, a carattere duraturo. Anche in queste situazioni, in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione, segue l'acquisizione dell'area di sedime al patrimonio comunale.
Tar Toscana, sezione III, 29.07.2009, n. 1319
09 | IL CAMPEGGIO CON SERVIZI FISSI
Integra il reato di lottizzazione abusiva la realizzazione di un campeggio, anche se autorizzato, qualora l'area destinata alla struttura ricettiva venga radicalmente mutata per la presenza di opere stabili, strutture abitative e servizi in grado di snaturarne le caratteristiche originarie. Nella specie, si trattava di lavatoi, servizi igienici, piazzole con cucine e verande, uffici e roulottes intrasportabili.
Cassazione penale, sezione III, 04.06.2013, n. 29731
10 | I PREFABBRICATI MONTATI SU RUOTE
È configurabile il reato di costruzione edilizia abusiva (articolo 44, comma 1, lettera b, del Testo unico dell'edilizia, Dpr 380/2001) nell'ipotesi di installazione su un terreno, senza permesso di costruire, di strutture mobili quali camper, roulotte e case mobili, sia pure montate su ruote e non incorporate al suolo, aventi una destinazione duratura al soddisfacimento di esigenze abitative. Nel caso specifico, si trattava di case prefabbricate munite di ruote gommate.
Cassazione penale, sezione III, 23.03.2011, n. 25015
11 | LA LOTTIZZAZIONE TRAMITE QUOTE DI SRL
Integra il reato di lottizzazione abusiva negoziale il trasferimento di un terreno, sulla base di quote societarie che conferiscono al suolo un assetto proprietario frazionato in lotti, ove risulti in modo inequivoco la destinazione dei lotti a scopo edificatorio. Nel caso esaminato dai giudici, al versamento della quota da parte di ciascun indagato –socio di una Srl proprietaria del terreno– conseguiva, contestualmente al conferimento, l'assegnazione in esclusiva di una piazzola su cui veniva posizionata una roulotte o un caravan, di fatto realizzando un frazionamento a scopo edilizio dell'area, in contrasto con il piano regolatore generale (Prg) e le norme di attuazione.
Cassazione penale , sezione III, 14.07.2010, n. 35968
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATACamper e roulotte dribblano la richiesta di autorizzazione. Decreto casa. Liberalizzazione dopo la stretta del decreto «del fare».
Tornano nel campo dell'edilizia libera le case mobili e i caravan collocati all'interno di strutture ricettive all'aperto.
Il decreto del fare (Dl 69/2013), modificando l'articolo 3, comma 1, lettera e.5), del Testo unico per l'edilizia, aveva ricondotto nel novero degli interventi di nuova costruzione i manufatti e le altre strutture leggere –come roulotte, camper e case mobili– posti all'interno di strutture ricettive all'aperto e adibiti alla sosta e al soggiorno di turisti, «ancorché siano installati con temporaneo ancoraggio al suolo», così escludendo che questa tipologia di installazioni potesse rientrare nell'ambito dell'attività edilizia libera.
La previsione, evidentemente ritenuta penalizzante per le attività turistiche, è stata oggetto di una piccola ma significativa modifica da parte dell'articolo 10-ter, del decreto casa, Dl 47/2014, inserito dalla legge di conversione 80/2014, in vigore dall'11 giugno scorso, che ha sostituito il termine «ancorché» con la locuzione «e salvo che». Risultato: non è più necessario il titolo abilitativo edilizio per questa tipologia di strutture, anche quando sono fissate al terreno, sia pure per un arco temporale limitato.
La modifica, secondo alcuni, potrebbe avere un impatto negativo sul territorio, favorendo fenomeni speculativi e consentendo lo sviluppo di un mercato di «seconde case», mascherato da attività ricettiva; ciò in quanto la disposizione prevede che i manufatti siano adibiti non solo alla «sosta» dei turisti –implicitamente di breve durata– ma anche al loro «soggiorno», che invece può assumere carattere indeterminato, tanto da poterlo assimilare all'uso abitativo.
Questo fenomeno, peraltro, è già stato affrontato dalla giurisprudenza. La Cassazione penale ha affermato più volte la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva negoziale nel caso di trasferimento di porzioni di terreno su cui posizionare un caravan o di assegnazione in uso esclusivo di una piazzola su cui posizionare una roulotte (sezione III, 04.06.2013, n. 29731, 23.03.2011, n. 25015, 14.07.2010, n. 35968 e 18.12.2008, n 3481). Anche il Consiglio di Stato ha ritenuto configurabile una lottizzazione "materiale" nel caso di presenza contestuale dei seguenti elementi: «a) acquisto di lotto, non frazionato ma pro-indiviso, da parte di più soggetti; b) realizzazione sul medesimo di un complesso di opere, anche modeste (quali l'apposizione di baracche o roulottes), la cui installazione si pone comunque in contrasto con la destinazione attribuita dalle vigenti norme di Prg» (sezione IV, 19.02.2013, n. 1028).
In realtà, salvo fenomeni di abusivismo –sempre possibili in caso di inadeguato controllo del territorio– la norma non dovrebbe comportare particolari ripercussioni, se applicata correttamente. La deroga ai principi generali, infatti, riguarda unicamente i manufatti installati nell'ambito di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla normativa regionale di settore.
Inoltre l'ancoraggio della struttura può essere soltanto temporaneo e non stagionale, per cui non può avere carattere ciclico, poiché diversamente l'installazione del manufatto –e con essa il mutamento dello stato dei luoghi– finirebbe per diventare permanente. Il semplice ancoraggio non può poi essere inteso come possibilità di allaccio permanente alle reti tecnologiche o installazione di fosse imhoff, né può comportare la realizzazione di accessori o pertinenze del manufatto, quali cordoli in cemento, recinzioni e cancelli carrabili per l'ingresso al terreno su cui è ancorato il manufatto.
Non va infine trascurato che se per qualunque ragione venisse meno la destinazione turistica della struttura, come nel caso decadenza di una concessione dell'area o di mancato rinnovo dell'autorizzazione all'esercizio dell'impresa, i manufatti presenti dovrebbero essere tutti immediatamente rimossi a cura e spese dei proprietari o di chi li ha installati
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Restano i tagli alle avvocature locali. Incentivi. Gli effetti del decreto sulla Pa.
Il mondo degli economisti industriali è unanime nel dire che il problema del sistema Italia è quello della produttività, ed in particolare della produttività della Pa. In questo quadro rientra lo sforzo di costruire e valorizzare le professionalità interne, così da ottenere il duplice beneficio di farle lavorare di più e di risparmiare qualcosa in termini di consulenze. Un tema connesso con il nodo generale dell'incentivazione del personale, ovvero della individuazione di metodi di valutazione delle performance credibili e corretti.
Se la teoria è condivisibile è anche vero che, nella generalità dei casi, i risultati sono stati modesti. Sembravano fare eccezione le avvocature degli enti territoriali, almeno per le regioni (ad esempio il Veneto e la Toscana) e per quegli enti locali che si sono attrezzati adeguatamente, ottenendo cosi il risultato sia di ridurre le spese per servizi legali esterni, sia di presidiare al meglio i propri contenziosi.
In poche parole oggi, a norma di contratto nazionale, gli avvocati pubblici ricevono un compenso aggiuntivo, ma solo nel caso che vincano la causa e, a differenza degli avvocati dello Stato, nei limiti di un tetto contenuto, che si aggira nell'ordine di un importo massimo di 30-40 mila euro annui, ovvero di 1.000-1.500 euro netti al mese.
Si tratta di un meccanismo pensato per motivare il personale che, normalmente è inquadrato come funzionario di categoria D e che quindi non percepisce certo stipendi faraonici.
Per questo, essere intervenuti con l'articolo 9 del Dl 90/2014, dopo per altro avere già penalizzato queste figure con la legge di stabilità (articolo 1, comma 457, della legge 147/2013) che ne aveva ridotto i compensi "professionali" del 25%, finisce per cozzare con equità e interesse pubblico. Proprio per questo il testo del decreto è stato corretto ancor prima della pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» proprio per "salvare" gli avvocati degli enti territoriali, ma il risultato è stato quantomeno incerto (si veda Il Sole 24 Ore del 26.06.2014).
L'articolo 9, comma 1, del decreto Pa, infatti, prima cancella la base normativa per gli incentivi (articolo 21 del Rd 1611/1911) e poi propone una curiosa e parziale "abrogazione dell'abrogazione" precisando che questa «non si applica agli avvocati inquadrati con qualifica non dirigenziale negli enti pubblici e negli enti territoriali».
Soprattutto, però, l'entità dei compensi così disordinatamente "tutelati", cioè quelli rimessi a carico della controparte nel contenzioso, è insignificante rispetto a quelli cancellati dal comma successivo, che nega ogni forma di emolumento nel caso in cui le spese legali vengano lasciate a carico delle parti. È questa, infatti, la vera ragione del contendere, perché è quasi la regola che, nei contenziosi contro la Pa, il giudice conceda la compensazione delle spese.
In sostanza, almeno per gli avvocati che non hanno qualifica dirigenziale, la norma da correggere è soprattutto quest'ultima, per evitare di stravolgere l'operatività di strutture oggi funzionanti con l'effetto di privare le amministrazioni territoriali della capacità di governare e valutare correttamente le proprie situazioni di contenzioso
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2014).

PUBBLICO IMPIEGO: Riposi compensativi anche di più giorni. Personale. Le indicazioni dell'Aran.
Le attività aggiuntive svolte nella giornata di riposo settimanale devono essere compensante con una maggiorazione della retribuzione del 50% e con un riposo pari alla durata della prestazione aggiuntiva. Il riposo compensativo può anche superare la giornata, nel caso di prestazione che superi quella media giornaliera, va fruito di regola entro i 15 giorni successivi e può essere monetizzato.
Sono queste le indicazioni, indubbiamente innovative, dettate dall'Aran.
In premessa si deve ricordare che questa risposta si riferisce al caso di un dipendente che svolge la prestazione lavorativa durante la giornata di riposo settimanale, di norma la domenica, in aggiunta al suo normale orario di lavoro. Nel caso di prestazione svolta durante la domenica, senza che vi sia un carico orario aggiuntivo, non si applica questo istituto. Che, nella lettura dell'Aran, contestata dai sindacati (la giurisprudenza è divisa), non si applica neppure nel caso di svolgimento della prestazione, non aggiuntiva, in una giornata di festività infrasettimanale. In queste ipotesi per l'Aran matura solamente, se ne ricorrono le condizioni, il diritto alla indennità di turno festiva, quindi senza alcun recupero.
La disciplina è contenuta nell'articolo 24, comma 1, del contratto del 14.09.2000 (le "code contrattuali"), come modificato dal contratto del 05.10.2001. Al lavoratore spetta la maggiorazione della retribuzione, che deve essere così calcolata: «fatto 100 il valore della retribuzione oraria .. l'importo del compenso dovuto al lavoratore sarà pari a 50 - e non a 150 per ogni ora di lavoro prestato».
Al dipendente spetta una riposo compensativo che deve avere una durata pari alla prestazione aggiuntiva svolta. Nel caso quindi di prestazione di 12 ore e di orario di lavoro articolato su 6 giorni la settimana, cosicché la durata media di una giornata è di 6 ore, al dipendente devono essere concesse 2 giornate di riposo compensativo. Esso deve essere fruito entro i 15 giorni successivi: questo termine non ha in alcun modo «natura perentoria, ma sollecitatoria del corretto adempimento da parte del datore di lavoro pubblico».
Molto innovativa la conclusione: essendo in presenza di un «riposo volto a consentire al lavoratore di godere di quello settimanale, espressamente garantito dalla legge come diritto soggettivo» esso può «essere anche non fruito ed essere sostituito da forme di monetizzazione». Superando cioè esigenze di recupero psico-fisico che sono alla base del riposo settimanale
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2014).

APPALTI: Fattura elettronica, buon avvio Burocrazia permettendo. Il bilancio dall'esordio dell'obbligo nei rapporti tra fornitori e pubblica amministrazione.
Un primo bilancio a poche settimane dall'avvio della fatturazione elettronica obbligatoria nei rapporti tra i fornitori e la pubblica amministrazione, avvenuto il 6 giugno scorso, offre un'immagine positiva: i problemi non mancano e c'è la consapevolezza che ci vorrà tempo per mettere a posto tutte le caselle, ma intanto gli addetti ai lavori non lamentano grandi problemi applicativi.
Censimento completo, resta la complessità della burocrazia. Maria Laura Prislei, ispettore generale capo per l'Informatizzazione della contabilità dello Stato, fa un'analisi di quanto finora ha mostrato di funzionare, ma anche delle questioni ancora aperte: «Dal punto di vista della tenuta dei sistemi informativi, la nuova disciplina sta funzionando», spiega. «Le amministrazioni si sono quasi completamente censite sull'Indice della p.a. (Ipa). Dal Sistema di interscambio (Sdi) dell'Agenzia delle entrate le fatture affluiscono regolarmente sul sistema informativo Sicoge, gestito dalla ragioneria generale per tutti i ministeri».
Al 23 giugno, al termine di un primo censimento, risultavano registrate oltre 2 mila fatture affluite a Sicoge, un risultato non scontato a fronte dei problemi che spesso accompagnano le innovazioni nel nostro Paese. Va poi ricordato che l'obbligo scattato il 6 giugno riguarda anche le agenzie fiscali e gli enti previdenziali e che Sdi accetta anche fatture via pec, per cui i numeri complessivi delle fatture elettroniche sono sicuramente molto più consistenti.
Prislei non nasconde qualche difficoltà applicativa, soprattutto legata all'impatto organizzativo interno delle p.a.. Ricorda che la pubblica amministrazione italiana è complessa e fortemente diversificata nelle modalità di gestione delle spese. «Le amministrazioni si stanno organizzando e noi siamo al loro fianco per supportarle», assicura la dirigente.
Anche per le imprese fornitrici l'obbligo della fattura non è privo di difficoltà: «Si pensi alla necessità di inviare le fatture al corretto indirizzo Ia, alla necessità che tutti i campi richiesti dal Mef per il monitoraggio dei debiti della p.a. siano correttamente completati», ricorda Prislei. Che si mostra comunque fiduciosa sul medio termine, ricordando che si è dato vita a un «progetto di grande impatto per il Paese, che richiede da parte di tutti un forte impegno, specialmente nella fase d'avvio, ma può diventare uno strumento formidabile di ammodernamento della macchina pubblica e di accelerazione dei pagamenti della p.a.».
Il grande cambiamento è partito. Condivide a grandi linee questa analisi Paolo Catti, responsabile della ricerca dell'Osservatorio Fatturazione Elettronica e Dematerializzazione del Politecnico di Milano. «L'avvio della fatturazione elettronica verso la p.a. ha richiesto qualche sforzo iniziale e in alcuni casi si sono riscontrate difficoltà da parte di imprese e p.a. chiamate ad affrontare le nuove procedure», sottolinea l'esperto. Che considera inevitabili questi intoppi a fronte di una innovazione che «stravolge prassi e abitudini consolidate».
Dunque, un periodo per rodare e affinare la macchina era da mettere in conto. «È ancora troppo presto per un bilancio dell'innovazione», secondo Catti, il quale insiste comunque su un punto: «L'avvio dell'obbligo rappresenta un'occasione irrinunciabile per trasferire uno stimolo digitale a un Paese troppo spesso ancorato a prassi e modelli di gestione cartacei costosi e inefficienti.
A questo proposito Catti ricorda qualche dato che emerge proprio dall'Osservatorio Fatturazione Elettronica che cura: la p.a. può risparmiare circa 17 euro per ogni singola fattura ricevuta, un valore che deriva dall'impatto sull'intero processo di gestione della documentazione da parte degli uffici preposti a tale attività (14 euro dalla riduzione dei tempi di gestione interna delle fatture, 3 euro stimabili sui costi di gestione e archiviazione dei documenti). «La p.a. complessivamente potrà risparmiare fino a 1 miliardo di euro all'anno grazie alla fatturazione elettronica nelle relazioni con i propri fornitori», sottolinea.
I commercialisti approvano l'innovazione. «Il sistema sta funzionando bene e c'è stato modo per molte p.a. di testarlo e verificarlo», sottolinea Daniele Tumietto, dottore commercialista di Milano, partner di Menocarta.net, rete d'impresa nata dall'aggregazione tra aziende di varie regioni italiane che si rivolge principalmente ai dottori commercialisti e ad aziende ed enti da loro supportati, proponendosi come partner tecnologico e di processo.
Non manca qualche criticità, «dovuta non tanto alla piattaforma quanto al sistema di comunicazione della p.a., che ha limiti oggettivi». Da qui il suggerimento di «inviare fatture elettroniche con dimensioni inferiori ai 5Mb». Un altro aspetto da considerare è l'estensione degli allegati, avverte, dato che questa non è sempre evidente. Tumietto ritiene che occorra attendere ancora qualche settimana per esprimere un giudizio compiuto, ma intanto si mostra fiducioso in merito: «Il sistema è stato strutturato in modo adeguato per reggere volumi importanti». Secondo Andrea Cortellazzo, dottore commercialista di Padova, «l'elemento più critico in questa fase di avvio è la difficoltà, soprattutto per le aziende, di percepire la correlata obbligatorietà della conservazione sostitutiva a norma come adempimento obbligatorio per i flussi verso la p.a.».
In particolare le aziende non hanno chiaro se isolare questi flussi di fatturazione con dei sezionali Iva dedicati o piuttosto se avviare nella sola conservazione sostitutiva l'intero ciclo aziendale. «In tanti si stanno concentrando sulla fatturazione elettronica, sulla produzione delle fatture elettroniche, sulla instradazione dei flussi, ma forse ancora più importante è tenere presente che tutto ciò comporta l'obbligatorietà della conservazione a norma con tutti degli aspetti che ne conseguono», insiste Cortellazzo, altro membro di Monecarta.net
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014).

EDILIZIA PRIVATABonus energia, Ape sufficiente. Non è previsto l'invio di documentazione preventiva. Le risposte dell'Enea in materia di detrazioni fiscali del 55 e 65% sulle riqualificazioni.
Per usufruire delle detrazioni fiscali del 55-65% per gli interventi di riqualificazione energetica di un immobile non è obbligatorio inviare alcuna documentazione preventiva all'Enea. La normativa vigente impone solamente che entro 90 giorni dal termine dei lavori tramite l'applicativo http://finanziaria2014.Enea.it (cliccando sull'icona della cassetta postale) debba essere trasmessa all'Enea, per via telematica, la documentazione costituita dall'Ape (allegato «a»), dalla scheda descrittiva degli interventi realizzati (allegato «e») o in alcuni casi, una documentazione semplificata, costituita dal solo allegato «e» (nel caso di sostituzione di impianti termici con caldaie a condensazione, pompe di calore ad alta efficienza o impianti geotermici a bassa entalpia o di sostituzione di scaldacqua di tipo tradizionale con scaldacqua a pompa di calore) o dal solo allegato «f» (nei caso di sostituzione di infissi in singole unità immobiliari o di installazione di pannelli solari). La risoluzione 244/E del 2007 dell'Agenzia delle entrate ha precisato che la decorrenza dei termini per l'invio della documentazione parte dal giorno del «collaudo» finale dei lavori. Tale collaudo può essere esplicitato anche dalla ditta che ha eseguito i lavori.

Questa è la risposta fornita con le nuove faq 1, 2 e 12 (aggiornate alla fine di giugno scorso) dell'Enea in materia di documentazione da inviare per il riconoscimento delle detrazioni fiscali.
I tecnici ricordano che non sono previsti altri riscontri da parte di Enea, né in caso di invio corretto, né in caso di invio incompleto, errato o non conforme. Di conseguenza, è consigliabile che l'utente stampi questi documenti e li conservi in caso di futuri possibili controlli. L'allegato «a» deve essere necessariamente firmato e timbrato dal tecnico abilitato a certificare il rispetto dei requisiti richiesti all'impianto per accedere alle detrazioni.
Effettuata la trasmissione, in automatico ritorna al mittente da Enea una ricevuta informatica con il codice personale identificativo, valida a tutti gli effetti come prova dell'avvenuto invio.
Nella risposta fornita dall'Enea con la faq n. 6 sostiene che i soggetti ammissibili alla detrazione (del 55% o 65%) sono i proprietari, locatari o comodatari che sostengono le spese per l'esecuzione degli interventi su unità immobiliari esistenti o su parti di esse di qualsiasi categoria catastale, anche rurali, possedute o detenute, purché riscaldate. Nel caso di immobili residenziali, ai soggetti sopraelencati possono aggiungersi anche i familiari conviventi (il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado). Sono esistenti gli immobili accatastati o con richiesta di accatastamento in corso e con tributi pagati, se dovuti.
Attestato di prestazione energetica. Dal 04.08.2013 per accedere agli incentivi fiscali (55% e 65%) finalizzati al miglioramento delle prestazioni energetiche dell'unità immobiliare, dell'edificio o degli impianti occorre redigere l'Ape. L'Ape deve essere conservata dall'utente e, in quanto misura obbligatoria per l'accesso alle detrazioni, le spese tecniche per la sua compilazione sono anch'esse detraibili.
Per ciò che attiene alla metodologia di calcolo da seguire, come riporta la circolare del Mise del 07.08.2013, «fino all'emanazione dei decreti previsti dall'art. 4 del dl n. 63/2013, si adempie alle prescrizioni di legge redigendo l'Ape secondo le modalità di calcolo di cui al dpr 02.04.2009 n. 59, fatto salvo nelle regioni che hanno provveduto a emanare proprie disposizioni normative in attuazione della direttiva 2002/91/Ce».
Questa è la risposta fornita dall'Enea con la nuova faq n. 39 della fine giugno scorso in materia di attestato di prestazione energetica. I tecnici Enea ricordano che con il dl 04.06.2013, n. 63, convertito nella legge 03.08.2013, n. 90 (che recepisce la direttiva 2010/31/Ue del Parlamento europeo e del consiglio del 19.05.2010, sulla prestazione energetica nell'edilizia), l'Ace è stato soppresso e sostituito dall'Ape.
Pertanto, dal 04.08.2013, entrata in vigore della legge n. 90, nei casi ove esso è previsto (e cioè nel caso di interventi ai sensi della Finanziaria 2007, commi 344 e 345, quest'ultimo limitatamente alla coibentazione di strutture opache e alla sostituzione di infissi in contesti diversi dalle singole unità immobiliari), per accedere a questi incentivi, occorre ora redigere l'Ape.
Ai soli fini dell'accesso alle detrazioni in oggetto, nei casi ove esso è previsto, si continua a utilizzare lo stesso modulo dell'Ace, che può essere compilato e sottoscritto anche da un tecnico abilitato coinvolto nei lavori di cui alla richiesta di detrazione, mentre il tecnico compilatore dell'Ape non deve essere coinvolto nei lavori (per ulteriori informazioni sui requisiti dei certificatori, si rimanda al dpr n. 75/2013).
Detrazione Irpef 50% per la diagnosi energetica. Si applica la detrazione del 50% (ristrutturazione edilizia) anche per le opere finalizzate al risparmio energetico di un immobile, la cui realizzazione avviene in assenza di interventi edilizi propriamente detti. Anche la sola diagnosi energetica può essere detratta, purché porti a dei risparmi energetici misurabili. La diagnosi energetica non deve essere solamente un'analisi dello stato di fatto, ma deve contenere in primis risposte immediatamente applicabili con calcolo del risparmio energetico conseguito agli interventi proposti e attuati, nonché del raggiungimento degli standard di legge per le parti oggetto di diagnosi e intervento.
Ovviamente si tratta di interventi che in prima fase conseguono risparmi correggendo errori nell'uso della stessa abitazione per farli rientrare nei standard di legge. Per esempio, una riduzione della temperatura interna e delle ore di accensione dell'impianto di riscaldamento, se superiore ai limiti di legge, potrebbero essere corretti attraverso una diagnosi energetica per riportarli nei parametri degli «standard di legge» con chiari ed evidenti risparmi (documentati).
Inoltre, per ridurre il consumo energetico potrebbero essere attuati anche interventi legati a impianti elettrici, acqua calda sanitaria ecc. Alcuni potrebbero essere immediatamente eseguiti dallo stesso proprietario o con l'assistenza del professionista energetico, mentre altri da ditte specializzate. Questa è la risposta fornita dell'Agenzia delle entrate (Centro di assistenza multicanale di Salerno) al quesito posto dall'istituto Casacerta in merito all'applicazione della detrazione del 50% per la sola diagnosi energetica di un immobile.
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Due attestati con due funzioni distinte.
Due sono gli attestati utilizzati per la certificazione energetica di un immobile: l'attestato di qualificazione energetica e l'attestato di prestazione energetica. L'attestato di qualificazione energetica è chiamato a svolgere il ruolo di strumento di controllo «ex post» del rispetto, in fase di costruzione o ristrutturazione degli edifici delle prescrizioni volte a migliorarne le prestazioni energetiche. L'Ape è chiamato a svolgere il ruolo di strumento di «informazione» del proprietario, dell'acquirente e/o del locatario circa la prestazione energetica e il grado di efficienza energetica degli edifici. L'attestato di prestazione energetica si differenzia dall'attestato di qualificazione energetica proprio per la necessità, prevista solo per il primo, dell'attribuzione della classe di efficienza energetica.
Questo è quanto contenuto nello studio 19-20.06.2014 n. 657-2013/C del Consiglio nazionale del notariato rubricato «la disciplina nazionale della certificazione energetica - Guida operativa 2014».
Lo studio del Notariato costituisce la versione aggiornata, a seguito dell'entrata in vigore del dl 23.12.2013 n. 145, convertito, con modificazioni, con legge 21.02.2014 n. 9, del precedente studio 657-2013/C approvato dalla commissione studi pubblicistici il 19.09.2013: «la certificazione energetica (dall'attestato di certificazione all'attestato di prestazione energetica)» (pubblicato in Cnn notizie del 25.10.2013 n. 191)
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: L'Ape va allegato con distinguo. Niente obbligo per donazioni e locazioni di singole unità. Lo ha precisato il Notariato in uno studio sulla certificazione energetica degli edifici.
Novità in materia di sanzioni e obblighi per la certificazione energetica degli edifici e per l'Ape (attestato di prestazione energetica). Non è più previsto l'obbligo di allegazione in caso di trasferimenti a titolo gratuito (prime fra tutte le donazioni) e in caso di nuove locazioni di singole unità immobiliari. Sostituzione della sanzione della nullità con una sanzione pecuniaria a carico delle parti in caso di omessa dichiarazione o allegazione.

Sono le principali modifiche in materia di certificazione energetica apportate con il dl 145/2013, convertito con la legge n. 9/2014, ed esaminate dal recente studio 19-20.06.2014 n. 657-2013/C, approvato dal Consiglio nazionale del notariato.
Le principali novità. Il comma 7 dell'art. 1 del dl 145/2013 è intervenuto in materia di certificazione energetica, sostituendo i commi 3 e 3-bis (quest'ultimo introdotto dal dl n. 63/2013) dell'art. 6 del dlgs n. 192/2005 con un unico nuovo comma 3 (si vedano in tabella le modifiche).
La nuova normativa, ha inciso sugli obblighi di allegazione, di informativa e di consegna, lasciando invece immutata la disciplina vigente in tema di dotazione.
L'attuale quadro normativo. Il quadro normativo riguardante l'Ape (dopo il dl 145/2013) è dunque il seguente:
a) l'obbligo di dotazione dell'Ape è sempre imposto in caso di trasferimento di immobili a titolo oneroso e a titolo gratuito, e in caso di nuova locazione di interi edifici o di singole unità immobiliari;
b) in tutti i casi suddetti, sussiste l'obbligo dell'alienante o del locatore di «mettere a disposizione» l'Ape al potenziale acquirente o al nuovo locatario all'avvio delle rispettive trattative;
c) parimenti, in tutti i casi suddetti, sussiste l'obbligo dell'alienante o del locatore di consegnare l'Ape all'acquirente o al nuovo locatario alla fine delle rispettive trattative;
d) l'obbligo di inserimento nel contratto di apposita clausola (riguardo all'assolvimento dell'obbligo di informazione) è, invece previsto in caso di trasferimento di immobili a titolo oneroso, in caso di nuova locazione di interi edifici, e in caso di nuova locazione di singole unità immobiliari (esclusi quindi i trasferimenti a titolo gratuito);
e) l'obbligo di allegazione dell'Ape al contratto è previsto solo in caso di trasferimento di immobili a titolo oneroso, e in caso di nuova locazione di interi edifici (con esclusione dei trasferimenti a titolo gratuito e della nuova locazione di singole unità immobiliari).
L'obbligo di allegazione e l'obbligo di dotazione. Il comma 3 dell'art. 6 del dlgs 192/2005, nel testo riscritto dal dl 145/2013, nel prescrivere l'obbligo di allegazione dell'attestato di prestazione energetica ai contratti di compravendita e di trasferimento di immobili a titolo oneroso, non precisa quale deve essere il diritto oggetto di trasferimento.
Come indicato dallo studio del Notariato n. 657-2013/C, la normativa in tema di allegazione della certificazione energetica (e quindi, per il collegamento esistente tra i due obblighi, anche la normativa in tema di dotazione) deve ritenersi applicabile nei seguenti casi:
a) nel caso di trasferimento sia dell'intera proprietà che di una quota di comproprietà;
b) nel caso di trasferimento sia della piena o della nuda proprietà che di altro diritto reale di godimento (usufrutto, uso, abitazione);
c) nel caso di costituzione di diritti reali di godimento (usufrutto, uso, abitazione);
d) nel caso di affrancazione di fabbricati oggetto di enfiteusi;
e) nel caso di acquisto diretto del dominio, verso pagamento di un corrispettivo a favore del proprietario concedente;
f) nel caso di trasferimento della proprietà superficiaria di edificio già costruito (comportante «consumo energetico»).
Gli obblighi di dotazione e allegazione, invece, non esclusi nel caso di costituzione del diritto di superficie, non sussistendo ancora in questo momento un edificio per il quale possa essere rilasciata la certificazione energetica.
Definizione di copia dell'attestato di prestazione energetica. Il comma 3 del citato articolo 6 prevede inoltre che «copia dell'attestato di prestazione energetica deve essere altresì allegata al contratto». A tal proposito come indicato ancora dal citato studio del Notariato n. 657-2013/C, l'espressione «copia» utilizzata dal legislatore deve ritenersi equivalente a quella di «esemplare». L'attestato, infatti, viene generato attraverso un programma informatico e, di conseguenza, il vero «originale» è costituito dal file generato dal software utilizzato dal certificatore.
Pertanto, conclude lo studio del Notariato, all'atto possono essere allegati uno degli esemplari firmati in originale dal certificatore o la copia dichiarata conforme di un esemplare firmato in originale. È altresì possibile allegare copia autentica (rilasciata da notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò legittimato) di attestato recante la firma del certificatore in originale.
Obbligo di allegazione e dotazione in caso di contratto di locazione. Per quanto riguarda i contratti di locazione, a seguito delle modifiche apportate dal dl 145/2013, al comma 3 dell'art. 6, dlgs 192/2005, l'ambito applicativo dell'obbligo di allegazione è divenuto più restrittivo rispetto all'ambito applicativo dell'obbligo di dotazione.
Infatti, secondo la normativa vigente, l'obbligo di dotazione coinvolge tutti i nuovi contratti di locazione di edifici o di unità immobiliari, mentre l'obbligo di allegazione coinvolge sempre i nuovi contratti di locazione, ma con esclusione di quelli non soggetti a registrazione (in pratica i soli contratti che non superano i 30 giorni complessivi nell'anno) e di quelli che hanno per oggetto singole unità immobiliari. Pertanto, come precisato dal citato studio del Notariato, perché sorga l'obbligo di allegazione deve trattarsi di una nuova locazione così come previsto per l'obbligo di dotazione.
Tale disciplina non si applica, invece, quando non si è in presenza di una nuova locazione, per esempio un contratto che rinnova, proroga o reitera un precedente rapporto di locazione, ovvero in caso di cessione di un contratto di locazione o di subentro in un simile contratto ex art. 2558 c.c.. Trova, invece, applicazione la disciplina in materia di certificazione energetica, in caso di sub-locazione, che altro non è che un nuovo, autonomo, contratto di locazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAIl bonus del 65% non esclude altri benefici. Detrazioni. Cumulo con incentivi territoriali ma non con l'agevolazione del 30% per la ristrutturazione degli alberghi.
Dal 03.01.2013 la detrazione fiscale del 55-65% sugli interventi del risparmio energetico è cumulabile con specifici incentivi disposti da Regioni, Province, Comuni, «previa verifica che questi incentivi prevedano la cumulabilità con le detrazioni fiscali e usufruendo di essi per la parte di spesa eccedente gli incentivi locali».
Quindi questi benefici sono cumulabili per lo stesso intervento, a patto che naturalmente il bonus fiscale sia calcolato sull'effettiva spesa rimasta a carico del contribuente, cioè sul costo totale al netto di quanto ricevuto come incentivo regionale, provinciale o comunale.

La conferma è arrivata dall'Enea, nella nuova Faq 21 (l'articolo 6, comma 3, decreto legislativo 30.05.2008, n. 115, ha abrogato l'articolo 28, comma 5, del decreto legislativo 28/2011), la quale però ha confermato anche l'incumulabilità del bonus fiscale del 55-65% «con altre agevolazioni fiscali previste da altre disposizioni di legge nazionali per i medesimi interventi», tra le quali vi rientra anche il nuovo credito d'imposta per la ristrutturazione degli alberghi, introdotto dal decreto cultura e turismo (articolo 10, del decreto legge 31.05.2014, n. 83, in fase di conversione in legge).
Quest'ultima agevolazione consiste in un credito d'imposta del 30% delle spese relative a interventi di ristrutturazione edilizia (articolo 3, comma 1, lettera d, del Dpr 06.06.2001, n. 380) o di eliminazione delle barriere architettoniche (legge 09.01.1989, n. 13, e decreto del Ministero dei lavori pubblici 14.06.1989, n. 236) sostenute dal 2014 al 2016 su strutture ricettive esistenti alla data del 01.01.2012.
L'importo massimo delle spese agevolate è di 200mila euro. Il bonus va ripartito in tre quote annuali di pari importo e nel rispetto degli aiuti "de minimis" (regolamento Ue 1407/2013 della Commissione europea del 18.12.2013, relativo all'applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato sul funzionamento dell'Unione Europea).
Il previsto decreto attuativo non dovrebbe introdurre regole relative all'incumulabilità del credito d'imposta con altre agevolazioni, quindi, con riferimento della detrazione del 65% per il risparmio energetico, valgono i limiti sanciti da quest'ultima agevolazione.
La scelta tra le due agevolazioni, naturalmente, deve essere effettuata solo per quei lavori di ristrutturazione edilizia che rispettano anche i requisiti per beneficiare del bonus del risparmio energetico. Si pensi al rifacimento del tetto o alla costruzione di un cappotto. Inoltre, molti interventi minori, come il cambio delle finestre o della caldaia con beni energicamente efficienti (classificati tra le manutenzioni straordinarie, se presi singolarmente) possono rientrare nella ristrutturazione, se vengono effettuati in questo ambito, per il principio di attrazione sancito dalla circolare 24.02.1998, n. 57/E.
Analizzando, da ultimo, solo la percentuale dei due bonus, risulta ovviamente più conveniente la detrazione del 65% (50% dal 01.01.2015 al 31.12.2015) rispetto al credito d'imposta del 30 per cento ma va considerato anche che quest'ultimo è compensabile in F24 con altri debiti tributari o contributivi e può essere riportato anche negli anni successivi, mentre la detrazione del 65 per cento, ripartita in 10 anni, può scomputare solo l'Ires o l'Irpef dell'anno
 
(articolo Il Sole 24 Ore del 06.07.2014).

ENTI LOCALI: Proroga bilanci, Viminale generoso: slittamento al 30 settembre.
Il termine per l'approvazione dei bilanci di previsione 2014 degli enti locali slitterà al 30 settembre.

Il ministero dell'interno, infatti, è orientato ad andare oltre la richiesta dell'Anci, che nei giorni scorsi ha proposto di spostare la dead-line al 15 settembre.
Come evidenziato da ItaliaOggi del 02/07/2014, infatti, sono ancora troppe le incertezze e le incognite che impediscono ai comuni di chiudere i conti senza rischi. Molte amministrazioni, inoltre, si sono appena insediate dopo la recente tornata elettorale e spesso non vi sono i tempi tecnici per rispettare l'attuale scadenza del 31 luglio. E infatti il rappresentante dei sindaci, Piero Fassino, ha preso carta e penna e ha chiesto ad Angelino Alfano una nuova proroga. «Anche per il 2014, come accaduto nel biennio precedente», scrive Fassino, «il processo di formazione dei bilanci resta caratterizzato da rilevanti incertezze. Ancora oggi, infatti, i comuni non conoscono alcuni importanti elementi, indispensabili per la predisposizione del bilancio di previsione».
Il presidente dell'Anci richiama, in primo luogo, le rettifiche dell'Imu 2013 e le assegnazioni a titolo di fondo di solidarietà, rese note solo nei giorni scorsi. Ma all'appello mancano anche i provvedimenti di riparto di diversi, ulteriori fondi, per un ammontare superiore al miliardo, la cui distribuzione avverrà solo nelle prossime settimane.
Inoltre, sono ancora da distribuire i tagli previsti dal dl 66/2014 come contropartita dei risparmi attesi dalle misure di contenimento dei costi per gli acquisiti di beni e servizi, che valgono in tutto 375,6 milioni, e quelli in corrispondenza del maggior gettito Imu che deriverà dalla rimodulazione dell'esenzione sui terreni agricoli (350 milioni).
Infine, è in sospeso anche il riparto dei 625 milioni stanziati dallo Stato a favore dei comuni che, avendo già raggiunto i livelli massimi consentiti sulle aliquote Imu, non possono applicare la Tasi neppure ad aliquota base. Proprio la tempistica della Tasi, peraltro, pone un ulteriore problema: in base al calendario fissato dalla normativa vigente, infatti, i comuni che non hanno ancora deciso aliquote e detrazioni avranno tempo per farlo solo fino al 10 settembre (in mancanza, il tributo sarà dovuto ad aliquota base e dovrà essere versato in un'unica soluzione entro il 16 dicembre).
Ecco perché l'Anci aveva indicato come data ultima il 15: in pratica, l'extra time concesso dal Viminale potrebbe essere inutile. Altrettanto caotica è la situazione creata dalle norme dello stesso dl 66 che, dal 1° luglio, hanno importo a tutti i comuni non capoluogo di provincia la centralizzazione degli acquisti. Anche in proposito, l'Anci ha invocato una proroga, almeno fino al 31 dicembre
(articolo ItaliaOggi del 05.07.2014).

ENTI LOCALI: Unioni, sotto i 10.000 abitanti il revisore è sempre uno solo.
Nelle unioni con meno di 10.000 abitanti la revisione è attribuita sempre a un solo revisore anche quando queste esercitano in forma associata tutte le funzioni fondamentali dei comuni che ne fanno parte.

Lo ha chiarito la circolare 03.07.2014 n. 12/2014 del dipartimento affari interni e territoriali del ministero dell'interno.
La nota ministeriale ha fatto il punto sulla doppia disciplina in materia di revisione nelle unioni a seguito dell'approvazione della legge Delrio.
Il Viminale ha ribadito che la chance introdotta dall'art. 1 comma 100, lett. c) della legge n. 56/2014 (a norma della quale le funzioni dell'organo di revisione possono essere svolte dalle unioni in forma associata anche per i comuni le costituiscono) rappresenta una facoltà per gli enti e prescinde dalla quantità di funzioni svolte dall'unione per conto dei comuni membri. In questo caso, come prevede la legge Delrio, ove l'unione non superi il limite demografico dei 10.000 abitanti, la revisione contabile sarà attribuita a un solo revisore. Oltre questa soglia il collegio dei revisori sarà composto da tre membri.
Diversa è l'ipotesi (art. 234, comma 3, del Tuel) in cui le unioni esercitino in forma associata tutte le funzioni fondamentali dei comuni che ne fanno parte. In questo caso la revisione sarà obbligatoriamente svolta da un collegio di tre componenti che svolgerà le medesime funzioni anche per i comuni membri dell'unione. Ma per analogia con quanto previsto dalla legge Delrio, il collegio di tre revisori resterà in piedi solo nelle unioni sopra i 10.000 abitanti. Al di sotto di tale soglia, il revisore dovrà essere anche in questo caso uno solo. Secondo il ministero, infatti, la diversificata composizione dell'organo di revisione in base alla popolazione si applica anche alla fattispecie prevista dal Testo unico degli enti locali.
Pertanto, conclude il Viminale, «nel caso di unioni di comuni che esercitano in forma associata tutte le funzioni fondamentali dei comuni, l'organo di revisione esercita le medesime funzioni anche nei comuni che ne fanno parte e sarà costituito, alla luce di quanto previsto dall'articolo 1, comma 110, lett. c), della legge n. 56 del 2014, da un unico revisore nel caso in cui la popolazione complessiva dei comuni non superi i 10.000 abitanti e da un collegio composto da tre membri, per le unioni che superano tale limite»
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Cessioni gratuite ai comuni con imposta di registro fissa.
Imposta di registro fissa ed esenzione dalle imposte ipotecaria e catastale per le cessioni a titolo gratuito di aree sulle quali sono state realizzate opere di urbanizzazione a favore di un comune. Questa tipologia di atti non rientra, infatti, tra quelli interessati dalla soppressione delle agevolazioni per i trasferimenti immobiliari onerosi prevista dall'articolo 10, comma 4, del dlgs n. 23/2011 in tema di imposte indirette.

Lo ha chiarito l'Agenzia delle entrate con la risoluzione 03.07.2014 n. 68/E, rispondendo alla richiesta di un comune sull'applicazione a queste particolari cessioni del trattamento di favore previsto dall'articolo 32 del dpr n. 601/1973.
Com'è noto l'articolo 10 del dlgs n. 23/2011 ha introdotto, a decorrere dall'01.01.2014, delle rilevanti novità nel regime impositivo, ai fini delle imposte indirette, per gli atti, a titolo oneroso, traslativi o costitutivi di diritti reali immobiliari. In particolare, il comma 4 dell'articolo 10 della stessa norma ha previsto la soppressione di tutte le esenzioni e agevolazioni tributarie per gli atti di trasferimento immobiliare a titolo oneroso soggetti a imposta di registro in misura proporzionale. Il dubbio riguardava l'applicabilità o meno di queste modifiche normative agli atti di cessione, a titolo gratuito, al comune, di aree con relative opere di urbanizzazione.
Secondo l'Agenzia delle entrate, le agevolazioni restano applicabili agli atti se posti in essere a titolo gratuito. L'articolo 28 della legge urbanistica n. 1150/1942 stabilisce che l'autorizzazione del comune alla lottizzazione dei terreni a scopo edilizio è subordinata alla stipula di una convenzione che preveda, tra l'altro, la cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree necessarie alle opere di urbanizzazione primaria, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria.
Considerato, quindi, che il legislatore qualifica espressamente queste cessioni come atti a titolo gratuito, l'Agenzia delle entrate esclude che gli stessi possano essere ricondotti nell'ambito degli atti costitutivi o traslativi, a titolo oneroso, di immobili, interessati dalla norma di soppressione delle agevolazioni. Per questa tipologia di atti, dunque, continuano ad applicarsi le previsioni recate dall'articolo 32 del dpr n. 601/1973
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014).

SEGRETARI COMUNALI: Stipendi leggeri per i segretari. A rischio la retribuzione di posizione.
L'abolizione del divieto di reformatio in peius per il trattamento economico dei pubblici dipendenti, introdotto dalla legge di stabilità 2014, colpisce anche la platea dei segretari comunali e provinciali, i quali non potranno più mantenere la retribuzione di posizione della propria fascia professionale nel caso in cui esercitino la propria funzione in un ente locale appartenente a una classe inferiore.

È quanto mette nero su bianco la nota 09.06.2014 n. 3636 di prot. del Mininterno -Albo nazionale dei segretari comunali e provinciali-, in risposta a numerosi chiarimenti pervenuti in relazione alle disposizioni introdotte dallo scorso Capodanno dall'articolo 1, comma 458, della legge n. 147/2013.
Come noto, la predetta norma ha sancito l'espressa abrogazione dell'articolo 202 del Testo Unico sul pubblico impiego 10/01/1957, n. 3 e dell'articolo 3, comma 57, della legge n. 537/1993. Queste ultime, disposizioni di carattere generale che sancivano il divieto di reformatio in peius del trattamento economico dei pubblici dipendenti.
Da questa abrogazione, rileva la nota del Viminale, non è escluso l'ordinamento dei segretari comunali e provinciali, soprattutto per quanto riguarda il segretario nominato presso sedi di segreteria di enti che appartengono a fasce inferiori rispetto a quella di iscrizione.
In pratica, i segretari comunali e provinciali sono suddivisi in tre fasce professionali (A,B,C), cui corrispondono distinti trattamenti economici in base alla tipologia di ente presso cui ricoprono la funzione. Sul presupposto che il trattamento economico del segretario sia più elevato in relazione all'avanzamento di carriera e al servizio presso enti più popolosi, l'ex Agenzia autonoma per la gestione dell'Albo dei segretari, con deliberazione n. 275/2001, vigendo il principio del divieto di reformatio in peius, aveva disposto che il segretario mantenesse la retribuzione di posizione nel caso in cui lo stesso venisse nominato presso un ente appartenente a una fascia inferiore rispetto a quella della sua iscrizione. Adesso, con l'abrogazione del divieto, non sarà più così.
Il Viminale, infatti, ha ritenuto che le disposizioni espresse nella citata deliberazione dell'ex Agenzia autonoma siano ormai superate e non applicabili a partire dal 1° gennaio
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Taglio incentivi, enti nel caos. Aboliti diritti di rogito e premi ai progettisti. Ma da quando? DECRETO P.A./ Il dl 90 solleva dubbi sulla decorrenza temporale delle abrogazioni.
L'abrogazione dei diritti di rogito dei segretari comunali e degli incentivi alla progettazione per i dirigenti rischia di creare caos negli enti locali.
I segretari comunali e provinciali assicurano la funzione di ufficiale rogante negli enti locali. È un'attività altamente specialistica, che consente da sempre alle amministrazioni locali di evitare le spese, che sarebbero altrimenti ingentissime, connesse agli incarichi notarili.
In funzione della specificità del compito assegnato dalla legge, ai segretari era stato riconosciuta la compartecipazione ai diritti di rogito, come specifica remunerazione per questa attività, allo scopo di incentivare i segretari e compensare anche il lavoro di aggiornamento e formazione professionale necessari.
A fronte di risparmi irrisori, dunque, la riforma del ministro Marianna Madia rinuncia a un sistema di valorizzazione delle professionalità della p.a., per altro in modo contraddittorio.
Poiché, infatti, la norma modifica l'articolo 30, comma 2, della legge 734/1973 prevedendo che «il provento annuale dei diritti di segreteria è attribuito integralmente al comune o alla provincia», non si capisce se l'effetto sia retroattivo o meno. Non è chiaro, insomma, se ai segretari spetti la ripartizione dei diritti di rogito per le attività svolte e per i diritti, dunque, già maturati prima della vigenza del dl Pane, insomma, per il solito rituale dei pareri contrastanti della Corte dei conti e per le ispezioni della Ragioneria generale dello stato, se non vi siano urgenti chiarimenti da parte del legislatore.
Moneta simile è quella riservata dall'articolo 13 del dl 90/2014 agli incentivi per la progettazione. Non sono stati del tutto aboliti, come era emerso dalle tante bozze circolate nei giorni scorsi. Infatti, all'articolo 92, comma 6, del dlgs 163/2006 è aggiunto un comma 6-bis, ai sensi del quale «in ragione della onnicomprensività del relativo trattamento economico, al personale con qualifica dirigenziale non possono essere corrisposte somme in base alle disposizioni di cui ai commi 5 e 6».
Pertanto, incentivi per la progettazione sì, ma solo per chi non possieda la qualifica dirigenziale. Come se l'incentivazione riguardi non il risultato conseguito, ma lo status giuridico di chi svolge l'attività, a parità di lavoro svolto.
Anche nel caso degli incentivi per i dirigenti tecnici, non si capisce se la norma operi solo per il futuro, cioè per le attività di progettazione assegnate successivamente alla vigenza del dl 90/2014, oppure travolga anche le progettazioni e le pianificazioni già effettuate.
Meno ambigua è, invece, la riforma degli incentivi per gli avvocati dello stato. Infatti, l'articolo 9 del dl abroga il comma 457 dell'articolo 1 della legge 147/2013 e il comma 3 dell'articolo 21 del regio decreto 1611/1923, specificando, però, che tale abrogazione «ha efficacia relativamente alle sentenze depositate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto».
In ogni caso, si riduce anche per i legali delle p.a. l'incentivo a svolgere con efficienza la propria attività specialistica, poiché nelle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti, solo il 10% delle somme recuperate sarà ripartito tra gli avvocati dello Stato o tra gli avvocati dipendenti dalle altre amministrazioni, in base alle norme del regolamento delle stesse.
Tuttavia, anche in questo caso la riduzione delle incentivazioni non varrà per gli avvocati inquadrati con qualifica non dirigenziale negli enti pubblici e negli enti territoriali
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014).

PUBBLICO IMPIEGONei concorsi per dirigenti non vince sempre il migliore.
Cooptazione del 30% dei dirigenti a contratto negli enti locali sempre sulla base di criteri sostanzialmente fiduciari.
Non basta la previsione nel nuovo comma 1 dell'articolo 110 del dlgs 267/2000 (come novellato dall'articolo 11 del dl 90/2014) di una «selezione pubblica» per assicurare che i dirigenti a contratto siano assunti secondo le modalità stabilite dall'articolo 97 della Costituzione, cioè in base ad un concorso pubblico.
Nella realtà, la norma è strutturata in modo da lasciare di fatto ogni scelta ai sindaci, per permettere loro di creare una sorta di dirigenza «parallela» a quella di ruolo, composta da persone di fiducia. L'ampia possibilità di continuare a selezionare le persone più «vicine» politicamente sta scritta nei dettagli della previsione normativa, ai sensi della quale «fermi restando i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire, gli incarichi a contratto di cui al presente comma sono conferiti previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell'incarico».
Come si nota, la selezione non ha lo scopo, come avviene nei concorsi pubblici, di scegliere il migliore dei concorrenti sulla base delle prove di valutazione delle competenze e capacità, in esito alle quali si forma una graduatoria che vincola a stipulare il contratto di lavoro col concorrente meglio piazzato. La norma, pur sibillina, ha uno scopo diverso: accertare in capo a coloro che presentano la candidatura all'assunzione a tempo determinato il possesso dei requisiti per essere assunti (un'esperienza pluriennale comprovata e una specifica professionalità), non individuare il migliore.
In sostanza, la selezione si potrà limitare, come del resto fin qui è sempre avvenuto nelle circostanze in cui gli enti hanno ritenuto di procedere in tal modo, alla sottoposizione ai sindaci di una rosa di candidati che possiedono i requisiti, demandando, però, la scelta finale al sindaco, sul presupposto della «fiduciarietà» del rapporto da instaurare. Di fatto, la norma pare consentire di «vestire» scelte comunque per cooptazione, con procedure che di selettivo hanno soltanto il nome.
Non sembra un caso che nella stesura finale del dl 90/2014 siano saltate due previsioni inizialmente inserite nelle bozze. La prima avrebbe dovuto indurre a definire preventivamente il profilo professionale dell'incarico, cosa che avrebbe reso la «selezione» più oggettiva a monte. La seconda, avrebbe imposto di affidare la selezione a commissioni composte da soggetti dotati di particolare competenza, da scegliere tra dirigenti, docenti e professionisti esterni
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014).

LAVORI PUBBLICI: Gli appalti puntano sulle pmi. Incoraggiata la suddivisione in lotti delle grandi opere. Le nuove direttive Ue guardano con un occhio di riguardo alle piccole e medie imprese.
All'interno dei testi delle nuove direttive appalti (2014/24/Ue e 2014/25/Ue) e concessioni (2014/23/Ue) un elemento di rilievo è rappresentato dalle svariate disposizioni che manifestano un evidente favor del legislatore europeo per le piccole e medie imprese. Scopo del resto dichiarato sin dai Considerando iniziali delle medesime direttive. Va ricordato che la definizione di pmi era già stata offerta dal legislatore comunitario e successivamente, con dm 18/04/2005, recepita nell'ordinamento interno.
È interessante rilevare che dalla richiamata definizione e dai limiti dimensionali (di personale e fatturato) individuati si ricava che la maggioranza degli operatori economici italiani sono qualificabili, appunto, come pmi.
Anche per questo motivo il nostro legislatore aveva introdotto nel Codice dei contratti, anche con successivi interventi, molteplici disposizioni tese a facilitare tali soggetti. Al riguardo possiamo, ad esempio, ricordare il pagamento diretto dei subappaltatori (legge 136/2010), la raccomandazione di operare suddivisioni in lotti nei grandi appalti (art. 13 l. 180/2011), la necessaria motivazione per eventuali requisiti di fatturato (art. 41, comma 2 del dlgs 163/2006 introdotto dalla legge 135/2012) e, infine, l'attenuazione circa gli obblighi di comprova dei requisiti richiesti (sempre art. 13, legge 180/2011).
Proprio nel solco di tali previsioni, le direttive tornano a interessarsi delle pmi. In primo luogo, le direttive incoraggiano nuovamente la suddivisione in lotti dei grandi appalti, al riguardo, tuttavia, questa volta offrendo criteri di suddivisione su base quantitativa o qualitativa e addirittura prevedendo la facoltà per gli stati membri di rendere obbligatoria, in alcuni casi, la suddivisione in lotti di taluni appalti (art. 46). Viene, inoltre, previsto l'obbligo di fornire puntuali motivazioni circa la decisione, delle stazioni appaltanti, di non suddividere l'appalto in lotti.
Peraltro, l'argomento della suddivisione dell'appalto si interseca con il differente tema dei requisiti di partecipazione richiesti, poiché l'auspicata suddivisione in lotti inciderà, ancora in senso positivo per le pmi, su di una sostanziale ricalibrazione dei requisiti richiesti per la partecipazione ai singoli lotti.
E proprio a tali fini si può ritenere che sia stata introdotta l'approfondita disciplina, in ordine alle modalità di aggiudicazione degli appalti suddivisi in lotti, ora prevista dalle richiamate direttive; quanto detto al fine di eliminare ogni zona d'ombra che può avere fin qui ostacolato la previsione già contenuta nella normativa interna di attuazione delle previgenti direttive. Pensiamo in tale contesto all'affermazione giuridica di elementi (ad es. l'aggiudicazione di più lotti a un solo soggetto) che, in precedenza, pur rappresentando una forte criticità, non trovavano alcun riscontro normativo. Come detto, tuttavia, la nuova disciplina, regolamentando espressamente e con procedure specifiche l'aggiudicazione di appalti suddivisi in più lotti, dovrebbe evitare che le stazioni appaltanti applichino previsioni non omogenee. Assumerà, in ogni caso, evidente rilievo il contenuto delle motivazioni che le stazioni appaltanti dovranno fornire in ordine alla possibilità di non aggiudicare più lotti al medesimo operatore ovvero ancora in ordine alla non suddivisione della gara in lotti.
Sotto diverso profilo viene «recepito» l'orientamento giurisprudenziale che limitava l'introduzione di requisiti di fatturato a un valore fissato a non oltre il doppio dell'importo dell'appalto (Tar Roma, sez. II, 5221/2012 e Avcp, del. n. 20/2007); criterio che va comunque ad aggiungersi al già richiamato obbligo motivazionale relativo al requisito di fatturato medesimo, previsto all'interno del nostro ordinamento. Conseguentemente, le stazioni appaltanti incontreranno un vero e proprio limite non superabile nonché un obbligo motivazionale specifico in ordine al requisito richiesto.
Ulteriore elemento di agevolazione per le pmi è rappresentato dall'auspicio di un ipotetico documento unico di gara europeo, con il quale potranno essere limitati gli oneri amministrativi delle procedure di gara e relativi alla produzione di un considerevole numero di certificati o altri documenti richiesti dalle stazioni appaltanti, introducendosi, al loro posto, una mera autodichiarazione aggiornata.
Inoltre, nelle direttive è prevista, quale ulteriore forma di favore per le pmi, l'ipotesi di strutturazione di una centrale di committenza tramite cui far operare un sistema dinamico di acquisizione articolato in ben determinate categorie di forniture, lavori e servizi.
Infine viene previsto che i termini per presentare le offerte possano essere estesi in ragione della complessità dell'appalto; quanto detto al precipuo scopo di consentire alle pmi, non sempre dotate di strutture tecniche in grado di predisporre documentazione di gara ed offerte tecniche, di avere più tempo a disposizione. Tali previste novità delle direttive devono aggiungersi a tutte le ulteriori agevolazioni di recente introdotte e che, ancorché non puntualmente rivolte alle pmi, ovviamente esplicano i propri benefici soprattutto per queste. Il riferimento è, in particolare, alle previsioni di cui all'art. 4 del dl n. 66/2014 in tema di semplificazioni in materia di Durc.
In definitiva, le varie modifiche normative di recente intervenute sono protese a facilitare soprattutto le pmi e a favorire le stesse nell'ambito di un quadro ritenuto di eccessivo rigore e di ostacolo effettivo a un accesso al mercato.
Elementi che favoriscono soprattutto il contesto italiano nel quale, ormai, a differenza di quanto avviene nelle principali nazioni europee e comunque nel solco di una tradizione interna, le pmi hanno assunto un ruolo assolutamente predominante.
Ed è proprio in ragione di ciò che ogni facilitazione deve essere accolta con soddisfazione
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI: In arrivo lo sblocco delle gare d'appalto. Nel Dl Pa un emendamento ridefinirà il calendario degli acquisti centralizzati. Comuni. Per superare lo stallo il governo è al lavoro su un intervento normativo che si articola su più passaggi.
Nel cantiere della spending review gli annunci sulle nuove misure continuano a intrecciarsi con le difficoltà di attuazione incontrate dalle leggi già approvate. Mentre è diventato praticamente inevitabile il rinvio a settembre per i nuovi tagli ai fondi dei Comuni, dopo che il ministero dell'Interno è stato costretto a chiedere un nuovo round di certificazioni sulle spese (si veda Il Sole 24 Ore di ieri) per le modifiche dei criteri di calcolo intervenute nella legge di conversione del decreto legge 66/2014 (quello del «bonus Irpef»), la prospettiva del rinvio si allarga ora alla razionalizzazione dei sistemi di acquisto utilizzati dalle Pubbliche amministrazioni locali.
Mercoledì è stato annunciato l'arrivo entro luglio dei provvedimenti attuativi per tagliare le 32mila stazioni appaltanti accentrandole in 35 soggetti "aggregatori", ma nelle stesse ore si lavora alla proroga delle centrali uniche provinciali previste fin dal 2011 e finora mai attuate. La ragione è semplice: anche se è scritta in «Gazzetta Ufficiale» da trenta mesi, l'aggregazione degli enti per costruire centrali uniche territoriali non è mai partita, e l'entrata in vigore dal 1° luglio dell'obbligo per tutti i Comuni non capoluogo di unirsi a livello provinciale per appalti e acquisti ha di fatto creato un blocco generalizzato delle gare (si veda anche Il Sole 24 Ore del 23 giugno).
Per superarlo in fretta, si lavora su una doppia via. La settimana prossima in Conferenza Unificata dovrebbero emergere indicazioni per rinviare tutto in chiave interpretativa al 1° gennaio, ma questo sarebbe solo un primo passaggio in vista del rinvio vero, con l'unica strada possibile: un emendamento da inserire nella legge di conversione del decreto legge sulla Pubblica amministrazione per spostare al 1° gennaio gli obblighi di aggregazione per quel che riguarda gli acquisti di beni e servizi, e al 30.06.2015 la stessa regola per gli appalti di lavori.
Questa, almeno, è la struttura a cui stanno lavorando i tecnici del Governo, preoccupati del blocco generalizzato prodotto dal divieto per l'Autorità sugli appalti di riconoscere il codice identificativo della gara (Cig) alle procedure che dal 1° luglio scorso non passano da centri aggregatori. Il problema, come spesso capita, nasce dal fatto che l'obiettivo dell'aggregazione delle procedure degli acquisti è stato fissato da tempo, ma non ci si è poi preoccupati di accompagnarne l'attuazione.
Il debutto delle centrali uniche è nel «Salva-Italia» di fine 2011 (articolo 23, commi 4 e 5 del Dl 201/2011), che chiedeva a tutti i Comuni con meno di 5mila abitanti di rivolgersi a una centrale unica provinciale per «l'acquisizione di lavori, servizi e forniture» di valore superiore a 40mila euro. La scadenza era stata fissata al 31 marzo 2012 ma sono bastate un paio di settimane per infilare nel «Milleproroghe» di fine 2011 un rinvio di nove mesi. Si è arrivati così all'anno scorso quando, nel decreto ambiente (Dl 43/2013) è stato introdotto in Parlamento un articolo 5-ter per spostare il tutto al 01.01.2014: giusto in tempo per far scendere in campo il «Milleproroghe» di fine 2013, che ha fatto slittare i termini al 1° luglio scorso.
Nel frattempo il decreto Irpef (articolo 9, comma 4 del Dl 66/2014) ha ritoccato la regola, cancellando la soglia dei 40mila euro e imponendo a tutti gli enti non capoluogo di acquistare lavori, servizi e forniture tramite Unioni di Comuni, accordi consortili, ad altri «soggetti aggregatori» o alla Consip. Dal momento che accordi consortili e soggetti aggregatori sono ancora da costruire sul territorio, la via quasi obbligata diventa quella della Consip o delle centrali regionali dove esistono: una strada, però, spesso impraticabile, soprattutto per gli appalti di lavori. Per questo si lavora alla nuova proroga, che però resta una scelta politicamente delicata per gli incroci con la spending review
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, il codice cambia pelle. I residenti saranno interpellati sui progetti in cantiere. Il viceministro Riccardo Nencini annuncia l'approvazione entro il mese di luglio.
Il nuovo codice degli appalti presto («entro questo mese») sul tavolo del consiglio dei ministri. E nelle pieghe della riforma c'è il coinvolgimento diretto dei residenti nelle aree interessate dai lavori, che potranno essere interpellati sui progetti in cantiere.

È Riccardo Nencini, viceministro delle infrastrutture ad annunciare ieri, a margine della relazione annuale di Assopetroli-Assoenergia, che il governo esaminerà nei prossimi giorni la legge delega, concluso «il primo giro di incontri con i parlamentari e le associazioni», dal quale sono uscite una serie di proposte inserite nel testo.
All'indomani di vicende giudiziarie allarmanti che hanno gettato ombre su grandi opere come l'Expo 2015 di Milano e il Mose di Venezia, l'esecutivo, dunque, stringe i tempi sul restyling delle procedure per l'assegnazione degli incarichi pubblici.
E lo fa partendo dall'attuazione di due recenti direttive europee la 24/2014 in materia di appalti e la 23/2014 concernente regole sull'aggiudicazione dei contratti di concessione; nella premessa di quest'ultima, in particolare, si evidenzia come finora «l'assenza di una chiara normativa che disciplini» la materia a livello comunitario «dà luogo a incertezza giuridica, ostacola la libera fornitura di servizi e provoca distorsioni nel funzionamento del mercato interno», perciò gli operatori economici, soprattutto «le piccole e medie imprese, vengono privati dei loro diritti» e perdono «importanti opportunità commerciali».
Insieme a favorire l'accesso ai bandi di gara per le realtà produttive di minori dimensioni, il codice sfoltirà la giungla burocratica alla base delle procedure, attraverso un taglio degli oneri documentali a carico dei soggetti che intendono partecipare ai progetti. A subire, poi, una riduzione anche il numero delle stazioni appaltanti, mentre si troveranno modalità adeguate per la centralizzazione delle committenze; inoltre, gli investimenti dovranno avvenire nel rispetto dei «criteri di qualità, efficienza, contenimento tempi», nonché di una «piena verificabilità di flussi finanziari».
Novità all'orizzonte anche sul versante delle Soa (Società organismi di attestazione), gli enti privati che si occupano di verificare la conformità alle disposizioni comunitarie in materia di qualificazione dei soggetti esecutori di lavori pubblici, in base a quanto stabilito dal decreto del presidente della repubblica 34/2000 (e dopo l'abolizione dell'albo nazionale dei costruttori): nelle intenzioni governative il meccanismo sarà modificato con attenzione alla trasparenza e alla omogeneità.
E, infine, i cittadini potranno esprimere la propria opinione sui cantieri, giacché il codice contemplerà il «débat public», chance per chi vive nei territori di essere consultato su quanto si vuol realizzare «in casa propria» (articolo ItaliaOggi del 03.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, norme senza ingessare. Da liberalizzare i sottosoglia e diversificare la qualificazione. Il presidente Aniem, Dino Piacentini, propone di istituire l'albo dei commissari per le gare.
Riformare e semplificare il Codice appalti. Occorre cambiare radicalmente il sistema di qualificazione e quelli di gara, valorizzare la progettazione, superare legge Obiettivo e general contractor, favorire i sistemi di aggregazione tra pmi, secondo l'Aniem, l'Associazione nazionale delle imprese edili presieduta da Dino Piacentini.

