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AGGIORNAMENTO AL 22.07.2014 |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Mentre
il pagamento degli oneri di urbanizzazione si risolve in un
contributo per la realizzazione delle opere stesse, senza
che insorga un vincolo di scopo in relazione alla zona in
cui è inserita l’area interessata all’imminente
trasformazione edilizia, la monetizzazione sostitutiva della
cessione degli standard afferisce al reperimento delle aree
necessarie alla realizzazione delle opere di urbanizzazione
secondaria all’interno della specifica zona di intervento.
E ciò vale ad evidenziare la diversità ontologica della
monetizzazione rispetto al contributo di concessione di
talché, sotto il versante processuale, non si può utilizzare
lo strumento dell’azione di accertamento per determinare
l’importo di tale obbligazione pecuniaria.
---------------
La norma regionale impone al richiedente il titolo edilizio
di reperire gli standard necessari per l’ampliamento
aggiuntivo richiesto. In via alternativa, lo stesso
richiedente può provvedere alla monetizzazione degli
standard mediante pagamento “di una somma commisurata al
costo di acquisizione di altre aree equivalenti per
estensione e comparabili per ubicazione e destinazione a
quelle per le quali sussiste l’obbligo di cessione”.
In estrema sintesi, in base alla norma in questione il
richiedente il titolo edilizio o trasferisce al Comune le
aree necessarie per il soddisfacimento degli standard o
consegna una somma di danaro idonea per acquisire tali aree:
tale monetizzazione va, cioè, necessariamente quantificata
con riferimento “al costo di acquisizione” di aree
equivalenti.
Nella determinazione delle somme da corrispondere per tale
monetizzazione, cioè, il Comune deve fare specifico
riferimento alle somme occorrenti per “acquisire” le aree
necessarie per realizzare gli standard, cioè deve effettuare
un calcolo puntuale ed articolato di quanto dovrebbe in
concreto spendere per acquisire al suo patrimonio le aree
necessarie, comprensive, ad esempio, di tutte le spese (cioè
sia delle spese vive, che dell’attività lavorativa del
personale del Comune) per acquisire sul libero mercato delle
aree “equivalenti per estensione e comparabili per
ubicazione e destinazione a quelle per le quali sussiste
l’obbligo di cessione”.
In definiva, nella quantificazione di tale monetizzazione il
Comune deve effettuare in concreto (e non in astratto come
sembra abbia fatto nel caso in esame) un calcolo preciso di
tutte le spese che dovrebbe sopportare per acquisire sul
libero mercato delle aree “equivalenti”, in modo tale da
rendere nella sostanza equivalente per il soggetto
interessato la scelta tra il procedere alla diretta
acquisizione delle aree ed la loro cessione al Comune o il
procedere al pagamento della relativa “monetizzazione”, dato
che eventuali costi aggiuntivi non debbono e non possono in
alcun modo gravare sulla collettività, ma debbono essere
posti necessariamente a carico del soggetto che altera il
corretto rispetto degli standard.
Mentre non può di certo ritenersi ammissibile al riguardo la
possibilità per il Comune di quantificare tali costi
ipotizzando il ricorso per l’acquisizione di tale aree allo
strumento espropriativo, dato che i soggetti proprietari di
tali aree, eventualmente da espropriare, non possono in
alcun modo subire una lesione dei loro intessi in relazione
ad un’attività costruttiva realizzata da soggetti terzi per
soddisfare interessi privati e non pubblici. Non può quindi
ritenersi che, in via alternativa, il Comune possa
considerare le spese necessarie per acquisire le aree
necessarie non sul libero mercato, ma attraverso lo
strumento pubblicistico dell’esproprio.
Ciò detto, sembra evidente l’erroneità del procedimento
logico seguito nel caso di specie dal Comune e denunciato
con il gravame, dato che l’Amministrazione ha determinato
“in astratto” il valore delle aree (quantificandole in una
somma di poco superiore alle € 100 al mq., senza previamente
accertare i valori di mercato nella zona), maggiorandola di
somme (costo dell’infrastruttura da realizzare e costo della
progettazione dell’opera pubblica) non previste dalla
normativa sopra richiamata.
Con il ricorso in esame -come sopra esposto- sono state
nella sostanza contestate la modalità di determinazione da
parte del Comune di Montesilvano della monetizzazione degli
standard.
...
Con la deliberazione impugnata il Consiglio comunale di
Montesilvano ha nella sostanza determinato in via generale i
criteri per la monetizzazione degli standard, integrando e
modificando la precedente propria deliberazione consiliare
n. 3 del 29.01.2013, nei termini seguenti: ha ritenuto
che tale monetizzazione avrebbe dovuto essere determinata
aggiungendo al costo per l’acquisizione delle aree
(determinato in € 109/mq) -da moltiplicarsi per un
coefficiente correttivo rapportato all’indice di
fabbricabilità territoriale- anche i seguenti costi:
a) il costo dell’infrastruttura da realizzare (pari a €
96,90/mq);
b) il costo della progettazione dell’opera pubblica (pari a
€ 7,90/mq).
Con i primi due motivi di ricorso -che possono esaminarsi
congiuntamente- la società ricorrente ha dedotto che con la
previsione di tali due voci aggiuntive per un verso si era
violata L.R. Abruzzo 15.10.2012, n. 49, in quanto tale
normativa concede ai soggetti l’alternativa tra la cessione
delle aree e l’equivalente valore monetario, e per altro
verso si era violato l’art. 23 della Costituzione, dato che
era stato imposto un ulteriore contributo di urbanizzazione
non previsto da alcuna norma di legge.
Tali doglianze, aventi carattere pregiudiziale ed
assorbente, sono fondate.
Va al riguardo premesso che relativamente all’impugnativa di
tale atto generale, avente natura discrezionale, sussiste di
certo la giurisdizione di questo Tribunale, dal momento che
la posizione giuridica soggettiva del privato ha l’indubbia
consistenza dell’interesse legittimo.
Mentre -come è già stato autorevolmente precisato (Cons.
St., sez. IV, 23.12.2013 n. 6211)- non si può
utilizzare in questa sede lo strumento dell’azione di
accertamento per la monetizzazione sostitutiva della
cessione degli standard, ammessa al contrario solo per
contestare la legittimità del contributo concessorio di cui
all'art. 3 della L. 28.01.1977, n. 10. Si è, invero, al
riguardo già chiarito che “mentre il pagamento degli oneri
di urbanizzazione si risolve in un contributo per la
realizzazione delle opere stesse, senza che insorga un
vincolo di scopo in relazione alla zona in cui è inserita
l’area interessata all’imminente trasformazione edilizia, la
monetizzazione sostitutiva della cessione degli standard
afferisce al reperimento delle aree necessarie alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria
all’interno della specifica zona di intervento; e ciò vale
ad evidenziare la diversità ontologica della monetizzazione
rispetto al contributo di concessione di talché, sotto il
versante processuale, non si può utilizzare lo strumento
dell’azione di accertamento per determinare l’importo di
tale obbligazione pecuniaria".
Ciò chiarito, va evidenziato che la norma regionale sopra
ricordata impone al richiedente il titolo edilizio di
reperire gli standard necessari per l’ampliamento aggiuntivo
richiesto. In via alternativa, lo stesso richiedente può
provvedere alla monetizzazione degli standard mediante
pagamento “di una somma commisurata al costo di acquisizione
di altre aree equivalenti per estensione e comparabili per
ubicazione e destinazione a quelle per le quali sussiste
l’obbligo di cessione”.
In estrema sintesi, in base alla norma in questione il
richiedente il titolo edilizio o trasferisce al Comune le
aree necessarie per il soddisfacimento degli standard o
consegna una somma di danaro idonea per acquisire tali aree:
tale monetizzazione va, cioè, necessariamente quantificata
con riferimento “al costo di acquisizione” di aree
equivalenti.
Nella determinazione delle somme da corrispondere per tale
monetizzazione, cioè, il Comune deve fare specifico
riferimento alle somme occorrenti per “acquisire” le aree
necessarie per realizzare gli standard, cioè deve effettuare
un calcolo puntuale ed articolato di quanto dovrebbe in
concreto spendere per acquisire al suo patrimonio le aree
necessarie, comprensive, ad esempio, di tutte le spese (cioè
sia delle spese vive, che dell’attività lavorativa del
personale del Comune) per acquisire sul libero mercato delle
aree “equivalenti per estensione e comparabili per
ubicazione e destinazione a quelle per le quali sussiste
l’obbligo di cessione”.
In definiva, nella quantificazione di tale monetizzazione il
Comune deve effettuare in concreto (e non in astratto come
sembra abbia fatto nel caso in esame) un calcolo preciso di
tutte le spese che dovrebbe sopportare per acquisire sul
libero mercato delle aree “equivalenti”, in modo tale da
rendere nella sostanza equivalente per il soggetto
interessato la scelta tra il procedere alla diretta
acquisizione delle aree ed la loro cessione al Comune o il
procedere al pagamento della relativa “monetizzazione”, dato
che eventuali costi aggiuntivi non debbono e non possono in
alcun modo gravare sulla collettività, ma debbono essere
posti necessariamente a carico del soggetto che altera il
corretto rispetto degli standard.
Mentre non può di certo ritenersi ammissibile al riguardo la
possibilità per il Comune di quantificare tali costi
ipotizzando il ricorso per l’acquisizione di tale aree allo
strumento espropriativo, dato che i soggetti proprietari di
tali aree, eventualmente da espropriare, non possono in
alcun modo subire una lesione dei loro intessi in relazione
ad un’attività costruttiva realizzata da soggetti terzi per
soddisfare interessi privati e non pubblici. Non può quindi
ritenersi che, in via alternativa, il Comune possa
considerare le spese necessarie per acquisire le aree
necessarie non sul libero mercato, ma attraverso lo
strumento pubblicistico dell’esproprio.
Ciò detto, sembra evidente l’erroneità del procedimento
logico seguito nel caso di specie dal Comune e denunciato
con il gravame, dato che l’Amministrazione ha determinato
“in astratto” il valore delle aree (quantificandole in una
somma di poco superiore alle € 100 al mq., senza previamente
accertare i valori di mercato nella zona), maggiorandola di
somme (costo dell’infrastruttura da realizzare e costo della
progettazione dell’opera pubblica) non previste dalla
normativa sopra richiamata.
Alla luce delle suesposte considerazioni il ricorso in esame
deve, conseguentemente, essere accolto e, per l’effetto,
deve essere annullato nella sua totalità l’atto impugnato,
data l’erroneità dell’intero procedimento logico seguito dal
Comune per procedere alla monetizzazione in parola. Mentre
restano al riguardo ovviamente salvi gli ulteriori
provvedimenti che l’Amministrazione andrà ad adottare in
merito, attenendosi ai criteri sopra indicati.
Con riferimento a quanto sopra esposto ed a quanto al
riguardo chiarito dal Giudice di appello (Cons. St., sez. IV,
23.12.2013 n. 6211), vanno infine dichiarate
inammissibili le richieste di rideterminazione da parte di
questo Tribunale del corrispettivo dovuto per la mancata
cessione delle aree di standard e l’accertamento del diritto
della ricorrente alla restituzione delle somme non dovute
indebitamente versate a titolo di monetizzazione; mentre
resta assorbita l’ultima della doglianze dedotte, che
presuppone la legittimità dell’atto deliberativo in
questione (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 15.07.2014 n. 346 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
LAVORI PUBBLICI:
CORRISPETTIVI per le PRESTAZIONI PROFESSIONALI dei LAVORI
PUBBLICI (CNAPPC e CNI - 21.12.2013).
---------------
Per facilitare il lavoro alle Stazioni appaltanti il
Consiglio Nazionale degli Architetti ed il Consiglio
Nazionale degli Ingegneri hanno realizzato un apposito
software -a disposizione di tutti i professionisti- in grado
di calcolare i compensi professionali in modo semplice e
immediato.
Qui il
link per scaricare il programma. |
ARAN |
PUBBLICO IMPIEGO:
Modalità di calcolo del monte ore dei permessi sindacali
di spettanza delle organizzazioni sindacali rappresentative
nei luogo di lavoro - Personale delle Aree dirigenziali
(guida
operativa - maggio 2014). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
SICUREZZA LAVORO:
Oggetto: art. 12, D.Lgs. n. 81/2008 e successive
modifiche e integrazioni - risposta ai quesiti sulla
formazione dei lavoratori e dei datori di lavoro in materia
di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro (Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 11.07.2014 n. 12/2014). |
APPALTI:
OGGETTO: Monitoraggio delle esigenze di spazi finanziari,
nell’ambito del patto di stabilità interno, degli enti
locali e delle regioni per estinguere i debiti di parte
capitale certi liquidi ed esigibili al 31.12.2013
(Ministero dell'Economia e delle Finanze, Ragioneria
Generale dello Stato,
circolare 07.07.2014 n. 22). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 30 del 22.07.2014, "Approvazione
della disciplina del procedimento di nomina, da parte della
Giunta regionale, dei Commissari ad acta per il
completamento della procedura di approvazione dei PGT di cui
all’art. 25-bis, comma 3, della l.r. 11.03.2005, n. 12
«Legge per il governo del territorio»" (deliberazione
G.R. 11.07.2014 n. 2130). |
ENTI LOCALI:
G.U. 19.07.2014 n. 166 "Patto di stabilità interno per il
triennio 2014-2016 per le province e i comuni con
popolazione superiore a 1.000 abitanti (articoli 30, 31 e 32
della legge 12.11.2011, n. 183, come modificati dalla legge
27.12.2013, n. 147)" (Ministero dell'Economia e
delle Finanze,
circolare 18.02.2014 n. 6). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 18.07.2014 n. 165 "Prime linee guida per l’avvio di
un circuito collaborativo tra ANAC-Prefetture-UTG e Enti
locali per la prevenzione dei fenomeni di corruzione e
l’attuazione della trasparenza amministrativa" (Ministero
dell'Interno,
protocollo d'intesa 15.07.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
18.07.2014 n. 165 "Attuazione della direttiva 2012/27/UE
sull’efficienza energetica, che modifica le direttive
2009/125/CE e 2010/30/UE e abroga le direttive 2004/8/CE e
2006/32/CE" (D.lgs.
04.07.2014 n. 102). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R
Lombardia, supplemento n. 29 del 18.07.2014, "Modifiche
ed integrazioni alla legge regionale 05.12.2008, n. 31
(Testo unico delle leggi regionali in materia di
agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale)" (L.R.
15.07.2014 n. 21). |
PATRIMONIO:
B.U.R Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 18.07.2014,
"Approvazione criteri per l’assegnazione di contributi
per la riqualificazione degli impianti sportivi di proprietà
pubblica"
(deliberazione
G.R. 11.07.2014 n. 2119). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 16.07.2014, "Aggiornamento
delle zone sismiche in Regione Lombardia (l.r. 1/2000, art.
3, c. 108, lett. d)" (deliberazione
G.R. 11.07.2014 n. 2129). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
S. Cataleta,
Procedure di gara, dichiarazione ex art. 38 d.lgs. 163/2003
s.m.i. e partecipazioni societarie - E’ obbligatorio
dichiarare le partecipazioni societarie per le imprese che
partecipano a gare pubbliche e per le eventuali
controllanti. I riferimenti di legge
(17.07.2014 - link a www.leggioggi.it). |
URBANISTICA: D.
Tramutoli,
“Impugnazione di piani urbanistici e interesse a
ricorrere: quali requisiti?” (cfr. TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, sentenza n. 1580 del 16.06.2014)
(16.07.2014 - link a www.diritto.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
V. Vinciprova,
MEPA per acquisizione di beni e servizi: sottosoglia per
tutti, soprasoglia solo per i Comuni non capolouoghi -
Obbligo per i Comuni non capoluogo del ricorso alle centrali
di committenza e al mercato elettronico della pubblica
amministrazione (MEPA) gestito da Consip (15.07.2014
- link a www.leggioggi.it). |
LAVORI PUBBLICI:
S. Lazzini,
Dimezzamento cauzione provvisoria non necessario allegare la
certificazione del sistema di qualità
(13.07.2014 - link a www.diritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: G.
Milizia,
La PA deve rimborsare le spese legali ai propri dipendenti
cui non era attribuibile alcuna colpa. Quale giurisdizione?
(02.07.2014 - link a www.diritto.it). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: L.
Catania,
Incentivi alla progettazione. Quali novità per i tecnici dei
Comuni?
(25.06.2014 - link a www.giurdanella.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI:
B. Cirillo, Il
POS negli studi: obbligo o onere?
(03.06.2014 - link a www.diritto.it). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Commissioni bulgare k.o..
Senza la minoranza l'organo non è costituito.
Se è impossibile insediarle si riespande la competenza del
consiglio.
Una commissione consiliare può funzionare validamente pur in
assenza del componente di minoranza? È possibile procedere
alla costituzione delle commissioni consiliari prevedendo un
numero di componenti, a prescindere dalla loro appartenenza?
Sono attivabili dal consiglio comunale interventi
sostitutivi al fine di consentire all'ente il perseguimento
delle proprie finalità istituzionali?
In base a quanto disposto dall'articolo 38, comma 6, del
decreto legislativo n. 267/2000, le commissioni consiliari,
una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione
statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento
comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore,
riguardante il rispetto del criterio proporzionale nella
composizione. Le forze politiche presenti in consiglio
devono essere il più possibile rappresentate anche nelle
commissioni.
Nel caso di specie, il regolamento per l'organizzazione del
consiglio comunale prevede che lo stesso possa istituire
commissioni speciali, determinandone i poteri, l'oggetto ed
il numero dei componenti e che l'insediamento ed il
funzionamento delle suddette commissioni sono disciplinati
dalle norme previste per le commissioni consiliari
permanenti. Il regolamento per le commissioni consiliari
dispone che ciascuna commissione è composta da tre membri di
cui uno eletto dalle minoranze e due dalla maggioranza e che
le sedute non sono valide se non è presente la maggioranza
assoluta dei componenti.
Nella fattispecie in esame, il consiglio comunale, composto
da quattordici consiglieri della maggioranza e due della
minoranza, al fine di procedere all'adeguamento dello
Statuto comunale e del Regolamento per il funzionamento del
consiglio, ha avviato l'iter di costituzione di un'apposita
commissione consiliare. In due successive sedute del
consiglio sono stati eletti, oltre che i due rappresentanti
della maggioranza, anche quelli di minoranza che, tuttavia,
con atto contestuale alla avvenuta nomina, hanno rassegnato
le proprie dimissioni dalla carica di componenti della
istituenda commissione.
In base al principio consolidato in materia di organi
collegiali, secondo il quale all'atto del primo insediamento
l'organo deve essere completo in tutte le sue componenti per
potersi dire legittimamente costituito e poter validamente
operare, si ritiene che le dimissioni dei consiglieri di
minoranza abbiano impedito, di fatto, la costituzione della
commissione in argomento.
In assenza di specifiche previsioni recate dalle fonti di
autonomia locale la questione deve essere esaminata alla
luce di quei principi generali dai quali trarre utili
orientamenti nel caso di specie.
Va rilevata anzitutto la natura delle commissioni
consiliari. Esse non sono organi necessari dell'ente locale,
cioè non sono componenti indispensabili della sua struttura
organizzativa, bensì organi strumentali dei consigli ed, in
quanto tali, costituiscono componenti interne dell'organo
assembleare, prive di una competenza autonoma e distinta da
quella a esso attribuita. In altri termini, le commissioni
consiliari operano sempre e comunque nell'ambito della
competenza dei consigli.
A fronte dell'oggettiva impossibilità di insediare
validamente la commissione a causa della indisponibilità
manifestata dai consiglieri di minoranza, la situazione di
fatto verificatasi è tale da giustificare, in ragione del
principio della continuità amministrativa, il riespandersi
della competenza piena del consiglio comunale in ordine
all'adeguamento dello statuto e del regolamento per il
funzionamento del consiglio.
Non si ritiene praticabile la ipotesi prospettata, in sede
di modifica regolamentare, di non indicare l'appartenenza
politica dei componenti la commissione, in quanto ciò
implicherebbe la violazione del vincolo all'osservanza del
criterio proporzionale posto dalla norma primaria come
limite alla potestà normativa dell'ente locale.
Ovviamente ciò non esclude che l'argomento della
ricostituzione delle commissioni comunali possa essere
iscritto all'ordine del giorno delle sedute consiliari fino
alla sua positiva trattazione, fatte salve eventuali
modifiche regolamentari
(articolo ItaliaOggi del
18.07.2014). |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Procedimento disciplinare e
lavoro straordinario.
La corte di Cassazione ha rilevato,
nell'ambito del procedimento disciplinare, che la
convocazione in orario lavorativo e nel luogo di lavoro non
rientra tra i diritti del lavoratore, purché la convocazione
in orari o luoghi diversi non si traduca, per le difficoltà
della sua attuazione, in una violazione del diritto di
difesa.
Il dipendente convocato al termine dell'orario di lavoro non
può essere considerato in lavoro straordinario, mancando il
presupposto di prestazione lavorativa resa nell'interesse
dell'amministrazione.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
considerare come lavoro straordinario la convocazione di un
dipendente, al termine dell'orario giornaliero di lavoro, a
seguito di procedimento disciplinare avviato nei confronti
del medesimo.
Preliminarmente si osserva, in linea generale, che l'art.
17, comma 1, del CCRL del 01.08.2002 precisa che le
prestazioni di lavoro straordinario sono rivolte a
fronteggiare situazioni di lavoro eccezionali e, pertanto,
non possono essere utilizzate come fattore ordinario di
programmazione del tempo di lavoro e di copertura
dell'orario di lavoro.
Il comma 2 del citato articolo specifica altresì che le
prestazioni di lavoro straordinario sono espressamente
autorizzate (quindi, con atto formale) dal dirigente o
figura equivalente, sulla base delle esigenze organizzative
e di servizio individuate dall'ente, rimanendo esclusa ogni
forma generalizzata di autorizzazione.
Premesso un tanto, si osserva come la giurisprudenza
amministrativa [1],
secondo un consolidato orientamento, abbia affermato che, ai
fini retributivi, occorre verificare in concreto la
sussistenza delle ragioni di pubblico interesse che rendono
necessario il ricorso a dette prestazioni.
Inoltre, si è ritenuto ammissibile il pagamento di lavoro
straordinario, in assenza di formale autorizzazione, qualora
lo svolgimento dell'attività lavorativa derivi da un preciso
obbligo scaturente o da esigenze indispensabili o
indifferibili o da norme inderogabili, oppure da scelte
organizzative per la cui attuazione la relativa prestazione
non possa esser affidata che al dipendente interessato,
costretto a protrarre la propria attività oltre l'orario di
servizio [2].
Si sottolinea come, nella situazione rappresentata, non
possano ravvisarsi i presupposti illustrati, in quanto non
si tratta di svolgimento di attività lavorativa del
dipendente nell'interesse dell'amministrazione di
appartenenza, ma di mera partecipazione dello stesso ad un
procedimento che lo coinvolge personalmente.
Inoltre, nello specifico, la Suprema Corte
[3] ha rilevato,
nell'ambito del procedimento disciplinare, che la
convocazione in orario lavorativo e nel luogo di lavoro non
rientra tra i diritti del lavoratore, purché la convocazione
in orari o luoghi diversi non si traduca, per le difficoltà
della sua attuazione, in una violazione del diritto di
difesa.
---------------
[1] Cfr., ex multis, Cons. di Stato, sez. V, n. 3460 del
2009.
[2] Cfr. Cons. di Stato, sez. V, n. 1671 del 2014.
[3] Cfr. Cass. civ., sez. lavoro, n. 8845 del 2012
(17.07.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI SERVIZI: Oggetto del contratto pubblico.
Domanda
In una gara per affidamenti di servizi è possibile
prevedere, nell'oggetto dell'appalto, anche servizi a
richiesta dell'amministrazione e tariffati a costo orario?
Risposta
L'Avcp con deliberazione n. 1 del 29.01.2014 ha
precisato che il contratto, per affidamenti di servizi, non
può essere caratterizzato da un contenuto prettamente
«variabile» ossia determinabile in ragione delle necessità
manifestate di volta in volta dall'Amministrazione nel
periodo di efficacia del contratto stesso.
Infatti nei contratti pubblici l'oggetto, a differenza di
quello dei contratti privatistici (che può anche essere
«determinabile») deve essere sempre determinato.
L'esigenza di identificare in modo esatto e preciso
l'oggetto del contratto pubblico è divenuta più stringente a
seguito dell'entrata in vigore dpr 207/2010 il quale ha
regolamentato, anche per gli appalti di servizi, la fase
della progettazione nel presupposto che una carente
progettazione comporta l'imprecisa definizione dell'oggetto
del contratto.
L'Avcp, con determinazione n. 5/2013 ha evidenziato che
«...la predisposizione di un progetto preciso e di
dettaglio, atto a descrivere in modo puntuale le prestazioni
necessarie a soddisfare specifici fabbisogni della stazione
appaltante, appare come uno strumento indispensabile per
ovviare al fenomeno di porre in gara non specifici servizi
ma categorie di servizi».
Tale circostanza, peraltro, può rivelarsi limitativa della
concorrenza, disincentivando la partecipazione alle gare
d'appalto per le piccole e medie imprese che non sono in
grado di garantire l'ampia gamma dei servizi compresi nelle
categorie oggetto di gara (articolo ItaliaOggi Sette del
14.07.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Visite specialistiche.
Domanda
Un dipendente pubblico può giustificare l'assenza per visita
specialistica con una dichiarazione sostitutiva di atto
notorio?
Risposta
Con legge n. 125/2013 è stato convertito in legge con
modifiche il decreto legge n. 101/ 2013, recante
«Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di
razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni».
La legge di conversione introduce una disposizione in
materia di assenze per malattia dei pubblici dipendenti al
fine di contrastare il fenomeno dell'assenteismo nelle
amministrazioni.
L' art. 55-septies, comma 5-ter, del dlgs 165/2001 prevede
che «Nel caso in cui l'assenza per malattia abbia luogo per
l'espletamento di visite, terapie, prestazioni
specialistiche o esami diagnostici il permesso è
giustificato mediante la presentazione di attestazione,
anche in ordine all'orario, rilasciata dal medico o dalla
struttura, anche privati, che hanno svolto la visita o la
prestazione o trasmesse da questi ultimi mediante posta
elettronica».
A seguito dell'entrata in vigore della novella, per
l'effettuazione di visite, terapie, prestazioni
specialistiche o esami diagnostici il dipendente deve fruire
dei permessi per documentati motivi personali.
La giustificazione dell'assenza, avviene mediante
attestazione redatta dal medico o dal personale
amministrativo della struttura pubblica o privata che ha
erogato la prestazione.
Il dipartimento della Funzione pubblica, con circolare n.
2/2014, ha precisato che l'attestazione di presenza può
anche essere documentata mediante dichiarazione sostitutiva
di atto notorio redatta ai sensi del combinato disposto
degli artt. 47 e 38 del dpr n. 445/2000.
Le amministrazioni dovranno richiedere dichiarazioni
dettagliate e circostanziate; le stesse dovranno inoltre
attivare i necessari controlli sul loro contenuto ai sensi
dell'art. 71 del citato decreto, provvedendo alla
segnalazione all'autorità giudiziaria penale e procedendo
per l'accertamento della responsabilità disciplinare nel
caso di dichiarazioni mendaci (articolo ItaliaOggi Sette
del 14.07.2014). |
URBANISTICA:
Assoggettabilità a concordato preventivo di un lotto
inserito in un P.I.P..
In merito all'assoggettabilità alla
procedura di concordato preventivo di un lotto ricompreso in
un piano per insediamenti produttivi (P.I.P.) è dato
riscontrare, in giurisprudenza, l'esistenza di pronunce
volte ora a far prevalere l'interesse privato ora quello
pubblico.
Secondo un primo filone interpretativo, la procedura diretta
all'assegnazione di aree ricomprese in un piano per
insediamenti produttivi andrebbe scissa in due fasi
logicamente e cronologicamente distinte: il primo avente
valenza pubblicistica il cui momento determinante è dato
dall'espropriazione delle aree precedentemente inserite in
un piano per gli insediamenti produttivi e che si
concluderebbe con l'atto di trasferimento del lotto (in
diritto di proprietà o in diritto di superficie)
all'assegnatario; il secondo, di natura negoziale, che ha
inizio con tale atto di assegnazione e che terminerebbe con
la compiuta realizzazione dei lavori di costruzione.
Secondo altro orientamento, invece, l'intera procedura
concernente l'assegnazione dei lotti inseriti in un'area
P.I.P. e diretta alla realizzazione di determinati impianti
sarebbe connotata da profili pubblicistici e dalla
conseguente natura autoritativa dei poteri della pubblica
amministrazione, che caratterizzerebbero non solo la fase
che si conclude con l'espropriazione forzata delle aree
ricomprese in un P.I.P. ma anche quella successiva che va
dall'assegnazione del bene al privato fino alla
realizzazione degli insediamenti produttivi.
Il divieto di assoggettamento a concordato preventivo
sorgerebbe qualora si aderisse al secondo orientamento
citato, stante il divieto di sottoporre a procedimento di
esecuzione forzata (cui il concordato preventivo è
riconducibile) tali aree, soggette ai poteri autoritativi
della Pubblica Amministrazione.
Il Comune chiede di conoscere un parere in merito
all'assoggettabilità alla procedura di concordato preventivo
di un lotto ricompreso in un piano per insediamenti
produttivi (P.I.P.).
Più in particolare, riferisce di aver ceduto in proprietà ad
una ditta dei terreni da destinare a insediamenti produttivi
[1] ma che
la convenzione-contratto, [2]
benché trascritta nei pubblici registri immobiliari, non
recava indicazione nella nota di trascrizione degli oneri
posti a carico dell'acquirente. La convenzione conteneva,
tra le altre, la puntuale prescrizione per cui 'il
contratto di cessione potrà essere risolto unilateralmente
dal Comune, fra gli altri, nel caso in cui il concessionario
non osservi i termini di inizio ed ultimazione dei lavori di
costruzione'.
I lavori, consistenti nella costruzione di un capannone ad
uso magazzino e deposito, non sono stati portati a
compimento nei termini stabiliti e successivamente
prorogati. In conseguenza di un tanto, il Comune, con
propria delibera, ha disposto di procedere alla risoluzione
unilaterale del contratto di vendita, in applicazione della
disposizione contenuta nella convenzione.
Tuttavia, in data antecedente la delibera della giunta
comunale, la ditta in questione è stata posta in concordato
preventivo, debitamente omologato dal Tribunale;
[3] nel
decreto di omologazione il Tribunale ha nominato un
liquidatore giudiziale il quale intende ora procedere alla
vendita degli immobili in riferimento, posti a garanzia del
pagamento dei creditori, concedendo al Comune la prelazione
sull'acquisto a parità di prezzo.
Tutto ciò premesso, l'Ente chiede di sapere se la procedura
di risoluzione unilaterale del contratto di vendita attivata
dal Comune sia o meno opponibile alla procedura di
concordato preventivo e, più in generale, quale delle due
procedure debba considerarsi prevalente sull'altra.
Infine, chiede se l'articolo 12, comma 1-quater, del decreto
legge 06.07.2011, n. 98 rubricato 'Acquisto, vendita,
manutenzione e censimento di immobili pubblici' possa
avere effetti limitativi rispetto alla procedura
restitutoria come disciplinata nella convenzione-contratto
in oggetto.
In via preliminare, nell'evidenziare la delicatezza della
vicenda in esame, si osserva come non sia possibile fornire
una soluzione univoca della questione posta, stante
l'esistenza di pronunce volte ora a far prevalere
l'interesse pubblico ora quello privato.
Di seguito, pertanto, si riportano, in chiave collaborativa,
le pronunce espresse sull'argomento che possano orientare
l'Ente nelle decisioni da assumere con riferimento alla
vicenda in esame.
Secondo un primo filone interpretativo, la procedura diretta
all'assegnazione di aree ricomprese in un piano per
insediamenti produttivi andrebbe scissa in due fasi
logicamente e cronologicamente distinte: il primo avente
valenza pubblicistica il cui momento determinante è dato
dall'espropriazione delle aree precedentemente inserite in
un piano per gli insediamenti produttivi e che si
concluderebbe con l'atto di trasferimento del lotto (in
diritto di proprietà o in diritto di superficie)
all'assegnatario; il secondo, di natura negoziale, che ha
inizio con tale atto di assegnazione e che terminerebbe con
la compiuta realizzazione dei lavori di costruzione.
Al riguardo, si considerino alcune pronunce, relative
all'assegnazione di piani P.I.P, ancorché concernenti
questioni diverse da quella in esame, nelle quali si afferma
che: 'La P.A., nella realizzazione di un piano di
insediamento produttivo (PIP), consistente
nell'espropriazione di fondi da assegnare in proprietà ad
imprenditori che intendano realizzarvi attività produttive,
adotta atti e tiene comportamenti che costituiscono
esercizio di poteri autoritativi e discrezionali, a fronte
dei quali sussistono dei meri interessi legittimi pretensivi,
fino a quando non sia formalizzato l'atto di trasferimento
del fondo espropriato al legittimo assegnatario'
[4]. E
ancora: 'Le convenzioni accessive (che servono a regolare
i rapporti patrimoniali sorti col provvedimento) danno luogo
ad una duplice serie di atti, l'una definita provvedimentale
e l'altra definita negoziale, i cui rapporti sono regolati
(in linea di massima) nel seguente modo: la P.A. è sempre
libera di rideterminarsi in merito alla serie
provvedimentale (ad esempio revocando l'atto di
assegnazione), ma non può incidere autoritativamente su
quella negoziale; i vizi del provvedimento si trasmettono al
contratto (travolgendolo), ma non viceversa'.
[5]
Se, dunque, a seguito del trasferimento del fondo
espropriato all'assegnatario la funzione pubblicistica
recede per lasciare spazio a quella privatistica, seguirebbe
che le norme cui fare riferimento per la soluzione del caso
in oggetto sarebbero quelle civilistiche in tema di priorità
della trascrizione e di salvezza dei diritti dei terzi.
Atteso che il Comune non ha provveduto né a trascrivere la
convenzione con i relativi pesi ed oneri né ha proceduto a
comunicare all'acquirente dell'area la volontà, formalizzata
in un atto di giunta, di voler applicare il disposto di cui
all'articolo 5 della convenzione contenente la previsione di
risoluzione unilaterale del contratto di vendita in caso di
mancata ultimazione dei lavori entro il termine pattuito,
seguirebbe l'inopponibilità alla procedura di concordato
preventivo di detta clausola, sia che si qualifichi la
stessa quale condizione risolutiva sia che la si consideri
come clausola risolutiva espressa.
Più in particolare, qualora la clausola in oggetto fosse
qualificata quale condizione risolutiva sarebbe dovuto
seguire l'obbligo, non adempiuto, di sua annotazione nella
nota di trascrizione del contratto di vendita, in conformità
al disposto di cui all'articolo 2659, secondo comma, del
codice civile, [6]
pena la sua inopponibilità ai terzi.
Regole diverse sussistono, invece, in relazione alla
clausola risolutiva espressa. L'articolo 1456, del codice
civile recita, infatti, che: 'I contraenti possono
convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso
che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo
le modalità stabilite. In questo caso, la risoluzione si
verifica di diritto quando la parte interessata dichiara
all'altra che intende valersi della clausola risolutiva'.
In altri termini, tale clausola non deve essere annotata nei
registri immobiliari per la sua opponibilità ai terzi.
Tuttavia, la legge prevede che la parte venditrice, qualora
voglia avvalersi di essa debba comunicare all'altra parte
tale volontà. Nel caso di specie, una tale comunicazione
pare non essere avvenuta; né alcun rilievo avrebbe una
comunicazione effettuata ora, atteso che la stessa sarebbe
posteriore all'omologazione della procedura di concordato
preventivo nei cui confronti sarebbe ormai inopponibile tale
clausola.
A diverse conclusioni si addiverrebbe qualora si affermasse
che l'intera procedura concernente l'assegnazione dei lotti
inseriti in un'area P.I.P. e diretta alla realizzazione di
determinati impianti sia caratterizzata da profili
pubblicistici e dalla conseguente natura autoritativa dei
poteri della pubblica amministrazione, che
caratterizzerebbero non solo la fase che si conclude con
l'espropriazione forzata delle aree ricomprese in un P.I.P.
ma anche quella successiva che va dall'assegnazione del bene
al privato fino alla realizzazione degli insediamenti
produttivi.
A tale riguardo, si osserva, in via generale, che il piano
per gli insediamenti produttivi (PIP) 'oltre ad essere
uno strumento di pianificazione urbanistica nel senso
tradizionale, costituisce uno strumento di politica
economica, con la funzione di incentivare le imprese,
offrendo loro, ad un prezzo «politico», previa
espropriazione ed urbanizzazione, le aree occorrenti per il
loro impianto o la loro espansione'.
[7]
Come evidenziato anche dalla giurisprudenza, le aree
comprese nei piani per gli insediamenti produttivi (ex art.
27 l. n. 865 del 1971) e, a tal fine, espropriate, entrano a
far parte del patrimonio indisponibile del Comune: «Nella
formulazione dell'art. 27 non figura la precisazione,
contenuta invece nell'art. 35, che le aree espropriate
entrano a far parte del patrimonio indisponibile del comune
o del consorzio, ma non vi è dubbio che tale effetto si
determini anche in relazione ai piani per gli insediamenti
produttivi, posto che anche in tal caso il bene viene ad
essere destinato direttamente al soddisfacimento di una
specifica finalità d'interesse pubblico. Pertanto neppure le
aree incluse nei piani di insediamento produttivo,
debitamente approvato, possono essere sottratte alla loro
destinazione, 'se non nei modi stabiliti dalle leggi che li
riguardano' (art. 830, secondo comma, c.c.) e questo porta a
ritenere che esse si trovino in una condizione giuridica che
ne preclude l'assoggettamento ad espropriazione forzata»
[8]
Tale filone giurisprudenziale, in conseguenza delle
considerazioni sopra esposte, afferma, ulteriormente, che 'Con
riguardo alle aree comprese nei piani di insediamenti
produttivi ai sensi della L. 22.10.1971, n. 865, art. 27
-che vengano acquisite dal comune con lo strumento
espropriativo per la realizzazione di impianti produttivi di
carattere industriale, artigianale, commerciale e
turistico-, qualora il comune, in conformità con detta
disposizione, ceda le aree in proprietà mediante
deliberazione dei competenti organi comunali e successiva
convenzione, gli acquirenti acquisiscono la posizione di
concessionari di beni pubblici soggetti ai poteri
autoritativi dell'ente fino a quando non sia realizzata la
finalità pubblicistica cui la cessione è diretta; che, in
altri termini, l'attuazione di un P.I.P. e l'assegnazione di
un lotto ivi inserito concorrono a comporre la fattispecie
complessa della concessione amministrativa preordinata al
perseguimento dell'interesse pubblico di una distribuzione
del territorio a vantaggio di determinate categorie
produttive e istituiscono tra assegnante ed assegnatario un
rapporto unitario nel quale il momento convenzionale è
servente e strumentale al momento pubblicistico'.
[9]
Ciò affermato riguardo alla natura giuridica dei beni
ricompresi nei P.I.P., ed al fine di fornire ulteriori
elementi necessari per la disamina delle questioni poste
dall'Ente, è necessario ora prendere in esame alcune
caratteristiche proprie della procedura concordataria cui
risultano essere stati sottoposti i beni della ditta
assegnataria delle aree PIP.
In particolare, la giurisprudenza ha affermato che 'in
generale, ma tanto più quando si sia proceduto alla nomina
di un commissario liquidatore, con compiti per molti aspetti
non dissimili da quelli di un curatore fallimentare anche la
fase esecutiva del concordato per cessione dei beni è
riconducibile ad una più vasta categoria di procedimenti di
esecuzione forzata'. [10]
Atteso il vincolo che caratterizza le aree in oggetto, come
sopra già esplicitato, dovrebbe seguire la non
assoggettabilità delle stesse a concordato preventivo con
cessione dei beni ai creditori (c.d. concordato misto).
Nel caso in esame si deve, tuttavia, tenere in debita
considerazione il fatto che dei pesi ed oneri contenuti
nella convenzione stipulata tra il Comune e la ditta
assegnataria dei lotti non è stata fatta menzione nella nota
di trascrizione, di talché si pone il dubbio circa la loro
opponibilità alla procedura concordataria.
A tal fine, la giurisprudenza, in relazione ad una
fattispecie similare a quella in esame [11],
in cui, però, si era avuta la trascrizione dell'atto da cui
risultavano i 'vincoli di indisponibilità del bene'
anteriormente al pignoramento, ha affermato che: 'Emerge
chiaramente che, nel caso di specie, l'atto dal quale
risultano i vincoli di indisponibilità del bene a carico
dell'acquirente erano stati trascritti in epoca anteriore al
pignoramento e questo dispensa il collegio dall'affrontare
l'ulteriore questione -peraltro già risolta positivamente da
questa Corte (Cass. 06.08.1987, n., 6755)[12]- se il diverso
valore déi due interessi in conflitto (da un lato, quello,
tutto privato, al soddisfacimento del credito; dall'altro
quello inerente alla conservazione della destinazione
impressa al bene per una finalità d'interesse generale)
renda (o meno) il vincolo opponibile al creditore procedente
anche quando si manifesti in epoca successiva al
pignoramento'.
Stando a quest'ultima pronuncia, sembrerebbe poter seguire
l'opponibilità alla procedura concordataria.
Atteso il filone interpretativo in esame, volto a ritenere
prevalente l'interesse pubblico nel corso dell'intera
procedura relativa all'assegnazione dei lotti compresi in
un'area P.I.P., sembrerebbe poter derivare la possibilità
per il Comune di tutelare il suo interesse a rientrare nella
disponibilità del bene. [13]
Per completezza espositiva, si fa presente che, qualora
venisse attuata la vendita dell'area in oggetto all'asta
pubblica, l'aggiudicatario farebbe salvo il suo acquisto non
potendosi più in tale sede ritenere prevalenti le esigenze
di tutela dell'interesse pubblico su quello privato.
Infatti, come la giurisprudenza ha avuto modo di osservare,
'l'applicazione espressa, fatta con l'art. 2929 c.c., del
principio generale di tutela dell'affidamento incolpevole
consente di ritenere che in base a tale principio vada
appunto risolto il conflitto tra le ragioni di chi abbia
acquistato in sede di vendita forzata e quelle del debitore
espropriato o dell'eventuale terzo proprietario o titolare
di diritti sul bene espropriato [...]. Quello
dell'aggiudicatario è, dunque, un diritto soggettivo sul
quale i rapporti tra debitore esecutato, creditore
procedente ed eventuale terzo titolare di diritti sul bene
assoggettato ad espropriazione non possono influire, neppure
ove si sia trattato di rapporti di diritto pubblico
implicanti l'esercizio di poteri autoritativi da parte
dell'Amministrazione, trattandosi pur sempre di rapporti de
iure terti e tale diritto non risultando in alcun modo
connesso e, quindi, suscettibile d'essere affievolito, con i
provvedimenti adottati da quest'ultima nei confronti di
soggetti diversi, nell'ambito dei detti diversi rapporti'.
[14]
Passando a trattare dell'ultima questione posta, ovverosia
l'applicabilità alla fattispecie in esame dei limiti
all'acquisto di beni immobili sancito all'articolo 12 del
decreto legge 06.07.2011, n. 98, convertito, con
modificazioni, nella legge 15.07.2011, n. 111, si rileva,
innanzitutto, che pare non pertinente il richiamo,
effettuato dall'Ente, al comma 1-quater di tale articolo 12,
in quanto esso afferisce agli acquisti effettuati nell'anno
2013. Diversamente, il precedente comma 1-ter, riguarda le
operazioni di acquisto effettuate a decorrere dal
01.01.2014. Recita tale comma 1-ter: 'A decorrere dal
01.01.2014 al fine di pervenire a risparmi di spesa
ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità
interno, gli enti territoriali e gli enti del Servizio
sanitario nazionale effettuano operazioni di acquisto di
immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente
l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal
responsabile del procedimento. La congruità del prezzo è
attestata dall'Agenzia del demanio, previo rimborso delle
spese. Delle predette operazioni è data preventiva notizia,
con l'indicazione del soggetto alienante e del prezzo
pattuito, nel sito internet istituzionale dell'ente'.
Benché non competa allo scrivente Ufficio interpretare
disposizioni statali, parrebbe che la norma in oggetto non
trovi applicazione con riferimento alla fattispecie in
esame.
In particolare, si osserva che, nel caso di specie, il
Comune rientrerebbe nella proprietà del bene come effetto
dell'intervenuta risoluzione del contratto: trattasi del
cosiddetto effetto restitutorio discendente dall'intervenuta
risoluzione contrattuale in relazione al quale pare manchino
tanto il requisito dell' 'acquisto' quanto quello della
corresponsione di un 'prezzo', richiesti dal comma in
commento.
In ogni caso, ferma restando la valutazione autonoma
dell'Ente, in base agli indirizzi giurisprudenziali
richiamati, in ordine alla prevalenza dell'interesse
pubblico o privato, e dunque alla possibilità o meno di
attivarsi per rientrare nella disponibilità del bene, pare
che la fattispecie in esame non rientri comunque nell'ambito
applicativo dell'articolo 12, comma 1-ter, del D.L. 98/2011.
A sostegno di un tanto depone la circostanza per cui la
giurisprudenza, intervenuta in merito all'individuazione
dell'ambito applicativo di tale disposizione ha affermato
che: 'Con riferimento alla riconducibilità dell'istituto
dell'espropriazione per pubblica utilità nell'ambito
applicativo della norma, si ritiene che la stessa disciplini
le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un
prezzo d'acquisto, quindi ai soli acquisti a titolo
derivativo iure privatorum e non alle procedure
espropriative'. [15]
Altra pronuncia afferma, ancora, che: 'Detta
ricostruzione interpretativa, a parere del Collegio,
varrebbe a escludere dal campo di applicazione della norma
vincolistica tutte le ipotesi in cui non si discuta di
acquisti iure privatorum: di talché la corresponsione di un
indennizzo, che non può certo rappresentare un corrispettivo
o un prezzo d'acquisto non rientrerebbe nel novero di quelle
soggette al divieto di cui al più volte citato articolo
[...]'. [16]
Si nota, al riguardo, come l'articolo 5 della
convenzione-contratto stipulata tra le parti,
nell'individuare gli obblighi nascenti in capo al Comune a
fronte della restituzione dell'area, li identifichi nella 'restituzione
delle somme già incamerate, decurtate delle spese, tasse e
di 2/5 del valore a titolo di penale' e in un obbligo di
indennizzo relativamente alle eventuali opere realizzate dal
concessionario.
---------------
[1] L'articolo 27 della legge 22.10.1971, n. 865 prevede
che i Comuni dotati di piano regolatore o di programma di
fabbricazione approvati possono formare, previa
autorizzazione della Regione, un piano delle aree da
destinare a insediamenti produttivi. Il sesto comma del
medesimo articolo stabilisce, poi, che: 'Il comune utilizza
le aree espropriate per la realizzazione di impianti
produttivi di carattere industriale, artigianale,
commerciale e turistico mediante la cessione in proprietà o
la concessione del diritto di superficie sulle aree
medesime'.
[2] L'ultimo comma dell'articolo 27 della legge 865/1971
recita: 'Contestualmente all'atto di concessione, o all'atto
di cessione della proprietà dell'area, tra il comune da una
parte e il concessionario o l'acquirente dall'altra, viene
stipulata una convenzione per atto pubblico con la quale
vengono disciplinati gli oneri posti a carico del
concessionario o dell'acquirente e le sanzioni per la loro
inosservanza'.
[3] Il decreto di omologazione risulta essere di data
antecedente la delibera comunale di risoluzione unilaterale
del contratto di vendita.
[4] Cassazione civile, Sezioni Unite, ordinanza del
17.03.2010, n. 6405.
[5] TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I, sentenza del
16.11.2011, n. 533.
[6] Recita l'articolo 2659, secondo comma, c.c.: 'Se
l'acquisto, la rinunzia o la modificazione del diritto sono
sottoposti a termine o a condizione, se ne deve fare
menzione nella nota di trascrizione.[...]'.
[7] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 05.07.1995, n.
539. Si vedano, altresì, le sentenze del TAR Campania,
Salerno, sez. I, del 22.06.2004, n. 1553 ove si afferma che
il Piano per le aree da destinare a insediamenti produttivi
(PIP), previsto dall'art. 27, l. 22.10.1971, n. 865, ha la
funzione, di 'stimolo alla espansione industriale del
territorio comunale' e del TAR Campania, Napoli, sez. I, del
29.12.2005, n. 20711 la quale afferma che nell'istituto PIP
'il momento tradizionale di strumento urbanistico volto alla
corretta gestione del territorio convive con la più
pregnante dimensione di strumento di politica economica
volto ad incentivare le imprese'.
[8] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 27.09.1997, n.
9508.
[9] Cassazione civile, Sezioni Unite, ordinanza del data
09.01.2013, n. 306. Interessante è anche Cassazione civile,
sentenza 9508/1997 ove si afferma che: La disciplina
pubblicistica ex art. 27 l. n. 865 cit. non si esaurisce
alla fase di delimitazione, individuazione ed espropriazione
delle aree ma caratterizza anche il trasferimento ai
privati, da parte del Comune, delle aree suddette'. 'Il
momento pianificatorio e quello convenzionale sono pertanto
legati da un rapporto di interdipendenza: infatti, se la
cessione trova il suo ineliminabile presupposto
nell'esistenza del piano, quest'ultimo richiede, per la sua
concreta attuazione, che l'area sia trasferita in proprietà
(o concessa in superficie) ad un operatore economico. La
cessione del bene non è quindi fine a sé stessa, ma concorre
alla realizzazione dell'assetto urbanistico prefigurato nel
piano'.
[10] Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza del
16.07.2008, n. 19506. Nello stesso senso, Tribunale di
Udine, sentenza del 23.09.2011 ove si afferma che: 'A
seguito della nuova formulazione dell'art. 169, R.D. n.