Nelle scorse settimane il ministero delle infrastrutture ha preannunciato alle associazioni imprenditoriali e alle organizzazioni rappresentative delle stazioni appaltanti il progetto di riforma legislativa che dovrà portare a una sostanziale riscrittura del Codice appalti.
L'occasione del recepimento delle direttive europee vuole essere, pertanto, un'occasione per un'evoluzione della nostra cultura legislativa in materia di appalti improntata al principio del soft law.
L'obiettivo è quello di superare una legislazione, frammentaria e stratificata, che pretendeva di regolare minuziosamente ogni istituto, meccanismo, fase dell'appalto per passare a un sistema normativo più semplificato e leggero caratterizzato da regole più di indirizzo e di principio.
Domanda. Presidente Piacentini, avete manifestato al ministero delle infrastrutture le vostre idee in merito al riordino della normativa sugli appalti pubblici?
Risposta. Il mese scorso si è svolto un incontro presso il ministero delle infrastrutture in cui erano presenti le organizzazioni rappresentative del sistema produttivo e delle stazioni appaltanti e il viceministro Nencini. Durante quell'incontro ho anticipato alcuni dei temi prioritari sui quali le nostre aziende chiedono un intervento di decisa riforma nel corpo legislativo: una profonda revisione del sistema di qualificazione, una sensibile semplificazione per gli appalti di importo inferiore ai 500 mila euro lasciati a un'ampia discrezionalità della stazione appaltante, ma con il duplice vincolo a non apportare varianti e al rispetto assoluto dei tempi e contestuale responsabilizzazione dell'impresa e del rappresentante legale della stazione appaltante, una valorizzazione dei requisiti strutturali e degli investimenti in personale e attrezzature tecniche per gli appalti di importo superiore.
D. Presidente, partiamo proprio dai suoi esempi. Una profonda revisione del sistema di qualificazione. Che cosa vuol dire e soprattutto in che modo?
R. Non è nuovo quello che sto per dire, ma ritengo importante continuare a sottolinearlo: il sistema Soa (Società organismo di attestazione) ha fallito il suo obiettivo di rendere la qualificazione imprenditoriale più efficace. L'esasperata commercializzazione dell'attività di qualificazione, la parcellizzazione e le frequenti cessioni azionarie, la «staticità del sistema», le molteplici compravendite di rami aziendali e, più in generale, la configurazione privatistica imperniata su società profit che esercitano una pubblica funzione sono alcuni degli elementi che hanno alimentato distorsioni invece di contribuire a eliminarle. E non possiamo più far finta di niente perché da tutto questo è scaturito un sistema oneroso, scarsamente trasparente ed eccessivamente burocratizzato.
D. Quindi Piacentini, qual è la proposta di Aniem?
R. La proposta è un sistema di qualificazione in fase di gara, diversificato in rapporto alla rilevanza economica dell'appalto anche al fine di favorire la ripresa economica dell'attività produttiva sui territori.
Occorre semplificare assolutamente le procedure e alleggerire gli aspetti formalistici e burocratici che rallentano e ostacolano la partecipazione del sistema imprenditoriale a quelle procedure concorsuali che devono coinvolgere prioritariamente le imprese locali.
Mentre la verifica dovrà concentrarsi principalmente sugli investimenti dell'impresa in attrezzature tecniche, individuando dai bilanci il costo storico delle attrezzature e personale stabilmente impiegato per il quale andranno presentati un organigramma dell'impresa e i curricula dei soggetti significativi del processo produttivo, soprattutto per quanto attiene alle figure specialistiche.
D. E in relazione alla progettazione, questa fase, secondo lei, può incidere sul sistema di aggiudicazione di una gara?
R. Si, assolutamente, anzi deve essere valorizzata e il livello progettuale posto a base di gara dovrebbe vincolare necessariamente il sistema di aggiudicazione.
In presenza di un progetto esecutivo l'aggiudicazione non potrà che essere attraverso il massimo ribasso con la responsabilizzazione del progettista.
Qualora, viceversa, fossimo in presenza di un progetto preliminare, il criterio di aggiudicazione sarà quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa, essendo in questo caso ampiamente giustificabili varianti migliorative del progetto.
D. Invece, per quanto riguarda le commissioni giudicatrici? E anche, come adempiere agli obblighi di pubblicità e informativa?
R. Per favorire la massima trasparenza, obiettività e professionalità, da parte delle commissioni giudicatrici, nelle operazioni di valutazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, basta istituire un albo di commissari, con comprovati requisiti professionali, aperto e pubblicizzato a livello europeo. All'interno di tale albo dovranno essere scelti per sorteggio i commissari diversi dal presidente.
In relazione invece agli obblighi di pubblicità, Aniem vuole andare al di là di quelli previsti per gli appalti soprasoglia dalle direttive comunitarie, proponendo che ogni stazione appaltante pubblichi sul proprio sito l'avviso di gara e tutta la relativa documentazione. Il progettista dovrà inoltre convocare una riunione tecnica con tutti i soggetti potenzialmente interessati alla gara presso l'amministrazione dove dovranno svolgersi i lavori.
D. Un altro elemento è l'esperienza general contractor, che valutazione ne dà il suo sistema associativo?
R. Il sistema della legge Obiettivo ha oggettivamente fallito. La figura del general contractor ha prodotto un aumento dei costi, ha avvilito ed emarginato le pmi, relegandole a ruolo di subappaltatori e penalizzandole sia sotto l'aspetto economico che professionale. Basta quindi con le leggi speciali, anche se si tratta di grandi opere.
D. Da sempre Aniem è molto attenta ai sistemi di aggregazione. Anche in questo campo chiedete interventi?
R. Sì, i contratti di rete vanno valorizzati, ne vanno colte le potenzialità, non possono essere un duplicato di strumenti già presenti quali le Ati (associazione temporanea di imprese). Occorre renderle spendibili nella fase esecutiva dell'appalto come ulteriore strumento aggregativo soprattutto a beneficio del sistema territoriale.
È necessario, inoltre, consentire ai consorzi stabili, figura giuridica tipicamente nazionale, di essere utilizzati anche all'estero. Chiediamo che le nostre istituzioni adottino iniziative nei confronti degli altri stati per promuovere accordi bilaterali in tal senso.
D. Per chiudere, una domanda sui criteri di aggiudicazione nelle gare. L'associazione che lei rappresenta ha delle proposte più generali?
R. Coerentemente con quanto già dicevo sul ruolo centrale e fondamentale della progettazione, mi sembra evidente la necessità di pervenire a una valutazione sostanziale delle offerte che premi e valorizzi la specificità operativa dell'impresa; in questo senso l'Aniem condivide la scelta del legislatore europeo e ritiene che il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa sia quello più idoneo a realizzare gli obiettivi di un'ottimale selezione del soggetto che dovrà realizzare l'opera.
In questo contesto, Aniem ha elaborato una sua proposta che abbiamo sottoposto a diverse stazioni appaltanti. L'obiettivo è quello di diffondere un sistema che possa effettivamente valorizzare quegli operatori che hanno investito in ricerca, attrezzature tecniche, manodopera specializzata.
In particolare, è stato previsto di assegnare all'elemento prezzo un coefficiente variabile dal 25 al 35% del punteggio finale e all'elemento tecnico il restante 75-65%: la scelta sarà determinata in ragione della maggiore o minore difficoltà tecnica dell'opera da realizzare, laddove questa sia elevata tanto più si dovrà privilegiare l'incidenza degli elementi tecnici.
E, quanto dichiarato in sede di offerta e che ha ottenuto la premialità sufficiente per consentire l'aggiudicazione dei lavori, dovrà successivamente essere riportato nel contratto con obbligo di verifica e controllo in capo alla stazione appaltante.
Laddove si verificasse inadempimento dell'appaltatore anche su uno solo degli elementi indicati in sede di offerta e qualificanti le stesse, deve prevedersi clausola risolutiva espressa (ex art. 1456 c.c.) del rapporto per fatto e colpa dell'appaltatore con escussione della fideiussione e segnalazione alla competente autorità per gli opportuni provvedimenti sanzionatori.
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Authority vigilanza, soppressione prima riforma.
Il vicepresidente di Aniem, Angelo Santoro, sulla soppressione dell'Autorità di vigilanza, ha evidenziato la soddisfazione dell'associazione per aver espresso, in tempi lontani e in maniera isolata, una posizione che poi ha visto prendere lo stesso indirizzo anche dal governo Renzi.
Domanda. Santoro, insomma, soddisfazione dell'Aniem per la pubblicazione a fine giugno del decreto p.a. e semplificazioni?
Risposta. Assolutamente sì. Già a gennaio scorso Aniem manifestò la sua posizione sull'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, sottolineando come l'attuale sistema fosse assolutamente inadeguato e inefficace sia per la pubblica amministrazione che per gli operatori economici.
D. Perché?
R. Come nell'esperienza del ripristino dell'anticipazione del 10% sul prezzo degli appalti, richiesta e ottenuta da Aniem, anche la soppressione dell'Autorità segna un punto a favore dell'efficienza, della riduzione dei costi, delle certezze delle competenze. L'Autorità non ha contribuito a controllare la funzionalità del sistema di qualificazione, ha creato una sovrapposizione di ruoli, ha alimentato oneri a carico delle aziende. Ci auguriamo che ora si continui sulla strada delle riforme strutturali nel sistema degli appalti (articolo ItaliaOggi del 02.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIAppalti, semplificati i controlli. Ridotti i termini per i «nulla osta» - Giro di vite sulle gare minori. Lavori pubblici. Esaminata ieri dal governo la nuova bozza del decreto correttivo del codice antimafia.
Niente controlli sui minori e sui familiari residenti all'estero, riduzione dei termini di rilascio dei nulla osta anti-criminalità, giro di vite sulle verifiche previste per i piccoli appalti, possibilità di far partire subito i contratti in caso di urgenza (salvo possibilità di revoca dei contratti in corsa), attribuzione delle competenze su comunicazioni e informative al prefetto della provincia in cui ha sede l'impresa, invece che dell'amministrazione richiedente.
Sono le principali novità contenute nel secondo decreto correttivo al codice antimafia (il Dlgs 159/2011). Un mix di misure di semplificazione delle procedure abbinate a una linea più attenta alla sostanza che al rigore formale.
Lo schema di decreto è stato esaminato ieri in prima battuta dal Consiglio dei ministri, iniziato con due ore di ritardo e sostanzialmente monopolizzato dalla riforma della Giustizia. Alla fine, dunque, non c'è stato tempo per portare a termine il vaglio del provvedimento, che sarà varato con tutta probabilità nel prossimo appuntamento di governo, già la prossima settimana.
La prima novità è che il provvedimento entrato in Consiglio è stato alleggerito rispetto alle bozze circolate nei giorni scorsi. In particolare, è stata stralciata dal testo la norma che introduceva la possibilità di commissariamento delle imprese colpite da interdittiva antimafia, che rischiavano per questo di essere tagliate fuori da tutte le commesse acquisite. Una norma del tutto simile è stata infatti inserita nel decreto di riforma della Pa (Dl 90/2014), «in modo da assicurare il completamento dell'esecuzione del contratto» in relazione a servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, per salvaguardare l'occupazione o i bilanci pubblici.
La nuova bozza contiene innanzitutto un chiarimento di natura operativa riguardo i soggetti da sottoporre alle verifiche antimafia. Il provvedimento conferma che i controlli vanno estesi ai familiari conviventi, ma chiarisce che da questa cerchia vanno esclusi i minori e i residenti all'estero. Un altro intervento riguarda i contratti d'urgenza che ora spesso rimangono "congelati" in attesa del nulla osta prefettizio. Di norma, per il rilascio dell'informativa ai prefetti viene concesso un termine minimo di 45 giorni, prorogabile di altri 30. Per gli appalti d'urgenza già ora questo termine si riduce a 15 giorni. Con le nuove misure, le amministrazioni potranno bypassare anche questo termine e dare corso agli appalti urgenti subito, salvo risolvere il contratto in caso di esito negativo delle verifiche.
Ma non solo. I termini per il rilascio della documentazione antimafia vengono accorciati in via generale. Per la comunicazione –nullaosta che analizza solo i casi in cui la connivenza con ambienti criminali sia provata dall'adozione di misure di prevenzione o di sentenze di condanna– si passa a 30 giorni, rispetto agli attuali 45, prorogabili di altri 30 nei casi di particolare complessità. Anche per le informazioni antimafia –che oltre alle sentenze analizzano e puniscono i casi di infiltrazioni emersi nel corso di indagini di polizia– si scende a 30 giorni, fatta salva una proroga dai altri 45 giorni per scogliere le riserve nei casi più difficili. Sia nel caso di richiesta di comunicazione che di informativa antimafia, decorso il primo termine di 30 giorni, la Pa potrà procedere con il contratto o con l'attribuzione di contributi pubblici, salvo la revoca del contratto (con pagamento delle prestazioni già eseguite) in caso di esito negativo dei controlli finali.
Giro di vite sugli appalti di taglia medio-piccola, vero terreno di coltura delle infiltrazioni mafiose. L'attuale sistema prevede che gli interventi compresi tra 150mila e 5,18 milioni di euro possano essere assegnati sulla base della semplice comunicazione antimafia. Controllata l'assenza di condanna o di misure di prevenzione sui rappresentanti dell'impresa, ora scatta il via libera anche per le aziende che in realtà sono "in odore" di infiltrazione.
Con le nuove regole, in caso di ombre, anche per gli appalti compresi tra questi importi il prefetto potrà emanare un provvedimento interdittivo alla stipula dei contratti, basato sugli elementi raccolti nel corso delle indagini. Sia la comunicazione, sia l'informazione interdittiva antimafia dovranno essere comunicate dal prefetto all'impresa entro cinque giorni dalla sua adozione. Ultima notazione sull'entrata in vigore: le nuove misure non si applicheranno alle richieste di nulla osta già avanzate al momento di entrata in vigore del provvedimento, che diventerà operativo 30 giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAPa e privati: 800 milioni per l'efficienza energetica. Nuovi obblighi in arrivo per chi vive in condominio. Consiglio dei ministri. Adottato un decreto legislativo che recepisce le regole Ue.
Pubblica amministrazione, imprese, consumatori: tutti saranno chiamati a contribuire a migliorare l'efficienza energetica in base a quanto previsto dal decreto legislativo approvato ieri dal Consiglio dei ministri. Il provvedimento, che attua la direttiva europea 2012/27/Ue, prevede uno stanziamento di 800 milioni di euro di cui 355, da qui al 2020, sono destinati agli uffici pubblici della pubblica amministrazione centrale.
Quest'ultima dovrà effettuare interventi di riqualificazione energetica sugli immobili posseduti od occupati per almeno il 3% della superficie coperta utile climatizzata, oppure sarà possibile adottare interventi di risparmio che garantiscano risparmi uguali a quelli della riqualificazione. Nel caso di realizzazione o affitto di edifici dovranno essere rispettati requisiti minimi di efficienza.
Le grandi aziende e le imprese ad alta intensità energetica, invece, dal 5 dicembre 2015 dovranno effettuare diagnosi periodiche per individuare gli interventi migliori al fine di ridurre i consumi. Sarà necessaria un'analisi costi-benefici a fronte della realizzazione di impianti di produzione di energia elettrica o termica con potenza superiore a 20 Mw termici. Per finanziare gli interventi nella Pa e nelle imprese viene istituito il Fondo nazionale per l'efficienza energetica, alimentato con circa 70 milioni di euro all'anno fino al 2020. Per le Pmi sono stati stanziati anche 105 milioni di euro.
«Si tratta di un pacchetto che, insieme alle altre misure approvate finora, consente di affrontare le importanti sfide dirette a migliorare la sicurezza di approvvigionamento e alla riduzione dei costi energetici» ha commentato il ministro per lo Sviluppo economico, Federica Guidi, auspicando che «possano presto diventare tangibili i benefici a favore dei consumatori, delle imprese e dell'ambiente».
Rilevanti le novità per i condomini. Diventa obbligatoria, entro il 31.12.2016, l'installazione di un contatore di calore per ciascun edificio nel caso in cui il riscaldamento, il raffreddamento o la fornitura di acqua calda siano effettuati da una rete di teleriscaldamento o, nel caso di supercondomini, da una centrale termica che serve più palazzi.
In ogni caso entro la stessa data è obbligatoria l'installazione di contatori individuali per ciascuna unità immobiliare. L'obbligatorietà, in questa seconda ipotesi, viene meno se non è tecnicamente possibile, oppure se l'operazione non è efficiente in termini di costi e proporzionata rispetto ai risparmi energetici potenziali. Sarà però necessaria apposita relazione tecnica del progettista o del tecnico abilitato. I casi di esenzione non lasciano, però, il condominio privo di altri obblighi. Infatti si dovrà ricorre all'installazione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore individuali per misurare il consumo di calore in corrispondenza a ciascun radiatore posto all'interno delle unità immobiliari dei condomini. Anche in questo caso è fatta salva l'ipotesi in cui l'installazione di tali sistemi risulti essere non efficiente in termini di costi. Se così fosse, dovranno essere presi in considerazione metodi alternativi per la misurazione del consumo di calore. Il cliente finale potrà affidare la gestione del servizio di termoregolazione e contabilizzazione del calore ad altro operatore diverso dall'impresa di fornitura.
Il decreto chiarisce anche quale sia il criterio per ripartire le spese di riscaldamento, raffrescamento e acqua calda sanitaria se prodotta in modo centralizzato. L'importo complessivo deve essere suddiviso in relazione agli effettivi prelievi volontari di energia termica utile e ai costi generali per la manutenzione dell'impianto, secondo quanto previsto dalla norma tecnica Uni 10200 e successivi aggiornamenti. A oggi la norma di riferimento è quella del 2013. È fatta salva la possibilità, per la prima stagione termica, che la suddivisione si determini in base ai soli millesimi di proprietà.
La mancata installazione dei dispositivi e la ripartizione della spesa non conforme a quanto previsto dal legislatore comportano una sanzione amministrativa da 500 a 2.500 euro. Si ritiene che restino fermi gli obblighi imposti da Lombardia e Piemonte per l'adozione dei sistemi di termoregolazione e contabilizzazione rispettivamente entro il 1° agosto e il 01.09.2014
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Permessi per la «104» a parenti di terzo grado. Famiglie. Se mancano il coniuge o i genitori.
I tre giorni al mese di permesso retribuito per assistere familiari con gravi handicap possono essere chiesti anche per parenti o affini entro il terzo grado se costoro non hanno coniuge o genitori che possono assisterli.
Rispondendo con l'interpello 19 del 26 giugno al quesito posto dalle associazioni Anquap e Cida, il ministero del Lavoro chiarisce che questa è l'unica condizione e non rileva che vi siano altri parenti o affini, di grado inferiore che potrebbero assistere la persona disabile.
Perché il lavoratore possa chiedere i tre giorni di permesso per assistere un parente o un affine di terzo grado è sufficiente, quindi, che i genitori o il coniuge della persona che necessita dell'assistenza si trovino in una delle seguenti condizioni: abbiano compiuto i sessantacinque anni di età; siano anche essi affetti da patologie invalidanti; siano deceduti o mancanti. Per mancanti si intende non solo l'assenza naturale o giuridica, ma ogni altra condizione certificata dall'autorità giudiziaria o da altra pubblica autorità, quale divorzio, separazione legale o abbandono. Si ricorda, peraltro, che sono parenti di terzo grado i bisnonni, i pronipoti, gli zii, i nipoti (figli di sorelle e fratelli), e sono affini di terzo grado i parenti (dello stesso grado) del coniuge.
Non possono essere riconosciuti permessi a più lavoratori per assistere la stessa persona: si tratta del cosiddetto "referente unico" introdotto dall'articolo 24 della legge 183 del 2010, che ha profondamente modificato la materia. Il referente può essere cambiato, anche temporaneamente, ma è necessario presentare una specifica istanza. Potrebbe essere il caso, abbastanza comune, del trasferimento di residenza presso un altro familiare che assume, quindi, il compito dell'assistenza e può chiedere i relativi permessi a condizione, ovviamente, che sussistano i presupposti soggettivi. In deroga al requisito del referente unico, i genitori, anche adottivi, di figli con disabilità grave, possono fruire dei permessi alternativamente, rispettando il limite dei tre giorni riferiti alla persona disabile. In questo senso si è pronunciata l'Inps con la circolare 155/2010, riconoscendo il diverso ruolo che i genitori esercitano sul bambino rispetto agli altri familiari.
Un lavoratore può,peraltro, chiedere permessi per assistere più familiari con grave handicap, se si tratta del coniuge o di un parente o affine entro il primo o il secondo grado e se i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età, oppure siano anch'essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti.
In alternativa ai permessi, il coniuge, o in mancanza il padre o la madre anche adottivi, o, mancando anch'essi, uno dei figli conviventi, o in ultima alternativa, uno dei fratelli o sorelle conviventi, per assistere la persona può richiedere il congedo straordinario indennizzato, disciplinato dall'articolo 42 del Dlgs 151/2001.
Per fruire dei permessi è regola generale che la persona da assistere non sia ricoverata a tempo pieno in una struttura. Tuttavia i permessi possono essere richiesti in caso di necessità del portatore di grave disabilità di recarsi fuori dalla struttura per effettuare visite o trattamenti terapeutici, o nel caso in cui sia certificata l'esigenza del disabile di essere assistito dai genitori o da un familiare, ipotesi questa che era precedentemente prevista per i soli minori.
I permessi possono essere chiesti anche da lavoratori che risiedono in luoghi distanti dalla residenza della persona da assistere, purché vi siano i presupposti affinché l'assistenza sia comunque adeguatamente garantita e il lavoratore produca i titoli di viaggio. Poche la concessione dei permessi è strettamente collegata alla necessità dell'assistenza, il diritto agli stessi decade ogni qualvolta l'esigenza venga meno
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2014).

APPALTISPECIALE DECRETO - UN COMMISSARIO «SALVA-LAVORI» - In caso di corruzione «tutor» da collegare alla conclusione dell'opera.
Il Governo ha fatto con l'articolo 32 del decreto legge 90 una scelta di fondo su come colpire le imprese coinvolte nelle inchieste per corruzione o turbativa d'asta (tutte le inchieste, non solo Expo o Mose): no alla revoca dei contratti di appalto per riassegnare il lavoro all'azienda seguente in graduatoria, ipotesi evocata a un certo punto dal presidente dell'autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, con riferimento ai contratti dell'Expo; sì al commissariamento delle aziende "inquinate" per dare continuità ai lavori se l'azienda non abbia provveduto spontaneamente, o in seguito a sollecitazione della stessa Anac o del prefetto, a rimuovere gli amministratori o i dirigenti coinvolti nelle inchieste.
Una scelta di fondo che sembra dettata da almeno un paio di considerazioni tecniche: la prima è che, con riferimento soprattutto al caso dell'Expo 2015, il commissariamento dovrebbe consentire una più rapida conclusione dei lavori, garantendone la continuità; la seconda è che la copertura legislativa non avrebbe comunque messo al riparo l'ipotesi della revoca dal rischio di lunghi contenziosi e di richieste di risarcimento danni da parte dell'azienda colpita.
L'altra osservazione che va immediatamente fatta in merito all'estrema delicatezza di una norma che irrompe nel diritto societario con un intervento straordinario di commissariamento che limita i diritti dei titolari di impresa, degli azionisti e degli amministratori in assenza di una condanna definitiva, è che il «limitatamente alla completa esecuzione del contratto» -riferito proprio all'ipotesi di commissariamento delle aziende- non sembra doversi intendere come un limite di intervento solo alla parte di azienda coinvolta nell'appalto (il "ramo" di azienda coinvolto, aveva detto il premier Renzi proprio con l'intento di rassicurare sull'equilibrio di un intervento così delicato), ma piuttosto come un limite temporale (cioè finché l'appalto in questione non venga portato a conclusione).
All'interno dell'azienda, infatti, l'intervento risulta quanto mai ampio, arrivando (comma 3) alla gestione temporanea da parte di amministratori nominati dal prefetto (che avranno «tutti i poteri e le funzioni degli organi di amministrazione dell'impresa») e alla sospensione dei «poteri di disposizione e gestione dei titolari di impresa». Nel caso di società, sono sospesi anche i poteri dell'assemblea degli azionisti. Si aggiunga che gli amministratori esterni rispondono delle «eventuali diseconomie dei risultati solo nei casi di dolo e colpa grave» (comma 4) e che l'utile di impresa derivante dalla conclusione dei contratti di appalto «è accantonato in apposito fondo» (comma 7).
Se questi sono gli effetti indotti dalla procedura straordinaria, due limiti dovrebbero agire più realisticamente a monte, cioè nelle condizioni che consentono il commissariamento: da una parte, infatti, il perfetto può agire, su proposta del presidente dell'Anac, dopo aver valutato «la particolare gravità dei fatti» e nominare i commissari solo «nei casi più gravi»; dall'altra la sostituzione degli amministratori potrà avvenire solo dopo che il prefetto stesso avrà intimato all'impresa la sostituzione degli amministratori inquisiti. Se sul piano dei diritti resta molto delicata la sostituzione di un soggetto non ancora condannato, nella realtà accade che la quasi totalità degli amministratori e dei manager colpiti da inchieste gravi per corruzioni si autosospenda immediatamente o venga comunque sospeso dall'impresa stessa.
Questo dovrebbe di fatto limitare molto, nel concreto, l'applicazione dell'intero articolo 32 che si può applicare (comma 1) nei casi di indagini per reati previsti dai seguenti articoli del codice penale: articolo 317 (concussione); articolo 318 (corruzione nell'esercizio della funzione); articolo 319 (corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio); articolo 319-bis (aggravante in caso di contratto della Pa); articolo 319-ter (corruzione in atti giudiziari); articolo 319-quater (induzione indebita a dare o promettere utilità); articolo 320 (corruzione di persona incaricata di pubblico servizi); articolo 322 (istigazione alla corruzione); articolo 322-bis (peculato, concussione, induzione indebita dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri); articolo 346-bis (traffico di influenze illecite); articolo 353 (turbata libertà degli incanti); articolo 353-bis (turbata libertà del procedimento di scelta del contraente).
La procedura dell'articolo 32 si applica anche «nei casi in cui sia stata emessa dal Prefetto un'informazione antimafia interdittiva» (comma 10).
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1 | I PREMI
Bonus sui progetti ma non ai dirigenti
I dirigenti che rientrino nei processi elaborativi ed esecutivi dei progetti per le opere pubbliche o sviluppino atti di pianificazione non possono percepire l'incentivo fino al 2% del valore dell'opera previsto dal Codice dei contratti pubblici perché il loro trattamento economico è «onnicomprensivo».
La nuova regola (si veda anche Il Sole 24 Ore di ieri) non incide però sulla posizione del personale privo della qualifica dirigenziale impiegato nell'elaborazione ed in alcune fasi attuative dei progetti per lavori pubblici, che continuerà a percepire l'incentivo. Questa situazione resta immutata anche per i dipendenti dell'ente locale titolari di posizione organizzativa
Gli enti locali devono pertanto modificare i regolamenti relativi alla corresponsione dell'incentivo, recependo la differenza tra i soggetti con qualifica dirigenziale e quelli privi della stessa.
Nella ridefinizione dei regolamenti, peraltro, le amministrazioni devono tener conto dei criteri di interpretazione rigorosa delle disposizioni contenute nei commi 5 e 6 dell'articolo 92 del Codice dei contratti pubblici elaborata dalla Corte dei Conti.
Varie sezioni regionali di controllo (tra cui, in particolare, quella della Lombardia con la recente deliberazione n. 188/2014/Par del 28.05.2014) hanno infatti evidenziato come l'incentivo in relazione ai lavori pubblici debba essere erogati ai soli dipendenti che espletano gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all'aggiudicazione ed esecuzione «di un'opera
o un lavoro».
Peraltro, queste interpretazioni escludono dal novero delle attività retribuibili con l'incentivo i lavori di manutenzione ordinaria e per i lavori in economia.
Per l'incentivo connesso alla pianificazione urbanistica, invece, la revisione dei regolamenti deve tener conto degli indirizzi espressi dalla sezione autonomie, con la deliberazione n. 7/Sezaut/2014/Qmig del 04.04.2014, che considera determinante non tanto il nomen juris attribuito all'atto di pianificazione stesso, quanto il suo contenuto specifico, che deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un'opera pubblica.
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2 | INFILTRAZIONI CRIMINALI
Patente di legalità con la «white list»
Il contrasto alle infiltrazioni mafiose negli appalti passa per la definizione di white list selettive, istituite presso le prefetture; l'iscrizione attesta automaticamente il rispetto della normativa antimafia da parte dell'operatore economico che svolge determinate tipologie di attività.
L'articolo 29 del Dl 90/2014 riformula l'articolo 1, comma 52 della legge 190/2012, stabilendo che per una serie di attività imprenditoriali, spesso affidate in economia o con subappalto, la comunicazione e l'informazione antimafia liberatorie devono essere acquisite dalle stazioni appaltanti consultando, anche in via telematica, un elenco di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori operanti in questi settori e non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa. Tra le attività rischiose sono comprese il trasporto rifiuti, la movimentazione terra e i noli a caldo e a freddo.
L'elenco è istituito presso ogni prefettura e l'iscrizione degli operatori che ne fanno richiesta è disposta dalla prefettura della Provincia in cui il richiedente ha la sede; la risposta deve avvenire entro 45 giorni dalla richiesta (termine che si può estendere di altri 30 giorni in casi particolari). Tuttavia l'amministrazione aggiudicatrice può procedere decorso il termine o, in casi di urgenza, può procedere dopo 15 giorni dalla richiesta, fatta salva l'eventuale risoluzione del contratto se l'accertamento dimostra l'infiltrazione. La prefettura effettua verifiche periodiche sulla perdurante insussistenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa sulle imprese iscritte e, nel caso, cancella l'impresa dall'elenco.
Un elemento di sostanziale novità è determinato dalla previsione per cui l'iscrizione nell'elenco speciale presso le prefetture vale come la comunicazione e l'informazione antimafia liberatoria anche ai fini della stipula, approvazione o autorizzazione di contratti o subcontratti relativi ad attività diverse da quelle per le quali essa è stata disposta.
In sede di prima applicazione (e per un periodo non superiore ad un anno) le stazioni appaltanti procedono per le particolari attività (ad esempio il trasporto rifiuti) all'affidamento di contratti o all'autorizzazione di subcontratti previo accertamento della avvenuta presentazione della domanda di iscrizione nell'elenco speciale. In caso di sopravvenuto diniego dell'iscrizione, si applicano le disposizioni sulla risoluzione dei contratti previste dalla normativa antimafia.
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3 | LA STRETTA SUI COSTI
Modifiche alle opere sotto la lente dell'Anac
Un freno alle varianti in corso d'opera, che andranno comunicate all'Autorità anticorruzione dalla stazione appaltante entro il termine massimo di trenta giorni dall'approvazione. Il decreto n. 90/2014 di riforma della Pa attribuisce alla struttura guidata da Raffaele Cantone questo nuovo potere e punta così a limitare uno dei fenomeni che, più di ogni altro, è stato usato negli ultimi anni per allungare i tempi e far lievitare i costi delle opere pubbliche. Anche se, sulla reale applicabilità di questo cambiamento, pende una grande incognita: un appalto di lavori su due è oggetto di variante. Un controllo approfondito nel merito di tutti pare impossibile.
Le varianti nascono, nei lavori pubblici, come strumento per portare aggiustamenti quando intervengono cause impreviste, come nuove leggi e regolamenti, eventi naturali, possibilità di usare materiali più avanzati, errori nel progetto esecutivo. Nel tempo, però, sono diventate tristemente note come il principale grimaldello usato per caricare sull'opera costi extra e dilatarne i tempi di realizzazione. Così il decreto, all'articolo 37, cerca di arginare il fenomeno e prevede che le varianti, nel quadro della procedura prevista dall'articolo 132 del Codice appalti, vadano trasmesse all'Anac, insieme al progetto esecutivo, entro trenta giorni dall'approvazione da parte della stazione appaltante.
Non tutte le tipologie di variante dovranno passare attraverso questa verifica. La norma esclude quelle legate alle «sopravvenute disposizioni legislative e regolamentari» e quelle derivanti da «errori od omissioni del progetto esecutivo». Tutte le altre finiranno sotto la lente dell'Authority: si tratta di un numero mastodontico di fascicoli, se pensiamo che ogni anno le gare per lavori sono più o meno 16mila e che circa la metà di queste è caratterizzata da varianti. Per verificare la presenza di eventuali problemi servono approfondimenti di merito piuttosto articolati: l'obiettivo è controllare che i motivi per i quali è stato chiesto l'adeguamento siano pretestuosi.
I dubbi sull'applicabilità di questa novità, allora, sembrano piuttosto fondati. Tanto che lo stesso Cantone, pochi giorni fa, ha dichiarato che all'inizio il decreto dovrà avere un effetto deterrente. E la relazione illustrativa parla, con sano realismo, di «impedire o, quantomeno, rendere marginale il verificarsi di situazioni di irregolarità e illiceità». Con il passare del tempo l'idea è di abbattere drasticamente il numero di varianti. Rendendo più semplici i controlli.
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4 | LA VIGILANZA
Cantone pigliatutto, cancellata l'Avcp
L'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici sparisce, con effetto immediato. E viene inglobata dall'Autorità anticorruzione. Dopo tante ipotesi, è questa la soluzione prescelta dal decreto n. 90/2014 per riedificare dalle fondamenta le strutture che in Italia tengono sotto controllo il mercato degli appalti. Ma non si farà tutto subito. Il provvedimento disegna un percorso piuttosto lungo, che parte da una fase transitoria (già avviata) e culmina in un piano di riorganizzazione che il presidente dell'Anac dovrà presentare entro fino 2014. Sarà compito di un Dpcm recepirlo. L'Avcp «è soppressa - recita il decreto - ed i relativi organi decadono», a partire dal 25 giugno scorso, data di entrata in vigore del provvedimento. Da quel giorno, in sostanza, l'Autorità è stata decapitata: ha perso il suo presidente Sergio Santoro e i tre consiglieri in carica.
I suoi compiti e funzioni sono andati all'Anac. Nell'immediato la conseguenza più macroscopica riguarda qualche piccolo risparmio, legato proprio a questi organi eliminati. Si tratta di circa 1,5 milioni all'anno. Nessun effetto per i 301 dipendenti di via di Ripetta, che restano al loro posto senza tagli di stipendio. Una delibera firmata da Raffaele Cantone (n. 102/2014) ha già stabilito, infatti, che le due macro-aree di competenza dell'Anac (appalti da un lato, anticorruzione e trasparenza dall'altro) saranno provvisoriamente poste in due contenitori diversi, non comunicanti. Stesso discorso per i bilanci, che saranno separati: l'Avcp oggi si approvvigiona con la tassa sulle gare, pagata da imprese e stazioni appaltanti, per introiti pari a circa 50 milioni all'anno. Una riorganizzazione più strutturata sarà affidata a una seconda fase: entro il 31.12.2014 Cantone dovrà presentare al presidente del Consiglio dei ministri un piano, che determinerà l'assetto definitivo delle risorse umane, strumentali e finanziarie dell'ex Avcp e la riduzione di almeno il 20% del trattamento economico accessorio dei dipendenti e di tutte le spese di funzionamento.
Per chiudere questo percorso, arriverà un Dpcm. È in quella sede che si otterranno i veri risparmi, quantificabili solo a partire dal 2015. Ma, soprattutto, è in quella sede che si giocherà davvero la partita della ristrutturazione dell'ex Avcp, una struttura elefantiaca dalle competenze variegate, che si sono ampliate sistematicamente negli ultimi anni: dal monitoraggio del mercato alla regolazione e vigilanza, passando per l'attività consultiva e il precontenzioso in materia di appalti.
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5 | LA SCIA
Segnalazioni e permessi uguali in tutta Italia
Le semplificazioni più attese sono quelle in materia di permesso di costruire e Scia nell'attività edilizia: si materializzano in modelli da utilizzare su tutto il territorio nazionale, approvati da una Conferenza unificata. Per le Regioni e gli enti locali i moduli sono obbligatori, ma potrebbero essere affiancati da ulteriori richieste finalizzate a una più completa anagrafe locale delle procedure. I modelli che già circolano sono molto dettagliati, tali cioè da esigere una sicura presenza professionale. Si prevede la figura di un «dichiarante» e figure satelliti («soggetti coinvolti»); questi ultimi si articolano in titolari, tecnici incaricati (progettisti, direttori lavori, altri tecnici impiantistici) e imprese esecutrici. I modelli comprendono dichiarazioni asseverate a cura dei professionisti, suddivise in 24 tipologie, dai dati geometrici di superficie e volume alla necessità di bonifiche ambientali e alla tutela del paesaggio.
Si tratta di elementi che già molti enti locali richiedevano, e che ora sono unificate in uno specifico fascicolo. L'aspetto più rilevante è quello che rafforza le «asseverazioni» cioè le "affermazioni solenni" che arricchiscono le dichiarazioni di una particolare rilevanza formale e di uno specifico valore nei confronti dei terzi per ciò che riguarda l'affidabilità del loro contenuto (Cassazione penale 27699/2010). L'ordinamento accorda infatti fiducia alle dichiarazioni del privato e fa affidamento sulle relazioni tecniche che accompagnano i progetti: relazioni che si sostituiscono in via ordinaria ai controlli dell'ente territoriale e offrono garanzie di legalità e correttezza di intervento. In questo modo si accresce il principio di «autoresponsabilità», secondo il quale il privato è gestore assoluto delle attività che intende iniziare, senza potersi far scudo del controllo dell'amministrazione. L'intero meccanismo si collega alle previsioni della legge 241/1990 (articolo 19) che, in particolare, nega al meccanismo della Scia le qualità di provvedimento amministrativo implicito.
Ciò è rilevante in tutti i casi in cui un vicino o un concorrente commerciale intenda contestare l'attività che si inizia con una Scia: poiché non si forma un provvedimento tacito, per contestare l'attività altrui sarà necessario rivolgersi all'amministrazione preposta al settore (il Comune, nell'edilizia) sollecitando l'esercizio di verifiche ed eventualmente impugnando il successivo provvedimento tacito.
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6 | I PROGRAMMI
La semplificazione «chiama» gli enti locali
L'articolo 24 del decreto legge 90/2014 prevede un calendario di semplificazioni per il triennio 2015-2017, coinvolgendo Stato, Regioni ed autonomie locali. Sono previsti accordi e intese coerenti all'articolo 9 del Dlgs 281/1997 ed all'articolo 8 della legge 131/2003 per attuare il Dl 5/2012: tutti questi riferimenti significano che le scelte modificatrici sono adottate sulla base di principi di sussidiarietà e leale collaborazione, tendendo alla semplificazione (Dl 5/2012) ma con un accenno a poteri sostitutivi in caso di contrasto.
L'articolo 24, comma 2 prevede moduli unificati e standardizzati per istanze, dichiarazioni, segnalazioni da parte di cittadini e imprese che entrino in contatto con pubbliche amministrazioni. L'unificazione avverrà con decreto del Ministro competente, settore per settore. Un comma separato riguarda la modulistica unificata e standardizzata per edilizia ed attività produttive. Per giungere a ciò sono previsti accordi e intese, oltre a una Conferenza unificata che terrà conto delle normative regionali. Infine, il quarto comma precisa che gli accordi in Conferenza unificata dovranno assicurare la libera concorrenza ed esprimeranno «livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali».
Inoltre, andrà assicurato il coordinamento informativo e statistico. Tutto questo meccanismo serve a rendere omogenee, con moduli prestampati, situazioni varie che oggi cambiano le procedure nelle varie Regioni. È stata necessaria una sentenza della Corte costituzionale (164/2012) per consentire allo Stato di imporre un meccanismo di Scia in materia edilizia, superando le resistenze di alcune realtà locali. La sentenza attrae la procedura di Scia nella materia «tutela della concorrenza», collocandola tra le prestazioni collegate a diritti civili e sociali. La semplificazione diventa uno dei principi fondamentali dell'azione amministrativa e affida allo Stato l'onere di semplificare, garantendo diritti omogenei.
Senza questa possibilità, ogni autonomia potrebbe fissare livelli e individuare meccanismi particolari di semplificazione, che si rivelerebbero vere e proprie barriere e quindi risulterebbero in contrasto con l'esigenza di prestazioni standard ed accessibili. Le semplificazioni avranno un sicuro effetto acceleratorio, consentendo un trattamento omogeneo nella lettura dei dati e quindi, ad esempio, consentendo l'utilizzo dei dati anche per l'imposizione fiscale a livello nazionale
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2014).

APPALTILe gare. Niente requisiti? In regola con multa e nuovi documenti.
Rischia di innescare un clamoroso effetto-boomerang la misura destinata a rafforzare il cosiddetto «soccorso istruttorio» nelle gare per gli appalti pubblici.
Sotto i fari c'è l'articolo 39 del decreto Pa. L'obiettivo è ridurre i casi di esclusione delle imprese "colpevoli" di errori formali nella presentazione dei documenti di gara. Per raggiungere lo scopo l'articolo introduce l'ennesima modifica all'articolo 38 del codice dei contratti pubblici (Dlgs 163/2006): quello, per intenderci, che definisce i requisiti di ordine generale che i concorrenti a un appalto pubblico devono possedere (mancanza di condanne, certificazioni, regolarità fiscale e contributiva ecc.) e i modi per dimostrarli.
D'ora in avanti non tutte le mancanze documentali potranno essere punite con il cartellino rosso. Anzi. Con il decreto Pa si stabilisce che eventuali mancanze, incompletezze o irregolarità nelle dichiarazioni relative a condanne penali, violazioni fiscali e contributive o situazioni di controllo rispetto ad altri partecipanti (previste dall'articolo 38 comma 2 del codice appalti) non dovranno più essere punite con l'esclusione dalla gara. Due le ipotesi sul campo: se l'irregolarità è «essenziale» il concorrente "se la cava" con una multa di importo compreso tra l'uno per mille e l'uno per cento del valore della gara: per un importo «comunque non superiore a 50mila euro» e con versamento garantito dalla cauzione provvisoria. Saldata la multa la documentazione dovrà comunque essere integrata nel giro di 10 giorni, pena l'esclusione. Se invece la carenza non è «essenziale» la stazione appaltante deve semplicemente chiudere un occhio, senza chiedere regolarizzazioni o applicare alcuna sanzione.
Il punto è che la norma non chiarisce affatto quali siano le carenze da giudicare o meno come essenziali. Il compito sembrerebbe affidato alle stazioni appaltanti che, oltre a individuare le fattispecie da punire con la multa invece che con l'esclusione, con il bando di gara devono anche quantificare le sanzioni da applicare alle imprese per le eventuali irregolarità. Non è un caso allora che appena entrata in vigore la norma prevista dall'articolo 39 abbia già causato un mezzo terremoto negli uffici gara delle principali amministrazioni alla ricerca di una bussola per dare seguito a una norma che si annuncia di difficile applicazione.
Altre complicazioni "annunciate" per le stazioni appaltanti arriveranno proprio oggi con l'entrata in vigore del vincolo di servirsi della banca dati (Avcpass) messa in piedi dalla vecchia Autorità di vigilanza per verificare i requisiti delle imprese. E scatta oggi anche l'obbligo di dotare le grandi opere del cosiddetto «performance bond», la garanzia contro il rischio di mancata conclusione dei lavori a carico di banche e assicurazioni. Per rinviare queste due misure, arrivate peraltro al traguardo della terza proroga consecutiva, era stato ipotizzato un intervento d'urgenza già nel Consiglio dei ministri tenutosi ieri. Ipotesi poi tramontata: anche se l'idea di una quarta proroga resta nell'aria
 (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2014).

APPALTIAppalti, antimafia semplificata. Ok al contratto anche prima di acquisire i documenti. CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Il terzo decreto correttivo della legge n. 136 del 2010.
Possibile stipulare il contratto di appalto anche prima che sia stata acquisita tutta la documentazione antimafia: le imprese autocertificheranno di essere in ordine. Ridotti da 45 a 30 i giorni entro i quali il prefetto deve rilasciare l'informazione e la comunicazione antimafia alla stazione appaltante.
Il prefetto stesso dovrà inviare all'impresa l'esito del controllo antimafia per email entro cinque giorni in modo che l'impresa possa fare velocemente ricorso. Le stazioni appaltanti non potranno più chiedere ai prefetti informative antimafia che riguardino i minori.

Sono queste le principali novità che il governo intende apportare con il terzo decreto correttivo della legge 136/2010 portato ieri all'attenzione del Consiglio dei ministri.
Fra le novità contenute nello schema di decreto legislativo un primo intervento attiene all'ambito soggettivo di applicazione delle informazioni antimafia sui familiari residenti, che dovranno essere svolte soltanto nei confronti dei familiari maggiorenni, stante il fatto che i soggetti minorenni sono ritenuti in grado di non incidere né direttamente né indirettamente sulla gestione delle imprese.
Per quel che attiene alle modalità di rilascio delle comunicazioni antimafia (provvedimento essenziale ai fini della stipula dei contratti pubblici e al rilascio di autorizzazioni e finanziamenti di importo inferiore a 150.000 euro), il testo stabilisce che la comunicazione sia acquisita direttamente dalle amministrazioni richiedenti, che potranno collegarsi autonomamente alla Banca dati; unica eccezione è rappresentata dal caso che il sistema informativo evidenzi cause ostative che, in questa ipotesi, devono essere accertate nella loro attualità dal prefetto che adotta il provvedimento finale (comunicazione liberatoria o interdittiva).
Il testo prevede che a emettere la comunicazione sia il Prefetto della provincia dove l'impresa ha la sede legale o secondario con rappresentanza stabile; soltanto per le società estere, senza rappresentanza stabile, la competenza si stabilirà in base alla sede legale delle amministrazioni richiedenti. Nell'ipotesi di iscrizione nella banca dati di cause ostative (misure di prevenzione, condanna in appello) nei confronti dell'impresa, si riduce da 45 a 30 il termine entro il quale il prefetto è tenuto a verificare l'attualità dell'iscrizione di tali cause.
Sempre per le comunicazioni antimafia, nel caso in cui -a causa della loro complessità- non risulti possibile concludere le verifiche entro il termine dei trenta giorni, si consente alle amministrazioni, previa autocertificazione dell'impresa attestante l'assenza di cause ostative, di stipulare il contratto (per esempio di appalto) o di rilasciare il provvedimento amministrativo richiesto dal soggetto privato. In questa ipotesi si prevede una condizione risolutiva espressa che scatta laddove il prefetto, alla conclusione delle verifiche, si sia espresso in termini interdittivi.
Novità anche per le modalità di comunicazione dei provvedimenti: si stabilisce che il prefetto debba inviare la comunicazione antimafia entro un termine ragionevolmente breve (cinque giorni) e utilizzando anche la posta elettronica; così facendo sarà possibile anche accelerare il contenzioso evitando le impugnative «al buio», integrate da motivi aggiunti al ricorso presentato dall'impresa. Viene inoltre portata a 30 giorni anche la durata per il rilascio della informazione antimafia (anche in questo caso prorogabile fino a 45 giorni).
Il decreto, «in casi di urgenza», consente poi alle amministrazioni di stipulare contratti immediatamente dopo l'attivazione della procedura di consultazione della banca dati della documentazione antimafia, senza quindi attendere il decorso dei 30 giorni, con ciò accelerando notevolmente l'iter. È anche prevista interconnessione della banca dati con l'anagrafe della popolazione residente, raffrontandoli con il Ced Inteforze previsto dalla legge 121/1981, da realizzare con apposito regolamento. Infine si stabilisce che in caso di eventi che impediscano il funzionamento della banca dati si possa procedere in luogo della comunicazione antimafia, con autocertificazione (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Certificazione degli edifici L'obbligo si fa in quattro
L'obbligo di certificazione energetica degli edifici si fa in quattro: dotazione, allegazione, consegna e informativa. Gli atti traslativi a titolo oneroso, come una compravendita o una permuta, sono soggetti a tutti questi obblighi. Vige il solo obbligo di dotazione, invece, per gli atti traslativi a titolo gratuito (donazione, patto di famiglia ecc.). Mentre gli atti non traslativi, quali per esempio il comodato o il trust autodichiarato, sono esenti, «mancando in questo caso la sollecitazione del mercato immobiliare».

È quanto ricorda il Consiglio nazionale del notariato con l'aggiornamento dello
studio 19-20.06.2014 n. 657-2013/C. Il documento, curato dal notaio Giovanni Rizzi, costituisce una guida operativa circa la disciplina nazionale della certificazione energetica, a seguito delle modifiche apportate dal dl n. 145/2013.
Lo studio analizza le differenze tra l'attestato di qualificazione energetica e quello di prestazione energetica (introdotto a far data dal 06.06.2013), destinati a funzioni diverse e non fungibili tra loro: il primo può essere predisposto e asseverato da un professionista abilitato alla progettazione o alla realizzazione dell'edificio non necessariamente «terzo», mentre a rilasciare l'Ape deve essere un esperto qualificato e indipendente. L'elaborato, poi, passa in rassegna i diversi regimi sanzionatori vigenti per i singoli obblighi.
Ma cosa succede qualora il notaio riscontri in atto delle anomalie (per esempio un atto di compravendita privo dell'Ape e/o della dichiarazione di ricevuta informativa)? In primo luogo il professionista deve informare le parti degli obblighi previsti dal dlgs n. 192/2005 e delle relative sanzioni. A fronte della richiesta delle parti (debitamente informate) di ricevere l'atto pur in violazione delle prescrizioni, tuttavia, «si ritiene che il Notaio non possa, comunque, rifiutare il proprio ministero, posto che l'atto in violazione non è né nullo né comunque invalido e posto che non sono, neppure, previste sanzioni per il notaio».
In questi casi il Notariato ritiene però opportuno l'inserimento in atto di un'apposita clausola che specifichi tale circostanza, anche per evitare responsabilità sul piano civile e azioni di rivalsa nei confronti del notaio (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2014).

APPALTI - ENTI LOCALI: P.a., crediti e debiti verificabili in tempo reale.
Da oggi decollano nuove funzionalità sulla piattaforma telematica della certificazione dei crediti delle pubbliche amministrazioni. I fornitori, infatti, potranno verificare online l'iter di lavorazione dei propri crediti e le p.a. potranno controllare, in tempo reale, lo stato dei propri debiti, distinti per data di scadenza e per singolo creditore.

È quanto riferisce la
circolare 25.06.2014 n. 21 della Ragioneria generale dello stato diffusa ieri, con cui si forniscono maggiori dettagli sulle funzionalità in materia introdotte dall'articolo 27 del decreto legge n. 66/2014.
In pratica, i soggetti interessati potranno monitorare tutti i passaggi dei crediti o debiti grazie alla piattaforma per la certificazione dei crediti (Pcc) che renderà trasparente l'intero ciclo di vita dei debiti commerciali, per i quali sia stata emessa fattura a decorrere da oggi, sia in formato elettronico che cartaceo.
Ai creditori, pertanto, viene offerta la possibilità di immettere sul sistema Pcc, i dati di dettaglio di ciascuna fattura (o richiesta di pagamento equivalente) emesse a far data da oggi. Da un lato, rileva la circolare, questo procedimento consentirà la rilevazione del formarsi dei debiti commerciali fin dal loro sorgere, dall'altro fornirà un valido supporto al lavoro delle p.a. per il necessario pagamento in tempi brevi. Corre l'obbligo di sottolineare che l'immissione dei dati delle fatture non costituisce un obbligo per i creditori, però la stessa costituisce indubbiamente un vantaggio.
Infatti, i creditori che utilizzeranno la piattaforma Pcc, potranno verificare il puntuale assolvimento delle successive fasi del processo da parte delle p.a. debitrici. A maggior ragione, se si pensa che il sistema rileva automaticamente a segnalare alle p.a. le fatture in scadenza, mediante la rilevazione del termine previsto per il pagamento nella fattura stessa, ovvero in relazione ai termini previsti dalla direttiva n. 2000/35/Ce, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
Onde evitare il formarsi di debiti, le p.a. saranno tenute alla comunicazione delle fasi di lavorazione sulle fatture; a tal fine, la prima scadenza di tale adempimento deve intendersi il 15 prossimo agosto. Riveste particolare importanza la comunicazione del pagamento, così da evitare che il credito possa impropriamente essere utilizzato dal fornitore ai fini della certificazione del credito, mediante operazioni di anticipazione, cessione e compensazione (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2014).

VARIBonus mobili senza segreti. Sì anche ai pagamenti con carta di credito o di debito. La circolare 11/E offre una serie di chiarimenti a chi vuole usufruire dello sconto.
Grazie alla proroga dei termini di versamento c'è qualche giorno in più per verificare tutti i casi del bonus riconosciuto per l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici.
La norma, anche perché più volte modificata, sta creando non pochi dubbi a chi la deve applicare in sede di Unico 2014 e sul punto una valido riferimento è giunto dalle indicazioni contenute nella
circolare 21.05.2014 n. 11/E che ha offerto più di una risposta ai dubbi maggiormente ricorrenti.
Risparmio energetico. Il bonus mobili è riconosciuto unicamente solo se sono state sostenute spese dal 26.06.2012 per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio elencati nella circolare 29/E del 2013. Era in dubbio se gli interventi per il risparmio energetico potessero consentire di sfruttare il bonus mobili.
La linea dell'Agenzia è stata molto legata al testo normativo. Ha infatti sostenuto che gli interventi finalizzati al risparmio energetico, che beneficiano della maggiore detrazione del 65%, non possono costituire presupposto per fruire della detrazione per l'acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici e ha sul punto richiamato la circolare 29/E la quale ha precisato che «i soggetti che possono avvalersi del beneficio fiscale sono (_) i contribuenti che (_) fruiscono della detrazione per interventi di recupero del patrimonio edilizio di cui all'art. 16-bis con la maggiore aliquota del 50% e con il maggior limite di 96.000 euro di spese ammissibili».
Unica apertura concessa è per il caso in cui le spese per risparmio energetico siano riconducibili anche a quelle che consentono il bonus ristrutturazione.
Quindi gli interventi finalizzati al risparmio energetico, per consentire di accedere al bonus mobili, devono potersi configurare quanto meno come interventi di «manutenzione straordinaria» che ai sensi della circolare 57/E del 1998 è da intendere come quella che «si riferisce a interventi, anche di carattere innovativo, di natura edilizia e impiantistica finalizzati a mantenere in efficienza e adeguare all'uso corrente l'edificio e le singole unità immobiliari, senza alterazione della situazione planimetrica e tipologica preesistente, e con il rispetto della superficie, della volumetria e della destinazione d'uso. La categoria di intervento corrisponde quindi al criterio dell'innovazione nel rispetto dell'immobile esistente».
Box pertinenziale. Similare la questione riguardante l'acquisto di un box pertinenziale.
Tale acquisto, secondo l'Agenzia, non può essere compreso tra gli interventi che consentono di usufruire del bonus mobili-grandi elettrodomestici.
Ciò in quanto la detrazione per l'acquisto di mobili è strettamente connessa agli interventi di recupero del patrimonio edilizio che sono effettuati su immobili residenziali già esistenti e non anche, quindi, agli interventi edilizi che comportano la realizzazione di nuove costruzioni.
Pagamenti. Chiarimenti giungono anche con riguardo ai pagamenti.
 Per godere dello sconto i contribuenti devono eseguire i pagamenti mediante bonifici bancari o postali, con le medesime modalità già previste per i pagamenti dei lavori di ristrutturazione.
Ciò comporta l'applicazione della ritenuta del 4%. Inoltre è ormai chiaro (vedi anche circolare 29/E del 2013) che il pagamento possa essere effettuato mediante carte di credito e di debito.
In questa ultima ipotesi è necessario conservare la documentazione attestante l'effettivo pagamento e le fatture di acquisto dei beni con la usuale specificazione della natura, qualità e quantità dei beni e servizi acquisiti.
La circolare 11/E del 2014 ribadisce la necessità di conservare la documentazione di addebito sul conto corrente specificando anche che «lo scontrino che riporta il codice fiscale dell'acquirente, unitamente all'indicazione della natura, qualità e quantità dei beni acquistati, è equivalente alla fattura ai fini in esame. Lo scontrino che non riporta il codice fiscale dell'acquirente si ritiene possa comunque consentire la fruizione della detrazione se contenga l'indicazione della natura, qualità e quantità dei beni acquistati e sia riconducibile al contribuente titolare del bancomat in base alla corrispondenza con i dati del pagamento (esercente, importo, data e ora)».
Il bonus vale anche per gli acquisti effettuati all'estero.
In tal caso la circolare ricorda che nel caso in cui il pagamento delle spese per mobili e grandi elettrodomestici avvenga mediante bonifico bancario o postale la ritenuta d'acconto deve essere operata anche sulle somme accreditate su conti in Italia di soggetti non residenti.
Ma se il destinatario del bonifico è un soggetto non residente e non dispone di un conto in Italia, il pagamento dovrà essere eseguito mediante un ordinario bonifico internazionale (bancario o postale) e dovrà riportare il codice fiscale del beneficiario della detrazione e la causale del versamento, mentre il numero di partita Iva o il codice fiscale del soggetto a favore del quale il bonifico è effettuato possono essere sostituiti dall'analogo codice identificativo eventualmente attribuito dal paese estero.
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Intreccio di date per le detrazioni.
La condizione necessaria per poter godere della detrazione per l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici è quella di aver fruito dello sconto previsto per le ristrutturazioni edilizie. Nella sostanza gli interventi di recupero del patrimonio edilizio costituiscono il presupposto per l'ulteriore detrazione per l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici. Sul punto è però da chiarire la tempistica.
La legge di stabilità 2014, ha infatti prorogato al 31.12.2014 l'arco temporale entro cui è possibile sostenere le spese per l'acquisto dei mobili. Nel prevedere l'estensione temporale non ha però introdotto alcun vincolo di consequenzialità tra l'esecuzione dei lavori e l'acquisto dei mobili.
Ciò significa che le spese di ristrutturazione seppure necessarie per godere del bonus mobili non devono essere contemporanee agli acquisti agevolati. L'importante è che il contribuente abbia sostenuto a decorrere dal 26 giugno 2012 spese per gli interventi edilizi. La circolare 29/E 2013 ha infatti chiarito:
• il sostenimento di spese di ristrutturazione dal 26.06.2012 è il presupposto a cui collegare la possibilità di avvalersi della detrazione mobili-grandi elettrodomestici;
• le spese per l'acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici possono essere sostenute anche prima di quelle per la ristrutturazione dell'immobile, a condizione che siano stati già avviati i lavori di ristrutturazione dell'immobile cui detti beni sono destinati.
Ciò significa che la data di inizio lavori deve essere anteriore a quella in cui sono sostenute le spese per l'acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici, ma non è necessario che le spese di ristrutturazione siano sostenute prima di quelle per l'arredo dell'abitazione.
Con riguardo all'importo ammesso allo sconto l'ultimo intervento di prassi ha infine chiarito come il testo normativo prevede che la detrazione per l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici «spetta nella misura del 50% delle spese sostenute dal 06.06.2013 al 31.12.2014 ed è calcolata su un ammontare complessivo non superiore a 10.000 euro».
Quindi l'ammontare complessivo di 10.000 euro deve essere calcolato considerando le spese sostenute nel corso dell'intero arco temporale che va dal 06.06.2013 al 31.12.2014, anche nel caso di successivi e distinti interventi edilizi che abbiano interessato un'unità immobiliare (articolo ItaliaOggi Sette del 30.06.2014).

APPALTILe vie della ripresa/ Fisco, Pa, pos: ora si cambia. Tra le nuove misure la stretta sugli acquisti dei Comuni non capoluogo.
Rischio blocco per gli appalti gestiti dai Comuni. Ad eccezione dei capoluoghi di Provincia, da domani, gli enti locali non potranno più acquisire lavori, beni e servizi in modo autonomo ma dovranno farlo in maniera associata, o attraverso le unioni di Comuni (dove esistono) o costituendo un consorzio. In alternativa possono ricorrere a un soggetto aggregatore, alle Province o agli strumenti elettronici gestiti dalla Consip.

È una delle novità al debutto tra oggi e domani, destinate a incidere pesantemente nella vita delle imprese e dei cittadini.
L'obiettivo della stretta sui Comuni è ridurre le centrali di committenza, in modo da semplificare le procedure e rendere meno costosi gli appalti. Ma il risultato immediato potrebbe essere l'impasse. Anche perché l'articolo 4 del Dl 66/2014 stabilisce che l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici non rilasci il codice identificativo gara (Cig) agli enti locali che non rispettano le nuove norme. E i Comuni interessati sono più di settemila.
In allarme, l'Anci, chiede una proroga. In una lettera inviata al ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, il presidente dell'associazione dei Comuni, Piero Fassino, sottolinea che non sempre è possibile rivolgersi alla Consip: «Per alcune categorie di servizi e di lavori non esistono convenzioni Consip a cui i Comuni possano aderire, trattandosi di servizi e lavori non standardizzabili, come ad esempio i servizi sociali o la manutenzione delle strade», scrive Fassino. L'associazione dei Comuni denuncia inoltre che è venuta meno la deroga per gli acquisti in economia fino a 40mila euro e per gli interventi urgenti.
Un'altra novità che interessa tutte le pubbliche amministrazioni, non solo i Comuni, e che sarà operativa da domani è l'obbligo di tenere il registro unico delle fatture o delle richieste equivalenti di pagamento per forniture, appalti e prestazioni professionali, e di annotarne gli estremi entro dieci giorni dal ricevimento. La misura rientra tra quelle adottate per accelerare i pagamenti della Pa a favore di imprese e professionisti.
Sempre sul fronte di una maggiore efficienza della macchina pubblica, a partire da oggi diventa obbligatorio depositare in via telematica -anziché cartacea- gli atti e i documenti nei procedimenti civili in tribunale: il vincolo riguarda solo le cause in corso. Per quelle già avviate il passaggio sarà obbligatorio dal prossimo 31 dicembre.
Due misure interessano il Fisco, direttamente o indirettamente. Da domani l'aliquota di tassazione applicata agli investimenti sale dal 20 al 26%. L'aumento interessa dividenti, cedole, capital gain da azioni e obbligazioni, proventi da fondi comuni, gestioni patrimoniali, polizze vita, interessi dei conti correnti e postali. L'aumento non vale per i titoli di Stato italiani e degli Stati non paradisi fiscali.
Da oggi, invece, esercenti, professionisti, artigiani e imprese devono accettare, su richiesta del cliente, il pagamento tramite bancomat. L'obbligo scatta al di sopra dei 30 euro e mira a ridurre l'uso del contante. E quindi, anche a circoscrivere l'evasione fiscale.
Buone notizie, per chi viaggia nella Ue. Da domani le tariffe massime per scaricare i dati in roaming scendono di oltre il 50%, passando da 45 a 20 centesimi. In questo modo consultare mappe, guardare video, controllare la posta e aggiornare i contenuti sui social network, sarà meno caro (si veda anche il servizio a pagina 11, nell'inserto Risparmio e famiglia) .
Ma anche le chiamate e gli Sms costeranno meno. Per una chiamata si pagheranno 19 centesimi al minuto, anziché 24, mentre il costo di un Sms scende da 8 a 6 centesimi. La diminuzione delle tariffe è prevista da un regolamento Ue del 2011.
Da domani chi va all'estero ha anche la possibilità di scegliere l'operatore cui agganciarsi nel periodo in cui è fuori dal suo Paese. Chi è in viaggio potrà così confrontare le offerte di roaming e scegliere la tariffa più conveniente.
Il 1° luglio è anche una data da segnare sul calendario per i ragazzi tra i 15 e i 29 anni di età: parte ufficialmente la fase operativa del Programma Garanzia giovani, che punta ad assicurare ai giovani un'offerta di lavoro, apprendistato, tirocinio o altra misura di formazione. La dotazione finanziaria è di 1,5 miliardi per il biennio 2014-2015
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.06.2014).

ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALISPECIALE DECRETO/ PER LE ASSUNZIONI LIMITI MENO RIGIDI - Negli enti turn-over più elevato ma salta la deroga per la Polizia locale.
La riforma della pubblica amministrazione (Dl 90/ 2014) parte dalla riscrittura delle norme che regolamentano il turnover. L'impianto complessivo è confermato ma con molte novità.
Le amministrazioni statali. Nel 2014 potranno sostituire il personale cessato l'anno precedente nel limite del 20%, tetto che aumenta al 40% nel 2015, al 60% nel 2016, all'80% nel 2017, per arrivare al turnover completo nel 2018. Si tratta delle stesse percentuali prima disseminate in numerose norme, ora modificate o abrogate. L'unica novità sostanziale riguarda le modalità di calcolo del limite, che oggi fa riferimento solo alla spesa e non più alle teste.
Gli enti di ricerca. Anche in questo settore percentuali di copertura del turnover immutate (50% nel 2014-2015, 60% nel 2016, 80% nel 2017 e 100% dal 2018), ma con una nuova condizione: potranno assumere solo gli enti la cui spesa per il personale di ruolo non supera l'80% delle entrate correnti secondo il bilancio consuntivo dell'anno precedente. In caso contrario scatta il divieto di nuove assunzioni a tempo indeterminato. Inoltre, nel calcolo delle spese relative al personale cessato dal 2014 in poi si potrà considerare anche il maturato economico, in quanto risulta disapplicato solo agli enti di ricerca l'articolo 35, comma 3, del decreto legislativo 165/2001. Tale modalità di calcolo potrà essere revocata con decreto in presenza di incrementi di spesa che possano compromettere gli equilibri di finanza pubblica.
Amministrazioni dello Stato ed enti di ricerca saranno costantemente monitorati e le assunzioni dovranno essere autorizzate con apposito decreto. Dal 2014 il cumulo dei budget assunzionali sarà consentito al massimo per tre anni.
Le regioni e gli enti locali. I benefici maggiori sembrano riservati a regioni ed enti locali soggetti al patto di stabilità: è, infatti, previsto un significativo innalzamento della percentuale di copertura del turnover, che passa dal 40% al 60% già nel 2014. L'incremento è confermato nel 2015, arriva all'80% nel biennio 2016-2017 e approda al 100% nel 2018. Inoltre, viene abrogato il discusso articolo 76, comma 7, del Dl 112/2008, che vietava le assunzioni agli enti con incidenza della spesa di personale sulla spesa corrente superiore al 50%, consolidando anche le aziende speciali, le istituzioni e le partecipate. Sembra strano, ma anche agli enti da anni considerati "non virtuosi", ovvero quelli che sforavano il suddetto limite, sono state sbloccate le assunzioni.
Le novità, però, non sono tutte positive atteso che con l'abrogazione del comma 7 dell'articolo 76 vengono cancellate anche le "agevolazioni" previste per determinati settori. Di fatto la percentuale di turnover per la polizia locale, l'istruzione pubblica e il sociale era fissata all'80% della spesa dei cessati, poiché le nuove assunzioni si consideravano al 50%.
Altra agevolazione abrogata riguarda la possibilità di sostituire integralmente il personale della polizia locale qualora le spese di personale siano inferiori al 35% di quelle correnti. Anche per gli enti locali è prevista la possibilità di cumulare le risorse destinate alle assunzioni solo per un triennio.
A questo punto è necessario mettere in fila tutte le norme per gli enti territoriali:
– le regioni e i comuni soggetti al patto di stabilità potranno assumere nel 2014-2015 il 60% del personale cessato nell'anno precedente a condizione che riducano la spesa storica di personale (articolo 1, comma 557, della legge 296/2006) e che rispettino il patto di stabilità;
– per le amministrazioni locali non soggette al patto di stabilità continua ad applicarsi il limite rappresentato dalle cessazioni avvenute nell'anno precedente (turnover al 100%) a condizione che la spesa di personale non superi quella del 2008 (articolo 1, comma 562 della legge 296/2006);
– nulla cambia per le province, che continuano ad avere il blocco totale delle assunzioni (articolo 16, comma 9, del Dl 95/2012).
Le cose sembrano andare decisamente meglio per gli enti del cosiddetto parapubblico (aziende speciali, istituzioni e società partecipate), rispetto ai quali gli enti territoriali avranno il compito di "coordinare" le politiche assunzionali al fine di garantire «una graduale riduzione della percentuale tra spese di personale e spese correnti».
Di fatto poco più che una norma di principio.
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1 | TRATTENIMENTO IN SERVIZIO
Nessuna «proroga» arrivati alla pensione
«Disposizioni per il ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni»: così recita il titolo dell'articolo 1 del decreto legge 90. Ci aspetterebbe, dunque, un intervento robusto, teso a tagliare in modo significativo l'età media dei dipendenti pubblici. In realtà, il "ricambio" trova la sua esplicazione nella cancellazione del trattenimento in servizio e nella possibilità di risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro alla maturazione della pensione anticipata secondo la riforma Fornero. Considerato che, a livello assunzionale, non è ancora riconosciuta mano libera alle amministrazioni, la strada per raggiungere l'obiettivo appare lunga. Solo per la completa attuazione delle disposizioni occorre un anno e mezzo.
Nei primi quattro commi della norma si prevede l'abolizione dell'articolo 16 del decreto legislativo 503/1992 e degli interventi legislativi conseguenti. Trova, quindi, lo stop definitivo una disposizione che agli albori rappresentava il diritto del dipendente a rimanere in servizio, per un biennio, una volta raggiunti i limiti di età. Da diritto era stato derubricato a facoltà per l'amministrazione di appartenenza di trattenere in servizio il lavoratore, per poi arrivare a considerarlo come nuova assunzione nell'ambito dei vincoli posti in materia.
Ma la norma opera immediatamente solo per i trattenimenti già disposti e non ancora efficaci al 25.06.2014 (data di entrata in vigore del Dl 90), i quali devono essere revocati. Quelli già in essere continuano a spiegare gli effetti, ma solo fino al 31 ottobre prossimo. Resta ferma la scadenza anteriore, se originariamente fissata.
Disposizioni meno rigide sono previste per i magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari, gli avvocati dello Stato e dei militari, per i quali i trattenimenti in servizio in essere hanno efficacia fino al 31 dicembre 2015, ovvero fino alla loro scadenza originaria, se antecedente.
Con il comma 5 si chiarisce la portata dell'articolo 72 del Dl 112/2008, in tema di risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro, alla luce delle modifiche apportate dalla riforma Fornero. Viene precisato che, per procedere in tal senso i dipendenti devono aver maturato i 40 anni di servizio, se hanno raggiunto un diritto a pensione entro il 31.12.2011. Dopo tale data, valgono i requisiti previsti dal Dl 201/2011, che, per il 2014, sono fissati in 42 anni e 6 mesi per gli uomini e 41 anni e 6 mesi per le donne.
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2 | MOBILITÀ
Favoriti i passaggi ma serve il nullaosta
Il decreto legge 90 rivede anche l'istituto della mobilità obbligatoria e volontaria, oltre a intervenire sulle mansioni dei dipendenti della pubblica amministrazione.
Il passaggio dei lavoratori da un ente all'altro è sempre stato visto dal legislatore con favore, nel tentativo di cercare l'ottimale redistribuzione delle risorse umane, prima di intraprendere procedure concorsuali con accesso dall'esterno. L'articolo 4 della riforma riscrive l'articolo 30 del decreto legislativo 165/2001, rinsaldando la possibilità, da parte delle amministrazioni, di ricoprire i posti vacanti attraverso passaggio diretto di dipendenti di altre amministrazioni, ma viene confermata la necessità dell'assenso dell'ente di appartenenza. In ogni caso, è necessario che vengano prefissati preventivamente i criteri di scelta e che si proceda a pubblicare per almeno trenta giorni sul sito istituzionale un apposito bando che identifichi posti, qualifiche, requisiti.
Solamente nel contesto dei trasferimenti tra ministeri, agenzie ed enti pubblici non economici –ed in via sperimentale– scompare il via libera dell'amministrazione di appartenenza, ma solamente a determinate condizioni. Presso la Funzione pubblica verrà istituto un portale per favorire l'incontro tra domanda e offerta. Sono, inoltre, introdotte regole speciali per lo spostamento dell'attività dei dipendenti appartenenti a medesime unità produttive.
Un altro leitmotiv del legislatore è la gestione del personale in eccedenza della pubblica amministrazione, tanto che la rivisitazione dell'articolo 33 del Dlgs 165/2001, avvenuta negli ultimi anni, ha previsto una verifica annuale da parte di tutti gli enti. Il personale in soprannumero viene collocato in disponibilità per un periodo massimo di due anni e con una retribuzione pari all'80% dello stipendio. Al fine di aumentare le occasioni di reimpiego, il Dl 90 introduce la possibilità da parte di tali soggetti di chiedere, nei sei mesi antecedenti la scadenza del biennio, la ricollocazione nell'ambito dei posti vacanti in organico anche in una qualifica, posizione economica o categoria inferiore.
Viene, altresì, previsto che l'avvio di procedure concorsuali per assunzioni a tempo indeterminato o determinato per più di un anno sia subordinato all'impossibilità di ricollocare il personale in disponibilità, il quale, peraltro, può essere altresì assegnato (con sospensione del termine massimo di due anni) in posizione di comando presso altre amministrazioni pubbliche che ne fanno richiesta.
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3 | INCENTIVI
I segretari perdono, i progettisti tengono
Abrogazione dei diritti di rogito dei segretari e dell'incentivazione ai dirigenti pubblici per la realizzazione di opere pubbliche e l'adozione di strumenti urbanistici: a queste due misure di contenimento della spesa e di limitazione dei compensi che possono essere erogati a soggetti con incarichi di vertice nelle Pa, si aggiunge il taglio degli incentivi per gli avvocati dirigenti (si veda l'altro articolo).
L'articolo 10 del Dl 90 abroga la possibilità per i segretari di percepire compensi per le attività di rogito che svolgono per conto dei propri enti. Ricordiamo che la misura di tale compenso era fissata nel 75% dell'incasso e che i segretari potevano ricevere queste somme fino al tetto del 30% del proprio stipendio annuale. Tale beneficio si estendeva anche ai vicesegretari. Sulla base delle nuove regole tutto il ricavato va agli enti.
L'utilizzazione del segretario per il rogito è molto gradita da parte delle amministrazioni e dei privati sia per esigenze di celerità sia per i costi più ridotti. Ci si chiede se questa attività continuerà a essere svolta e se i suoi volumi saranno gli stessi: non siamo infatti in presenza di un "dovere d'ufficio". L'articolo 97, comma 4, lettera c) del decreto legislativo 267/2000 si limita infatti a dire che il segretario "può rogare" contratti e atti.
Il Dl abroga la possibilità per i dirigenti di ricevere i compensi incentivanti previsti per i tecnici a fronte della realizzazione di opere pubbliche e/o dell'adozione di strumenti urbanistici. Da precisare subito che i titolari di posizione organizzativa, anche laddove svolgano compiti dirigenziali, non sono interessati dall'abrogazione. Se l'effetto concreto della nuova disposizione sarà la diminuzione della progettazione effettuata direttamente all'interno degli enti, aumenteranno i costi della progettazione a carico delle Pa: lo svolgimento all'interno di questa attività è enormemente meno costoso dell'affidamento a un libero professionista.
Nella concreta applicazione di ambedue queste misure occorre considerare che non vi sono specifiche previsioni per il periodo transitorio, come sarebbe necessario. Si deve, pertanto, chiarire l'effetto sulle attività svolte prima dell'entrata in vigore del decreto 90 e non ancora remunerate. L'interpretazione più coerente con il dettato normativo è che queste attività vadano remunerate per come previsto dalla legislazione in vigore al momento. Ma non si deve dimenticare che in passato per numerose Corti dei conti, proprio con riferimento all'incentivazione per i tecnici, i compensi andavano determinati sulla base della disposizione in vigore all'atto del pagamento
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4 | MAGISTRATI E AVVOCATI
Si riducono i compensi di chi difende lo Stato
La riforma della Pa investe anche magistrati e avvocati dello Stato e di altri enti pubblici.
Per giudici e avvocati dello Stato, al pari degli altri dipendenti pubblici, sarà precluso il trattenimento in servizio oltre il limite d'età, con la differenza che per queste categorie è previsto un periodo transitorio più lungo: sono fatti salvi i trattenimenti esistenti fino al 31 dicembre 2015 o alla loro scadenza naturale se anteriore.
Si prevede poi una nuova e stringente disciplina per gli incarichi direttivi e semidirettivi dei magistrati ordinari. Per coprire tempestivamente i vuoti d'organico, si "obbliga" il Csm a conferire le nuove funzioni in tempi celeri in caso di cessazione per raggiungimento del limite di età, per superamento degli otto anni complessivi o per altro motivo.
Per gli avvocati dello Stato e degli enti pubblici si agisce anche sul piano economico, con un taglio degli incentivi per la difesa in giudizio delle pubblica amministrazione, abrogando, per le sentenze depositate dopo il 25 giugno (data di entrata in vigore del Dl 90), le norme del regio decreto 1611/33, che prevedevano per gli avvocati dello Stato il compenso anche nei casi di transazione dopo sentenza favorevole e di giudizio di non soccombenza con compensazione di spese. L'articolo 9, comma 1, del decreto legge limita l'incentivo soltanto al caso di vittoria della Pa con attribuzione delle spese a carico della controparte soccombente, ma solo nella misura del 10% delle somme effettivamente recuperate a carico della stessa.
Si ritiene, dunque, che l'incentivo sia liquidabile, nel limite del 10%, solo nel caso in cui la Pa riesca a recuperare al proprio bilancio le spese riconosciute a suo favore. Il restante 90% va alle casse dell'ente. La norma non si applica agli avvocati degli enti pubblici e territoriali inquadrati con qualifica non dirigenziale.
Il comma 2 dell'articolo 9, invece, elimina totalmente l'incentivo professionale allorché vi sia vittoria della Pa con compensazione integrale delle spese, compresi i casi di transazione dopo sentenza favorevole.
Con il comma 3, infine, viene specificato che le nuove misure (incentivo al 10% ed eliminazione del compenso professionale in caso di vittoria con compensazione) si applicano soltanto alle sentenze depositate dopo il 25 giugno.
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5 | DIRIGENTI A TEMPO
Incarichi selezionati con bando pubblico
L'articolo 11 della riforma della Pa (Dl 90) riscrive le regole per l'affidamento di incarichi dirigenziali a tempo determinato e per gli uffici di diretta collaborazione con gli organi politici degli enti locali.
L'articolo 110 del decreto legislativo 267/2000 prevede, infatti, la possibilità di conferire incarichi a tempo determinato sia in dotazione organica (comma 1), che extra-dotazione organica (comma 2). Nella versione originaria del comma 1 mancava ogni riferimento a limiti quantitativi per tali assunzioni; paletti inseriti dall'articolo 19, comma 6-quater, del Dlgs 165/2001, norma che il Dl 90 cancella riscrivendo i vincoli direttamente nell'articolo 110 del testo unico degli enti locali.
Per i posti di qualifica dirigenziale è il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi a definire la quota attribuibile a tempo determinato. Soglia che, però, non potrà essere superiore al 30% dei posti della dotazione organica della medesima qualifica, con arrotondamento almeno a una unità. Tuttavia, il comma 1 del Dlgs 267 non si riferisce solamente alle qualifiche dirigenziali, ma prevede la possibilità di ricoprire a tempo determinato anche i posti di responsabile di servizi o di uffici. In tale ipotesi, il testo letterale della norma sembra non fissare alcun paletto ed è forse questo il motivo per cui la dottrina costante della Corte dei conti ha ritenuto che questa tipologia di assunzione rientri nel limite per il lavoro flessibile, ovvero nella riduzione del 50% della spesa sostenuta nel 2009, come previsto dall'articolo 9, comma 28, del Dl 78/2010.
La riforma mette, inoltre, nero su bianco l'obbligo di espletare, ai fini dell'attribuzione di un incarico ai sensi dell'articolo 110, una selezione pubblica volta ad accertare il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell'incarico, oltre a verificare i requisiti richiesti per la qualifica da ricoprire.
Modificando il comma 5 dell'articolo 110 viene anche previsto il collocamento automatico in aspettativa senza assegni per i dipendenti pubblici a cui sono affidati gli incarichi a contratto in esame.
Con una frase a dir poco disorganica viene anche integrato l'articolo 90 del Dlgs 267: i soggetti assunti in staff agli organi politici non possono svolgere attività gestionale e si prescinde, ai fini dell'affidamento dell'incarico, dal possesso del titolo di studio, ancorché si possa parametrare il trattamento economico a quello dei dirigenti
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6 | CONTROLLI NEI MUNICIPI
Referto ogni 12 mesi con nuove linee guida
Il referto sui controlli interni -introdotti dal Dl 174/2012- dopo un anno di applicazione diventa annuale anziché semestrale. Stranamente lo prevede non il Dl 90 di riforma della Pa, ma il Dl 91 sullo sviluppo.
La norma in questione è l'articolo 33, che modifica l'articolo 148 del testo unico degli enti locali (Tuel) con l'intento di semplificare gli adempimenti degli enti, fermi restando i controlli della Corte dei conti sull'effettività e validità degli strumenti di verifica.
Dopo le prime indicazioni per la compilazione dei due referti relativi al 2013 contenute nella delibera n. 4/SEZAUT/2013/INPR della Corte dei conti, si attendono –molto probabilmente per l'autunno– nuove linee guida per il referto dell'intero esercizio 2014, per il quale si applicano tutti e sei i controlli interni per i comuni con popolazione superiore ai 50mila abitanti.
Le nuove linee guida, dopo la sperimentazione dei primi due referti semestrali, potrebbero entrare più nel merito della metodologia e dell'effettività dei controlli, dato che il riformato articolo 148 del Tuel precisa che la Corte verifica il funzionamento dei controlli interni e che gli enti trasmettano il referto sul sistema dei controlli e sulle verifiche effettuate nell'anno.
Con le prossime linee guida potrebbe essere anche opportuno precisare la scadenza del nuovo referto annuale –che idealmente potrebbe coincidere con il rendiconto della gestione– nonché la sovrapposizione a tale referto dell'articolo 198-bis del Tuel relativo al referto sul controllo di gestione, che –nonostante se ne auspicasse l'abrogazione– è ancora in vigore anche se ritenuto di fatto superato dalla riforma del Dl 174/2012 e da molti enti inosservato.
L'obiettivo del nuovo sistema dei controlli interni è di garantire agli enti gli strumenti per una efficiente gestione. Di conseguenza, il referto annuale da trasmettere ai giudici contabili dovrebbe rappresentare un rendiconto di quello che l'amministrazione ha effettivamente svolto in termini di governance.
La permanenza della previsione di sanzioni nel caso di assenza o inadeguatezza dei controlli interni vuole rendere effettiva la nuova mentalità di tipo "aziendale" che tali controlli di fatto richiedono
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.06.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Vincolo paesaggistico: l'iter si chiude senza conferenza di servizi. Va chiarito se la Regione può dare il via libera anche in caso di silenzio della Soprintendenza.
Permessi. Le modifiche alla procedura dettate dal Dl 83/2014.

Cambia ancora il procedimento di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica. Il Dl 83 del 31.05.2014 interviene ancora sull'iter richiesto per la realizzazione di interventi edilizi in aree vincolate in base all'articolo 146 Dlgs n. 42/2004.
L'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire e viene rilasciata dalla Regione o dall'amministrazione da essa delegata ad esercitare la funzione autorizzatoria in materia di paesaggio, dopo avere acquisito il parere da parte della Soprintendenza competente.
Niente conferenza di servizi
Con la recente modifica introdotta dal Dl 83/2014, il legislatore ha eliminato la previsione del comma 9 dell'articolo 146, secondo la quale –nel caso in cui il soprintendente non avesse reso il parere entro 45 giorni dalla ricezione degli atti– l'amministrazione avrebbe potuto indire una conferenza di servizi, pur dovendo in ogni caso concludere il procedimento decorsi 60 giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente.
Il procedimento ora prevede direttamente che –decorsi inutilmente 60 giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente senza che questi abbia reso il proprio parere– l'amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione. La modifica cancella quindi la facoltà di indire la conferenza di servizi.
La correzione fa seguito ai numerosi rimaneggiamenti che negli ultimi tempi hanno interessato la disposizione. In una prima fase, con Dl 70/2011 (convertito in legge 106/2011) era stato precisato come l'autorizzazione fosse efficace immediatamente dopo il suo rilascio. Con lo stesso intervento era stata snellita la procedura ordinaria, prevedendo che –in caso di piani urbanistici adeguati alle prescrizioni di vincolo– il parere della Soprintendenza fosse obbligatorio, ma non vincolante, e dovesse essere reso entro 90 giorni, trascorsi i quali si sarebbe formato il silenzio-assenso.
Con successivo Dl 69/2013, il procedimento per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica per gli strumenti urbanistici adeguati alle prescrizioni di vincoli era stato nuovamente modificato, riducendo il termine entro cui deve essere reso il parere del Soprintendente da 90 a 45 giorni e sostituendo il silenzio-assenso –in caso di infruttuosa scadenza di questo termine– con la previsione circa l'adozione del provvedimento finale da parte dell'amministrazione competente.
Gli effetti del «silenzio»
Il Dl 83/2014, pur semplificando ulteriormente il procedimento, lascia ancora aperto il dibattito relativo agli effetti dell'eventuale silenzio della Soprintendenza.
Stando al dettato letterale della norma, il silenzio sembra svolgere effetto devolutivo, comportando l'assunzione del pieno potere decisorio sull'istanza di autorizzazione paesaggistica in capo alla Regione o al soggetto da questa delegato.
La giurisprudenza meno recente si era espressa in tal senso, precisando che il parere della Soprintendenza reso con ritardo è da considerarsi privo dell'efficacia attribuitagli dalla legge, e cioè privo di valenza obbligatoria e vincolante. Dopo il termine, il potere della Soprintendenza di emanare il parere deve quindi ritenersi esaurito (Consiglio di Stato, sez. VI, 15.03.2013, n. 1561; Tar Puglia, Lecce, 24.07.2013, n. 1739; Tar Veneto, sez. II, 14.11.2013, n. 1295). Di conseguenza, la Regione o l'ente da essa delegato dovrebbe definire il procedimento nel merito senza attendere altro.
Secondo un più recente orientamento giurisprudenziale, per contro, nel caso di mancato rispetto del termine, il potere della Soprintendenza continuerebbe a sussistere. Quindi la conclusione del procedimento cui la Regione è obbligata (ora senza convocare la conferenza di servizi) dovrebbe essere nel senso di dichiarare l'improcedibilità dello stesso, alla luce dell'inerzia della Soprintendenza. Inerzia comunque risolvibile mediate ricorso al Tar per la dichiarazione di illegittimità del silenzio-inadempimento e il conseguente ordine di procedere (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4914 del 30.07.2013; Tar Campania, Sez. I, n. 459/2014 del 24.02.2014).
Questa seconda lettura pare discostarsi dal tenore letterale della disposizione, ma è bene che la conversione del decreto –che dovrà avvenire entro il prossimo 31 luglio– prenda definitiva posizione in merito, precisando se la Regione o il Comune delegato possano o meno definire nel merito il procedimento anche in assenza del formale parere dell'organo statale.
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In sintesi
1 - PROVVEDE DIRETTAMENTE LA REGIONE
Come superare il silenzio della Soprintendenza
Cancellazione della facoltà concessa all'amministrazione procedente di indire una conferenza di servizi nel caso in cui il soprintendente non abbia reso il prescritto parere entro 45 giorni dalla ricezione degli atti. Il procedimento ora prevede direttamente che, decorsi inutilmente 60 giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente senza che questi abbia reso il parere, l'amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione
2 - EFFICACIA ALLINEATA AI TITOLI
Scongiurati i danni da ritardo del permesso
Il momento iniziale di efficacia dell'autorizzazione paesaggistica è stato allineato con quello del titolo abilitativo edilizio. L'articolo 146 del Codice prevede ora che il termine di efficacia dell'autorizzazione decorre dal giorno in cui acquista efficacia il titolo edilizio eventualmente necessario per la realizzazione dell'intervento, a meno che il ritardo in ordine al rilascio e alla conseguente efficacia di quest'ultimo non sia dipeso da circostanze imputabili all'interessato
3 - ALLEGGERITI I PICCOLI INTERVENTI
Decreto atteso entro il 1° dicembre
Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del Dl –quindi entro il 1° dicembre prossimo– deve essere approvato un regolamento che apporterà modifiche e integrazioni al Dpr 09.07.2010, n. 139, volte ad ampliare e precisare le ipotesi di «interventi di lieve entità» soggette al procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica e a introdurre ulteriori semplificazioni procedimentali. Il termine per l'emanazione del decreto è ordinatorio
4 - ACCESSO AGLI ARCHIVI DI STATO
Termine ridotto a «oltre 30 anni»
Sono ora liberamente consultabili anche i documenti che gli organi giudiziari e amministrativi dello Stato abbiano versato negli archivi di Stato prima del termine ordinario. Inoltre, tale termine viene ora ridotto a «oltre trent'anni dall'esaurimento dell'affare» rispetto ai 40 anni precedentemente previsti previsti dal Codice, in relazione al pericolo di dispersione o di danneggiamento o in caso di appositi accordi tra i responsabili degli archivi e le amministrazioni
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Le altre novità. Revisione attesa entro il 1° dicembre. Lista dei lavori minori da ampliare.
Non interviene solo sulla convocazione della conferenza dei servizi, il Dl 83 del 31 maggio scorso. Vediamo allora le altre modifiche, partendo da quelle in tema di autorizzazione paesaggistica.
Il Governo ha allineato il momento iniziale di efficacia quinquennale dell'autorizzazione paesaggistica con quello del titolo abilitativo edilizio per l' esecuzione dell'intervento. L'articolo 146 del Codice, pertanto, prevede ora che il termine di efficacia dell'autorizzazione decorre dal giorno in cui acquista efficacia il titolo edilizio eventualmente necessario per la realizzazione dell'intervento, a meno che il ritardo in ordine al rilascio e alla conseguente efficacia di quest'ultimo non sia dipeso da circostanze imputabili al l'interessato.
Questa modifica è particolarmente positiva perché evita l'infruttuoso decorso del termine di efficacia dell'autorizzazione nelle more del rilascio del titolo edilizio.
Quale ulteriore provvedimento per la semplificazione della tutela del paesaggio, il decreto prevede poi l'approvazione, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del Dl stesso –e dunque entro il prossimo 1° dicembre– di un regolamento che apporterà modifiche e integrazioni al Dpr 09.07.2010, n. 139 espressamente finalizzate a:
- ampliare e precisare le ipotesi di interventi di lieve entità soggette al procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica;
- introdurre ulteriori semplificazioni procedimentali.
L'elenco degli interventi è attualmente contenuto nell'allegato I al decreto e conta 39 tipologie di intervento.
Anche se il termine di sei mesi è ordinatorio, il regolamento rappresenta l'occasione per chiarire alcune ipotesi di intervento non affatto chiare, come quella relativa agli «interventi sistematici nelle aree di pertinenza di edifici esistenti», ed eventualmente per estendere la procedura semplificata a interventi ad oggi esclusi: si pensi ad esempio ai lavori per la realizzazione di autorimesse pertinenziali totalmente interrate con volume superiore a 50 metri cubi o alla creazione di serre mobili funzionali allo svolgimento dell'attività agricola.
La procedura semplificata di autorizzazione potrà invece essere alleggerita modificando le disposizioni che, in caso di valutazione negativa, prevedono la trasmissione del preavviso di rigetto in base al l'articolo 10-bis della legge 241/1990, ma consentono al l'interessato di far rivalutare l'istanza da parte della Soprintendenza solamente a seguito del diniego dell'amministrazione competente.
Infine, il Dl è intervenuto in relazione alla consultazione degli archivi di Stato. È infatti stato rimosso dal Codice il divieto di accedere ai documenti che gli organi giudiziari e amministrativi dello Stato, in relazione al pericolo di dispersione o di danneggiamento o in caso di appositi accordi con i responsabili degli archivi, abbiano immesso negli archivi prima del termine ordinario previsto dal Codice.
Lo stesso termine ordinario dettato per il deposito dei documenti negli archivi di Stato, in origine pari a oltre 40 anni dall'esaurimento dell'affare, è peraltro stato ridotto a (oltre) 30 anni
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.06.2014 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI FORNITURE E SERVIZIIn materia di servizi e forniture, nell'assenza di un sistema accreditato di qualificazione (che, viceversa, per gli appalti di lavori pubblici è rimesso alle SOA, cui compete anche l'attestazione del possesso della certificazione di qualità aziendale), l'art. 43, d.lgs. n. 163 del 2006 stabilisce che le stazioni appaltanti, qualora richiedano la presentazione di certificazione di qualità aziendale rilasciata da organismi indipendenti, fanno riferimento ai sistemi di assicurazione della qualità basati su una serie di norme europee in materia e certificati di organismi conformi alle norme europee relative alla certificazione; in ogni caso, le stazioni appaltanti riconoscono i certificati equivalenti rilasciati da organismi stabiliti in altri Stati membri ed ammettono parimenti altre prove relative all'impiego di misure equivalenti di garanzia della qualità prodotte dagli operatori economici.
Si tratta di una norma che, nell’ammettere la produzione in gara di “certificati equivalenti” e di “altre prove relative all’impiego di misure equivalenti di garanzia”, codifica principi di carattere generale, essendo finalizzata a favorire la più ampia partecipazione degli operatori economici alla gare pubbliche in condizioni di parità e di non discriminazione, oltre che a garantire la ragionevolezza e la proporzionalità dei requisiti soggettivi di partecipazione. Ciò determina la conseguenza che ,pur essendo il possesso del requisito elemento essenziale, è illegittima la clausola che ne prevede la certificazione sin dal momento della presentazione della domanda a pena di esclusione, esulando tale prescrizione in via escludente dagli elementi indicati dal citato art. 46 come recentemente novellato.
La tassatività delle ipotesi di esclusione, infatti, assurge ormai a principio generale relativo ai contratti pubblici e costituisce specificazione del principio di proporzionalità.
In altri termini, l’esclusione e la presupposta clausola della lex specialis di gara (ritualmente impugnata) sono illegittime, per violazione dell’art. 46, comma 1-bis), del Codice, giacché la presentazione della certificazione di qualità, in originale o in copia autentica, costituisce un adempimento formale non essenziale e non previsto da alcuna norma di legge o regolamento; avendo la ricorrente peraltro fornito un principio di prova del possesso anche con riferimento alla sussistenza dell’accreditamento per il settore in questione (EA39 servizi pubblici), giusta le altre due certificazioni prodotte per le categorie 9001:2008 e 14001/2004, la stazione appaltante avrebbe dovuto consentirle di integrare la documentazione allegata all’offerta, ai sensi dell’art. 46, primo comma, del Codice.
Tali principi sono da tempo radicati nella giurisprudenza comunitaria; le pronunce della Corte di Giustizia CE hanno, infatti, concordemente precisato che la “volontà del legislatore comunitario è stata quella di prendere in considerazione soltanto le cause di esclusione riguardanti unicamente le qualità professionali (onestà, solvibilità) degli interessati”; e che l’elencazione tassativa con riferimento alle dette cause di esclusione “osta a che gli Stati membri o le amministrazioni aggiudicatrici integrino l’elenco con altre cause fondate su criteri relativi alla qualità professionale”.
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Il fondamento giustificativo del principio di tassatività delle cause di esclusione è quello di ridurre gli oneri formali gravanti sulle imprese partecipanti a procedure di affidamento, quando questi non siano strettamente necessari a raggiungere gli obiettivi perseguiti attraverso gli schemi dell'evidenza pubblica. Tali obiettivi, consistendo nella selezione del miglior contraente privato, conducono a privare di rilievo giuridico, attraverso la sanzione della nullità testuale, tutte le "cause amministrative" di esclusione dalle gare incentrate non già sulla qualità della dichiarazione, ma piuttosto sulle forme con cui questa viene esternata.
Ancora, è pertinente al caso di specie la pronuncia del Giudice di appello n. 4471/2013, che ha ritenuto contrastante con il suddetto principio di tassatività la clausola di lex specialis impositiva dell'obbligo di produrre in originale o copia autentica la certificazione di qualità prevista. Richiamando il disposto dell'art. 43 del d.lgs. n. 163/2006, viene puntualizzata nella citata pronuncia la necessità di sfrondare i bandi di gara da formalismi non necessari, ammettendo quindi le imprese partecipanti a "provare l'esistenza della qualificazione con mezzi idonei che garantiscano un soddisfacente grado di certezza, nel limite della ragionevolezza e della proporzionalità della previsione della legge speciale di gara, la quale deve garantire la massima partecipazione". E ciò sull'incontestabile rilievo dell'inesistenza di un sistema di qualificazione pubblica, tanto in forza del quale si giustifica la libertà di prova riconosciuta dalla ora citata disposizione normativa.
In base ai precedenti ora richiamati, si deve quindi riconoscere alle imprese partecipanti a gare d'appalto di provare con ogni mezzo ciò che costituisce oggetto della certificazione richiesta dalla stazione appaltante, pena altrimenti, in primo luogo, l'introduzione di una causa amministrativa di esclusione in contrasto con una chiara disposizione di legge; ed inoltre la previsione di sanzioni espulsive sproporzionate rispetto alle esigenze delle amministrazioni aggiudicatrici, le quali devono esclusivamente poter confidare sull'effettivo possesso dei requisiti di qualità aziendale o -per venire al caso di specie- sul rispetto delle norme sulla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.
Né può in contrario essere invocato l'indirizzo giurisprudenziale che afferma essere rimasto inalterato, anche dopo la positivizzazione del principio di tassatività della cause di esclusione, il potere delle stazioni appaltanti di imporre alle imprese tutti i documenti e gli elementi ritenuti necessari o utili per identificare e selezionare i partecipanti, nel rispetto del principio di proporzionalità, in virtù di quanto dispongono gli artt. 73 e 74 d.lgs. n. 163/2006. Si tratta in fatti di pronunce che si riferiscono a tipologie di documenti diverse dalle certificazioni di qualità, per le quali la norma primaria, contenuta nel più volte citato art. 43, stabilisce una equivalenza con altre prove.

In primis la ricorrente deduce che l’esclusione sarebbe disposta dal bando (art.4 ) e dal capitolato speciale di appalto (art. 6, co. 3) con clausola violativa del principio di tassatività delle cause di esclusione e pertanto da disapplicarsi in quanto affetta da nullità.
Il motivo è fondato alla luce del nuovo disposto dell’art. 46 comma 1–bis d.lgs. 163/2006 che ha introdotto il principio della tassatività delle clausole di esclusione, limitando la discrezionalità delle stazioni appaltanti in tal senso. Non rientrando l’ipotesi in questione tra i casi tassativi in cui è possibile comminare l’esclusione, la ricorrente non poteva comunque essere esclusa.
Va premesso che in materia di servizi e forniture, nell'assenza di un sistema accreditato di qualificazione (che, viceversa, per gli appalti di lavori pubblici è rimesso alle SOA, cui compete anche l'attestazione del possesso della certificazione di qualità aziendale), l'art. 43, d.lgs. n. 163 del 2006 stabilisce che le stazioni appaltanti, qualora richiedano la presentazione di certificazione di qualità aziendale rilasciata da organismi indipendenti, fanno riferimento ai sistemi di assicurazione della qualità basati su una serie di norme europee in materia e certificati di organismi conformi alle norme europee relative alla certificazione; in ogni caso, le stazioni appaltanti riconoscono i certificati equivalenti rilasciati da organismi stabiliti in altri Stati membri ed ammettono parimenti altre prove relative all'impiego di misure equivalenti di garanzia della qualità prodotte dagli operatori economici.
Si tratta di una norma che, nell’ammettere la produzione in gara di “certificati equivalenti” e di “altre prove relative all’impiego di misure equivalenti di garanzia”, codifica principi di carattere generale, essendo finalizzata a favorire la più ampia partecipazione degli operatori economici alla gare pubbliche in condizioni di parità e di non discriminazione, oltre che a garantire la ragionevolezza e la proporzionalità dei requisiti soggettivi di partecipazione. Ciò determina la conseguenza che ,pur essendo il possesso del requisito elemento essenziale, è illegittima la clausola che ne prevede la certificazione sin dal momento della presentazione della domanda a pena di esclusione, esulando tale prescrizione in via escludente dagli elementi indicati dal citato art. 46 come recentemente novellato.
La tassatività delle ipotesi di esclusione, infatti, assurge ormai a principio generale relativo ai contratti pubblici e costituisce specificazione del principio di proporzionalità.
In altri termini, l’esclusione e la presupposta clausola della lex specialis di gara (ritualmente impugnata) sono illegittime, per violazione dell’art. 46, comma 1-bis), del Codice, giacché la presentazione della certificazione di qualità, in originale o in copia autentica, costituisce un adempimento formale non essenziale e non previsto da alcuna norma di legge o regolamento; avendo la ricorrente peraltro fornito un principio di prova del possesso anche con riferimento alla sussistenza dell’accreditamento per il settore in questione (EA39 servizi pubblici), giusta le altre due certificazioni prodotte per le categorie 9001:2008 e 14001/2004, la stazione appaltante avrebbe dovuto consentirle di integrare la documentazione allegata all’offerta, ai sensi dell’art. 46, primo comma, del Codice (TAR Puglia, Bari, sez. I, 23.02.2012 n. 371).
Tali principi sono da tempo radicati nella giurisprudenza comunitaria; le pronunce della Corte di Giustizia CE hanno, infatti, concordemente precisato che la “volontà del legislatore comunitario è stata quella di prendere in considerazione soltanto le cause di esclusione riguardanti unicamente le qualità professionali (onestà, solvibilità) degli interessati” (Corte giust., 09.02.2006, in cause riunite C-226/04 e C-228/04; Corte giust., 16.12.2008, in causa C-213/07 e Corte giust., 19.05.2009, in causa C-538/07, Corte giust., 19.05.2009, in causa C-538/07, punto 20); e che l’elencazione tassativa con riferimento alle dette cause di esclusione “osta a che gli Stati membri o le amministrazioni aggiudicatrici integrino l’elenco con altre cause fondate su criteri relativi alla qualità professionale” Corte giust., 16.12.2008, in causa C-213/07, Michaniki AE, punto 43.
In ogni caso, il possesso della certificazione del sistema di qualità era sussistente già al tempo della presentazione dell’offerta – come dimostra la certificazione rilasciata dall’ente accreditatore datata 20.05.2014, ma riferita alla data del 16.9.2013 e prodotta dalla ricorrente sin dalla immediata richiesta di esercizio del potere di autotutela, circostanza peraltro non contestata agli atti di causa .
Non è infatti in dubbio la legittimità di una norma impositiva del possesso di detta certificazione, bensì se la mancanza di quest'ultima debba comportare l'esclusione dell'impresa concorrente.
La contrarietà rispetto al principio ora detto sussiste, ed emerge in primo luogo dalla circostanza che ciò che rileva non è la certificazione in sé ma il possesso dei requisiti idonei ad ottenerla, ed in secondo luogo dal chiaro disposto dell'art. 43 cod. contratti pubblici, che riconosce in termini generali alle imprese partecipanti a procedure di affidamento la possibilità di fornire "altre prove" relative al rispetto dei standard di qualità equivalenti a quelli oggetto di certificazioni rilasciate dai competenti organismi.
Sul punto è il caso di richiamare la recente pronuncia della VI Sezione del Consiglio di Stato 18.09.2013 n. 4663, la quale ha chiarito che il fondamento giustificativo del principio di tassatività delle cause di esclusione è quello di ridurre gli oneri formali gravanti sulle imprese partecipanti a procedure di affidamento, quando questi non siano strettamente necessari a raggiungere gli obiettivi perseguiti attraverso gli schemi dell'evidenza pubblica. Tali obiettivi, consistendo nella selezione del miglior contraente privato, conducono a privare di rilievo giuridico, attraverso la sanzione della nullità testuale, tutte le "cause amministrative" di esclusione dalle gare incentrate non già sulla qualità della dichiarazione, ma piuttosto sulle forme con cui questa viene esternata.
Ancora, è pertinente al caso di specie la pronuncia del Giudice di appello del 09.09.2013 n. 4471, che ha ritenuto contrastante con il suddetto principio di tassatività la clausola di lex specialis impositiva dell'obbligo di produrre in originale o copia autentica la certificazione di qualità prevista. Richiamando il disposto dell'art. 43 del d.lgs. n. 163/2006, viene puntualizzata nella citata pronuncia la necessità di sfrondare i bandi di gara da formalismi non necessari, ammettendo quindi le imprese partecipanti a "provare l'esistenza della qualificazione con mezzi idonei che garantiscano un soddisfacente grado di certezza, nel limite della ragionevolezza e della proporzionalità della previsione della legge speciale di gara, la quale deve garantire la massima partecipazione". E ciò sull'incontestabile rilievo dell'inesistenza di un sistema di qualificazione pubblica, tanto in forza del quale si giustifica la libertà di prova riconosciuta dalla ora citata disposizione normativa.
In base ai precedenti ora richiamati, si deve quindi riconoscere alle imprese partecipanti a gare d'appalto di provare con ogni mezzo ciò che costituisce oggetto della certificazione richiesta dalla stazione appaltante, pena altrimenti, in primo luogo, l'introduzione di una causa amministrativa di esclusione in contrasto con una chiara disposizione di legge; ed inoltre la previsione di sanzioni espulsive sproporzionate rispetto alle esigenze delle amministrazioni aggiudicatrici, le quali devono esclusivamente poter confidare sull'effettivo possesso dei requisiti di qualità aziendale o -per venire al caso di specie- sul rispetto delle norme sulla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.
Né può in contrario essere invocato l'indirizzo giurisprudenziale che afferma essere rimasto inalterato, anche dopo la positivizzazione del principio di tassatività della cause di esclusione, il potere delle stazioni appaltanti di imporre alle imprese tutti i documenti e gli elementi ritenuti necessari o utili per identificare e selezionare i partecipanti, nel rispetto del principio di proporzionalità, in virtù di quanto dispongono gli artt. 73 e 74 d.lgs. n. 163/2006 (sentenze 18.02.2013 n. 974 e 03.07.2012, n. 3884). Si tratta in fatti di pronunce che si riferiscono a tipologie di documenti diverse dalle certificazioni di qualità, per le quali la norma primaria, contenuta nel più volte citato art. 43, stabilisce una equivalenza con altre prove.
Va ancora osservato al riguardo che la disposizione del codice dei contratti pubblici da ultimo menzionata attiene alle "norme in materia di garanzia della qualità", mentre nel caso di specie si controverte in ordine al rispetto di determinati standard di etica e responsabilità aziendale (OHSAS Occupational Health and Safety Assessment series-18001:2007). Si tratta all'evidenza di requisiti connotati da un grado di verificabilità empirica certamente inferiore a quelli previsti dalla norma, per i quali la possibilità di fornire prove in via alternativa deve essere riconosciuta a fortiori.
Ne consegue che, in applicazione dell'art. 46, comma 1-bis, va dichiarata la nullità della comminatoria espulsiva contenuta nel disciplinare di gara per il caso di omessa produzione del certificato in questione, rectius per produzione di un certificato incompleto in quanto carente di un settore di riferimento- EA 39 (Consiglio di Stato, Sez. 5, 12.11.2013, n. 5375) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 02.07.2014 n. 3621 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer potersi applicare la sanzione pecuniaria sanante deve risultare impossibile la rimozione dei vizi delle procedure o (una volta accertato che gli stessi non siano rimuovibili) la riduzione in pristino stato; e tuttavia la giurisprudenza, pacificamente, ha da sempre circoscritto i confini dell’applicazione della suddetta norma alle sole ipotesi in cui il permesso di costruire sia stato annullato per vizi formali o procedurali, ritenendola inapplicabile ove invece l’annullamento del medesimo venga pronunciato per l’acclarata sussistenza di un vizio sostanziale.
Parimenti infondata è la doglianza dedotta con il secondo motivo di ricorso, e sostanzialmente incentrata su di una pretesa errata applicazione dell’art. 38 DPR 380/2001, alla stregua del quale “in caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la riduzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione amministrativa pari al valore venale delle opere o di loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio (…) 2. L’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’art. 36” (disposizione, questa, che costituisce la riproduzione del previgente art. 11 L. 47/1985).
I ricorrenti sostengono, dunque, che il Comune avrebbe omesso di effettuare un’adeguata istruttoria onde verificare la sussistenza dei presupposti per applicare l’articolo in commento, e, conseguentemente, la motivazione dell’atto sarebbe carente proprio su questo punto.
Orbene, osserva in proposito il Collegio che per potersi applicare la sanzione pecuniaria sanante deve risultare impossibile la rimozione dei vizi delle procedure o (una volta accertato che gli stessi non siano rimuovibili) la riduzione in pristino stato; e tuttavia la giurisprudenza, pacificamente, ha da sempre circoscritto i confini dell’applicazione della suddetta norma alle sole ipotesi in cui il permesso di costruire sia stato annullato per vizi formali o procedurali, ritenendola inapplicabile ove invece l’annullamento del medesimo venga pronunciato per l’acclarata sussistenza di un vizio sostanziale (Cons. di Stato sez. VI, 11.02.2013, n. 753; Cons. di Stato, Sez. V, 22.05.2006, n. 2960; Cons. di Stato sez. V, 26.05.2003, n. 2849; Cons. di Stato sez. V, 12.10.2001, n. 5407; TAR Toscana 27.08.2012, n. 1479).
Ebbene, nel caso di specie è ben evidente che l’annullamento del permesso di costruire n. 7204/2004 del 13.10.2004 è avvenuto non per mere ragioni procedurali, bensì per l’accertata sussistenza di illegittimità sostanziali in riferimento alla vigente normativa urbanistico-edilizia del Comune di Marcianise, posto che nella sentenza n. 1149/2000 di questo TAR (che tale annullamento ha disposto in sede giurisdizionale) si legge, tra l’altro:
- che “risulta in primo luogo evidente…l’incremento volumetrico che il permesso di costruire impugnato ha determinato in un’area dove la strumentazione urbanistica vigente (variante al PRG approvata in via definitiva con decreto del Presidente della Giunta Provinciale di Caserta n. 1371 del 10.09.1996) non consente alcun aumento di volume ma solo interveti di sostituzione edilizia a parità di volumi e interventi di ristrutturazione edilizia”;
- che “il contestato aumento volumetrico non può essere giustificato dalla affermata realizzazione di volumi tecnici”, in quanto “i locali chiusi ad uso lavanderia realizzati dai controinteressati su due livelli dell’immobile di loro proprietà non hanno le caratteristiche, per tipologia e dimensioni, per essere definiti locali tecnici con la conseguenza che già per tale profilo il provvedimento impugnato risulta sicuramente illegittimo”;
- che “così come il locale deposito realizzato con l’innalzamento del tetto non può essere considerato per dimensioni, caratteristiche e destinazione, chiaramente desumibili dalla documentazione grafica in atti, come volume tecnico e quindi non poteva non essere considerato ai fini del calcolo della volumetria complessiva dell’edificio”;
- che “anche la prevista realizzazione del porticato non risulta legittima”, poiché la “funzione di protezione degli accessi all’edificio (o a parte di esso) dagli agenti atmosferici, ovvero di temporaneo deposito di cose e stazionamento dei residenti…sembra mancare del tutto nel porticato previsto nel permesso di costruire impugnato in quanto chiaramente finalizzato ad essere inglobato nella struttura dell’immobile oggetto della ristrutturazione, si deve ritenere che lo stesso non potesse essere assentito senza considerare il relativo volume ai fini del computo del volume complessivo del fabbricato”;
- che “anche la censura sulla violazione della normativa sulle distanze risulta fondata”;
- che deve ritenersi “illegittimo il permesso impugnato anche nella parte in cui ha consentito la realizzazione di opere in ampliamento della preesistente struttura che non possono ritenersi in aderenza al manufatto dei ricorrenti, con la conseguente violazione della normativa sulle distanze”;
- che “risulta poi fondata anche la censura sulla violazione della normativa antisismica”.
Così stando le cose, allora l’ordine di demolizione delle opere edificate in virtù dell’annullato permesso di costruire non può che dirsi del tutto corretto e sufficientemente motivato mediante il richiamo alla sentenza n. 1149/2006 di questo TAR; tanto più che i controinteressati hanno anche fornito ampia dimostrazione, a mezzo di una consulenza tecnica di parte giurata, a firma dell’ingegnere Michele Spirito, non solo che le opere in questione possono ben essere demolite senza che la restante parte dell’edificio degli attuali ricorrenti ne abbia pregiudizio, ma anche che l’eventuale permanere di esse potrebbe risultare –in caso di sisma– estremamente pernicioso per le contigue fabbriche di loro proprietà (poiché suscettibili di essere sottoposte a sollecitazioni da “martellamento”).
Né i ricorrenti Di Carluccio hanno contestato in alcun modo le conclusioni del tecnico di controparte, essendosi limitati a paventare in modo del tutto generico, e con mere affermazioni (fatte dapprima in ricorso, e poi ribadite nella memoria depositata in data 08.03.2014), la possibilità di un pregiudizio per la loro proprietà, suscettibile di derivare dall’ordinata demolizione (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 02.07.2014 n. 3617 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto non è configurabile alcun affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che non può di norma essere sanata dal mero trascorrere del tempo.
Nella specie, peraltro, giova ribadire che la misura sanzionatoria è atto dovuto in quanto consequenziale alla reiezione delle domande di condono.
Pertanto, per l’adozione dell’ordine di demolizione è sufficiente la mera enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto rilevanti ai fini della individuazione della fattispecie di illecito e dell’applicazione della corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge.
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In base all’art. 31, co. 3, del d.P.R. 380 del 2001, l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime è un effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di demolizione. Pertanto la specificazione dell’area di sedime non può essere considerata come elemento essenziale dell’ordine di demolizione ai fini della legittimità dell’atto.
L’indicazione di cui alla fine del comma 2 dell’articolo citato è piuttosto richiesta in vista dell’acquisizione, in ampliamento all’area strettamente di sedime del manufatto abusivo, dell’ulteriore (eventuale) area "necessaria … alla realizzazione di opere analoghe...", secondo le prescrizioni della restante parte del comma 3.
Il termine per la conclusione del procedimento relativo all’emanazione del provvedimento repressivo non è a carattere perentorio e non determina quindi la decadenza dal potere-dovere dell’autorità amministrativa di provvedere in merito.

I provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di margini discrezionali, per cui è da escludere la necessità di una specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, in quanto non è configurabile alcun affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che non può di norma essere sanata dal mero trascorrere del tempo (cfr. Cons. St., sez. IV, 29/04/2014, n. 2228).
Nella specie, peraltro, giova ribadire che la misura sanzionatoria è atto dovuto in quanto consequenziale alla reiezione delle domande di condono (cfr. Cons. St., sez. IV, 10/12/2007, n. 6344).
Pertanto, per l’adozione dell’ordine di demolizione è sufficiente la mera enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto rilevanti ai fini della individuazione della fattispecie di illecito e dell’applicazione della corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge.
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In base all’art. 31, co. 3, del d.P.R. 380 del 2001, l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime è un effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di demolizione. Pertanto la specificazione dell’area di sedime non può essere considerata come elemento essenziale dell’ordine di demolizione ai fini della legittimità dell’atto (cfr. Cons. St., sez. VI, 13/02/2013, n. 894).
L’indicazione di cui alla fine del comma 2 dell’articolo citato è piuttosto richiesta in vista dell’acquisizione, in ampliamento all’area strettamente di sedime del manufatto abusivo, dell’ulteriore (eventuale) area "necessaria … alla realizzazione di opere analoghe...", secondo le prescrizioni della restante parte del comma 3.
Il termine per la conclusione del procedimento relativo all’emanazione del provvedimento repressivo non è a carattere perentorio e non determina quindi la decadenza dal potere-dovere dell’autorità amministrativa di provvedere in merito (cfr. Cons. St., sez. V, 15/11/2012, n. 5773)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 02.07.2014 n. 3614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'adozione del provvedimento di annullamento d'ufficio presuppone, unitamente al riscontro dell'originaria illegittimità dell'atto, la valutazione della rispondenza della sua rimozione a un interesse pubblico non solo attuale e concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi, in particolare, rispetto all'interesse del privato che ha riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell'atto medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco temporale.
Di qui la necessità che l'amministrazione espliciti in sede motivazionale la compiuta valutazione comparativa tra interessi confliggenti; impegno motivazionale tanto più intenso, quanto maggiore sia l'arco temporale trascorso dall'adozione dell'atto da annullare e solido appaia, pertanto, l'affidamento ingenerato nel privato.
Ed infatti, costituisce ormai “ius receptum” che "il provvedimento di annullamento di ufficio di una concessione edilizia, quale atto discrezionale, deve essere adeguatamente motivato in ordine all'esistenza dell'interesse pubblico, specifico e concreto, che giustifica il ricorso all'autotutela anche in ordine alla prevalenza del predetto interesse pubblico su quello antagonista del privato".
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Anche nell'ipotesi di annullamento di una concessione edilizia va quindi riconosciuta piena operatività ai principi generali che condizionano il legittimo esercizio del potere di autotutela. Potere che è espressione della discrezionalità dell'amministrazione e che, nell'adozione di un provvedimento espresso, postula la valutazione di elementi ulteriori rispetto al mero ripristino della legalità violata. In omaggio all'orientamento tradizionale che trova il suo fondamento nei valori di rango costituzionale di buon andamento e dell'imparzialità dell'azione amministrativa, è, infatti, doveroso rimettere la verifica di legittimità dell'atto di autotutela ad un apprezzamento concreto, condotto sulla base dell'effettiva e specifica situazione creatasi a seguito del rilascio dell'atto autorizzativo.
Siffatto approdo giurisprudenziale rinviene un espresso aggancio normativo nell'art. 21-nonies, comma 1, della l. n. 241/1990, in base al quale "il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge".
Nell’interpretazione della predetta normativa la giurisprudenza ha sistematicamente rimarcato, quanto al metro di valutazione del tempo, che il termine entro cui l’amministrazione può intervenire per rimuovere legittimamente una situazione di illegittimità originaria o derivata deve essere valutato secondo un criterio di “ragionevolezza”, nel senso che la valutazione tipicamente discrezionale dell'atto di autotutela deve essere espressione di una congrua valutazione comparativa degli interessi in conflitto, da effettuare entro un lasso di tempo ragionevole e da riportare nel corredo motivazionale.
Per quanto concerne l’annullamento delle concessioni edilizie la ragionevolezza del termine in argomento deve essere altresì rapportata a quanto prescritto dall'articolo 39 del d.p.r. n. 380/2001 che, nel disciplinare il potere regionale di annullamento dei provvedimenti comunali che autorizzano interventi edilizi, fissa in dieci anni dalla loro adozione il termine massimo entro cui la potestà può essere esercitata.
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A fronte del considerevole lasso di tempo decorso dal rilascio dei titoli abilitativi edilizi annullati d'ufficio (oltre 10 anni), il canone di ragionevolezza del termine massimo per l'esercizio del potere di autotutela (cfr. art. 21-nonies, comma 1, della l. n. 241/1990) deve suggerire una scelta più attenta e rispettosa verso la consolidata posizione di affidamento ingenerato nel privato ricorrente circa la legittimità dell’atto di concessione rilasciatogli.

... per l'annullamento dell’ordinanza UTC del 29.12.2008 recante annullamento della concessione edilizia n. 8 del 16.01.1989 per la realizzazione di un edificio costituito da un piano terra ed un primo piano
...
Il ricorso è fondato e merita accoglimento nella parte in cui censura la motivazione dell’annullamento in quanto priva di qualsivoglia valutazione comparativa fra l’interesse pubblico alla rimozione della concessione edilizia rivelatasi illegittima e l’interesse del destinatario dell’atto al mantenimento in vita del titolo, specie tenuto conto del lungo tempo decorso a far data dal suo rilascio superiore a diciotto anni.
Nella materia de qua questo Collegio ha già avuto modo di rilevare (cfr. sent. Sez. VIII 4976/2013 in precedente analogo contro il medesimo Comune intimato) che l'adozione del provvedimento di annullamento d'ufficio presuppone, unitamente al riscontro dell'originaria illegittimità dell'atto, la valutazione della rispondenza della sua rimozione a un interesse pubblico non solo attuale e concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi, in particolare, rispetto all'interesse del privato che ha riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell'atto medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco temporale.
Di qui la necessità che l'amministrazione espliciti in sede motivazionale la compiuta valutazione comparativa tra interessi confliggenti; impegno motivazionale tanto più intenso, quanto maggiore sia l'arco temporale trascorso dall'adozione dell'atto da annullare e solido appaia, pertanto, l'affidamento ingenerato nel privato. Ed infatti, costituisce ormai “ius receptum” che "il provvedimento di annullamento di ufficio di una concessione edilizia, quale atto discrezionale, deve essere adeguatamente motivato in ordine all'esistenza dell'interesse pubblico, specifico e concreto, che giustifica il ricorso all'autotutela anche in ordine alla prevalenza del predetto interesse pubblico su quello antagonista del privato" (Cons. Stato, sez. V, 12.11.2003, n. 7218; sez. IV, 31.10.2006, n. 6465; TAR Campania, Napoli, sez. VII, 22.06.2007, n. 6238; sez. III, 11.09.2007, n. 7483; sez. VIII, 30.07.2008, n. 9586; 01.10.2008, n. 12321; 07.12.2009, n. 8597; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 19.01.2007, n. 170; sez. II, 08.06.2007, n. 1652; TAR Liguria, sez. I, 11.12.2007, n. 2050; TAR Basilicata, sez. I, 19.01.2008, n. 15).
Anche nell'ipotesi di annullamento di una concessione edilizia va quindi riconosciuta piena operatività ai principi generali che condizionano il legittimo esercizio del potere di autotutela. Potere che è espressione della discrezionalità dell'amministrazione e che, nell'adozione di un provvedimento espresso, postula la valutazione di elementi ulteriori rispetto al mero ripristino della legalità violata. In omaggio all'orientamento tradizionale che trova il suo fondamento nei valori di rango costituzionale di buon andamento e dell'imparzialità dell'azione amministrativa, è, infatti, doveroso rimettere la verifica di legittimità dell'atto di autotutela ad un apprezzamento concreto, condotto sulla base dell'effettiva e specifica situazione creatasi a seguito del rilascio dell'atto autorizzativo.
Siffatto approdo giurisprudenziale rinviene un espresso aggancio normativo nell'art. 21-nonies, comma 1, della l. n. 241/1990, in base al quale "il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge".
Nell’interpretazione della predetta normativa la giurisprudenza ha sistematicamente rimarcato, quanto al metro di valutazione del tempo, che il termine entro cui l’amministrazione può intervenire per rimuovere legittimamente una situazione di illegittimità originaria o derivata deve essere valutato secondo un criterio di “ragionevolezza”, nel senso che la valutazione tipicamente discrezionale dell'atto di autotutela deve essere espressione di una congrua valutazione comparativa degli interessi in conflitto, da effettuare entro un lasso di tempo ragionevole e da riportare nel corredo motivazionale.
Per quanto concerne l’annullamento delle concessioni edilizie la ragionevolezza del termine in argomento deve essere altresì rapportata a quanto prescritto dall'articolo 39 del d.p.r. n. 380/2001 che, nel disciplinare il potere regionale di annullamento dei provvedimenti comunali che autorizzano interventi edilizi, fissa in dieci anni dalla loro adozione il termine massimo entro cui la potestà può essere esercitata (cfr. Cons. St sez. IV 03.08.2010 n. 5170).
Applicando tali principi al caso in esame, il Collegio rileva che un provvedimento in autotutela adottato ad oltre 10 anni dall'emissione della concessione edilizia con esso annullata sarebbe stato giustificabile solo se adeguatamente motivato in ordine all'interesse pubblico specifico, concreto e attuale, al divisato annullamento d'ufficio, agli eventuali contrasti dei titoli abilitativi in parola con gli interessi urbanistici della zona, nonché in rapporto all'affidamento nella conservazione del medesimo titolo abilitativo, consolidatosi nell'arco temporale trascorso tra il suo rilascio e la relativa rimozione.
Nella specie, nessuna ponderazione tra interesse pubblico e privato risulta, in sostanza, effettuata ed esplicitata dall'amministrazione resistente, la quale si è limitata a rilevare la violazione della fascia di rispetto autostradale sancita in 25 metri all’epoca del rilascio della concessione edilizia ai sensi dell’art. 8 della legge n. 729/1961.
Viceversa, a fronte del considerevole lasso di tempo decorso dal rilascio dei titoli abilitativi edilizi annullati d'ufficio (oltre 10 anni), il canone di ragionevolezza del termine massimo per l'esercizio del potere di autotutela (cfr. art. 21-nonies, comma 1, della l. n. 241/1990) avrebbe dovuto suggerire -come detto- una scelta più attenta e rispettosa verso la consolidata posizione di affidamento ingenerato nel privato ricorrente circa la legittimità dell’atto di concessione rilasciatogli (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 02.10.2007, n. 5074).
Una siffatta comparazione non risulta ricavabile “aliunde” nemmeno sulla base della riscontrata analogia con l’immobile costituente oggetto della decisione del Consiglio di Stato sez. IV n. 4719/1008 posta a base dell’annullamento impugnato che ha qualificato il vincolo come di natura assoluta.
A ben vedere nel giudizio svoltosi innanzi al Consiglio di Stato si discuteva della legittimità di un diniego di condono opposto dal Comune intimato rispetto ad un immobile edificato in assenza di concessione edilizia nella stessa fascia di rispetto autostradale. Rispetto al provvedimento di diniego di condono non poteva pertanto porsi alcuna problematica di affidamento da parte del destinatario dell’atto sulla legittimità della costruzione eseguita che, nella specie, invece, è radicata dall’intervenuta emissione del titolo da parte del Comune e dal lungo lasso di tempo decorso a far data dal suo rilascio. Deve quindi escludersi la prospettata identità di fattispecie sulla cui base il Comune si sarebbe ritenuto esonerato dall’obbligo di sostenere il provvedimento con una motivazione rafforzata nei termini sopra ampiamente esposti.
Esclusa quindi l’identità del caso in oggetto con la fattispecie venuta all’esame del Consiglio di Stato, non può sostenersi che il Comune fosse onerato a disporre l’annullamento dei titoli illegittimi rilasciati, senza tuttavia procedere alla dovuta comparazione con le posizioni soggettive consolidate dei titolari solo per effetto dell’ordinanza istruttoria con cui il Consiglio di Stato aveva chiesto, nel predetto giudizio, al Comune intimato di produrre una relazione di chiarimenti per verificare quali e quante altre unità immobiliari erano state realizzate all’interno della zona soggetta ad inedificabilità assoluta e quali e quanti provvedimenti erano stati adottati dall’amministrazione comunale nei confronti delle situazioni di riscontrata violazione della normativa urbanistica ed edilizia della zona in questione.
Se tale provvedimento di natura istruttoria poteva legittimamente costituire sollecitazione all’esercizio del potere di vigilanza sul rispetto delle prescrizioni urbanistiche di zona, ciò non esimeva tuttavia il Comune dall’osservanza, nel procedimento di autotutela instaurato, dalle prerogative e garanzie previste dalla legge a protezione delle posizioni soggettive di affidamento medio tempore create. Né, per le stesse ragioni, una siffatta valutazione poteva ritenersi in certo modo assorbita dalla constatazione della illegittimità “in re ipsa” della concessione edilizia per effetto del sopravvenuto accertamento giurisdizionale della natura assoluta del vincolo di rispetto autostradale.
In conclusione il ricorso merita accoglimento con conseguente annullamento dei provvedimenti medesimi impugnati (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 02.07.2014 n. 3608 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl silenzio che si forma sulle istanze di permesso di costruire ex art. 20, d.P.R. n. 380 del 2001 –nella formulazione vigente all’epoca dei fatti oggetto del presente giudizio- costituisce un’ipotesi di silenzio-inadempimento, impugnabile ai sensi dell'art. 21-bis l. n. 1034 del 1971 (oggi art. 31 cod. proc. amm.), e non di silenzio–rigetto.
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La lettera dell'art. 20 d.P.R. n. 380/2001, invero, qualifica espressamente il silenzio che si forma sull'istanza di rilascio del permesso di costruire come silenzio-rifiuto; inoltre, la previsione di cui al successivo articolo 21 (e così pure quella di cui all’art. 39, l. Regione Lombardia n. 12/2005) di un intervento sostitutivo regionale, finalizzato a rimediare all'inerzia del Comune, non può leggersi che come rimedio ad un'inerzia non qualificata: la possibilità di un intervento sostitutivo, una volta decorso il termine in questione, è incompatibile con l'esistenza di un provvedimento sia pure implicito mentre è giustificata se il silenzio ha il valore di omissione.

Per la giurisprudenza maggioritaria, anche di questo Tribunale, il silenzio che si forma sulle istanze di permesso di costruire ex art. 20, d.P.R. n. 380 del 2001 –nella formulazione vigente all’epoca dei fatti oggetto del presente giudizio- costituisce un’ipotesi di silenzio-inadempimento, impugnabile ai sensi dell'art. 21-bis l. n. 1034 del 1971 (oggi art. 31 cod. proc. amm.), e non di silenzio–rigetto.
La lettera dell'art. 20 d.P.R. n. 380/2001, invero, qualifica espressamente il silenzio che si forma sull'istanza di rilascio del permesso di costruire come silenzio-rifiuto; inoltre, la previsione di cui al successivo articolo 21 (e così pure quella di cui all’art. 39, l. Regione Lombardia n. 12/2005) di un intervento sostitutivo regionale, finalizzato a rimediare all'inerzia del Comune, non può leggersi che come rimedio ad un'inerzia non qualificata: la possibilità di un intervento sostitutivo, una volta decorso il termine in questione, è incompatibile con l'esistenza di un provvedimento sia pure implicito mentre è giustificata se il silenzio ha il valore di omissione (Tar Lombardia, Milano, sent. n. 3781/2009; Tar Abruzzo, Pescara, sez. I, 06.11.2008 , n. 889; Tar Veneto, sez. II, 17.04.2008 , n. 999; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 07.11.2008 , n. 3223) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.07.2014 n. 1718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALa giurisprudenza ha da tempo chiarito che ai fini del corretto esercizio del potere sindacale d’ordinanza contingibile ed urgente non è necessario che la situazione pregiudizievole si sia verificata in epoca prossima all’adozione dell’atto, atteso che il requisito d’urgenza è riferito al pericolo in sé e non al fatto generatore del rischio, con conseguente legittimità dell’ordinanza emessa in relazione ad una situazione di pericolo già in atto da tempo.
Con particolare riferimento poi alle emissioni sonore la giurisprudenza ha chiarito che “il Sindaco può adottare i provvedimenti che ritenga più opportuni in materia di tutela dall'inquinamento acustico. Infatti quando vi siano urgenti necessità di tutela della salute pubblica, lo stesso può ordinare di contenere o addirittura eliminare le fonti delle emissioni sonore”.
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In merito al contemporaneo svolgimento della conferenza dei servizi per il rinnovo dell’autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti, occorre rilevare che non solo al momento dell’adozione dell’atto impugnato la conferenza dei servizi aveva espresso parere negativo proprio con riferimento ai profili acustici, ma anche che tale conferenza non è deputata ad assumere le decisioni in materia di impatto acustico, in quanto la giurisprudenza ha precisato che ai fini dell’adozione della misura repressiva delle violazioni della disciplina sull’inquinamento acustico, i Comuni debbano utilizzare lo specifico strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente.
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In merito al contenuto dei provvedimenti contingibili ed urgenti la giurisprudenza ha chiarito che “in ogni caso deve affermarsi che l'ordine impartito deve rispettare il generalissimo principio di proporzionalità, che fa obbligo ad ogni autorità amministrativa di prescegliere nell'esercizio dei propri poteri il mezzo meno gravoso a carico dei soggetti incisi”.