267/1942 (legge fallimentare), contenente espresso richiamo
all'art. 45, R.D. n. 267/1942 (legge fallimentare), la
procedura di concordato preventivo con cessione dei beni a
fini di liquidazione è assimilabile, segnatamente nella fase
della sua esecuzione, alla procedura di fallimento quale
"procedimento di esecuzione forzata in senso lato". Anche
nella procedura di concordato preventivo, infatti, la fase
di esecuzione comporta l'imposizione di un vincolo
indisponibile di destinazione sui beni del debitore al fine
della soddisfazione dei creditori, lo spossessamento del
debitore attraverso la nomina di un liquidatore ed il
compimento degli atti in un contesto proceduralizzato.'
[11] La Corte di Cassazione nella sentenza 9508/1997 ha
affrontato il problema della pignorabilità delle aree
ricomprese nei piani per insediamenti produttivi ex art. 27,
l. 865/1971 ed a tal fine espropriate. Si trattava di un
caso in cui il Comune aveva trasferito ad un privato un
lotto di terreno ricompreso nell'ambito di un PIP che era
stato ipotecato e pignorato prima della realizzazione
dell'impianto produttivo ad opera del privato cessionario.
La convenzione tra comune e assegnatario recava tra le sue
clausole quella per cui il comune avrebbe potuto procedere
alla risoluzione dell'atto di trasferimento del terreno nel
caso in cui l'opera non fosse stata ultimata entro un
termine determinato. Diversamente dalla fattispecie in
esame, tuttavia, si era avuta la trascrizione dell'atto da
cui risultano i 'vincoli di indisponibilità del bene' in
epoca anteriore al pignoramento.
[12] Si tratta della sentenza di Cassazione civile, sez. III,
del 06.08.1987, n. 6755 relativa, tuttavia, a beni di
proprietà comunale.
[13] A tale riguardo si riportano nuovamente alcuni punti
della sentenza della Cassazione civile, n. 9508/1997, ove,
dopo aver espresso l'assunto per cui le aree comprese nei
P.I.P., ed a tale fine espropriate, entrano nel patrimonio
indisponibile del Comune, si prosegue rilevando come la
disciplina pubblicistica caratterizza anche la fase
successiva del trasferimento dell'area e si esaurisce solo a
seguito dell'avvenuta concreta attuazione degli obiettivi di
piano con la realizzazione di un determinato insediamento
produttivo. Afferma la sentenza che: 'Ne consegue che gli
oneri e le sanzioni previste a carico dei privati nella
convenzione relativa alla cessione sono preordinati alla
tutela dell'interesse pubblico sicché il diritto (ndr:
rectius divieto) di alienazione pattuito non ha efficacia
meramente obbligatoria ex art. 1379 c.c. ma si estende anche
nei confronti dei terzi; e la risoluzione decisa dal Comune
non soggiace alla disciplina ex art. 1458, comma 2, c.c.,
che fa salvi i diritti dei terzi, tenuto conto che gli
interessi dei privati (nello specifico caso quello del
creditore pignorante) non possono prevalere, in assenza di
espressa previsione di legge, su quelli pubblici'.
[14] Cassazione civile, Sezioni Unite, ordinanza del
09.09.2008, n. 22651.
[15] Corte dei Conti, delibera del 05.03.2014, n. 97.
[16] Corte dei Conti, sez. regionale di controllo per il
Veneto, deliberazione del 12.06.2013, n. 151
(09.07.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Richiesta di parere in merito alla riattivazione
di complesso edilizio, originariamente destinato a stalla, e
successivamente accatastato come deposito e ricovero
attrezzi (Regione Emilia Romagna,
parere 07.07.2014 n. 254756 di prot.).
---------------
I fatti esposti nella richiesta di parere in oggetto
necessitano, a parere di questo Servizio, di una diversa
qualificazione giuridica, che per altro consente
agevolmente, ed anzi richiede, il ripristino della
destinazione originaria.
Gli elementi rilevanti del caso rappresentato
dall’amministrazione comunale si possono così sintetizzare:
(... continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Requisiti per definire un edificio esistente ad
una determinata data (Regione Emilia Romagna,
parere 07.07.2014 n. 254717 di prot.).
---------------
Il Comune di Saludecio richiede parere in merito alla
corretta interpretazione del paragrafo 14 della Delibera di
Giunta regionale 11.07.2011, n. 987, nella parte in cui
stabilisce che possono essere destinati all’attività
agrituristica, gli edifici che siano “esistenti sul fondo
alla data del 15.04.2009…”.
In particolare, si chiede quali siano i requisiti per poter
considerar esistente un edificio ad una determinata data di
riferimento. (... continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: parere su ripristino edilizio (Regione
Emilia Romagna,
parere 15.05.2014 n. 209512 di prot.).
---------------
Si risponde alla richiesta di parere relativamente alla
qualificazione di un intervento di rifacimento di un
edificio da tempo crollato o demolito. (... continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: parere in merito localizzazione canile in zona
agricola (Provincia di Pesaro e Urbino,
parere 13.12.2005 n. 41339 di prot.). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: In
merito all'assunzione a tempo determinato finalizzata alla
sostituzione del dipendente in comando.
La Sezione rileva la necessità dell’integrale e rigoroso
rispetto del complesso delle disposizioni, dei vincoli e dei
“tetti di spesa” operanti, in forza del vigente ordinamento,
in materia di personale, nei confronti degli enti sottoposti
al patto di stabilità interno ai fini del concorso delle
autonomie regionali e locali al rispetto degli obiettivi
della finanza pubblica.
L’Ente locale, per poter procedere
ad assunzioni di qualsiasi tipo (anche a tempo determinato),
deve sia rispettare i vincoli del patto di stabilità, sia
garantire che l’incidenza delle spese per il personale non
sia superiore al 50% delle spese correnti, sia ridurre, in
ogni caso, la complessiva spesa per il personale.
In
particolare, per la verifica del rispetto di detta ultima
condizione dovranno escludersi dal computo della spesa
complessiva gli oneri sostenuti per il dipendente in comando
(anticipati dal Comune e rimborsati dall’Ente utilizzatore),
ma dovrà essere inclusa la spesa da sostenersi per l’unità
di personale a tempo determinato.
La Sezione sottolinea, inoltre, che
compete
all’Ente locale la puntuale e rigorosa verifica del rispetto
in concreto dei limiti e vincoli statuiti dal legislatore.
Evidenzia che, conseguentemente, restano
ferme la piena e esclusiva discrezionalità dell’Ente nel
procedere o meno all’assunzione in oggetto e le eventuali
conseguenti responsabilità in capo ai dirigenti in caso di
violazione di detti limiti e vincoli.
17. Pertanto, nel quadro normativo sopra delineato,
ricorrendo i presupposti di cui al vigente art. 36 del D.Lgs. 165/2001, ove non sussistano le situazioni ostative
all’assunzione di personale recate dall’art. 76, commi 4 e 7
del decreto legge 112/2008 convertito con legge 133/2008, e
purché siano rispettati il dettato normativo di cui all’art.
1, comma 557, della legge 296/2006 e i principi fissati
dall’art. 9, comma 28 del decreto legge 78/2010, convertito
in legge 122/2010, la Sezione ritiene che un Comune
sottoposto al patto di stabilità possa ricorrere ad
assunzioni a tempo determinato per far fronte ad un
temporaneo comando di un proprio dipendente.
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Con nota del 05.05.2014 il Presidente del Consiglio delle
Autonomie Locali della Sardegna ha trasmesso alla Sezione
regionale di controllo la deliberazione n. 16 del 17.04.2014 con la quale rimette alla Sezione, ai sensi dell’art.
7, comma 8, della legge n. 131 del 2003, la richiesta di
parere del Sindaco del Comune di Quartucciu in merito alla
aderenza alla disciplina vincolistica in materia di
assunzioni e di contenimento della spesa di personale di una
assunzione a tempo determinato finalizzata alla sostituzione
del dipendente in comando nell’ipotesi in cui detta
assunzione rispetti i limiti di cui all’art. 9, comma 28,
del DL 78/2010, il tetto di spesa di cui all’art. 1, comma
557, della legge 296/2006, e il limite di cui all’art. 76,
comma 7, del DL 112/2008.
...
3. Il Comune di Quartucciu, che ha 12.947 abitanti ed è,
pertanto, sottoposto ai vincoli del patto di stabilità,
chiede se possa ritenersi rispettosa della generale
disciplina vincolistica in materia di assunzioni e della
normativa di contenimento della spesa di personale,
un’assunzione a tempo determinato (ai sensi dell’art. 36 del
D.Lgs. 165/2001) che sia finalizzata alla sostituzione di un
dipendente in comando.
4. Preliminarmente si reputa opportuno introdurre alcuni
cenni di inquadramento generale dell’istituto del comando.
Il primo comma dell’art. 56 del Testo unico delle
disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili
dello Stato, approvato con D.P.R. 10.01.1957, n. 3,
prevede che “L'impiegato di ruolo può essere comandato a
prestare servizio presso altra amministrazione statale o
presso enti pubblici, esclusi quelli sottoposti alla
vigilanza dell'amministrazione cui l'impiegato appartiene”;
... che “Il comando è disposto, per tempo determinato e in
via eccezionale, per riconosciute esigenze di servizio o
quando sia richiesta una speciale competenza”.
Per quanto
concerne, in particolare, la pertinenza degli oneri per il
trattamento economico del personale in questione, l’art. 57,
comma 3, dello stesso DPR, dispone che “Alla spesa del
personale comandato presso enti pubblici provvede
direttamente ed a proprio carico l'ente presso cui detto
personale va a prestare servizio. L'ente è, altresì, tenuto
a versare all'amministrazione statale cui il personale
stesso appartiene l'importo dei contributi e delle ritenute
sul trattamento economico previsti dalla legge”.
Successivamente, il comma 12 dell’art. 70 del D.Lgs. n. 165
del 2001 (“Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche”) ha statuito che
“In tutti i casi, anche se previsti da normative speciali,
nei quali enti pubblici territoriali, enti pubblici non
economici o altre amministrazioni pubbliche, dotate di
autonomia finanziaria sono tenute ad autorizzare la
utilizzazione da parte di altre pubbliche amministrazioni di
proprio personale, in posizione di comando, di fuori ruolo,
o in altra analoga posizione, l'amministrazione che utilizza
il personale rimborsa all'amministrazione di appartenenza
l'onere relativo al trattamento fondamentale”.
5. Si consideri, in merito, che la giurisprudenza del
Consiglio di Stato si è espressa nel senso che la posizione
di comando del pubblico dipendente non determina la
creazione di un nuovo rapporto di impiego, in sostituzione
di quello precedente, ma semplicemente una modifica del solo
rapporto di servizio, nel senso che le prestazioni di lavoro
vengono fornite ad un'Amministrazione diversa da quella di
appartenenza.
6. Si consideri, inoltre, che la Sezione delle Autonomie
della Corte dei conti nelle linee guida ed i criteri cui
devono attenersi, ai sensi dell'art. 1, comma 167, della
legge 23.12.2005, n. 266 (finanziaria 2006) gli organi
di revisione economico-finanziaria degli enti locali nella
predisposizione delle relazioni sul bilancio di previsione e
sul rendiconto dell'esercizio 2010 e nei i questionari
allegati (in particolare nei questionari per le province e
nei questionari per i comuni con popolazione superiore a
5.000 abitanti) ha indicato espressamente, come componenti
considerate ai fini della determinazione della spesa, ai
sensi dell’art. 1 comma 557, della legge 27.12.2006,
n. 296, le “somme rimborsate ad altre amministrazioni per il
personale in posizione di comando”, e ha annoverato, invece,
fra le componenti escluse, le “spese sostenute per il
personale comandato presso altre amministrazioni per le
quali è previsto il rimborso dalle amministrazioni
utilizzatrici”.
7. Si richiama, infine, la circolare n. 9 del 17.02.2006 del Ministero dell’economia e delle finanze (che,
ancorché riferita al triennio 2006-2008, è, in assenza di
ulteriori provvedimenti, da ritenere tuttora operante),
secondo la quale le spese sostenute dall’ente locale per il
proprio personale comandato presso altre Amministrazioni e
per le quali è previsto il rimborso da parte delle
Amministrazioni utilizzatrici, vanno escluse dal computo ai
fini della determinazione dei limiti consentiti sia per
l’anno di riferimento (il 2004) che per gli esercizi
interessati.
8. Per quanto concerne, invece, specificatamente la
disciplina delle assunzioni di personale a tempo
determinato, si richiama il disposto dell’art. 36 del
decreto legislativo 165/2001 (novellato dall’art. 3, comma
79, della legge 24.12.2007, n. 244, successivamente
sostituito con l’art. 49 del decreto legge 25.06.2008,
n. 112, convertito con legge 06.08.2008, n. 133, e,
infine, modificato con l’art. 4, comma 1 del decreto legge
31.08.2013, n. 101, convertito in legge 30.10.2013,
n. 125) che, dopo aver affermato il principio che “le
pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con
contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato…..”
prevede, “per rispondere ad esigenze temporanee ed
eccezionali” anche il ricorso a “forme contrattuali
flessibili di assunzione e di impiego del personale previste
dal c.c. e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinati
nell’impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento
vigenti”.
La attuale formulazione della norma subordina,
pertanto, il ricorso a tale tipologia di assunzioni alla
sussistenza del duplice requisito della temporaneità e della
eccezionalità dell’esigenza. Ai sensi dell’art. 36, comma
5-quater del decreto legislativo 165/2001 (introdotto
dall’art. 4, comma 1, del decreto legge 31.08.2013, n.
101, convertito in legge 30.10.2013, n. 125) inoltre,
“I contratti di lavoro a tempo determinato posti in essere
in violazione del presente articolo sono nulli e determinano
responsabilità erariale.”
9. Passando al merito del problema sottoposto all’attenzione
della Sezione, deve premettersi che, sul piano concreto del
provvedimento di comando oggetto del quesito, l’esame della
Sezione, dovendo limitarsi agli aspetti generali ed astratti
della questione, non può spingersi ad accertare se detto
provvedimento di comando sia configurabile o meno in termini
di atto dovuto ai sensi di specifiche normative (cfr. art.
17, comma 14, L. n. 127 del 1997) o se costituisca una scelta
discrezionale dell’Ente, né a verificare quali siano state
in concreto le ragioni portate dall’Ente a sostegno della
scelta di autorizzare il comando.
Tuttavia, la Sezione non
può non segnalare che l’operazione posta in essere, pur
avendo un impatto finanziario neutro con riguardo all’Ente
cedente, non è tale con riguardo all’insieme degli Enti
sottoposti a vincoli di spesa per il personale e per le
assunzioni, e che pertanto andrebbero sottoposte ad attenta
valutazione di coerenza sia le ragioni della concessione
dell’autorizzazione da parte dell’Ente cedente sia le
sopravvenute necessità di sostituzione del dipendente
ceduto.
10. Per quanto concerne in particolare l’ipotesi specifica
di assunzione a tempo determinato finalizzata alla
sostituzione del dipendente in comando presso altra pubblica
Amministrazione, rappresentata dall’Ente richiedente, è
imprescindibile che sia ravvisabile la presenza del duplice
requisito della temporaneità e dell’eccezionalità
dell’esigenza richiesto dal legislatore per il legittimo
ricorso a tale tipologia di assunzioni.
11. E’ necessario, inoltre, che l’Ente locale verifichi in
concreto che l’assunzione a tempo determinato rispetti sia
gli obblighi di riduzione della spesa per il personale di
cui all’art. 1, comma 557, della legge 296/2006, sia i
principi di cui all’art. 9, comma 28, del DL 78/2010,
convertito in legge 122/2010, sia i limiti di cui all’art.
76, comma 7, del DL 112/2008.
12. Per quanto riguarda specificatamente la riduzione della
spesa per il personale degli enti sottoposti ai vincoli del
patto di stabilità, l’art. 1, comma 557, della legge 27.12.2006, n. 296 (nel testo attualmente vigente a
seguito delle modifiche introdotte dal comma 120 dell'art.
3, L. 24.12.2007, n. 244 e dal comma 1 dell’art. 76,
D.L. 25.06.2008, n. 112 e poi così sostituito dal comma
7 dell’art. 14, D.L. 31.05.2010, n. 78, come modificato
dalla relativa legge di conversione) dispone che “Ai fini
del concorso delle autonomie regionali e locali al rispetto
degli obiettivi di finanza pubblica, gli enti sottoposti al
patto di stabilità interno assicurano la riduzione delle
spese di personale, al lordo degli oneri riflessi a carico
delle amministrazioni e dell'IRAP, con esclusione degli
oneri relativi ai rinnovi contrattuali, garantendo il
contenimento della dinamica retributiva e occupazionale, con
azioni da modulare nell'ambito della propria autonomia e
rivolte, in termini di principio, ai seguenti ambiti
prioritari di intervento: a) riduzione dell'incidenza
percentuale delle spese di personale rispetto al complesso
delle spese correnti, attraverso parziale reintegrazione dei
cessati e contenimento della spesa per il lavoro flessibile;
b) razionalizzazione e snellimento delle strutture burocratico-amministrative, anche attraverso accorpamenti di
uffici con l'obiettivo di ridurre l'incidenza percentuale
delle posizioni dirigenziali in organico; c) contenimento
delle dinamiche di crescita della contrattazione
integrativa, tenuto anche conto delle corrispondenti
disposizioni dettate per le amministrazioni statali.”
13. Per quanto concerne specificatamente il ricorso a
personale a tempo determinato, l’art. 9, comma 28, del DL
78/2010, convertito in legge 122/2010 (come modificato dalla
legge di conversione 30.07.2010, n. 122, dall'art. 4,
comma 102, lett. a) e b), L. 12.11.2011, n. 183, a
decorrere dal 01.01.2012, dall'art. 4-ter, comma 12,
D.L. 02.03.2012, n. 16, convertito, con modificazioni,
dalla L. 26.04.2012, n. 44, dall’ art. 9, comma 12, D.L.
28.06.2013, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla
L. 09.08.2013, n. 99, dall'art. 9, comma 8, D.L. 31.08.2013, n. 102, convertito, con modificazioni, dalla L.
28.10.2013, n. 124, e, successivamente, dall'art. 6,
comma 3, D.L. 31.08.2013, n. 101, convertito, con
modificazioni, dalla L. 30.10.2013, n. 125) dispone che
“A decorrere dall'anno 2011, le amministrazioni dello Stato,
anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, ... gli enti
pubblici non economici, le università e gli enti pubblici di
cui all'articolo 70, comma 4, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 e successive modificazioni e
integrazioni, ..., possono avvalersi di personale a tempo
determinato o con convenzioni ovvero con contratti di
collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50
per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità
nell'anno 2009. … Le disposizioni di cui al presente comma
costituiscono principi generali ai fini del coordinamento
della finanza pubblica ai quali si adeguano le regioni, le
province autonome, gli enti locali e gli enti del Servizio
sanitario nazionale. ...”.
14. Per quanto concerne, invece, i limiti alle assunzioni di
personale, il comma 7 dell’art. 76 del decreto legge 25.06.2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla
legge 06.08.2008, n. 133 (nel testo sostituito dall’art.
14, comma 9, del decreto legge 31.05.2010 n. 78,
convertito in legge 30.07.2010, n. 122 e successivamente
modificato dall'art. 1, comma 118, L. 13.12.2010, n.
220, a decorrere dal 01.01.2011, dall'art. 20, comma 9,
D.L. 06.07.2011, n. 98, convertito, con modificazioni,
dalla L. 15.07.2011, n. 111, dall'art. 28, comma
11-quater, D.L. 06.12.2011, n. 201, convertito, con
modificazioni, dalla L. 22.12.2011, n. 214, dall'art.
4, comma 103, lett. a), L. 12.11.2011, n. 183, a
decorrere dal 01.01.2012, dall'art. 4-ter, comma 10,
D.L. 02.03.2012, n. 16, convertito, con modificazioni,
dalla L. 26.04.2012, n. 44, ed infine, dall'art. 1,
comma 558, lett. a) e b), L. 27.12.2013, n. 147, a
decorrere dal 01.01.2014) dispone che “E' fatto divieto
agli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale è
pari o superiore al 50 per cento delle spese correnti di
procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e
con qualsivoglia tipologia contrattuale; i restanti enti
possono procedere ad assunzioni di personale a tempo
indeterminato nel limite del 40 per cento della spesa
corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente. ...
Per
gli enti nei quali l'incidenza delle spese di personale è
pari o inferiore al 35 per cento delle spese correnti sono
ammesse, in deroga al limite del 40 per cento e comunque nel
rispetto degli obiettivi del patto di stabilità interno e
dei limiti di contenimento complessivi delle spese di
personale, le assunzioni per turn-over che consentano
l'esercizio delle funzioni fondamentali previste
dall'articolo 21, comma 3, lettera b), della legge 05.05.2009, n. 42; in tal caso le disposizioni di cui al secondo
periodo trovano applicazione solo in riferimento alle
assunzioni del personale destinato allo svolgimento delle
funzioni in materia di istruzione pubblica e del settore
sociale.”
Si segnala, in particolare, che la modifica
introdotta al citato art. 76, comma 7, dal comma 103
dell’art. 4 della legge n. 183 del 2011, ha ristretto alle
sole assunzioni “a tempo indeterminato” l’applicazione della
parte della disposizione che consente agli enti nei quali
l'incidenza delle spese di personale è inferiore al 50 per
cento delle spese correnti di procedere ad assunzioni di
personale solo nel limite del 40 per cento della spesa
corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente.
Pertanto, la citata normativa specifica non trova ad oggi
applicazione con riferimento alle assunzioni a tempo
determinato.
15. Con specifico riguardo al quesito proposto dal Comune,
la Sezione rileva la necessità dell’integrale e rigoroso
rispetto del complesso delle disposizioni, dei vincoli e dei
“tetti di spesa” operanti, in forza del vigente ordinamento,
in materia di personale, nei confronti degli enti sottoposti
al patto di stabilità interno ai fini del concorso delle
autonomie regionali e locali al rispetto degli obiettivi
della finanza pubblica.
L’Ente locale, per poter procedere
ad assunzioni di qualsiasi tipo (anche a tempo determinato),
deve sia rispettare i vincoli del patto di stabilità, sia
garantire che l’incidenza delle spese per il personale non
sia superiore al 50% delle spese correnti, sia ridurre, in
ogni caso, la complessiva spesa per il personale.
In
particolare, per la verifica del rispetto di detta ultima
condizione dovranno escludersi dal computo della spesa
complessiva gli oneri sostenuti per il dipendente in comando
(anticipati dal Comune e rimborsati dall’Ente utilizzatore),
ma dovrà essere inclusa la spesa da sostenersi per l’unità
di personale a tempo determinato.
16.
La Sezione sottolinea, inoltre, che compete
all’Ente locale la puntuale e rigorosa verifica del rispetto
in concreto dei limiti e vincoli statuiti dal legislatore.
Evidenzia che, conseguentemente, restano
ferme la piena e esclusiva discrezionalità dell’Ente nel
procedere o meno all’assunzione in oggetto e le eventuali
conseguenti responsabilità in capo ai dirigenti in caso di
violazione di detti limiti e vincoli.
17. Pertanto, nel quadro normativo sopra delineato,
ricorrendo i presupposti di cui al vigente art. 36 del D.Lgs. 165/2001, ove non sussistano le situazioni ostative
all’assunzione di personale recate dall’art. 76, commi 4 e 7
del decreto legge 112/2008 convertito con legge 133/2008, e
purché siano rispettati il dettato normativo di cui all’art.
1, comma 557, della legge 296/2006 e i principi fissati
dall’art. 9, comma 28 del decreto legge 78/2010, convertito
in legge 122/2010, la Sezione ritiene che un Comune
sottoposto al patto di stabilità possa ricorrere ad
assunzioni a tempo determinato per far fronte ad un
temporaneo comando di un proprio dipendente
(Corte dei Conti, Sez. controllo Sardegna,
parere 17.07.2014 n. 39). |
ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: Mini-Comune, no al segretario «dg».
Corte conti Lombardia. Con 4.600 abitanti doppio incarico
bollato come sperpero.
Va risarcito
il Comune sotto i 15mila abitanti in cui il sindaco nomina a
direttore generale il segretario comunale in assenza di
specifiche esigenze locali e organizzative anche se il
provvedimento, all'epoca del fatto, era consentito dalla
legge e nel periodo considerato l'amministratore aveva
lavorato ad atti di programmazione propri di tale figura
gestionale ma facoltativi per i piccoli centri.
Lo ha stabilito la Corte dei Conti, Sez. giurisdizionale
per la Regione Lombardia, nella
sentenza
27.06.2014 n. 122 in materia di responsabilità
amministrativa.
Il Collegio, sulla base dei riscontri della
Procura regionale su un caso denunciato al Comune di Carrobbio degli Angeli (Bergamo), ha condannato entrambi gli
amministratori a risarcire a vario titolo l'accertato
«sperpero di risorse pubbliche» (20.197,62 euro il totale
delle indennità percepite) poiché la nomina è avvenuta in
«dispregio delle più elementari regole di prudenza e di
buona amministrazione» e con un «un compenso assolutamente
spropositato in considerazione delle oggettive ridottissime
dimensioni demografiche ed organizzative dell'ente».
Per la Corte, per un ente locale con circa 4.600 abitanti,
un organico di 10 dipendenti e con un orario settimanale di
11 ore, la nomina del dg non era necessaria seppur prevista
dalla legge all'epoca in vigore (comma 4, articolo 108, dlgs
267/2001 poi abrogato dal decreto legge 2/2010 e convertito
in legge 42/2010), né era legittima se giustificata dal
fatto che a tale figura era stata affidato il compito di
preparare il Piano esecutivo di gestione, qui atto
facoltativo e, secondo la Procura, solo abbozzato e mai
adottato.
Secondo i giudici, le norme interne come lo statuto comunale
e il Testo unico degli enti locali (articolo 97, comma 4,
dlgs 267/2000) «non precludono al segretario comunale
l'esercizio di poteri gestionali» e, in questo caso, anche
la gestione delle aree «affari generali» e «servizi alla
persona» proprie del segretario «non avrebbe comportato di
per sé necessariamente alcun onere economico aggiuntivo per
il Comune e quindi non specificamente soggette a
remunerazione aggiuntiva sullo stipendio base» (articolo Il Sole 24 Ore del
17.07.2014 - articolo tratto da
www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Se
il Comune possa “effettuare assunzioni a tempo
determinato in deroga al limite di spesa previsto dall’art.
9, comma 28, del D.L. n. 78/2010 (riduzione del lavoro
flessibile) ed all’obbligo di riduzione della spesa di
personale (art. 1, comma 557, L. n. 296/2006) nei limiti
delle somme che vengono trasferite dal Ministero della
Giustizia a titolo di rimborso del trattamento economico e
degli oneri riflessi dei dipendenti comandati”.
Le spese sostenute per le prestazioni lavorative
del dipendente comandato sono da computarsi nella spesa per
il personale ai sensi degli art. 1, comma 557, della L. n.
296/2006 per la determinazione della spesa massima
consentita, con riferimento al “tetto di spesa” relativo
all’anno precedente soltanto riguardo all’ente di
destinazione e non per l’ente che concede il distacco, quale
nella specie il Comune richiedente, rispetto a cui dette
spese restano comunque escluse dal computo di cui all’art.
1, comma 557, della Legge 296/2006.
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Il Sindaco del Comune
di Soriano nel Cimino (di 8.722 abitanti) ha formulato
richiesta di parere riguardo a come debba interpretarsi il
rispetto dei limiti alla spesa del personale di cui
all’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78/2010 e all’art. 1, comma
557, della L. n. 296/2006, considerato che è in atto,
nonostante le carenze di personale del Comune, la proroga ex
art. 26 della L. n.468/1999 del comando di due dipendenti
(uno di cat. D, pos. ec. D2 “Istruttore direttivo
amministrativo” e l’altro di cat. C, pos. ec. C5 “Istruttore
amministrativo”) presso l locale l’Ufficio del Giudice di
pace.
Ciò premesso, il Sindaco ha, in particolare, richiesto se il
Comune possa “effettuare assunzioni a tempo determinato in
deroga al limite di spesa previsto dall’art. 9, comma 28, del
D.L. n. 78/2010 (riduzione del lavoro flessibile) ed
all’obbligo di riduzione della spesa di personale (art. 1,
comma 557, L. n. 296/2006) nei limiti delle somme che vengono
trasferite dal Ministero della Giustizia a titolo di
rimborso del trattamento economico e degli oneri riflessi
dei dipendenti comandati”.
...
Quanto al quesito ermeneutico posto, l’art. 26 della L.
n.468/1999 dispone, riguardo ai messi di conciliazione, al
comma 4, che “Il personale dipendente comunale che opera
ovvero che ha operato per almeno due anni presso gli uffici
di conciliazione alla data di entrata in vigore della
presente legge continua a prestare servizio, nella medesima
posizione, presso l'ufficio del Giudice di pace esistente
nel circondario, ed avente competenza anche per il comune
già sede degli uffici di conciliazione soppressi”,
sostanzialmente rendendo fisiologica la proroga del comando
-presso l'ufficio del Giudice di pace- dei dipendenti
comunali già comandati presso i vecchi uffici di
conciliazione come messi, in presenza della richiesta del
Presidente del tribunale (che abbia valutato come necessaria
la proroga in considerazione delle esigenze organiche degli
uffici giudiziari) e del consenso degli interessati.
Ai Comuni conseguentemente spetta il rimborso, da parte
dell’Amministrazione della giustizia, delle somme erogate ai
comandati a titolo di trattamento economico fondamentale,
mentre il trattamento accessorio, compresa l’indennità di
amministrazione, è direttamente erogato dalla P.A. presso
cui i medesimi sono comandati.
L’art. 9, comma 28, DL 78/2010, come modificato dall’art. 4,
comma 102, L. 183/2011, dall’art. 1, comma 6-bis, L. 14/2012
e dall’art. 4-ter, comma 12, L. 44/2012, prevede che “A
decorrere dal 2011, le amministrazioni dello Stato anche ad
ordinamento autonomo….possono avvalersi di personale a tempo
determinato o con convenzioni ovvero con contratti di
collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 50
per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità
nell'anno 2009… A decorrere dal 2013 gli enti locali possono
superare il predetto limite per le assunzioni strettamente
necessarie a garantire l'esercizio delle funzioni di polizia
locale, di istruzione pubblica e del settore sociale; resta
fermo che comunque la spesa complessiva non può essere
superiore alla spesa sostenuta per le stesse finalità
nell'anno 2009.”.
Vero è, in linea generale, che l’istituto del comando non è
da inquadrarsi tra le tipologie di assunzione di personale,
costituendo una forma di mobilità di regola temporanea e
che, quando ci si avvale di personale comandato, non si
determina aumento di spesa di personale nell’ambito della
pubblica amministrazione in generale e per l’Ente
beneficiario del comando in particolare, trattandosi di un
incarico temporaneo.
Nella specie, tuttavia, la questione è sollevata con
riferimento alla spesa di personale non dell’Ente presso cui
il comando è disposto, ma con riguardo a quella dell’Ente
comandante.
La ratio della limitazione posta dall’articolo dall’art. 9,
comma 28 citato, com’è noto, non è quella di ridurre il
ricorso al comando o al distacco, che anzi incontrano il
favor legis, in quanto garantiscono una più efficiente
distribuzione del personale, con verosimili positive
ricadute sui risultati della gestione amministrativa ed
evitano un incremento della spesa pubblica globale, ma va
identificata nella volontà di limitare la spesa connessa
all’utilizzo delle forme di lavoro flessibile espressamente
elencate che, al contrario di un comando o distacco,
generano anche un incremento della spesa pubblica globale,
oltre che della spesa di personale del singolo ente locale.
Vi è però da operare un fondamentale distinguo.
In applicazione del principio di neutralità finanziaria, il
Collegio ritiene che, per l’Ente utilizzatore la spesa
relativa al personale in posizione di comando non possa
essere assimilata ad una assunzione a tempo determinato e
debba dunque essere esclusa dal computo della spesa del
2009, ai fin della applicazione della limitazione di cui
all’art. 9, comma 28, del D.L. n. 78 del 2010 (a condizione
che la medesima spesa sia stata, come avviene di regola,
figurativamente mantenuta dall’Ente cedente).
La spesa, per converso, figurativamente sostenuta dal Comune
“comandante” nell’anno 2009, pur se non ne ha sopportato gli
oneri sostanziali in quanto gli sono stati rimborsati dal
Tribunale, deve essere considerata ai fini del calcolo del
parametro stabilito dall’art. 9, comma 28, del D.L. n.
78/2010.
Per cui il Comune richiedente può procedere a nuove
assunzioni a tempo determinato soltanto se rispetta il
limite del 50% di cui all’art. 9, comma 28, del D.L. n.
78/2010, fatte salve ovviamente le eccezioni previste dalla
norma stessa con effetto dal 2013, con riferimento alle
assunzioni “strettamente necessarie a garantire l'esercizio
delle funzioni di polizia locale, di istruzione pubblica e
del settore sociale” e con le specificazioni previste
dall’art.1, comma 6-bis del D.L. 2001 n.216, convertito
dalla L. 24 febbraio 2012, n.14.
È opportuno, tuttavia, rammentare che le limitazioni del 50%
della spesa 2009 per assunzioni flessibili previste
dall’art. 9, comma 28, del D.L. 78/2010, s.m.i., peraltro,
pur dove operanti, possono oggi essere modulate dall’ente
locale -con regolamento- in considerazione delle sue
ridotte dimensioni anche demografiche e delle correlate
peculiarità operative (SS.RR. Del. n. 11/CONTR/12).
Il prevalente orientamento delle Sezioni di controllo della
Corte dei conti, in sede consultiva ritiene, a proposito
della diversa -ma analoga- questione della portata
applicativa del divieto di assunzioni in caso di mancato
rispetto del Patto di stabilità interno, che “perché possano
essere ritenute neutrali (e, quindi, non assimilabili ad
assunzioni/dimissioni), le operazioni di mobilità in uscita
e in entrata devono intervenire tra enti entrambi sottoposti
a vincoli di assunzioni e di spesa ed in regola con le
prescrizioni del Patto di stabilità interno e rispettare gli
obiettivi legislativi finalizzati alla riduzione della spesa
e le disposizioni sulle dotazioni organiche” (SS.RR. Del. n.
59/CONTR/10).
Quanto al secondo profilo, giova rammentare che l’art. 1,
comma 557, L. 296/2006, come riscritto dall’art. 14, comma 7, DL
78/2010, il quale dispone che: “...gli enti sottoposti al
patto di stabilità interno assicurano la riduzione delle
spese di personale,.. con azioni …rivolte…ai seguenti
ambiti…:
a) riduzione dell'incidenza percentuale delle spese di
personale rispetto al complesso delle spese correnti…;
b) razionalizzazione e snellimento delle strutture
burocratico-amministrative…;
c) contenimento delle dinamiche di crescita della
contrattazione integrativa...” è stato interpretato da
questa Corte nel senso che la riduzione della spesa per il
personale deve essere progressiva e costante, a prescindere
da criteri e parametri prefissati e deve essere operata con
riferimento alla spesa di personale dell’anno immediatamente
precedente, in un’ottica di responsabilizzazione ed
autodeterminazione dell’ente (Corte conti, Sez. Autonomie,
delibere n. 2 e n. 3/2010).
Ovviamente, a garanzia delle confrontabilità dei dati nei
vari anni di riferimento, è necessario che la comparazione
venga effettuata tra aggregati omogenei, con le medesime
voci di inclusione ed esclusione (per l’individuazione delle
componenti incluse nel calcolo della “spesa di personale”:
Corte conti, Sez. Autonomie delib. n. 9/2010 recante le Linee
Guida). Sempre in relazione all’interpretazione dell’art. 1,
comma 557, L. 296/2006, si è rilevato che non sembra
corretto definire la categoria contabile della “Spesa per il
personale”, in termini puramente formali e nominalistici,
riconducendo, cioè, ad essa qualsivoglia somma pagata al
dipendente, ma occorre far riferimento “sia alla natura
della specifica voce di spesa, sia all’impatto che può avere
sulla gestione finanziaria dell’ente, nella richiamata
prospettiva” (Sez. Autonomie n.16/2009).
Le Sezioni Riunite della Corte dei conti, con deliberazione
n. 27/2011/CONTR, depositata in data 12 maggio 2011, hanno
al riguardo precisato che “… l’accezione <<spesa di
personale>>, tendenzialmente univoca, è suscettibile di
diverse configurazioni (non a caso si parla di aggregato di
<<spesa di personale>>) in ragione delle finalità perseguite
dalle norme che di volta in volta vi fanno riferimento. Non
si tratta naturalmente di figure ontologicamente diverse, ma
di aggregazioni che possono essere suscettibili di diversa
composizione”.
Le Sezioni Riunite hanno, quindi, posto in risalto la
differenza tra l’aggregato da considerare ai fini del limite
di cui al comma 557 della legge n. 296/2006, nel cui sistema
applicativo “… si sono evidenziate anche alcune voci che non
devono essere utilizzate ai fini del confronto, venendo
escluse sia dall’aggregato relativo all’anno di riferimento
che da quello nel quale viene verificato il rispetto
dell’obiettivo di riduzione”) e quello rilevante nel
rapporto tra la spesa corrente e la spesa del personale,
rispetto a cui si tratta non di un obbligo di riduzione
della spesa, ma di un vincolo di natura strutturale
all’incremento della consistenza di personale, onde appare
utile e maggiormente coerente, prendere in considerazione la
spesa di personale nel suo complesso.
Ciò posto, le spese sostenute per le prestazioni lavorative
del dipendente comandato sono da computarsi nella spesa per
il personale ai sensi degli art. 1, comma 557, della L. n.
296/2006 per la determinazione della spesa massima
consentita, con riferimento al “tetto di spesa” relativo
all’anno precedente soltanto riguardo all’ente di
destinazione e non per l’ente che concede il distacco, quale
nella specie il Comune richiedente, rispetto a cui dette
spese restano comunque escluse dal computo di cui all’art.
1, comma 557, della Legge 296/2006
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lazio,
parere 25.06.2014 n. 91). |
LAVORI PUBBLICI: Sul
risarcimento del danno per le colpevoli sospensioni dei
lavori.
Deve rammentarsi che la disciplina generale sulle opere
pubbliche recata dal R.D. n. 350 del 1895 affida
all’ingegnere capo e al direttore dei lavori una
molteplicità di attribuzioni volte a far sì che l’opera sia
compiuta senza intralci, a perfetta regola d’arte e senza
oneri aggiuntivi per la stazione appaltante.
Di particolare importanza, a tal fine, sono gli adempimenti
che la legge affida ai tecnici dell’amministrazione nella
fase antecedente all’indizione delle gare o all’apertura
della trattativa privata (ove consentita), nonché al momento
della consegna dei lavori alla ditta che dovrà eseguirli.
In particolare, l’art. 5, comma 1, prevede che, prima di
bandire la gara per l’assegnazione dell’appalto o di aprire
la trattativa privata, l’ingegnere capo deve provvedere,
tramite il direttore dei lavori, alla «verificazione del
progetto, in relazione al terreno, al tracciamento, al
sottosuolo, alle cave, alle fornaci ed a quant’altro occorre
per l’esecuzione dell’opera, affinché sia accertato che,
all’atto della consegna, non si riscontreranno variazioni
nelle condizioni di fatto sulle quali il progetto è basato
o, riscontrandosene alcuna, si abbia tempo a prevenire
l’apertura delle aste pubbliche o delle licitazioni, ovvero,
quando trattasi di trattativa privata, la stipulazione del
contratto, in base al progetto inesatto o non più esatto».
La finalità di tale disposizione è ovvia, mirando ad evitare
che –salvo il caso di estrema urgenza ovvero quando «le
condizioni del terreno sono naturalmente mutabili» (comma 3
dell’art. 5)– la mancata verificazione del progetto rispetto
alla situazione oggettiva dei luoghi interessati non
determini rallentamenti o sospensioni dei lavori, ovvero
lievitazione dei costi per opere non previste.
Nello stesso senso milita l’art. 11, comma 1, del R.D. n.
350 del 1895, che obbliga l’ingegnere capo a sospendere la
consegna dei lavori (salvo le ipotesi indicate nel comma 2)
«qualora nonostante le disposizioni di cui al precedente
art. 5, si riscontrassero all’atto della consegna delle
differenze fra le condizioni locali ed il progetto …».
---------------
Gli obblighi imposti all’ingegnere capo e al direttore dei
lavori nella fase antecedente alla consegna dei lavori sono
precipuamente finalizzati ad evitare che si verifichino le
condizioni del ricorso alla sospensione dei lavori, che –è
bene rammentarlo– è disciplinata dall’art. 16 del R.D. n.
350 del 1895 quale evenienza che appartiene alla patologia
dell’esecuzione dell’opera, essendo autorizzabile «qualora
circostanze speciali impediscano temporaneamente che i
lavori procedano a regola d’arte».
Nella specie, se certamente sussistevano i presupposti per
la sospensione dei lavori, va però rilevato che le
«circostanze speciali» legittimanti la sospensione sono
state provocate anche dalle gravi omissioni dell’appellante
nell’esercizio delle funzioni di ingegnere capo e di
direttore dei lavori.
---------------
Le considerazioni fin qui svolte valgono, ovviamente, anche
per la questione delle indagini geologiche, avendo queste
determinato la sospensione dei lavori per non essere state
effettuate –come dovuto– prima di dar corso all’appalto o,
quanto meno, prima della consegna dei lavori.
E, comunque, in considerazione di quanto sostenuto dalla
difesa, si deve precisare che all’appellante non si
addebitano le spese sostenute per le indagini, ma il danno
(pro quota) conseguente alle sospensioni dei lavori.
La Procura regionale per la Basilicata ha contestato all’ing. C.
la somma di euro 64.446,98, pari alla metà del danno
complessivo, ravvisando il pari contributo causale del
progettista non chiamato in giudizio in quanto deceduto. La
Sezione territoriale ha imputato al convenuto l’importo
ridotto di euro 25.000,00 comprensivi della rivalutazione
monetaria, ritenendo di dover equamente valorizzare -a
scomputo della condanna– altri concorsi causali oltre che
le oggettive difficoltà dell’appalto.
La sentenza merita condivisione, per le motivazioni di
seguito indicate, sia per quanto concerne il nesso di
causalità sia per l’affermata sussistenza della colpa grave.
Circa il nesso di causalità, si osserva che le sospensioni
dei lavori –la prima delle quali prese inizio (12.10.1993)
quando erano intercorsi appena due-tre mesi dalla consegna
dei lavori (16.07.1993) e dal concreto inizio degli stessi
(05.08.1993)– si resero necessarie per la sottovalutazione,
in sede progettuale, delle problematiche derivanti dalla
esistenza di alcuni manufatti del Consorzio di bonifica
della Val d’Agri, che interferivano con una parte del
tracciato originario della strada. Si tratta, con ogni
evidenza, come del resto dedotto dallo stesso appellante, di
problematiche che dovevano essere prese in considerazione
dal progettista, il quale -nella elaborazione del progetto
esecutivo- avrebbe dovuto prevedere nel dettaglio, affinché
fossero immediatamente eseguibili, le lavorazioni che si
rendevano necessarie proprio in ragione della interferenza
tra l’opera da realizzare e i manufatti esistenti.
Sennonché, dalla documentazione in atti (vedi deliberazione
del Consiglio comunale n. 6 del 20.03.1991 e allegata
relazione tecnica) risulta che il progettista aveva indicato
tra le somme a disposizione gli importi previsti per
«indagini geologiche» e «spostamento condotte irrigue»,
senza che a ciò corrispondesse la previsione delle opere da
realizzare per tale spostamento e, soprattutto, rinviando
alcune indagini geologiche alla fase dell’esecuzione dei
lavori.
Da quanto fin qui evidenziato non discende, peraltro, che le
sospensioni (e il conseguente risarcimento del danno
riconosciuto all’impresa appaltatrice dal Collegio
arbitrale) siano imputabili esclusivamente al progettista,
dovendo invece affermarsi che l’appellante –prima, quale
responsabile dell’Ufficio tecnico e ingegnere capo e, poi,
quale direttore dei lavori- aveva l’obbligo giuridico e la
concreta possibilità di evitare che l’appalto incorresse in
quelle sospensioni.
Deve, in primo luogo, rammentarsi che la disciplina generale
sulle opere pubbliche recata dal R.D. n. 350 del 1895 affida
all’ingegnere capo e al direttore dei lavori una
molteplicità di attribuzioni volte a far sì che l’opera sia
compiuta senza intralci, a perfetta regola d’arte e senza
oneri aggiuntivi per la stazione appaltante. Di particolare
importanza, a tal fine, sono gli adempimenti che la legge
affida ai tecnici dell’amministrazione nella fase
antecedente all’indizione delle gare o all’apertura della
trattativa privata (ove consentita), nonché al momento della
consegna dei lavori alla ditta che dovrà eseguirli.
In particolare, l’art. 5, comma 1, prevede che, prima di
bandire la gara per l’assegnazione dell’appalto o di aprire
la trattativa privata, l’ingegnere capo deve provvedere,
tramite il direttore dei lavori, alla «verificazione del
progetto, in relazione al terreno, al tracciamento, al
sottosuolo, alle cave, alle fornaci ed a quant’altro occorre
per l’esecuzione dell’opera, affinché sia accertato che,
all’atto della consegna, non si riscontreranno variazioni
nelle condizioni di fatto sulle quali il progetto è basato
o, riscontrandosene alcuna, si abbia tempo a prevenire
l’apertura delle aste pubbliche o delle licitazioni, ovvero,
quando trattasi di trattativa privata, la stipulazione del
contratto, in base al progetto inesatto o non più esatto».
La finalità di tale disposizione è ovvia, mirando ad evitare
che –salvo il caso di estrema urgenza ovvero quando «le
condizioni del terreno sono naturalmente mutabili» (comma 3
dell’art. 5)– la mancata verificazione del progetto
rispetto alla situazione oggettiva dei luoghi interessati
non determini rallentamenti o sospensioni dei lavori, ovvero
lievitazione dei costi per opere non previste.
Nello stesso senso milita l’art. 11, comma 1, del R.D. n.
350 del 1895, che obbliga l’ingegnere capo a sospendere la
consegna dei lavori (salvo le ipotesi indicate nel comma 2)
«qualora nonostante le disposizioni di cui al precedente
art. 5, si riscontrassero all’atto della consegna delle
differenze fra le condizioni locali ed il progetto …».
Sennonché, emerge dagli atti che l’appellante non ha operato
nel rispetto delle fondamentali disposizioni sopra
richiamate.
Va, al riguardo, rilevato che, se è vero –come questi
sostiene– che il progetto venne approvato con deliberazione
del Consiglio comunale dell’08.03.1989 senza il parere
dell’Ufficio tecnico, è però altrettanto vero che quella
deliberazione venne adottata al fine di sottoporre il
progetto alla valutazione della Regione. A tale
deliberazione seguì quella del 20.03.1991, con la quale il
Consiglio comunale pervenne ad una nuova approvazione che si
era resa necessaria –come risulta dal preambolo della
deliberazione n. 6 del 1991- dalla circostanza che il
progetto era stato rielaborato per tener conto dell’aumento
dell’importo finanziato.
Orbene, risulta pacificamente dagli atti che il progetto
rielaborato è stato approvato dal Consiglio comunale di
Marsicovetere con deliberazione n. 6 del 1991 adottata
previo parere favorevole, espresso in data 15.11.1990,
dall’Ufficio tecnico nella persona del responsabile
dell’Ufficio, ing. C.. Peraltro, l’ing. C. –nell’esaminare il progetto e i relativi allegati– espresse
parere favorevole senza evidenziare, come avrebbe dovuto
quale responsabile dell’Ufficio tecnico e, quindi, svolgendo
le funzioni di ingegnere capo, che il progetto si presentava
carente per l’omessa indicazione delle opere da eseguire in
ragione della interferenza con i manufatti del Consorzio di
bonifica e in quanto rinviava alla fase dell’esecuzione dei
lavori le indagini geologiche connesse con tali (non
specificate) opere.
Quindi, su quello stesso progetto approvato nel 1991 venne
indetta la licitazione privata nel luglio del 1993, senza
che si provvedesse alla previa verificazione imposta
dall’art. 5, comma 1, del R.D. n. 350 del 1895; inoltre, la
consegna dei lavori venne effettuata il 16.07.1993,
senza che –neppure in quell’occasione– si prendesse atto
«delle differenze fra le condizioni locali ed il progetto»
ai fini di quanto prescritto dall’art. 11 dello stesso R.D.
n. 350 del 1895.
Le circostanze sopra evidenziate –oltre ad indicare la
sussistenza del nesso di causalità tra la condotta
dell’appellante e il danno subito dall’ente locale– valgono
anche a connotare la condotta in termini di gravità,
emergendo dagli atti di causa una significativa divergenza
tra la condotta esigibile al professionista rispetto a
quella in concreta tenuta.
Innanzitutto, non può dirsi –come ventilato dall’appellante- che l’interferenza tra la nuova opera e i manufatti del
sistema irriguo fosse percepibile solo dal progettista, che
aveva redatto anche il progetto per le opere del
“Peschiera”.
Al riguardo, è sufficiente richiamare quanto evidenziato
dallo stesso ing. C. nella nota diretta al Sindaco
in data 16.11.1993 (prot. n. 2263), laddove è detto:
«nel quadro economico relativo al progetto “esecutivo”
approvato con delibera Consiglio Comunale n. 6 del
20/03/1991 … è prevista la somma di L. 30.000.000
genericamente riferita allo spostamento di condotte irrigue
e ciò tra le somme a disposizione dell’Amministrazione. Tale
lavoro non trova riscontro in nessun elaborato di progetto e
pertanto va inteso a forfait senza alcun riferimento
specifico al tipo di intervento da eseguire. Dai rilievi di
consegna dell’impresa esecutrice, in contraddittorio con la
Direzione dei Lavori, si è evidenziata l’esistenza di un
insieme di tubazioni irrigue, in esercizio, di vario
diametro … appartenenti al sistema irriguo “Peschiera”, che
interessano parallelamente il tracciato della costruenda
strada e in particolare le opere di fondazione del viadotto
da realizzarsi. Per lo spostamento di tali condotte (vedi
elaborati approvati dal Consorzio di Bonifica Alta Val
D’Agri) nonché per gli interventi complementari e necessari,
occorre una spesa presunta a preventivo di L. 202.995.238
…».