... per l'annullamento dell'ordinanza 01.12.2007 n. 9 con cui il Sindaco del Comune di Verderio Inferiore ha imposto alla ricorrente, con decorrenza dal trentesimo giorno dalla notifica, di interrompere la lavorazione nel periodo notturno ... e di presentare, nel medesimo termine, un piano di bonifica acustico con l'avvertenza che la presentazione del sopra citato piano di bonifica rappresenta la condizione per proseguire la lavorazione diurna; oltre che di ogni altro atto o provvedimento alla stessa preordinato, conseguente o comunque connesso, ivi espressamente inclusi, la comunicazione di avvio di procedimento 18.10.2007 n. 1286 ed il provvedimento sindacale 24.12.2007 n. 8567 di proroga dei termini di cui all'ordinanza 10.12.2007 n. 9 fissandoli rispettivamente al 01.02.2008 per quanto riguarda l'interruzione delle lavorazioni nel periodo notturno e al 31.01.2008 per quanto riguarda la presentazione del piano di bonifica acustica quale condizione per la prosecuzione delle lavorazioni in periodo diurno.
...
Il primo motivo di ricorso è infondato in quanto la giurisprudenza ha da tempo chiarito che ai fini del corretto esercizio del potere sindacale d’ordinanza contingibile ed urgente non è necessario che la situazione pregiudizievole si sia verificata in epoca prossima all’adozione dell’atto, atteso che il requisito d’urgenza è riferito al pericolo in sé e non al fatto generatore del rischio, con conseguente legittimità dell’ordinanza emessa in relazione ad una situazione di pericolo già in atto da tempo.
Con particolare riferimento poi alle emissioni sonore la giurisprudenza ha chiarito che “il Sindaco può adottare i provvedimenti che ritenga più opportuni in materia di tutela dall'inquinamento acustico. Infatti quando vi siano urgenti necessità di tutela della salute pubblica, lo stesso può ordinare di contenere o addirittura eliminare le fonti delle emissioni sonore” (Tar Lazio, sez. II, 26.06.2002, n. 5904).
In merito poi al contemporaneo svolgimento della conferenza dei servizi per il rinnovo dell’autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti, occorre rilevare che non solo al momento dell’adozione dell’atto impugnato la conferenza dei servizi aveva espresso parere negativo proprio con riferimento ai profili acustici, ma anche che tale conferenza non è deputata ad assumere le decisioni in materia di impatto acustico, in quanto la giurisprudenza ha precisato che ai fini dell’adozione della misura repressiva delle violazioni della disciplina sull’inquinamento acustico, i Comuni debbano utilizzare lo specifico strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente (TAR Lombardia –MI- sez. IV, 21/09/2011 n. 2253; TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 22.04.2013 n. 302).
In merito al contenuto dei provvedimenti contingibili ed urgenti la giurisprudenza ha chiarito che “in ogni caso deve affermarsi che l'ordine impartito deve rispettare il generalissimo principio di proporzionalità, che fa obbligo ad ogni autorità amministrativa di prescegliere nell'esercizio dei propri poteri il mezzo meno gravoso a carico dei soggetti incisi” (Tar Lombardia, Brescia, Decreto presidenziale 18.01.2002, n. 41).
Nel caso in questione tale principio è stato rispettato in quanto non solo l’amministrazione ha individuato le misure idonee all’eliminazione dell’inquinamento acustico, che la ricorrente non ha inteso eseguire, ma ha anche individuato, nell’ambito dell’attività svolta dalla ricorrente, quella parte dell’attività, la produzione del pellet, che è fonte dei rumori molesti notturni, soddisfacendo così sia l’interesse dell’azienda di non subire danni generalizzati dall’ordine dell’amministrazione, sia l’interesse dei cittadini residenti nelle vicinanze a godere di un ambiente salubre anche dal punto di vista sonoro.
Venendo all’ultimo motivo di ricorso esso è infondato sia nella parte in cui denuncia un profilo di illegittimità derivata, sia nella parte in cui denuncia l’esistenza di vizi propri.
Sotto il primo punto di vista la legittimità degli atti assunti a monte esclude l’ipotesi dell’invalidità derivata. Per quanto attiene poi al profilo dei rapporti con le competenze della Provincia si ribadisce che la tutela contro i rumori spetta al Comune e non alla Provincia, così come indicato al numero precedente.
Infine il termine di 30 giorni di proroga per l’adozione delle decisioni richieste non si presenta sproporzionato in quanto si tratta di una situazione da lungo tempo ormai esistente e ben a conoscenza della ricorrente, la quale avrebbe dovuto attivarsi ben prima dell’adozione dell’atto impugnato. Ne consegue che non si rileva alcuna compressione irragionevole dei tempi per la redazione del piano di bonifica acustica.
In definitiva quindi il ricorso va respinto (TAR Lombardia-MIlano, Sez. IV, sentenza 02.07.2014 n. 1708 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAVenendo al concetto di edificio unifamiliare che, ai sensi dell’art. 9 della L. 10/1977 è esente dal pagamento del contributo concessorio tra l’altro “per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20 per cento” occorre rilevare che, secondo la giurisprudenza, la disposizione è diretta a promuovere le opere di adeguamento dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare, circoscrivendone l’operatività agli interventi che non mutino sostanzialmente l’entità strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico.
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Per quanto riguarda l’individuazione dei caratteri dell’edificio unifamiliare occorre rilevare che, secondo un primo un orientamento “per edifici "unifamiliari" in mancanza di ulteriori specificazioni, sono da intendere quelli strutturalmente destinati all'uso "abitativo" di un "solo" nucleo familiare, indipendentemente dalle dimensioni dell’edificio stesso”; altra giurisprudenza ha affermato che, ai fini dell’applicazione dell’art. 9, lett. d) cit., è legittimo individuare e circoscrivere il contenuto della nozione di “edifici unifamiliari”, ricorrendo a criteri estratti da altri complessi normativi, con l’unico limite di non stravolgere la portata della disciplina da applicare.
In merito la giurisprudenza ha evidenziato che le fattispecie di esonero dal pagamento del contributo concessorio, inclusa quella ex art. 9, lett. d), cit., sono di stretta interpretazione e che la ratio che ispira l’esenzione di cui alla lettera d), art. 9 l. 10/1977 è di derivazione sociale in quanto l’edificio unifamiliare nell’accezione socio economica assunta dalla norma coincide con la piccola proprietà immobiliare e soltanto se presenti tali caratteri tale è meritevole di un trattamento differenziato per le opere di adeguamento alle necessità abitative del nucleo familiare.
Insomma, la disposizione contenuta nell’art. 9 cit. è norma eccezionale, la cui portata in applicazione del principio costituzionale di ragionevolezza deve essere circoscritta entro parametri idonei a garantire le finalità della previsione di favore.
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Deve concludersi che non solo è legittimo individuare e circoscrivere il contenuto della nozione di “edifici unifamiliari”, ma deve anche ritenersi non manifestamente illogico o irrazionale il criterio fatto proprio dal Comune, il quale, al punto A.5 della deliberazione C.C. n. 225/1978 ha definito "edificio unifamiliare", non soggetto al pagamento del contributo concessorio, la "costruzione residenziale per uso proprio consistente in una unità abitativa abitata con continuità", e "unità abitativa" "un alloggio che abbia ... una superficie utile non superiore a 110 mq'', con l’ulteriore previsione che "le limitazioni di cui ai bagni ed alla superficie utile possono essere superate" nel "caso in cui venga dimostrato che nell'alloggio la superficie utile per abitante non è superiore a 20 mq. ...".

Passando all’esame del motivo del ricorso principale relativo alla debenza o meno dei contributi concessori, ripreso anche nel ricorso per motivi aggiunti occorre evidenziare, in via di fatto, che l’unità immobiliare in questione è composta da tre piani e che con il presente intervento il ricorrente intendeva rendere abitabile e dotare di diretto accesso al giardino il piano seminterrato.
Venendo ora al concetto di edificio unifamiliare che, ai sensi dell’art. 9 della L. 10/1977 è esente dal pagamento del contributo concessorio tra l’altro “per gli interventi di restauro, di risanamento conservativo, di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20 per cento” occorre rilevare che, secondo la giurisprudenza (TAR Marche, sentenza 31/01/2007 n. 8), la disposizione è diretta a promuovere le opere di adeguamento dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo familiare, circoscrivendone l’operatività agli interventi che non mutino sostanzialmente l’entità strutturale e la dimensione spaziale dell’immobile e non ne elevino (in modo apprezzabile) il valore economico.
Per quanto riguarda l’individuazione dei caratteri dell’edificio unifamiliare occorre rilevare che, secondo un primo un orientamentoper edifici "unifamiliari" in mancanza di ulteriori specificazioni, sono da intendere quelli strutturalmente destinati all'uso "abitativo" di un "solo" nucleo familiare, indipendentemente dalle dimensioni dell’edificio stesso” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 10.08.2012 n. 1446); altra giurisprudenza ha affermato che, ai fini dell’applicazione dell’art. 9, lett. d) cit., è legittimo individuare e circoscrivere il contenuto della nozione di “edifici unifamiliari”, ricorrendo a criteri estratti da altri complessi normativi, con l’unico limite di non stravolgere la portata della disciplina da applicare (così C.d.S., Sez. II, parere n. 1402 del 24.10.1984; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.04.2006 n. 1062).
In merito la giurisprudenza ha evidenziato che le fattispecie di esonero dal pagamento del contributo concessorio, inclusa quella ex art. 9, lett. d), cit., sono di stretta interpretazione e che la ratio che ispira l’esenzione di cui alla lettera d), art. 9 l. 10/1977 è di derivazione sociale in quanto l’edificio unifamiliare nell’accezione socio economica assunta dalla norma coincide con la piccola proprietà immobiliare e soltanto se presenti tali caratteri tale è meritevole di un trattamento differenziato per le opere di adeguamento alle necessità abitative del nucleo familiare (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 13.03.2008 n. 604).
Insomma, la disposizione contenuta nell’art. 9 cit. è norma eccezionale, la cui portata in applicazione del principio costituzionale di ragionevolezza deve essere circoscritta entro parametri idonei a garantire le finalità della previsione di favore.
Alla luce di tali considerazioni deve concludersi che non solo è legittimo individuare e circoscrivere il contenuto della nozione di “edifici unifamiliari”, ma deve anche ritenersi non manifestamente illogico o irrazionale il criterio fatto proprio dal Comune di Nerviano, il quale, al punto A.5 della deliberazione C.C. n. 225/1978 ha definito "edificio unifamiliare", non soggetto al pagamento del contributo concessorio, la "costruzione residenziale per uso proprio consistente in una unità abitativa abitata con continuità", e "unità abitativa" "un alloggio che abbia ... una superficie utile non superiore a 110 mq'', con l’ulteriore previsione che "le limitazioni di cui ai bagni ed alla superficie utile possono essere superate" nel "caso in cui venga dimostrato che nell'alloggio la superficie utile per abitante non è superiore a 20 mq. ...".
Venendo al caso in decisione, non avendo il ricorrente provato né che l’acquisizione dell’abitabilità del piano seminterrato della casa, che si aggiunge agli altri due, fosse strumentale alle esigenze del suo nucleo familiare, né l’irrazionalità del criterio adottato dal Comune, deve concludersi per l’onerosità della d.i.a. suddetta, in quanto relativa ad immobile avente superficie notevolmente superiore a quella massima consentita per l’esenzione dal contributo (TAR Lombardia-MIlano, Sez. IV, sentenza 02.07.2014 n. 1707 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALIIl nuovo sistema del riparto di competenze tra Giunta e Consiglio comunale, previsto dagli artt. 42 e ss. del t.u. 18.08.2000 n. 267, è retto dal principio secondo cui l'organo elettivo (Consiglio comunale) è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilevo generale, che si traducono in «atti fondamentali» tassativamente elencati all'art. 32 della l. 08.06.1990 n. 142, poi trasfuso nell'art. 42 del t.u. approvato con d.lgs. 18.08.2000 n. 267, mentre la Giunta Municipale «compie gli atti di amministrazione che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non rientrino nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del sindaco, degli organi di decentramento, del segretario o dei funzionari dirigenti».
In tale contesto, il ruolo del Consiglio comunale va ragionevolmente riferito alle sole determinazioni che comportano un'effettiva incidenza sulle scelte fondamentali dell'ente, mentre la Giunta resta investita del compito di attuare gli indirizzi formulati dall'organo elettivo, eventualmente anche svolgendo attività pur sempre con finalità esecutive, ma che implichino una valutazione di natura in qualche misura politico-amministrativa e, come tale, non spettante alla competenza della dirigenza.

La giurisprudenza ha chiarito che il nuovo sistema del riparto di competenze tra Giunta e Consiglio comunale, previsto dagli artt. 42 e ss. del t.u. 18.08.2000 n. 267, è retto dal principio secondo cui l'organo elettivo (Consiglio comunale) è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilevo generale, che si traducono in «atti fondamentali» tassativamente elencati all'art. 32 della l. 08.06.1990 n. 142, poi trasfuso nell'art. 42 del t.u. approvato con d.lgs. 18.08.2000 n. 267, mentre la Giunta Municipale «compie gli atti di amministrazione che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non rientrino nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del sindaco, degli organi di decentramento, del segretario o dei funzionari dirigenti».
In tale contesto, il ruolo del Consiglio comunale va ragionevolmente riferito alle sole determinazioni che comportano un'effettiva incidenza sulle scelte fondamentali dell'ente, mentre la Giunta resta investita del compito di attuare gli indirizzi formulati dall'organo elettivo, eventualmente anche svolgendo attività pur sempre con finalità esecutive, ma che implichino una valutazione di natura in qualche misura politico-amministrativa e, come tale, non spettante alla competenza della dirigenza (Cons. Stato, sez. V, 09.12.2002 n. 6764).
Nel caso in questione, una volta che la giunta comunale, con deliberazione n. 241 del 09.10.2007, aveva approvato il progetto per l’ampliamento del parcheggio, ogni altra determinazione in merito rientrava nella competenza dei dirigenti, trattandosi di atti esecutivi di decisioni già adottate dal livello politico dell’amministrazione (TAR Lombardia-MIlano, Sez. IV, sentenza 02.07.2014 n. 1706 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Sull'ordinanza contingibile ed urgente del Sindaco.
Il Collegio fa proprio quanto già accertato dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 4773/2013, il quale ha evidenziato che “non ha pregio …. l’asserita carenza di urgenza dell’intervento in una situazione stazionaria da un decennio, in cui le ordinanze del 1995 e del 1996 non avrebbero avuto seguito per anni, attesa l’urgenza già evidenziata di processi corrosivi in atto dei fusti sepolti, diversificati a secondo dell’area di interramento e della aggressività delle sostanze presenti nel suolo (anche la perizia penale rilevava fenomeni corrosivi collocabili a partire dall’anno 1994 in piena evoluzione peggiorativa), sicché perdurando invariata la situazione non avrebbe potuto che aggravarsi, portando alla dispersione del materiale inquinante nell’ambiente”.
La permanenza della situazione di urgenza e di pericolo, così come accertata sia in sede penale che in sede giurisdizionale amministrativa, giustifica la reiterazione dell’esercizio del potere di ordinanza.
In merito poi alla durata del procedimento, la giurisprudenza ha chiarito, con riferimento alle ordinanza contingibili ed urgenti, che “l'intervento non deve avere necessariamente il carattere della provvisorietà, atteso che suo connotato essenziale è l'adeguatezza della misura a far fronte alla situazione determinata dall'evento straordinario. Il che chiaramente sta a indicare che nell'adozione di provvedimenti contingibili e urgenti non esiste, in astratto, un metro di valutazione fisso da seguire, ma la soluzione va individuata di volta in volta, secondo la natura del rischio da fronteggiare. Sono, infatti, le esigenze obiettive che si riscontrano nel caso concreto che determinano la «misura» dell'intervento, anche se la soluzione deve corrispondere alle finalità del momento, senza che possa assumere, cioè, i caratteri della continuità e della stabilità".

Venendo all’esame del secondo e del terzo motivo di ricorso, con il quale la ricorrente ha contestato i presupposti per l’esercizio del potere di proroga e la durata dei lavori, essi sono infondati.
In merito il Collegio fa proprio quanto già accertato dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 4773/2013, il quale ha evidenziato che “non ha pregio …. l’asserita carenza di urgenza dell’intervento in una situazione stazionaria da un decennio, in cui le ordinanze del 1995 e del 1996 non avrebbero avuto seguito per anni, attesa l’urgenza già evidenziata di processi corrosivi in atto dei fusti sepolti, diversificati a secondo dell’area di interramento e della aggressività delle sostanze presenti nel suolo (anche la perizia penale rilevava fenomeni corrosivi collocabili a partire dall’anno 1994 in piena evoluzione peggiorativa), sicché perdurando invariata la situazione non avrebbe potuto che aggravarsi, portando alla dispersione del materiale inquinante nell’ambiente”.
La permanenza della situazione di urgenza e di pericolo, così come accertata sia in sede penale che in sede giurisdizionale amministrativa, giustifica la reiterazione dell’esercizio del potere di ordinanza.
In merito poi alla durata del procedimento, la giurisprudenza ha chiarito, con riferimento alle ordinanza contingibili ed urgenti, che “l'intervento non deve avere necessariamente il carattere della provvisorietà, atteso che suo connotato essenziale è l'adeguatezza della misura a far fronte alla situazione determinata dall'evento straordinario. Il che chiaramente sta a indicare che nell'adozione di provvedimenti contingibili e urgenti non esiste, in astratto, un metro di valutazione fisso da seguire, ma la soluzione va individuata di volta in volta, secondo la natura del rischio da fronteggiare. Sono, infatti, le esigenze obiettive che si riscontrano nel caso concreto che determinano la «misura» dell'intervento, anche se la soluzione deve corrispondere alle finalità del momento, senza che possa assumere, cioè, i caratteri della continuità e della stabilità" (Cons. Stato, sez. V, n. 580 del 09.02.2001).
Nel caso in questione la durata degli interventi è proporzionata alle opere da eseguire, che consistono non solo nella rimozione dei rifiuti, come pretenderebbe la ricorrente, ma anche nell’eliminazione dell’inquinamento del terreno circostante. Infatti la sentenza del Consiglio di Stato (n. 4773/2013), che si è pronunciata sui presupposti per l’avvio del procedimento di bonifica, ha accertato, tra l’altro, che “I fusti, come risulta dalla relazione peritale depositata agli atti, erano sottoposti a un processo di corrosione differenziato da zona a zona in relazione alla mutevole composizione dei terreni, che avrebbe comportato la perforazione dei fusti e la conseguente dispersione nell’ambiente del materiale inquinante contenuto nei fusti. Vi era inoltre la presenza in loco di un’enorme quantità di polveri inquinanti contenenti metalli pesanti”. Risulta chiaro quindi che, a differenza di quanto affermato in modo apodittico dalla ricorrente, si tratta di un lavoro di grande complessità rispetto al quale la durata non pare sproporzionata
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. IV, sentenza 02.07.2014 n. 1705 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALIL’art. 14 del decreto Ronchi conferma la corretta individuazione nell’organo di vertice dell’amministrazione comunale quale soggetto competente ad adottare il provvedimento impugnato (ordinanza di rimozione rifiuti).
Tale competenza sussiste anche ai sensi dell’art. 217 del R.D. 1265/1934 a norma del quale “quando vapori, gas o altre esalazioni, scoli di acque, rifiuti solidi o liquidi provenienti da manifatture o fabbriche, possono riuscire di pericolo o di danno per la salute pubblica, il sindaco prescrive le norme da applicare per prevenire o impedire il danno e il pericolo e si assicura della loro esecuzione ed efficienza. Nel caso di inadempimento il sindaco può provvedere di ufficio nei modi e termini stabiliti nel testo unico della legge comunale e provinciale”.

Il quarto motivo di ricorso, che denuncia l’incompetenza del Sindaco ad emanare le ordinanze in questione, è infondato in quanto, come chiarito dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 4773/2013, l’art. 14 del decreto Ronchi conferma la corretta individuazione nell’organo di vertice dell’amministrazione comunale quale soggetto competente ad adottare il provvedimento impugnato (Cons. Stato, sezione quinta, 27.03.2009, n. 1826).
Tale competenza sussiste anche ai sensi dell’art. 217 del R.D. 1265/1934 a norma del quale “quando vapori, gas o altre esalazioni, scoli di acque, rifiuti solidi o liquidi provenienti da manifatture o fabbriche, possono riuscire di pericolo o di danno per la salute pubblica, il sindaco prescrive le norme da applicare per prevenire o impedire il danno e il pericolo e si assicura della loro esecuzione ed efficienza. Nel caso di inadempimento il sindaco può provvedere di ufficio nei modi e termini stabiliti nel testo unico della legge comunale e provinciale” (Tar Lombardia, Milano, sez. I, sentenza n. 518/2014)
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. IV, sentenza 02.07.2014 n. 1705 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'inserimento di una determinata attività nell'elenco delle industrie insalubri approvato, da ultimo, con i dd.mm. del 02.03.1987 e del 05.09.1994- assolve alla semplice funzione di segnalare le potenziali fonti di rischio, fermo restando pertanto il dovere dell'autorità amministrativa di accertare direttamente in sede locale l'esistenza in concreto di siffatta potenzialità.
L'astratta individuazione di un'attività produttiva come insalubre non preclude infatti l'effettuazione di verifiche in sede locale circa l'effettiva nocività di strutture e impianti adibiti all'attività medesima, da valutarsi avendo riguardo sia al contesto ambientale nel quale la predetta attività si svolge, sia alla eventuale attivazione di soddisfacenti misure di salvaguardia.
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Secondo la giurisprudenza l’art. 216 del t.u.ll.ss. stabilisce due classi di attività industriali insalubri: l’inserimento nella prima, comporta l’obbligo di isolamento nelle campagne l’insediamento lontano dalle abitazioni, mentre solo la collocazione nella seconda prevede il potere-dovere (a fronte della domanda di insediamento) di valutare la pericolosità in concreto e di prescrivere le eventuali cautele.
Ciò premesso, Collegio, deve confermare che la mera iscrizione nella prima classe deriva da una valutazione direttamente compiuta dalla scelta legislativa, che perciò esclude ogni discrezionalità dell’amministrazione sul punto.
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Con riferimento poi al carattere meramente accessorio dell’attività insalubre esercitata occorre osservare che è del tutto ininfluente il fatto che l’attività insalubre abbia carattere accessorio nell’organizzazione di impresa della ricorrente, essendo rilevante esclusivamente l’idoneità dell’attività ad interferire con l’ambiente, a maggior ragione se l’attività sia svolta in area urbanizzata, come nel caso in decisione.

In merito alla classificazione delle industrie insalubri di prima classe la giurisprudenza ha chiarito che l'inserimento di una determinata attività nell'elenco delle industrie insalubri approvato, da ultimo, con i dd.mm. del 02.03.1987 e del 05.09.1994- assolve alla semplice funzione di segnalare le potenziali fonti di rischio, fermo restando pertanto il dovere dell'autorità amministrativa di accertare direttamente in sede locale l'esistenza in concreto di siffatta potenzialità (TAR Lombardia, Milano, 22/04/1997 n. 488; Cons. Stato, sez. V, Sentenza 15.02.2001 n. 766).
L'astratta individuazione di un'attività produttiva come insalubre non preclude infatti l'effettuazione di verifiche in sede locale circa l'effettiva nocività di strutture e impianti adibiti all'attività medesima, da valutarsi avendo riguardo sia al contesto ambientale nel quale la predetta attività si svolge, sia alla eventuale attivazione di soddisfacenti misure di salvaguardia.
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Con riferimento invece al carattere non pericoloso per la salute delle attività ivi svolte occorre rilevare che secondo la giurisprudenza l’art. 216 del citato t.u. stabilisce due classi di attività industriali insalubri: l’inserimento nella prima, comporta l’obbligo di isolamento nelle campagne l’insediamento lontano dalle abitazioni, mentre solo la collocazione nella seconda prevede il potere-dovere (a fronte della domanda di insediamento) di valutare la pericolosità in concreto e di prescrivere le eventuali cautele. Ciò premesso, Collegio, deve confermare che la mera iscrizione nella prima classe deriva da una valutazione direttamente compiuta dalla scelta legislativa, che perciò esclude ogni discrezionalità dell’amministrazione sul punto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 05.03.2013 n. 1345).
Ne consegue che deve escludersi che il Comune dovesse dare la prova della concreta pericolosità dell’attività svolta.
Con riferimento poi al carattere meramente accessorio dell’attività insalubre esercitata occorre osservare che è del tutto ininfluente il fatto che l’attività insalubre abbia carattere accessorio nell’organizzazione di impresa della ricorrente, essendo rilevante esclusivamente l’idoneità dell’attività ad interferire con l’ambiente, a maggior ragione se l’attività sia svolta in area urbanizzata, come nel caso in decisione
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. IV, sentenza 02.07.2014 n. 1704 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa pianificazione urbanistica costituisce un’attività a carattere discrezionale, per la quale, come più volte affermato da questo Consiglio, è sufficiente una motivazione per relationem con la relazione tecnica che contiene le indicazioni sugli obiettivi che si intende complessivamente perseguire: quest’ultima deve dare contezza circa la sincronia e la coerenza, rispettivamente, delle scelte pianificatorie adottate, degli obiettivi perseguiti e degli interessi pubblici ad essi sottesi.
Fatte salve le scelte incidenti su zone territorialmente circoscritte, in sede di adozione di uno strumento urbanistico l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione è di portata generale e risulta soddisfatto tramite l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte urbanistiche, senza necessità di una motivazione puntuale.
L'amministrazione comunale non è tenuta ad una particolareggiata motivazione in ordine ad ogni singola scelta urbanistica effettuata con il nuovo strumento di pianificazione, anche laddove la nuova scelta si discosti da destinazioni precedentemente impresse al territorio dal precedente strumento urbanistico, essendo sufficiente che emergano nel complesso le ragioni che sorreggono l'esercizio della potestà pianificatoria.
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La giurisprudenza è costante nel non ritenere necessario controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione presentata dai privati nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico.
Al contrario, ciò che risulta necessario è che il Comune abbia effettivamente esaminato e preso atto delle osservazioni formulate.
Inoltre, poiché le osservazioni devono estrinsecare un apporto collaborativo dei cittadini in funzione di interessi generali e non individuali, il loro rigetto può essere soltanto l’effetto di un contrasto con gli interessi e le considerazioni generali sottese allo strumento urbanistico.

Quanto, poi, al lamentato difetto di motivazione, si ricorda che la pianificazione urbanistica costituisce un’attività a carattere discrezionale, per la quale, come più volte affermato da questo Consiglio, è sufficiente una motivazione per relationem con la relazione tecnica che contiene le indicazioni sugli obiettivi che si intende complessivamente perseguire: quest’ultima deve dare contezza circa la sincronia e la coerenza, rispettivamente, delle scelte pianificatorie adottate, degli obiettivi perseguiti e degli interessi pubblici ad essi sottesi.
Fatte salve le scelte incidenti su zone territorialmente circoscritte, in sede di adozione di uno strumento urbanistico l’onere di motivazione gravante sull’amministrazione è di portata generale e risulta soddisfatto tramite l’indicazione dei profili generali e dei criteri che sorreggono le scelte urbanistiche, senza necessità di una motivazione puntuale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 20.02.2014 n. 793; id. 10.05.2012 n. 2710; id. 08.06.2011 n. 3497 e id. 03.11.2008 n. 5478).
L'amministrazione comunale non è tenuta ad una particolareggiata motivazione in ordine ad ogni singola scelta urbanistica effettuata con il nuovo strumento di pianificazione, anche laddove la nuova scelta si discosti da destinazioni precedentemente impresse al territorio dal precedente strumento urbanistico, essendo sufficiente che emergano nel complesso le ragioni che sorreggono l'esercizio della potestà pianificatoria (cfr. Consiglio di Stato sez. IV 12/05/2011 n. 2863).
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Al riguardo, infatti, la giurisprudenza è costante nel non ritenere necessario controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna osservazione e opposizione presentata dai privati nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello strumento urbanistico (cfr. Consiglio di Stato sez. IV n. 2710 cit. e id. n. 1479 del 26.03.2014).
Al contrario, ciò che risulta necessario è che il Comune abbia effettivamente esaminato e preso atto delle osservazioni formulate. Inoltre, poiché le osservazioni devono estrinsecare un apporto collaborativo dei cittadini in funzione di interessi generali e non individuali, il loro rigetto può essere soltanto l’effetto di un contrasto con gli interessi e le considerazioni generali sottese allo strumento urbanistico (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. IV n. 2443 del 07.05.2002 e id. n. 5492 del 26.10.2012)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.07.2014 n. 3294 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZINiente appalti senza attività autonoma. Cassazione. Limiti all'«interposizione di manodopera».
La Corte di Cassazione con sentenza n. 10745/2014 ha ribadito gli elementi che distinguono l'appalto di servizi "genuino" dalla interposizione di manodopera, pratica quest'ultima destinata esclusivamente ai soggetti autorizzati quali, tra gli altri, le agenzie di lavoro interinale.
Secondo la Suprema Corte, «l'ipotesi di appalto di manodopera è configurabile sia in presenza degli elementi presuntivi considerati dal'articolo 1, comma 3, della legge 1369/1960 (impiego di capitale, macchine ed attrezzature fornite dall'appaltante), sia quando il soggetto interposto, sebbene si inserisca in una fase del ciclo produttivo del preteso committente, manchi di una gestione di impresa a proprio rischio e di un'autonoma organizzazione, da verificarsi con riguardo alle prestazioni in concreto affidategli».
Con riferimento agli appalti endoaziendali in cui si affidano a una ditta esterna fasi di attività strettamente attinenti al ciclo produttivo del committente, bisogna verificare se l'appaltatore abbia dato vita a una organizzazione autonoma assumendosi quindi il rischio d'impresa relativo al servizio fornito. Dove si accerti che l'appaltatore si sia limitato a mettere a disposizione una mera prestazione lavorativa, mantenendo la sola gestione amministrativa del rapporto (retribuzione ferie eccetera) ma senza una organizzazione della prestazione finalizzata a un risultato autonomo, si ricade nell' attività vietata.
La Corte ribadisce inoltre che venendo meno l'inerenza del costo all'attività d'impresa, esso diventa indetraibile e, trattandosi di prestazioni di lavoro dipendente, ai fini Iva l'imposta è erroneamente applicata e quindi non detraibile (articoli 3 e 19 Dpr 633/1972). Nella realtà degli enti locali, stretti tra necessità di garantire i servizi e blocco di nuove assunzioni, numerosi sono i bandi che appaiono come richieste di mere prestazioni di manodopera: assistenza e accompagnamento sullo scuolabus o in refezione, sostituzione o aiuto cuoco, richieste di personale (educatori, assistenti) necessario per coprire le necessità non garantite dal personale scolastico, data entry, eccetera.
Alle pesantissime sanzioni per il ricorso a soggetti non autorizzati, 50 euro a lavoratore per giornata lavorata (articolo 18, comma 2, del Dlgs 276/2003) si aggiungono le sanzioni fiscali, per i bandi relativi a trasporto alunni, refezione scolastica e altre attività rilevanti ai fini Iva, posto che l'indetraibilità comporta la ripresa a tassazione della minor Iva versata, con sanzioni penali al superamento della soglia di 50mila euro, o la rettifica della dichiarazione presentata con il riconoscimento di un minor credito
 (articolo Il Sole 24 Ore del 30.06.2014).

APPALTI SERVIZI: Nella fattispecie viene in rilievo una concessione di servizi pubblici, provvedimento la cui emanazione, ai sensi dell’art. 30 del codice dei contratti pubblici, non soggiace alle norme puntuali recate dal codice, ma ai soli principi generali della materia, principi tra i quali non è annoverabile la regula iuris fissata dalla norma di cui all’art. 86, comma 4, che impone, solo per gli appalti di servizi e di forniture, l’indicazione degli oneri di sicurezza in sede di formulazione dell’ offerta economica.
L'obbligo di indicare i costi di sicurezza nella specie non è evincibile neanche da un auto-vincolo assunto dalla stazione appaltante, posto che il bando di gara, per un verso, stabilisce la struttura dell’offerta economica indicando cinque voci senza fare menzionare i costi di sicurezza (punto 8.1.2., pag. 5); e, dall’altro, richiama gli artt. 86 e 87 del codice dei contratti pubblici ai soli fini della disciplina della verifica dell’anomalia (punto 8.1.2., pag. 6);
Posta l’assenza di un vincolo derivante dalla normativa primaria o dalla normativa speciale di gara, deve ritenersi che l’amministrazione abbia correttamente consentito all’impresa prima classificata, attraverso l’esplicazione di un’obbligatoria cooperazione istruttoria, l’indicazione degli oneri di sicurezza evincibili, attraverso un’operazione di scomputo, dall’offerta economica.

Reputato che l’appello in epigrafe specificato merita positiva valutazione e va accolto, alla stregua delle considerazioni che seguono:
- nella fattispecie viene in rilievo una concessione di servizi pubblici, provvedimento la cui emanazione, ai sensi dell’art. 30 del codice dei contratti pubblici, non soggiace alle norme puntuali recate dal codice, ma ai soli principi generali della materia, principi tra i quali non è annoverabile la regula iuris fissata dalla norma di cui all’art. 86, comma 4, che impone, solo per gli appalti di servizi e di forniture, l’indicazione degli oneri di sicurezza in sede di formulazione dell’ offerta economica (cfr., con riguardo ai servizi esclusi dal codice dei contratti pubblici, Cons. Stato, sez. III, 21.01.2014, n, 280);
- l’obbligo di indicare i costi di sicurezza nella specie non è evincibile neanche da un auto-vincolo assunto dalla stazione appaltante, posto che il bando di gara, per un verso, stabilisce la struttura dell’offerta economica indicando cinque voci senza fare menzionare i costi di sicurezza (punto 8.1.2., pag. 5); e, dall’altro, richiama gli artt. 86 e 87 del codice dei contratti pubblici ai soli fini della disciplina della verifica dell’anomalia (punto 8.1.2., pag. 6);
- posta l’assenza di un vincolo derivante dalla normativa primaria o dalla normativa speciale di gara, deve ritenersi che l’amministrazione abbia correttamente consentito all’impresa prima classificata, attraverso l’esplicazione di un’obbligatoria cooperazione istruttoria, l’indicazione degli oneri di sicurezza evincibili, attraverso un’operazione di scomputo, dall’offerta economica (cfr., sull’illegittimità dell’esclusione dalla gara ove il bando non abbia previsto l’obbligo di specificazione degli oneri nella disciplina di gara, Cons. Stato, sez. V, 16.05.2014, n. 2517);
- le ulteriori censure relative alle valutazioni della stazione appaltante sulla congruità degli oneri di sicurezza indicati dall’aggiudicataria sono, per un verso, infondate, in ragione della non sindacabilità delle valutazioni tecniche ove congruamente motivate e non inficiate da profili di irragionevolezza e di illogicità; e, per altro verso, inammissibili, in quanto svolte dall’impresa terza classificata per ottenere l’estromissione della prima classificata senza incidere sulla posizione della prima classificata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.06.2014 n. 3291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa il rispetto della fascia di mt. 10 dall'alveo dei corsi d'acqua, non rileva il rilievo circa la necessità di riferire la locuzione “discipline vigenti nelle diverse località” ad una ambito necessariamente infraregionale.
Infatti, all’epoca dell’entrata in vigore dell'art. 96, lett. F), del R.D. 25.07.1904, n. 523, le Regioni non erano state ancora né previste, né istituite, sicché non può farsi il paragone lessicale con altre disposizioni emanate in un tempo successivo all’istituzione delle Regioni.
Il riferimento in questione deve pertanto intendersi, comunque, come un rinvio mobile ad una disciplina non applicabile sull’intero territorio nazionale e che tenga conto delle specificità locali. Tale carattere è riferibile anche alla disciplina regionale, in costanza della quale perde rilievo la ipotizzata natura suppletiva della norma, poiché la fattispecie risulta disciplinata dalla nota della Regione Lombardia dell’08.09.1988.
Va richiamata al riguardo Cass., Sez. Unite, 18.07.2008, n. 19813, secondo la quale: “L'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523, in materia di distanze delle costruzioni dagli argini, ha carattere sussidiario, essendo destinato a prevalere solo in assenza di una specifica normativa locale. Tuttavia, quest'ultima, che può anche essere contenuta nello strumento urbanistico, per derogare alla norma statale, deve essere espressamente destinata alla regolamentazione delle distanze dagli argini, esplicitando le condizioni locali e le esigenze di tutela delle acque e degli argini che giustifichino la determinazione di una distanza maggiore o minore di quella indicata dalla norma statale”.
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I divieti di edificazione sanciti dall'art. 96, lett. F), del RD 25.07.1904, n. 523 (t.u. delle leggi sulle opere idrauliche), sono precipuamente informati alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali per i diversi usi disciplinati dalla speciale legislazione sulle acque, o, comunque, di assicurare, ai fini di pubblico interesse, il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, rivi, canali e scolatoi pubblici: ne consegue che, qualora risulti oggettivamente non sussistente una massa d'acqua pubblica suscettibile di essere utilizzata ai suesposti fini pubblicistici, deve escludersi la operatività, ad ogni effetto, dei divieti predetti.

1. Con ricorso n. 389 del 1989, proposto al TAR Lombardia, sez. staccata di Brescia, l’odierno appellante chiedeva l’annullamento del provvedimento dell’Assessore delegato del Comune di Sarezzo dell’08.02.1989 avente ad oggetto il diniego con cui è stata respinta l’istanza di condono edilizio relativa all’ampliamento dell’opificio nella parte localizzata all’interno della fascia di mt. 10 di rispetto del torrente Gombiera, nonché del parere negativo dell’ufficio del Genio civile di Brescia
2. Il primo Giudice respingeva il ricorso, rilevando che l’art. 33 della L. n. 47 del 1985 contenente l’elencazione delle opere non suscettibili di sanatoria, al comma 1, lett. c), include le opere in contrasto con i “vincoli imposti da norme statali e regionali a difesa delle coste marine, lacuali e fluviali”.
Dal canto suo, l’art. 96, lett. F), del R.D. 25.07.1904, n. 523, vieta in modo assoluto le costruzioni ad una distanza inferiore di mt. 10 dall’alveo dei corsi d’acqua.
Né vale obbiettare che, da un lato, si sarebbe instaurata di fatto una prassi locale sfociata nella consuetudine di cui è parola nell’art. 96 citato, laddove fa riferimento alla “disciplina locale”, perché quest’ultima locuzione deve intendersi riferita alla disciplina regionale: la Regione Lombardia con nota dell’08.09.1988 ha espressamente affermato la non conformità dell’opera, invitando il Comune resistente a emettere ordinanza di demolizione, con ripristino dello stato dei luoghi; dall’altro, il diniego, che prescinde dalla situazione di fatto, non può dirsi che non sarebbe congruamente motivato, atteso che l’opera viola un vincolo assoluto, senza che pertanto residui in sede di esame della domanda di condono alcun margine di apprezzamento discrezionale.
...
5. L’appello è infondato e non può essere accolto.
5.1. In ordine alla prima doglianza, non rileva il rilievo circa la necessità di riferire la locuzione “discipline vigenti nelle diverse località” ad una ambito necessariamente infraregionale.
Infatti, all’epoca dell’entrata in vigore del citato art. 96, le Regioni non erano state ancora, né previste, né istituite, sicché non può farsi il paragone lessicale con altre disposizioni emanate in un tempo successivo all’istituzione delle Regioni.
Il riferimento in questione deve pertanto intendersi, comunque, come un rinvio mobile ad una disciplina non applicabile sull’intero territorio nazionale e che tenga conto delle specificità locali. Tale carattere è riferibile anche alla disciplina regionale, in costanza della quale perde rilievo la ipotizzata natura suppletiva della norma, poiché la fattispecie risulta disciplinata dalla nota della Regione Lombardia dell’08.09.1988.
Va richiamata al riguardo Cass., Sez. Unite, 18.07.2008, n. 19813, secondo la quale: “L'art. 96, lett. f), del r.d. 25.07.1904, n. 523, in materia di distanze delle costruzioni dagli argini, ha carattere sussidiario, essendo destinato a prevalere solo in assenza di una specifica normativa locale. Tuttavia, quest'ultima, che può anche essere contenuta nello strumento urbanistico, per derogare alla norma statale, deve essere espressamente destinata alla regolamentazione delle distanze dagli argini, esplicitando le condizioni locali e le esigenze di tutela delle acque e degli argini che giustifichino la determinazione di una distanza maggiore o minore di quella indicata dalla norma statale”.
5.2. Destituita di fondamento risulta anche la seconda censura.
Come ha chiarito Cass. n. 5644 del 1979, “I divieti di edificazione sanciti dall'art. 96, lett. F), del RD 25.07.1904, n. 523 (t.u. delle leggi sulle opere idrauliche), sono precipuamente informati alla ragione pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali per i diversi usi disciplinati dalla speciale legislazione sulle acque, o, comunque, di assicurare, ai fini di pubblico interesse, il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, rivi, canali e scolatoi pubblici: ne consegue che, qualora risulti oggettivamente non sussistente una massa d'acqua pubblica suscettibile di essere utilizzata ai suesposti fini pubblicistici, deve escludersi la operatività, ad ogni effetto, dei divieti predetti”.
Nella fattispecie, però, non risulta contestata la presenza di una massa d’acqua, ossia il torrente Gombiera, e che la stessa sia utilizzata da molte imprese (cfr. appello pag. 2), sicché risulta evidente la necessità di assicurarne il libero decorso.
Pertanto, l’esercizio del potere risultava in concreto vincolato, sicché l’atto per come formulato non si espone alla censura di difetto di motivazione reiterata in seconde cure (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.06.2014 n. 3283 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di distacchi delle costruzioni dalle sedi autostradali, il vincolo di inedificabilità a distanza inferiore a 25 metri dal limite della zona di occupazione dell'autostrada, imposto dall'art. 9 della legge 24.07.1961, n. 729, si traduce in un divieto assoluto di edificazione. In tale ipotesi, quindi, non è applicabile la previsione di cui all'art. 32 della legge 28.02.1985, n. 47 -in base al quale è ammissibile la sanatoria, anche tramite silenzio-assenso, per le opere insistenti su aree vincolate dopo l'esecuzione- bensì quella del successivo art. 33, che non prevede la possibilità di sanatoria delle opere realizzate in contrasto con un vincolo di inedificabilità imposto in epoca anteriore all'esecuzione.
Ne consegue che la società concessionaria per la costruzione di un'autostrada non perde l'interesse ad agire per il rispetto della suddetta distanza anche in caso di presentazione, da parte del privato, della domanda di condono

Va respinta anche l’ultima doglianza, giacché è proprio l’esistenza di una massa d’acqua della quale doveva essere assicurato il libero deflusso e la presenza di una costruzione in contrasto con il vincolo in questione a giustificare il diniego di condono che non poteva essere successivamente superato.
Non rileva infatti il richiamo operato all’art. 32, comma 1, l. 47 del 1985, in quanto quest’ultimo non deroga l’autonoma disciplina dettata dal successivo art. 33, comma 1, che indica gli specifici vincoli che non possono comunque essere superati, e che comportano l’impossibilità di rilascio del provvedimento di condono (cfr. Cass. civ., Sez. III, 03.11.2010, n. 22422: “In tema di distacchi delle costruzioni dalle sedi autostradali, il vincolo di inedificabilità a distanza inferiore a 25 metri dal limite della zona di occupazione dell'autostrada, imposto dall'art. 9 della legge 24.07.1961, n. 729, si traduce in un divieto assoluto di edificazione. In tale ipotesi, quindi, non è applicabile la previsione di cui all'art. 32 della legge 28.02.1985, n. 47 -in base al quale è ammissibile la sanatoria, anche tramite silenzio-assenso, per le opere insistenti su aree vincolate dopo l'esecuzione- bensì quella del successivo art. 33, che non prevede la possibilità di sanatoria delle opere realizzate in contrasto con un vincolo di inedificabilità imposto in epoca anteriore all'esecuzione; ne consegue che la società concessionaria per la costruzione di un'autostrada non perde l'interesse ad agire per il rispetto della suddetta distanza anche in caso di presentazione, da parte del privato, della domanda di condono.”).
L’appello in esame va dunque respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.06.2014 n. 3283 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo l’orientamento costante di questo Consiglio, l'ordine di demolizione dell'abuso edilizio, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia, è atto vincolato alla constatata abusività, che non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione d'illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.
Né l’originario ricorrente si può dolere del ritardo con cui è stato emanato il provvedimento di demolizione, che ha consentito a suo vantaggio la perdurante illegittima utilizzazione del bene realizzato sine titulo.

Ancora destituita di fondamento è la doglianza con la quale si contesta il difetto di motivazione per non essere stato indicato l’interesse pubblico prevalente.
Infatti, secondo l’orientamento costante di questo Consiglio, l'ordine di demolizione dell'abuso edilizio, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia, è atto vincolato alla constatata abusività, che non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione d'illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto (ex multis, Cons. St, Sez. VI, 24.05.2013, n. 2873).
Né l’originario ricorrente si può dolere del ritardo con cui è stato emanato il provvedimento di demolizione, che ha consentito a suo vantaggio la perdurante illegittima utilizzazione del bene realizzato sine titulo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.06.2014 n. 3282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: In materia di inquinamento e conseguente bonifica, sussiste l'assenza di una corresponsabilità del fallimento, anche meramente omissiva, in relazione alle condotte poste in essere dall'impresa fallita.
I
n primo luogo, proprio l'amministrazione comunale evidenzia che l'ordinanza sindacale è rivolta al fallimento in conseguenza dell'inottemperanza dell'impresa ad un precedente provvedimento. In tal modo, si evidenzia l'estraneità della curatela fallimentare alla determinazione degli inconvenienti sanitari riscontrati nell'area.
In questo senso, si pone, del resto, anche una parte della giurisprudenza amministrativa di primo grado, la quale evidenzia l'assenza di una corresponsabilità del fallimento, anche meramente omissiva, in relazione alle condotte poste in essere dall'impresa fallita.
In secondo luogo, il riferimento alla disponibilità giuridica degli oggetti, qualificati dal comune come rifiuti inquinanti, non è sufficiente per imporre l'adempimento di un obbligo gravante sull'impresa fallita.
Il potere di disporre dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti.
In terzo luogo, poi, proprio il richiamo alla disciplina del fallimento e della successione nei contratti evidenzia che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito.
Non assume alcun rilievo la disposizione contenuta nell'art. 1576 del codice civile, poiché l'obbligo di mantenimento della cosa in buono stato locativo riguarda i rapporti tra conduttore e locatore e non si riverbera, direttamente, sui doveri fissati da disposizioni dirette ad altro scopo.
Si deve aggiungere, poi, che il fallimento non è stato autorizzato a proseguire l'attività precedentemente svolta dall'impresa fallita. Pertanto, l'obbligo di bonifica del sito non potrebbe essere nemmeno collegato allo svolgimento di operazioni potenzialmente inquinanti.
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L’art. 192, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 2006 recita: “Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni.”
Ai fini di un’eventuale applicazione della norma appena trascritta si pone la questione di stabilire se il Fallimento possa essere considerato alla stregua di un soggetto “subentrato nei diritti” della società fallita.
Orbene, il Fallimento non può essere reputato un “subentrante”, ossia un successore, dell’impresa sottoposta alla procedura fallimentare.
La società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio: solo, ne perde la facoltà di disposizione, pur sotto pena di inefficacia solo relativa dei suoi atti, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento (art. 42 R.D. n. 267/1942: “La sentenza che dichiara il fallimento, priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”; art. 44: “Tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori”).
Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi della procedura (art. 31 R.D. n. 267/1942: “Il curatore ha l'amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell'ambito delle funzioni ad esso attribuite”).
Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. l’art. 72 R.D. n. 267/1942), in via generale “non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge” (Cassazione civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926).
Più ampiamente, la Suprema Corte ha difatti osservato quanto segue: “Il fatto che alla curatela sia affidata l'amministrazione del patrimonio del fallito, per fini conservativi predisposti alla liquidazione dell'attivo ed alla soddisfazione paritetica dei creditori, non comporta affatto che sul curatore incomba l'adempimento di obblighi facenti carico originariamente all'imprenditore, ancorché relativi a rapporti tuttavia pendenti all'inizio della procedura concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti che la legge (sia esso il R.D. 16.03.1942 n.. 267, siano esse leggi speciali) gli attribuisce e tra essi non è ravvisabile alcun obbligo generale di subentro nelle situazioni giuridiche passive di cui era onerato il fallito. … Poiché in linea generale, come ricordato, il curatore, nell'espletamento della pubblica funzione, non si pone come successore o sostituto necessario del fallito, su di lui non incombono né gli obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della procedura concorsuale, ancorché la scadenza di adempimento avvenga in periodo temporale in cui lo stesso curatore possa qualificarsi come datore di lavoro nei confronti degli stessi dipendenti, o di alcuni di essi.”.
Per quanto esposto, dunque, nei confronti del Fallimento non è ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto dall’art. 194, comma 4, d.lgs. cit., della legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino che l’articolo stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del proprietario versante in dolo o colpa.

2a- La Sezione, dato subito atto che è pacifico che il Fallimento non sia stato autorizzato, nella specie, alla prosecuzione dell’attività della società fallita, sul thema decidendum non può non richiamarsi al proprio precedente, motivato pronunciamento di cui alla decisione n. 4328 del 29.07.2003: “12 La questione da esaminare … consiste nello stabilire se la curatela fallimentare possa essere destinataria di ordinanze sindacali dirette alla bonifica di siti inquinati, per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell'impresa fallita.
13 Al riguardo, il comune sostiene che la responsabilità del fallimento deriva dalla inottemperanza ai precedenti provvedimenti adottati nei confronti della società (…).
14 Inoltre, l'amministrazione espone che le "migliaia di tonnellate dei pneumatici inquinanti", oggetto dell'ordinanza impugnata, sono uscite dalla disponibilità della società fallita, entrando a far parte della massa fallimentare, gestita ed amministrata dal curatore.
15 In tal senso, secondo l'appellante, si pone un orientamento giurisprudenziale, in forza del quale l'adempimento dell'obbligo di smaltimento dei rifiuti grava sulla curatela fallimentare (TAR Toscana, Prima Sezione, 03.03.1993, n. 196; Tar Toscana, Seconda Sezione, 28.04.2000, n. 780), poiché la disponibilità dei beni, anche di quelli classificati come rifiuti nocivi, entra giuridicamente nella titolarità del curatore e conseguentemente con essa anche il dovere di rimuoverli in applicazione delle leggi vigenti.
16 In termini più generali, il comune sostiene che il fallimento subentra negli obblighi facenti capo all'impresa fallita e, quindi, è tenuto all'adempimento dei doveri derivanti dall'accertata responsabilità della stessa impresa.
17 A tal fine, il comune appellante richiama, fra l'altro, le disposizioni della legge fallimentare riguardanti la prosecuzione dei contratti facenti capo all'impresa fallita.
18 Nessuno degli argomenti proposti è persuasivo.
19 In primo luogo, proprio l'amministrazione comunale evidenzia che l'ordinanza sindacale è rivolta al fallimento in conseguenza dell'inottemperanza dell'impresa ad un precedente provvedimento. In tal modo, si evidenzia l'estraneità della curatela fallimentare alla determinazione degli inconvenienti sanitari riscontrati nell'area.
20 In questo senso, si pone, del resto, anche una parte della giurisprudenza amministrativa di primo grado (TAR Toscana, Sezione Terza, 01.08.2001, n. 1318), la quale evidenzia l'assenza di una corresponsabilità del fallimento, anche meramente omissiva, in relazione alle condotte poste in essere dall'impresa fallita.
21 In secondo luogo, il riferimento alla disponibilità giuridica degli oggetti, qualificati dal comune come rifiuti inquinanti, non è sufficiente per imporre l'adempimento di un obbligo gravante sull'impresa fallita.
Il potere di disporre dei beni fallimentari (secondo le particolari regole della procedura concorsuale e sotto il controllo del giudice delegato) non comporta necessariamente il dovere di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti.
22 In terzo luogo, poi, proprio il richiamo alla disciplina del fallimento e della successione nei contratti evidenzia che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore fallito.
Non assume alcun rilievo la disposizione contenuta nell'art. 1576 del codice civile, poiché l'obbligo di mantenimento della cosa in buono stato locativo riguarda i rapporti tra conduttore e locatore e non si riverbera, direttamente, sui doveri fissati da disposizioni dirette ad altro scopo.
23 Si deve aggiungere, poi, che il fallimento non è stato autorizzato a proseguire l'attività precedentemente svolta dall'impresa fallita. Pertanto, l'obbligo di bonifica del sito non potrebbe essere nemmeno collegato allo svolgimento di operazioni potenzialmente inquinanti.
24 In definitiva, quindi, l'appello deve essere rigettato
” (C.d.S., Sez. V, n. 4328/2003 cit.).
La Sezione ha ribadito questa chiara impostazione con la successiva decisione n. 3885 del 16.06.2009.
La nuova pronuncia, nel convalidare, sulla scia del riferito precedente giurisprudenziale, l’atto dell’Amministrazione che in un caso simile aveva escluso la legittimazione passiva del curatore, ha puntualizzato che la soluzione opposta “determinerebbe un sovvertimento del principio “chi inquina paga" scaricando i costi sui creditori che non presentano alcun collegamento con l'inquinamento”.
2b- Né l’impostazione così ribadita potrebbe essere ribaltata in ragione del disposto dell’art. 192, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 2006.
Questo recita: “Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni.”
Ai fini di un’eventuale applicazione della norma appena trascritta si pone la questione di stabilire se il Fallimento della MARCONI possa essere considerato alla stregua di un soggetto “subentrato nei diritti” della società fallita.
Orbene, il Fallimento non può essere reputato un “subentrante”, ossia un successore, dell’impresa sottoposta alla procedura fallimentare.
La società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio: solo, ne perde la facoltà di disposizione, pur sotto pena di inefficacia solo relativa dei suoi atti, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento (art. 42 R.D. n. 267/1942 : “La sentenza che dichiara il fallimento, priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”; art. 44: “Tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori”).
Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi della procedura (art. 31 R.D. n. 267/1942: “Il curatore ha l'amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell'ambito delle funzioni ad esso attribuite”).
Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. l’art. 72 R.D. n. 267/1942), in via generale “non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge” (Cassazione civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926).
Più ampiamente, la Suprema Corte (sez. I, 14.09.1991, n. 9605) ha difatti osservato quanto segue: “Il fatto che alla curatela sia affidata l'amministrazione del patrimonio del fallito, per fini conservativi predisposti alla liquidazione dell'attivo ed alla soddisfazione paritetica dei creditori, non comporta affatto che sul curatore incomba l'adempimento di obblighi facenti carico originariamente all'imprenditore, ancorché relativi a rapporti tuttavia pendenti all'inizio della procedura concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti che la legge (sia esso il R.D. 16.03.1942 n.. 267, siano esse leggi speciali) gli attribuisce e tra essi non è ravvisabile alcun obbligo generale di subentro nelle situazioni giuridiche passive di cui era onerato il fallito. … Poiché in linea generale, come ricordato, il curatore, nell'espletamento della pubblica funzione, non si pone come successore o sostituto necessario del fallito, su di lui non incombono né gli obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della procedura concorsuale, ancorché la scadenza di adempimento avvenga in periodo temporale in cui lo stesso curatore possa qualificarsi come datore di lavoro nei confronti degli stessi dipendenti, o di alcuni di essi.”.
Per quanto esposto, dunque, nei confronti del Fallimento non è ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto dall’art. 194, comma 4, d.lgs. cit., della legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino che l’articolo stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del proprietario versante in dolo o colpa.
2c- La Sezione deve conseguentemente concludere che gli obblighi imposti dalle pregresse ordinanze sindacali nn. 33/2008 e n. 63/2008 non possono essere riversati sul Fallimento della MARCONI (risultando privo di specifica rilevanza il punto –peraltro controverso tra le parti- del subentro del Fallimento nel rapporto locatizio instaurato dalla società) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.06.2014 n. 3274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIControlli sostanziali sulle concessioni. Servizi. La sentenza del Consiglio di Stato.
Nelle concessioni di servizi (gare sottoposte ex articolo 30 del Codice dei contratti pubblici solo al rispetto dei principi fondamentali desumibili dal diritto comunitario e nazionale) la lex specialis può anche non richiedere le dichiarazioni formali previste dall'articolo 38 del Codice, purché, nella sostanza, i requisiti di moralità siano comunque verificati dalla stazione appaltante.
Nell'ottica della semplificazione formale degli adempimenti che caratterizzano il procedimento di gara pubblica, (e con l'obiettivo, richiamato anche dall'articolo 39 del decreto Pa, di ridurre i casi di esclusione delle imprese per errori formali), si è pronunciata la VI Sez. del Consiglio di Stato nella sentenza 27.06.02014 n. 3251, in relazione alle formalità della lettera d'invito.
Il fatto trae spunto da una gara per l'affidamento del servizio di installazione e fornitura di distributori automatici di bevande e prodotti confezionati: tecnicamente una concessione di servizi, come evidenziato anche dal Tar Lazio, nella quale, secondo il parere del ricorrente, avrebbero comunque dovuto trovare evidenza -in sede di formalità della lettera d'invito- gli obblighi dichiarativi sul possesso dei requisiti di moralità, in quanto l'articolo 38 del Codice è norma generale, relativa a un principio di ordine pubblico economico che soddisfa l'esigenza di affidabilità e moralità del contraente.
La sesta sezione del Consiglio di Stato ha invece rimarcato la circostanza che la norma è un precetto generale -e dunque applicabile a tutte le gare pubbliche indistintamente- ma nel caso specifico delle concessioni di servizi (nelle quali la controprestazione a favore del concessionario consiste unicamente nel diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio) questo principio attiene al profilo sostanziale, alla necessità cioè che alla gara possa partecipare un soggetto affidabile perché in possesso dei requisiti di moralità; ma non anche al profilo dichiarativo e formale, cioè alla sussistenza di un obbligo legale di dichiarare comunque l'assenza di cause ostative.
In altri termini, ciò che per la legge rileva come atto necessario non è tanto l'assolvimento di obblighi dichiarativi formali quanto il controllo, in concreto, che il partecipante alla gara possieda i requisiti. Per questa ragione non è decisivo il fatto che il bando (o la lettera d'invito) preveda il rilascio formale delle dichiarazioni previste dall'articolo 38
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2014).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL'omissione della comunicazione ex art. 10-bis l. 241/1990 di per sé non giustifica l'annullamento di un atto, precluso invece, ai sensi del successivo art. 21-octies, ove il contenuto di esso non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Per disporre l’annullamento è viceversa necessario quanto nel caso presente non è avvenuto, ovvero che il privato non si limiti a contestare l'omessa comunicazione, ma alleghi le circostanze che avrebbe potuto sottoporre all'Amministrazione, per indurla a determinarsi diversamente.

In ordine logico, va scrutinato per primo il ricorso 740/2010, rivolto contro il diniego di sanatoria per gli abusi edilizi contestati alle ricorrenti. Di esso è infondato il primo motivo, imperniato sull’omissione dell’avviso di reiezione dell’istanza di cui all’art. 10-bis l. 241/1990, cd. prediniego.
L’omissione come fatto storico è pacifica; risulta però nel caso di specie non rilevante, sulla base dell’insegnamento giurisprudenziale, espresso da ultimo da C.d.S. sez. IV 06.12.2013 n. 5818, secondo il quale essa di per sé non giustifica l'annullamento di un atto, precluso invece, ai sensi del successivo art. 21-octies, ove il contenuto di esso non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Per disporre l’annullamento è viceversa necessario quanto nel caso presente non è avvenuto, ovvero che il privato non si limiti a contestare l'omessa comunicazione, ma alleghi le circostanze che avrebbe potuto sottoporre all'Amministrazione, per indurla a determinarsi diversamente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.06.2014 n. 736 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa il cd. bonus volumetrico per il risparmio energetico di cui alla l.r. Lombardia 20.04.1995 n. 26, sussiste l’impossibilità di richiedere tale bonus volumetrico in sede di sanatoria desumibile non solo e non tanto dalla circolare applicativa dell’istituto, D.D.G. 07.08.2008 n. 8935, quanto dalla logica della norma di legge che lo prevede: trattandosi di istituto premiale e incentivante un’edilizia di qualità, appare corretto riservarne l’applicazione a chi dall’origine si proponga di realizzarla, e non utilizzarlo come ulteriore incentivo agli abusi edilizi.
Parimenti, del ricorso 740/2010 è infondato anche il secondo motivo, perché il diniego di sanatoria resiste alle censure mossegli, nei termini di cui subito in dettaglio.
Incominciando dall’edificio A, va ricordato che le ricorrenti si erano viste contestare i seguenti abusi, desunti a contrario dal contenuto dell’ordinanza di demolizione riportato in narrativa: (1.) ricavo di ulteriore volumetria a disposizione rispetto al PDR approvato mediante variazione delle altezze interne derivanti dall’abbassamento del solaio del piano terra nonché (2.) mediante variazione della quota dei solai interpiano; (3.) mutate disposizioni dei fori delle finestre/porte finestre/porte rispetto al PDR approvato; (4.) mutate tipologie costruttive rispetto al PDR approvato.
A fronte di ciò, il diniego di sanatoria osserva, quanto all’abuso di cui ai punti (1) e (2) e alla richiesta delle ricorrenti di sanarlo avvalendosi del cd. bonus volumetrico per il risparmio energetico di cui alla l.r. Lombardia 20.04.1995 n. 26, che vi sarebbe stato anzitutto un errato calcolo iniziale della superficie e della volumetria; rileva poi che la normativa regionale per avvalersi del bonus richiede di presentare l’apposita relazione tecnica con la domanda originaria di rilascio del titolo o con una domanda di variante in corso d’opera; non consente però di presentarla a corredo di una domanda di sanatoria.
Quanto agli abusi di cui ai punti 3 e 4, il diniego osserva poi che l’edificio in base al PDR originario era soggetto all’art. 47 lettera f delle NTA di piano, che escludeva finiture e materiali non tradizionali e non coerenti con l’esistente; è ora soggetto alle norme sugli edifici storici di cui all’art. 6 del Piano delle regole, e in base a tale normativa non può recare il rivestimento di intonaco, le cornici in marmo e i serramenti in alluminio in concreto realizzati.
Le ricorrenti replicano quanto agli abusi (1) e (2) in sintesi che il calcolo sarebbe corretto, e che la richiesta di bonus potrebbe farsi anche in sanatoria; quanto agli abusi (3) e (4), che le prescrizioni evidenziate dal Comune sarebbero solo indicative, ma nessuna di tali censure è fondata.
Sul primo punto, abusi (1) e (2), le ricorrenti (ricorso, pp. 13 e 14) deducono che invece il calcolo sarebbe corretto, ma si tratta di contestazione generica, non corredata di una dimostrazione dei presunti errori compiuti dal Comune, dimostrazione che le ricorrenti avevano tutti gli elementi per fornire e dovevano quindi allegare in base al noto principio di vicinanza della prova, sul quale v. per tutte da ultimo Cass. civ. sez. III 14.01.2014 n. 65.
L’impossibilità di richiedere il bonus volumetrico in sede di sanatoria è poi desunta non solo e non tanto dalla circolare applicativa dell’istituto, D.D.G. 07.08.2008 n. 8935, quanto dalla logica della norma di legge che lo prevede: trattandosi di istituto premiale e incentivante un’edilizia di qualità, appare corretto riservarne l’applicazione a chi dall’origine si proponga di realizzarla, e non utilizzarlo come ulteriore incentivo agli abusi edilizi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.06.2014 n. 736 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALIIl conferimento da parte di un ente pubblico di incarico a un professionista non inserito nella struttura organica dell’ente medesimo (e che mantenga, pertanto, la propria autonomia e l’iscrizione al relativo albo) costituisce espressione non di una potestà amministrativa, bensì di semplice autonomia privata, ed è funzionale all’instaurazione di un rapporto di cosiddetta parasubordinazione -da ricondurre pur sempre al lavoro autonomo- pur nell’ipotesi in cui la collaborazione assuma carattere continuativo, e il professionista riceva direttive e istruzioni dall’ente, onde anche la successiva delibera di revoca dell’incarico riveste natura non autoritativa ma di recesso contrattuale, con conseguente attribuzione della controversia al giudice ordinario.
- Rilevato che nell’odierna controversia il ricorrente contesta, impugnando tutti gli atti in epigrafe indicati, la legittimità della revoca dell'incarico di progettazione e direzione di lavori pubblici a lui conferito nel 2012 dal Comune di Palma di Montechiaro, nonché l’affidamento dello stesso a dei professionisti interni;
- Ritenuto che, secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale delle Sezioni unite della Corte di Cassazione (cfr. sentt. 03.07.2006 n. 15199, 03.01.2007 n. 4 ed ancora, di recente, 19.11.2012, n. 20222), condiviso dal Consiglio di Stato (cfr. sent. V, 12.06.2009, n. 3737) e dal C.G.A. (cfr. sent. 06.05.2008, n. 390 e 31.05.2011, n. 402), "… il conferimento da parte di un ente pubblico di incarico a un professionista non inserito nella struttura organica dell’ente medesimo (e che mantenga, pertanto, la propria autonomia e l’iscrizione al relativo albo) costituisce espressione non di una potestà amministrativa, bensì di semplice autonomia privata, ed è funzionale all’instaurazione di un rapporto di cosiddetta parasubordinazione -da ricondurre pur sempre al lavoro autonomo- pur nell’ipotesi in cui la collaborazione assuma carattere continuativo, e il professionista riceva direttive e istruzioni dall’ente, onde anche la successiva delibera di revoca dell’incarico riveste natura non autoritativa ma di recesso contrattuale, con conseguente attribuzione della controversia al giudice ordinario" (in termini, di recente, Tar Palermo, II, 23.05.2014, n. 1342);
- che, pertanto, il ricorso va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore del giudice ordinario, anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 11 c.p.a. (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 26.06.2014 n. 1657 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Notifiche-Pec, non c'è l'intesa. Nulli gli avvisi di accertamento via posta elettronica. Una sentenza della Ctp di Milano: il vizio è di inesistenza quindi non sanabile dal ricorso.
Gli avvisi di accertamento notificati a mezzo Pec sono nulli. La possibilità di notificare gli atti impositivi per posta elettronica certificata non è prevista da alcuna norma e la procedura è quindi inesistente, poiché esce completamente al di fuori dello schema legale. Il vizio non è sanabile dalla proposizione del ricorso, in quanto trattasi di inesistenza e non di nullità.

Con queste conclusioni, che si leggono nella sentenza 24.06.2014 n. 6087/21/14, la Ctp di Milano ha annullato un avviso di accertamento emesso dall'Agenzia delle dogane.
L'atto in questione era stato notificato per il tramite della posta elettronica certificata. Per questa ragione, la società accertata adiva i giudici tributari meneghini, eccependo la nullità derivata del provvedimento, come effetto dell'inesistenza della sua notificazione. Il ricorso ha trovato pieno accoglimento, con compensazione delle spese di giudizio in ragione della novità delle questioni trattate.
È opportuno rammentare che la notificazione degli atti tributari via Pec è stata introdotta dal legislatore con l'art. 38, comma 4, lett. b), dl 31.05.2010, n. 78 (convertito con legge n. 122/2010), che ha aggiunto all'articolo 26 del dpr n. 602/1973 il comma 2.
Tale norma, tuttavia, è specificamente riferita alle cartelle di pagamento e non può essere applicata agli altri atti.
«È pacifico», si legge nelle motivazioni, «che l'avviso sia stato inviato alla ricorrente a mezzo posta elettronica certificata, che erroneamente l'Agenzia parifica alla notifica per posta». L'amministrazione resistente ha tentato di difendere il proprio operato sostenendo che, ad ogni modo, l'imperfezione della procedura di notificazione risulta sanata dalla tempestiva proposizione del ricorso, sintomo del fatto che il contribuente sia venuto a conoscenza della pretesa e l'atto abbia quindi raggiunto il proprio scopo.
Tali argomentazioni, però, non hanno convinto il giudice tributario, che ha inquadrato il vizio come «inesistenza» (non sanabile) piuttosto che «nullità». La Ctp richiama in tal senso un principio della Suprema corte secondo cui «una notificazione può dirsi giuridicamente inesistente quando il relativo atto esce completamente dallo schema legale degli atti di notificazione, ossia quando difettano totalmente gli elementi caratterizzanti che consentono la qualificazione di atto sostanzialmente conforme al modello legale delle notificazioni».
Esperita detta premessa, la sentenza aggiunge che «la notifica a mezzo Pec, se non espressamente prevista da una norma, deve ritenersi esca fuori dal modello legale delle notificazioni», e ancora, «nessuna norma autorizza che possa avvenire la notifica di un accertamento e/o di una rettifica a mezzo Pec». Dunque, «trattandosi di inesistenza della notifica e non di nullità, non può trovare applicazione la sanatoria invocata dall'Ufficio doganale».
In conclusione, può dirsi che la possibilità di notificare gli atti tributari via Pec riguardi esclusivamente le cartelle di pagamento emesse da Equitalia, mentre rimane completamente esclusa per ogni altro tipo di provvedimento. Il difetto di notifica, secondo quanto si legge nella sentenza in commento, può essere fatto valere impugnando direttamente l'atto notificato, poiché trattasi di inesistenza non sanabile con la proposizione del ricorso, sebbene tale ultimo profilo sia in verità assai dibattuto nella giurisprudenza tributaria, di merito e legittimità
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014).

COMPETENZE GESTIONALI: L’organo consiliare elettivo è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale, che si traducono in atti fondamentali, tassativamente elencati nell’art. 42 del D. Lgs. 18.08.2000, n. 267, laddove la giunta comunale ha una competenza residuale, potendo compiere tutti gli atti che dalla legge non sono riservati al consiglio comunale ovvero che non ricadono, secondo le previsioni legislative o dello statuto, nelle competente del Sindaco.
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Con riferimento ad una fattispecie di decadenza del privato da una convenzione attributiva del diritto di superficie è stato affermato che, mentre spetta al consiglio comunale, ai sensi del citato articolo 42, di esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale e gli atti fondamentali di natura programmatoria, tra cui gli atti di disposizione del patrimonio immobiliare, compresa l'approvazione della cessione del diritto di superficie di aree di proprietà comunale, rientra nella competenza della Giunta, ai sensi del successivo art. 48 del D.Lgs. n. 267 del 2000, l’attuazione degli indirizzi generali dell’organo consiliare, ivi compresa la deliberazione di decadenza (del privato dalla convenzione che attribuisce il diritto di superficie), tale deliberazione non potendo essere considerata un "contrarius actus" non contenendo una diversa (e contraria) volontà rispetto a quella (originariamente) manifestata dall'organo consiliare, ma costituendo piuttosto una esecuzione dell'indirizzo generale del Consiglio trasfuso nella convenzione.

Infatti, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo per discostarsi, l’organo consiliare elettivo è chiamato ad esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale, che si traducono in atti fondamentali, tassativamente elencati nell’art. 42 del D. Lgs. 18.08.2000, n. 267, laddove la giunta comunale ha una competenza residuale, potendo compiere tutti gli atti che dalla legge non sono riservati al consiglio comunale ovvero che non ricadono, secondo le previsioni legislative o dello statuto, nelle competente del Sindaco (Cons. St., sez. V, 13.12.2005, n. 7058, più recentemente ex multis, sez. V, 15.07.2013, n. 3809; 02.02.2012, n. 539).
Con riferimento ad una fattispecie di decadenza del privato da una convenzione attributiva del diritto di superficie è stato affermato che, mentre spetta al consiglio comunale, ai sensi del citato articolo 42, di esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilievo generale e gli atti fondamentali di natura programmatoria, tra cui gli atti di disposizione del patrimonio immobiliare, compresa l'approvazione della cessione del diritto di superficie di aree di proprietà comunale, rientra nella competenza della Giunta, ai sensi del successivo art. 48 del D.Lgs. n. 267 del 2000, l’attuazione degli indirizzi generali dell’organo consiliare, ivi compresa la deliberazione di decadenza (del privato dalla convenzione che attribuisce il diritto di superficie), tale deliberazione non potendo essere considerata un "contrarius actus" non contenendo una diversa (e contraria) volontà rispetto a quella (originariamente) manifestata dall'organo consiliare, ma costituendo piuttosto una esecuzione dell'indirizzo generale del Consiglio trasfuso nella convenzione (Cons. St., sez. V, 17.09.2010, n. 6982)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.06.2014 n. 3137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In tema di risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive, sebbene sia stato affermato che la gravità dell’inadempimento deve essere accertata non solo in relazione all’entità oggettiva dell’inadempimento stesso, ma anche con riguardo all’interesse che l’altra parte intende realizzare e sulla base, quindi, di un criterio che consenta di coordinare l’elemento oggettivo della mancata prestazione, nel quadro dell’economia generale del contratto, con gli elementi soggettivi, è stato anche rilevato che la valutazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1455 c.c., della non scarsa importanza dell’inadempimento, deve ritenersi implicita ove l’inadempimento stesso si sia verificato con riguardo alle obbligazioni primarie ed essenziali del contratto.
Inoltre, è stato evidenziato che il principio sancito dall’art. 1455 c.c., secondo cui il contratto non può essere risolto se l’inadempimento ha scarsa importanza in relazione all’interesse dell’altra parte, deve essere coordinato ed ancorato ad un criterio di proporzione fondato sulla buona fede contrattuale, con la conseguenza che la gravità dell’inadempimento di una parte non può essere commisurata unicamente all’entità del danno, che potrebbe anche mancare, ma anche alla rilevanza della violazione del contratto con riferimento alla volontà manifestata dai contraenti, alla natura e alla finalità del rapporto, nonché al concreto interesse dell’altra parte alla esatta e tempestiva prestazione.

La Sezione osserva che, in tema di risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive, sebbene sia stato affermato che la gravità dell’inadempimento deve essere accertata non solo in relazione all’entità oggettiva dell’inadempimento stesso, ma anche con riguardo all’interesse che l’altra parte intende realizzare e sulla base, quindi, di un criterio che consenta di coordinare l’elemento oggettivo della mancata prestazione, nel quadro dell’economia generale del contratto, con gli elementi soggettivi (Cass. civ., sez. II, 06.03.2012, n. 3477), è stato anche rilevato che la valutazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1455 c.c., della non scarsa importanza dell’inadempimento, deve ritenersi implicita ove l’inadempimento stesso si sia verificato con riguardo alle obbligazioni primarie ed essenziali del contratto (Cass. civ., sez. I, 28.10.2011, n. 22521; 23.01.2006, n. 1227).
Inoltre, è stato evidenziato (Cass. civ., sez. III, 28.06.2010, n. 14363) che il principio sancito dall’art. 1455 c.c., secondo cui il contratto non può essere risolto se l’inadempimento ha scarsa importanza in relazione all’interesse dell’altra parte, deve essere coordinato ed ancorato ad un criterio di proporzione fondato sulla buona fede contrattuale, con la conseguenza che la gravità dell’inadempimento di una parte non può essere commisurata unicamente all’entità del danno, che potrebbe anche mancare, ma anche alla rilevanza della violazione del contratto con riferimento alla volontà manifestata dai contraenti, alla natura e alla finalità del rapporto, nonché al concreto interesse dell’altra parte alla esatta e tempestiva prestazione
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.06.2014 n. 3137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In sede di gara d'appalto, laddove le necessarie dichiarazioni rese ex art. 38, d.lgs. n. 163 del 2006 siano presenti, la relativa rilevanza non può reputarsi incisa dalla mera presenza della precisazione «per quanto a sua conoscenza», in quanto se la dichiarazione assume tutti i connotati necessari ai sensi dell'art. 38 cit., l'inciso predetto, all'evidenza, non fa che ribadire, in termini tanto informali quanto comunque irrilevanti ai fini di contestazione giurisdizionale, ciò che è proprio di ogni dichiarazione resa da un soggetto, il quale riferisce ciò che è a propria conoscenza.
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La dichiarazione sostitutiva (autocertificazione) richiesta dall'art. 38 d.lgs. 12.04.2006 n. 163 al legale rappresentante delle imprese concorrenti alle gare per l'affidamento di appalti pubblici, relativamente ai soggetti cessati dalle cariche sociali, previste dal medesimo art. 38, nel triennio antecedente (e concernente l'assenza di atti o fatti impeditivi espressamente indicati dalla medesima disposizione) deve sicuramente indicare tutti tali soggetti, identificandoli compiutamente, e tuttavia, in quanto concernente stati, fatti e qualità riguardanti terzi, e non il medesimo dichiarante, non può che essere resa, ai sensi dell'art. 47, t.u. 28.12.2000 n. 445 "per quanto a conoscenza" del dichiarante medesimo, senza che questi sia neppure tenuto (né l'eventuale omissione può costituire causa di esclusione dalla gara) a indicare le ragioni per le quali non ha potuto produrre le dichiarazioni dei diretti interessati, ben potendo, invece, l'amministrazione -a fronte di una compiuta identificazione di questi ultimi- procedere essa alle opportune verifiche, anche attraverso il casellario giudiziale e altri archivi pubblici ai quali la stessa, a differenza del dichiarante, ha accesso; inoltre gli obblighi gravanti sul legale rappresentate vanno valutati in termini di buona fede quando i fatti da attestare riguardano soggetti cessati dalla carica, e dunque ormai terzi rispetto alla società dichiarante.

Con il primo mezzo di censura l'Istituto di Vigilanza Cannas deduce l'erroneità della gravata sentenza, laddove ha ritenuto conforme alle prescrizioni del bando la dichiarazione sostitutiva relativa all'insussistenza di alcuna delle ipotesi di cui all'art. 38, comma 1, del D.Lgs. 163/2006 resa dal legale rappresentante di GPR Security, per quanto a propria conoscenza, relativamente ai soggetti cessati dalle cariche sociali.
Assume, al riguardo, che l'art. 5.1 del bando richiede a pena di esclusione che la dichiarazione sia resa o dai soggetti cessati dalle cariche oppure dall'attuale legale rappresentante ma, in questo caso, specificando le circostanze che rendono impossibile o eccessivamente gravosa la produzione della dichiarazione da parte dei soggetti interessati.
Nel caso di specie, viceversa, la dichiarazione sostitutiva non indica le dette circostanze e la violazione di tale prescrizione avrebbe quindi dovuto condurre all'esclusione della GPR Security dalla procedura di gara.
La doglianza non può essere condivisa.
Ed invero, in primo luogo, la dichiarazione come resa è sufficiente a dare conto dell'insussistenza di alcuna delle ipotesi di cui al citato art. 38, comma 1 e, correttamente, il primo giudice ha argomentato al riguardo che "in sede di gara d'appalto, laddove le necessarie dichiarazioni rese ex art. 38, d.lgs. n. 163 del 2006 siano presenti, la relativa rilevanza non può reputarsi incisa dalla mera presenza della precisazione «per quanto a sua conoscenza», in quanto se la dichiarazione assume tutti i connotati necessari ai sensi dell'art. 38 cit., l'inciso predetto, all'evidenza, non fa che ribadire, in termini tanto informali quanto comunque irrilevanti ai fini di contestazione giurisdizionale, ciò che è proprio di ogni dichiarazione resa da un soggetto, il quale riferisce ciò che è a propria conoscenza.".
In secondo luogo, secondo l’insegnamento della giurisprudenza, anche della Sezione, da cui non sussiste motivo per discostarsi, “la dichiarazione sostitutiva (autocertificazione) richiesta dall'art. 38 d.lgs. 12.04.2006 n. 163 al legale rappresentante delle imprese concorrenti alle gare per l'affidamento di appalti pubblici, relativamente ai soggetti cessati dalle cariche sociali, previste dal medesimo art. 38, nel triennio antecedente (e concernente l'assenza di atti o fatti impeditivi espressamente indicati dalla medesima disposizione) deve sicuramente indicare tutti tali soggetti, identificandoli compiutamente, e tuttavia, in quanto concernente stati, fatti e qualità riguardanti terzi, e non il medesimo dichiarante, non può che essere resa, ai sensi dell'art. 47, t.u. 28.12.2000 n. 445 "per quanto a conoscenza" del dichiarante medesimo, senza che questi sia neppure tenuto (né l'eventuale omissione può costituire causa di esclusione dalla gara) a indicare le ragioni per le quali non ha potuto produrre le dichiarazioni dei diretti interessati, ben potendo, invece, l'amministrazione -a fronte di una compiuta identificazione di questi ultimi- procedere essa alle opportune verifiche, anche attraverso il casellario giudiziale e altri archivi pubblici ai quali la stessa, a differenza del dichiarante, ha accesso; inoltre gli obblighi gravanti sul legale rappresentate vanno valutati in termini di buona fede quando i fatti da attestare riguardano soggetti cessati dalla carica, e dunque ormai terzi rispetto alla società dichiarante” (sez. IV, 22.03.2012, n. 1646; sez. V, 20.06.2011, n. 3686).
Infine, come correttamente rilevato dal Tar, la domanda di partecipazione e le relative dichiarazioni sono state redatte dal legale rappresentante della GPR Security compilando diligentemente i moduli allegati al disciplinare di gara e, di questi, né il Modello 1 che titola "Istanza di partecipazione a procedura aperta Dichiarazione in ordine al possesso dei requisiti", né il Modello 2 relativo alle "Dichiarazioni personali" riportano o richiamano la prescrizione di cui all'art. 5.1. del bando circa le specifiche modalità con cui rendere la dichiarazione ai sensi dell'art. 38 del D.Lgs. 163/2006.
Pertanto, in ossequio ai principi di tutela dell'affidamento e della più ampia partecipazione alle gare ad evidenza pubblica, deve ragionevolmente escludersi che la discrepanza tra le prescrizioni del bando ed i modelli a questo allegati si risolva a scapito dei concorrenti che hanno incolpevolmente confidato sulla completezza della modulistica predisposta dalla stessa stazione appaltante (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.06.2014 n. 3132 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In sede di adozione e/o approvazione di uno strumento urbanistico generale le scelte di zonizzazione dell’Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito e/o sono caratterizzate da un amplissimo margine di discrezionalità, sottratto al sindacato di legittimità del Giudice Amministrativo, eccetto i casi in cui siano inficiate da errori di fatto e/o da abnormi illogicità o palese irragionevolezza.
Inoltre, lo stesso orientamento giurisprudenziale precisa che le scelte discrezionali, contenute in uno strumento urbanistico generale, non necessitano di una motivazione specifica, eccetto alcuni casi, come per es. il superamento degli standards minimi di cui al D.M. n. 1444 del 02.04.1968 o con riferimento a terreni già oggetto di convenzione di lottizzazione e/o di provvedimenti di diniego di permesso di costruire, annullati dal Giudice Amministrativo.
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Le variazioni apportate allo strumento urbanistico adottato, derivanti dall’accoglimento delle osservazioni e/o opposizioni presentate dai soggetti privati, comportano l’obbligo di riadottare lo strumento urbanistico, con la ripetizione di una nuova fase di pubblicazione, per consentire ai soggetti privati la presentazione di eventuali ulteriori osservazioni e/o opposizioni, esclusivamente nell’ipotesi, insussistente nella specie, in cui l’accoglimento delle osservazioni abbia comportato una profonda deviazione dai criteri posti a base dello stesso piano.
Parimenti sussiste l’obbligo della riadozione dello strumento urbanistico e della sua nuova pubblicazione nel caso di variazioni delle previsioni dello strumento urbanistico adottato, che non derivano dall’accoglimento delle osservazioni e/o opposizioni dei soggetti privati o dalle osservazioni formulate dalla Regione, ma da modifiche apportate d’ufficio dal Comune, come quelle che per es. modificano il regime giuridico dei terreni da privato a pubblico, in quanto in tal caso i soggetti privati verrebbero privati del potere, garantito dall’ordinamento giuridico, di presentare osservazioni e/o opposizioni.

Il primo motivo di impugnazione non può essere accolto, in quanto, secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale (sul punto cfr. le Sentenze di questo Tribunale nn. 596, 597, 598, 600 e 602 del 16.12.2011), in sede di adozione e/o approvazione di uno strumento urbanistico generale le scelte di zonizzazione dell’Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito e/o sono caratterizzate da un amplissimo margine di discrezionalità, sottratto al sindacato di legittimità del Giudice Amministrativo, eccetto i casi in cui siano inficiate da errori di fatto e/o da abnormi illogicità o palese irragionevolezza.
Inoltre, lo stesso orientamento giurisprudenziale precisa che le scelte discrezionali, contenute in uno strumento urbanistico generale, non necessitano di una motivazione specifica, eccetto alcuni casi, come per es. il superamento degli standards minimi di cui al D.M. n. 1444 del 02.04.1968 o con riferimento a terreni già oggetto di convenzione di lottizzazione e/o di provvedimenti di diniego di permesso di costruire, annullati dal Giudice Amministrativo (cfr. C.d.S. Ad. Plen. Sent. n. 1 dell’08.01.1986).
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Il terzo motivo di impugnazione non coglie nel segno, in quanto, secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale (cfr. C.d.S. Sez. IV Sent. n. 5357 dell’11.10.2007; C.d.S. Sez. IV Sent. n. 4984 del 05.09.2004; C.d.S. Sez. IV Sent. n. 4980 del 05.09.2004; C.d.S. Sez. IV Sent. n. 6178 del 20.11.2000; TAR Pescara Sent. n. 30 del 12.01.2009; TAR Piemonte Sez. I sent. n. 2074 del 25.09.2008; TAR Catania Sez. I sent. n. 1395 del 06.09.2007; TAR Brescia Sent. n. 862 del 04.07.2006; TAR Marche Sent. n. 1505 del 27.09.2004; TAR Pescara Sent. n. 16 del 15.01.2004; TAR Bologna Sez. I Sent. n. 2731 del 22.12.2003), le variazioni apportate allo strumento urbanistico adottato, derivanti dall’accoglimento delle osservazioni e/o opposizioni presentate dai soggetti privati, comportano l’obbligo di riadottare lo strumento urbanistico, con la ripetizione di una nuova fase di pubblicazione, per consentire ai soggetti privati la presentazione di eventuali ulteriori osservazioni e/o opposizioni, esclusivamente nell’ipotesi, insussistente nella specie, in cui l’accoglimento delle osservazioni abbia comportato una profonda deviazione dai criteri posti a base dello stesso piano.
Parimenti sussiste l’obbligo della riadozione dello strumento urbanistico e della sua nuova pubblicazione nel caso di variazioni delle previsioni dello strumento urbanistico adottato, che non derivano dall’accoglimento delle osservazioni e/o opposizioni dei soggetti privati o dalle osservazioni formulate dalla Regione, ma da modifiche apportate d’ufficio dal Comune, come quelle che per es. modificano il regime giuridico dei terreni da privato a pubblico, in quanto in tal caso i soggetti privati verrebbero privati del potere, garantito dall’ordinamento giuridico, di presentare osservazioni e/o opposizioni
(TAR Basilicata, sentenza 23.06.2014 n. 414 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Deve ritenersi che le associazioni di volontariato e/o le ONLUS hanno la capacità di svolgere attività commerciali e produttive e, dunque, possono anche partecipare ai procedimenti di evidenza pubblica, quando non risulta dimostrato che la partecipazione al relativo appalto pubblico non abbia il carattere della marginalità.
Ad ulteriore riprova della circostanza che non vi sia alcuna norma, che impedisce alle associazioni di volontariato e/o alle ONLUS di partecipare ai procedenti di evidenza pubblica, il medesimo orientamento giurisprudenziale ha evidenziato che il D.Lg.vo n. 155/2006 ha qualificato tali persone giuridiche come “imprese sociali”, riconoscendo ad esse la legittimazione ad esercitare in via stabile e principale un’attività economica organizzata, anche se non lucrativa, per la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale.
Inoltre, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la Sentenza del 23.12.2009 nella causa n. 305/2008 ha ribadito che la normativa comunitaria deve essere interpretata nel senso che non può essere impedita la partecipazione alle gare di pubblici appalti ai “soggetti che non perseguono preminente scopo di lucro, non dispongono della struttura organizzativa di un’impresa e non assicurano una presenza regolare sul mercato”.
Pertanto, dopo quest’ultima Sentenza il Giudice Amministrativo ha stabilito che l’assenza di fini di lucro non esclude che le associazioni di volontariato e/o le ONLUS, anche se non iscritte alla Camera di Commercio o al Registro delle imprese, possano esercitare un’attività economica non costituendo l’iscrizione alla CCIAA un requisito indefettibile di partecipazione alle gare di appalto.

Secondo un consistente orientamento giurisprudenziale, formatosi al momento della proposizione del ricorso in esame, doveva essere impedita la partecipazione alle gare di appalti pubblici alle Associazioni di Volontariato e/o alle Organizzazioni non lucrative di utilità sociale (cd. ONLUS), in quanto ciò avrebbe provocato “un’alterazione della logica di mercato ed una turbativa al principio della libera concorrenza, a causa delle particolari agevolazioni fiscali di cui godono per il carattere non commerciale della loro attività istituzionale, non applicabili alle Cooperative: cfr. artt. 111, 111-bis e 111-ter DPR n. 917 del 22.12.1987 e le norme in materia di esenzione dall’IVA” (sul punto cfr. per es. TAR Lombardia Sez. III n. 1869 del 03.03.2000; TAR Lecce Sez. II n. 5806 del 05.09.2003; TAR Piemonte Sez. II n. 1043 del 18.04.2005; TAR Napoli Sez. I n. 3109 del 21.03.2006; TAR Piemonte Sez. II n. 2323 del 12.06.2006; TAR Piemonte Sez. II n. 3330 del 04.10.2006; TAR Veneto Sez. I n. 2034 del 25.06.2007; TAR Napoli Sez. I n. 1666 del 31.03.2008; CONTRA TAR Piemonte Sez. II n. 2427 del 15.12.2001).
Tale orientamento giurisprudenziale è stato, però, successivamente superato dal Giudice Amministrativo (cfr. da ultimo C.d.S. Sez. III n. 2056 del 15.04.2013; C.d.S. Sez. VI n. 387 del 23.01.2013), con la statuizione che le associazioni di volontariato possono essere aggiudicatarie di gare di pubblici appalti, in quanto l’assenza di fine di lucro non è di per sé ostativa della partecipazione ad appalti pubblici.
Ciò, in seguito all’affermazione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea -Sentenza del 29.11.2007 nella causa n. 119/2006- secondo cui “l’assenza di fini di lucro non esclude che le associazioni di volontariato esercitino un’attività economica e costituiscano imprese ai sensi delle disposizioni del Trattato istitutivo dell’Unione Europea relative alla concorrenza”.
Il più recente orientamento giurisprudenziale sul punto ha anche rilevato che l’assenza di preclusioni alla partecipazione alle gare di pubblici appalti delle associazioni di volontariato si evince anche dall’art. 5, comma 1, della L. n. 266/1991, in quanto tale norma, nell’indicare le risorse economiche delle ONLUS, menziona, oltre ai “rimborsi derivanti dalle convenzioni” (cfr. lett. F), anche le “entrate derivanti da attività commerciali e produttive marginali” (cfr. lett. G).
Perciò, deve ritenersi che le associazioni di volontariato e/o le ONLUS hanno la capacità di svolgere attività commerciali e produttive e, dunque, possono anche partecipare ai procedimenti di evidenza pubblica, quando non risulta dimostrato che la partecipazione al relativo appalto pubblico non abbia il carattere della marginalità.
Ad ulteriore riprova della circostanza che non vi sia alcuna norma, che impedisce alle associazioni di volontariato e/o alle ONLUS di partecipare ai procedenti di evidenza pubblica, il medesimo orientamento giurisprudenziale ha evidenziato che il D.Lg.vo n. 155/2006 ha qualificato tali persone giuridiche come “imprese sociali”, riconoscendo ad esse la legittimazione ad esercitare in via stabile e principale un’attività economica organizzata, anche se non lucrativa, per la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale.
Inoltre, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la Sentenza del 23.12.2009 nella causa n. 305/2008 ha ribadito che la normativa comunitaria deve essere interpretata nel senso che non può essere impedita la partecipazione alle gare di pubblici appalti ai “soggetti che non perseguono preminente scopo di lucro, non dispongono della struttura organizzativa di un’impresa e non assicurano una presenza regolare sul mercato”.
Pertanto, dopo quest’ultima Sentenza il Giudice Amministrativo (cfr. C.d.S. Sez. V n. 6528 del 10.9.2010; C.d.S. Sez. V n. 5956 del 26.08.2010; TAR Milano Sez. I n. 2614 del 03.11.2011) ha stabilito che l’assenza di fini di lucro non esclude che le associazioni di volontariato e/o le ONLUS, anche se non iscritte alla Camera di Commercio o al Registro delle imprese, possano esercitare un’attività economica non costituendo l’iscrizione alla CCIAA un requisito indefettibile di partecipazione alle gare di appalto.
Pertanto, va annullato l’impugnato provvedimento di esclusione dalla gara dell’Associazione di Volontariato Croce Bianca e da tale annullamento discende automaticamente che l’aggiudicazione dell’appalto in questione spettava alla ricorrente, poiché, tra i due concorrenti rimasti in gara, era quella che aveva offerto il prezzo più basso (TAR Basilicata, sentenza 23.06.2014 n. 411 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L’art. 9 della legge n. 447/95, in presenza di eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell'ambiente, attribuisce al Sindaco, al Presidente della Provincia, al Presidente della Giunta regionale, al Prefetto, al Ministro dell'Ambiente, ed al Presidente del Consiglio dei Ministri, nell'ambito delle rispettive competenze, la possibilità di ordinare in via contingibile ed urgente il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore. In particolare, nel caso di servizi pubblici essenziali tale facoltà è riservata al Presidente del Consiglio dei Ministri.
Alla luce della predetta disposizione, ritiene il Collegio che sia fondata la dedotta eccezione di incompetenza del Comune di Potenza.
Infatti, la gestione del servizio attinente alla rete autostradale e alle strade di grande comunicazione costituisce un servizio pubblico essenziale alla stregua di quanto disposto dall'art. 3, comma 1, lett. i), della legge 447/1995 e dal c.c.n.l. 06.07.1995, artt. 1, lett. f) e 2, n. 8, di modo che, nella specie, la configurabilità di competenze comunali deve essere esclusa in radice, anche avuto riguardo al fatto che la rete stradale in concessione della Società ricorrente ha una estensione così ampia da non tollerare interventi frammentati.
Ne deriva che il potere di ordinanza riferito al contenimento dell'inquinamento acustico derivante da tale servizio non può che essere attribuito, come la disposizione sopra indicata chiaramente prevede, al Presidente del Consiglio dei Ministri.

Nel merito, il ricorso è fondato nei sensi di cui in motivazione.
2.2. Il Collegio ritiene preminente la disamina della prospettata incompetenza del Comune di Potenza ad emanare provvedimenti contingibili e urgenti in materia di inquinamento acustico ove vengano in considerazione, come nella presente fattispecie, servizi pubblici essenziali.
2.3. L’art. 9 della legge n. 447/95, in presenza di eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute pubblica o dell'ambiente, attribuisce al Sindaco, al Presidente della Provincia, al Presidente della Giunta regionale, al Prefetto, al Ministro dell'Ambiente, ed al Presidente del Consiglio dei Ministri, nell'ambito delle rispettive competenze, la possibilità di ordinare in via contingibile ed urgente il ricorso temporaneo a speciali forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni sonore. In particolare, nel caso di servizi pubblici essenziali tale facoltà è riservata al Presidente del Consiglio dei Ministri.
Alla luce della predetta disposizione, ritiene il Collegio che sia fondata la dedotta eccezione di incompetenza del Comune di Potenza. Infatti, la gestione del servizio attinente alla rete autostradale e alle strade di grande comunicazione costituisce un servizio pubblico essenziale alla stregua di quanto disposto dall'art. 3, comma 1, lett. i), della legge 447/1995 e dal c.c.n.l. 06.07.1995, artt. 1, lett. f) e 2, n. 8, di modo che, nella specie, la configurabilità di competenze comunali deve essere esclusa in radice, anche avuto riguardo al fatto che la rete stradale in concessione della Società ricorrente ha una estensione così ampia da non tollerare interventi frammentati (cfr. TAR Toscana, sez. II, 15.03.2002, n. 494).
Ne deriva che il potere di ordinanza riferito al contenimento dell'inquinamento acustico derivante da tale servizio non può che essere attribuito, come la disposizione sopra indicata chiaramente prevede, al Presidente del Consiglio dei Ministri (cfr. TAR Umbria, 11.11.2008, n. 722).
2.4. Inoltre, la predisposizione dei “piani di contenimento ed abbattimento del rumore”, quale strumenti specifici idonei ad affrontare le problematiche del rumore derivante dai “servizi pubblici di trasporto” e dalle “relative infrastrutture”, è prevista dall’articolo 10, comma 5, “in deroga” alle previsioni sanzionatorie che assistono i poteri di intervento sanciti dalla legge quadro, compreso quello di ordinanza di cui all’articolo 9, comma 1, quale che sia il livello di competenza al quale debba essere esercitato, e per detti piani il controllo del rispetto della loro attuazione è demandato al Ministero dell'Ambiente, non prevedendo, peraltro, la legge n. 447/1995 sanzioni specifiche per la mancata, ritardata, difforme predisposizione o attuazione dei piani.
2.5. A tali rilievi, di portata assorbente, deve poi aggiungersi come nel provvedimento impugnato non venga dato alcun conto dei presupposti legittimanti l’esercizio dei poteri di ordinanza, segnatamente con riguardo alla mancanza di qualsivoglia riferimento all’esistenza di una situazione di eccezionale ed urgente necessità di tutela della salute pubblica o dell'ambiente, come richiesto dall’art. 9 della ripetuta legge n. 447/95 (cfr. TAR Toscana, sez. II, 12.07.2010, n. 2501).
2.6. D’altra parte, la portata applicativa della disciplina, così ricostruita, non appare illogica o priva di ratio, se si considera la vastità degli impatti acustici collegati alla viabilità, di regola preesistente agli insediamenti abitativi, nonché l’esigenza di assicurare ai gestori dei relativi servizi pubblici ed infrastrutture la possibilità di effettuare interventi organici e programmati secondo modalità e tempi che contemperino la salvaguardia delle posizioni individuali con la gestione complessiva del servizio, impregiudicata, naturalmente, l’attivazione di ogni ulteriore forma di tutela della salute.
2.7. Può aggiungersi che l’iniziativa del Comune di Potenza, così come quella del controinteressato, dalla cui segnalazione ha avuto origine la problematica, potrà essere rivolta ad ottenere, da parte del gestore della strada e delle Amministrazioni statali competenti, la concreta attuazione dell’articolo 10, comma 5, della legge n. 447/1995 (cfr. TAR Umbria, 07.12.2011, n. 411) (TAR Basilicata, sentenza 23.06.2014 n. 410 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L’emanazione di un atto di secondo grado, quale annullamento d’ufficio, revoca o decadenza, incidente su posizioni giuridiche originate da un precedente atto, deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, salve eventuali ragioni di urgenza, da esplicitare adeguatamente nella motivazione del provvedimento, e salvi i casi in cui all'interessato sia stato comunque consentito di evidenziare i fatti e gli argomenti a suo favore.
Sul punto, va richiamato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui l’emanazione di un atto di secondo grado, quale annullamento d’ufficio, revoca o decadenza, incidente su posizioni giuridiche originate da un precedente atto, deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, salve eventuali ragioni di urgenza, da esplicitare adeguatamente nella motivazione del provvedimento, e salvi i casi in cui all'interessato sia stato comunque consentito di evidenziare i fatti e gli argomenti a suo favore (cfr. C.d.S., sez. VI, 26.10.2006, n. 6413; id., sez. V, 18.11.2004, n. 7553; TAR Campania, sez. VII, 25.03.2013, n. 1618) (TAR Basilicata, sentenza 23.06.2014 n. 409 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Accesso agli atti: è diritto soggettivo perfetto e ricomprende anche i documenti su supporto informatico.
Il TAR per la Calabria, sezione di Reggio Calabria, fissa due punti importanti a favore della natura di ^diritto perfetto^ dell'accesso ai documenti amministrativi, stabilendo che esso può essere esercitato a prescindere: (a) dalla ammissibilità della domanda giudiziale eventualmente proponibile sulla base dei documenti richiesti, (b) dalla natura del supporto materiale del documento e (c) dall'origine degli stessi.
Oppone l’INPS la non accessibilità di documenti da questa detenuta su supporto informatico motivando in ragione del fatto che la domanda di accesso sarebbe inammissibile in quanto trattasi di documenti dall'Istituto semplicemente detenuti in copia informatica e in ogni caso relativi ad avvisi di addebito non impugnati per tempo e per i quali andrebbe esclusa ogni possibilità di gravame con conseguente inesistenza dell’utilità dell’accesso.
Il TAR Calabria, con sentenza ampiamente motivata e ricca di spunti interdisciplinari:
1. esclude che l’asserita formazione di una preclusione giudiziaria al gravame di atti esecutivi o di accertamento tributario ne ostacoli l’accesso ai relativi documenti da parte dell’interessato, dovendosi riconoscere nell’istituto del diritto di accesso il riconoscimento normativo di un più generale interesse a conoscere, che trova limite solo in non ammesse finalità ispettive o di controllo, e che rappresenta lo strumento indispensabile di un maturo rapporto tra cittadino ed istituzioni (tra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 09.03.2011, n. 1492, secondo cui la legittimazione all'esercizio del diritto di accesso "è nozione diversa e più ampia rispetto all'interesse all'impugnativa");
2. esclude che la natura informatica del supporto cui il documento accede possa essere di ostacolo all'esercizio del diritto di accesso, vero che ai sensi della lett. “d” dell'art. 22 della l. 241/1990 ai fini dell’esercizio del diritto di accesso si intende per documento amministrativo ogni rappresentazione di qualunque specie del contenuto di atti, quindi di tipo grafico, fotografico o elettronico, anche interno o non relativo ad uno specifico procedimento, detenuta da una pubblica amministrazione;
3. ricorda come la nozione accolta dalla norma menzionata da un lato si rivela coerente con il più antico ed autorevole insegnamento, secondo cui è “documento” quella entità che è idonea a rappresentare atti o fatti giuridicamente rilevanti, o anche solo storici, e dall'altro ha valore anche interdisciplinare, essendo coerente con quella accolta sia nel Codice Civile VI libro sulla Tutela dei Diritti, così come nella legislazione speciale (DPR 513/1997, art. 10, DPR 445/2000, Dlgs 10/2002, DPR 137/2003, Dlgs 82/2005);
4. conclude nel senso di ritenere soggetti all’accesso anche quelle documentazioni che siano tenute con sistemi informatici e che includano atti o documenti formati da altre PA rispetto a quella emanante il provvedimento finale, laddove siano parti dell’istruttoria (commento tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it - TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 20.06.2014 n. 274 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nel procedimento di affidamento di lavori pubblici le pubbliche amministrazioni se, stipulato il contratto di appalto, rinvengano sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione ma devono esercitare il diritto potestativo regolato dall’art. 134 del d.lgs. n. 163 del 2006.
3. L’Adunanza plenaria ritiene, per le ragioni che seguono, che, intervenuta la stipulazione del contratto per l’affidamento dell’appalto di lavori pubblici, l’amministrazione non può esercitare il potere di revoca dovendo operare con l’esercizio del diritto di recesso.
3.1. Ai sensi del codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. n. 163 del 2006 (in seguito anche “codice”), la fase della scelta del contraente, conclusa con l’aggiudicazione definitiva, risulta distinta da quella, successiva, della stipulazione e conseguente esecuzione del contratto, pur costituendone il necessario presupposto funzionale, considerato che l’aggiudicazione definitiva non equivale ad accettazione dell’offerta (art. 11, comma 7, primo periodo, del codice) e che, pur divenuta efficace l’aggiudicazione definitiva, prima della stipulazione resta comunque salvo “L’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti” (art. 11, comma 9). Il vincolo sinallagmatico nasce perciò soltanto con il separato e distinto atto della stipulazione del contratto quando, essendo stata fino a quel momento irrevocabile soltanto l’offerta dell’aggiudicatario (art. 11, comma 7, secondo periodo), l’amministrazione a sua volta si impegna definitivamente.
3.2. Ciò considerato la giurisprudenza ha affermato che la fase conclusa con l’aggiudicazione ha carattere pubblicistico, in quanto retta da poteri amministrativi attribuiti alla stazione appaltante per la scelta del miglior contraente nella tutela della concorrenza, mentre quella che ha inizio con la stipulazione del contratto e prosegue con l’attuazione del rapporto negoziale ha carattere privatistico ed è quindi retta dalle norme civilistiche (Corte costituzionale, sentenze n. 53 e n. 43 del 2011; Cassazione, Sez. un. civ. n. 391 del 2011; Consiglio di Stato, Sez. III, n. 450 del 2009).
3.3. Nella fase privatistica l’amministrazione si pone quindi con la controparte in posizione di parità che però, è stato anche precisato, è “tendenziale” (Corte Cost. n. 53 e n. 43 del 2011 citate), con ciò sintetizzando l’effetto delle disposizioni per cui, pur nel contesto di un rapporto paritetico, sono apprestate per l’amministrazione norme speciali, derogatorie del diritto comune, definite di autotutela privatistica (Ad. Plen. n. 6 del 2014); ciò, evidentemente, perché l’attività dell’amministrazione, pur se esercitata secondo moduli privatistici, è sempre volta al fine primario dell’interesse pubblico, con la conseguente previsione, su tale presupposto, di regole specifiche e distinte.
3.4. Nel codice dei contratti pubblici sono previste norme con tratti di specialità riguardo specificamente alla fase dell’esecuzione del contratto per la realizzazione di lavori pubblici, cui attiene la questione all’esame.
Ci si riferisce a norme collocate nella Parte II, Titolo III del codice (Disposizioni ulteriori per i contratti relativi ai lavori pubblici) relative alla disciplina del recesso dal contratto e della sua risoluzione, ai sensi, rispettivamente, degli articoli 134-136 del codice (collocate nel Capo II del Titolo III e perciò riferite agli appalti di lavori pubblici ex art. 126 del codice), della risoluzione per inadempimento e, specificamente, della revoca delle concessioni di lavori pubblici in finanza di progetto ai sensi dell’art. 158 del medesimo codice, ovvero della sospensione dei lavori ai sensi dell’art. 158 e seguenti del regolamento di attuazione (d.P.R. 05.10.2010, n. 207).
In questo contesto la specialità della disciplina del recesso emerge non soltanto perché, a fronte della generale previsione civilistica (art. 1373 c.c.), il legislatore ne ha ritenuto necessaria una specifica nella legge sul procedimento (art. 21-sexies) ma in particolare perché l’art. 134, nel concretare il caso applicativo di tale previsione, lo regola in modo diverso rispetto all’art. 1671 c.c., prevedendo il preavviso all’appaltatore e, quanto agli oneri, la forfetizzazione del lucro cessante nel dieci per cento delle opere non eseguite e la commisurazione del danno emergente, fermo il pagamento dei lavori eseguiti, al “valore dei materiali utili esistenti in cantiere” mentre, per il citato art. 1671 c.c., il lucro cessante è dovuto per intero (“il mancato guadagno”) e per il danno emergente vanno rimborsate tutte le spese sostenute.
3.5. Su questa base si ritiene di poter affermare quanto segue.
3.5.1. La posizione dell’amministrazione nella fase del procedimento di affidamento di lavori pubblici aperta con la stipulazione del contratto è definita dall’insieme delle norme comuni, civilistiche, e di quelle speciali, individuate dal codice dei contratti pubblici, operando l’amministrazione, in forza di quest’ultime, in via non integralmente paritetica rispetto al contraente privato, fermo restando che le sue posizioni di specialità, essendo l’amministrazione comunque parte di un rapporto che rimane privatistico, restano limitate alle singole norme che le prevedono.
Ciò rilevato ne consegue che deve ritenersi insussistente, in tale fase, il potere di revoca, poiché: presupposto di questo potere è la diversa valutazione dell’interesse pubblico a causa di sopravvenienze; il medesimo presupposto è alla base del recesso in quanto potere contrattuale basato su sopravvenuti motivi di opportunità (Cass. n. 391 del 2011 cit.; Cons. Stato, Sez. V, 18.09.2008, n. 4455); la specialità della previsione del recesso di cui al citato art. 134 del codice preclude, di conseguenza, l’esercizio della revoca.
Se infatti, come correttamente indicato dal giudice rimettente, nell’ambito della normativa che regola l’attività dell’amministrazione nella fase del rapporto negoziale di esecuzione del contratto di lavori pubblici, è stata in particolare prevista per gli appalti di lavori pubblici una norma che attribuisce il diritto di recesso, non si può ritenere che sul medesimo rapporto negoziale si possa incidere con la revoca, basata su presupposti comuni a quelli del recesso (la rinnovata valutazione dell’interesse pubblico per sopravvenienze) e avente effetto analogo sul piano giuridico (la cessazione ex nunc del rapporto negoziale); richiamato anche che, quando il legislatore ha ritenuto di consentire la revoca “per motivi di pubblico interesse” a contratto stipulato, lo ha fatto espressamente, in riferimento, come visto, alla concessione in finanza di progetto per la realizzazione di lavori pubblici (o la gestione di servizi pubblici; art. 158 del codice).
In caso contrario la norma sul recesso sarebbe sostanzialmente inutile, risultando nell’ordinamento, che per definizione reca un sistema di regole destinate a operare, una normativa priva di portata pratica, dal momento che l’amministrazione potrebbe sempre ricorrere alla meno costosa revoca ovvero decidere di esercitare il diritto di recesso secondo il proprio esclusivo giudizio, conservando in tale modo nel rapporto una posizione comunque privilegiata; fermo restando, come anche richiamato dalla V Sezione, che per l’amministrazione la maggiore onerosità del recesso è bilanciata dalla mancanza dell’obbligo di motivazione e del contraddittorio procedimentale.
3.5.2. Quanto sopra vale in riferimento alla possibilità della revoca nella fase aperta con la stipulazione del contratto nel procedimento per l’affidamento dell’appalto di lavori pubblici, che è l’oggetto specifico del quesito all’esame.
Resta perciò impregiudicata, nell’inerenza all’azione della pubblica amministrazione dei poteri di autotutela previsti dalla legge, la possibilità: a) della revoca nella fase procedimentale della scelta del contraente fino alla stipulazione del contratto; b) dell’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione definitiva anche dopo la stipulazione del contratto, ai sensi dell’art. 1, comma 136, della legge n. 311 del 2004, nonché concordemente riconosciuta in giurisprudenza, con la caducazione automatica degli effetti negoziali del contratto per la stretta consequenzialità funzionale tra l’aggiudicazione della gara e la stipulazione dello stesso (Cass. sezioni unite, 08.08.2012, n. 14260; Cons. Stato: sez III, 23.05.2013, n. 2802; sez. V: 07.09.2011, n. 5032; 04.01.2011, n. 11, 09.04.2010, n. 1998).
Così come, pure nel caso di contratto stipulato, sussiste la speciale previsione in ordine al recesso della stazione appaltante quando si verifichino i presupposti previsti dalla normativa antimafia che la giurisprudenza (Cass. n. n. 391 del 2011 cit.) ha riferito alla nozione dell’autotutela autoritativa, poiché potere “del tutto alternativo a quello generale di cui alla L. n. 2248 del 1865, art. 345, all. F” (oggi art. 134 del codice dei contratti pubblici); qualificazione questa che può ritenersi tuttora valida poiché le stazioni appaltanti, pur nel quadro della normativa oggi vigente in materia, devono comunque valutare l’esistenza delle eccezionali condizioni non comportanti l’altrimenti vincolato esercizio del diritto di recesso (art. 94, commi 2 e 3 del d.lgs. n. 159 del 2011).
3.5.3. In questo quadro si coordina e delimita, ad avviso del Collegio, la previsione della revoca di cui al comma 1-bis dell’art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990, poiché dall’ambito di applicazione della norma risulta esclusa la possibilità di revoca incidente sul rapporto negoziale fondato sul contratto di appalto di lavori pubblici, in forza della speciale e assorbente previsione dell’art. 134 del codice (così, come, per la medesima logica, né è esclusa la revoca di cui all’art. 158 del codice), restando per converso e di conseguenza consentita la revoca di atti amministrativi incidenti sui rapporti negoziali originati dagli ulteriori e diversi contratti stipulati dall’amministrazione, di appalto di servizi e forniture, relativi alle concessioni contratto (sia per le convenzioni accessive alle concessioni amministrative che per le concessioni di servizi e di lavori pubblici), nonché in riferimento ai contratti attivi.
4. Sulla base di quanto esposto l’Adunanza plenaria afferma il seguente principio di diritto: <<Nel procedimento di affidamento di lavori pubblici le pubbliche amministrazioni se, stipulato il contratto di appalto, rinvengano sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione ma devono esercitare il diritto potestativo regolato dall’art. 134 del d.lgs. n. 163 del 2006.>> (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 20.06.2014 n. 14 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (Testo unico edilizia), l’intervento di ristrutturazione è quello comportante la “trasformazione” dell’organismo edilizio mediante “un insieme sistematico” di opere, che possono portare ad un organismo in tutto o “in parte” diverso dal precedente.
Inoltre, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), testo unico citato, sono subordinati al permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia “che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino …modifiche dei…prospetti o delle superfici…”.
In base a tali norme, carattere distintivo della ristrutturazione edilizia è la trasformazione anche parziale dell’organismo edilizio, con un “insieme sistematico di opere”, potendo questo “insieme” consistere in un solo complessivo progetto di intervento o in più interventi puntuali e separati, ma correlati e convergenti al medesimo risultato di trasformazione.
Da qui la conclusione secondo cui “Legittimamente vengono applicate le norme in materia di ristrutturazione edilizia nel caso di opere che, anche se realizzate singolarmente, sono tali da correlarsi in un palese effetto di pur parziale trasformazione dell’organismo edilizio esistente”.
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Nel vagliare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere deve effettuarsene una valutazione globale, avendo presente anche quelle previste nell'eventuale e risalente altro provvedimento edilizio, atteso che “la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione”, ovvero di “scomporla in distinte fasi, cosicché possano individuarsi interventi soggetti ad autorizzazione ed altri soggetti a concessione, ma va valutata nella sua unitarietà e risulta soggetta al regime concessorio”.
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Le opere edilizie abusive “realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione (artt. 7 e 20 della legge n. 47 del 1985) e, se costituenti pertinenze, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione”.
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Anche ove, quanto al titolo edilizio, gli interventi fossero realizzabili a mezzo denuncia di inizio attività (dia), la sanzione demolitoria comminata resiste comunque alle censure di parte ove, come ancora qui accade, irrogata espressamente in ragione, distintamente, dell’assenza della (anche qui dovuta) autorizzazione paesaggistica, oltre che del permesso di costruire, posto che l’art. 27 del d.P.R 380 del 2001 la medesima sanzione prevede in presenza di esecuzione senza titolo di opere in territorio assoggettato al vincolo, anche ove eseguibili a mezzo di dia (o di scia) e posto che, ex combinato disposto fra artt. 22 e 23 T.U. ripetuto, in assenza del previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, il titolo abilitativo edilizio non si forma, ovvero l’attività non può essere intrapresa.
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La possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza oggettiva e da comprovarsi dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi.

7b- Ciò chiarito, come già concluso nella sede cautelare, i dati contenuti nella relazione tecnica del 15.03.2010 non sono idonei a comprovare di essersi in presenza di un intervento qualificabile nel suo complesso come meramente manutentivo, limitandosi sostanzialmente gli stessi a sottolineare la riduttiva portata dei singoli interventi contestati e/o la loro irrilevanza (cambio della destinazione di uso, ritenuto ammissibile stante l’uso promiscuo fra studio professionale ed abitazione) e, quanto alla scala esterna, a sostenere che la stessa non era stata riportata nella Dia “sol perché non erano previste opere su di essa”, fermo che la sua preesistenza sarebbe “riscontrabile analizzando la conformazione dello stato dei luoghi…”.
Ne consegue che regge alle denunce attoree la conclusione dei tecnici comunali (cfr. relazione n. 12685 del 26.11.2009, costituente dichiarato presupposto del provvedimento impugnato e sottoscritti da tecnici diversi dall’arch. Barbieri) secondo cui “l’intero fabbricato è stato interessato da un intervento di ristrutturazione con incremento di superficie utile e cambio di destinazione di uso” e che “tale intervento non poteva essere eseguito con semplice dia, in quanto, secondo il P.T.P., è vietata la ristrutturazione edilizia su fabbricati realizzati in epoca antecedente al 1945”.
Ed invero, già quanto solo alle previsioni primarie, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 06.06.2001 n. 380 (Testo unico edilizia), l’intervento di ristrutturazione è quello comportante la “trasformazione” dell’organismo edilizio mediante “un insieme sistematico” di opere, che possono portare ad un organismo in tutto o “in parte” diverso dal precedente; inoltre, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), testo unico citato, sono subordinati al permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia “che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino …modifiche dei…prospetti o delle superfici…”; in base a tali norme, carattere distintivo della ristrutturazione edilizia è la trasformazione anche parziale dell’organismo edilizio, con un “insieme sistematico di opere”, potendo questo “insieme” consistere in un solo complessivo progetto di intervento o in più interventi puntuali e separati, ma correlati e convergenti al medesimo risultato di trasformazione.
Da qui la conclusione secondo cui “Legittimamente vengono applicate le norme in materia di ristrutturazione edilizia nel caso di opere che, anche se realizzate singolarmente, sono tali da correlarsi in un palese effetto di pur parziale trasformazione dell’organismo edilizio esistente” (Cons. Stato, sezione sesta, 10.03.2014, n. 1084).
7c- A ciò aggiungendosi il costante orientamento della Sezione, dal quale il Collegio non ha ragioni di discostarsi, secondo cui:
- nel vagliare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, come qui accade, deve effettuarsene una valutazione globale, qui avendo presente anche quelle previste nella risalente dia, atteso che “la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione” (cfr. in tali sensi, Tar Campania, Napoli, questa sezione sesta, sentenze n. 5835 del 18.12.2013, n. 1114 del 05.03.2012; n. 26787 del 03.12.2010; 16.04.2010, n. 1993; 25.02.2010, n. 1155; 09.11.2009, n. 7053; Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 11.03.2010, n. 584), ovvero di “scomporla in distinte fasi, cosicché possano individuarsi interventi soggetti ad autorizzazione ed altri soggetti a concessione, ma va valutata nella sua unitarietà e risulta soggetta al regime concessorio” (così la giurisprudenza sopra riportata e così già Tar Puglia, Bari, sezione seconda, 16 luglio 2001, n. 2955);
- le opere edilizie abusive “realizzate in zona sottoposta a vincolo paesistico, si considerano eseguite in totale difformità dalla concessione (artt. 7 e 20 della legge n. 47 del 1985) e, se costituenti pertinenze, non sono suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione” (Tar Campania, questa sesta sezione, ancora n. 5835 del 18.12.2013 e n. 2245 del 30.04.2013, nel cui seno è richiamata Cass. Penale, sezione terza, pronuncia n. 2733 del 31.01.1994);
- anche ove, quanto al titolo edilizio, gli interventi fossero realizzabili a mezzo denuncia di inizio attività (dia), la sanzione demolitoria comminata resiste comunque alle censure di parte ove, come ancora qui accade, irrogata espressamente in ragione, distintamente, dell’assenza della (anche qui dovuta) autorizzazione paesaggistica, oltre che del permesso di costruire, posto che l’art. 27 del d.P.R 380 del 2001 la medesima sanzione prevede in presenza di esecuzione senza titolo di opere in territorio assoggettato al vincolo, anche ove eseguibili a mezzo di dia (o di scia) e posto che, ex combinato disposto fra artt. 22 e 23 T.U. ripetuto, in assenza del previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, il titolo abilitativo edilizio non si forma, ovvero l’attività non può essere intrapresa (Tar Campania, questa sesta sezione, ex multis, sentenze n. 1107 del 05.03.2012, n. 5805 del 14.12.2011 e n. 16995 del 27.07.2010).
7d- Ed a ciò aggiungendosi ancora (pur ferma la visione di insieme da aversi) che (comunque):
- la legittima preesistenza della scala esterna non appare adeguatamente comprovata;
- il cambio di destinazione di uso, abbisognevole in ogni caso di autorizzazione, per quanto qui più rileva appare correlato all’intervento effettuato, sì da non poterne esserne enucleato;
7e- Ne deriva la preannunciata reiezione dei mezzi di impugnazione esaminati.
8- Non può poi trovare ingresso il secondo mezzo di impugnazione, volto a denunciare violazione dell’art. 33 del d.P.R. 380 del 2001, in ragione del pregiudizio che la demolizione arrecherebbe all’intero edificio.
Come ricordato in memoria dal Comune “la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza oggettiva e da comprovarsi dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi” (cfr., ex multis, Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 1122 del 20.02.2014, 07.11.2013, n. 4489 e 05.06.2013, n. 2903, 09.10.2013, n. 4821, 24.07.2012, n. 3538, 18.05.2012, n. 2291, 02.05.2012, n. 2006, 08.04.2011, n. 2039, 15.07.2010, n. 16807 e 14.04.2010, n. 1973; Salerno, sezione seconda, 13.04.2011, n. 702): in tutto o in parte, può qui aggiungersi (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 18.06.2014 n. 3403 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Variante al P.R.G.: il promissario acquirente non è legittimato ad impugnare.
Con sentenza 18.06.2014 n. 1592 il TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
dichiara inammissibile per carenza di legittimazione il ricorso di una società, promissaria acquirente di immobili da costruire in attuazione di un P.I.I., proposto, in via principale, avverso la delibera comunale modificativa del Programma di intervento, e, con motivi aggiunti, avverso i titoli edilizi rilasciati dall'A.C. a seguito della modifica.
Sulla scorta della diversità tra i beni oggetto del preliminare e quelli che sarebbero venuti ad esistenza a seguito della modifica (la differenza, nello specifico, consiste nell'agibilità dei sottotetti degli erigendi immobili, in origine non prevista), la ricorrente propone l'impugnazione e chiede il risarcimento del danno.
Il TAR elabora una sentenza in rito e dichiara l'inammissibilità del ricorso in quanto la società ricorrente, nella sua qualità di promissaria acquirente, è priva della legittimazione necessaria per la sua proposizione.
In linea generale, il Collegio osserva che la legittimazione all'impugnazione di atti costituenti esercizio del potere di pianificazione urbanistica può essere riconosciuta al promissario acquirente solo entro ristretti limiti, in quanto la sua particolare situazione giuridica, titolare di un rapporto meramente obbligatorio, non gli conferisce una posizione di stabile collegamento con la zona coinvolta dalle prescrizioni del piano.
Secondo i Giudici milanesi l'interesse oppositivo al mutamento della disciplina urbanistica dell'area, data la particolarità del ricorrente, è un interesse di fatto meramente eventuale e certamente non attuale, che può venir meno anche sulla base della semplice rinuncia all'acquisto con la stipula del contratto definitivo.
A corroborare l'assunto, la considerazione che anche gli orientamenti meno restrittivi ammettono la legittimazione in casi limitati, e precisamente (a) qualora il promissario acquirente abbia la materiale disponibilità del bene a seguito di preliminare ad effetti anticipati (TAR Campania Napoli, Sez. IV, 12.01.2000, n. 45), (b) nel caso in cui il preliminare contenga una clausola espressa che attribuisca al promissario acquirente la possibilità di richiedere titoli edilizi, (c) nel caso in cui l'atto impugnato sia lesivo degli interessi del proprietario e, di riflesso, anche degli interessi del promissario acquirente.
Nel caso di specie, osserva il TAR, non ricorre alcuna di tali ipotesi, anzi, il proprietario ed il promissario acquirente si trovano in conflitto di interessi, giacché la modifica al P.I.I. oggetto dell'impugnazione era stata richiesta dalla stessa proprietà dell'area.
Da ciò la declaratoria di inammissibilità per carenza di legittimazione ad agire.
L'orientamento restrittivo nel quale si incardina la decisione in commento si fonda su considerazioni di ordine generale in materia di impugnazione di un atto amministrativo.
Com'è noto, il presupposto sostanziale di un ricorso è la lesione attuale di un interesse sostanziale e il suo scopo è quello di ottenere un provvedimento giudiziario idoneo, se favorevole, a rimuovere quella lesione.
Le condizioni soggettive per agire in giudizio sono, infatti, la legittimazione processuale, spettante a coloro che affermano di essere titolari della situazione giuridica sostanziale di cui si lamenta l'ingiusta lesione per effetto dell'atto gravato, e l'interesse a ricorrere, consistente nel vantaggio pratico e concreto che il ricorrente può ottenere dall'accoglimento dell'impugnativa, postulando che l'atto censurato abbia prodotto in via diretta una lesione attuale della posizione giuridica sostanziale dedotta in giudizio.
Ecco allora che nell'ipotesi in cui il ricorrente rivesta il ruolo "decentrato" di promissario acquirente, a ragione sorgono dei dubbi sulla titolarità delle condizioni per agire avverso quel provvedimento.
Nell'alveo dell'orientamento restrittivo si pone una recente pronuncia del Consiglio di Stato, secondo la quale la figura del promissario acquirente non implica l'esistenza di una posizione di interesse legittimo tale da ammettere l'impugnazione di un provvedimento di diniego di concessione edilizia riguardante il terreno oggetto di preliminare, tuttavia, può radicare una posizione dipendente da quella del ricorrente principale, "ad adiuvandum" del quale può dispiegare intervento in giudizio, purché non miri ad eludere i termini di impugnazione da parte di chi risulti titolare di una posizione tutelabile con una propria autonoma impugnativa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.04.2011 n. 2275) (commento tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In linea generale, la legittimazione del promissario acquirente all'impugnazione di atti costituenti esercizio del potere di pianificazione urbanistica, come dei provvedimenti adottati in materia edilizia, può essere riconosciuta solo entro ristretti limiti, in quanto la sua situazione giuridica di titolare di un rapporto obbligatorio non gli conferisce una posizione di stabile collegamento con la zona coinvolta dalle prescrizioni del piano. Il suo interesse oppositivo al mutamento della disciplina urbanistica dell'area è quindi un interesse di fatto meramente eventuale e certamente non attuale potendo venire meno anche sulla base della semplice rinuncia ad effettuare l’acquisto con la stipula del contratto definitivo.
Pertanto, anche gli orientamenti meno restrittivi ammettono la legittimazione esclusivamente nei seguenti casi:
a) nell’ipotesi in cui il promissario acquirente abbia già la materiale disponibilità del bene; il che avviene quando il contratto preliminare prevede la consegna anticipata;
b) nel caso in cui il preliminare di compravendita contenga una clausola espressa che attribuisca al promissario acquirente la possibilità di richiedere il rilascio di titoli edilizi;
c) nel caso in cui l’atto impugnato sia lesivo degli interessi del proprietario e, di riflesso, anche degli interessi del promissario acquirente (in quest’ultima ipotesi parte della giurisprudenza ammette quindi la possibilità per il promissario acquirente di agire direttamente in giudizio per la tutela di un interesse connesso ad un diritto di proprietà non ancora acquisito).

La giurisprudenza non ha un orientamento univoco in materia di legittimazione del promissario acquirente di beni immobili in ordine all’impugnazione degli atti amministrativi di natura urbanistica ed edilizia che li riguardano.
Si osserva comunque, in linea generale, che la legittimazione del promissario acquirente all'impugnazione di atti costituenti esercizio del potere di pianificazione urbanistica, come dei provvedimenti adottati in materia edilizia, può essere riconosciuta solo entro ristretti limiti, in quanto la sua situazione giuridica di titolare di un rapporto obbligatorio non gli conferisce una posizione di stabile collegamento con la zona coinvolta dalle prescrizioni del piano. Il suo interesse oppositivo al mutamento della disciplina urbanistica dell'area è quindi un interesse di fatto meramente eventuale e certamente non attuale potendo venire meno anche sulla base della semplice rinuncia ad effettuare l’acquisto con la stipula del contratto definitivo (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VIII 07.03.2013 n. 1285).
Pertanto, anche gli orientamenti meno restrittivi ammettono la legittimazione esclusivamente nei seguenti casi:
a) nell’ipotesi in cui il promissario acquirente abbia già la materiale disponibilità del bene; il che avviene quando il contratto preliminare prevede la consegna anticipata (cfr. TAR Campania Napoli, sez. IV, 12.01.2000 n. 45);
b) nel caso in cui il preliminare di compravendita contenga una clausola espressa che attribuisca al promissario acquirente la possibilità di richiedere il rilascio di titoli edilizi;
c) nel caso in cui l’atto impugnato sia lesivo degli interessi del proprietario e, di riflesso, anche degli interessi del promissario acquirente (in quest’ultima ipotesi parte della giurisprudenza ammette quindi la possibilità per il promissario acquirente di agire direttamente in giudizio per la tutela di un interesse connesso ad un diritto di proprietà non ancora acquisito) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.06.2014 n. 1592 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOGraduatoria esterna con vincoli. No all'utilizzo di elenchi da altre Pa se l'ente dispone di proprie liste. Personale. Quando i profili richiesti sono scoperti occorre una convenzione per ricorrere a concorsi diversi.
Gli enti locali possono utilizzare graduatorie formate da altre pubbliche amministrazioni stipulando una convenzione anche dopo la conclusione delle prove concorsuali, cioè a graduatoria già formata. Non possono invece utilizzare graduatorie di altre amministrazioni se hanno ancora, per gli stessi profili, delle proprie graduatorie valide.
Sono questi gli importanti principi fissati dalla sentenza 31.03.2014 n. 884 e sentenza 13.06.2014 n. 1482 della II Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Le due pronunce fanno chiarezza sull'applicazione della possibilità di utilizzazione di graduatorie di altre amministrazioni prevista dalle leggi 3 e 350, ambedue del 2003, e rilanciata dal Dl 101/2013.
La ratio della scelta legislativa è spiegata con la volontà di conseguire risparmi di risorse finanziarie e di impegno del personale, nonché di esaurire le graduatorie ancora valide e, perché no, di ridurre i contenziosi.
Il principio di carattere generale posto dal nostro ordinamento è il «generale favore per l'utilizzazione delle graduatorie degli idonei, in quanto strumento che consente agli enti pubblici un notevole risparmio di risorse finanziarie e umane, in conformità agli articoli 81 e 97 della Costituzione».
Sulla scorta di questo principio si può dare risposta al dubbio, che il legislatore «non ha espressamente risolto, relativo al momento in cui deve intervenire il previo accordo fra le amministrazioni interessate cui è subordinato l'utilizzo di graduatorie esterne, discutendosi se esso debba necessariamente precedere l'indizione della procedura concorsuale (prima tesi) o l'approvazione della graduatoria (seconda tesi) oppure se esso possa intervenire anche in un momento successivo (terza tesi)».
Se la volontà del legislatore è quella di privilegiare lo scorrimento delle graduatorie occorre sposare la tesi più estensiva, per cui «la normativa, nel disporre la proroga di graduatorie approvate prima della sua entrata in vigore, logicamente presuppone che l'accordo possa intervenire anche dopo l'approvazione delle suddette graduatorie: diversamente opinando l'utilizzo delle graduatorie esterne già esistenti non potrebbe mai trovare concreta applicazione, restando un'inutile affermazione di principio».
Appare comunque opportuna una postilla: nel caso in cui le amministrazioni decidano di utilizzare graduatorie di altre Pa dopo la conclusione delle procedure concorsuali, quindi sapendo chi è il soggetto da assumere, devono motivare la scelta dell'ente con cui stipulano la relativa convenzione. Ed in ogni caso si deve seguire l'ordine della graduatoria.
Invece le amministrazioni pubbliche non possono utilizzare la graduatoria di un altro ente, se dispongono di una propria graduatoria ancora valida per lo stesso profilo professionale. Questa scelta non contraddice il principio prima affermato perché «il favor ordinamentale per lo scorrimento della graduatoria deve essere inteso, innanzitutto, come preferenza per l'utilizzo delle graduatorie interne (graduatorie approvate dall'ente che ha bandito il concorso) rispetto a quelle esterne formatesi presso altri enti, ancorché similari, da utilizzare solo in via residuale»
(articolo Il Sole 24 Ore del 30.06.2014).