In sostanza, l’ing. C. ha rilevato solo dopo aver
effettuato la consegna dei lavori quello che era
doverosamente e agevolmente rilevabile prima che il progetto
venisse approvato e avviato all’esecuzione e, cioè, che: il
progetto non poteva qualificarsi come “esecutivo” in quanto
lo spostamento delle condotte irrigue non trovava riscontro
in nessun elaborato (tanto che i costi erano stati indicati
a forfait solo tra le somme a disposizione); l’esistenza di
condotte irrigue risultava dallo stesso progetto, ove si
prevedeva (sia pur genericamente) lo «spostamento» delle
stesse.
In ogni caso, anche ammesso che il percorso delle condotte
non fosse agevolmente rilevabile nella sua interezza,
l’esistenza di «un insieme di tubazioni irrigue» è stata
riscontrata -come risulta dalla già menzionata nota del
16.11.1993 e dalla precedente informativa del 12.10.1993–
durante le operazioni propedeutiche alla consegna dei lavori
e in contraddittorio tra l’impresa e il direttore dei
lavori. Sennonché, l’ing. C. (che ha cumulato le
funzioni di ingegnere capo e di direttore dei lavori) non ha
provveduto –come imposto dall’art. 11, comma 1, del R.D. n.
350 del 1895– a sospendere la consegna dei lavori, ma ha
dato corso alla consegna senza considerare le conseguenze
che ne sarebbero attendibilmente derivate. E, infatti, la
consegna dei lavori -disposta nonostante le riscontrate
«differenze fra le condizioni locali ed il progetto»- ha
determinato la pressoché immediata necessità di sospendere i
lavori per effettuare le indagini geognostiche omesse in
sede progettuale e per elaborare varianti al progetto.
Tanto quanto fin qui chiarito, non si vede come possa
disconoscersi la sussistenza di una colpevolezza grave,
dovendosi rilevare che gli obblighi imposti all’ingegnere
capo e al direttore dei lavori nella fase antecedente alla
consegna dei lavori sono precipuamente finalizzati ad
evitare che si verifichino le condizioni del ricorso alla
sospensione dei lavori, che –è bene rammentarlo– è
disciplinata dall’art. 16 del R.D. n. 350 del 1895 quale
evenienza che appartiene alla patologia dell’esecuzione
dell’opera, essendo autorizzabile «qualora circostanze
speciali impediscano temporaneamente che i lavori procedano
a regola d’arte». Nella specie, se certamente sussistevano i
presupposti per la sospensione dei lavori, va però rilevato
che le «circostanze speciali» legittimanti la sospensione
sono state provocate anche dalle gravi omissioni
dell’appellante nell’esercizio delle funzioni di ingegnere
capo e di direttore dei lavori.
Le considerazioni fin qui svolte valgono, ovviamente, anche
per la questione delle indagini geologiche, avendo queste
determinato la sospensione dei lavori per non essere state
effettuate –come dovuto– prima di dar corso all’appalto o,
quanto meno, prima della consegna dei lavori. E, comunque,
in considerazione di quanto sostenuto dalla difesa, si deve
precisare che all’appellante non si addebitano le spese
sostenute per le indagini, ma il danno (pro quota)
conseguente alle sospensioni; in ogni caso, deve
evidenziarsi che i primi giudici –nel mitigare congruamente
l’addebito (da euro 64.446,98 oltre rivalutazione monetaria
ad euro 25.000,00 comprensivi di rivalutazione)– hanno
tenuto conto del fatto che i ritardi sono in parte dipesi
dalle «carenze tecniche professionali riscontrate a carico
della ditta» incaricata delle indagini geologiche.
3. In definitiva, per tutte le ragioni sopra evidenziate,
l’appello va respinto, con conseguente integrale conferma
della sentenza impugnata (Corte dei Conti, Sez. II giurisdiz.
centrale d'appello,
sentenza
10.06.2014 n. 397). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Per la nuova Via progettazione su un solo livello.
Oltre a introdurre una
specifica procedura di bonifica semplificata, il decreto
legge 91/2014 contiene ulteriori novità o modifiche delle
disposizioni di tutela in materia ambientale.
Le più importanti sono le modifiche che il decreto
«Competitività e ambiente» introduce in materia di Via
(valutazione di impatto ambientale): le definizioni di
progetto preliminare e definitivo sono sostituite da
un'unica definizione di progetto ancorata ai livelli di
progettazione disciplinati dal Codice sugli appalti
pubblici.
Rispetto alla procedura di verifica, viene stabilito che i
criteri di individuazione delle soglie dei progetti da
sottoporre a tale procedura di screening saranno stabiliti
con decreto ministeriale.
Infine, vengono apportate integrazioni ai sistemi di
pubblicazione dei decreti Via e delle altre informazioni che
devono essere messe a disposizione del pubblico, prevedendo
anche la pubblicazione via web.
Un'altra modifica apportata all'articolo 216 del Dlgs
152/2006 (procedure di autorizzazione di impianti di
gestione rifiuti) è volta a sottoporre le attività di
trattamento degli aggregati, dei rifiuti di carta e di
vetro, dei metalli, dei pneumatici e dei rifiuti tessili
alle procedure semplificate di cui all'articolo 214 del
medesimo decreto legislativo, ferma restando l'osservanza
dei criteri e requisiti stabiliti a livello comunitario.
Questa previsione, dunque, comporta una semplificazione
anche rispetto alla gestione di alcuni specifici rifiuti.
Vengono inoltre sottratte alla disciplina del testo unico
ambientale le procedure per la gestione di rifiuti prodotti
dai sistemi di difesa nazionale, i quali saranno sottoposti
a una specifica disciplina definita di concerto dai
ministeri competenti.
È poi il turno della bonifica delle aree militari, rispetto
alle quali viene previsto l'inserimento di una norma ad hoc
(articolo 241-bis) nel Codice ambientale. La norma prevede
che per i siti esclusivamente destinati alla Difesa le Csc
(concentrazione soglie di contaminazione) di riferimento
sono quelle per i siti industriali e commerciali.
In caso di superamento di queste soglie, gli obiettivi di
bonifica dovranno essere comunque stabiliti mediante
specifica analisi di rischio che tenga anche conto del
rischio per le aree limitrofe.
L'articolo 241-bis, dunque, prevede che in caso di
declassamento del sito militare a destinazione residenziale,
le soglie di riferimento dovranno essere quelle previste per
tale destinazione (tabella 1, colonna A).
Inoltre, l'Istituto Superiore della Sanità dovrà definire
sulla base delle informazioni che verranno fornite dal
ministero della Difesa, le soglie di contaminazione di
sostanze utilizzate per specifiche attività militari, che
non sono considerate dalle normali tabelle di riferimento (articolo Il Sole 24 Ore del
21.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Bonifiche in tempi ridotti. Il Dl 91/2014 semplifica la procedura per il proprietario
dell'area. Risanamento. La Conferenza di servizi deve approvare il
piano presentato dal privato entro 90 giorni.
Bonifiche più veloci e
più semplici.
Questo l'obiettivo del decreto legge
«competitività e ambiente» in vigore dal 24 giugno scorso.
Il Dl 91/2014 integra, infatti, il Dlgs 152/2006 con un
nuovo articolo (articolo 242-bis) dedicato espressamente
alla procedure semplificate di bonifica e messa in sicurezza
dei siti contaminati.
La novità più rilevante riguarda sicuramente l'inversione
degli schemi procedurali ordinari. In caso di bonifica di un
sito contaminato, il soggetto interessato, volendo procedere
in modo celere al recupero ambientale della propria area,
potrà direttamente presentare agli enti un progetto di
intervento volto a raggiungere i valori tabellari di legge (Csc)
riferiti alla specifica destinazione d'uso del sito.
Non sarà più necessario, quindi, «caratterizzare»
preliminarmente il sito sotto il controllo delle autorità,
ma l'operatore potrà raccogliere in modo autonomo e sotto la
propria responsabilità tutte le informazioni necessarie per
predisporre il progetto di bonifica (anche mediante indagini
private).
La «caratterizzazione» del sito in contraddittorio con
l'Arpa, invece, sarà eseguita solo dopo il completamento
dell'intervento per verificare il raggiungimento degli
obiettivi. La validazione della stessa Arpa, dunque,
costituirà certificazione di avvenuta bonifica.
Se gli obiettivi non vengono raggiunti, l'operatore dovrà
integrare il progetto eseguito, il quale, tuttavia, verrà
istruito secondo le procedure ordinarie, uscendo così dalla
procedura semplificata.
Sarà quindi interesse degli operatori privati raccogliere
ogni informazione utile al fine di progettare interventi
efficaci e completi, così da evitare contaminazioni
residuali e un allungamento della bonifica dell'area.
La nuova disposizione, inoltre, impone specifici termini
entro cui deve essere svolta la procedura. La Regione (o i
Comuni delegati a loro favore) dovrà convocare la conferenza
di servizi per valutare il progetto di bonifica entro 30
giorni dalla sua ricezione e il progetto dovrà essere
approvato nei successivi 90 giorni.
I lavori di bonifica autorizzati dovranno, quindi, essere
completati entro dodici mesi da parte dell'operatore (salva
la possibilità di proroga per ulteriori sei mesi). Decorso
il termine, si perde il beneficio della procedura
semplificata e si torna a quella ordinaria. Questo passaggio
potrebbe comportare non pochi problemi di coordinamento, in
quanto i lavori di bonifica potrebbero essere in corso.
Per quanto riguarda la caratterizzazione ex post, il nuovo
articolo 242-bis prevede l'approvazione del relativo piano
entro 45 giorni (è prevista in via sperimentale anche
l'applicazione del silenzio assenso per i procedimenti
avviati prima del 31.12.2017) e la validazione dei
risultati dovrà essere rilasciata dall'Arpa entro 45 giorni
dalla conclusione delle indagini.
La procedura semplificata si applica sia ai siti normali,
che ai siti di interesse nazionale gestiti dal ministero
dell'Ambiente.
La nuova previsione normativa è sicuramente interessante in
quanto permette – almeno sulla carta – di avviare
l'intervento di bonifica dopo 120 giorni dalla sua
programmazione e di concludere formalmente la procedura con
una ulteriore indagine la cui approvazione complessivamente
non può durare più di 90 giorni.
Considerati anche i termini entro cui il privato deve
completare l'intervento (dodici mesi), l'aspettativa
concreta è che la bonifica di un sito contaminato possa
essere completata entro 24 mesi. Un termine sicuramente
ragionevole se si considera che, secondo la procedura
ordinaria, soltanto l'approvazione del progetto di bonifica
può richiedere 20 mesi dalla scoperta della contaminazione.
Il successo della semplificazione dipende dagli enti, i cui
ritardi burocratici potrebbero vanificare l'intervento
legislativo.
La procedura semplificata sembrerebbe essere ammessa solo a
favore del soggetto non responsabile della contaminazione
che voglia sostenere volontariamente i costi della bonifica
e che si impegni a raggiungere come obiettivi le Csc,
rinunciando così ad applicare l'analisi di rischio,
strumento che in molti casi può rappresentare un valido
aiuto per rendere sostenibili i costi dell'intervento (articolo Il Sole 24 Ore del
21.07.2014). |
LAVORI PUBBLICI: Cig e dati sulle varianti fermano ancora i lavori.
Appalti. Correttivi da approvare per far ripartire il
sistema.
Tutte le amministrazioni
che gestiscono appalti di lavori pubblici (comprese le
società partecipate) devono trasmettere gli atti sulle
varianti in corso d'opera all'autorità anticorruzione entro
trenta giorni dalla loro approvazione.
La disposizione prevista dal l'articolo 37 del Dl 90/2014
presenta molti profili problematici nella sua applicazione,
rispetto ai quali è parzialmente intervenuto a chiarimento
il
comunicato del presidente
16.07.2014
dell'Anac.
Il nuovo dato normativo circoscrive le tipologie di varianti
per cui è previsto l'obbligo di trasmissione dei documenti a
quelle determinate da cause impreviste e imprevedibili, da
eventi inerenti la natura dei beni verificatisi in corso di
esecuzione o da rinvenimenti imprevisti, nonché a quelle che
derivano da cause geologiche o idriche, quando rendano più
onerosa la prestazione dell'appaltatore.
Rispetto a queste tipologie, tuttavia, l'articolo 37 non
individua alcuna soglia di valore, per cui enti locali e
società devono trasmettere la documentazione relativa anche
a varianti di importo modesto.
In base alla disposizione non rientrano nell'obbligo le
varianti derivanti da innovazioni normative e quelle
conseguenti a errori progettuali. Lo spartiacque temporale è
individuato nel 25 giugno (entrata in vigore del decreto):
le varianti approvate a partire da quella data sono
assoggettate all'obbligo, mentre ne restano escluse quelle
approvate prima.
Per semplificare l'adempimento, l'Anac ha precisato che
nella documentazione da inviare vanno ricompresi il
provvedimento di approvazione, l'atto di validazione, la
relazione del Rup e il quadro comparativo di variante, anche
se le stazioni appaltanti devono essere disponibili (su
richiesta) a fornire ogni altro documento progettuale utile.
Le stazioni appaltanti possono inviare i documenti mediante
posta elettronica certificata, ma anche per posta ordinaria,
dovendo tuttavia specificare nel l'oggetto che si tratta
della comunicazione prevista dall'articolo 37 e dovendo
indicare il codice identificativo gara.
Proprio in relazione al Cig, il presidente dell'Anac ha
informato il governo dell'impossibilità, per l'autorità, di
dar corso all'intesa approvata in Conferenza unificata sulla
"sospensione" del diniego del codice ai Comuni non capoluogo
che procedano ad acquisizioni di lavori, servizi o forniture
in forma autonoma, senza avvalersi di uno dei modelli
obbligatori previsti dal nuovo comma 3-bis dell'articolo 33
del Codice dei contratti, riformulato dal Dl 66/2014 al fine
di sostenere procedure aggregate.
L'Autorità evidenzia, infatti, la valenza dell'obbligo
normativo e l'impossibilità di sottrarsi allo stesso, sino a
quando la disposizione non sarà cambiata con un intervento
legislativo (articolo Il Sole 24 Ore del
21.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
TRIBUTI:
Ici-Imu, l'accorpamento esenta.
Imposte non dovute su aree e fabbricati con unica rendita.
La pronuncia della Cassazione: si può parlare di pertinenza
solo nel caso di separazione.
Un'area edificabile accorpata al fabbricato non può essere
assoggettata a imposizione autonomamente. I due immobili
hanno un'unica rendita catastale. La rendita, infatti,
costituisce l'unico parametro per determinare la base
imponibile. In questi casi non può essere preso a base di
calcolo il valore di mercato dell'area, ancorché la stessa
abbia un'autonoma capacità edificatoria e possa essere in
qualsiasi momento scorporata e ceduta.
È quanto ha affermato
la Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 10176/2014.
Secondo la Cassazione, dunque, non è soggetta al pagamento
dell'Ici un'area edificabile accorpata a un fabbricato
destinato ad attività commerciale, ancorché il titolare non
abbia mai dichiarato al comune la sua natura pertinenziale.
E non importa che l'area accatastata nella stessa partita
urbana del fabbricato potrebbe essere in qualsiasi momento
scorporata e ceduta come bene distinto rispetto al
fabbricato.
I giudici di legittimità hanno ritenuto
infondate le contestazioni formulate dal comune di Arezzo in
ordine al fatto che il contribuente per non essere
assoggettato al pagamento dell'imposta avrebbe dovuto
dichiarare l'area come pertinenza del fabbricato. Per i
giudici di legittimità, infatti, il soggetto accertato non
aveva alcun obbligo di presentare la dichiarazione «perché
la declaratoria di pertinenzialità rileva per escludere
l'assoggettamento all'Ici di un'area edificabile accatastata
autonomamente, mentre l'area per cui qui si discute è priva
di autonomo accatastamento ed è compresa in una particella
regolarmente accatastata e munita di rendita».
Come chiarito
dalla Suprema corte, si può parlare di pertinenza solo nel
caso in cui l'area sia separata dal fabbricato. La
«graffatura» catastale tra i due beni esclude qualsiasi
rapporto pertinenziale.
La dichiarazione del contribuente. Sussiste, invece, un
contrasto giurisprudenziale sugli adempimenti che deve porre
in essere il contribuente per ottenere l'esonero dal
pagamento per le aree che possono essere qualificate pertinenziali. In particolare, emerge che le posizioni della
giurisprudenza di merito non sono in linea con quanto
sostenuto dalla Cassazione sulla necessità che il
contribuente dichiari al comune la destinazione
pertinenziale dell'area al servizio del fabbricato.
Per
alcuni giudici di merito le aree edificabili non sono
autonomamente soggette al pagamento dell'Ici, e quindi anche
dell'Imu e della Tasi, se sono pertinenze dei fabbricati,
anche se il contribuente non ha indicato questa destinazione
nella dichiarazione. Per esempio, la Commissione tributaria
regionale di Roma (sentenza 163/2013) è andata oltre quanto
sostenuto dalla Cassazione, perché ha riconosciuto l'intassabilità
del bene anche nel caso in cui il contribuente non abbia
esposto nella dichiarazione la natura pertinenziale
dell'area.
Ha però precisato che il titolare dell'immobile
non è tenuto a pagare l'imposta comunale su un'area
edificabile che sia pertinenza di un fabbricato, anche se
non lo ha indicato nella dichiarazione, purché invii una
comunicazione all'ente con lettera raccomandata con la quale
lo informi della destinazione del bene, prima che venga
emanato l'atto di accertamento. Naturalmente, è richiesto
che il rapporto pertinenziale emerga dallo stato dei luoghi.
Nello specifico, l'esistenza di un pozzo artesiano sul
terreno dal quale è possibile attingere l'acqua dal
fabbricato oppure un marciapiede o un cornicione ubicati
oltre la linea di confine del manufatto. In senso opposto
sulla questione si è espressa la sezione tributaria della
Corte di cassazione (sentenza 19638/2009), che ha
riconosciuto il beneficio solo nei casi in cui il
contribuente dichiari al comune l'utilizzo dell'immobile
come pertinenza nella denuncia iniziale o di variazione.
I
giudici di legittimità, tra l'altro, per eliminare il
contenzioso che dura da anni sull'assoggettamento a Ici
delle aree o giardini pertinenziali, hanno modellato
l'articolo 2 del decreto legislativo 504/1992 che dà la
definizione di pertinenza. Mentre questa norma si limita a
stabilire che è parte integrante del fabbricato l'area
occupata dalla costruzione e quella che ne costituisce
pertinenza, la Cassazione va oltre e, dando una chiave di
lettura «di conio giurisprudenziale», ha aggiunto che per
non essere assoggettata a imposizione occorre un'apposita
denuncia del contribuente sull'uso dell'area nel momento in
cui avviene la destinazione.
Dal punto di vista fiscale, poi, è irrilevante la
circostanza che un'area pertinenziale e una costruzione
principale siano censite catastalmente in modo distinto, al
fine di poter essere assoggettate a tassazione come un unico
bene o di usufruire delle agevolazioni. Come precisato dalla
commissione regionale, però, il vincolo pertinenziale deve
essere visibile e va rilevato dallo stato dei luoghi, a
prescindere dal fatto che in catasto l'area e il fabbricato
non risultino accorpati. In caso contrario, i due immobili
sono soggetti a imposizione autonomamente.
Le stesse regole valgono per l'Imu e, da quest'anno, anche
per la Tasi. Anche per questi tributi vengono richiamate le
disposizioni contenute negli articoli 2 e 5 del decreto
legislativo 504/1992. Sia per quanto riguarda la
qualificazione dell'oggetto d'imposta sia per la
determinazione dell'imponibile occorre fare riferimento alla
normativa Ici. Per definire gli aspetti controversi della
nozione di area edificabile, il legislatore è intervenuto
due volte con norme di interpretazione autentica.
L'imposta
è dovuta se l'area è inserita in un piano regolatore
generale adottato dal consiglio comunale, ma non approvato
dalla Regione. L'articolo 36, comma 2 del decreto-legge
legge 223/2006 ha stabilito che un'area sia da considerare
fabbricabile se utilizzabile a scopo edificatorio in base
allo strumento urbanistico generale deliberato dal comune,
indipendentemente dall'approvazione della regione e
dall'adozione di strumenti attuativi.
--------------
La Suprema corte: conta la destinazione.
La Cassazione (sentenza 5755/2005) ha da tempo affermato che
per la pertinenza di un fabbricato non contano le risultanze
catastali, ma la destinazione di fatto. Il terreno che
costituisce pertinenza di un fabbricato non è soggetto a Ici
e Imu come area edificabile, anche se iscritto autonomamente
al catasto. Questo principio, ribadito più volte con altre
pronunce, vale anche per la Tasi.
Per le aree edificabili, dunque, non si introduce alcuna
particolare e nuova accezione di pertinenza ai fini Ici ma,
semplicemente, se ne presuppone il significato, in quanto va
fatto riferimento alla definizione fornita, in via generale,
dall'articolo 817 del codice civile. Questa norma prevede
che sono da considerare pertinenze le cose destinate in modo
durevole al servizio o all'ornamento di un'altra cosa.
Pertanto, per il vincolo pertinenziale serve sia la durevole
destinazione della cosa accessoria a servizio o ornamento di
quella principale, sia la volontà dell'avente diritto di
creare la destinazione. Accertare la sussistenza di questo
vincolo comporta un apprezzamento di fatto.
L'imposta comunale non può essere richiesta per l'assenza di
accorpamento (cosiddetta «graffatura») dell'area al contiguo
fabbricato, ancorché costituenti unità catastali separate.
L'autonomo accatastamento non rende irrilevante l'uso di
fatto del terreno come pertinenza. Tanto meno rileva la
presenza o meno di segni grafici, che sono inconsistenti sul
piano probatorio. Tuttavia, nonostante vengano ribaditi
questi principi e la rilevanza della destinazione «di fatto»
di un bene come pertinenza, non ci si può sottrarre
all'obbligo di denuncia ogni volta che nella situazione
possessoria del contribuente s'introduca una modificazione.
Se l'interessato non ha affermato la sua pertinenzialità in
via di specialità, vuol dire che ha voluto lasciare il bene
nella sua condizione di area fabbricabile.
Qualora il contribuente voglia fruire dell'intassabilità
dell'area, è tenuto a comunicare all'ente che è destinata a
pertinenza del fabbricato sia nella denuncia originaria sia,
qualora abbia omesso questa indicazione, in una successiva
dichiarazione di variazione, che può essere presentata in
qualsiasi momento (articolo ItaliaOggi Sette
del 21.07.2014). |
ENTI LOCALI -
VARI: Pec, c'è obbligo con distinzioni.
Esclusi i consorzi, le società in fallimento e le unità
estere. Le indicazioni del Mise in merito alla comunicazione della
Posta elettronica certificata.
Sono chiamate a dotarsi e a comunicare la Pec, la Posta
elettronica certificata, al registro delle imprese le
società di capitali, di persone (incluse le società
semplici), le imprese individuali, le cooperative, le
società in concordato preventivo e in quello liquidatorio.
Anche le società estere con sede secondaria o unità locale
in Italia hanno l'obbligo di attivare e comunicare
l'indirizzo Pec al registro imprese. Sono esclusi dalla
comunicazione Pec i consorzi, le società in fallimento e
l'unità locali di imprese estere (che non abbiano una
rappresentanza stabile in Italia) in quanto non iscritte nel
registro delle imprese. L'impresa deve comunicare un solo
indirizzo Pec presso il registro imprese della sede legale a
prescindere dalle sedi secondarie e unità locali di cui
dispone. La comunicazione della Pec al registro delle
imprese va effettuata con la comunicazione unica ed è esente
da diritti di segreteria e imposta di bollo.
Questo è quanto
si legge nelle note di prassi (circ. 23.06.2014 n. 3670,
circ. del 09.05.2014 n. 77684 e circ. del 15.01.2014
n. 6391) redatte dal Mise, direzione generale per il mercato
e la concorrenza - divisione XXI - registro imprese (diretta
da Gianfrancesco Vecchio).
La casella di Pec rappresenta il
domicilio elettronico presso il quale la società o
l'imprenditore, in forza di una presunzione legale, sono
sempre raggiungibili (per legge, un messaggio di Pec si dà
per notificato al momento della semplice consegna del plico
informatico al server di posta del destinatario, e non al
momento della effettiva apertura dello stesso), e che la sua
iscrizione e successiva modificazione sono adempimenti che
solo il legale rappresentante della società può validamente
eseguire.
Le variazioni dell'indirizzo Pec dell'impresa devono essere
comunicate al registro imprese in quanto l'indirizzo che
compare sulla visura e nei certificato sia valido e attivo.