ENTI LOCALI: Società in house: poteri del CdA limitati rispetto al diritto societario.
I giudici del Tar di Torino affrontano, nella sentenza in rassegna, la questione delle società in house detenute congiuntamente da più enti pubblici.
I precedenti della Corte di Giustizia dell'UE hanno più volte chiarito che nel caso in cui venga fatto ricorso ad un'entità posseduta in comune da più autorità pubbliche, il "controllo analogo" può essere esercitato congiuntamente da tali autorità, senza che sia indispensabile che detto controllo venga esercitato individualmente da ciascuna di esse.
Il concetto è stato ribadito dalla giurisprudenza nazionale, nel senso che il requisito del controllo analogo deve essere verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico, sicché è sufficiente che la signoria della mano pubblica sull'ente affidatario, purché effettiva e reale, sia esercitata dagli enti partecipanti nella loro totalità, senza che necessiti una verifica della posizione dominante di ogni singolo ente.
Peraltro, pur non richiedendosi che ciascun partecipante detenga da solo un potere di controllo individuale, nondimeno si esige che il controllo esercitato sull'entità partecipata non si fondi soltanto sulla posizione dominante dell'autorità pubblica che detiene una partecipazione di maggioranza del capitale sociale. È necessario, infatti, che anche il singolo socio possa vantare una posizione più che simbolica, idonea, per quanto minoritaria, a garantirgli una possibilità effettiva di partecipazione alla gestione dell'organismo del quale è parte; sicché, una presenza puramente formale nella compagine partecipata o in un organo comune incaricato della direzione della stessa, non risulterebbe sufficiente.
La giurisprudenza comunitaria sottolinea inoltre la necessità che detto controllo analogo si esplichi sotto forma di partecipazione sia al capitale, sia agli organi direttivi dell'organismo controllato. La giurisprudenza comunitaria non specifica attraverso quali sistemi operativi debba estrinsecarsi la presenza di ciascun socio negli organi direttivi e con quale modalità concreta quest'ultimo debba concorrere al controllo analogo. La prassi conosce svariate meccanismi, fondati ora sulla nomina diretta e concorrente di singoli rappresentanti (uno per ogni socio) in seno al consiglio di amministrazione della società; ora sulla partecipazione mediata agli organi direttivi attraverso la nomina da parte dell'assemblea di consiglieri riservati ai soci di minoranza.
Valida alternativa è offerta dagli strumenti di carattere parasociale, che operano attraverso la predisposizione di organismi di controllo, costituiti dai rappresentanti di ciascun ente locale, muniti di penetranti poteri di verifica preventiva sulla gestione dell'attività ordinaria e straordinaria del soggetto in house, tali da rendere l'organo amministrativo privo di apprezzabile autonomia rispetto alle direttive delle amministrazioni partecipanti. E' dato pacifico in giurisprudenza, infine, che il controllo debba essere esercitato non solo in forma propulsiva ma anche attraverso l'esercizio -in chiave preventiva- di poteri inibitori, volti a disinnescare iniziative o decisioni contrastanti con gli interessi dell'ente locale direttamente interessato al servizio.
In materia di società in house detenute congiuntamente da più enti pubblici, la giurisprudenza non manca di sottolineare la necessità che il relativo consiglio di amministrazione non abbia rilevanti poteri gestionali di carattere autonomo, e che l'ente pubblico affidante (la totalità dei soci pubblici) eserciti, pur se con moduli fondati su base statutaria, poteri di ingerenza e di condizionamento superiori a quelli tipici del diritto societario e caratterizzati da un margine di rilevante autonomia della governance rispetto alla maggioranza azionaria.
Risulta a ciò indispensabile che le decisioni strategiche e più importanti siano sottoposte al vaglio preventivo dell'ente affidante o, in caso di in house frazionato -come nella fattispecie in esame- all'approvazione della totalità degli enti pubblici soci (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -  TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 13.06.2014 n. 1069 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARIIrragionevole il divieto di accesso in spiaggia degli animali. Il ATR Calabria smonta pezzo per pezzo la decisione assunta da un comune.
È illegittima un'ordinanza con la quale il sindaco ordina al fine di tutelare il decoro e l'igiene pubblici nonché la sicurezza dei bagnanti il divieto di condurre in spiaggia animali durante la stagione balneare.

Lo ha affermato il TAR Calabria-Reggio Calabria con la sentenza 28.05.2014 n. 225.
Le ricorrenti deducevano che l'ordinanza balneare gravata imponeva irragionevolmente ai conduttori di animali il divieto (salvo il caso dei cani di salvataggio e dei cani guida di portatori di handicap) di accesso alle spiagge libere, in assenza di una motivazione che giustificasse tale scelta e senza specificare quali cautele comportamentali fossero necessarie per la tutela dell'igiene delle spiagge, ovvero della incolumità dei bagnanti.
Esse deducevano altresì il difetto di motivazione, la manifesta irragionevolezza e la violazione del principio di proporzionalità circa il rapporto tra le esigenze pubbliche da soddisfare e l'incidenza sulle sfere giuridiche dei privati: la totale assenza di motivazione, infatti, non consentiva di apprezzare se esso fosse riferibile a ragioni riconducibili all'igiene dei luoghi ovvero alla sicurezza di chi frequenta le spiagge.
In ogni caso, le ricorrenti sottolineavano che la motivazione del provvedimento avrebbe dovuto contenere una specifica giustificazione delle misure adottate, che consentisse di verificare il rispetto del principio di proporzionalità, poiché l'Autorità comunale avrebbe dovuto individuare le misure comportamentali ritenute più adeguate piuttosto che porre un divieto assoluto di accesso alle spiagge.
I giudici calabresi hanno ritenuto che dette censure meritassero accoglimento.
Innanzitutto, il Collegio ha rilevato un difetto di motivazione anche se l'atto impugnato aveva le caratteristiche di atto generale: in pratica un'ordinanza che vieta delle condotte deve avere un supporto motivazionale, evidenziando quali specifiche esigenze vadano soddisfatte, in correlazione alle limitazioni delle libertà che ne conseguono.
«In sostanza», prosegue la sentenza, «negli atti che rientrano nella categoria in esame la disciplina dell'obbligo di motivazione attiene alla dimostrabilità della ragionevolezza delle scelte operate dalla p.a., che, nella odierna fattispecie, per le ragioni di censura su cui la difesa delle ricorrenti ampiamente si sofferma, e che trovano la condivisione del Collegio, non è ravvisabile».
Altresì, il Tar ha ravvisato un'illegittimità del provvedimento impugnato sotto il profilo della violazione del principio di proporzionalità.
«Il principio di proporzionalità di matrice comunitaria, immanente nel nostro ordinamento», aggiunge il Collegio, «in virtù del richiamo operato dall'art. 1 della legge n. 241/1990, impone alla pubblica amministrazione di optare, tra più possibili scelte ugualmente idonee al raggiungimento del pubblico interesse, per quella meno gravosa per i destinatari incisi del provvedimento, onde evitare agli stessi «inutili sacrifici; nel caso in esame, la mancata esternazione nel provvedimento gravato anche di quale sia l'interesse pubblico concretamente perseguito attraverso l'imposizione del divieto contestato non impedisce la formulazione di un giudizio di sproporzione tra l'atto adottato e il fine con esso perseguito».
«La scelta di vietare l'ingresso agli animali e, conseguentemente, ai loro padroni o detentori, sulle spiagge destinate alla libera balneazione», ha concluso la sentenza, «risulta irragionevole e illogica, oltre che irrazionale e sproporzionata: l'amministrazione avrebbe dovuto valutare se sia possibile perseguire le finalità pubbliche del decoro, dell'igiene e della sicurezza mediante regole alternative al divieto assoluto di frequentazione delle spiagge, ad esempio valutando se limitare l'accesso in determinati orari, o individuare aree adibite anche all'accesso degli animali, con l'individuazione delle aree viceversa interdette al loro accesso» (articolo ItaliaOggi Sette del 30.06.2014).

CONDOMINIO: Edilizia, placet revocato a sentenza non definitiva.
Se la giustizia civile impiega troppo tempo, può ben essere quella amministrativa a far vincere al condominio la sua guerra contro l'asilo nido aperto contro il regolamento dell'edificio: il Comune, infatti, ha la facoltà di revocare l'autorizzazione alla struttura privata, anche se non è ancora definitiva la relativa sentenza emessa dal Tribunale: basta che la pronuncia stabilisca che il proprietario dell'immobile ha affittato l'immobile alla società che gestisce l'attività per la prima infanzia non curandosi delle norme che disciplinano la vita del condominio.

È quanto emerge dalla sentenza 27.05.2014 n. 2726, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di Stato.
Locali inidonei - Troppo frettolosa l'archiviazione da parte degli uffici comunali dopo che il condominio nella zona-bene della Capitale chiede la revoca dell'autorizzazione a gestire l'attività in favore dei bambini piccoli: i residenti dell'immobile di pregio proprio non gradiscono l'andirivieni di mamme, papà, mocciosi e passeggini. Il regolamento parla chiaro: non si possono affittare i locali di proprietà esclusiva a chi gestisce attività che aumenta la «pressione» sull'edificio, in termini di fastidio, rumore e scarsità di parcheggi.
Intendiamoci: il contratto di locazione stipulato fra il proprietario dei locali e la società resta valido. Il punto è che l'incompatibilità dell'asilo con le regole del condominio si riflette anche sul rapporto di autorizzazione all'esercizio dell'attività, dal momento che i locali «incriminati» non risultano idonei all'utilizzo, che non è libero ma deve essere assentito dal Comune: vista la sua particolare natura, infatti, richiede severe prescrizioni ad esempio dal punto di vista igienico.
Tutela anticipata - Non conta, infine, che la sentenza civile che dà ragione al condominio non sia ancora passata in giudicato. Il giudice amministrativo deve guardare solo ai profili pubblici e qui non si tratta di applicare la decisione adottata in sede civile: conta unicamente l'accertamento del fatto storico che risulta avvenuto, vale a dire che nell'immobile di pregio aprire l'asilo è vietato dal regolamento.
L'amministrazione, in tal caso, può dare luogo anche a una tutela anticipata, ritenendo verosimile che la decisione sarà confermata anche in secondo grado (articolo ItaliaOggi Sette del 30.06.2014).

APPALTI: Verbale di gara incompleto: il comune può annullare l’aggiudicazione.
La terza sezione del Consiglio di Stato ha stabilito, nella sentenza in commento, che è legittimo da parte di un comune l'esercizio del potere di annullamento dell'aggiudicazione definitiva ex art. 11, c. 9, del d.lgs. n. 163/2006, per l'incompletezza delle minute a suo tempo redatte in ordine ai lavori della commissione giudicatrice. In assenza di specifica prescrizione nel codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163 del 2006) la redazione del verbale non si impone con carattere di contestualità rispetto a ciascuna seduta della commissione di gara.
Tuttavia, quando ciò non avvenga, occorre che i momenti essenziali in cui si sono articolate le operazioni di gara e, segnatamente, l'espressione in termini numerici dei giudizi di merito di ciascuna offerta, siano annotati con carattere di compiutezza in documenti che, anche se non accompagnati da tutti gli elementi formali in cui si sostanzia il verbale, si presentino idonei a ricostruire ex post con adeguato grado di certezza lo svolgimento del procedimento di gara. Ciò è tanto più necessario nei casi in cui le operazioni di gara si siano protratte per un lungo periodo (nel caso in controversia per cinque mesi) ed il decorso del tempo possa influire sull'esatta ricostruzione delle operazioni espletate in ogni singola adunanza della commissione.
Nel caso di specie, l'incompletezza delle minute a suo tempo redatte in ordine ai lavori della commissione giudicatrice, la contraddizione dei contenuti di esse con lo schema riassuntivo dei giudizi valutativi rassegnato a conclusione dei lavori dal presidente della commissione, l'estromissione del segretario dalla verbalizzante delle sedute -malgrado detta funzione fosse stata ad esso assegnata con apposito provvedimento- introducono evidenti anomalie nel procedimento di gare, in evidente contrasto con i principi di correttezza, trasparenza, efficacia, parità di trattamento e garanzia del confronto concorrenziale enunciati dall'art. 2 del d.lgs. n. 163 del 2006. Pertanto, correttamente il Comune ha esercitato il potere di annullamento dell'aggiudicazione definitiva secondo quanto consentito dall'art. 11, c. 9, del d.lgs. n. 163 del 2006 (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 26.05.2014 n. 2692 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Infrastrutture di telecomunicazioni: sono tenute al rispetto delle distanze previste dai regolamenti locali.
Pur essendo le infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici soggette ad una disciplina unitaria del procedimento autorizzatorio, restano, in ogni caso, nuova costruzione che introducono trasformazione edilizia e urbanistica del territorio.
Come tali sono soggette al rispetto dei regolamenti edilizi in materia di distanza delle costruzioni, dal confine e da altri fabbricati, non potendo questo elemento essere inteso come un indebito limite all’espansione della rete di telecomunicazione.

La recente e significativa pronuncia dei giudici di Palazzo Spada, prende spunto da due provvedimenti emessi da parte di una PA locale nei confronti di un Operatore. In particolare da una prima ingiunzione di immediata sospensione dei lavori, relativi alla realizzazione di una stazione radio base sul rilievo della mancata osservanza della distanza minima dai confini da osservare tra il manufatto shelter ed i confini interni del lotto e dalle strade, e da un successivo provvedimento di annullamento, in autotutela, dell’idonea autorizzazione, già rilasciata al medesimo Operatore ai sensi dell'art. 87 del d.lgs. 259 del 2003, per la realizzazione di una stazione radio.
Il giudice di prime cure -TAR Puglia-sez. staccata di Lecce, sez. II, sent. n. 1136 del 2012–, che aveva già respinto le domande di annullamento dei provvedimenti formulate dall’Operatore, aveva altresì precisato che l’impianto di telecomunicazione, ancorché oggetto della disciplina speciale dettata dagli artt. 86 e 87 del d.lgs. n. 259 del 2003 relativa al rilascio dell’autorizzazione per l’installazione delle infrastrutture di t.l.c., non restava sottratto, in relazione al non contenuto impatto sul territorio del manufatto accessorio (shelter), alla disciplina sulle regole dell’edificazione; oltre al fatto che non venivano in rilievo prescrizioni del Comune che potevano qualificarsi impeditive della capillare espansione sul territorio della rete di telecomunicazione.
A tale proposito il Consiglio di Stato, con la recente sentenza in commento, ha in primo luogo posto l’accento sul dato testuale dell’art. 3, comma 1, lett. e), punto e.4), del d.lgs. n. 380 del 2001, il quale include nella categoria degli interventi di “nuova costruzione” -che introducono “trasformazione edilizia e urbanistica territorio” e, quindi, sono soggetti a controllo ai sensi del successivo art. 10- “l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-trasmittenti e di ripetitori per servizi di telecomunicazione”.
Questo principio non trova eccezione per effetto della disciplina dettata dall’art. 87 del codice della comunicazioni elettroniche approvato con d.lgs. n. 259 del 2003. In tal senso, come già ampiamente sottolineato, il citato Codice delle comunicazioni elettroniche reca una disciplina unitaria del procedimento autorizzatorio delle infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti radioelettrici, abbinando all’interno di un unico procedimento -a fini di semplificazione ed accelerazione del rilascio dell’atto conclusivo- la verifica dell’osservanza dei limiti di esposizione alle emissioni radio-elettriche e di ogni altro interesse di rilievo pubblico che si colleghi alla porzione di territorio su cui interviene l’installazione dell’impianto, ma non reca alcuna prescrizione volta a derogare al disciplina urbanistico/edilizia del sito interessato.
La sottrazione al regime autorizzatorio non trova, inoltre, sostegno nell’assimilazione, ai sensi dell’art. 86, terzo comma, del d.lgs. n. 259 del 2003, delle infrastrutture di comunicazione elettronica alle “opere di urbanizzazione primaria”. Anche tali ultimi interventi -come espressamente previsto dall’art. 3, comma 1, lett. e), punto e.2) del d.lgs. n. 380 del 2001- per l’effetto modificativo dell’assetto del territorio ad essi peculiare si qualificano come “nuova costruzione” e non sono sottratti al controllo comunale previsto dall’art. 10 del d.lgs. citato.
In quest’ottica, l’applicazione della regole sulla distanza delle costruzioni dal confine e da altri fabbricati, previste dal regolamento edilizio comunale, non può neppure essere intesa come un indebito limite all’espansione della rete di telecomunicazione, che necessariamente deve estendersi al servizio di tutto il territorio comunale.
Ne deriva che la richiesta unicamente diretta all’osservanza dei limiti di distanza, comuni ad ogni altra nuova costruzione, in relazione alla collocazione del manufatto sul lotto asservito all’edificazione, non riporta ad una radicale preclusione della capillare espansione della rete di telefonia mobile, che si verifica in presenza di prescrizioni restrittive che indirizzino l’installazione degli impianti solo in talune delle zone indicate dallo strumento urbanistico o in siti all’uopo individuati dal Comune.
Con la recente pronuncia in commento il Consiglio di Stato mette, pertanto, in evidenza un importante principio secondo il quale il corretto sviluppo del tessuto edilizio, che non può essere pregiudicato da una disordinata ed estemporanea ubicazione degli impianti di t.l.c., che integrano una nuova costruzione, in elusione di ogni regola sull’esercizio dello jus aedificandi. Nel caso in esame la non limitata consistenza strutturale dell'opera determina un impatto non contenuto introducendo una trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio, che si configura come un intervento di nuova costruzione, pertanto non sottraibile al controllo del Comune, e di conseguenza soggetta alle norme in materia di edilizia e urbanistica.
La pronuncia in commento rappresenta tuttavia un indirizzo contrario rispetto a quanto già sancito dal medesimo Consiglio di Stato, sez. VI, con la sentenza n. 3536 del 25/06/2007, dove si precisava come non si possano imporre, mediante regolamento comunale edilizio, l’osservanza di determinate distanze dagli edifici esistenti, ugualmente, ed anzi a maggior ragione, non si poteva pretendere di localizzare gli impianti ad una determinata distanza dal confine di proprietà, trattandosi di previsione che apparivano priva di giustificazione alcuna e rappresentativa solo un indebito impedimento nella realizzazione di una rete completa di telecomunicazioni.
Orientamento, questo, che si colloca nel solco dell'indirizzo secondo il quale gli impianti di telefonia mobile non possono essere assimilati alle normali costruzioni edilizie in quanto normalmente non sviluppano volumetria o cubatura, non determinano ingombro visivo paragonabile a quello delle costruzioni e non hanno un impatto sul territorio paragonabile a quello degli edifici in cemento armato o muratura (cfr., tra le tante si ricorda: Consiglio Stato, VI, 26/08/2003, n. 4847; 24/11/2003, n.7725; TAR Campania Napoli, sez. I, 04/03/2005, n. 16110; TAR Sicilia Catania, sez. IV, 03/05/2008, n. 711; TAR Sicilia-Palermo, sez. II, 11/11/2011, n. 2100) (commento tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 19.05.2014 n. 2521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: GARAGE, NECESSITÀ DEL PERMESSO DI COSTRUIRE E INSUSCETTIBILITA' DI UNA DIA IN SANATORIA.
La realizzazione di una rampa di accesso ad un garage con relativa pavimentazione costituisce intervento ricadente nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 3, lett. c), perché definibile di nuova costruzione e, dunque, necessita del permesso di costruire; ne consegue che, trattandosi di intervento edilizio soggetto al permesso di costruire, lo stesso non è sanabile mediante la presentazione di una DIA in sanatoria.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene all’esatta individuazione del titolo abilitativo edilizio richiesto per la realizzazione di un intervento edilizio, invero assai frequente, costituito dalla realizzazione della rampa di accesso ad un garage.
La vicenda processuale trae origine dalla condanna inflitta al proprietario e committente che, in difformità da un precedente concessione edilizia rilasciatagli dal comune per la costruzione di un garage con accesso sulla via (omissis), aveva eseguito la rampa di accesso al garage. Nel pervenire a tale conclusione, il Tribunale aveva osservato come, essendo del tutto incontroverso il fatto contestato, la tesi difensiva, secondo la quale la presentazione di una DIA in sanatoria potesse determinare effetti estintivi del reato, non fosse condivisibile e tanto sul rilievo che il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 45 stabilisce che solo "il rilascio in sanatoria del permesso di costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti".
Peraltro, secondo il Tribunale, doveva escludersi che il fatto non costituisse reato perché, diversamente da quanto sostenuto dal tecnico comunale nel corso dell'esame dibattimentale secondo il quale per la realizzazione della rampa di accesso al garage sarebbe stata sufficiente la presentazione della DIA, l'opera, cosi come progettata e realizzata (garage con relativa rampa di accesso), non era assentibile mediante semplice DIA, tanto che, per la sua realizzazione, era stato chiesto ed ottenuto regolare permesso di costruire, sicché non appariva possibile, a posteriori, prendere in considerazione la sola (difforme) realizzazione della rampa al fine di sostenere la sufficienza della DIA quale titolo edilizio abilitativo.
Diversamente argomentando, si sarebbe venuto, di fatto, ad obliterare, secondo il Tribunale, la valenza del precetto di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a) che, nel prendere in considerazione le "parziali" difformità dal titolo abilitativo, sanziona anche quelle cosiddette "innocue", cioè non suscettibili neppure di sanzioni amministrative. Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per cassazione l’interessato, sostenendo la sanabilità dell’intervento sulla base della presentazione di una DIA in sanatoria, non essendo necessario per eseguire tale intervento, il preventivo rilascio del titolo abilitativo costituito dal permesso di costruire.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha affermato l’importante principio di cui in massima, precisando che in totale mancanza di un permesso di costruire per lavori che non potevano essere assentiti tramite una mera dichiarazione di inizio di attività, il fatto accertato risultava penalmente rilevante ex art. 44, lett. b), D.P.R. n. 380 del 2001 a nulla rilevando la illegittima concessione di una DIA in sanatoria (in precedenza, nel senso che gli interventi edilizi soggetti al permesso di costruire non sono sanabili, nemmeno se realizzati dall'interessato con una denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire ex art. 22, comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001, mediante la presentazione di una DIA in sanatoria, ma richiedono la procedura di accertamento di conformità prevista per la sanatoria edilizia dall'art. 36 del citato decreto: Cass. pen., sez. III, 14.11.2011, n. 41425, in CED Cass., n. 251327, principio affermato con riferimento ad una fattispecie relativa alla realizzazione di un muro di contenimento) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.04.2014 n. 14945 - tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2014).

SICUREZZA LAVORO: La posizione di garanzia del direttore dei lavori.
Sempre più di frequente la figura del direttore dei lavori compare non senza oscillazioni nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (v., da ultimo, Cass. 06.03.2014, P.M. in c. Fialà e altri, in ISL, 2014, 5, 251, alla cui nota si rinvia per un quadro dei più recenti insegnamenti).
Questa volta, la Sez. IV afferma che «l’obbligo di apprestare nei cantieri di lavoro i prescritti mezzi protettivi, anche ai fini delle norme antinfortunistiche, incombe non solo sugli imprenditori, ma anche sui direttori di lavoro (nella specie, architetto avente la funzione di direttore dei lavori in un cantiere edile)» (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 31.03.2014 n. 14787 - tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 6/2014).

EDILIZIA PRIVATA: INTERVENTI IN ZONA VINCOLATA ESEGUITI IN DIFFORMITÀ E LORO QUALIFICAZIONE COME VARIAZIONI ESSENZIALI.
L'art. 32, comma 3, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sul tema della qualificazione giuridica degli interventi edilizi eseguiti in zona vincolata, in particolare al fine di accertare se gli stessi possano essere distinti a seconda della natura della difformità (totale o parziale) e, conseguentemente, quale ne sia la sorte sotto il profilo sanzionatorio.
La vicenda processuale trae origine dal sequestro preventivo di un fabbricato a trullo e del terreno ad esso annesso, sequestro disposto dal giudice nei confronti del proprietario del terreno per avere realizzato, in zona sottoposta a vincolo, in difetto di titolo abilitativo edificatorio e di autorizzazione paesaggistica, e, comunque, in violazione degli strumenti urbanistici vigenti o in difformità ai titoli abilitativi conseguiti, detto immobile, delle dimensioni, allo stato grezzo di superficie coperta pari a mq. 230,14 ed una volumetria impegnata di mc. 629,47.
Contro il sequestro, confermato dal tribunale del riesame, proponeva ricorso per cassazione l’interessata, sostenendo che nel caso in esame non sussistevano le condizioni per l'applicabilità del vincolo reale, posto che le opere erano da tempo terminate, in ottemperanza al titolo abilitativo in sanatoria rilasciato nel 2009; peraltro, secondo la difesa, l'ente territoriale aveva rilasciato all’interessata un’autorizzazione paesaggistica nel corpo della quale si dava atto della inesistenza di vincoli paesaggistici nell'area in questione.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, osservando che, successivamente al rilascio del permesso a costruire e della autorizzazione paesaggistica postuma, l’interessata aveva realizzato ulteriori opere edilizie in difformità a quelle assentite, che, eseguite in zona vincolata, vanno considerate come variazioni essenziali e, quindi, difformità totali (in termini, sull’argomento: Cass. pen., sez. III, 27.04.2010, n. 16392, in CED Cass., n. 246960) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.03.2014 n. 14459 - tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2014).

EDILIZIA PRIVATA: INTERVENTI DI RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA SECONDO IL “DECRETO DEL FARE” E CONSEGUENZE DELL’ELIMINAZIONE DELLA PAROLA “SAGOMA”.
Dalla definizione recata nell’art. 3, comma 1, lett. d) ed u.c. del Testo Unico dell’edilizia, come modificata dal D.L. n. 69 del 2013, art. 30 (cd. decreto del fare), è stata espunta la parola "sagoma", per cui secondo la definizione riformulata, nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia vanno ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione a condizione che venga mantenuta, però, nel novum la stessa volumetria del pregresso manufatto, anche nel mancato rispetto della sagoma.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulle conseguenze derivanti dall’intervenuta modifica, ad opera del cd. decreto del fare (D.L. n. 69/2013), della nozione di interventi di ristrutturazione edilizia che ha visto espungere la parola “sagoma” dalla relativa definizione.
La vicenda processuale trae origine dal rigetto da parte del tribunale del riesame dell’istanza di sequestro di un immobile in relazione al procedimento che vedeva indagati i comproprietari di detto bene e committenti dei lavori, il tecnico professionista e direttore dei lavori, ed il titolare della società di costruzioni, impresa esecutrice delle opere, perché nelle rispettive qualità, realizzavano, per quanto di interesse agli effetti urbanistico-edilizi, in assenza di permesso di costruire e in totale difformità alla DIA, inerente opere di ristrutturazione di un preesistente magazzino, due appartamenti per civile abitazione, in zona agricola "E", a seguito della totale demolizione del preesistente manufatto, con ampliamenti volumetrici e modifiche alla sagoma dell'originario immobile.
Contro l’ordinanza del tribunale, proponeva ricorso per cassazione il PM, denunciando violazione ed erronea applicazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), e dell'art. 321 c.p.p. in materia di fumus, in quanto dalle indagini era emersa non solo la falsità delle dichiarazioni rese dagli indagati in tutti gli atti presentati al Comune, ma anche la realizzazione del manufatto in questione in difetto di titolo abilitativo.
La Cassazione ha accolto l’impugnazione della pubblica accusa, in particolare ritenendo che la violazione dovesse considerarsi evidente anche in relazione alle innovazioni normative di cui al D.L. n. 69 del 2013, art. 30, disposizione, questa, che ha introdotto una modifica al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d) ed u.c., in punto di definizione della nozione di interventi di ristrutturazione edilizia: tali devono intendersi quegli interventi rivolti a trasformare gli immobili preesistenti mediante un insieme sistematico di opere, che possono determinare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso da quello preesistente.
Dalla definizione recata nel testo unico, precisano gli Ermellini, è ora espunta la parola "sagoma", per cui secondo la definizione riformulata, nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia vanno ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione a condizione che venga mantenuta, però, nel novum la stessa volumetria del pregresso manufatto, anche nel mancato rispetto della sagoma.
Orbene, nel caso di specie, era stato demolito un fabbricato insistente in zona classificata "area con esclusiva o prevalente funzione agricola", con conseguente realizzazione di un nuovo edificio, composto da due unità immobiliari autonome, destinate a civile abitazione, con ampliamenti volumetrici, rispetto al magazzino preesistente; opere, quindi, eccedenti l'ambito della mera ristrutturazione edilizia, eseguibili solo in forza di permesso di costruire e non di DIA, non rientranti nelle fattispecie regolate dal citato art. 30, D.L. citato (in precedenza, con riferimento alla nuova disciplina introdotta sul punto dal c.d. “decreto del fare”, la Cassazione ha affermato che l’art. 30 della L. n. 98 del 2013 per qualificare come ristrutturazione edilizia anche gli interventi modificativi della sagoma dell’edificio esistente o che comportino la ricostruzione o il “ripristino” di edifici “eventualmente crollati o demoliti”, richiede l’accertamento della preesistente consistenza dell’immobile: Cass. pen., sez. III, 07.02.2014, n. 5912 non massimata) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.03.2014 n. 14457 - tratto da Urbanistica e appalti n. 6/2014).

VARI: Dipendenti sotto la lente. L'azienda può incaricare investigatori privati. La Corte d'appello Milano sui riscontri sulla lealtà dell'impiegato.
L'azienda può utilizzare un investigatore privato per controllare la fedeltà del dipendente. Basta anche solo il sospetto di un illecito. Ma le verifiche esterne non potranno mai riguardare la qualità delle attività lavorative vere e proprie.

È quanto affermato dalla Sez. lavoro della Corte di Appello di Milano con la sentenza 26.03.2014.
La vicenda riguardava un'azienda farmaceutica, che nel 2010 aveva licenziato per giusta causa un proprio informatore scientifico. Quest'ultimo aveva ottenuto dall'Inps di godere dei permessi della legge n. 104/1992 e poi un congedo straordinario per poter assistere l'anziana madre. A seguito di richiesta da parte dell'azienda di disponibilità lavorativa per un periodo di 15 giorni, l'informatore farmaceutico aveva risposto negativamente. La ragione del rifiuto era il peggioramento delle condizioni di salute del genitore.
L'azienda decideva così di rivolgersi a una società investigativa per valutare la veridicità di tali affermazioni. Dai controlli emergeva che il soggetto nei 10 giorni di osservazione non aveva assistito la madre (apparsa comunque in condizioni di provvedere a se stessa nelle attività quotidiane), dedicandosi ad altro. Inoltre, in un'occasione il lavoratore aveva affidato al figlio l'auto aziendale senza chiedere preventiva autorizzazione. Da qui il procedimento disciplinare culminato con il licenziamento. Il comportamento dell'azienda è stato validato dal Tribunale di Milano con la sentenza n. 3398/2011, poi impugnata dal lavoratore, tra l'altro, per la presunta illegittimità dell'attività investigativa esterna.
Una tesi che però non convince i giudici di appello. «L'articolo 2 dello statuto dei lavoratori», si legge nella sentenza, «nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale non preclude a quest'ultimo di ricorrere ad agenzie investigative».
Tale circostanza è quindi ammessa «purché non sconfini nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria», prosegue il collegio, «riservata dall'articolo 3 dello statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori». Per poter dare luogo a simili controlli, non è necessario che l'illecito o la frode siano stati già perpetrati, ma è sufficiente «il solo sospetto o la mera ipotesi che gli illeciti siano in corso di esecuzione». Orientamento peraltro conforme con quanto già affermato dalla Cassazione (sentenze nn. 16196/2009 e 3590/2011). Da qui il rigetto dell'appello e la condanna del lavoratore licenziato anche alle spese di lite.
«La sentenza è molto equilibrata soprattutto in merito al bilanciamento fra il diritto alla riservatezza del dipendente e quello dell'azienda alla tutela del proprio patrimonio», commenta l'avvocato Massimo Lupi, partner dello studio milanese Lupi&Associati, «comunemente si ritiene che il Codice della privacy e lo statuto del lavoratori vietino qualsiasi tipo di controllo a distanza dei dipendenti e che, conseguentemente, le fotografie e le relazioni elaborate delle agenzie investigative siano inutilizzabili in giudizio contro il lavoratore. Ma è una convinzione errata» (articolo ItaliaOggi Sette del 30.06.2014).

SICUREZZA LAVORO: Impresa affidataria, impresa subappaltante e coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
Nell’ambito di un cantiere avente per oggetto la realizzazione di un opificio, l’impresa appaltatrice aveva affidato specifici lavori a vari artigiani.
Per l’infortunio subito da un artigiano incaricato della impermeabilizzazione della parte esterna superiore di un tunnel in cemento armato destinato a collegare due punti dell’opificio in costruzione, furono condannati, oltre al direttore tecnico di cantiere, il rappresentante legale dell’impresa appaltatrice subappaltante e il coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
  
A) Nel confermare la condanna, la sentenza Moretti fornisce utili chiarimenti in ordine alla posizione di garanzia dell’appaltatore subappaltante e del coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
Al primo riguardo, prende in considerazione gli obblighi di sicurezza ricadenti in capo ai soggetti responsabili dell’impresa affidataria di lavori che sì sia fatta a sua volta (sub)appaltante dei lavori commissionati.
Afferma che «anche il subappaltante rientra tra i titolari degli obblighi di sicurezza, in definitiva sulla scorta del principio secondo il quale il coinvolgimento nella complessiva attività impone a ciascun soggetto, titolare di poteri organizzativi, correlativi obblighi di protezione della sicurezza dei lavoratori
Rileva in termini inediti che, «come dimostra anche la specifica considerazione che l’art. 89 D.Lgs. n. 81/2008 dedica oggi alla figura dell’impresa affidataria, cioè all’impresa titolare del contratto di appalto con il committente che, nell’esecuzione dell’opera appaltata, può avvalersi di imprese subappaltatrici o di lavoratori autonomi, distinguendola dall’impresa esecutrice, la posizione della ditta subappaltante presenta aspetti peculiari», in quanto «essa si interpone tra il datore di lavoro che ha la disponibilità dei luoghi ovvero poteri di governo del processo produttivo e l’impresa esecutrice, realizzando un ulteriore fattore di rischio per la sicurezza del lavoro, in ragione dell’allungamento della catena di comando, della frammentazione delle sequenze operative, della ulteriore articolazione dell’organizzazione
Ne trae che «il suo ruolo non può essere scisso dall’obbligo di concorrere nell’apprestamento delle misure necessarie a fronteggiare i rischi derivanti dall’esistenza del subappalto, a meno che non se ne spogli totalmente, lasciando al subappaltatore ogni autonomia organizzativa», e che, «quando però egli contribuisca in qualche misura alla organizzazione delle attività da eseguirsi in ragione del subappalto, sarà tenuto sia a far fronte agli obblighi che oggi il D.Lgs. n. 81/2008, art. 26, pone in capo al datore di lavoro-appaltante, sia a quelli che l’art. 26, comma 2, pone in capo a tutti i datori di lavoro coinvolti nell’appalto
Considera «decisivo, per l’esclusione della responsabilità del subappaltante, la sua non ingerenza», nel senso che «il subappaltante è esonerato dagli obblighi di protezione solo nel caso in cui i lavori subappaltati rivestano una completa autonomia, sicché non possa verificarsi alcuna sua ingerenza rispetto ai compiti del subappaltatore
Ritiene «evidente che, ai fini di una tale valutazione, non può assumere alcun rilievo la semplice circostanza secondo cui vi era sempre uno scarto spaziale e temporale tra le attività affidate in subappalto all’artigiano e quelle invece di pertinenza della subappaltante», e ciò perché «comunque una tale modalità operativa presuppone pur sempre un’organizzazione del lavoro convergente al medesimo fine e facente capo inevitabilmente anche alla ditta subappaltante, ed è cosa pertanto ben diversa dalla integrale autonomia richiesta dal summenzionato principio, presupponendo questa che si tratti di lavori subappaltati per intero, cosicché non possa più esservi alcuna ingerenza da parte dello stesso nei confronti del subappaltatore
Precisa che «un’esclusione della responsabilità dell’appaltatore è configurabile solo qualora al subappaltatore sia affidato lo svolgimento di lavori, ancorché determinati e circoscritti, che svolga in piena ed assoluta autonomia organizzativa e dirigenziale rispetto all’appaltatore, e non nel caso in cui la stessa interdipendenza dei lavori svolti dai due soggetti escluda ogni estromissione dell’appaltatore dall’organizzazione del cantiere», e che, «nella ricorrenza delle anzidette condizioni, trattandosi di norme di diritto pubblico che non possono essere derogate da determinazioni pattizie, non potrebbero avere rilevanza operativa, per escludere la responsabilità dell’appaltatore, neppure eventuali clausole di trasferimento del rischio e della responsabilità intercorse tra questi ed il subappaltatore
Mette in luce che, «per la natura e le caratteristiche dell’attività commissionata, questa non si poteva svolgere in una zona o in un settore separato, coinvolgente solo il subappaltatore, derivandone dunque che il committente (cui è equiparabile anche il subappaltante), il quale è ex lege il coordinatore della cooperazione, deve essere in grado di rendersi conto dell’insufficiente contributo tecnico dell’appaltatore medesimo e cooperare perché, di fatto, le condizioni di lavoro siano sicure con la conseguenza che, verificatosi un sinistro, l’eventualmente inadeguato apprestamento delle misure precauzionali non può non essere ascritto ad entrambi perché garanti, destinatari dell’obbligo di predisporre sicure condizioni di lavoro.» (Sulla posizione di garanzia dell’appaltatore-subappaltante v., supra, la sentenza Del Rossi; circa la posizione di garanzia del sub-committente v. Cass. 18.12.2013, Gerna, in ISL, 2014, 2, 97).
  
B) Di grande spessore è pure l’analisi dedicata alla figura del coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
A sua discolpa, l’imputato ricorre all’abituale argomento difensivo della «vigilanza alta
Sostiene, infatti, che «dai compiti a lui attribuiti quale coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione, indicati nel punto 4.6 della norma UNI 10942, derivava a suo carico solo una funzione di vigilanza ‘‘alta’’, non confondibile con quella operativa demandata al datore di lavoro, e pertanto solo qualora l’infortunio fosse riconducibile a carenze organizzative generali poteva essere configurata una responsabilità a suo carico: situazione non riscontrabile nella fattispecie dal momento che le stesse circostanze riferite dal danneggiato escludono l’esistenza di un’insidia nel luogo ove egli si trovava a lavorare, ma evidenziano piuttosto la distrazione e l’imprudenza del medesimo che, consapevole dello stato dei luoghi e custode degli stessi in prima persona (come tale anche obbligato a predisporre un piano operativo di sicurezza, invece omesso) era inciampato per fatto proprio nell’apertura del lucernaio, camminando all’indietro
E rimarca che «fra gli obblighi del coordinatore per l’esecuzione non è compreso il controllo e la manutenzione degli impianti e dei dispositivi di sicurezza, compiti questi ultimi di competenza delle imprese esecutrici», ed ancora che «il coordinatore non ha un obbligo di frequenza continua nel cantiere, specie in occasione delle fasi di lavoro che non presentano particolari criticità per la sicurezza dei lavoratori
Ancora una volta, la Sez. IV replica efficacemente che «il coordinatore per l’esecuzione dei lavori non ha esclusivamente il compito di organizzare il lavoro tra le diverse imprese operanti nello stesso cantiere, bensì anche quello di vigilare sulla corretta osservanza da parte delle stesse delle prescrizioni del piano di sicurezza e sulla scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro a garanzia dell’incolumità dei lavoratori, ed è, pertanto, titolare di un’autonoma posizione di garanzia che, nei limiti degli obblighi specificamente individuati dalla legge, si affianca a quelle degli altri soggetti destinatari delle norme antinfortunistiche, comprendendo, non solo l’istruzione dei lavoratori sui rischi connessi alle attività lavorative svolte e la necessità di adottare tutte le opportune misure di sicurezza, ma anche la loro effettiva predisposizione, nonché il controllo continuo ed effettivo sulla concreta osservanza delle misure predisposte al fine di evitare che esse siano trascurate o disapplicate, nonché, infine, il controllo sul corretto utilizzo, in termini di sicurezza, degli strumenti di lavoro e sul processo stesso di lavorazione, sicché, in particolare, è tenuto a verificare, attraverso un’attenta e costante opera di vigilanza, l’eventuale sussistenza di obiettive situazioni di pericolo nel cantiere, e tanto, in relazione a ciascuna fase dello sviluppo dei lavori in corso di esecuzione
Chiarisce che, nel caso di specie, «gli obblighi di garanzia, come sopra delineati, posti a carico del coordinatore per la sicurezza dell’esecuzione dei lavori, non possono considerarsi adempiuti», stante in particolare «l’inadeguatezza della protezione rappresentata dal foglio di rete elettro-saldata all’apertura del lucernaio (resa palese dal fatto che la stessa veniva agevolmente tolta dagli operai che lavoravano nel sottostante tunnel per passare da sotto a sopra e viceversa) e, con essa, anche l’omissione dei doverosi e costanti controlli da parte del predetto
Non ravvisa alcuna «contraddizione con la pure affermata responsabilità del direttore tecnico del cantiere.» E spiega che «la normativa dettata in materia di sicurezza sul lavoro attribuisce al coordinatore per la fase di esecuzione dei lavori una specifica posizione di garanzia, che non si sovrappone, bensì si aggiunge a quella assegnata ad altri soggetti destinatari delle norme antinfortunistiche, e ne individua gli obblighi nei termini sopra delineati, trattandosi peraltro di posizione di garanzia diretta, essendo per essa prevista una diretta responsabilità penale per il caso di inosservanza dei relativi obblighi (art. 158 D.Lgs. n. 81/2008).»
(Circa gli obblighi del coordinatore per l’esecuzione dei lavori v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, cit., 550 ss., cui aggiungi Cass. 16.05.2013, Catale e altri, e Cass. 26.04.2013, Mongelli, in ISL, 2013, 8-9, 456; nonché, in ISL, 2014, 2, 94, Cass. 10.12.2013, Tuozzo; Cass. 04.12.2013, Del Prete; Cass. 04.12.2013, Celentano e altri).
  
II. Del coordinatore per l’esecuzione dei lavori si occupa anche la sentenza Babusci. Il caso riguarda lavori eseguiti nel tunnel ferroviario del Frejus e consistenti in opere dirette all’abbassamento della massicciata ed alla ricostruzione dei binari.
Un lavoratore, «utilizzando la chiave di accesso lasciata appesa ad una catenella posta in un quadro elettrico, era entrato nella cabina contenente il trasformatore di corrente elettrica che alimentava una fresatrice, rimanendo folgorato a seguito di contatto del corpo con uno dei conduttori di tensione presenti all’interno della cabina
Per omicidio colposo furono condannati, oltre che l’operaio elettricista al quale era stata affidata la custodia delle chiavi della cabina, il datore di lavoro dell’infortunato e il coordinatore in materia di sicurezza in fase di esecuzione dell’opera.
Per cominciare, la Sez. IV sottolinea i profili di colpa del datore di lavoro: «non erano state previste nel piano operativo di sicurezza le specifiche misure di prevenzione e protezione da adottarsi per garantire la sicurezza dei lavoratori nel corso di operazioni che prevedevano l’accesso alla cella trasformatore»; «mancata adeguata formazione degli elettricisti circa le misure di sicurezza da adottare per prevenire i rischi di folgorazione e, in generale, nell’omessa informazione circa i rischi connessi con l’accesso nella cabina con le parti in tensione»; «quanto alle decantate formazione, professionalità ed esperienza del personale, degli elettricisti in particolare, ed alla oculatezza nell’individuare il consegnatario delle chiavi della cabina, sembra evidente che lo stesso infortunio ne ha attestato la grave insufficienza e l’approssimazione»; «solo la cattiva informazione e l’inadeguata formazione ha indotto la vittima ad accedere, senza precauzione alcuna, dentro la cabina»; «solo chi non possedeva un idoneo livello di formazione ed aveva ricevuto ben scarse informazioni circa le esigenze di sicurezza cui rispondeva l’inanellamento delle chiavi del complesso macchinario, le avrebbe disanellate»; «solo chi era privo di adeguate formazione ed informazione circa la necessità, ancora per evidenti motivi di sicurezza, di custodire con attenzione e scrupolo la chiave della cabina, l’avrebbe lasciata incustodita e a disposizione di chiunque»; «proprio la delicatezza di tale incarico, per i riflessi che lo esso avrebbe avuto in punto di sicurezza del cantiere, richiedeva che lo stesso fosse assegnato dopo che della persona prescelta si fosse adeguatamente verificato il livello di formazione e di affidabilità, e dopo che la stessa fosse stata adeguatamente informata e resa consapevole della delicatezza del compito affidatogli
Quanto al coordinatore, la Sez. IV osserva che egli «era titolare di un’autonoma posizione di garanzia, che si affiancava a quelle degli altri soggetti destinatari delle norme antinfortunistiche», e che «tale posizione imponeva all’imputato, anzitutto, di verificare l’idoneità del piano operativo di sicurezza predisposto dalla ditta esecutrice dei lavori con riferimento, in particolare, alla regolamentazione delle modalità di accesso alla cella trasformatore ed alla individuazione delle misure da adottare perché tale accesso avvenisse solo in condizioni di sicurezza e solo da parte del personale qualificato, adeguatamente formato e specificamente autorizzato
Prende atto che «a tale verifica non aveva provveduto l’imputato che, delle evidenti carenze del piano, avrebbe dovuto prendere atto e pretendere che ad esse si ponesse immediatamente rimedio; ciò ancor prima che fosse messo in funzione il macchinario
Inoltre, «in relazione al dovere di vigilanza, attribuito allo stesso coordinatore, sulla corretta osservanza, da parte dei lavoratori, delle misure di prevenzione e sicurezza», precisa che «a tale figura professionale è demandato tale specifico compito che, seppur non deve implicare una continua presenza in cantiere, deve tuttavia esercitarsi in maniera attenta, e scrupolosa e deve riguardare tutte le lavorazioni in atto, specie quelle che pongono maggiormente a rischio  l’incolumità dei lavoratori; esso deve essere costantemente esercitato per consentire, in caso di mancato rispetto delle norme di sicurezza e prevenzione, di intervenire ed adottare le misure necessarie ad eliminare prontamente l’eventuale sussistenza di obiettive situazioni di pericolo
Spiega che «la presenza in cantiere, peraltro all’interno di una galleria, del macchinario in questione, che già avrebbe dovuto costituire oggetto di particolare attenzione per chiunque ricopriva posizioni di garanzia, e dunque anche per il coordinatore, avrebbe dovuto indurre a porre maggior attenzione»: «non si trattava solo di accorgersi della mancata custodia delle chiavi, che pure, in vista dell’uso a cui erano destinate, avrebbero dovuto esser oggetto di specifica attenzione, bensì di rendersi conto almeno del fatto, particolarmente grave e facilmente verificabile, che il sistema di garanzia degli interblocchi tra interruttore e accesso al trasformatore era stato disatteso, con gravissimo rischio per chiunque, sia pure imprudentemente e senza essere autorizzato, avesse deciso di accedere alla cabina; ed ancora, della mancata apposizione (e prima ancora della mancata  previsione nel POS) di cartelli di avvertimento e di pericolo capaci di attirare l’attenzione anche delle persone meno attente per indurle alla massima prudenza
La conclusione è che, «ove in maniera completa e dettagliata fosse stato elaborato il piano operativo di sicurezza sui punti in contestazione, ove l’imputato avesse adeguatamente verificato la rispondenza dello stesso alle esigenze di prevenzione e di sicurezza connesse con la presenza e l’utilizzazione della cabina elettrica e fosse intervenuto per porre rimedio alle carenze sopra evidenziate, eventualmente anche interrompendo le lavorazioni, l’infortunio non si sarebbe verificato.» (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 10.03.2014 n. 11522 - Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 06.03.2014 n. 10898 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 5/2014).

SICUREZZA LAVOROLa posizione di garanzia del direttore dei lavori.
Continua a destare l’interesse della giurisprudenza la figura del direttore dei lavori (v. al riguardo Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, cit., Milano, 2013, 581 ss.).
Ultimamente, Cass. 28.01.2014, Quadraro, in ISL, 2014, 4, 198, osservò che la figura del direttore dei lavori, «sebbene non definita dalla normativa dettata dal D.Lgs n. 81/2008, ha compiti in materia di sicurezza ben individuati normativamente:
a) anzitutto, in tema di disarmo delle armature provvisorie di cui al comma 2 dell’articolo 142, stabilendo la norma (art. 145 D.Lgs n. 81/2008) che tale disarmo deve essere effettuato con cautela dai lavoratori che hanno ricevuto una formazione adeguata e mirata alle operazioni previste sotto la diretta sorveglianza del capo cantiere e sempre dopo che il direttore dei lavori ne abbia data l’autorizzazione;
b) in secondo luogo, quello di liquidare l’importo relativo ai costi della sicurezza previsti in base allo stato di avanzamento lavori, previa approvazione da parte del coordinatore per l’esecuzione dei lavori quando previsto (Allegato XV al D.Lgs n. 81/2008, punto 4.1.6)
».
Aggiunse che il direttore dei lavori, «per giurisprudenza costante, è responsabile dell’infortunio sul lavoro quando gli viene affidato il compito di sovrintendere all’esecuzione dei lavori, con la possibilità di impartire ordini alle maestranze sia per convenzione, cioè per una particolare clausola introdotta nel contratto di appalto, sia quando per fatti concludenti risulti che egli si sia in concreto ingerito nell’organizzazione del lavoro», ma che «nulla autorizza l’estensione analogica della fattispecie astratta e di quella sanzionatoria contestata all’attuale imputato, atteso che si tratta di previsione attinente ad un soggetto dotato di qualifica ben determinata, ossia il coordinatore per la progettazione; diversamente, trattandosi di reato proprio, si violerebbe il divieto di analogia in materia penale (nel caso in esame, peraltro, in malam partem), salvi i casi di concorso dell’extraneus, questione non rilevante nel caso di specie
Pochi mesi prima, Cass. 10.10.2013, Redaelli e altri, ibid., 2014, 1, 32, fu meno conciliante in un’ipotesi in cui la colpa ascritta al direttore dei lavori per conto del committente era stata quella «di aver omesso l’attività di controllo e di vigilanza consistita nell’informare la committente della mancata installazione delle opere provvisionali -al fine di consentire il coordinamento fra le attività di prevenzione- nonché di aver mancato di segnalare il rischio di incidenti, derivante dalla simultanea presenza di più imprese operanti in particolare nell’esecuzione dell’attività di collaudo degli ascensori nonostante non fosse stata adeguatamente allestita e completata l’attività di messa in sicurezza dei vani ascensori
La Sez. IV prese atto che «la committente s.p.a. ebbe ad affidare all’architetto, con apposito contratto, oltre alla progettazione architettonica, la direzione dei lavori, l’assistenza al collaudo delle opere ed il coordinamento delle attività demandate nel cantiere ad altri professionisti
Ritenne che l’imputato fosse «investito di specifica posizione di garanzia in materia antinfortunistica, la cui fonte risiedeva nel richiamato contratto d’opera professionale in forza del quale il professionista risultava collaboratore della committente con l’incarico specifico di direttore dei lavori da eseguirsi nel cantiere, per conto della stessa
Concluse che anche il direttore dei lavori, «quale destinatario in tale veste delle norme antinfortunistiche, fosse tenuto a garantirne l’osservanza, avuto riguardo al carattere ‘‘estensivo’’ della conseguente responsabilità alla stregua della disciplina dettata in materia
Rilevò, altresì, che l’imputato, grazie alla presenza quotidiana in cantiere per almeno due ore (onde esser in grado di espletare l’incarico affidatigli dalla committente) alla data dell’evento, era perfettamente a conoscenza che si stavano effettuando lavori di montaggio e collaudo degli ascensori al pari della propria assistente, anche alla stregua delle dichiarazioni da costei rese.
E insegnò che «l’imputato, titolare di un ben precisa posizione di garanzia che lo abilitava ad impartire direttive ed ordini per conto della committente e ad esigerne l’osservanza, ebbe invece ad omettere qualsiasi attività di controllo, di vigilanza e di informazione circa l’inadeguatezza delle misure antinfortunistiche apprestate nella zona ove erano in corso l’installazione ed il collaudo degli ascensori al fine di consentire il coordinamento tra le attività prevenzionistiche
Questa volta, la Sez. IV rileva, anzitutto, che, in primo grado, il tribunale, nel condannare il direttore dei lavori per un infortunio mortale occorso a due dipendenti dell’impresa esecutrice in un cantiere per il crollo di un fronte di scavo, «pur in assenza di una espressa accettazione, aveva attribuito la qualità di direttore dei lavori all’imputato in ragione della nomina da parte della committenza, sulla scorta della ritenuta accettazione di fatto dell’incarico desunta dalla presenza del predetto sul cantiere e dalla redazione da parte sua dei preventivi, con quietanza degli anticipi ricevuti anche in relazione alle opere di sbancamento»; «aveva tratto, altresì, dalla circostanza relativa al blocco dei lavori -prospettato dall’imputato al proprietario del terreno presente sul posto, ove gli stessi fossero proseguiti senza il deposito del progetto corredato da relazione geologica presso il Genio Civile- la consapevolezza in capo allo stesso imputato della qualità assunta e delle correlate responsabilità, nonché della pericolosità della situazione creatasi, desumibile dalla stessa relazione geologica effettuata prima dello sbancamento e dalla constatazione da parte del direttore dei lavori, presente sul cantiere il giorno del fatto, della pericolosità dello sbancamento stesso, effettuato in difformità rispetto ai progetti e senza l’adozione di alcuna cautela nell’esecuzione dei lavori, nonché in ragione del rilievo limitato al solo profilo dell’incompletezza della procedura»; e «aveva desunto, altresì, dai fatti richiamati, l’omessa prospettazione da parte del direttore dei lavori di rischi per l’incolumità degli operai, così ravvisando la responsabilità dello stesso, quale tecnico, in solido con il responsabile della sicurezza, collegata all’attività conoscitiva peculiare correlata alle sue specifiche competenze tecniche e di settore
A questo punto, la Sez. IV prende atto che, nell’assolvere il direttore dei lavori, la corte d’appello «non ha dato conto in maniera adeguata delle ragioni per le quali è stato disatteso il ragionamento dei giudici di primo grado, e, in particolare, delle ragioni per le quali fosse da escludere qualsiasi responsabilità del direttore dei lavori per mancanza di prova circa la sua ingerenza nell’organizzazione di cantiere, non potendo essere ritenuta decisiva in funzione di esonero dalla responsabilità la mancata presenza quotidiana di costui sul cantiere né la rilevata assenza al momento della gettata in calcestruzzo e del crollo, pur risultando la presenza dello stesso nella mattinata e la prospettazione da parte sua di una possibile diffida a non proseguire le opere in mancanza dei necessari adempimenti amministrativi, non accompagnata dalla segnalazione dei gravi rischi connessi alla gettata del calcestruzzo e dalla proibizione della prosecuzione dei lavori in cemento armato
E nel ricordare che «il direttore dei lavori è responsabile anche nell’ipotesi di sua assenza dal cantiere, dovendo egli esercitare un’oculata attività di vigilanza sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed in caso di necessità adottare le necessarie precauzioni d’ordine tecnico, ovvero scindere immediatamente la propria posizione di garanzia da quella dell’assuntore dei lavori, rinunciando all’incarico ricevuto», annulla la sentenza di assoluzione pronunciata dalla corte d’appello (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 06.03.2014 n. 10905 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 5/2014).

SICUREZZA LAVOROObbligo di vigilanza del datore di lavoro committente.
Tra i profili più innovativi della giurisprudenza della Corte Suprema a proposito degli obblighi del datore di lavoro committente nel quadro dell’art. 26 D.Lgs. n. 81/2008, fa spicco quello attinente alla vigilanza sulla sicurezza dei lavori appaltati (sul tema v. i precedenti richiamati in Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, cit., 315 ss.).
Nel tornare sul punto, la presente sentenza insegna che, «in tema di infortuni sul lavoro, il contratto di appalto non solleva da precise e dirette responsabilità il committente allorché lo stesso assuma una partecipazione attiva nella conduzione e realizzazione dell’opera, in quanto, in tal caso, rimane destinatario degli obblighi assunti dall’appaltatore, compreso quello di controllare direttamente le condizioni di sicurezza del cantiere
Aggiunge che «la responsabilità del committente sussiste comunque nelle ipotesi di ingerenza del committente stesso nell’esecuzione dei lavori oggetto dell’appalto o del contratto di prestazione d’opera o nelle ipotesi di percepibilità agevole e immediata da parte del committente di eventuali situazioni di pericolo
E prende atto che, nel caso di specie, il committente «si ingerì pesantemente nei lavori affidati, e che -al contempo- non controllò le condizioni di sicurezza del cantiere, tanto che permise alla persona offesa di utilizzare un attrezzo del tutto inidoneo sotto il profilo della sicurezza del lavoro.» (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 26.02.2014 n. 9330 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 5/2014).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIAnche i committenti pagano. L'ordine impartito alla ditta fa scattare la responsabilità. La Cassazione evidenzia anche l'affidamento a soggetti privi di capacità tecniche.
In tema di appalto è, di regola, l'appaltatore a dover rispondere dei danni cagionati a terzi durante l'esecuzione del contratto, attesa l'autonomia con cui egli svolge la sua attività nell'esecuzione dell'opera o del servizio appaltato. La responsabilità in solido del committente, invece, sussiste nei soli casi in cui il fatto lesivo sia stato commesso dall'appaltatore in esecuzione di un ordine impartitogli o per aver affidato i lavori a un soggetto privo delle necessarie capacità tecniche.
Lo ha stabilito la III Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 19.02.2014 n. 3967.
Nel caso concreto un quattordicenne, recatosi in parrocchia per qualche ora di gioco, si è seduto su una catena che univa alcuni pilastri. Uno di questi, in seguito alla pressione esercitata sulla catena, è ceduto rovinando contro il giovane, così cagionandogli significativi danni permanenti. Il padre ha, dunque, proposto azione risarcitoria innanzi al giudice civile, convenendo in giudizio la parrocchia, il Comune e la ditta responsabile della realizzazione dei pilastro.
All'esito del giudizio di primo grado il Tribunale ha condannato in solido tutte le parti convenute, senza distinzione alcuna, salvo attribuire il 20% della responsabilità dell'incidente alla condotta del minore.
La sentenza è stata appellata da tutte le parti in causa innanzi alla Corte d'appello. I giudici di secondo grado, nell'apprezzare lo scrutinio del giudice di prime cure, hanno vieppiù confermato la decisione gravata riformandola solamente sotto il profilo del quantum risarcitorio. A nulla sono valse le difese del Comune tese a rimarcare la propria estraneità alla vicenda, quale semplice committente dell'appalto, realizzato in totale autonomia, dalla ditta di costruzioni.
Invero secondo la Corte territoriale la responsabilità dell'Ente pubblico sarebbe discesa dalla negligente verifica in ordine alla conformità e alla sicurezza dell'opera appaltata: più precisamente, si è osservato come, sebbene non vi fossero dubbi tanto sulla cattiva fattura dell'opera quanto sull'assenza di errori di progettazione, permanevano ciò nonostante profili di rimproverabilità nei confronti del Comune per via del mancato assolvimento, da parte sua, dell'onere di appurare, in corso d'opera e a lavoro concluso, il grado di sicurezza dell'opera realizzata.
La lite non poteva che finire all'attenzione dei giudici di legittimità. Tra vari ricorsi e motivi di censura, la questione che più rileva è senz'altro quella relativa ai profili di responsabilità dell'Ente pubblico per i danni occasionati a terzi dall'opera appaltata riconducibili alla cattiva esecuzione dei lavori da parte della ditta aggiudicataria.
Ebbene, nell'affrontare la delicata vicenda, i giudici capitolini hanno osservato come, in tema di appalto, sia l'appaltatore, in genere, colui che risponde dei danni provocati a terzi (ed eventualmente anche dell'inosservanza della legge penale durante l'esecuzione del contratto), e tanto in virtù dell'autonomia con cui egli svolge la sua attività nell'esecuzione dell'opera o del servizio appaltato. L'appaltatore, con propria organizzandone dei mezzi necessari, cura le modalità esecutive, e si obbliga a fornire al committente, in modo esatto, l'opera o il servizio pattuito in sede negoziale.
Di contro sul committente grava l'obbligo di porre in essere il dovuto controllo sull'opera che, tuttavia, è da relegarsi all'accertamento e alla verifica della corrispondenza dell'opera o del servizio affidato all'appaltatore rispetto a quanto costituisce oggetto del contratto. Ne deriva sotto il profilo patologico di interesse, che una responsabilità del committente nei riguardi dei terzi può dirsi sussistente nei soli limiti in cui appaia dimostrato che il fatto lesivo sia stato commesso dall'appaltatore in esecuzione di un ordine impartitogli dal direttore dei lavori o da altro rappresentante del committente stesso ovvero quando sia configurabile, in capo al committente, una culpa in eligendo, cioè per aver affidato il lavoro a un'impresa priva delle capacità tecniche necessarie.
La Corte mostra, ancora una volta, di aderire all'orientamento giurisprudenziale che, nel perimetrare i confini delle responsabilità tra committente e appaltatore si affida al criterio discretivo fondato sulla presenza o meno di direttive chiare e precise del committente in esecuzione delle quali è derivato il danno, pervenendo all'esito assolutorio del committente ogni qualvolta quest'ultimo abbia assunto il ruolo di nudus minister a fronte della totale autonomia organizzativa ed esecutiva dell'appaltatore.
Ebbene, riversando le coordinate interpretative come sopra ricapitolate al caso concreto, e tenuto conto che il sinistro si era verificato nella vigenza della normativa che, per appalti di importo inferiore ai 150 milioni di lire, ammetteva la semplice produzione del certificato di corretta esecuzione dell'opera anziché la verifica di collaudo, la Corte di cassazione ha mandato indenne dalla condanna il Comune, conseguentemente attribuendo l'intera responsabilità dell'incidente alla ditta di costruzioni, avendo agito quest'ultima in totale autonomia e non essendo stati riscontrati errori progettuali commessi dai tecnici dell'Ente (articolo ItaliaOggi Sette del 30.06.2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: IMPIANTI MOBILI.
Rifiuti - Gestione di impianti mobili - Riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni estranee - Deroga- Attività diverse soggette al regime ordinario
Art. 208, D.Lgs. n. 152/2006
La deroga al regime ordinario in materia di rifiuti prevista, dall’art. 208, comma 15, D.Lgs. n. 152/2006, per gli impianti mobili che eseguono la sola riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni estranee, opera esclusivamente con riferimento a tali attività, restando conseguentemente esclusa ogni operazione diversa, antecedente o successiva, che rimane invece soggetta alla disciplina generale.
Nella specie, il legale rappresentante della «R.S. s.p.a.», è stato condannato per il reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006, in relazione all’art. 208, comma 15 dello stesso decreto, per aver esercitato un impianto mobile di recupero di rifiuti speciali non pericolosi, consistenti in materiali da demolizione, in assenza della prescritta comunicazione da presentare all’ente competente almeno 60 giorni prima della campagna di lavoro.
Nel proposto ricorso per cassazione, l’imputato asseriva che la sentenza impugnata aveva erroneamente letto l’art. 208, comma 15, essendo egli in possesso di regolare iscrizione nel «Registro provinciale delle imprese che esercitano attività di recupero di rifiuti non pericolosi» ed avendo effettuato, nella fattispecie, attività di mera riduzione volumetrica di rifiuti non pericolosi mediante impianto mobile, come tale esclusa espressamente dagli obblighi autorizzativi di cui all’art. 208, comma 15. In tal modo, secondo il ricorrente, il giudice del merito aveva considerato, in sostanza, che la deroga prevista dal citato articolo opererebbe soltanto nel caso in cui l’impianto mobile sia stato autorizzato anche nelle forme ordinarie, così travisando il senso della disposizione applicata.
Il ricorso è stato accolto è fondato e la sentenza è stata annullata con rinvio per nuovo esame alla luce del principio di diritto affermato.
La Cassazione è partita dall’assunto che risultava accertato in fatto che la società dell’imputato stesse svolgendo, all’atto del controllo, attività di recupero di rifiuti speciali non pericolosi, costituiti da «residui di attività di demolizione e costruzione», consistita nella «riduzione volumetrica e separazione dei suddetti residui», effettuata utilizzando un «apposito macchinario mobile» presso un cantiere ubicato in località diversa da quella indicata nell’atto autorizzatorio presente in atti.
Dando conto della circostanza che l’attività di gestione era stata effettuata «al di fuori della sede autorizzata», il Giudice aveva ritenuto tale condotta assimilabile a quella di gestione in assenza di titolo abilitativo e, confutando una specifica deduzione difensiva, aveva osservato che il richiamo all’art. 208, comma 15, doveva ritenersi inconferente non risultando, dall’autorizzazione presente in atti, che l’impianto cui essa si riferisce fosse qualificato come impianto mobile.
La Corte ha poi rilevato che il ricorrente non contestava i dati fattuali, concernenti l’attività in concreto svolta (recupero mediante riduzione volumetrica e separazione), l’oggetto di tale attività (rifiuti derivanti da attività di demolizione e costruzione) ed il mezzo (impianto mobile) con il quale detta attività veniva effettuata. Inoltre era pacifico che la società dell’imputato operasse in regime di procedura semplificata. Tale complessivo stato di cose, ad avviso del Collegio, avrebbe però richiesto, da parte del giudice del merito, una lettura diversa delle disposizioni applicate.
Infatti, la disciplina generale in tema di rifiuti prevede che le attività di gestione siano soggette al possesso di determinati titoli abilitativi che richiedono, nei casi in cui è maggiore il rischio di conseguenze negative per l’ambiente, il rilascio di un atto formale di autorizzazione all’esito di un complesso procedimento amministrativo, mentre, negli altri casi, è richiesta la semplice iscrizione all’Albo nazionale dei gestori ambientali sino a prevedere, per determinate attività, il ricorso alle procedure semplificate.
L’art. 208, in particolare, prevede attualmente un’autorizzazione unica, rilasciata dalla Regione, per la realizzazione e gestione di nuovi impianti di smaltimento o di recupero di rifiuti, anche pericolosi, i contenuti essenziali della quale sono indicati nel comma 11.
Detta disposizione stabilisce anche alcune eccezioni alla procedura ordinaria, che riguardano il controllo e l’autorizzazione delle operazioni di carico, scarico, trasbordo, deposito e maneggio di rifiuti in aree portuali, i quali sono disciplinati dalle specifiche disposizioni, il deposito temporaneo effettuato nel rispetto delle condizioni stabilite dalla legge e, ciò che qui rileva, gli impianti mobili di smaltimento o di recupero. Per tale tipologia di impianti è infatti disposto, dal comma 15, che essi sono autorizzati, in via definitiva, dalla Regione ove l’interessato ha la sede legale o la società straniera proprietaria dell’impianto ha la sede di rappresentanza. E' inoltre previsto, sempre nello stesso comma, che, per lo svolgimento delle singole campagne di attività sul territorio nazionale, l’interessato, almeno sessanta giorni prima dell’installazione dell’impianto, comunichi alla Regione nel cui territorio si trova il sito prescelto le specifiche dettagliate relative alla campagna di attività, allegando l’autorizzazione di cui al comma 1 dell’art. 208 e l’iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali, nonché l’ulteriore documentazione richiesta.
La Regione può anche adottare prescrizioni integrative, oppure può vietare l’attività con provvedimento motivato qualora lo svolgimento della stessa nello specifico sito non sia compatibile con la tutela dell’ambiente o della salute pubblica. Dunque, in linea generale, per tale tipologia di impianti è previsto un atto autorizzatorio preventivo, avente efficacia generale, in quanto abilita all’espletamento dell’attività nel complesso ed in ambito nazionale. La preventiva verifica delle condizioni di legge per l’esercizio dell’attività comporta, poi, un ulteriore controllo, successivo ed attenuato, in quanto soggetto a mera comunicazione, in occasione delle singole campagne di attività.
Lo stesso comma 15 -nel testo vigente alla data dell’accertamento dei fatti per cui si procede- prevede un’ulteriore deroga alla speciale disciplina appena ricordata, stabilendo espressamente che essa non si applica agli impianti mobili che effettuano la disidratazione dei fanghi generati da impianti di depurazione e reimmettono l’acqua in testa al processo depurativo presso il quale operano ed a quelli in cui si provveda alla sola riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee.
La modifica apportata alla disposizione nel 2010 («...esclusi gli impianti mobili che effettuano la disidratazione dei fanghi generati da impianti di depurazione e reimmettono l’acqua in testa al processo depurativo presso il quale operano, ed esclusi i casi in cui si provveda alla sola riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee...»), secondo la sentenza in epigrafe, chiarisce meglio il senso della deroga al regime ordinario.
Ciò posto, il Collegio ha ricordato che sullo stesso tema la Cassazione si era già pronunciata con conclusioni pienamente condivise anche in questa occasione perché era evidente che la deroga di cui si tratta, riguardando attività potenzialmente dannose per l’integrità dell’ambiente, non poteva che operare limitatamente alle operazioni specificamente indicate dal legislatore.
Sicché, a giudizio della Cassazione, operando la deroga limitatamente alle attività indicate e, segnatamente, per ciò che qui interessa, la riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni estranee, doveva escludersi che la sua applicabilità potesse estendersi ad attività diverse o ulteriori rispetto a quelle previste dalla norma, che restano pertanto soggette al regime ordinario (si pensi, ad esempio, al trasporto effettuato dopo il compimento delle operazioni suddette).
In conclusione, è stato affermato il principio secondo il quale la deroga al regime ordinario in materia di rifiuti prevista, dall’art. 208, comma 15, D.Lgs. n. 152/2006, per gli impianti mobili che eseguono la sola riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni estranee, opera esclusivamente con riferimento a tali attività, restando conseguentemente esclusa ogni operazione diversa, antecedente o successiva, che rimane invece soggetta alla disciplina generale, incombe ovviamente su chi invoca l’applicazione di detta deroga, l’onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti di legge per la sua operatività.
Per quel che concerne la fattispecie in esame, la Corte ha quindi rilevato che il giudice del merito aveva concentrato la sua attenzione sulla circostanza che il titolo abilitativo del quale disponeva l’imputato riguardasse un impianto fisso ubicato altrove e che dal titolo suddetto non risultasse che l’impianto utilizzato fosse mobile, giungendo così alla conclusione che l’attività fosse stata effettuata al di fuori della sede autorizzata e con impianto la cui tipologia non giustificava alcun richiamo alla speciale disciplina di cui all’art. 208, comma 15.
Sennonché, tale assunto era errato, poiché una corretta lettura della disposizione ora richiamata avrebbe dovuto indurre il Tribunale alla verifica, in concreto, delle operazioni effettivamente svolte con l’impianto mobile, ritenendo quindi lecita l’attività se perfettamente corrispondente con la previsione normativa e, dunque, se limitata alla sola riduzione volumetrica e separazione di eventuali frazioni estranee, stante la piena operatività, in tal caso, del regime derogatorio ovvero, in difetto, di verificare se le diverse attività di gestione venissero effettuate in assenza di titolo abilitativo o senza osservarne le prescrizioni, con conseguente applicabilità delle sanzioni previste, in un caso, dal comma 1 e, nell’altro, dal comma 4 dell’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.02.2014 n. 6107 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 5/2014).