La comunicazione di variazione è gratuita e va effettuata
per via telematica. Nel caso in cui la comunicazione del
proprio indirizzo di posta elettronica dovesse esser
accompagnata anche dall'iscrizione di altri atti o fatti
(per esempio nomina amministratori e trasferimento di sede
legale) la domanda sarà soggetta all'imposta di bollo e ai
diritti di segreteria dovuti per il corrispondente
adempimento.
Impresa individuale e Pec. L'ufficio del registro delle
imprese che riceve una domanda di iscrizione da parte di una
impresa individuale che non ha iscritto il proprio indirizzo
di posta elettronica certificata, in luogo dell'irrogazione
della sanzione prevista dall'articolo 2630 del codice
civile, sospende la domanda fino a integrazione della
domanda con l'indirizzo di posta elettronica certificata e
comunque per 45 giorni; trascorso tale periodo, la domanda
si intende non presentata. Qualunque sia il tipo di atto o
fatto di cui l'iscrizione è richiesta, di conseguenza, la
stessa dovrà essere sospesa per il termine di legge fino a
comunicazione dell'indirizzo di Pec. Ove quest'ultima non
intervenga entro il termine della sospensione stessa (tre
mesi per le società; 45 giorni per le impresse individuali)
la domanda di iscrizione (dell'atto o fatto) dovrà essere
respinta, considerandola come non presentata.
Una Pec per ogni impresa. Per ogni impresa (sia essa
societaria o individuale) deve essere iscritto, nel registro
delle imprese, un indirizzo di Pec alla stessa
esclusivamente riconducibile. Qualora, l'ufficio del
registro delle imprese rilevi, d'ufficio o su segnalazione
di terzi, l'iscrizione di un indirizzo Pec, di cui sia
titolare una determinata impresa, sulla posizione di
un'altra o di più altre, dovrà avviare la procedura di
cancellazione (art. 2191 c.c.), previa intimazione,
all'impresa interessata (o alle imprese interessate), di
sostituire l'indirizzo registrato con un indirizzo di Pec
«proprio».
Questo è quanto si legge nella lettera circolare del 09.05.2014, prot. 77684 emanata dal Ministero dello
sviluppo economico. I tecnici di prassi ricordano che le
precedenti indicazioni operative fornite in passato, secondo
cui era possibile, per le imprese, indicare l'indirizzo di
Pec di un terzo ai fini dell'adempimento pubblicitario in
parola, sono da ritenersi ormai superate.
Alle imprese nei cui confronti sia eventualmente adottato il
provvedimento di cancellazione d'ufficio dell'indirizzo di
Pec, dovrà essere applicata: nel caso di società, la
specifica sanzione della sospensione della domanda per tre
mesi, in attesa che sia integrata con l'indirizzo di Pec; e
nel caso delle imprese individuali, la specifica sanzione
della sospensione della domanda fino a integrazione della
domanda con l'indirizzo di posta elettronica certificata e
comunque per quarantacinque giorni. Trascorso tale periodo,
la domanda si intende non presentata.
Doppio inadempimento per le imprese cancellate d'ufficio.
Alle imprese nei cui confronti venga adottato il
provvedimento di cancellazione d'ufficio si applica la
procedura della sospensione e l'applicazione della sanzione
pecuniaria. Infatti nella situazione configurata rilevano
due distinti inadempimenti: il primo (la mancata
comunicazione dell'indirizzo Pec), punito con la sospensione
della domanda; il secondo (il non eseguito adempimento
pubblicitario «principale») punito con la sanzione
amministrativa pecuniaria prevista dagli articoli 2630 (nel
caso di imprese diverse dalle individuali) e 2194 (nel caso
delle imprese individuali) del codice civile. Poiché, nei
casi oggetto di esame, la ritardata iscrizione di un atto o
fatto relativo all'impresa è stata determinata dal
comportamento del legale rappresentante (nel caso delle
società) o del titolare (nel caso delle imprese
individuali), o, per essere più precisi, a detti soggetti è
da ascrivere l'incompletezza della domanda di iscrizione
dell'atto «principale», che ne ha determinato il
respingimento, agli stessi dovrà essere contestata la
violazione delle disposizioni interessate e, se del caso,
comminata la sanzione pecuniaria prevista dalla legge (articolo ItaliaOggi Sette del
21.07.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti verdi su doppia corsia.
Deroghe per residui agricoli, sanzioni light per aree verdi.
Il dl 91/2014 ridisegna i confini della combustione illecita
di scarti da sfalci e potature.
Per i residui verso, l'autosmaltimento procede su una doppia
corsia. La distruzione mediante combustione di sfalci e
potature, infatti, fuori dal regime autorizzatorio dei
rifiuti è, seppur con limitazioni presidiate da pesanti
sanzioni delittuose, permessa alle sole imprese agricole.
Per tutti gli altri soggetti, privati e aziende, il
disfarsene secondo le stesse modalità integra invece la
fattispecie di «combustione illecita di rifiuti» prevista
dall'articolo 256-bis del dlgs 152/2006 (c.d. «Codice
ambientale») sebbene in questo caso punita con sanzioni che
vanno da quelle meramente amministrative a quelle
esclusivamente contravvenzionali.
A ridisegnare
ulteriormente i confini dell'illecito in questione,
introdotto dal dl 136/2013 e poi modificato dalla legge
6/2014, è il dl 91/2014, pubblicato sulla G.U. 24.06.2014 n. 144, in vigore dal giorno successivo e attualmente
in corso di conversione in legge.
Sfalci e potature come «rifiuti». Tutto il variegato
impianto sanzionatorio che punisce la «combustione illecita
di rifiuti» ruota intorno alla volontà del «disfarsi» (o
dell'intenzione di disfarsi) dei materiali in parola, poiché
è tale elemento soggettivo a inquadrarli come tali,
riconducendoli di conseguenza sotto la severa disciplina dei
beni a fine vita prevista dalla parte IV del dlgs 152/2006.
Ove, infatti, l'intenzione del detentore sia quella di
destinare i residui verdi ad altra finalità (come il
recupero energetico o l'utilizzo quale compost), lo stesso
«Codice ambientale» contempla (anche) percorsi diversi, nel
rispetto dei quali detti materiali possono essere gestiti
fuori dal regime dei rifiuti (e quindi dalle relative
sanzioni).
Sotto il profilo sistematico (che si riflette sul
sistema sanzionatorio), gli sfalci e le potature costituenti
«rifiuti» sono classificati in base alla loro provenienza:
rientrano tra gli «urbani» (ex articolo 184, comma 2,
lettera e), dlgs 152/2006) quelli provenienti da aree verdi
(quali giardini, parchi, aree cimiteriali); costituiscono
invece rifiuti «speciali» (ex articolo 184, comma 3, lettera
a), stesso decreto) i residui generati da attività agricole
e agro-industriali condotte ai sensi dell'articolo 2135 del
codice civile.
E loro «combustione illecita». Alla citata dicotomia
classificatoria di sfalci e potature «rifiuti» consegue,
come accennato, una diversa disciplina in relazione alla
loro distruzione mediante abbruciamento in assenza di
apposita autorizzazione pubblica. Ai sensi del nuovo dl
91/2014 (che sul punto ha introdotto un nuovo comma, il
6-bis, al citato articolo 256-bis del dlgs 152/2006) non
costituisce infatti illecito la combustione «in loco» dei
materiali agricoli e forestali derivanti da sfalci, potature
e ripuliture (dunque dei citati «rifiuti speciali»), purché
l'abbruciamento sia condotto in piccoli cumuli e in quantità
giornaliere non superiori ai tre metri cubi per ettaro in
aree, periodi e orari individuati dal sindaco competente per
territorio e comunque al di fuori dei periodi di massimo
rischio incendi dichiarati dalle Regioni.
La combustione
degli stessi residui di origine agricola fuori da detti
parametri potrà però integrare l'illecito previsto dal
citato articolo 256-bis dlgs 152/2006, punito in questo caso
(poiché relativo a «rifiuti speciali») con la pena (base)
della reclusione da 1 a 5 anni (più le eventuali sanzioni
amministrative ex dlgs 231/2001). Il discorso cambia per
sfalci e potature provenienti da «aree verdi» e
classificati, come accennato, tra i «rifiuti urbani». Di
questi non è mai consentito l'autosmaltimento senza
autorizzazione, ma le sanzioni (in caso, dunque, di
«combustione illecita») sono diverse sia per natura che per
misura.
L'abbruciamento illecito dei citati rifiuti vegetali
«urbani» è infatti punito (per espressa previsione
dell'articolo 256-bis, comma 6, stesso decreto) «solo» con
le pene previste dall'articolo 255 del «Codice ambientale»,
così declinate: sanzione amministrativa pecuniaria (di base,
fino a tremila euro) in caso di condotta posta in essere da
soggetti privati; sanzione penale contravvenzionale (di
base, coincidente con l'arresto fino a 1 anno o l'ammenda
fino 26 mila euro) in caso di condotta riconducibile ad
titolari di Enti o imprese.
Sfalci e potature fuori dal regime dei rifiuti. Come
accennato, lo stesso «Codice ambientale» consente in alcuni
casi la gestione degli stessi materiali, sin dalla loro
produzione, fuori dal regime dei rifiuti qualora le finalità
siano diverse dal volersi di loro «disfare». In relazione ai
residui vegetali provenienti da attività agricole l'articolo
185, comma 1, lettera f) del dlgs 152/2006 esclude infatti
dall'ambito di applicazione della disciplina dei rifiuti
«paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo
o forestale naturale non pericoloso utilizzati in
agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di
energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non
danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute
umana».
Questo, è bene precisarlo, ferma restando la
necessità di rispettare le particolari regole sui
sottoprodotti e sul recupero energetico. Pedissequa deroga
(alle regole sul regime dei rifiuti) non trova invece (più)
collocazione nello stesso «Codice ambientale» in relazione
ai residui organici provenienti da aree verdi. La parallela
norma introdotta nello stesso articolo dlgs 152/2006 dalla
legge 129/2010, ai sensi della quale potevano essere gestiti
come sottoprodotti i materiali vegetali provenienti da
manutenzione del verde pubblico e privato, è infatti stata
abrogata dal successivo dlgs 205/2010.
Per tali materiali l'unica forma di riutilizzo espressamente
concessa al di fuori del regime dei rifiuti continua ad
essere dunque quella dell'autocompostaggio effettuato «in
loco» dalle utenze domestiche (ed assimilate), come previsto
dall'articolo 183, comma 1, lettera e) del dlgs 152/2006.
Deroga alla quale può affiancarsi, ma timidamente, quella
dell'utilizzo di ramaglia in barbecue o caminetti come
combustibile. Fattispecie, quest'ultima, non espressamente
contemplata dalla legge (anzi, osteggiata da alcune
amministrazioni locali) ma inquadrabile (a parere di
autorevole dottrina) in una condotta non guidata dalla
volontà di «disfarsi» dei residui organici in parola, quindi
non riconducibile alla gestione di rifiuti (articolo ItaliaOggi Sette
del 21.07.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
INTERVISTA AL MINISTRO FRANCESCHINI/ «Beni
culturali, basta dirigenti a vita».
Dirigenti da
ricollocare, musei da valorizzare, sovrintendenze in cui
fare ricerca con le università, gare sui servizi aggiuntivi
da affidare a Consip, una società pubblica per la gestione
di bookshop e ristoranti dei luoghi d'arte. Per Dario
Franceschini è tempo di consuntivi, con il Dl art-bonus
prossimo al traguardo e la riorganizzazione del ministero.
Perché la valorizzazione del patrimonio non
ha funzionato?
Perché finora c'è stato un dibattito molto ideologico per
cui la tutela è stata scioccamente rappresentata in
contrasto con la valorizzazione. La riforma del ministero
intende, invece, fare in modo che sia un fattore trainante
della crescita. Abbiamo accorpato le sovrintendenze
storico-artistiche con quelle del paesaggio, abbiamo creato
i poli museali regionali e concesso più autonomia ai singoli
musei. Dunque, le sovrintendenze si concentreranno sulla
tutela, rafforzando il legame con le università e il Cnr. Il
modello è quello dei policlinici universitari, che alla
facoltà di medicina affiancano le cliniche universitarie,
dove si fa studio e ricerca anche sul campo.
Nel nostro caso, le facoltà di beni culturali faranno
riferimento alle sovrintendenze come luoghi dove imparare
sul campo. Allo stesso tempo, i musei punteranno di più
sulla valorizzazione. Per questo è stata creata una
direzione centrale dei musei, alla quale faranno riferimento
i poli museali regionali e i singoli musei, a 20 dei quali è
stata affidata maggiore autonomia. Questi ultimi potranno,
grazie alla norma inserita nel Dl art-bonus, selezionare con
procedure pubbliche anche un manager esterno
all'amministrazione. Ma non penso a un manager che fino a un
momento prima si sia occupato di tondini di ferro. Penso a
storici dell'arte, architetti, archeologi, che abbiano anche
un master di gestione museale o che abbiano diretto grandi
musei mondiali.
L'accorpamento delle sovrintendenze
storico-artistiche con quelle del paesaggio ha creato
malumori.
Preoccupazione che non so da dove arrivi. Le sovrintendenze
miste sono già state sperimentate. Non mi sono inventato
nulla.
Avete tagliato 37 dirigenti: 6 di prima
fascia e 31 di seconda. C'è chi resterà a spasso?
No, perché si trattava di posizioni vacanti o ricoperte a
interim.
Le direzioni regionali sono state
depotenziate.
Non avranno più alcuna competenza tecnico-scientifica, che
resta ai sovrintendenti. Saranno rette da dirigenti di
seconda fascia e non più di prima e avranno una funzione di
interfaccia con la regione. Funzione che si esprimerà anche
attraverso il comitato di coordinamento regionale, che si
occuperà pure, secondo una novità contenuta nel decreto
art-bonus, dei pareri dei sovrintendenti, il cui limite è
sempre stato di non poter essere discutibili, se non
impugnandoli davanti ai giudici. Ora si prevede che il
parere possa essere, da parte per esempio del comune,
portato davanti al comitato, che potrà riesaminarlo entro 10
giorni. Si tratta di un forte deterrente, che sbarra la
strada a pareri campati per aria.
Non c'è il rischio di fare un favore a chi
vuole costruire a ogni costo?
Il comitato è tutto interno, formato da cinque dirigenti del
ministero.
Dove finiranno gli attuali sovrintendenti
regionali, che sono dirigenti di prima fascia?
Ho studiato con attenzione la mappa del ministero: era senza
senso, costruita negli anni in base a persone fisiche,
pressioni territoriali, pressioni politiche. L'ho
ridisegnata senza guardare nomi e cognomi. Secondo le regole
attuali, ogni dirigente deve avere un incarico
corrispondente alla propria fascia. Quelli che resteranno
fuori si ricollocheranno e la mia linea sarà di adottare la
massima rotazione. Come si fa nella aziende. Non va bene che
uno stia vent'anni nello stesso posto.
Vedremo tra breve nuove gare per assegnare
i servizi aggiuntivi dei musei?
Sono per la competizione pubblico-privato. In Francia c'è
una società pubblica che gestisce i bookshop e che partecipa
alle gare con le società private. È un bel sistema. Non mi
rassegno al fatto che la parte più redditizia dei musei sia
necessariamente affidata ai privati. Se, però, oggi voglio
competere non dispongo nella pubblica amministrazione di una
società in grado di gestire in modo moderno un bookshop.
Nella prima fase, dunque, si farà, insieme a Consip, una
gara nazionale per selezionare le imprese e poi si procederà
alle gare nei singoli musei, così da interrompere le deroghe
all'infinito. In futuro, però, vorrei si possa formare una
società pubblica in grado di competere con quelle private. È
facile nei grandi musei guadagnare con la gestione del
bookshop o del ristorante: mi piacerebbe ci fosse una
competizione virtuosa pubblico-privato
(articolo Il Sole 24 Ore del
20.07.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Contatori intelligenti e check up nelle imprese.
In Gazzetta Ufficiale il decreto sull'efficienza energetica.
Contatori intelligenti obbligatori, per consentire agli
utenti di monitorare i consumi. Grandi imprese obbligate a
fare il check up dei consumi energetici ogni quattro anni.
Sono solo alcune delle numerose misure contenute nel decreto
legislativo per il recepimento della direttiva europea
2012/27/Ue sull'efficienza energetica, che modifica le
direttive 2009/125/Ce e 2010/30/Ue e abroga le direttive
2004/8/Ce e 2006/32/Ce, dlgs 102 del 04.072014,
pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 165 di ieri e in
vigore già da oggi.
Obiettivo del decreto –spiega la nota
ufficiale della presidenza del Consiglio dei ministri– è la
riduzione della dipendenza dell'Unione dalle importazioni di
energia, sfruttando lo strumento dell'efficientamento
energetico e mettendo in atto azioni volte a dare stimolo
all'economia nell'attuale fase di crisi ed a contrastare i
cambiamenti climatici in atto (si prevede in particolare una
riduzione del 20% del consumo di energia primaria
dell'Unione entro il 2020). Queste le principali misure
contenute nel provvedimento:
• elaborazione di programmi di interventi di medio-lungo
termine per la riqualificazione energetica degli edifici sia
pubblici che privati;
• interventi annuali di riqualificazione energetica sugli
immobili della pubblica amministrazione, a partire dal 2014
fino al 2020;
• obbligo per le grandi imprese e per le imprese energivore
di eseguire una diagnosi di efficienza energetica nei siti
ubicati sul territorio nazionale, da ripetersi ogni quattro
anni;
• obbligo per gli esercenti l'attività di misura di fornire
agli utenti contatori individuali che misurino con
precisione il loro consumo effettivo e forniscano
informazioni sul tempo effettivo d'uso (i contatori
intelligenti);
• elaborazione di un rapporto che miri a individuare le
soluzioni più efficienti per soddisfare le esigenze di
riscaldamento e raffreddamento;
• superamento della struttura della tariffa elettrica
progressiva rispetto ai consumi e adeguamento delle
componenti ai costi dell'effettivo servizio;
• programma triennale di formazione ed informazione volto a
promuovere l'uso efficiente dell'energia (contenente misure
di sensibilizzazione delle pmi all'esecuzione di diagnosi
energetiche e all'utilizzo di strumenti incentivanti
finalizzati all'installazione di tecnologie efficienti,
misure di stimolo di comportamenti che contribuiscano a
ridurre i consumi energetici dei dipendenti della pubblica
amministrazione, misure di sensibilizzazione dell'uso
efficiente dell'energia domestica);
• promozione dei contratti di prestazione energetica, e
introduzione di misure di semplificazione volte a promuovere
l'efficienza energetica;
• istituzione di un Fondo nazionale per l'efficienza
energetica per la concessione di garanzie o l'erogazione di
finanziamenti, a favore di interventi coerenti con il
raggiungimento degli obiettivi nazionali di efficienza
energetica.
Soddisfazione è stata espressa da Assotermica, secondo la
quale il decreto contiene un'importante novità in materia di
evacuazione dei fumi di scarico degli impianti termici e
aumenta significativamente i casi in cui è possibile
scaricare a parete (da 4 a 6), rivedendo le tipologie e le
caratteristiche dei generatori che possono beneficiare di
tale semplificazione
(articolo Italia Oggi
19.07.2014). |
APPALTI - INCENTIVO PROGETTAZIONE: Bandi dei Comuni ancora fermi. Serve una legge per i codici
gara.
Appalti. Dal Dl Pa cancellati i premi per la progettazione.
Scompaiono di
nuovo i «premi Merloni», cioè gli incentivi, fino al 2% del
valore dell'opera, destinati ai dipendenti delle
amministrazioni pubbliche impegnati in attività di
progettazione.
Lo stop è arrivato da uno dei pochi emendamenti al decreto
sulla Pubblica amministrazione approvati dalla commissione
affari costituzionali della Camera.
La modifica, firmata da
Elena Centemero (Forza Italia), cancella del tutto il
meccanismo degli incentivi, e torna quindi alle prime bozze
del decreto Pa: un'ipotesi iniziale abbandonata dal Governo,
che nel testo definitivo aveva cancellato i premi solo per i
dirigenti (in nome della «onnicomprensività» della loro
retribuzione), lasciandoli agli altri dipendenti.
Il "compromesso" scritto nel testo originario del decreto
non era di facile attuazione, perché avrebbe imposto di
riscrivere le regole di distribuzione per adeguarle alla
nuova e più ristretta platea. L'abrogazione tout court, che
certo non farà piacere alle migliaia di dipendenti pubblici
interessati, può essere considerata una buona notizia per
ingegneri e architetti, che trovano per questa via nuove
occasioni di lavoro. Il M5S, però, fa notare un altro
effetto collaterale, legato al fatto che l'affidamento
generalizzato all'esterno rischia di generare costi
insostenibili per le amministrazioni in tempi di spending
review e quindi di sfociare in una «paralisi dei progetti».
Sugli appalti, e più in generale sugli acquisti della
Pubblica amministrazione, già grava peraltro il blocco
prodotto dagli obblighi sugli acquisti centralizzati imposti
a tutti i Comuni non capoluogo dal decreto Irpef. In
Conferenza Stato-Città un accordo fra Governo e Comuni ha
sancito il rinvio delle nuove regole al 2015 (1° gennaio per
beni e servizi, 1° luglio per i lavori), ma la situazione
non si è risolta.
In una lettera inviata a Palazzo Chigi e
al Viminale, infatti, il presidente dell'Autorità
anticorruzione Raffaele Cantone fa sapere di «aver appreso»
dell'accordo in Conferenza, non spiega che l'Anac «non può
esimersi dall'applicazione della disposizione vigente». I
codici identificativi di gara (Cig), indispensabili per
riavviare la macchina, ricominceranno a essere rilasciati
solo dopo «un opportuno intervento normativo», che a questo
punto «appare urgente». L'intesa, in effetti, anticipa un
emendamento che dovrebbe essere presentato al decreto
«competitività» (Dl 91/2014), che però ha appena iniziato il
proprio iter parlamentare. L'approvazione è prevista per
agosto, quindi prima di settembre sarà difficile veder
ripartire gli acquisti.
Con un altro correttivo, la commissione Affari
costituzionali ha escluso gli assessori dal divieto generale
di affidare incarichi retribuiti ai pensionati (articolo Il Sole 24 Ore del
19.07.2014). |
LAVORI PUBBLICI: Al via la trasmissione all'Anac delle varianti approvate
dopo il 25/6.
Al via l'obbligo di trasmettere all' Autorità nazionale
anticorruzione (Anac) le varianti approvate dalle stazioni
appaltanti dopo il 25 giugno; a breve però il parlamento,
nella conversione del decreto-legge 90/2014, modificherà i
contenuti dell'obbligo approvando modifiche, peraltro
richieste dalla stessa Anac, che alleggeriranno gli
adempimenti delle stazioni appaltanti.
È questa la
situazione, in evoluzione, relativa all'applicazione
dell'articolo 37 del decreto-legge 90/2014 in corso di esame
presso la camera. Le stazioni appaltanti si troveranno
quindi in una situazione di scarsa certezza giuridica,
dovendo adesso partire con alcune indicazioni prontamente
fornite dall'Anac ma relative a una norma assolutamente in
progress.
Intanto
è di mercoledì
(16.07.2014) il comunicato del
presidente dell'Authority, Raffaele Cantone, che ha chiarito
alle stazioni appaltanti il contenuto dell'obbligo di
trasmettere all'Anac alcune tipologie varianti in corso
d'opera (escluse quelle per errore o omissione della
progettazione e per esigenze derivanti da sopravvenute norme
di legge) previsto dalla disposizione del decreto 90.
Il
comunicato precisa che dovranno essere trasmesse
all'Autorità anticorruzione le varianti approvate dopo il 25
giugno 2014, data di entrata in vigore del decreto-legge
90/2014. Sono tre le tipologie di varianti: quelle
determinate da cause impreviste o imprevedibili, quelle
derivanti da «sorprese geologiche» idriche e simili, non
previste, che rendono notevolmente più onerosa la
prestazione dell'appaltatore, e infine quelle determinate da
eventi imprevisti o imprevedibili in fase di progettazione.
In questi casi il responsabile del procedimento, dovrà
trasmettere con posta elettronica certificata, o con e-mail
ordinaria, entro 30 giorni dall'approvazione, oltre al Cig
(Codice identificativo gara) relativo al contratto oggetto
di esecuzione tre documenti: una relazione illustrativa,
l'atto di validazione e il provvedimento definitivo di
approvazione della variante.
Non sarà invece necessario
inviare il progetto esecutivo nella sua interezza, pur
dovendo essere a disposizione in caso di richieste di
approfondimenti da parte dell'Anac, ma le stazioni
appaltanti devono essere disponibili a fornirlo qualora gli
uffici dell'autorità lo dovessero richiedere
(articolo ItaliaOggi del
18.07.2014). |
ENTI LOCALI: L'ammutinamento dei mini-enti.
Ignorata la scadenza del 30/6 per le gestioni associate.
Le prefetture stanno scrivendo ai comuni per richiamarli al
rispetto dell'obbligo.
Piccoli comuni al rallentatore sulle gestioni associate. La
scadenza del 30 giugno è stata perlopiù ignorata dalle
amministrazioni interessate, che ora sono concentrate su
quella di fine anno, entro la quale l'intero «core business»
dei mini enti dovrà passare a livello di unione o
convenzione.