SICUREZZA LAVOROCommittente-responsabile dei lavori e garante di fatto.
Per un infortunio occorso in un cantiere a un lavoratore minorenne furono condannati il committente responsabile dei lavori e i titolari di due imprese individuali appaltatrici ed esecutrici dei lavori, in quanto l’infortunato, «mentre tinteggiava in quota (a circa 8 metri al di sopra del piano stabile), precipitava a terra da un ponteggio instabile e pericoloso allestito non a regola d’arte, con cattivo materiale
Nel confermare la condanna, la Sez. IV fornisce alcuni utili chiarimenti. Osserva, anzitutto, che il committente responsabile dei lavori «affidò l’esecuzione delle opere di tinteggiatura ad imprese individuali del tutto inadeguate (i titolari di tali imprese erano infatti i coimputati che facevano i giostrai), e non si premurò di informare il coordinatore per la sicurezza dell’ingresso non previsto di altre ditte all’interno del capannone
Ne desume che «i lavori di tinteggiatura non erano previsti nel PSC, in quanto il committente pensava di non esservi tenuto, e non avrebbe pagato tali opere perché le stesse venivano effettuate gratuitamente per ricompensare l’imputato che consentiva ai giostrai di ricoverare le giostre in altro capannone di sua proprietà.» (quanto alla responsabilità del committente o responsabile dei lavori per omessa verifica dell’idoneità tecnico- professionale dell’impresa appaltatrice o del lavoratore autonomo v. Guariniello, Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano, 2013, 536 ss.).
Per altro verso, con riguardo ai titolari delle imprese esecutrici, la Sez. IV sottolinea che «l’accettazione di un lavoro in appalto in assenza delle necessarie capacità tecniche, l’omessa predisposizione del piano operativo di sicurezza, l’allestimento di un ponteggio rudimentale,  rimovibile e pericolosissimo (senza alcuni parapetti,privo di un sottoponte di sicurezza, del tutto instabile perché non saldamente ancorato) sono tutti profili di colpa ascrivibili a entrambi gli imputati, a prescindere dal loro ruolo formale, in chiaro nesso causale con l’evento
Insegna che, «al fine dell’attribuzione della veste di datore di lavoro di fatto, è invero assolutamente irrilevante la circostanza che le imprese dei due imputati non fossero iscritte nel registro delle imprese e il lavoratore infortunato lavorasse ‘‘in nero’’, nonché la presenza di un rapporto gerarchico tra il garante di fatto e il soggetto garantito
Ricorda al riguardo che «l’assunzione di fatto di una posizione di garanzia può prescindere dalla presenza di un rapporto gerarchico tra il garante di fatto e il soggetto garantito.» (Circa il datore di lavoro di fatto v. Guariniello, op. cit., 16 ss.) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 31.01.2014 n. 4993 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 4/2014).

SICUREZZA LAVOROLa differenza tra responsabile dei lavori, direttore dei lavori, coordinatore.
La sentenza qui segnalata sviluppa una analisi puntuale circa i rapporti tra due figure centrali della sicurezza nei cantieri temporanei o mobili quali il responsabile dei lavori e il coordinatore, e, per di più, dedica la sua attenzione a una terza figura di grande interesse come il direttore dei lavori (in merito a queste tre figure v. Guariniello, Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano, 2013, 518 ss., 542 ss., 550 ss., 581 ss.).
Lo spunto è offerto dalla condanna di un responsabile dei lavori per aver omesso durante la progettazione dell’opera di redigere il piano di sicurezza e coordinamento.
Nell’annullare la condanna, la Sez. III rileva che, in forza dell’art. 91, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 81/2008, «durante la progettazione dell’opera e comunque prima della richiesta di presentazione delle offerte, il coordinatore per la progettazione redige il piano di sicurezza e di coordinamento di cui all’articolo 100, comma 1, i cui contenuti sono dettagliatamente specificati nell’allegato XV», e che, «tra questi, a conferma della esclusività del compito, si segnala quanto previsto dall’Allegato XV, punto 2.1.3., che attribuisce inequivocabilmente al coordinatore per la progettazione il compito di indicare nel PSC, ove la particolarità delle lavorazioni lo richieda, il tipo di procedure complementari e di dettaglio al PSC stesso e connesse alle scelte autonome dell’impresa esecutrice, da esplicitare nel POS.»
Nota che «questa regola soffre solo due eccezioni»: «in primo luogo, l’art. 90, comma 11, D.Lgs n. 81/2008, prevede che in caso di lavori privati non soggetti a permesso di costruire e comunque di importo inferiore ad euro 100.000 non si applica quanto previsto al comma 3 del medesimo articolo; pertanto, un committente che si trovasse in questa situazione non dovrà nominare il coordinatore per la progettazione ma, anche in tal caso non vengono meno gli obblighi di redazione del PSC e del Fascicolo dell’Opera che dovranno essere assolti dal coordinatore per l’esecuzione dei lavori»; «in secondo luogo, nel caso di cui all’art. 90, comma 5 (ossia, nel caso in cui, dopo l’affidamento dei lavori a un’unica impresa, l’esecuzione dei lavori o di parte di essi sia affidata a una o più imprese), il compito di redigere il PSC grava sul coordinatore per l’esecuzione (art. 92, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008)
Da questa analisi, ricava «la natura di reato proprio della contravvenzione, atteso che la norma sanzionatoria prevista nell’attuale D.Lgs. n. 81/2008 (art. 158, rubricato ‘‘Sanzioni per i coordinatori’’, così sostituito dall’art. 87 del D.Lgs. n. 106/2009) individua, al comma 1, quale soggetto attivo del reato, il ‘‘coordinatore per la progettazione’’, assoggettandolo, in particolare, alla pena dell’arresto da tre a sei mesi o dell’ammenda da 2.500 a 6.400 euro (aumentata nella misura del 9,6% a decorrere dal primo luglio 2013, per effetto del D.L. n. 69/2013, c.d. ‘‘Decreto del fare’’), per la violazione dell’art. 91, comma 1, ciò, si osservi, fatta eccezione per la richiamata ipotesi di cui all’art. 92, comma 2, D.Lgs n. 81/2008
A questo punto, la Sez. III sposta l’attenzione sul ‘‘responsabile dei lavori’’, «figura individuata dall’art. 89, comma 1, lettera c), D.Lgs n. 81/2008 come soggetto che può essere incaricato dal committente per svolgere i compiti ad esso attribuiti dal presente decreto (definizione, oggi, più ampia e generica rispetto a quella contemplata dall’abrogato D.Lgs. n. 494/1996, che invece lo indicava come il ‘‘soggetto che può essere incaricato dal committente ai fini della progettazione o della esecuzione o del controllo dell’esecuzione dell’opera’’)
Nell’intento, poi, di «rimarcare la differenza esistente tra le due figure soggettive, anche in termini di differenti posizioni di garanzia, rammenta che la legge (art. 90, comma 3, D.Lgs n. 81/2008) non solo prevede che ‘‘nei cantieri in cui è prevista la presenza di più imprese esecutrici, anche non contemporanea, il committente, anche nei casi di coincidenza con l’impresa esecutrice, o il responsabile dei lavori, contestualmente all’affidamento dell’incarico di progettazione, designa il coordinatore per la progettazione’’, ma anche che, solo se il committente o il responsabile dei lavori è in possesso dei requisiti professionali richiesti dall’art. 98 ha facoltà di svolgere le funzioni sia di coordinatore per la progettazione sia di coordinatore per l’esecuzione dei lavori; diversamente, le due figure devono  restare separate e, quindi, per quanto qui di interesse, il responsabile dei lavori deve procedere alla designazione nomina del coordinatore per la progettazione
La Sez. III nota ancora che «la soluzione non muta nemmeno nel caso in cui l’imputato avesse rivestito la qualifica di ‘‘direttore dei lavori’’ (e non responsabile dei lavori), in quanto tale figura, sebbene non definita dalla normativa dettata dal D.Lgs n. 81/2008, ha compiti in materia di sicurezza ben individuati normativamente:
a) anzitutto, in tema di disarmo delle armature provvisorie di cui al comma 2 dell’art. 142, stabilendo la norma (art. 145, D.Lgs n. 81/2008) che tale disarmo deve essere effettuato con cautela dai lavoratori che hanno ricevuto una formazione adeguata e mirata alle operazioni previste sotto la diretta sorveglianza del capo cantiere e sempre dopo che il direttore dei lavori ne abbia data l’autorizzazione;
b) in secondo luogo, quello di liquidare l’importo relativo ai costi della sicurezza previsti in base allo stato di avanzamento lavori, previa approvazione da parte del coordinatore per l’esecuzione dei lavori quando previsto (Allegato XV al D.Lgs n. 81/2008, punto 4.1.6).
Aggiunge che il direttore dei lavori, «per giurisprudenza costante, è responsabile dell’infortunio sul lavoro quando gli viene affidato il compito di sovrintendere all’esecuzione dei lavori, con la possibilità di impartire ordini alle maestranze sia per convenzione, cioè per una particolare clausola introdotta nel contratto di appalto, sia quando per fatti concludenti risulti che egli si sia in concreto ingerito nell’organizzazione del lavoro», ma che «nulla autorizza l’estensione analogica della fattispecie astratta e di quella sanzionatoria contestata all’attuale imputato, atteso che si tratta di previsione attinente ad un soggetto dotato di qualifica ben determinata, ossia il coordinatore per la progettazione; diversamente, trattandosi di reato proprio, si violerebbe il divieto di analogia in materia penale (nel caso in esame, peraltro, in malam partem), salvi i casi di concorso dell’extraneus, questione non rilevante nel caso di specie.» (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2014 n. 3717 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 4/2014).

SICUREZZA LAVOROIl registro dei controlli antincendio.
Il gestore di una discoteca fu condannato, in particolare, per aver omesso di istituire il registro dei controlli antincendio.
Nell’annullare la condanna, la Sez. III osserva, anzitutto, che l’art. 64 D.Lgs. n. 81/2008, erede dell’art. 32 D.Lgs. n. 626/1994, «non prevede l’obbligo di tenuta del registro dei controlli antincendio, ma detta una diversa serie di obblighi a carico del datore di lavoro
Soggiunge che «in ogni caso, il registro, già previsto dall’art. 5, comma 2, D.P.R. n. 37/1998 [«I controlli, le verifiche, gli interventi di manutenzione, l’informazione e la formazione del personale, che vengono effettuati, devono essere annotati in un apposito registro a cura dei responsabili dell’attività. Tale registro deve essere mantenuto aggiornato e reso disponibile ai fini dei controlli di competenza del comando»] è stato eliminato, perché l’art. 12, comma 1, lettera b), D.P.R. n. 151/2011 ha abrogato il D.P.R. n. 37/1998.» (in passato, Cass. 07.08.2007, Grifagni, in Guariniello, Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano, 2013, 422, esaminò il caso del titolare di un’azienda - dichiarato colpevole del reato di cui agli artt. 12, comma 1, lettera d), e 89, comma 2, lettera a), D.Lgs. 19.09.1994 n. 626 «per non avere attivato e compilato in apposito registro, relativo alla programmazione degli interventi di verifica e manutenzione dei mezzi di estinzione, dei sistemi e/o dispositivi di sicurezza antincendio presenti nell’attività, necessari affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave e immediato, si mettessero al sicuro abbandonando il luogo di lavoro», e affermò che «la violazione riscontrata non è consistita nella mancanza del piano di emergenza o di un certificato di prevenzione incendi, ma la mancanza di un registro, ovvero di un altro supporto, che documentasse il rispetto delle disposizione dell’art. 12 D.Lgs. n. 626/1994, cioè l’avere programmato gli interventi necessari in caso di pericolo per i dipendenti e l’avere istruito gli stessi sul comportamento da tenere al presentarsi di un simile pericolo, in particolare (ma non esclusivamente) sull’ubicazione e l’utilizzo dei mezzi antincendio e delle vie di fuga).» (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2014 n. 3684 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 4/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUE METEORICHE.
Acque - Disciplina delle acque meteoriche di dilavamento
Artt. 74, 101, 124, 137, D.Lgs. n. 152/2006
La nuova formulazione dell’art. 74, lett. g), D.Lgs. n. 152/2006 esclude ogni riferimento qualitativo alla tipologia delle acque, dal momento che è stato eliminato dal dato normativo sia il riferimento alla differenza qualitativa dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, sia l’inciso «intendendosi per tali (acque meteoriche di dilavamento) anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connesse con le attività esercitate nello stabilimento», di talché non è più possibile oggi assimilare, sotto un profilo qualitativo, le due tipologie di acque (reflui industriali e acque meteoriche di dilavamento) né è possibile ritenere che le acque meteoriche di dilavamento (una volta venute a contatto con materiali o sostanze anche inquinanti connesse con l’attività esercitata nello stabilimento) possano essere assimilate ai reflui industriali.
Il Tribunale di Lucca, dichiarando l’imputato colpevole del reato di cui agli artt. 124, 101 e 137, D.Lgs. n. 152/2006 (per aver realizzato un nuovo scarico di acque meteoriche contaminate che, senza alcun trattamento ed unite alle acque non contaminate proveniente dai tetti, defluivano dal piazzale dello stabilimento verso i tombini di raccolta), aveva osservato che le acque piovane, impregnate delle sostanze che trascinavano nel loro passaggio, dovevano ritenersi contaminate e come tali equiparate dal D.Lgs. n. 152/2006 alle acque industriali, con la conseguenza che lo scarico necessitava di autorizzazione; che effettivamente l’attività dell’impresa non rientrava tra quelle della tabella 5 dell’Allegato 5 alla L.R. n. 20/ 2006 (tabella che prevede appunto quali siano le attività che producono acque meteoriche contaminate), ma che ciò non esimeva, qualora fosse risultato un inquinamento delle acque, dal presentare un piano di gestione o, in ogni caso, dal richiedere l’autorizzazione; che nel piazzale di stoccaggio delle bobine in prossimità del tombino e nell’area adiacente al sistema di depurazione erano presenti poltiglia, fanghiglia e frammenti di carta, che tracimavano, unitamente alle acque, fuori del recinto dell’azienda, con evidente imbrattamento del terreno; che nella specie non era applicabile il regime transitorio previsto dalla delibera regionale n. 46/R, che non era ancora in vigore al momento dei fatti.
La Cassazione -investita del ricorso avverso la condanna- ha colto l’occasione per esaminare a fondo la questione delle acque meteoriche di dilavamento e di prima pioggia.
La tesi della Corte è che non sia ravvisabile il reato di cui all’art. 137, D.Lgs. n. 152/2006, bensì un illecito amministrativo, e ciò per due diverse ragioni, riconducibili all’erronea applicazione nella specie della normativa statale in materia di reflui industriali anziché della normativa regionale locale (L.R. Toscana n. 20/2006 e reg. attuazione di cui al D.P.G.R. Toscana n. 46 dell’08.09.2008) secondo quanto disposto dall’art. 113 che demanda alle regioni la disciplina locale in materia di acque meteoriche di dilavamento e di prima pioggia.
In primo luogo, la Cassazione ha rilevato che, come ricordato anche dal ricorrente, nel D.Lgs. n. 152/2006 si fa cenno alle «acque meteoriche di dilavamento» nella Sezione II, Parte III, che è dedicata alla «Tutela delle acque dall’inquinamento», ma non si fornisce una specifica definizione delle stesse che indirettamente, e in negativo, viene data nell’art. 74.
In tale disposizione, «le acque meteoriche di dilavamento» non sono definite in modo diretto nel loro contenuto, ma citate nella definizione di un’altra tipologia di acque, e cioè dei reflui industriali (lett. h), allo scopo di delimitarne in  negativo il significato. L’art. 74 cit., infatti dispone, alla lett. g), che si intendono per acque reflue domestiche, le «acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche», ed alla lett. h) che si intendono per acque reflue industriali «qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od impianti in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento».
L’art. 74 cit., pertanto, pur non fornendo una diretta definizione delle acque meteoriche di dilavamento, le considera diverse e distinte dalle acque reflue industriali e, quindi, non assimilabili a quest’ultime.
La Corte ha opportunamente ricordato che la suddetta formulazione dell’art. 74 cit. è quella risultante dalla modifica operata dall’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 4/2008, modifica con la quale è stato escluso il riferimento qualitativo alla tipologia delle due acque. E difatti il previgente testo dell’art. 74, lett. h), stabiliva che si intendevano per «acque reflue industriali: qualsiasi tipo di acque reflue provenienti da edifici od installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti qualitativamente dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate nello stabilimento».
 I giudici romani hanno poi notato che nella specie il Tribunale aveva applicato le norme antecedenti alla modifica legislativa omettendo di verificare se le conclusioni cui era giunta Cass. 11.10.2007, n. 40191, Schembri (richiamata in motivazione), fondate sul precedente testo dell’art. 74, lett. g), potessero ritenersi ancora valide dopo la ricordata modifica normativa.
E difatti la nuova formulazione dell’art. 74, lett. g), esclude ogni riferimento qualitativo alla tipologia delle acque, dal momento che è stato eliminato dal dato normativo sia il riferimento alla differenza qualitativa dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, sia l’inciso «intendendosi per tali (acque meteoriche di dilavamento) anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connesse con le attività esercitate nello stabilimento», di talché sembrerebbe non più possibile oggi assimilare, sotto un profilo qualitativo, le due tipologie di acque (reflui industriali e acque meteoriche di dilavamento) né sembrerebbe possibile ritenere che le acque meteoriche di dilavamento (una volta venute a contatto con materiali o sostanze anche inquinanti connesse con l’attività esercitata nello stabilimento) possano essere assimilate ai reflui industriali. Sembrerebbe, cioè, che data la ricordata modifica legislativa, non sarebbe più possibile accomunare le acque meteoriche di dilavamento e le acque reflue industriali.
In ogni caso, anche volendo prescindere dalla modifica legislativa, il giudice di primo grado non aveva considerato che l’art. 113, rubricato appunto «Acque meteoriche di dilavamento e acque di prima pioggia», prevede che le Regioni, «ai fini della prevenzione di rischi idraulici ed ambientali», emanino una disciplina delle acque meteoriche che dilavano le superfici e si riversano in differenti corpi recettori.
L’art. 133, comma 9, sanziona in via amministrativa chiunque non ottemperi alla disciplina dettata dalle regioni ai sensi dell’art. 113, comma 1, lett. b), ossia la violazione delle prescrizioni o delle autorizzazioni disposte in sede regionale.
La previsione della punizione mediante sanzione amministrativa è tassativa, sia perché non possono essere estese in via analogica le norme che prevedono una sanzione penale, sia perché il legislatore non ha inserito al comma 9 dell’art. 133 la clausola di stile «salvo che il fatto costituisca reato».
L’art. 137, comma 9, poi, sanziona penalmente, con le pene di cui al comma 1 «chiunque non ottempera alla disciplina dettata dalle Regioni ai sensi dell’art. 113, comma 3». Poiché quest’ultima disposizione fa riferimento a «particolari condizioni nelle quali, in relazione alle attività svolte, vi sia il rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici», la condotta illecita oggetto di sanzione penale, deve estrinsecarsi in un pericolo concreto e non presunto.
Tenuto dunque conto che il D.Lgs. n. 152/2006 demanda alla normativa regionale la disciplina delle acque meteoriche di dilavamento, con riguardo al caso di specie venivano in rilievo la legge reg. toscana 20/2006 nonché il regolamento di attuazione di cui al D.P.G.R. Toscana n. 46/R/2008.
In particolare, la L.R. n. 20/2006, all’art. 2 («Definizioni»), definisce al comma 1, lett. d), le acque meteoriche dilavanti (AMD) suddividendole in acque meteoriche dilavanti non contaminate (ADNC) e acque meteoriche dilavanti contaminate (AMC). Alla successiva lett. e) definisce acque meteoriche dilavanti contaminate (AMC) le acque meteoriche dilavanti diverse dalle acque meteoriche dilavanti non contaminate ivi incluse le acque meteoriche di prima pioggia, derivanti dalle attività che comportino oggettivo rischio di trascinamento, nelle acque meteoriche, di sostanze pericolose o di sostanze in grado di determinare effettivi pregiudizi ambientali, individuate (le attività) dal regolamento di cui all’art. 13.
Alla lettera f) dell’art. 2 vengono definite acque meteoriche  dilavanti non contaminate (AMDNC) le acque meteoriche dilavanti derivanti da superfici impermeabili anche di aree industriali dove non vengono svolte attività che possano oggettivamente comportare il rischio oggettivo di trascinamento di sostanze pericolose o di sostanze in grado di determinare effettivi pregiudizi ambientali.
L’art. 8 della medesima L.R. n. 20/2006, disciplina poi lo scarico di acque di prima pioggia e di acque meteoriche dilavanti contaminate, regolando ai commi 1-2 lo scarico in pubblica fognatura e fuori dalla pubblica fognatura di acque di prima pioggia provenienti da aree pubbliche; ed ai commi 3- 4 lo scarico delle acque di prima pioggia e le acque meteoriche dilavanti contaminate diverse da quelle indicate ai numeri 1-2 prevedendo un meccanismo di autorizzazione e un sistema di depurazione.
Il successivo art. 13, comma 2, demanda alla Giunta regionale di disciplinare con regolamento, entro 180 giorni dalla entrata in vigore della legge regionale, l’elenco delle attività di cui all’art. 2, comma 1, lett. e), che comportano oggettivo rischio di trascinamento nelle acque meteoriche dilavanti di sostanze pericolose o di sostanze in grado di determinare effettivi pregiudizi ambientali.
Nel regolamento emanato dalla Giunta regionale toscana il giorno 8 settembre 2008 (D.P.G.R n. 46/R/2008) all’art. 39 intitolato acque meteoriche contaminate si indicano (con apposito allegato 5) le attività di cui all’art. 2, comma 1, lett. e), della L.R. n. 20/2006 che presentano oggettivo rischio di trascinamento nelle acque meteoriche di sostanze pericolose o di sostanze in grado di determinare effetti pregiudizievoli ambientali. Il comma 7 di detto articolo prevede che per le imprese autorizzate allo scarico di acque reflue industriali il piano di cui al comma 6 (il piano di gestione delle acque meteoriche) e` presentato contestualmente alla domanda di nuova autorizzazione o di rinnovo.
L’art. 43 del regolamento citato al comma 1 prevede che il titolare delle attività di cui all’art. 39 comma 1 (quelle di cui all’Allegato 5, Tabella 5) comunque entro tre anni dalla entrata in vigore del regolamento stesso presenta il piano di gestione delle AMD.
A conclusione dell’excursus, la Cassazione ha ritenuto che, nel caso in esame, la normativa applicabile, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice del merito, fosse quella di cui alla legge reg. toscana n. 20/2006 e al suo regolamento di attuazione, mentre non era applicabile la normativa di cui agli artt. 101-124 D.Lgs. n. 152/2006, non solo perché esclusa dall’art. 113 del medesimo decreto, ma anche perché essa riguarda gli scarichi di reflui industriali e non già gli scarichi o immissioni di acque meteoriche di dilavamento, tipologie di acque diverse tra loro.
Nella specie, all’imputato era stato contestato la scarico delle acque meteoriche di dilavamento senza autorizzazione, ossia era stata contestata la violazione della disciplina dettata dalla regione ai sensi dell’art. 113, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 152/2006, e cioè la violazione delle prescrizioni, ivi compresa l’eventuale autorizzazione, dettate dalla normativa regionale per la immissione di acque meteoriche di dilavamento effettuata tramite condotta separata dalla rete fognaria.
Siffatta violazione non è punita penalmente, ma integra solo un illecito amministrativo.
La Cassazione ha infine osservato che, anche a voler ipotizzare la contaminazione dell’acqua meteorica di dilavamento, lo stabilimento, che era fornito di autorizzazione allo scarico di reflui industriali, aveva comunque tempo tre anni dall’entrata in vigore (08.09.2008) del regolamento di attuazione della legge regionale n. 20/2006 per presentare, ai sensi degli artt. 39 e 43 di detto regolamento, un piano di adeguamento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.01.2014 n. 2867 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 5/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - SICUREZZA LAVOROBonifica dell’amianto in comune: soggetti obbligati e idoneità dell’appaltatore.
La fattispecie appare di notevole rilievo: un dirigente comunale venne condannato per la violazione dell’art. 26, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008, «perché, in relazione alla gestione di un’isola ecologica, non provvedeva, nell’affidamento di lavori di bonifica e smaltimento di materiali contenenti amianto, a verificare i requisiti tecnico-professionali delle ditte affidatarie
A sua discolpa, l’imputato sostiene che egli «era dirigente dell’ufficio tecnico comunale e tale ufficio era estraneo rispetto alla gestione della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della bonifica delle aree e delle determinazione di spesa e liquidazione dei compensi alle ditte affidatarie, che erano state invece curate dall’ufficio patrimonio del comune, del quale era dirigente un soggetto diverso dall’imputato e nel quale vi era un funzionario non dotato di qualifica dirigenziale, responsabile del servizio ecologia
Nel respingere il ricorso proposto dall’imputato, la Sez. III prende atto che «le ditte affidatarie dei lavori di raccolta, trasporto smaltimento dei materiali contenenti amianto erano prive dell’autorizzazione ad effettuare i lavori di bonifica per detti materiali, in quanto non iscritte alla categoria 10 dell’albo nazionale smaltitori
Precisa che, «nell’ambito dell’affidamento di appalti pubblici, la qualifica di datore di lavoro ai fini della sicurezza sul lavoro può ben essere attribuita ad un dirigente o funzionario dell’amministrazione competente diverso da  quello che ha provveduto all’affidamento dell’incarico e che si occupa del pagamento dei relativi corrispettivi
Osserva che «questo è quanto è avvenuto nel caso di specie, in cui pacificamente l’incarico era stato conferito e i pagamenti dei compensi erano stati effettuati da un dirigente e da un funzionario appartenenti ad un ufficio diverso da quello diretto dall’imputato», e che «nondimeno, con deliberazione della giunta municipale, l’imputato, nella sua veste di responsabile dell’ufficio tecnico comunale, è stato individuato come datore di lavoro ai sensi e per gli effetti delle disposizioni di cui al decreto legislativo n. 626 del 1994, poi sostituito dal decreto legislativo n. 81 del 2008
Aggiunge che «ciò che conta, poi, ai fini dell’applicazione dell’art. 26, comma 1, dello stesso decreto legislativo è che il datore di lavoro, in caso di affidamento di lavori, servizi e di forniture all’impresa appaltatrice, è tenuto a verificare l’idoneità tecnico professionale dell’impresa appaltatrice stessa, attraverso l’acquisizione della necessaria documentazione, sempre che l’amministrazione abbia la disponibilità giuridica di luoghi in cui si svolge l’appalto o la prestazione di lavoro autonomo.» (sugli obblighi previsti dall’art. 26 D.Lgs. n. 81/2008 v., anche sotto il profilo attinente alla verifica dell’idoneità tecnico professionale delle imprese appaltatrici e dei lavoratori autonomi, Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano, 2013, in ispecie 315 ss.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.01.2014 n. 2862 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 4/2014).

SICUREZZA LAVORODal datore di lavoro all’organizzazione committente: gli obblighi dei coordinatori.
E' con particolare lucidità che la sentenza qui presentata mette in luce il senso profondo dell’evoluzione segnata dalla normativa in tema di sicurezza del lavoro nei cantieri temporanei o mobili.
Invero, la Sez. IV nota che «normalmente è il datore di lavoro il personaggio che riveste una posizione di vertice nel sistema della sicurezza, in quanto titolare del rapporto di lavoro e al contempo titolare dell’impresa esecutrice dei lavori, con compiti quindi organizzativi ed economici inerenti l’attività dell’impresa che lo vedono direttamente coinvolto anche nella predisposizione ed osservanza delle misure antinfortunistiche», e che, tuttavia, il legislatore, «nell’ottica di una pluralità di soggetti che concorrono alla sicurezza del lavoro, introduce, affiancandola al datore di lavoro con i suoi collaboratori, la figura del committente
Considera «ragionevole che anche il committente, che assume l’iniziativa della realizzazione dell’opera, provvedendo a programmarla e a finanziarla anche se l’esecuzione venga affidata a terzi, assuma una quota di responsabilità in materia di prevenzione antinfortunistica collocandosi accanto al datore di lavoro nella titolarità degli obblighi di protezione, con la possibilità di demandarli ad altra figura, questa ausiliaria, del responsabile dei lavori, anziché occuparsene direttamente
Aggiunge che, «per gli aspetti tecnici delle competenze facenti capo al committente in materia antinfortunistica, lo stesso, o per lui il responsabile dei lavori, si avvale di figure specializzate distinte per la fase della progettazione e della realizzazione, che sono appunto il coordinatore per la salute e sicurezza in fase di progettazione e il coordinatore per la salute e sicurezza in fase di realizzazione
In questo quadro, la Sez. IV trae spunto dal caso di specie per sviluppare utili chiarimenti in merito agli obblighi del coordinatore per la progettazione e per l’esecuzione dei lavori. Prende atto che, nel caso di specie, «non era previsto nel PSC (piano di sicurezza e coordinamento) da lui redatto una specifica prescrizione relativa all’adozione di misure volte ad evitare, durante la lavorazione, la caduta di elementi instabili dall’edificio fatiscente in aderenza al quale doveva essere eretto il pilastro», che «la difesa invoca  la previsione di trabattelli e ponteggi contenuta nella scheda n. 78 allegata al PSC», ma che «trattasi di prescrizione generica, valevole per tutti i cantieri che comportano lavori in quota, e che non prende in considerazione gli specifici rischi posti dal cantiere in questione
A questo punto, efficacemente insegna che «gli obblighi posti dalle legge di redigere i vari piani di sicurezza non devono essere intesi in senso burocratico come adempimento puramente formale da adempiere, ma possono ritenersi adempiuti solo a condizione che il soggetto prenda in considerazione gli specifici rischi del lavoro predisponendo le opportune misure di prevenzione
Del pari significativa è l’analisi dedicata all’imputato nella qualità di coordinatore per l’esecuzione dei lavori. La Sez. IV sottolinea «il mancato controllo sull’uso dei ponteggi e/o tra battelli
Constata che «nel cantiere non vi era traccia di tali attrezzature e l’operaio è caduto da una scala a pioli, trovata al momento dell’infortunio, essendo prassi consolidata adoperare tale strumento anziché le idonee attrezzature di sicurezza per i lavori in altezza
Mette in luce che l’imputato «avrebbe dovuto vigilare sul corretto uso delle misure di sicurezza da parte dei lavoratori attraverso una presenza costante sul cantiere che evidentemente è mancata se è vero che l’infortunato stava utilizzando una semplice scala anziché un tra battello», e che «l’impiego di tale attrezzatura lo avrebbe posto al riparo dalla caduta in quanto la stabilità della pedana su cui lavorava gli avrebbe consentito di non perdere l’equilibrio in conseguenza della caduta di calcinacci dal tetto del vecchio edificio in aderenza al quale il pilastro veniva eretto
Questo l’insegnamento conclusivo: «non è certo sufficiente prevedere nel piano di sicurezza e coordinamento l’uso di ponteggi e trabattelli se a questa previsione astratta non si accompagna la verifica da parte del responsabile della sicurezza dell’uso che in concreto viene fatto, considerato che era una consueta modalità operativa utilizzare per le lavorazioni in altezza la scala dalla quale è caduto l’operaio, anziché i presidi di protezione previsti, e ciò formava oggetto di un preciso obbligo dell’imputato nella sua qualità.» (circa gli obblighi dei coordinatori v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano, 2013, 542 ss. e 550 ss., cui aggiungi Cass. 16.05.2013, Catale e altri, e Cass. 26.04.2013, Mongelli, in ISL, 2013, 8-9, 456; nonché, in ISL, 2014, 2, 94, Cass. 10.12.2013, Tuozzo; Cass. 04.12.2013, Del Prete; Cass. 04.12.2013, Celentano e altri) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 17.01.2014 n. 1870 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 3/2014).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Pausa pranzo al lavoro senza permesso: è reato. Sentenza della corte di cassazione penale.
Commette il reato di violazione di domicilio il dipendente che, in assenza di espressa autorizzazione da parte del proprio datore, trascorra la propria pausa pranzo sul posto di lavoro in compagnia di terzi e per scopi estranei all'attività lavorativa.

Lo ha stabilito la V Sez. penale della Corte di Cassazione con la sentenza 09.01.2014 n. 581 (tratto da www.regione.abruzzo.it).
Nel caso concreto una dipendente di uno studio legale si è intrattenuta durante la pausa pranzo all'interno delle mura lavorative in compagnia di un terzo, e per fini estranei all'attività di impiego. Il datore di lavoro, venuto a conoscenza dell'episodio, ha denunciato la dipendente nei confronti della quale è stato promosso un procedimento per il reato di invasione abusiva di edifici. All'esito del giudizio di prime cure, l'imputata è stata condannata per il reato lei ascritto, il tribunale ritenendo arbitraria la sua presenza sul luogo di lavoro durante la pausa pranzo in assenza di una specifica concessione in termini da parte del titolare.
La Corte d'appello, adita in sede di gravame, ha ritoccato in parte qua il verdetto di primo grado, riqualificando la condotta in esame nel reato di violazione di domicilio, ai sensi dell'art. 614, c.p. A nulla è valsa l'argomentazione difensiva prospettata dai difensori dell'imputata, secondo cui il rapporto di impiego unito al possesso delle chiavi per fare accesso alla struttura rappresentavano elementi ostativi alla caratterizzazione illecita del comportamento incriminato.
La vicenda è stata, da ultimo, sottoposta al prudente vaglio dei giudici di legittimità, cui è stato chiesto di annullare la sentenza della Corte territoriale, con conseguente declaratoria di assoluzione dell'imputata. Oltre a sollevare l'intervenuta prescrizione del reato, la ricorrente ha insistito nell'evidenziare, per i motivi già espressi, l'assenza dei requisiti strutturali dell'ipotesi delittuosa per cui vi era stata condanna.
La sentenza della Suprema corte, sebbene nell'accertare l'avvenuta estinzione del reato per decorso dei termini di prescrizione, merita attenzione per la peculiarità della vicenda concreta ma, soprattutto, per le precisazioni che gli Ermellini, a onta dell'annullamento, offrono quanto ai capisaldi della fattispecie delittuosa di cui si discute.
La Corte ha avuto cura di soffermarsi sull'ambito di applicazione del reato di violazione di domicilio osservando come questi debba, anzitutto, ritenersi integrato, giusto il disposto del primo comma dell'art. 614, c.p., allorché le intenzioni di chi si introduce nell'altrui domicilio siano accertate come illecite: l'illiceità del finalismo che muove il soggetto agente, invero, rende implicita la contraria volontà del titolare di esercitare lo ius exciudendi, con la conseguenza che nessun rilievo svolge la mancanza di clandestinità da parte dell'agente, il quale frequenti o si ritenga autorizzato a frequentare l'abitazione del soggetto passivo.
Nondimeno la norma codicistica, al comma secondo, prende in considerazione l'eventualità in cui detta intenzionalità illecita, ancorché in origine assente, sopravvenga in un secondo momento, quando ormai il soggetto agente sia già presente all'interno dell'altrui domicilio: sotto questo profilo, dunque, la norma sanziona colui che si trattenga nel domicilio altrui contro l'espressa volontà del titolare che intenda escluderlo, che pure ne ha ammesso in precedenza la presenza.
Ebbene, sulla base di tali premesse, e con riferimento al caso di specie, gli Ermellini hanno confermato la rilevanza penale della condotta dell'imputata, a nulla rilevando l'opposta erronea convinzione in ordine al tacito assenso datoriale ad ammettere la presenza in studio durante le ore di chiusura. Ne consegue che il possesso delle chiavi e, dunque, la libertà di accedere al luogo di lavoro da parte del dipendente, non esime quest'ultimo dal chiedere una espressa autorizzazione affinché possa restare sul posto di lavoro quando i relativi locali rimangano chiusi e inattivi, e tanto fermo restando il sindacato sulla natura illecita dei motivi che spingono il lavoratore a determinarsi in tal senso
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014).

SICUREZZA LAVORO: Nomina del RSPP e delega.
Una nuova sentenza sul distinguo tra due atti del datore di lavoro: la delega di funzioni antinfortunistiche e la nomina del RSPP (sul tema v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano, 2013, 375 ss.).
In proposito, la Sez. IV osserva che l’atto compiuto dal datore di lavoro nel caso di specie «è finalizzato alla nomina di RSPP e non alla delega della posizione datoriale e non contiene alcuna attribuzione di poteri finanziari né di alcun altro potere proprio del datore di lavoro e tali da consentire al delegato di far fronte, in via diretta, alle esigenze in materia di prevenzione degli infortuni», e che «il datore di lavoro non può andare esente da responsabilità, sostenendo esservi stata una delega di funzioni a tal fine utile, per il solo fatto che abbia provveduto a designare il responsabile del servizio di prevenzione e protezione
Spiega che «la presenza di un RSPP è obbligatoria, ma tale figura non coincide con quella, peraltro facoltativa, del dirigente delegato all’osservanza delle norme antinfortunistiche ed alla sicurezza dei lavoratori» e che «in particolare il RSPP non può incidere in via diretta sulla struttura aziendale ma ha solo una funzione di ausilio finalizzata a supportare (e non a sostituire) il datore di lavoro nell’individuazione dei fattori di rischio nella lavorazione, nella scelta delle procedure di sicurezza e nelle pratiche di informazione e di formazione dei dipendenti
Ne desume che, «nonostante si proceda alla nomina di un RSPP, il datore di lavoro conserva l’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di elaborare il documento relativo alle misure di prevenzione e protezione
Aggiunge che «il delegato per la sicurezza -figura del tutto eventuale- è invece destinatario di poteri e responsabilità originariamente ed istituzionalmente gravanti sul datore di lavoro e, perciò, deve essere formalmente individuato ed investito del suo ruolo con modalità rigorose» (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 16.12.2013 n. 50605 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 2/2014).

SICUREZZA LAVOROGli obblighi del coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
L’analisi svolta dalla Corte Suprema in tema di obblighi e responsabilità dei coordinatori nell’ambito dei cantieri temporanei o mobili appare sempre più approfondita e incalzante (per un resoconto della giurisprudenza in materia v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano, 2013, 542 ss. e 550 ss., cui aggiungi Cass. 16.05.2013, Catale e altri, e Cass. 26.04.2013, Mongelli, in ISL, 2013, 8-9, 456).
  
A) Per cominciare, la sentenza Tuozzo afferma che «i coordinatori per la progettazione e per l’esecuzione dei lavori sono figure le cui posizioni di garanzia non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la massima garanzia dell’incolumità dei lavoratori», e che, «in applicazione del principio, nel caso in cui l’imputato rivesta entrambe le qualifiche, le giustificabili lacune del piano di sicurezza redatto in qualità di coordinatore per la progettazione debbono essere colmate attraverso una concreta e puntuale azione di controllo, che compete allo stesso imputato in qualità di coordinatore per esecuzione, e la cui omissione comporta la sua responsabilità in ordine al sinistro verificatosi
  
B) A sua volta, la sentenza Del Prete esamina un’ipotesi in cui il committente responsabile dei lavori e il coordinatore per l’esecuzione dei lavori -condannati in primo grado- furono in appello, il primo, ancora ritenuto colpevole, e, il secondo, assolto dal delitto di omicidio colposo in danno del dipendente di un’impresa esecutrice caduto dall’alto in un cantiere, e ciò perché il coordinatore «aveva più volte chiesto al committente e all’esecutore di sospendere i lavori e chiudere il cantiere
Nell’annullare con rinvio la sentenza di condanna, la Sez. IV osserva che «un tale asserto, nella sua assolutezza, non è condivisibile, stante che nel caso in cui il coordinatore per la sicurezza constati l’obiettiva necessità di sospendere i lavori e ciò non ottenga, per esonerarsi da responsabilità non ha strada diversa da quella di dimettersi dall’incarico, il cui mantenimento risulterebbe del tutto incompatibile con una situazione fattuale, a lui ben presente, che ponga a rischio l’incolumità dei lavoratori addetti al cantiere
Prende atto che, ad avviso dei giudici di appello, il coordinatore «ha fornito documentazione attestante la custodia esclusiva del cantiere da parte dell’esecutore» e che «in tale documento l’esecutore si impegnava a non proseguire i lavori fino a una certa data e dopo avere fornito al coordinatore tutta la documentazione necessaria ad attestare la messa in sicurezza del cantiere edile», sicché «appare verosimile che i lavori fossero proseguiti all’insaputa del coordinatore
Sottolinea che «tale considerazione, certamente confacente alla posizione del coordinatore, non è logicamente estranea a quella del committente
E conclude che, «se il subappaltatore si era affermato custode esclusivo del cantiere, obbligandosi a mantenerne sospesa ogni attività in attesa della piena messa in sicurezza dello stesso, restano da chiarire le ragioni per le quali il rappresentante legale dell’impresa committente debba considerarsi colpevolmente venuto meno ai propri doveri di garante a differenza del coordinatore per la sicurezza.»
  
C) Infine, la sentenza Celentano considera un caso in cui un coordinatore per l’esecuzione dei lavori, condannato per un duplice infortunio, rileva a sua discolpa che, «oltre ad aver regolarmente redatto il piano di sicurezza e di coordinamento previsto dall’art. 91 D.Lgs. n. 81/2008, prescrivendo in esso l’obbligo di montare il ponteggio secondo lo schema riportato nella relativa autorizzazione ministeriale, aveva anche verbalizzato, in occasione di un sopralluogo, la prescrizione rivolta all’impresa esecutrice dei lavori di verificare gli ancoraggi, il cui corretto serraggio, assicurando la stabilità dell’impalcatura, avrebbe evitato il ribaltamento», che «l’art. 92 D.Lgs. n. 81/2008 impone al coordinatore per l’esecuzione di verificare, con idonee azioni di coordinamento e di controllo, l’applicazione da parte dell’impresa appaltatrice delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza, disposizione che egli ha osservato allorché, in sede di controllo, disponeva, appena due giorni prima dell’infortunio, che fossero verificati gli ancoraggi», e che «la norma in esame non impone l’obbligo a carico del coordinatore per la sicurezza di verificare materialmente l’esecuzione delle operazioni che aveva prescritto, né  tantomeno di eseguirle personalmente»: «pretendere che, dopo aver dato la disposizione, impartita, nel caso in esame, per iscritto, in un verbale di sopralluogo, lo stesso dovesse verificare anche l’esecuzione, significa sostituire al precetto imposto dalla normativa in esame al coordinatore per la sicurezza, altro obbligo imposto dalla legge all’impresa esecutrice dei lavori, non esigibile da parte del coordinatore per la sicurezza
La Sez. IV ribatte che «la responsabilità del coordinatore è stata correttamente ritenuta per aver omesso le necessarie concrete verifiche circa il corretto montaggio del ponteggio, pur avendo egli prescritto nel piano operativo di sicurezza redatto, i criteri di installazione dell’impalcatura
Insegna che «il coordinatore per l’esecuzione dei lavori è titolare di una autonoma posizione di garanzia che, nei limiti degli obblighi specificamente individuati, si affianca a quelle degli altri soggetti destinatari delle norme antinfortunistiche, senza sovrapporsi, nell’ottica di un rafforzamento della tutela dell’incolumità dei lavoratori, attraverso la previsione di una figura con compiti di coordinamento e controllo», e che «in tale veste, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori ha non soltanto compiti organizzativi e di raccordo tra le imprese che collaborano alla realizzazione dell’opera, ma deve anche vigilare sulla corretta osservanza da parte delle imprese delle prescrizioni del piano di sicurezza e della scrupolosa attuazione delle procedure di lavoro a garanzia dell’incolumità dei lavoratori
Chiarisce che, «pur non richiedendo un obbligo di presenza continuativa in cantiere, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori, nel corso dei periodici accessi, deve informarsi scrupolosamente sullo sviluppo delle opere, verificando specificamente, per ciascuna fase, l’effettiva realizzazione delle programmate misure di sicurezza e svolgendo una concreta e puntuale azione di controllo sulla loro osservanza, la cui omissione comporta la sua responsabilità in ordine ai sinistri dipendenti dalla mancata predisposizione delle misure provvisionali
Spiega che, «facendo applicazione di tali principi al caso in esame, si deve ritenere inidonea ad escludere la responsabilità del coordinatore la circostanza che egli avesse indicato nel verbale di sopralluogo le prescrizioni circa il corretto montaggio dell’impalcatura, date all’impresa appaltatrice, in quanto era obbligo dell’imputato nella sua qualità di verificare che tali prescrizioni impartite fossero state effettivamente attuate», e ciò perché «egli, quale responsabile per la sicurezza, avrebbe dovuto vigilare sulla corretta adozione delle misure di sicurezza attraverso una presenza assidua, se non quotidiana, sul cantiere, quantomeno nelle fasi più complesse della lavorazione tali da esporre i lavoratori a rischi per la loro incolumità
Nota che «questa è evidentemente mancata se è  vero che il ponteggio non è stato montato in conformità delle prescrizioni e che la pesante macchina taglia mattoni è stata appoggiata su una mensola inidonea a reggerne il peso anche in rapporto alla fragilità strutturale di quell’impalcatura, per come montata
E conclude che «non è certo sufficiente prevedere nel piano di sicurezza le corrette modalità di montaggio del ponteggio se a questa previsione non si accompagna la verifica in concreto da parte del responsabile della sicurezza dell’osservanza delle prescrizioni, non semplicemente affidata ad un verbale di prescrizioni in sede di sopralluogo» (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 10.12.2013 n. 49743 - Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 04.12.2013 n. 48522 - Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 04.12.2013 n. 48511 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 2/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: POSIZIONE DI GARANZIA DEL PROPRIETARIO DEL TERRENO.
Rifiuti - Scarico di rifiuti - Posizione di garanzia del proprietario del terreno - Esclusione
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 42, Cost.
La funzione sociale della proprietà di cui all’art. 42, comma 2, Cost., può costituire il proprietario in una posizione di garanzia a tutela di beni socialmente rilevanti, e quindi può fondare una sua responsabilità omissiva per i fatti di reato lesivi di quei beni, solo se essa si articola in obblighi giuridici positivi e determinati, diretti a impedire l’evento costitutivo del reato medesimo (nella fattispecie, è stato escluso che il proprietario di un terreno adiacente ad un torrente avesse l’obbligo di recintarlo per impedire lo scarico di rifiuti da parte di terzi).
Nel caso in esame, il Tribunale aveva condannato il titolare di una ditta individuale per aver scaricato in un torrente i fanghi formatisi in seguito al deposito di residui derivanti dalla produzione di calcestruzzo nonché vari sacchi di materiale rizzato per produrre miscele bituminose.
L’imputato, nel rivolgersi alla Cassazione, contestava tale decisione osservando che lo scarico non poteva essergli attribuito in quanto era da attribuirsi alla condotta illecita di terzi: il giudice di merito aveva ritenuto irrilevante questa circostanza sostenendo che «l’omessa predisposizione di un’adeguata recinzione a fronte di ripetuti sversamenti abusivi di rifiuti è sicuramente rimproverabile, a titolo di colpa, a colui che ha la disponibilità dell’area».
La Cassazione ha ritenuto l’erroneità di questa motivazione perché, così opinando, il giudice aveva inammissibilmente creato una posizione di garanzia, che non trova fondamento alcuno nel nostro ordinamento giuridico, in forza della quale chi è proprietario di un terreno adiacente ad un torrente deve cintarlo affinché nessuno possa scaricare rifiuti nello stesso, altrimenti è responsabile del comportamento illecito dei terzi.
In pratica, secondo il giudice di merito, ai sensi dell’art. 40 cpv c.p., l’imputato sarebbe stato tenuto ad impedire che terzi scaricassero rifiuti nel torrente passando per il suo terreno. La Corte ha ricordato la consolidata giurisprudenza secondo cui il principio di tassatività delle fattispecie penali impone di considerare come presupposto di applicabilità dell’art. 40 cod. pen. sia non tanto un obbligo generico di attivarsi derivante da fonte giuridica (legale o contrattuale), quanto piuttosto un obbligo giuridico specifico di compiere proprio quella azione che avrebbe impedito l’evento di reato. In particolare, nessun obbligo giuridico di controllo può ravvisarsi a carico del proprietario in relazione a rifiuti gestiti e smaltiti da altri, tale non essendo, evidentemente, l’obbligo di ripristino che ha carattere riparatorio e non preventivo.
Per la Cassazione, la responsabilità omissiva sancita nell’art. 40 cpv. trova fondamento nel principio solidaristico di cui all’art. 2, all’art. 41, comma 2, e all’art. 42, comma 2, Cost., ma contemporaneamente essa trova un limite in altri principi costituzionali e segnatamente nel principio di legalità della pena consacrato nell’art. 25, comma 2, il quale si articola nella riserva di legge statale e nella tassatività e determinatezza delle fattispecie incriminatrici.
E' proprio in ragione di questo limite che la responsabilità omissiva non può fondarsi su un dovere indeterminato o generico, anche se di rango costituzionale come quelli solidaristici o sociali di cui alle norme citate; ma presuppone necessariamente l’esistenza di obblighi giuridici specifici, posti a tutela del bene penalmente protetto, della cui osservanza il destinatario possa essere ragionevolmente chiamato a rispondere.
In conclusione, è stato ribadito che la funzione sociale della proprietà di cui all’art. 42, comma 2, Cost., può costituire il proprietario in una posizione di garanzia a tutela di beni socialmente rilevanti, e quindi può fondare una sua responsabilità omissiva per i fatti di reato lesivi di quei beni, solo se essa si articola in obblighi giuridici positivi e determinati, diretti a impedire l’evento costitutivo del reato medesimo (Corte di Cassazione, Se. III penale, sentenza 09.12.2013 n. 49327 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 5/2014).

ENTI LOCALI: Responsabilità del capo della protezione civile per infortunio a un volontario.
La sicurezza sul lavoro dei volontari costituisce oggetto di una disciplina dettata dal D.Lgs. n. 81/2008 e già modificata, prima, dal D.Lgs. n. 106/2009, e, ultimamente, dalla legge n. 98/2013 (per un precedente v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano, 2013, 93).
Per un infortunio mortale subito da un volontario, fu incriminato, oltre al coordinatore dei volontari giudicato a parte, il comandante della polizia municipale capo della protezione civile di un comune in qualità di datore di lavoro, in particolare «per la violazione degli articoli:
– 71, commi 1 e 2, lett. c), D.Lgs. n. 81/2008, non avendo posto a disposizione dei volontari della protezione civile, che si accingevano ad effettuare i lavori di manutenzione della facciata, attrezzature conformi ai requisiti di sicurezza prescritti dalla legge;
– 71, comma 7, D.Lgs. n. 81/2008, per aver consentito l’utilizzo di una gru oleodinamica priva di comando elettromagnetico in maniera errata ad operatori non incaricati, non informati e non adeguatamente addestrati; – 71, comma 8, D.Lgs. n. 81/2008, per non aver provveduto a che le attrezzature di cui sopra fossero sottoposte ad interventi di controllo periodici;
– 36 e 37 D.Lgs. n. 81/2008, per non aver fornito al volontario adeguata informazione sui rischi specifici dell’attività che andava a svolgere né adeguata formazione con particolare riferimento ai rischi specifici dell’attività che gli si richiedeva di svolgere né adeguato addestramento;
– 28 D.Lgs. n. 81/2008, per non aver predisposto per il fabbricato in questione, di proprietà del comune il documento di valutazione dei rischi, all’interno del quale sarebbe stato necessario evidenziare il rischio di caduta dall’alto costituito dalla copertura non calpestabile e non pedonabile, specificando altresì le procedure di sicurezza, i dispositivi di protezione e la formazione necessari per lo svolgimento dell’attività lavorativa, non rientrante nell’ambito di competenza della protezione civile;
– 115, comma 1 e 3, D.Lgs. n. 81/2008, per non aver predisposto né presidio né vigilanza da parte di preposti, designati e formati ai sensi dell’art. 37 D.Lgs. n. 81/2008, per non aver informato il personale adibito a lavori in quota, che avrebbe dovuto utilizzare idonei dispositivi anticaduta in presenza di un parapetto di altezza inferiore ad un metro e a fronte della necessità di muoversi sul tetto per posizionare provvisoriamente l’insegna che l’infortunato aveva sganciato dal muro ove era infissa;
– 18, comma 1, lett. c), d), e), D.Lgs. n. 81/2008, per aver omesso di tenere conto della capacità e delle condizioni dei volontari della protezione civile ed in particolare del volontario in rapporto in particolare alla sicurezza e per aver omesso di fornire i lavoratori dei necessari ed idonei dispositivi di protezione individuale, prendendo altresì appropriate misure affinché solamente lavoratori adeguatamente formati avessero accesso alle zone che li esponevano al rischio grave e specifico sopra descritto

Peraltro, il GUP dichiarò non luogo a procedere nei confronti del capo della protezione civile per non aver commesso il fatto. Osservò , infatti, che «l’intervento eseguito dai volontari era un intervento di manutenzione straordinaria e non un intervento proprio e specifico di protezione civile, ne´ un’esercitazione istituzionale», e che non si era chiarito se l’imputato «avesse inciso in qualche misura sull’intervento previamente concordato nel corso di una riunione svoltasi tra i volontari e il coordinatore degli stessi o se ne sia stato in concreto informato.» Sicché ritenne «incontestabili all’imputato i diversi profili di colpa specifica indicati nel capo d’imputazione, presupponenti la preventiva conoscenza dell’intervento
Nell’annullare la sentenza di proscioglimento, la Sez. IV ne trae spunto per sottolineare che «il giudice ha fatto buon governo dei principi per cui, in tema di reato omissivo improprio, il rapporto di causalità tra condotta ed evento presuppone l’affermazione di un obbligo di garanzia in capo al soggetto di cui si assume la responsabilità; nel rispetto del principio di tassatività, oltre agli obblighi di garanzia previsti dalla legge, vengono individuati obblighi di garanzia derivati, ossia trasferiti dall’originario garante ad altro soggetto; l’obbligo di garanzia, in virtù della delimitazione prevista dall’art. 40, comma 2, cod. pen. alle sole fonti di doveri giuridici, deve essere previsto dalla legge, dal contratto o può derivare dalla volontaria assunzione dell’obbligo (negotiorum gestio art. 2028 cod. civ.); in tema di infortuni sul lavoro, la previsione di cui all’art. 299 D.Lgs. n. 81/2008 (rubricata esercizio di fatto di poteri direttivi) -per la quale le posizioni di garanzia gravano altresì su colui che, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti al datore di lavoro e ad altri garanti ivi indicati- ha natura meramente ricognitiva del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite e consolidato, per il quale l’individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale» (conforme Cass. 19.03.2012, Corsi, in Guariniello, op. cit., 713).
Prende atto che, ad avviso del GUP, la posizione di garanzia dell’imputato non sarebbe stata «configurabile in relazione ad un intervento di manutenzione edile estraneo ai compiti istituzionali della protezione civile», e che, «per sostenere l’accusa in giudizio, sarebbe stata necessaria l’acquisizione di elementi probatori atti a dimostrare che l’indagato avesse volontariamente assunto tale obbligo di garanzia
A questo punto, in accoglimento del ricorso proposto dal Pubblico Ministero, la Sez. IV rimprovera al GUP di non aver preso in esplicita considerazione le testimonianze rese da altri volontari della protezione civile, atte a dimostrare secondo il Pubblico Ministero che «i volontari della protezione civile si fossero improvvisati operai edili, con il benestare e comunque condividendo le loro attività certamente con il coordinatore e con il datore di lavoro» e che «i volontari della protezione civile svolgessero quasi per abitudine attività di manutenzione di edifici» (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 22.11.2013 n. 46782 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 1/2014).

COMPETENZE PROGETTUALI: I geometri possono progettare opere in cemento armato.
I geometri possono progettare strutture di “modesta entità” anche in cemento armato fino a 1.500 metri cubi che non richiedono calcoli complessi.
Lo ha affermato il TAR Veneto ribadendo quanto già espresso dal TAR della Lombardia con la sent. n. 361 del 18.04.2013.
Il Tribunale amministrativo, respingendo un ricorso presentato dall’Ordine degli ingegneri di Verona, ricorda che il D.Lgs. 212 del 13.12.2010 abroga il R.D. 2229/1939 (che riserva il calcolo del cemento armato a ingegneri e architetti) e precisa che gli uffici devono comunque sempre accertare la semplicità delle strutture e le modalità di costruzione.

... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, della delibera di giunta comunale del Comune di Torri del Benaco in data 09.07.2012, n. 96, recante indirizzi in tema di competenze professionali dei geometri; nonché di ogni atto annesso, connesso o presupposto.
...
Con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente ha asserito la nullità dell’impugnata deliberazione per il difetto assoluto di attribuzione, deducendo che la giunta comunale avrebbe esercitato de facto funzioni a carattere normativo in tema di competenze professionali, in assenza di una norma attributiva di tale potere.
Il motivo è infondato e, pertanto, deve essere rigettato.
Infatti, ad avviso del Collegio, l’impugnata deliberazione comunale deve farsi rientrare nell’ambito degli atti d’indirizzo politico-amministrativo con i quali gli organi politici degli enti comunali (sindaco, consiglio e giunta) fissano le linee generali cui gli uffici devono attenersi nell’esercizio delle loro funzioni istituzionali (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 07.04.2011, n. 2154).
Trattandosi, dunque, di atto d’indirizzo occorre altresì evidenziare che, contrariamente a quanto dedotto da parte ricorrente, la deliberazione in esame non assume carattere vincolante per gli uffici amministrativi cui essa è rivolta, atteso che questi dovranno pur sempre verificare, in base alla normativa di riferimento, se i progetti sottoposti al loro esame rientrino nella competenza professionale dei geometri, sulla scorta delle caratteristiche dell’opera da realizzare.
Sotto altro profilo, deve nondimeno essere rilevato che, nel caso di specie, la misura di mc. 1500, che la delibera impugnata assume quale criterio d’indirizzo ai fini della determinazione della competenza professionale dei geometri in materia di progettazione edilizia, non rappresenta un limite quantitativo entro il quale una costruzione in conglomerato cementizio possa essere progettata e firmata da un geometra, posto che a tenore della citata delibera, la progettazione dell’opera da realizzare da parte dei geometri rimane comunque subordinata all’applicazione del fondamentale parametro tecnico-qualitativo, in virtù del quale il progetto non deve implicare la soluzione di problemi particolari (devoluti esclusivamente ai professionisti di rango superiore) con riguardo alla struttura dell’edificio ed alle modalità costruttive (cfr., ex multis, Cass. Civ., sez. II, 27.01.1988, n. 736; Cons. St., sez. V, 03.10.2002, n. 5208).
Deve, altresì, essere respinto il secondo motivo di ricorso con cui parte ricorrente deduce che la normativa di specie escluderebbe in toto la competenza del geometra in ordine alla progettazione di costruzioni civili in cemento armato, posto che il d.lgs. 13.12.2010, n. 212, ha abrogato il r.d. 16.11.1939, n. 2229, ai sensi del quale “Ogni opera di conglomerato cementizio semplice od armato, la cui stabilità possa comunque interessare l’incolumità delle persone, deve essere costruita in base ad un progetto esecutivo firmato da un ingegnere, ovvero da un architetto iscritto all’albo”.
Va, infine, rigettata la censura con la quale l’ordine professionale ricorrente ha rilevato il difetto di motivazione della delibera in esame, avendo invero la giunta comunale accuratamente specificato le ragioni sottese all’adozione di tale atto (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 20.11.2013 n. 1312 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ABBANDONO E DEPOSITO INCONTROLLATO DI RIFIUTI.
Rifiuti - Abbandono incontrollato di rifiuti - Reato permanente - Cessazione del reato.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Il reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti ha natura permanente e la permanenza è interrotta quando avvenga la rimozione totale dei rifiuti.
Anche nella fattispecie, come in quella che precede, la Cassazione si è occupata della questione del momento consumativo del reato di abbandono e deposito di rifiuti.
All’imputato, infatti, era stato contestato il reato di cui all’art. 51, comma 1, lett. a) e 2, D.Lgs. n. 22/1997 perché in qualità di titolare dell’omonima ditta edile aveva effettuato un deposito incontrollato di rifiuti costituiti da materiale edile di risulta provenienti da pregressi lavori di demolizione [reato commesso il 17.02.2006].
Dopo l’accertamento ad opera del Corpo Forestale dello Stato, il Sindaco del Comune interessato aveva ordinato all’imputato la rimozione dei rifiuti stazionanti sul terreno, nonché il ripristino dello stato dei luoghi. L’imputato ottemperava a tali ordini, non in unica soluzione, ma in tempi diversi, iniziando l’opera di smaltimento il 5 aprile e, dopo un’ulteriore operazione del 22.04.2006, ultimandolo il 24 aprile successivo come constatato dai verbalizzanti. Da qui l’affermazione del Giudice secondo la quale, in considerazione della natura permanente del reato, il momento consumativo andava individuato non già nel giorno dell’accertamento, ma in quello di definitiva rimozione dei rifiuti considerato quale momento di cessazione della permanenza.
Nel proposto ricorso, l’imputato tra i vari motivi di censura sosteneva la tesi della natura istantanea -e non permanente- del reato, con conseguente individuazione della data di consumazione del reato al 17.02.2006 (data dell’accertamento) e non al 24 aprile successivo.
In ordine a questa doglianza, la Cassazione ha osservato in primo luogo che la questione non era nuova essendosi già affermato che il reato di deposito incontrollato di rifiuti integra una ipotesi di reato commissivo eventualmente permanente, la cui antigiuridicità cessa o con il sequestro del bene o con l’ultimo abusivo conferimento di rifiuti o con la sentenza di primo grado (così Cass. 21.10.2010, n. 48050, Gramegna, Foro it., 2011, II, 222; in senso analogo, Cass. 26.05.2011, Caggiano, cit.).
Pertanto, era corretta la decisione del Tribunale secondo cui alla data della pronuncia della sentenza la prescrizione non era ancora maturata in quanto si versava in un’ipotesi di reato permanente e la permanenza era cessata soltanto alla data del 24.04.2006
(1).
(1) In senso contrario, si veda Cass. 28.02.2013, Lazzi, in questa Rivista, 2014, 1, p. 35, con osservazioni di Paone, Quando si consuma il reato di deposito incontrollato? (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.10.2013 n. 40593 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 3/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIATRASPORTO SENZA FORMULARIO.
Artt. 256 e 258, D.Lgs. n. 152/2006
Rifiuti - Trasporto senza formulario - Reato di gestione abusiva - Esclusione
Non è configurabile il reato di cui all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, che punisce la gestione abusiva di rifiuti, nel caso di trasporto di rifiuti accompagnati da FIR incompleti.
Nella specie, il Tribunale aveva ritenuto sussistente il reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006 in un caso in cui un soggetto aveva trasportato rifiuti speciali non pericolosi (vetro proveniente dalla raccolta differenziata e da attività di demolizione di autovetture), successivamente lavorati e/o trattati e commercializzati con fonderie e vetrerie in assenza dei certificati analitici del prodotto in ingresso.
Il Tribunale aveva accertato che i rifiuti erano stati ceduti accompagnati da FIR privi di rapporto analitico e che in uscita il materiale era accompagnato da DDT, senza che ad esso fosse allegata e/o si facesse riferimento ad alcuna certificazione analitica attestante l’idoneità del materiale.
Nel proposto ricorso, l’imputata sosteneva che i decreti ministeriali del 1998 e del 2006 prescrivono esclusivamente che i rifiuti siano accompagnati dal FIR, che contiene già i dati analitici del rifiuto, senza prevedere alcun certificato di analisi aggiuntivo.
La sentenza impugnata è stata annullata senza rinvio perché il fatto ascritto non sussiste.
La Cassazione ha, infatti, osservato che l’art. 256, comma 1, che punisce la gestione di rifiuti in assenza di autorizzazione o iscrizione, ovviamente non può essere applicata analogicamente a fattispecie diverse, quale quella accertata dal giudice di merito (ricezione di rifiuti di vetro accompagnati da FIR incompleti).
La carenza dei formulari di identificazione dei rifiuti o la loro incompletezza è, invece, prevista dall’art. 258 che puniva e tuttora punisce con sanzione amministrativa l’assenza o incompletezza dei FIR (comma 4) allorché si tratti di rifiuti non pericolosi.
La Corte ha ricordato che in materia è intervenuta, successivamente alla commissione dei fatti di cui alla contestazione, la normativa sul sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (Sistri), che ha ulteriormente esteso la punibilità con sanzione amministrativa delle attività di trasporto di rifiuti in assenza o insufficienza dei formulari (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.10.2013 n. 42465 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 4/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ABBANDONO DI RIFIUTI.
Rifiuti - Abbandono di rifiuti - Reato istantaneo eventualmente con effetti permanenti - Effetti sulla prescrizione
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
La fattispecie dell’abbandono e deposito di rifiuti integra un reato istantaneo, eventualmente con effetti permanenti, e perciò il termine di prescrizione comincia a decorrere dal momento in cui viene effettuato l’abbandono.
La sentenza in epigrafe, sia pure con motivazione stringata, interviene su un tema sul quale si registra ormai un certo contrasto nella giurisprudenza della Cassazione.
Discutiamo della condanna inflitta ad una persona per il reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, per avere abbandonato e depositato in modo incontrollato materiale vario, fra cui alcune auto.
La difesa, nel ricorso per cassazione, aveva, tra l’altro, eccepito l’intervenuta prescrizione del reato. La Corte ha accolto questo motivo rilevando che dagli atti risultava che l’imputato avesse abbandonato e depositato i  rifiuti «già nel 2006». Era perciò erronea e fuorviante la data di commissione del reato riportata nel capo di imputazione «sino al 09.08.2008», la quale faceva invece riferimento alla data di emissione dell’ordinanza sindacale di rimozione e smaltimento dei rifiuti abbandonati e depositati, trattandosi di dato temporale eventualmente rilevante ai fini della sussistenza della diversa ipotesi di reato di cui all’art. 255, comma 3, non contestata nella fattispecie.
La Corte ha poi notato che il reato contestato all’imputato era stato consumato [al più] sino al mese di settembre 2006 e non risultavano ulteriori atti di abbandono o di deposito successivi a quella data.
Poiché secondo la Corte quello contestato è un reato istantaneo, eventualmente con effetti permanenti, e non un reato permanente, lo stesso -anche in applicazione del principio del favor rei- era ampiamente estinto per intervenuta decorrenza del termine prescrizionale già nel settembre 2011 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.10.2013 n. 42343 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 4/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: DEPOSITO INCONTROLLATO.
Rifiuti - Deposito incontrollato - Reato permanente.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Il reato di deposito incontrollato di rifiuti è permanente.
Nella specie, la Corte d’appello di Trento, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, assolveva F. dalla violazione dell’art. 181, D.Lgs. n. 42/2004, e confermava la condanna per il reato di cui all’art. 256, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 152/2006 (per aver smaltito senza autorizzazione rifiuti speciali non pericolosi depositandoli in modo incontrollato in un terreno del Comune di Bleggio Superiore) e 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 (per aver abbandonato su tale terreno rifiuti pericolosi).
Tra i motivi di ricorso, l’imputato chiedeva che venisse riconosciuta l’intervenuta prescrizione perché le condotte incriminate sarebbero cessate quantomeno dal 2000. Si trattava della riproposizione di un motivo d’appello vagliato con cura dalla corte territoriale la quale aveva evidenziato come, trattandosi di reato permanente, il dies a quo della prescrizione era identificabile all’epoca del sequestro penale del fondo, avvenuto nel giugno 2008.
Invero, secondo la Corte il reato di deposito incontrollato di rifiuti è permanente nel senso che dà luogo ad una forma di gestione dei rifiuti preventiva rispetto al loro recupero e smaltimento; tale strumentalità prodromica commisura la consumazione del reato, nel senso che questa perdura proprio fino al recupero e allo smaltimento dei rifiuti stessi (nello stesso senso, Cass. 26.05.2011, Caggiano, n. 25216, in questa Rivista, 2011,971); rispetto a tale esito il sequestro penale si configura come fungibile essendo atto a porre termine ad ogni effetto illecito
(1).
(1) In senso contrario, si veda Cass. 28.02.2013, Lazzi, in questa Rivista, 2014, 1, p. 35, con osservazioni di Paone, Quando si consuma il reato di deposito incontrollato? (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.10.2013 n. 42340 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 3/2014).

SICUREZZA LAVORO: Le responsabilità del coordinatore responsabile dei lavori e del direttore dei lavori nominati dal committente.
Nell’ambito dei lavori di costruzione di un edificio appaltati da una s.p.a. esercente una casa di moda, la s.p.a. appaltatrice contrattualmente obbligata verso la committente dell’installazione degli ascensori incaricò una s.r.l. della posa di cristalli sulle pareti di ascensori panoramici.
Un dipendente della s.r.l. fu colpito al capo dalla piattaforma di un ascensore in movimento proveniente dal piano superiore in fase di collaudo, subendo lo schiacciamento del capo tra la piattaforma e una sottostante putrella in acciaio.
Tra gli imputati del delitto di lesione personale colposa, sia il responsabile dei lavori coordinatore per la progettazione e per l’esecuzione dei lavori, sia il direttore dei lavori, nominati dal committente.
  
A) Quanto al coordinatore-responsabile dei lavori, l’addebito era quello di «aver redatto un piano di sicurezza e di coordinamento carente in ordine alla valutazione dei rischi di cesoiamento e di schiacciamento di persone nelle fasi di montaggio e di collaudo degli ascensori e in ordine alla individuazione delle relative misure di prevenzione, oltreché di non aver garantito e verificato la predisposizione, a cura della ditta installatrice, di misure idonee a prevenire detti rischi.» Al riguardo, la Sez. IV condivide «l’affermazione di responsabilità dell’imputato, investito di una ben precisa posizione di garanzia in qualità di coordinatore per la sicurezza in fase di progettazione e di esecuzione dei lavori nonché di responsabile dei lavori, giusta specifica nomina della società committente
Precisa che «l’imputato non aveva in particolare ottemperato al preminente obbligo specificamente demandatogli di adeguare il piano di sicurezza al fine di eliminare i rischi ‘‘aggiuntivi’’ ed ‘‘interferenziali’’ ingenerati dall’operare nel cantiere di più imprese esecutrici, circostanza pacificamente prevista nel caso concreto e di fatto verificatasi in occasione dell’incidente per cui è processo tanto da rendere obbligatoria per la committenza proprio la figura del coordinatore per la sicurezza appositamente nominato dalla committente
Addebita in particolare all’imputato una «colpevole inerzia sia nell’aver omesso di accertare in termini chiari e specifici quale tipo di operazioni i dipendenti della s.p.a. appaltatrice dell’installazione degli ascensori si accingessero ad eseguire, sia per non aver provveduto, attraverso l’aggiornamento e la modifica del piano di sicurezza, a scongiurare i rischi connessi all’intersecarsi dell’operare di più imprese nel cantiere sia ancora per non aver verificato l’omessa predisposizione delle apposite misure antinfortunistiche atte ad impedire l’accesso alle zone dello stabile interessate dalle prove di collaudo delle cabine degli ascensori nonché la caduta nel vuoto di chicchessia si trovasse ai piani sui quali si affacciavano le trombe degli ascensori ed il rischio di cesoia mento/stritolamento
Spiega che «egli avrebbe dovuto, a norma di legge, contestare dette inosservanze ai rispettivi datori di lavoro, prospettando anche un intervento sospensivo in caso di inottemperanze alle specifiche prescrizioni di adeguamento.» (Circa le responsabilità del coordinatore v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano, 2013, 550 ss., cui adde Cass. 16.05.2013, Catale e altri, e Cass. 26.04.2013, Mongelli, in ISL, 2013, 8-9, 456).
  
B) La colpa ascritta al direttore dei lavori per conto del committente fu quella «di aver omesso l’attività di controllo e di vigilanza consistita nell’informare la committente della mancata installazione delle opere provvisionali -al fine di consentire il coordinamento fra le attività di prevenzione- nonché di aver mancato di segnalare il rischio di incidenti, derivante dalla simultanea presenza di più imprese operanti in particolare nell’esecuzione dell’attività di collaudo degli ascensori nonostante non fosse stata adeguatamente allestita e completata l’attività di messa in sicurezza dei vani ascensori
La Sez. IV prende atto che «la committente s.p.a. ebbe ad affidare all’architetto, con apposito contratto, oltre alla progettazione architettonica, la direzione dei lavori, l’assistenza al collaudo delle opere ed il coordinamento delle attività demandate nel cantiere ad altri professionisti
Ritiene che l’imputato fosse «investito di specifica posizione di garanzia in materia antinfortunistica, la cui fonte risiedeva nel richiamato contratto d’opera professionale in forza del quale il professionista risultava collaboratore della committente con l’incarico specifico di direttore dei lavori da eseguirsi nel cantiere, per conto della stessa
Conclude che anche il direttore dei lavori, «quale destinatario in tale veste delle norme antinfortunistiche, fosse tenuto a garantirne l’osservanza, avuto riguardo al carattere ‘‘estensivo’’ della conseguente responsabilità alla stregua della disciplina dettata in materia
Rileva, altresì, che l’imputato, grazie alla presenza quotidiana in cantiere per almeno due ore (onde esser in grado di espletare l’incarico affidatigli dalla committente) alla data dell’evento, era perfettamente a conoscenza che si stavano effettuando lavori di montaggio e collaudo degli ascensori al pari della propria assistente, anche alla stregua delle dichiarazioni da costei rese.
E insegna che «l’imputato, titolare di un ben precisa posizione di garanzia che lo abilitava ad impartire direttive ed ordini per conto della committente e ad esigerne l’osservanza, ebbe invece ad omettere qualsiasi attività di controllo, di vigilanza e di informazione circa l’inadeguatezza delle misure antinfortunistiche apprestate nella zona ove erano in corso l’installazione ed il collaudo degli ascensori al fine di consentire il coordinamento tra le attività prevenzionistiche.» (Sul delicato tema inerente alla posizione di garanzia del direttore dei lavori v. Guariniello, op. cit., 581 ss.; cfr., altresì, Cass. 05.09.2013, Munciguerra e altra, in ISL, 2013, 10, 533) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 10.10.2013 n. 4183 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 1/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: VEICOLI FUORI USO.
Rifiuti - Veicoli fuori uso - Nozione - Deposito preliminare.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Deve considerarsi fuori uso «tanto il veicolo destinato alla demolizione, privo delle targhe di immatricolazione, anche prima della materiale consegna a un centro di raccolta, quanto quello che risulti in evidente stato di abbandono, anche se giacente in area privata» sicché il piazzale del concessionario, dove stazionano i veicoli dismessi «fuori uso» destinati al successivo smaltimento, integra un deposito preliminare di rifiuti.
Nella presente vicenda, il Tribunale di Taranto condannava la titolare della s.r.l. «D.» perché effettuava, in un’area di sua pertinenza, attività di deposito di rifiuti speciali in mancanza di autorizzazione.
Nel contestare la sentenza di condanna, l’imputata deduceva che, a mente dell’art. 5, D.Lgs. n. 209/2003, i veicoli fuori uso che stazionavano nel piazzale antistante all’esercizio commerciale adibito a concessionaria per la vendita di autoveicoli, erano stati lasciati, quanto meno in parte, da clienti che avevano proceduto all’acquisto di veicoli nuovi e in parte si trattava di veicoli già appartenuti agli acquirenti, ancora in grado di marciare e dunque non fuori uso.
La ricorrente, sul presupposto che dovesse trovare applicazione il citato art. 5, riteneva perciò che nessuna violazione penalmente rilevante ricorresse nella specie, potendo, al più, ritenersi sussistente la violazione amministrativa di cui all’art. 13 stesso decreto.
Solo in via subordinata, sosteneva che, in caso di inapplicabilità della disciplina speciale per i veicoli fuori uso, era comunque ipotizzabile la violazione amministrativa di cui al combinato disposto degli artt. 231 e 255, D.Lgs. n. 152/2006.
Per la Cassazione nessuna delle tesi riassunte è apparsa persuasiva.
Anzitutto è stato confermato che la circostanza che un veicolo risulti ancora iscritto negli elenchi del P.R.A. (Pubblico Registro Automobilistico) non ne esclude la natura di rifiuto speciale nel caso in cui il suo stato di degrado lo renda inidoneo alla circolazione.
Al fine di qualificare il veicolo «fuori uso» soccorre infatti il D.Lgs. n. 209/2003 che stabilisce, per quanto qui rileva, che un veicolo debba considerarsi fuori uso «con la consegna ad un centro di raccolta, effettuata dal detentore direttamente o tramite soggetto autorizzato al trasporto di veicoli fuori uso oppure con la consegna al concessionario o gestore dell’automercato o della succursale della casa costruttrice che, accettando di ritirare un veicolo destinato alla demolizione nel rispetto delle disposizioni del presente decreto rilascia il relativo certificato di rottamazione al detentore».
Così delineato il quadro normativo di riferimento, la sentenza ha ribadito che deve considerarsi «fuori uso» non solo quel veicolo di cui il proprietario si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi, ma anche tanto quello destinato alla demolizione, privo delle targhe di immatricolazione, anche prima della materiale consegna a un centro di raccolta, quanto quello che risulti in evidente stato di abbandono, anche se giacente in area privata.
Correttamente, quindi, il Tribunale aveva ritenuto che si fosse in presenza di veicoli fuori uso, come del resto, riconosciuto dalla difesa della stessa ricorrente. Inoltre, era corretta l’affermazione secondo la quale si era in presenza di un deposito «preliminare» e non di un deposito «incontrollato» posto che il piazzale, all’interno del quale stazionavano i veicoli dismessi «fuori uso», costituiva un sito destinato al successivo smaltimento e quindi integrava un’ipotesi di deposito preliminare di rifiuti speciali
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.10.2013 n. 40747 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 3/2014).

SICUREZZA LAVORO: La vigilanza del committente o responsabile dei lavori.
La Corte di Cassazione prosegue la propria preziosa opera di chiarimento in merito alla vigilanza spettante al committente o al responsabile dei lavori sull’adempimento degli obblighi previsti a carico dei coordinatori per la progettazione e per la esecuzione dei lavori, e, più in generale, sulla sicurezza dei lavori affidati a imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi (in argomento v., da ultimo, Cass. 16.05.2013, Catale e altri, e Cass. 24.04.2013, Borrelli e altri, in ISL, 2013, 8-9, 456).
Nella sentenza qui segnalata, la Sez. IV insegna che «il committente ed il responsabile dei lavori devono verificare l’adempimento da parte dei coordinatori degli obblighi di assicurare e di verificare il rispetto, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento, nonché la corretta applicazione delle procedure di lavoro», e che «al committente e al responsabile dei lavori non è attribuito dalla legge il compito di verifiche meramente formali, ma una posizione di garanzia particolarmente ampia, comprendente l’esecuzione di controlli sostanziali e incisivi su tutto quel che concerne i temi della prevenzione, della sicurezza del luogo di lavoro e della tutela della salute del lavoratore, accertando, inoltre, che i coordinatori adempiano agli obblighi sugli stessi incombenti in detta materia
Prende atto che, nel caso di specie, «a tali principi si è uniformata la corte territoriale che, nel ribadire la responsabilità dei due committenti imputati, ha rilevato che la designazione del direttore dei lavori e coordinatore per l’esecuzione degli stessi non li esonerava dalle proprie responsabilità
Precisa che, «non avendo gli imputati nominato un responsabile dei lavori, ad essi spettava di verificare l’esatto adempimento, da parte del coordinatore per l’esecuzione, dei compiti attribuiti a costui (tra gli altri, la verifica dell’applicazione, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento e la corretta applicazione delle relative procedure)», e che «ai committenti, in assenza di un responsabile dei lavori, competeva di verificare che il coordinatore per l’esecuzione dei lavori eseguisse i controlli e le verifiche previste dalla legge
Rileva che «gli imputati hanno dedotto l’incolpevole ignoranza circa l’esistenza di una situazione che imponeva loro di attivarsi per eseguire i necessari controlli e l’inesistenza di un obbligo continuo e capillare di controllo sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori
Ma replica che «in ogni caso, i committenti erano nelle condizioni di sapere come si svolgevano i lavori e di intervenire, anche perché avevano avuto occasione di recarsi sul cantiere e di verificare direttamente l’andamento dello scavo e le modalità di esecuzione dello stesso», e che «il riferimento alla cognizione diretta del committente ha, quindi, solo lo scopo di integrare ulteriormente -e comunque legittimamente- le precedenti considerazioni e di dimostrare come, a di là del controllo e degli interventi del coordinatore rispetto alle prescrizioni del piano operativo di sicurezza e coordinamento, uno dei committenti aveva avuto modo di notare lo scavo e l’assenza di pareti e di protezioni; di rendersi conto, quindi, di una situazione di pericolo e di palese violazione delle norme di sicurezza, direttamente constatati, che avrebbe dovuto indurlo ad intervenire immediatamente
Sottolinea che «per nulla indeterminato è l’obbligo di controllo che la legge impone al committente, e palesemente infondato è il riferimento alla responsabilità oggettiva, posto che la responsabilità degli imputati è stata affermata, non per la loro oggettiva posizione di committenti, bensì per il mancato rispetto, da parte degli stessi, degli obblighi loro imposti da specifiche disposizioni di legge
«Quanto al tema della consapevolezza delle modalità di esecuzione dello scavo», aggiunge, «da un lato, che la responsabilità degli imputati è stata dai giudici del merito anzitutto individuata nell’omessa verifica dell’esatto adempimento, da parte del coordinatore per l’esecuzione dei lavori, dei compiti che a costui assegna la legge»; e, «dall’altro, che legittimamente gli stessi giudici hanno richiamato una diretta responsabilità dei committenti per essere, in realtà, venuti personalmente a conoscenza delle condizioni di pericolo nelle quali si svolgevano i lavori di scavo
In proposito, segnala che, «a tale conclusione, gli stessi giudici sono pervenuti ricordando che uno dei committenti ha sostenuto di avere avuto la possibilità di accedere al cantiere nei tempi di pausa dei lavori e al termine di ogni giornata lavorativa e che ciò aveva fatto anche mentre erano in esecuzione i lavori di scavo, e, in particolare, ha sostenuto di essersi recato in cantiere il martedì (l’incidente è avvenuto giovedì) e di avere notato che la prima parte dello scavo, quella che aveva interessato la pubblica via, era stata completata», sicché «aveva avuto anche modo di visionare la parte interna al cantiere e di notare il profondo scavo, con terreno rimosso e collocato sul ciglio del fosso, nonché l’assenza di un’armatura di sostegno e di protezioni; e quindi anche di rendersi conto dell’assenza di misure di sicurezza e delle condizioni di evidente pericolo in cui si svolgevano i lavori, da chiunque percepibili
Considera poco rilevante il fatto che «i committenti non si trovavano sul cantiere al momento dell’incidente, essendo la loro responsabilità legata alla mancata verifica dell’esatto adempimento, da parte del coordinatore per l’esecuzione dei lavori, dei compiti allo stesso attribuiti, oltre che alla consapevolezza del mancato rispetto, nell’esecuzione dello scavo, delle prescrizioni di sicurezza, che avrebbe imposto l’immediato e diretto intervento dei committenti, eventualmente anche disponendo la sospensione dei lavori
Nota ancora che, «se la committenza avesse controllato la corretta applicazione del piano di sicurezza da parte del coordinatore e dell’impresa, si sarebbe provveduto alla sospensione dello scavo ed all’attuazione delle opere di protezione che avrebbero evitato l’incidente», «così come l’incidente si sarebbe evitato se la committenza, davanti alle evidenti violazioni delle norme di sicurezza, facilmente rilevabili dalla visita del martedì, fosse tempestivamente intervenuta disponendo l’immediata messa in sicurezza dello scavo e della zona circostante, ovvero anche l’immediata sospensione dei lavori» (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 18.09.2013 n. 38421 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 2/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: INERTI DA DEMOLIZIONE.
Rifiuti - Inerti da demolizione - Utilizzo a scopo di riempimento - Sottoprodotti - Esclusione.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Non è invocabile la disciplina sui sottoprodotti nel caso di riutilizzo, per riempire le fondamenta di un immobile in costruzione, di rifiuti speciali «miscelati» (nella specie, si trattava di pietre frammiste ad acconci di tufo, mattoni, manufatti in cemento amianto, pezzi di tubo in cemento vibrato, frammenti di asfalto, rottami di ferro, plastica, vetro, legno e, persino, una batteria d’auto e due pneumatici).
La titolare di una ditta di lavori edili è stata condannata per la violazione degli artt. 256, comma 1, lett. a), comma 2 e comma 5, D.Lgs. n. 152/2006 perché, all’interno dell’area di cantiere edilizio:
- smaltiva illecitamente rifiuti speciali costituiti da sfabbricidi frammisti a materiale da demolizione per riempire le fondamenta dell’immobile in costruzione;
- depositava in modo incontrollato circa 2000 mq. di rifiuti speciali non pericolosi superando, in tal modo, il limite quantitativo del deposito temporaneo di cui all’art. 183;
- miscelava rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi (inerti da costruzione con batterie al piombo esauste e pneumatici fuori uso).
Avverso tale decisione, la prevenuta ha proposto ricorso deducendo la violazione della legge penale dovendosi ritenere che i giudici avessero erroneamente ritenuto di ravvisare nella condotta dell’imputata la ricorrenza dei presupposti dell’art. 256. Più precisamente, dopo un riepilogo delle vicende subite dall’art. 183, D.Lgs. n. 152/2006, la ricorrente aveva fatto notare che l’ultima versione della disposizione considera le terre e rocce da scavo esenti dal regime dei rifiuti a condizione che siano rispettate determinate condizioni.
A tale riguardo, dopo aver rammentato che la Regione Siciliana aveva emanato le proprie linee-guida circa l’utilizzo delle rocce da scavo, la ricorrente censurava il fatto che la Corte non avesse minimamente tenuto in considerazione i dettami normativi della Regione Siciliana: invece, ove ciò avesse fatto, avrebbe potuto constatare che, in base ad essi, il materiale di scavo è considerato sottoprodotto e che, quando si parla di «riempimento» ci si riferisce ad un semplice riutilizzo di un materiale di scavo che non può definirsi rifiuto, ma sottoprodotto.
Il ricorso è stato respinto.
Per la Corte il richiamo alla normativa sulle terre da scavo era del tutto inconferente per le caratteristiche fattuali della vicenda in esame. Nel caso di specie, era infatti emerso il rinvenimento di sfabbricidi misti a materiali del tutto eterogenei (pietre frammiste ad acconci di tufo, mattoni, manufatti in cemento amianto, pezzi di tubo in cemento vibrato, frammenti di asfalto, rottami di ferro, plastica, vetro, legno e, persino, una batteria d’auto e due pneumatici).
Inoltre, il richiamo alla normativa regionale da parte della ricorrente era stato fatto in modo estremamente generico.
Ed infatti, la circolare regionale ed il decreto assessoriale risultano limitarsi a disciplinare la competenza per l’approvazione dei progetti per reinterri. In ogni caso -fermo restando che non si è al cospetto di rocce da scavo- non era stata neppure indicata dalla ricorrente la norma secondo cui esse possono essere utilizzate ove provengano dallo stesso cantiere e non superino i 6000 mc. La Cassazione ha poi recisamente escluso l’ipotesi che si trattasse di un «sottoprodotto» sia per la natura stessa dei materiali prima evidenziata sia perché i materiali di risulta da demolizione di edifici e scavi di cantiere possono essere qualificati «sottoprodotti» alle condizioni richieste dalla legge, che qui non ricorrevano. D’altronde, secondo la sentenza, l’eventuale assoggettamento di detti materiali a disposizioni più favorevoli che derogano alla disciplina ordinaria implicava la dimostrazione, da parte di chi lo invoca, della sussistenza di tutti i presupposti previsti dalla legge, cosa che, nella specie, non risultava essere avvenuta visto che non trovava smentita la contestata assenza di qualsivoglia progetto di cui all’art. 186, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006.
La Cassazione ha perciò concluso che nella fattispecie si fosse «al cospetto di un maldestro tentativo di riutilizzo per riempire le fondamenta di un immobile in costruzione di materiali che -per le caratteristiche prima evidenziate- sicuramente costituivano rifiuti speciali (pericolosi e non) «miscelati». Quest’ultima, infatti, è circostanza di fatto bene evidenziata dai giudici di merito che, nella loro elencazione delle varie specie di materiali rinvenuti, enumerano, accanto ai materiali derivanti da scavo e da demolizione, la presenza di rifiuti speciali pericolosi come il cemento-amianto e la batteria per auto.
Essi, tra l’altro, corroborano giustamente la contestazione attraverso il richiamo alla definizione, data da questa giurisprudenza di legittimità alla nozione di miscelazione, vale a dire quella «mescolanza volontaria o involontaria, di due o più tipi di rifiuti aventi codici identificativi diversi sì da dare origine ad una miscela per la quale non è previsto uno specifico codice identificativo». Alla stregua di ciò, è, quindi, del tutto irrilevante l’obiezione difensiva secondo cui non vi sarebbe stata miscelazione vista la possibilità di identificare i diversi rifiuti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.09.2013 n. 38331 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 3/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: SCARICHI CIVILI.
Art. 137, D.Lgs. n. 152/2006
Acque pubbliche - Scarichi sul suolo provenienti da un’abitazione - Mancanza di autorizzazione - Reato
Integra il reato di cui all’art. 137, comma 11, D.Lgs. n. 152/2006 il fatto di scaricare abusivamente su terreno acque grigie e liquami provenienti da un fabbricato destinato ad abitazione.
Avverso la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 137, comma 11, D.Lgs n. 152/2006, ascritto per avere scaricato acque grigie e liquami provenienti da un fabbricato abusivo nel giardino di pertinenza dello stesso, l’imputato proponeva ricorso sostenendo che nella sentenza impugnata l’accertamento circa la provenienza dello scarico era stato fondato sulle affermazioni della parte offesa (che aveva dichiarato che dall’area circostante l’abitazione dell’imputato proveniva odore di fogna nera) in contrasto, però, con le risultanze degli accertamenti effettuati dalla ASL, dai quali era emerso che gli scarichi dei due bagni e della cucina confluivano in una tubazione interrata il cui sbocco però non era stato possibile accertare; inoltre, il ricorrente aveva fatto notare che gli scarichi della cucina confluivano in un piccolo pozzetto antistante l’abitazione e che dal sopraluogo era emerso che non vi erano scarichi nel giardino, né cattivi odori.
Il ricorso è stato respinto.
La Cassazione preliminarmente ha analizzato la fattispecie di cui all’art. 137, comma 11, per individuarne gli elementi costitutivi con riferimento alla condotta ascritta all’imputato.
L’art. 74, comma 1, lett. ff), come modificato dall’art. 2, comma 5, D.Lgs. n. 4/2008, definisce «scarico» «qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento, che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante anche se sottoposte a preventivo trattamento di depurazione
Nella originaria formulazione della norma non era richiesta l’esistenza di un sistema stabile di collettamento: tale modifica si era resa necessaria al fine di operare una netta distinzione tra le fattispecie in materia di scarichi di acque e le ipotesi di smaltimento di rifiuti liquidi.
Per quanto interessa nel caso in esame, l’art. 74, comma 1, lett. g), definisce «acque reflue domestiche» le «acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche».
L’art. 103, comma 1, vieta lo scarico sul suolo o negli strati superficiali del sottosuolo, fatta eccezione: "a) per i casi previsti dall’art. 100, comma 3;.... c) per gli scarichi di acque reflue urbane ed industriali per i quali sia accertata l’impossibilità tecnica o l’eccessiva onerosità a fronte dei benefici ambientali conseguibili, a recapitare in corpi idrici superficiali, purché gli stessi siano conformi ai criteri ed ai valori limite di emissione fissati a tal fine dalle regioni ai sensi dell’art. 101, comma 2....».
L’art. 103, comma 2, stabilisce che «Al di fuori delle ipotesi previste dal comma 1, gli scarichi sul suolo esistenti devono essere convogliati in corpi idrici superficiali, in reti fognarie ovvero destinati al riutilizzo in conformità delle prescrizioni fissate con il decreto di cui all’art. 99 comma 1....».
L’art. 100, comma 3, stabilisce «Per insediamenti, installazioni o edifici isolati che producono acque reflue domestiche, le regioni individuano sistemi individuali o altri sistemi pubblici o privati adeguati che raggiungano lo stesso livello di protezione ambientale, indicando i tempi di adeguamento degli scarichi a detti sistemi.».
L’art. 137, comma 11, infine, configura come fattispecie penale l’inosservanza dei divieti di scarico previsti dagli art. 103 (scarichi sul suolo o negli strati superficiali del sottosuolo) e 104 (scarichi nel sottosuolo e nelle acque sotterranee), mentre l’art. 133, comma 2, punisce con sanzione amministrativa «Chiunque apra o comunque effettui scarichi di acque reflue domestiche o di reti fognarie, servite, o meno da impianti pubblici di depurazione, senza l’autorizzazione di cui all’art. 124, oppure continui ad effettuare o mantenere detti scarichi dopo che l’autorizzazione sia stata sospesa o revocata....».
Da tale sistema normativo la Cassazione ha dedotto che la fattispecie punita con sanzione amministrativa riguarda le ipotesi di immissione dello scarico di reflui domestici nella pubblica fognatura senza l’autorizzazione di cui all’art. 124 D.Lgs. n. 152/2006 nonché, se si tratta di edifici isolati, lo scarico diretto nel suolo o nel sottosuolo senza autorizzazione, purché lo scarico sia conforme ai sistemi individuali previsti dalla legislazione regionale. In ogni altro caso, l’immissione diretta sul suolo o nel sottosuolo di acque reflue domestiche integra la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 137, comma 11.
Su questa base, la Corte ha osservato che, nella specie, non si era in presenza di uno scarico in pubblica fognatura senza la prescritta autorizzazione, né di uno scarico conforme alle prescrizioni dettate dalla regione in materia e quindi correttamente era stata contestata la fattispecie penale.
In linea di fatto, la Corte ha preso atto che il giudice del merito aveva motivato la condanna basandosi sull’accertamento dell’inesistenza di qualsiasi collegamento degli scarichi delle acque reflue provenienti dall’immobile abusivo realizzato dall’imputato con la rete fognaria; sull’esistenza di una tubazione interrata senza sbocco; sulla fuoriuscita di liquami da un pozzetto a cielo aperto accertata nel corso di un’ispezione; sulle dichiarazioni della persona offesa, ritenuta pienamente attendibile, in ordine alle esalazioni maleodoranti provenienti dal giardino dell’imputato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2013 n. 38040 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 4/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI DA DEMOLIZIONE EDILE.
Rifiuti - Residui da demolizione edile - Gestione dei rifiuti - Responsabilità esclusiva dell’appaltatore.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Risponde del reato di abusiva gestione di rifiuti l’appaltatore di lavori edili, in quanto grava su di lui l’obbligo di garanzia in relazione all’interesse tutelato ed al corretto espletamento delle operazioni di raccolta e smaltimento dei rifiuti connessi all’attività edificatoria.
Sono invece esenti da responsabilità il committente di lavori edili e il direttore dei lavori. C., C. e M. sono stati condannati per avere, in concorso tra loro, il primo quale committente di lavori edili per la realizzazione di un fabbricato, il secondo quale titolare della ditta esecutrice dei lavori e il terzo quale direttore dei lavori, abbandonato o depositato in modo incontrollato sul suolo rifiuti speciali non pericolosi derivanti da opere di demolizione e costruzione edile.

La Corte suprema ha accolto il ricorso in relazione alla posizione del committente, C., e del direttore dei lavori, M., dei quali era stata affermata la responsabilità soltanto in considerazione delle rispettive qualità, senza quindi alcun coinvolgimento diretto dei predetti e quindi senza un loro contributo nelle operazioni di illecita gestione dei rifiuti derivanti dal cantiere.
Al riguardo, la Corte ha ricordato che, più volte, è stato sostenuto che la qualità di committente e di direttore dei lavori non determinano alcun obbligo di legge di intervenire nella gestione dei rifiuti prodotti dalla ditta appaltatrice o subappaltatrice.
Diversa, invece, era la posizione del titolare della ditta esecutrice dei lavori. Costui, infatti, in relazione ai lavori effettuati sul cantiere, assumeva indiscutibilmente una posizione di garanzia, per cui aveva l’onere di accertare che il materiale derivante dalla demolizione venisse correttamente smaltito secondo la normativa vigente. Ne´ poteva andare esente da responsabilità per il solo fatto della sua assenza dal cantiere al momento in cui altro soggetto (giudicato separatamente) aveva assunto l’iniziativa di trasportare il materiale sulla sua proprietà.
Per escludere ogni responsabilità, l’imputato doveva, infatti, provare di aver fatto quanto era possibile per osservare la legge in modo che nessun rimprovero potesse essergli mosso, neppure per negligenza o imprudenza. In quest’ottica, l’imputato avrebbe dovuto costantemente vigilare sulle operazioni di demolizione e assicurarsi che il materiale di risulta venisse smaltito correttamente e, in sua assenza, avrebbe dovuto delegare altro soggetto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2013 n. 37547 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 3/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: INERTI PROVENIENTI DA DEMOLIZIONE DI EDIFICI.
Rifiuti - Residui inerti da demolizione edile - Rifiuti speciali - Smaltimento - Responsabilità dell’appaltatore - Fattispecie
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Gli inerti provenienti da demolizioni di edifici sono rifiuti speciali, trattandosi di materiale espressamente qualificato come tale dal D.Lgs. n. 152/2006, del quale il detentore ha l’obbligo di disfarsi avviandolo o al recupero o allo smaltimento (nella specie, è stato condannato l’appaltatore dei lavori edili che si era impegnato a trasportare i materiali di risulta in discariche autorizzate sicché, quale titolare di una posizione di garanzia, aveva l’onere di accertare che il rifiuto venisse correttamente smaltito; di conseguenza, la sua responsabilità non poteva escludersi per il solo fatto di aver incaricato altro soggetto del trasporto del materiale).
Nella sentenza che si riporta, la Corte suprema ha ribadito due principi ormai indiscussi in tema di materiali da demolizione e di responsabilità connesse al loro smaltimento.
Al termine del giudizio di merito, il Tribunale aveva condannato un autotrasportatore, il legale rappresentante della ditta appaltatrice di un cantiere e l’esecutore materiale dell’operazione sostenendo che il materiale trasportato e scaricato non provenisse solo dallo scavo delle fondazioni, ma anche dalla demolizione, per cui non era assoggettato allo speciale regime delle terre e rocce da scavo. Inoltre, secondo il Tribunale non ricorrevano neppure le condizioni per qualificare il materiale in questione come sottoprodotto non essendo stato riutilizzato nello stesso cantiere.
La Cassazione ha confermato la sentenza osservando che il Tribunale aveva accertato, sulla base del contratto di appalto, delle dichiarazioni degli imputati Paglialunga e Monteforte e, soprattutto, dei rilievi fotografici, che nel materiale gestito vi era «la presenza, insieme a terra, di mattoni e altro materiale risultante dalle demolizioni» per cui costituiva indiscutibilmente rifiuto non pericoloso.
A questa stregua, è stato ribadito l’orientamento giurisprudenziale per il quale il materiale derivante da demolizione costituisce rifiuto: infatti, l’art. 7, comma 3, lett. b), D.Lgs. n. 22/ 1997 considerava speciali «i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonché i rifiuti pericolosi che derivano dalle attività di scavo» e la disposizione è stata riprodotta negli stessi termini nell’art. 184, comma 3, lett. b), D.Lgs. n. 152/2006 che ha aggiunto espressamente l’inciso «fermo restando quanto disposto dall’art. 186» (vale a dire le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, ed i residui della lavorazione della pietra destinate all’effettivo utilizzo) non costituiscono rifiuti...».
Pertanto gli inerti provenienti da demolizioni di edifici (come nel caso di specie) erano e continuano ad essere considerati rifiuti speciali anche in base al decreto n. 152 trattandosi di materiale espressamente qualificato come rifiuto dalla legge, del quale il detentore ha l’obbligo di disfarsi avviandolo o al recupero o allo smaltimento.
La sentenza ha infine confermato che non potesse trovare applicazione l’art. 186, D.Lgs. n. 152/2006 e tanto meno la normativa regionale di attuazione perché non ricorreva la condizione del riutilizzo nello stesso cantiere degli inerti.
E' stata infine esaminata la posizione di uno dei ricorrenti (l’appaltatore di lavori edili) che sosteneva di non avere alcuna responsabilità in ordine al fatto ascritto: al riguardo, la Corte ha osservato che, in forza del contratto di appalto, quel soggetto si era impegnato non solo a costruire il nuovo edificio, ma anche a demolire il vecchio rudere «con trasporto dei materiali di risulta in discariche autorizzate».
Perciò, in relazione a dette operazioni, assumeva indiscutibilmente (come ribadito più volte dalla giurisprudenza di legittimità) una posizione di garanzia e di conseguenza aveva l’onere di accertare che il materiale derivante dalla demolizione venisse correttamente smaltito secondo la normativa vigente, non potendosi certamente esonerare da responsabilità per il solo fatto di aver incaricato altro soggetto del trasporto dei rifiuti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2013 n. 37541 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 4/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: RUOLO DEL SINDACO.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 107, D.Lgs. n. 267/2000 Rifiuti - Gestione di un’area di stoccaggio - Ruolo del Sindaco - Responsabilità - Condizioni.
Sebbene l’art. 107 Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (D.Lgs. n. 267/2000) distingua tra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo degli enti locali e compiti di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, attribuiti ai dirigenti, cui sono conferiti autonomi poteri di organizzazione delle risorse, strumentali e di controllo, è evidente che il sindaco, una volta esercitati i poteri attribuitigli dalla legge, non può semplicemente disinteressarsi degli esiti di tale sua attività, essendo necessario, da parte sua, anche il successivo controllo sulla concreta attuazione delle scelte programmatiche effettuate; egli ha, inoltre, il dovere di attivarsi quando gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l’integrità dell’ambiente.
Con la sentenza che si riporta, si chiude una vicenda in cui il sindaco di San Lorenzo Maggiore, tratto a giudizio per una serie di violazioni alla normativa ambientale, unitamente ad altri soggetti, tra cui il responsabile dell’ufficio tecnico comunale, è stato riconosciuto colpevole dei reati contestati.
La vicenda, come risulta dalla sentenza di merito, trae origine dalla situazione di emergenza per la gestione dei rifiuti che aveva interessato la Campania fin dal 2007 e che aveva costretto anche il ricorrente ad emanare, in data 02.01.2007, un’ordinanza contingibile ed urgente con la quale si autorizzava lo stoccaggio provvisorio di rifiuti in un’area individuata come isola ecologica per un periodo di sei mesi, spirato il quale il conferimento dei rifiuti proseguiva, ma senza alcuna precauzione, come accertato da personale del Corpo Forestale dello Stato che, a seguito di controllo, aveva verificato la presenza di rifiuti abbandonati alla rinfusa, l’assenza di idonea recinzione del sito e lo scarico diretto del percolato mediante condotta, previa raccolta in una vasca non a tenuta, direttamente in un torrente.
Con il ricorso per cassazione il sindaco deduceva che il Tribunale non avrebbe tenuto conto di quanto disposto dall’art. 107, D.Lgs. n. 267/2000 e, segnatamente, della ripartizione delle funzioni tra dirigenti amministrativi e sindaco, che libera quest’ultimo dalle responsabilità conseguenti all’inosservanza di prescrizioni contenute nelle autorizzazioni o alle soluzioni operative adottate nel servizio di raccolta, dovendo rispondere, invece, soltanto per le scelte programmatiche e quelle derivanti da situazioni contingibili ed urgenti.
Secondo il ricorrente mancavano specifici riferimenti a condotte commissive o omissive a lui addebitabili: infatti, una volta emessa l’ordinanza con la quale era stata disposta la «apertura della discarica», non aveva alcun motivo ulteriore per occuparsi della vicenda, di esclusiva competenza del funzionario designato.
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso.
Il ricorrente non contestava la sussistenza dei fatti addebitatigli, ma sosteneva che andavano imputati esclusivamente ad un funzionario amministrativo, che era stato invece assolto. Viene a tale proposito invocato l’art. 107, D.Lgs. n. 267/2000 il quale stabilisce, al comma 1, che ai dirigenti degli enti locali spetta la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti, che devono uniformarsi al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.
La Cassazione ha rilevato che, nella fattispecie in esame, il giudice del merito aveva accertato in fatto che il ricorrente si era attivato, in un primo tempo, per sopperire alla situazione di emergenza nello smaltimento dei rifiuti, mediante l’esercizio del potere di ordinanza, operando, quindi, in sintonia con quanto disposto dall’art. 191, D.Lgs. n. 152/2006.
Successivamente alla individuazione di un’area destinata al provvisorio stoccaggio dei rifiuti, dopo lo spirare del termine di efficacia dell’ordinanza il ricorrente si era però completamente disinteressato della questione ed, anzi, aveva di fatto consentito successivi conferimenti nel sito in precedenza individuato senza alcuna cautela e ciò nonostante la competente Agenzia Regionale per la protezione dell’ambiente, a seguito di un controllo, avesse prescritto alcuni interventi per una corretta conduzione dell’isola ecologica al fine di evitare anche pericoli di incendio e la presenza di insetti o agenti patogeni.
Dunque, pur avendo la possibilità di reiterare l’ordinanza entro i limiti temporali stabiliti dall’art. 191, esercitando quindi un potere a lui riservato dalla legge, il sindaco è rimasto inerte e non ha comunque svolto alcuna attività di controllo o di mera sollecitazione dei settori tecnico-amministrativi dell’amministrazione per rimediare alla situazione segnalata dal personale dell’ARPAC.
Inoltre, il giudice del merito, esaminando la posizione dei coimputati assolti, ha accennato ad una diretta ingerenza del sindaco nell’attività di gestione dei rifiuti, affermando che il responsabile dell’ufficio tecnico comunale si era limitato ad esprimere il proprio parere favorevole all’emissione dell’ordinanza contingibile ed urgente senza essere più coinvolto.
Ciò posto, la Corte suprema ha notato che il ricorso non offriva alcun concreto sostegno alle censure formulate, proponendo invece una personale lettura delle risultanze processuali e limitandosi a richiamare il contenuto dell’art. 107 D.Lgs. n. 267/2000, senza però alcuno specifico riferimento alle modalità di concreto esercizio dei poteri di programmazione generale spettanti al sindaco, alla ripartizione delle competenze all’interno dell’amministrazione, alla sua organizzazione, all’eventuale delega di funzioni a specifici soggetti interni all’amministrazione medesima né, tanto meno, ad eventuali rimedi adottati a fronte di una conclamata situazione antigiuridica a lui ben nota perché segnalata dall’ARPAC.
Orbene, la Cassazione, dopo aver ricordato la giurisprudenza di legittimità che, con specifico riferimento alla materia dei rifiuti, ha applicato la citata disposizione, ha affermato il principio secondo il quale, sebbene l’art. 107, D.Lgs. n. 267/2000 distingua tra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo degli enti locali e compiti di gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, attribuiti ai dirigenti, cui sono conferiti autonomi poteri di organizzazione delle risorse, strumentali e di controllo, il sindaco, una volta esercitati i poteri attribuitigli dalla legge, non può semplicemente disinteressarsi degli esiti di tale sua attività, essendo necessario, da parte sua, anche il successivo controllo sulla concreta attuazione delle scelte programmatiche effettuate.
Egli ha, inoltre, il dovere di attivarsi quando gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l’integrità dell’ambiente
 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2013 n. 37544 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 2/2014).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ABBANDONO DI RIFIUTI.
Rifiuti - Abbandono di rifiuti - Rilevanza penale - Qualità dell’autore del fatto
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
L’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006 prevede due distinte ipotesi di reato: nel primo comma, non è sufficiente il mero abbandono o deposito incontrollato di rifiuti, che può essere anche occasionale, occorrendo invece un’attività, necessariamente organizzata, di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio o intermediazione di rifiuti; nel secondo comma, è invece sufficiente l’abbandono o il deposito in modo incontrollato di rifiuti.
Quest’ultima condotta implica che l’autore del fatto sia titolare di un’impresa, mentre la condotta del primo comma può essere posta in essere da chiunque.

La sentenza che si riporta affronta un caso alquanto ricorrente e cioè lo smaltimento illecito di rifiuti (pneumatici di varie forme e misure) mediante l’abbandono su terreno.
Il Tribunale aveva così ricostruito la vicenda: due giovani avevano notato un camion che si dirigeva nei pressi di una masseria abbandonata; i due giovani seguivano il camion, insospettiti della presenza del mezzo in ore notturne in quell’area, e successivamente notavano che tre persone stavano scaricando dal cassone numerosi pneumatici usati nel cortile esterno di una masseria; i due giovani erano riusciti a prendere il numero di targa del camion e a trasmetterlo alle forze dell’ordine che, successivamente, avevano accertato che l’autocarro, dal quale erano stati scaricati i rifiuti, era intestato all’imputato.
La Corte ha esaminato il ricorso del prevenuto ritenendolo fondato.
I Giudici hanno premesso che l’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006 prevede al primo ed al secondo comma due distinte ipotesi di reato in relazione al fatto che le condotte incriminate sono ben distinte: nel primo caso non e` sufficiente, ai fini della rilevanza penale, il mero abbandono o deposito incontrollato di rifiuti, che può essere anche occasionale, occorrendo invece una attività, necessariamente organizzata, di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio o intermediazione di rifiuti; altrimenti si versa in un’ipotesi di illecito amministrativo.
Nel secondo caso è sufficiente l’abbandono o il deposito in modo incontrollato di rifiuti: quest’ultima condotta implica però un’attività di impresa, mentre la condotta del primo comma può essere posta in essere da chiunque.
Nella specie, il reato contestato era quello di cui al primo comma dell’art. 256 e quindi occorreva la prova di un’attività (non autorizzata) di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti.
La Corte ha notato che il tribunale aveva invece operato una commistione tra la fattispecie del primo comma e quella del secondo comma: aveva, infatti, considerato che l’imputato svolgeva l’attività di imbianchino, attività di tipo imprenditoriale; qualità questa che consentiva di ritenere penalmente rilevante la condotta di abbandono di rifiuti. Questa condotta però è prevista dalla fattispecie del secondo comma dell’art. 256, che non era stata contestata all’imputato, sicché il tribunale, invece di motivare in ordine alla sussistenza di un’attività non occasionale di trasporto di rifiuti non pericolosi, aveva ritenuto rilevante, al fine della prova dell’elemento materiale del reato di cui al primo comma dell’art. 256, la qualità di piccolo imprenditore artigiano in capo all’imputato.
Ma tale circostanza, ha concluso la Corte suprema, non è rilevante ai fini del primo comma dell’art. 256 (ossia del reato per il quale l’imputato era stato condannato), ma ai fini del secondo comma della stessa disposizione (ossia di un reato non contestato all’imputato).
Una brevissima osservazione per segnalare che pare di cogliere una certa contraddizione nel ragionamento della Corte di Cassazione: infatti, da un lato si sostiene che il reato del primo comma l’art. 256 richieda «un’attività, necessariamente organizzata, di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio o intermediazione di rifiuti», tanto che si è esclusa la rilevanza di un abbandono occasionale, il che farebbe pensare, sul piano logico, che la condotta incriminata sia tipica di chi svolga un’attività con carattere imprenditoriale o comunque continuativo, ma dall’altro lato si afferma che l’illecito del primo comma possa essere commesso da «chiunque» e quindi anche da chi non rivesta la qualità di titolare di impresa che, anche se non indicata espressamente nella norma, è da ritenersi che sia dalla stessa presupposta in via implicita (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.09.2013 n. 37357 - tratto da Ambiente & Sviluppo n. 4/2014).

SICUREZZA LAVOROGli obblighi del proprietario d’immobile committente.
Nel corso di lavori edili appaltati a un’impresa  dai proprietari di un immobile, un dipendente dell’impresa esecutrice precipitò al suolo a causa della mancata protezione dei lati prospicienti il vuoto delle rampe di scala e dei pianerottoli.
Per omicidio colposo furono condannati anche i committenti, con l’addebito di «non aver provveduto alla verifica della corretta applicazione dei piani di sicurezza, consentendo che venisse utilizzato un ponteggio non a norma perché privo di tavola fermapiede e di idoneo parapetto e con correnti intermedi non stabilmente fissati, di non aver accertato la mancanza di un piano di sicurezza adottato da un coordinatore nominato dai due proprietari e committenti dell’opera, di aver affidato i lavori in economia senza avere preventivamente verificato la idoneità della ditta nell’adempimento delle più elementari norme di prevenzione e senza nominare un direttore dei lavori e, dunque, assumendosi interamente il maggior rischio di una così fatta organizzazione
Nell’annullare con rinvio la sentenza di condanna, la Sez. IV premette un’ampia analisi degli sviluppi normativi in ordine alla figura del committente dai D.P.R. degli anni Cinquanta del secolo scorso ai D.Lgs. nn. 626/1994 e 494/1996 e infine al D.Lgs. n. 81/2008.
Rileva che, «a seguito del sintetizzato mutamento normativo, nella giurisprudenza di legittimità la responsabilità del committente è stata derivata dalla violazione di alcuni obblighi specifici, quali l’informazione sui rischi dell’ambiente di lavoro e la cooperazione nell’apprestamento delle misure di protezione e prevenzione, ritenendosi che resti ferma la responsabilità dell’appaltatore per l’inosservanza degli obblighi prevenzionali su di lui gravanti
«Ribadito il dovere di sicurezza, con riguardo ai lavori svolti in esecuzione di un contratto di appalto o di prestazione d’opera, tanto in capo al datore di lavoro (di regola l’appaltatore, destinatario delle disposizioni antinfortunistiche) che del committente», richiama «la necessità che tale principio non conosca un’applicazione automatica, non potendo esigersi dal committente un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori», e ne ricava che, «ai fini della configurazione della responsabilità del committente, occorre verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei  lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione  d’opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di
situazioni di pericolo

Sottolinea che, «tra gli obblighi incombenti sul committente vi è anche l’obbligo di cooperazione, discendente dall’art. 7 D.Lgs. n. 626/1994 (e oggi dall’art. 26 D.Lgs. n. 81/2008), che si concreta anche nella comunicazione al coordinatore per la progettazione e al coordinatore per l’esecuzione, seconde le evenienze, dei nominativi delle imprese alle quali si appaltano i lavori, onde permettere a questi di adempiere ai compiti loro assegnati dalla legge (artt. 4 e 5 D.Lgs. n. 494/1996; 91 e 92 D.Lgs. n. 81/2008)», e che, peraltro, l’art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 494/1996 [e ora l’art. 93, comma 2, D.Lgs. n. 81/2008] costituisce chiaramente il committente quale garante dell’effettività dell’opera di coordinamento posta in capo ai coordinatori per la progettazione e per la esecuzione.» (Dello stesso estensore v. anche, in motivazione, la sentenza Giorgi sopra annotata). Ciò premesso, con riguardo al caso di specie, la Sez. IV afferma che:
– «non sussiste alcun obbligo di nominare il coordinatore dei lavori se non si danno le condizioni previste dall’art. 3 D.Lgs. n. 494/1996 [e ora art. 90, commi 3 e 4, D.Lgs. n. 81/2008]»;
– «neppure esiste un obbligo di nominare il direttore dei lavori per l’ipotesi che il committente voglia sottrarsi agli obblighi che gli pone in capo la legge», in quanto «in realtà è previsto e possibile (e non è un obbligo) che il committente nomini un ‘‘responsabile dei lavori’’, soggetto che ove munito di reali poteri e autonomia gestionale e` effettivamente in grado di schermare da eventuali responsabilità il committente (che si sia strettamente attenuto a tale ruolo)», là dove «il direttore dei lavori, per contro, è figura sconosciuta alla disciplina prevenzionistica» e «trova collocazione nella materia delle costruzioni, quale soggetto preposto nell’interesse del committente al controllo della corretta esecuzione dei lavori da parte della impresa esecutrice», sicché «per una sua rilevanza sul piano prevenzionistico occorrerà esaminare in concreto se esso ha assunto poteri che lo qualificano come dirigente o mansioni che lo riconducono alla figura del preposto»;
– «se non ricorrono le condizioni per la nomina del coordinatore, neppure può imputarsi al committente di non aver, tramite questi, adottato un piano di sicurezza, che altro non può essere che il già menzionato piano di coordinamento»;
– «parimenti errata è l’affermazione di una colpa derivante dalla mancata nomina del coordinatore per la progettazione, posto che non si da` conto dell’affidamento dei lavori a più imprese»;
– «sotto altro profilo, posto l’obbligo di prevedere la durata dei lavori e le fasi del lavoro, non si è esplicato quale rilevanza causale abbia avuto tale inadempimento rispetto all’evento verificatosi»;
– «quanto all’omesso rispetto dei principi e delle misure generali di tutela di cui all’art. 3 D.Lgs. n. 626/1994 [e ora art. 15 D.Lgs. n. 81/2008] nella fase di progettazione dell’opera, la norma persegue l’obiettivo di far adottare scelte progettuali più sicure, e non può confondersi con l’adozione di misure ‘‘speciali’’, quali la dotazione dei ponteggi di tavole fermapiede e di parapetti».
Per contro, la Sez. IV non sembra trattare il profilo attinente all’addebito «di aver affidato i lavori in economia senza avere preventivamente verificato la idoneità della ditta nell’adempimento delle più elementari norme di prevenzione e senza nominare un direttore dei lavori» (v. artt. 26, comma 1, lett. a), e comma 9, D.Lgs. n. 81/2008) (circa le responsabilità del committente v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano, 2013, 276 ss., 522 ss. e 582 ss., cui adde Cass. 16.05.2013, Catale e altri, in ISL, 2013, 8- 9, 456; Cass. 06.05.2013, Politi e altro, in Dir. prat. lav., 2013, 22, 1457; Cass. 24.04.2013, Borrelli e altri, in ISL, 2013, 8-9, 456. Quanto alla posizione di garanzia del direttore dei lavori cfr. Guariniello, op. cit., 581 ss.) (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 05.09.2013 n. 36398 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 10/2013).

SICUREZZA LAVOROLa posizione del RLS.
Condannato per l’infortunio occorso a un dipendente precipitato al suolo per la rottura di una tettoia in eternit, un datore di lavoro lamenta, in particolare, che il dipendente era «esperto in prevenzione degli infortuni nella sua qualità di rappresentante della sicurezza dei lavoratori» e «avrebbe dovuto rifiutare il lavoro e pretendere le opere provvisionali ritenute necessarie
Nel respingere la doglianza dell’imputato, la Sez. IV nega che possa essere «invocata la responsabilità del dipendente in fase di predisposizione dei sistemi di sicurezza, per la sua supposta qualifica di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza», anche perché l’infortunato era stato nominato rappresentante dei laboratori per la sicurezza per un periodo di tre anni, per cui all’epoca dell’infortunio egli sicuramente non lo era più (da notare che in motivazione la presente sentenza richiama gli insegnamenti della Suprema Corte in ordine  alla posizione di garanzia del RSPP).
(Per alcuni precedenti in tema di RLS v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano, 2013, 439 ss.) (Corte di Cassazione, Sez. fer. penale, sentenza 22.08.2013 n. 35424 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 10/2013).

SICUREZZA LAVORO: Il campo di applicazione delle norme sui cantieri.
Per comprendere l’estensione del campo di applicabilità del Capo I Titolo IV del D.Lgs. n. 81/2008, è basilare il concetto di cantiere temporaneo o mobile di cui all’art. 89, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008 («qualunque luogo in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria civile il cui elenco è riportato nell’Allegato X»).
Di particolare rilievo sul punto, scanso di equivoci favoriti da passate circolari del Ministero del Lavoro contrastanti con il dato normativo, fu Cass. 09.02.2010, Soldi, in Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato con i commenti al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano, 2013, 513 ss., ove correttamente si sottolineò l’applicabilità della normativa sui cantieri temporanei o mobili a uno qualsiasi dei lavori indicati nell’ampio elenco dettato dall’Allegato X del D.Lgs. n. 81/2008 [Allegato I del D.Lgs. n. 494/1996].
In effetti, l’Allegato X include nel campo di applicazione del Titolo IV Capo I «i lavori di costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione, risanamento, ristrutturazione o equipaggiamento, la trasformazione, il rinnovamento o lo smantellamento di opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura, in cemento armato, in metallo, in legno o in altri materiali, comprese le parti strutturali delle linee elettriche e le parti strutturali degli impianti elettrici, le opere stradali, ferroviarie, idrauliche, marittime, idroelettriche e, solo per la parte che comporta lavori edili o di ingegneria civile, le opere di bonifica, di sistemazione forestale e di sterro», nonché «gli scavi, ed il montaggio e lo smontaggio di elementi prefabbricati utilizzati per la realizzazione di lavori edili o di ingegneria civile».
Nel caso ora considerato dalla presente sentenza, la Sez. IV osserva che «la fattispecie in esame risulta disciplinata dalle norme che concernono la materia dei cantieri temporanei e mobili, posto che è pacifico che i lavori appaltati dalla committente avevano ad oggetto la sostituzione con lastre in alluminio delle lastre di eternit che costituivano il tetto dell’edificio entro il quale la ditta committente svolgeva le proprie attività»
E precisa che «il contratto di appalto presentava un oggetto riconducibile ai ‘‘lavori di costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione, risanamento, ristrutturazione o equipaggiamento, la trasformazione, il rinnovamento o lo smantellamento di opere fisse, permanenti o temporanee, in muratura, in cemento armato, in metallo, in legno o in altri materiali...’’ di cui all’elenco dei lavori edili previsto dall’Allegato I al D.Lgs. n. 494/1996 (che trova oggi corrispondenza nell’Allegato X al D.Lgs. n. 81/2008), valevole a definire l’ambito di applicazione delle norme poste dal menzionato D.Lgs. per i cantieri temporanei o mobili» (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 22.07.2013 n. 31304 - tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 10/2013).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICALa figura del promissario acquirente di terreni interessati da una richiesta di concessione edilizia non implica l'esistenza di una posizione di interesse legittimo utile a rendere ammissibile l'impugnazione di un provvedimento di diniego della concessione stessa; invece, può radicare comunque una posizione dipendente da quella del ricorrente principale, "ad adiuvandum" del quale può dunque essere legittimamente dispiegato intervento in giudizio, se ed in quanto non miri ad eludere i termini di impugnazione da parte di chi risulti titolare di una posizione tutelabile con una propria autonoma impugnativa.
La giurisprudenza ha sostenuto che anche il promissario acquirente può avanzare domanda volta all'adozione di uno strumento urbanistico convenzionato, sempre che abbia l'effettiva disponibilità del bene, a nulla rilevando che detta disponibilità possa essere acquisita, nella sua pienezza, solo dopo la stipula del rogito notarile di trasferimento della proprietà, dovendo il concetto di disponibilità essere inteso nel senso della sussistenza di requisiti oggettivi tali da far ritenere che il trasferimento di proprietà sia destinato a verificarsi con sufficienti margini di certezza.
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Anche in relazione alla possibilità di richiedere titoli abilitativi, si sostiene che legittimato a richiedere la concessione edilizia è o il titolare del diritto reale di proprietà sul fondo o chi, pur essendo titolare di altro diritto, reale o di obbligazione, abbia, per effetto di questo, obbligo o facoltà di eseguire i lavori per cui chiede la concessione.
Tale legittimazione, invece, non compete a colui il quale, in base ad un contratto preliminare, abbia avuto la promessa di futura vendita del terreno sul quale dovrebbe sorgere la costruzione (nel senso che la voltura della concessione edilizia non può essere chiesta dal promissario acquirente cfr. Cass. 10.10.1997 n. 9850).
Nel vigore dell'art. 4, l. 28.01.1977 n. 10 (sostanzialmente corrispondente all'art. 11, t.u. 06.06.2001 n. 380), la concessione edilizia, potendo essere rilasciata "al proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederla", poteva essere chiesta anche dal promissario acquirente dell'immobile, purché avesse a ciò consentito il proprietario.
Ne consegue che, anche con riferimento alla impugnazione dell’auto-annullamento di un piano di lottizzazione, legittimato ad impugnare non può ritenersi il promissario acquirente tout court, in assenza tra l’altro della disponibilità materiale del bene, che si potrebbe configurare in caso di preliminare cosiddetto ad effetti anticipati, con il quale quantomeno si anticipa l’effetto della consegna del bene.

Il motivo è infondato.
La figura del promissario acquirente di terreni interessati da una richiesta di concessione edilizia non implica l'esistenza di una posizione di interesse legittimo utile a rendere ammissibile l'impugnazione di un provvedimento di diniego della concessione stessa; invece, può radicare comunque una posizione dipendente da quella del ricorrente principale, "ad adiuvandum" del quale può dunque essere legittimamente dispiegato intervento in giudizio, se ed in quanto non miri ad eludere i termini di impugnazione da parte di chi risulti titolare di una posizione tutelabile con una propria autonoma impugnativa (Consiglio Stato sez. IV, 30.06.2005 n. 3594).
La giurisprudenza ha sostenuto che anche il promissario acquirente può avanzare domanda volta all'adozione di uno strumento urbanistico convenzionato, sempre che abbia l'effettiva disponibilità del bene, a nulla rilevando che detta disponibilità possa essere acquisita, nella sua pienezza, solo dopo la stipula del rogito notarile di trasferimento della proprietà, dovendo il concetto di disponibilità essere inteso nel senso della sussistenza di requisiti oggettivi tali da far ritenere che il trasferimento di proprietà sia destinato a verificarsi con sufficienti margini di certezza (così, per esempio, Consiglio Stato sez. V, 24.08.2007, n. 4485).
Tale disponibilità giuridica e materiale nella specie non sussiste, né è stata mai dedotta.
Anche in relazione alla possibilità di richiedere titoli abilitativi, si sostiene che legittimato a richiedere la concessione edilizia è o il titolare del diritto reale di proprietà sul fondo o chi, pur essendo titolare di altro diritto, reale o di obbligazione, abbia, per effetto di questo, obbligo o facoltà di eseguire i lavori per cui chiede la concessione.
Tale legittimazione, invece, non compete a colui il quale, in base ad un contratto preliminare, abbia avuto la promessa di futura vendita del terreno sul quale dovrebbe sorgere la costruzione (nel senso che la voltura della concessione edilizia non può essere chiesta dal promissario acquirente cfr. Cass. 10.10.1997 n. 9850).
Nel vigore dell'art. 4, l. 28.01.1977 n. 10 (sostanzialmente corrispondente all'art. 11, t.u. 06.06.2001 n. 380), la concessione edilizia, potendo essere rilasciata "al proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederla", poteva essere chiesta anche dal promissario acquirente dell'immobile, purché avesse a ciò consentito il proprietario (Consiglio Stato, sez. V, 24.08.2007, n. 4485).
Ne consegue che, anche con riferimento alla impugnazione dell’auto-annullamento di un piano di lottizzazione, legittimato ad impugnare non può ritenersi il promissario acquirente tout court, in assenza tra l’altro della disponibilità materiale del bene, che si potrebbe configurare in caso di preliminare cosiddetto ad effetti anticipati, con il quale quantomeno si anticipa l’effetto della consegna del bene.
Non è condivisibile il motivo che poggia su una asserita esistenza di giudicato, in assenza di identità di cause, che riguardi sia l’oggetto (gli atti impugnati) che i soggetti (le parti in giudizio); in effetti, l’atto impugnato è del tutto diverso, come ammette la medesima parte appellante (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.04.2011 n. 2275 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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