Dal prossimo 1° gennaio, inoltre, dovranno essere attivate,
per tutti i comuni non capoluogo, le centrali uniche di
acquisto di beni e servizi, mentre per i lavori la recente
intesa fra stato e autonomie concede tempo fino al 30.06.2015.
L'obbligo di gestire a livello sovraccomunale le funzioni
fondamentali è stato previsto dall'art. 14 del dl 78/2010 ed
interessa tutti i comuni inferiori a 5.000 abitanti, soglia
che scende a 3.000 per quelli appartenenti o appartenuta a
comunità montane.
Le funzioni da associare sono quelle identificate come
fondamentali dalla legge statale: al momento, il relativo
elenco è dettato dall'art. 14, comma 27, del dl 78 (come
sostituito dall'art. 19, comma 1, del dl 95/2012), che ne
enumera 10. Di queste solo una (anagrafe, stato civile e
servizi elettorali) può continuare ad essere gestita
singolarmente, mentre le altre vanno obbligatoriamente
conferite ad una unione di comuni ovvero esercitate tramite
una convenzione.
Il percorso attuativo è stato oggetto di continue proroghe:
al momento, delle 9 funzioni obbligatorie, 3 sono state
associate entro il 31.12.2012, altre 3 avrebbero
dovuto esserlo entro il 30 giugno, mentre per le restanti 3
la scadenza è fissata al 31.12.2014.
I nodi, però, stanno venendo al pettine solo ora, dato che
funzioni già devolute a livello sovraccomunale o erano già
gestite in forma associata (ad esempio, servizi sociali) o
sono piuttosto «leggere» (ad esempio, protezione civile o
catasto). Il vero core business include le funzioni
«pesanti» (come, ad esempio, amministrazione, gestione
finanziaria e contabile e controllo, servizi pubblici
locali, pianificazione urbanistica ecc.) ed è ancora tutto
da trasferire. Così come le procedure di acquisto, che tutti
i comuni non capoluogo (anche se con più di 5.000 abitanti)
devono centralizzare.
Non a caso, il termine del 30 giugno è stato perlopiù
ignorato, anche se non è arrivata la proroga che invece è
stata prevista (anche se non ancora disposta) sulle centrali
uniche.
L'inadempimento, però, non sempre è passato sotto silenzio.
Alcune prefetture, infatti, hanno scritto ai sindaci per
ricordare la scadenza e chiedere notizie sullo stato
dell'arte, ricordando che il mancato adempimento è
sanzionato con il possibile esercizio del potere sostitutivo
del governo attraverso il commissariamento degli enti
inadempienti.
La sensazione, però, è che la maggior parte delle
amministrazioni interessate arrivi impreparata alla
scadenza, complice anche la recente tornata elettorale, che
ha interessato circa 4.000 comuni, molti dei quali soggetti
agli obblighi.
Inoltre, occorre ancora assimilare le numerose novità
introdotte in materia dalla recente l 56/2014. Essa, fra
l'altro, ha modificato la soglia demografica minima che le
forme associative devono raggiungere, che rimane fissata in
10.000 abitanti, ma che ora vale anche per le convenzioni,
oltre che per le unioni. Fanno eccezione le unioni già
costituite, alle quali tale limite non si applica. Per i
comuni montani, la soglia è 3.000 abitanti, ma le eventuali
unioni devono essere formate da almeno tre comuni.
Restano salvi, tuttavia, il diverso limite demografico ed
eventuali deroghe in ragione di particolari condizioni
territoriali, individuati dalla regione. Ciò, si ritiene
(contrariamente a quanto sostenuto da alcune regioni) anche
rispetto alle leggi regionali anteriori alla legge Delrio
(articolo ItaliaOggi del
18.07.2014). |
APPALTI:
Centrale unica, un'opportunità.
La proroga è un toccasana, ma la misura è ineludibile.
L'ampliamento della platea di enti a pochi giorni
dall'entrata in vigore giustifica il rinvio.
Negli scorsi mesi, sulle pagine di questo giornale, abbiamo
affrontato il tema della Centrale unica di committenza,
rilevando il rischio della mancata approvazione della
proroga all'entrata in vigore della struttura prevista
dall'art. 33, comma 3-bis, del dlgs n. 163/2006 contenuta
nel decreto milleproroghe (dl n. 150/2013) e delle
conseguenze che la stessa avrebbe avuto sugli enti locali i
quali avrebbero dovuto provvedere immediatamente alla
costituzione della Centrale unica al fine di ottemperare
agli obblighi di legge.
Oggi questo rischio è stato scongiurato, ma gli enti locali
si trovano nelle medesime difficoltà.
Invero, l'art. 9, comma 4, del decreto legge 24.04.2014,
n. 66 convertito con modificazioni dalla legge 23.06.2014, n. 89 ha novellato quanto disposto in origine
dall'art. 33, comma 3-bis, estendendo l'obbligo di
costituire la Centrale unica di committenza non solo ai
comuni con popolazione inferiore a 5 mila abitanti, ma a
tutti i comuni con eccezione dei capoluoghi di provincia.
Pertanto, a partire dallo scorso primo luglio i comuni non
capoluogo di provincia procedono all'acquisizione di lavori,
beni e servizi nell'ambito delle unioni dei comuni di cui
all'articolo 32 del decreto legislativo 15.08.2000, n.
267, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo
consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei
competenti uffici, ovvero ricorrendo ad un soggetto
aggregatore o alle province, ai sensi della legge 07.04.2014, n. 56. In alternativa, gli stessi comuni possono
effettuare i propri acquisti attraverso gli strumenti
elettronici di acquisto gestiti da Consip spa o da altro
soggetto aggregatore di riferimento.
Orbene, dall'analisi del disposto normativo, oltre
all'estensione dell'ambito di applicazione della Centrale
unica di committenza, emerge chiaramente tutte le tipologie
di affidamento pubblico devono essere gestite dalla nuova
struttura, ivi comprese gli affidamenti sotto soglia
disciplinati dall'art. 125 del Codice degli appalti. L'unica
eccezione è costituita dalla possibilità per gli enti locali
di ricorrere agli strumenti del mercato elettronico gestiti
da Consip spa (MePa) ovvero da un altro soggetto aggregatore
come, a mero titolo d'esempio, le Centrali di committenza
gestite dalle singole regioni.
Tale situazione ha di fatto determinato un temporaneo blocco
dell'attività delle pubbliche amministrazioni locali che, a
partire dall'entrata in vigore della norma, si sono viste
negare dall'Avcp, confluita oggi nell'Anac, la concessione
del Codice identificativo gara a meno che questo non sia
stato richiesto per una procedura esperita attraverso una
centrale unica di committenza ovvero mediante le altre
possibilità offerte dal nuovo testo del comma 3-bis.
La ratio dell'istituzione della Centrale unica risiede nella
volontà del legislatore di fare sistema fra i diversi enti
locali al fine veder realizzare lavori pubblici e di
ottenere servizi e forniture a un prezzo maggiormente
competitivo e con una migliore qualità.
Tuttavia, la scrittura quasi integrale della norma quasi in
concomitanza con l'entrata in vigore definitiva
dell'istituto in commento ha determinato un blocco degli
appalti, atteso che amministrazioni locali si sono trovate
impreparate a far fronte ai nuovi obblighi di legge e in
particolare quegli enti locali che non erano destinatari
della Centrale unica di committenza nella stesura originaria
della norma.
A tal proposito, la Conferenza stato-città e autonomie
locali presso la presidenza del consiglio dei ministri,
chiamata ad affrontare il tema su sollecitazioni dell'Anci e
degli enti locali, ha deliberato nell'ambito della seduta
tenutasi il 10 luglio scorso di differire l'entrata in
vigore della Centrale unica di committenza, così come
novellata dal testo dell'art. 9, comma 4, del dl n. 66/2014,
al 01.01.2015 mediante la proposizione di un emendamento
al dl n. 90/2014 in corso di conversione. Unitamente a ciò,
nella medesima deliberazione si è concordato che l'Anac (Avcp)
riprenda a concedere il Cig agli enti locali secondo la
normativa previgente.
Orbene, le centrali uniche di committenza rappresentano un
ineludibile approdo per gli enti locali le cui finalità è
opportuno che vengano perseguite consentendo alle pubbliche
amministrazioni locali di dotarsi degli assetti
organizzativi adeguati tali da permettere di perseguire con
sempre maggior efficacia e qualità l'interesse pubblico
generale sotteso all'azione amministrativa
(articolo ItaliaOggi del
18.07.2014). |
ENTI LOCALI: Niente terzo mandato ai revisori locali.
Il dl 66 pone fine a un contrasto giurisprudenziale.
Nel silenzio della conversione in legge del dl n.66/2014, il
nostro legislatore introduce ex novo il comma 1-bis
dell'art. 19, che modifica l'art. 235 del Tuel, sancendo in
maniera inequivocabile che i revisori degli enti locali non
possono svolgere l'incarico per più di due volte nello
stesso ente locale. In sostanza: è vietato il terzo mandato.
Oltre a questo, si introduce il comma 6-bis all'art. 241,
che fissa un tetto alle spese di viaggio, vitto e alloggio
del collegio pari al 50% del compenso al netto degli oneri
fiscali e contributivi.
Il divieto al terzo mandato è nella sostanza una
precisazione. Già la precedente norma non lo prevedeva in
maniera esplicita, stando al tenore letterale della vecchia
formulazione dell'art. 235, che affermava che i componenti
del collegio dei revisori erano rieleggibili una sola volta.
In un primo tempo vi era stata una chiusura netta alla
rieleggibilità dei revisori degli enti locali con diverse
pronunce dei giudici amministrativi, come evidenziato anche
dal parere del Cndcec del 15.07.2009.
Nella stesso anno il Consiglio di stato con l'ordinanza n.
5324 cambia orientamento e afferma che la corretta
interpretazione dell'art. 235, c.1, porta ad escludere una
terza rielezione solo qualora questa sia consecutiva, poiché
altrimenti la disposizione sarebbe un irrazionale ed
ingiustificato divieto di elezione a vita per chi ha
ricoperto l'incarico in un ente per due trienni nell'arco
della propria attività professionale.
A dispetto dell'interpretazione del Consiglio di stato e
delle proposte di modifica avanzate in tal senso, arriva con
la conversione del decreto il verdetto definitivo. C'è da
chiedersi che senso abbia questo divieto che avrebbe
consentito, sempre in caso di sorteggio, di sfruttare le
competenze professionali accumulate per un controllo più
efficace.
Ma sembra che il legislatore voglia escludere dai potenziali
sorteggiati i revisori con competenze acquisite, ampliando
la platea dei potenziali fortunati. Ma è possibile basare
l'efficacia dei controlli solo sulla fortuna del sorteggio?
E d'altro canto, quale serio professionista investirebbe in
conoscenza ed esperienze avendo come unico parametro di
riconoscimento la fortuna, peraltro ridotta.
Il tetto alle spese di viaggio, vitto e alloggio sembra poi
ridimensionare l'ambito regionale della nomina dei revisori,
riprovincializzandolo nuovamente. Se questo è il punto a cui
siamo arrivati, forse era meglio lasciare tutto com'era
(articolo ItaliaOggi del
18.07.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Valvole
per il calore, anche in Lombardia sanzioni dal 2017.
Efficienza energetica. Il chiarimento.
Mano a mano
che si avvicina il termine fissato da alcune regioni (in
primis, Piemonte e Lombardia) per l'adempimento degli
obblighi di installare negli immobili situati all'interno di
edifici condominiali le valvole termostatiche e i sistemi di
regolamentazione e contabilizzazione del calore, aumentano
le perplessità ed i dubbi sulla validità dei termini
regionali, in quanto in contrasto con i differenti, e ben
più tranquillizzanti, termini fissati per gli stessi
incombenti dalla legislazione statale.
Nel recepire la direttiva sull'efficienza energetica,
Piemonte e Lombardia avevano legiferato prima di tutti,
fissando rispettivamente al 1° settembre e 01.08.2014 il
termine per l'adeguamento degli impianti condominiali; il
legislatore nazionale è intervenuto di recente fissando il
termine ultimativo per dotare gli impianti condominiali di
termoregolazione a inizio 2017.
Ci si chiede, pertanto, se il termine regionale debba
prevalere su quello statale, e se quindi i piemontesi o
lombardi che non si adeguino entro il 1° settembre o il 01.08.2014 siano passibili di sanzioni.
Proprio per fugare questi dubbi, il consigliere regionale
lombardo Antonio Saggese ha rivolto un'interrogazione
all'assessorato Ambiente.
La direzione generale dell'Assessorato ha ora precisato
sottolineando che «l'articolo 9 della legge regionale
5/2013, pur non prorogando le scadenze previste per
l'installazione dei dispositivi per la termoregolazione e la
contabilizzazione del calore, ha disposto che le relative
sanzioni non potranno essere applicate sino al 31.12.2016».
Pertanto eventuali inadempimenti potranno esser fatti
rilevare dall'ente di controllo come elemento di non
conformità dell'impianto termico, ma non potranno dare luogo
a sanzioni. Queste ultime potranno essere applicate dal 01.01.2017 ma solo per inadempimenti riscontrati a
decorrere dalla stessa data.
In sostanza, in Lombardia rimane l'obbligo di installare i
sistemi di contabilizzazione del calore entro il 1° agosto,
senza tuttavia che gli eventuali trasgressori possano essere
passibili di alcuna sanzione.
Per quanto riguarda il Piemonte, l'Uppi Torino si è rivolta
al presidente della Regione chiedendo che l'obbligo di
dotarsi di sistemi che consentano la contabilizzazione del
servizio calore venga rinviato visto la difficile
congiuntura economica.
L'Uppi, in particolare, fa presente che le spese relative
alla trasformazione degli impianti sarebbero in buona
sostanza tutte a carico dei condomini "virtuosi" e in regola
con il pagamento delle spese condominiali, che dovrebbero
per non contravvenire alla legge ed evitare le sanzioni che
diversamente graverebbero sul condominio, farsi carico anche
delle quote non onorate dai (sempre più frequenti) condomini
morosi.
(articolo Il Sole 24 Ore del
18.07.2014). |
ENTI LOCALI: Province kaputt ma in funzione.
La legislazione strabica finisce per dar torto a se stessa.
Da una parte lo Stato le ha abolite ma dall'altra ingiunge
loro di assicurare i servizi.
Le province nel periodo transitorio dell'attuazione della
legge Delrio debbono continuare ad assicurare i loro
servizi. Parola del ministro per gli affari regionali, Maria
Carmela Lanzetta, che lo ha ricordato in una, per certi
versi sconcertante, nota rivolta ai presidenti delle giunte
provinciali dello scorso 26 giugno, n. 98/gab.
La nota, a
prima vista, non aggiunge nulla a quanto già prevede
l'articolo 1, comma 89, della legge 56/2014, laddove si
stabilisce «[_] le funzioni che nell'ambito del processo di
riordino sono attribuite dalle province ad altri enti
territoriali continuano ad essere da esse esercitate fino
alla data dell'effettivo avvio di esercizio da parte
dell'ente subentrante».
Tuttavia, la nota del Ministro Lanzetta afferma che la
previsione normativa citata «è di massima importanza con
riferimento all'esercizio di molte funzioni svolte a livello
provinciale o alle quali le province, o talune di esse,
concorrono».
Improvvisamente, dunque, a processo di revisione delle
province largamente avviato, il governo, per voce del
ministro per gli affari regionali, «scopre» che le province
stesse gestiscono «servizi a favore dei cittadini» e che
tali funzioni sono «molte» e, su tutte, «quelle correlate
alla sicurezza della popolazione» (ad esempio in materia di
prevenzione e gestione del rischio idro-geologico e del
rischio sismico). La nota conclude auspicando «la piena
operatività della struttura e la continuità dei servizi».
Peccato, però, che il Governo, a proposito di province, non
brilli per coerenza. Infatti, mentre il ministro per gli
affari regionali auspica la continuità dei servizi, c'è
nella legge Delrio una previsione che inchioda proprio
l'attività ordinaria di tutti i servizi: il richiamo, cioè,
dell'articolo 163, comma 2, del d.lgs 267/2000 che impone
alle province la gestione provvisoria, come se non avessero
approvato il bilancio, fino al subentro dei nuovi presidenti
e consigli.
Da un lato, dunque, la legge Delrio blocca totalmente ogni
attività con la gestione provvisoria, mentre il «decreto
Irpef», il d.l. 66/2014 convertito in legge 89/2014, chiede
alle province un taglio di spesa corrente per contratti
quasi 8 volte superiore a quello richiesto ai comuni;
dall'altro, una nota del ministro per gli affari regionali
auspica la normale gestione delle molte attività delle
province, come se nulla fosse o come se le disposizioni
normative vigenti fossero un semplice corredo.
È il segnale ulteriore del modo caotico col quale la riforma
è stata pensata, adottata ed, ora, gestita. Infatti, è
scaduto da oltre una settimana il termine per il Dpcm che
dovrebbe indicare appunto quali funzioni (tra le «molte»
«a favore dei cittadini») espletano le province
dovrebbero essere attribuite ai comuni da parte dello Stato.
Il decreto dovrebbe vedere la luce entro la fine di luglio,
ma sembra evidente che sulla materia si navighi a vista
(articolo ItaliaOggi del
17.07.2014 - articolo tratto da
www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: Gare d'appalto a misura di piccola impresa.
Lavori. Le tre proposte di Unindustria.
Tre proposte,
per aumentare la partecipazione delle piccole imprese agli
appalti pubblici. «Tra i grandi Paesi europei l'Italia è
quello che ha una maggiore differenza tra la quota delle
piccole imprese nell'economia e la loro percentuale di
successo negli appalti pubblici», ha detto Angelo Camilli,
presidente della Piccola industria di Unindustria (le
imprese laziali) nel corso dell'assemblea annuale.
La crisi
economica ha fatto sentire il suo peso: nel 2007 c'erano
55mila Pmi in grado di partecipare al mondo degli appalti,
ha detto Alberto Baban, presidente della Piccola industria
di Confindustria. Nel 2013 questo numero è sceso a 45mila e
il rischio è che possano restare nel circolo virtuoso, con
le regole di Basilea 3, solo poco più di mille aziende.
È
necessario agire, ha detto Baban, che ha recepito le
proposte di Camilli: e cioè dividere gli appalti di
dimensione più rilevante in lotti più piccoli, (la Regione
Lazio potrebbe attivarsi, in attesa di normative nazionali);
una seconda misura riguarda la possibilità di riservare
determinati contratti pubblici alle Pmi, seguendo l'esempio
statunitense e andrebbe estesa a tutte le Pmi europee per
evitare rischi di discriminazione degli altri stati membri.
Infine si potrebbe prevedere un obbligo per le grandi
imprese, in caso di appalti consistenti, di avvalersi per
una parte del contratto a una o più Pmi. Riattivare la
domanda interna è fondamentale per reagire alla situazione
economica, «l'acquisizione di beni e servizi da parte della
Pa è un tema fondamentale. Siamo convinti che la domanda
pubblica possa determinare effetti positivi per la crescita
dell'economia», ha continuato Camilli.
Fermo restando che l'obiettivo per le Pmi sia quello di
crescere, come ha sottolineato il presidente di Unindustria,
Maurizio Stirpe. «Oggi non si può fare a meno di una
crescita dimensionale che si può realizzare in modo
personale oppure con alleanze di tipo orizzontale, come i
consorzi, o verticali, come le filiere lunghe». In questi
anni, ha evidenziato Stirpe, c'è stata una riduzione della
committenza pubblica nel Lazio.
Il presidente della Regione,
Nicola Zingaretti, ha annunciato, nel suo videomessaggio, un
rilancio: venerdì, con la nuova programmazione, saranno
annunciati 600 milioni in più e si arriverà ad una cifra di
2 miliardi 600 milioni. Ha anche annunciato che sui tempi
dei pagamenti il Lazio nel 2015 si avvicinerà agli standard
europei. C'è stato un recupero anche sull'utilizzo dei fondi
Ue: da ultimo, nel dicembre 2013 il Lazio si è posizionato
tra le prime tre Regioni
(articolo Il Sole 24 Ore del
17.07.2014). |
LAVORI PUBBLICI:
Appalti, all'Anac le varianti approvate dal 25 giugno.
Anticorruzione. Le istruzioni sulle verifiche dei lavori.
Le stazioni
appaltanti devono comunicare all'Autorità nazionale
anticorruzione l'adozione di tutte le varianti in corso
d'opera approvate dal 25 giugno in poi, trasmettendo
un'ampia serie di documenti.
Con il
comunicato del presidente
16.07.2014, l'autorità anticorruzione
fornisce le indicazioni per la corretta applicazione delle
verifiche introdotte dall'articolo 37 del Dl 90/2014.
La disposizione stabilisce che entro 30 giorni
dall'approvazione delle varianti, l'amministrazione
trasmette il progetto esecutivo, l'atto di validazione e una
relazione del responsabile del procedimento.
Il comunicato del presidente dell'Anac specifica gli atti
che devono essere forniti all'Autorità, individuandoli nella
relazione del responsabile del procedimento, nel quadro
comparativo di variante, nell'atto di validazione e nel
provvedimento definitivo di approvazione: non è quindi
compreso nel set documentale l'intero progetto esecutivo, ma
le stazioni appaltanti devono essere disponibili a fornirlo
qualora gli uffici dell'autorità lo richiedano.
Nei vari documenti da trasmettere deve essere indicato,
qualora non già presente, il codice identificativo gara (Cig).
La disposizione richiede l'invio delle varianti determinate
da cause impreviste e imprevedibili, da eventi inerenti alla
natura e alla specificità dei beni sui quali si interviene
verificatisi in corso d'opera, da rinvenimenti imprevisti o
non prevedibili nella fase progettuale, nonché quelle
causate da difficoltà di esecuzione derivanti da cause
geologiche, idriche e simili, non previste, che rendano
notevolmente più onerosa la prestazione dell'appaltatore
(fattispecie regolata dall'articolo 1664, comma 2, del
Codice civile).
Non devono pertanto essere inviate le varianti derivanti da
nuove disposizioni legislative o causate da errori
progettuali.
L'obbligo previsto dall'articolo 37 riguarda peraltro solo
le varianti per lavori pubblici, non comprendendo quelle per
appalti di beni e servizi, disciplinate dagli articoli 310 e
311 del Dpr 207/2010.
La stessa Anac, nel documento di osservazioni inoltrato al
Governo sulle disposizioni del Dl 90/2014, ha sollecitato
una modifica normativa che circoscriva sotto il profilo
dimensionale il novero delle varianti sottoposte alla sua
analisi: in base alla disposizione, infatti, ogni variante
rientrante nelle tipologie previste deve essere trasmessa,
anche se di importo modesto, mentre l'autorità ha suggerito
di inserire nella norma una soglia di riferimento (pari a 5
milioni di euro).
La comunicazione e l'invio della documentazione riguarda le
varianti approvate a far data dal 25 giugno (data di entrata
in vigore del Dl 90/2014).
L'inoltro degli atti dovrà essere effettuato entro trenta
giorni dall'approvazione, preferibilmente mediante posta
elettronica certificata e, se non possibile, mediante posta
ordinaria, specificando comunque nell'oggetto l'invio i
riferimenti della norma e il Cig dell'appalto
(articolo Il Sole 24 Ore del
17.07.2014 - articolo tratto da
www.centrostudicni.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Il pensionato non fa l'assessore.
Divieto alle p.a. di conferire cariche in organi di governo.
Per limitare gli incarichi dirigenziali il dl 90 crea un
pasticcio che la camera dovrà risolvere.
Fuori i pensionati dalle giunte. Va bene l'esigenza di
svecchiare la politica e di ringiovanire i ruoli della p.a.,
ma questa volta sembra proprio che il governo Renzi abbia
esagerato nell'opera di rottamazione, arrivando a vietare ai
pensionati, non solo pubblici ma anche privati, di ricoprire
l'incarico di assessore nei comuni.
È questo l'effetto di una norma, inserita nella riforma
della pubblica amministrazione (dl 90/2014) e passata
piuttosto inosservata.
Non però agli addetti ai lavori, già in fibrillazione per i
possibili impatti sugli organi di governo locale. Per il
momento infatti il divieto è pienamente in vigore, anche se
in parlamento fioccano le proposte di modifica che invitano
il governo a un rapido dietrofront.
Nella lodevole intenzione di limitare il conferimento di
incarichi dirigenziali a chi è andato in pensione, il dl 90
ha modificato il decreto spending review di Mario Monti (dl
95/2012) stabilendo che è fatto divieto alle p.a. centrali e
locali non solo di «attribuire incarichi di studio o
consulenza a lavoratori privati o pubblici in quiescenza»,
ma anche di «conferire ai medesimi soggetti incarichi
dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo
delle amministrazioni».
A far discutere è proprio quest'ultimo inciso che, seppur
probabilmente pensato per svecchiare i cda delle aziende
pubbliche, nella sua attuale formulazione chiude le porte
delle giunte ai pensionati. A meno che gli incarichi non
vengano assunti a titolo gratuito.
L'art. 5, comma 9, del dl 95/2012 (così come modificato
dall'art. 6 del dl 90/2014) esclude dall'applicazione del
divieto gli incarichi e le cariche presso «organi
costituzionali», ma in questa definizione non possono
trovare posto i comuni che, pur essendo previsti in
Costituzione (art. 114), non assurgono al ruolo di organi
costituzionali.
Dubbi di incompatibilità potrebbero anche sorgere con
riguardo ai consiglieri comunali, titolari anch'essi di
cariche di governo, anche se si fa notare che costoro sono
tali per investitura popolare e non per nomina.
Ecco perché nel corposo fascicolo di emendamenti (1850 in
tutto) alla riforma p.a., depositati in commissione affari
costituzionali alla camera, hanno fatto capolino molte
proposte di modifica all'art. 6, volte o a cancellare del
tutto il divieto o a limitarlo esclusivamente al
conferimento di incarichi di studio o consulenza. Come
annunciato dal presidente della commissione, Francesco Paolo
Sisto (Forza Italia), il voto sulle proposte di modifica
giudicate ammissibili inizierà oggi pomeriggio e in
quest'ottica i deputati del Pd in prima commissione si
vedranno per sciogliere gli ultimi nodi riguardanti, in
particolare, la soppressione delle sedi distaccate dei
Tribunali amministrativi regionali, la riduzione degli oneri
per le imprese delle Camere di commercio, la mobilità
obbligatoria, l'accesso alla pensione per gli esodati della
scuola (la cosiddetta «Quota 96») e la razionalizzazione
delle sedi delle Autorità indipendenti.
Il governo per il momento sta alla finestra. «Siamo
disponibili a miglioramenti», ha spiegato il ministro
Marianna Madia, «ma vediamo prima il dibattito in
Commissione e le prime votazioni». Le proposte
dell'esecutivo potrebbero essere presentate anche a firma
del relatore, Emanuele Fiano e dovrebbero recepire alcune
delle richieste contenute negli emendamenti parlamentari. Se
così fosse, il Pd potrebbe ritirare i suoi emendamenti
(circa 500) per lasciare spazio alle modifiche
dell'esecutivo. Ma sarà la riunione dei deputati democratici
a decidere sul punto
(articolo ItaliaOggi del
16.07.2014). |
APPALTI: Acquisti centralizzati, tutti vogliono la proroga.
Recepita l'intesa del 10 luglio in Conferenza Stato-città.
Rinvio a fine 2014 dell'entrata in vigore dell'obbligo per i
comuni non capoluogo di provincia di ricorrere a centrali di
committenza per l'affidamento di contratti pubblici e
dell'obbligo di «performance bond» per gli appalti integrati
oltre i 100 milioni; posticipo dell'Avcpass a inizio o a
metà 2015. Trasmissione delle varianti in corso d'opera all'Anac
ma soltanto per appalti sopra soglia e di importo superiore
al 10% del contratto.
Sono queste alcune delle proposte
bipartisan contenute negli emendamenti presentati dai
diversi gruppi parlamentari, in commissione affari
costituzionali, al decreto-legge 90/2014.
La materia più
delicata sulla quale anche il governo nei giorni scorsi ha
anticipato un intervento riguarda la proroga di alcune
disposizioni entrate in vigore il primo luglio, in primis
l'obbligo per tutti i comuni non capoluogo di provincia di
acquisire lavori, beni e servizi attraverso le centrali di
committenza, la Consip, gli accordi consortili, o le unioni
di comuni (previsto dall'articolo 9 della legge 89 che in un
comma sostituisce integralmente il comma 3-bis dell'articolo
33 del codice dei contratti pubblici).
In queste prime due
settimane l'applicazione della norma ha determinato una vero
e proprio blocco delle gare perché i comuni sono molto in
ritardo nell'organizzarsi e anche le centrali di committenza
regionali spesso non risultano costituite e operative. Il
problema è così rilevante che con una intesa siglata il 10
luglio la Conferenza stato-città-enti locali è stata
richiesta una proroga da apportare in conversione del
decreto 90/2014 e, nel frattempo, ha chiesto all'Anac di
concedere ai comuni il Cig (codice identificativo gara) per
ogni tipo di affidamento, indipendentemente dall'importo,
nonostante il divieto di cui alla legge n. 89.
La richiesta
di modifica è stata però accolta da tutti i gruppi
parlamentari che hanno proposto di proroghe (che saranno
appoggiate dal governo) a fine 2014 per gli appalti di
forniture e servizi e a metà 2015 per i lavori. In alcuni
casi si chiede anche di ripristinare la possibilità di
affidamento in amministrazione diretta e in economia da
parte dei comuni, dopo che la stessa legge 89 aveva
eliminato questa possibilità. Un secondo motivo di blocco
degli appalti è stato poi individuato nella messa a regime
(sempre dal primo luglio) del sistema di verifica dei
requisiti dei concorrenti fondato sulla banca dati nazionale
dei contratti pubblici (con lo strumento dell'Avcpass), un
sistema che ha diversi problemi applicativi e che vede anche
in questo caso, le stazioni appaltanti molto indietro: qui
la proroga proposta da maggioranza e opposizione è a fine
2014 o a metà 2015.
Il rinvio a fine 2014 viene poi proposto
per l'obbligo di applicare la garanzia globale di esecuzione
a tutti gli appalti integrati oltre i 100 milioni e
(facoltà) agli appalti di sola esecuzione oltre i 75
milioni, norma del codice sospesa da anni, entrata però in
vigore il 1° luglio. Molti emendamenti anche alle norme che
riguardano l'Autorità anticorruzione presieduta da Raffaele
Cantone, fra cui quelli tesi a mitigare l'obbligo di
trasmissione delle varianti all'Anac (soltanto per appalti
sopra soglia e oltre un determinato importo).
Alcune
proposte attribuiscono poi all'Anac anche il compito di
gestire un elenco dei commissari di gara per le
aggiudicazioni degli appalti, da scegliere a sorteggio e a
rotazione. Sull'articolo 13 (divieto di incentivo del 2%
limitato ai dirigenti tecnici della p.a., gli emendamenti
sono invece del tutto divergenti: si va dalla soppressione
alla modifica e all'estensione anche agli impiegati)
(articolo ItaliaOggi del
16.07.2014). |
APPALTI: Protocollo legalità: «Stop all'appalto se c'è corruzione».
Trasparenza. Firma al Viminale tra Alfano e Cantone.
Il numero uno
dell'Anticorruzione, Raffaele Cantone, la definisce «una
rivoluzione copernicana». E il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, annnuncia: «Attueremo la linea dura contro
i corrotti usando le stesse misure di prevenzione previste
per i mafiosi». Certo è che le prefetture da oggi devono
essere in prima linea contro le infiltrazioni di tangenti e
corruttori negli appalti pubblici.
Al Viminale ieri Cantone e Alfano hanno firmato il
protocollo d'intesa che adotta le linee guida
anticorruzione: fornisce indicazioni esecutive ai prefetti
sulla base del decreto legge 90/2014. Norma che prevede,
come aveva invocato Cantone, di integrare i poteri di
controllo anti-infiltrazione mafiosa dei prefetti con un
analogo meccanismo in funzione anti-corruzione nelle gare
pubbliche.
Così, per definire norme ancora più severe contro
le infiltrazioni mafiose, i protocolli di legalità stipulati
finora dalle prefetture con i soggetti coinvolti nella
gestione dell'opera pubblica –contraente generale, stazione
appaltante e operatori della filiera dell'opera– d'ora
innanzi dovranno contemplare anche condizioni di trasparenza
e di legalità non solo in funzione antimafia. Con una novità
decisiva: l'introduzione della clausola in capo alla
stazione appaltante che può risolvere il contratto (articolo
1456 codice civile) «ogni qualvolta l'impresa non dia
comunicazione del tentativo di concussione subito,
risultante da una misura cautelare o dal disposto rinvio a
giudizio nei confronti dell'amministratore pubblico
responsabile dell'aggiudicazione» come si legge nel testo.
Tanto che, sottolinea Cantone, «ho raccomandato alla società
Expo di firmare subito il protocollo di legalità in modo che
in tutti i bandi futuri sia prevista la risoluzione del
contratto in presenza di fatti corruttivi: questa regola
avrebbe evitato tanti problemi verificatisi finora».
In generale i prefetti, d'intesa con l'Anac (autorità
nazionale anticorruzione), che lo richiede, adottano misure
di intervento –fino alla gestione straordinaria– nei
confronti dell'impresa coinvolta nei fatti di corruzione.
L'obiettivo principale resta «garantire l'esecuzione del
contratto pubblico nei tempi previsti». Per i prefetti in
effetti è una sfida senza precedenti ma Cantone conta
proprio sull'autorevolezza e l'impegno di questa figura
istituzionale per incidere sul territorio in prevenzione
anticorruzione, che è poi la grande scommessa dell'Anac.
Le prefetture, in base al recente Ddl sul riordino della Pa,
accorperanno le altre strutture dello Stato in sede locale e
rilanceranno il modello dell'Utg (ufficio territoriale del
governo). I prefetti, che «eventualmente, dice la norma»,
come ricorda Alfano, entreranno nel ruolo unico della
dirigenza statale, rappresentano tuttavia per il ministro
dell'Interno «una specialità che si fonda su un insieme di
competenze insostituibile nel sistema Italia».
Insomma,
forse non entreranno in un serbatoio unico dei dirigenti
statali. Ma serve, dice Alfano, «un'apertura alla riforma
che potrà salvare il ruolo delle prefetture anche in
futuro» (articolo Il Sole 24 Ore del
16.07.2014). |
CONDOMINIO:
L'amministratore attiva il Pos.
Servizi. È possibile che il condòmino voglia pagare con la
moneta elettronica i ratei di spese.
L'onere di
accettare, sopra i 30 euro, i pagamenti con carta bancaria
coinvolge (almeno in teoria) anche gli amministratori di
condominio. Che, al pari degli altri professionisti, di
fronte a esplicita richiesta da parte di un cliente, non
potrebbero rifiutarsi di incassare tramite pos le rate di
pagamento. Sia quelle che comprendono il compenso
professionale vero e proprio, sia quelle relative alla
"prestazione di servizi", avendo l'amministratore un ruolo
di esattore dei contributi condominiali come mandatario del
condominio.
In caso di rifiuto, non è prevista per legge una specifica
sanzione. Tuttavia -ben consapevoli che si sta ragionando
su situazioni marginali e che potrebbero non accadere- il
diniego potrebbe essere considerato "illegittimo" e far
scattare la mora del creditore.
Ma ripercorriamo il quadro. L'articolo 15, comma 4, del Dl
179/2012 dispone, nella sua ultima versione, che «a
decorrere dal 30.06.2014 i soggetti che effettuano la
vendita di prodotti e di prestazioni di servizi, anche
professionali, sono tenuti ad accettare anche pagamenti
effettuati attraverso carte di debito». Tale disciplina si
applica a tutte le professioni. Comprese quelle non
organizzate in ordini o collegi, di cui all'articolo 1,
secondo comma, della legge 4/2013; quindi anche agli
amministratori. Che, per deduzione, in linea di principio
dovrebbero dotarsi di pos per l'incasso dei propri compensi.
Anche se solitamente l'amministratore paga da sé il proprio
compenso, con bonifico dal conto condominiale che ha in
gestione.
Siccome la legge parla di pagamenti elettronici anche per
"prestazioni di servizi", in teoria nel suo ruolo di
esattore delle quote dovute dai condomini, l'amministratore
dovrebbe accettare il pagamento anche con carta per le rate
delle spese condominiali, incassando le somme sul conto
condominiale.
Ovviamente, i dubbi restano. E discendono da una norma che
già di per sé non appare del tutto chiara. A iniziare dal
fatto che il decreto 179 non fissa alcuna specifica sanzione
a fronte di un diniego.
Tuttavia, volendo leggere le nuove disposizioni sotto tutti
i risvolti teorici che comportano, un qualche rischio
residuale esiste. Ove infatti il professionista non sia
dotato di Pos e il condomino lo richieda, potrebbe
configurarsi un "illegittimo rifiuto" a ricevere una
prestazione, a norma dell'articolo 1206 del Codice civile.
Che recita: «il creditore è in mora quando, senza motivo
legittimo, non riceve il pagamento offertogli nei modi
indicati o non compie quanto necessario affinché il debitore
possa adempiere l'obbligazione». E che, nel successivo
articolo 1207, parla anche di interessi aboliti e
risarcimento danni.
Stando così le cose, occorre ribadire che per essere certi
di non incorrere nel rischio, sarebbe buona norma per
l'amministrare dotarsi di uno strumento (pur non
obbligatorio) per i pagamenti elettronici. Oppure, in
alternativa al pos e secondo una strada più pratica, che
mette al riparo da qualsiasi problema di illegittimo rifiuto
della prestazione, potrebbe far deliberare dall'assemblea
con una decisione (preferibilmente assunta all'atto della
nomina), che stabilisca una volta e per sempre che tutti i
pagamenti di condominio all'amministratore si effettuano a
mezzo mav bancario, bonifico bancario, contante o altre
modalità, nel rispetto del Dlgs 231/2007. Il quorum per
legittimare tale decisione sarà quello dei 500 millesimi e
la maggioranza degli intervenuti in seconda convocazione ove
la decisione sia presa successivamente alla nomina (articolo Il Sole 24 Ore del
15.07.2014). |
SICUREZZA LAVORO: Obbligo d'esame per i corsi online.
Salute e sicurezza. Se è a distanza.
Se la formazione in materia di salute e sicurezza sul
lavoro è erogata con modalità tradizionale, in aula, non è
obbligatoria la verifica finale, viceversa se avviene con
modalità e-learning, la verifica è obbligatoria.
Questa
l'indicazione fornita dal ministero del Lavoro con
l'interpello 11.07.2014 n. 12.
Sempre in tema di formazione, il ministero ha precisato che
qualsiasi associazione senza finalità di lucro riconosciuta
dall'ordine o collegio professionale di riferimento può
rientrare tra i soggetti formatori (interpello 10).
Inoltre
le associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei
lavoratori, gli enti bilaterali e gli organismi paritetici
possono effettuare attività formative e di aggiornamento
direttamente o avvalendosi di strutture di loro diretta
emanazione, includendo quelle effettuate tramite contratti
di associazione e partecipazione in base all'articolo 2549
del codice civile, in quanto in tal caso l'attività
formativa resta di diretta gestione dell'associante tramite
l'associato (interpello 14).
Edilizia
Con l'interpello 13, invece, il ministero afferma che in un
cantiere possono essere presenti più imprese affidatarie in
quanto il committente può stipulare più contratti. Fermo
restando che l'impresa affidataria può eseguire direttamente
l'opera, con la propria organizzazione, ovvero concederla in
subappalto in tutto o in parte a imprese esecutrici e/o
lavoratori autonomi, cadrà su di essa l'obbligo di
verificare le condizioni di sicurezza dei lavori affidati.
La valutazione dell'idoneità tecnico professionale
dell'impresa affidataria da parte del committente varia a
seconda che questa abbia concesso i lavori in subappalto o
li esegua direttamente. Nel primo caso la verifica
riguarderà il possesso delle capacità organizzative; nella
seconda ipotesi riguarderà anche le capacità organizzative e
la disponibilità di risorse umane e materiali, in relazione
all'opera da realizzare, da parte delle imprese esecutrici.
Polizia e Vigili del fuoco
Anche nei confronti del personale della Polizia di Stato,
del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco e degli uffici
centrali e periferici dell'amministrazione della pubblica
sicurezza e della protezione civile, devono essere garantite
le condizioni di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro,
comprese quelle relative allo stress lavoro-correlato, che
non possono essere derogati anche in presenza di
«particolari esigenze connesse al servizio espletato».
L'attività di prevenzione consisterà nell'individuazione di
tutti i rischi presenti all'interno dei luoghi di lavoro o
ai quali gli stessi lavoratori possono essere esposti
durante lo svolgimento delle loro mansioni, concordata con
il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (Rspp)
e medico competente. Ferma restando la facoltà, per il
datore di lavoro, di delegare i compiti relativi alla
sicurezza (con esclusione della nomina del Rspp, valutazione
dei rischi e redazione del relativo documento).
Perché la
delega sia efficace occorre osservare le condizioni ex
articolo 16 del Testo unico: il delegato deve possedere i
requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla
specifica funzione e deve avere l'autonomia di spesa
necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate (articolo Il Sole 24 Ore del
15.07.2014 - articolo tratto da
www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Riforma degli appalti in arrivo in Cdm.
L'esame il 21 luglio. ma il parlamento vorrebbe una delega
autonoma.
Il 21 luglio il Consiglio dei ministri esaminerà la delega
per il recepimento delle direttive appalti pubblici e la
riforma del codice dei contratti, ma non c'è accordo fra
Governo e Parlamento che vorrebbe una delega autonoma dal
disegno di legge europea in corso di approvazione; per
Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac), la nuova legge dovrà essere scritta
senza ascoltare la lobby dei costruttori.
Sono questi alcuni dei punti emersi ieri nel corso del
convegno organizzato alla Camera dal gruppo parlamentare del
Partito democratico dal titolo «Appalti pubblici e
corruzione: dalla legittimità formale alla legalità
sostanziale».
È stato il viceministro delle infrastrutture Riccardo
Nencini ad anticipare che il governo esaminerà la norma di
delega nel corso del Consiglio dei ministri programmato per
il 21 luglio per farla approvare con la legge europea
2013-bis in corso di esame da parte del Parlamento.
Questa ipotesi però è stata subito bocciata dal presidente
della Commissione lavori pubblici della Camera, Ermete
Realacci che, per le numerose e profonde modifiche che
saranno apportate, ha chiesto un disegno di legge delega
autonomo che consenta alle commissioni di esaminare a fondo
la materia (ma così ci vorrà più tempo).
In precedenza il viceministro Nencini aveva chiarito che la
delega, una volta approvata dal Parlamento «servirà per
recepire le direttive e asciugare profondamente ciò che è
stato scritto in passato»; il tutto per potere completare la
riforma entro un anno da oggi, «affrontando con
determinazione anche il tema delle opere incompiute e
lavorando sul tema della qualità progettuale».
Per il presidente Cantone, «dopo Tangentopoli non si è mai
più intervenuti per prevenire la corruzione, ma si è
proceduto allo smantellamento del sistema dei controlli».
Sul tema della riforma degli appalti Cantone ha affermato
che «non si può tenere in vita un codice che vale soltanto
per i lavori di serie B, mentre le grandi opere vanno sempre
in deroga».
Infine Cantone ha invitato Governo e Parlamento «a non
perdere questa grande occasione e soprattutto a fare sì che
le regole non siano scritte dalla lobby dei costruttori».
Secca la replica di Paolo Buzzetti dell'Ance: «Non mi trovo
d'accordo: dopo il '92 abbiamo preso atto di dover proporre
cose per il paese»
(articolo ItaliaOggi del
15.07.2014 - articolo tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Via ai moduli unificati per la Scia e i permessi.
Via libera ufficiale alla modulistica unificata per permessi
di costruire e Scia (segnalazione certificata di inizio
attività). I modelli sono allegati al testo dell'accordo 12.06.2014 in Conferenza unificata, pubblicato ieri sulla
G.U. n. 161-supplemento ordinario n. 56 (si veda ItaliaOggi
del 18 giugno scorso).
Queste le indicazioni dell'accordo: le Regioni, ove
necessario, adeguano in relazione alle specifiche normative
regionali di settore, i contenuti dei quadri informativi dei
moduli su permessi di costruire e Scia; i comuni adeguano la
modulistica in uso sulla base delle previsioni dell'accordo;
le regioni e i comuni garantiscono la massima diffusione dei
moduli i quali, ove necessario, sono aggiornati sulla base
di successivi accordi che saranno assunti sempre in sede di
Conferenza unificata
(articolo ItaliaOggi del
15.07.2014 - articolo tratto da
www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Autotutela con tempi più certi. Provvedimenti
annullabili d'ufficio entro due anni.
RIFORMA P.A./ Assunzioni bloccate per chi non
garantisce l'accesso online dei dati.
Autotutela in tempi certi. I provvedimenti della pubblica
amministrazione potranno essere annullati d'ufficio entro
due anni dalla produzione degli effetti (se si tratta di
provvedimenti di autorizzazione) o dal momento in cui sono
stati attribuiti vantaggi economici. Ha finalmente una
durata certa il «termine ragionevole», previsto dalla legge
n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, per il
ripensamento da parte della p.a.
In materia di segnalazione certificata di inizio attività,
la pubblica amministrazione potrà fare dietrofront quando ci
sia da prevenire il pericolo di danni alla salute, alla
sicurezza pubblica o al patrimonio artistico, culturale e
ambientale.
Nel secondo passaggio in consiglio dei ministri, il
disegno di legge sulla «riorganizzazione
delle amministrazioni pubbliche» (precedentemente
ribattezzato «Repubblica semplice»), messo a punto
dal ministro Marianna Madia, si è arricchito di molte novità
che dovrebbero semplificare la vita a cittadini e imprese.
Attraverso la digitalizzazione ma anche attraverso strumenti
acceleratori quali il silenzio assenso, la Scia,
l'autotutela e la conferenza di servizi che si potrà fare
online e non sarà sempre obbligatoria.
Le p.a. saranno tenute a garantire l'accessibilità online
alle informazioni e ai documenti in loro possesso. Chi non
lo farà non potrà procedere a nuove assunzioni a tempo
indeterminato.
La conferenza dei servizi non costituirà sempre un passaggio
obbligato e potrà anche svolgersi attraverso l'utilizzo di
strumenti informatici. Quando un'amministrazione statale
deve fornire il proprio assenso, concerto o nulla osta per
l'adozione di un provvedimento, sarà tenuta a farlo entro 30
giorni dalla richiesta, trascorsi i quali l'ok dovrà
intendersi acquisito. E in caso di mancato accordo tra le
amministrazioni, interverrà la presidenza del consiglio
decidendo sulle modifiche da apportare.
Il ddl disegna tempistiche diverse a seconda degli
interventi da attuare: 18 mesi per la digitalizzazione, 12
per la nuova conferenza di servizi, la riorganizzazione
dell'amministrazione statale (con la trasformazione delle
prefetture in Uffici territoriali di governo) e la riforma
della dirigenza (che segnerà il superamento del tabù del
posto fisso prevedendo la fuoriuscita dal ruolo unico del
manager pubblico da troppo tempo senza incarico).
Ma entro
sei mesi dall'entrata in vigore del disegno di legge (che
dovrebbe approdare questa settimana in parlamento per essere
esaminato da settembre) il primo atto della delega sarà il
restyling delle norme in materia di anticorruzione,
pubblicità e trasparenza contenute nel dlgs 39/2013. Gli
ambiti applicativi della riforma, che ha creato più di una
difficoltà negli enti, saranno meglio definiti e verranno
ridotti gli oneri a carico delle p.a.
(articolo ItaliaOggi del
15.07.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti, licenziamento ko ma non cambia niente.
Non chiamateli licenziamenti anche se l'effetto è sempre la
risoluzione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici
privi di incarico.
La versione assestata del
ddl legge-delega di riforma della
pubblica amministrazione elimina la parola espressa
«licenziamento», ma tratta la sorte dei dirigenti che
restano senza incarichi esattamente allo stesso modo. Si
stabilisce, infatti, che i dirigenti privi di incarico
riceveranno il trattamento economico fondamentale e la parte
fissa della retribuzione maturata prima dell'entrata in
vigore dei decreti legislativi di attuazione della
legge-delega, e verranno posti in disponibilità.
Lo schema
di ddl aggiunge che detti dirigenti, a seguito di un
determinato periodo di collocamento in disponibilità,
decadranno dai ruoli unici. Il che equivale a dire, dunque,
che verrà risolto il rapporto di lavoro. E, poiché il
collocamento in disponibilità dura 24 mesi, a meno di
modifiche speciali da parte dei decreti legislativi
attuativi, basteranno due anni senza incarico perché i
dirigenti di ruolo perdano il lavoro.
La configurazione del licenziamento dei dirigenti pubblici,
contrariamente a quanto ha dichiarato la titolare del
dipartimento della Funzione pubblica, Marianna Madia,
secondo la quale vi sarebbe piena parità di posizione tra
una dirigenza di ruolo e quella «di fiducia» politica
soggetta allo spoil system, rivela una sperequazione
evidente a svantaggio dei dirigenti di ruolo.
Infatti, sono soltanto i dirigenti che accedono ai ruoli
unici per concorso a rischiare il licenziamento e la perdita
secca del lavoro. I dirigenti a contratto, cooptati senza
concorso dalla politica nella stragrande maggioranza dei
casi assumono l'incarico dirigenziale avendo alle spalle un
altro rapporto di lavoro. Infatti, ai sensi dell'articolo
19, comma 6, si tratta di magistrati o di professori o
ricercatori universitari, avvocati dello Stato o anche di
funzionari della medesima amministrazione conferente
l'incarico dirigenziale.
Dunque, i dirigenti a contratto contano, in generale, su due
rapporti di lavoro: quello «di provenienza», che diviene
quiescente (si prevede, infatti l'aspettativa); e quello «di
destinazione», cioè l'incarico dirigenziale conferito
dall'organo di governo. Pertanto, quand'anche la dirigenza
non di ruolo dovesse perdere l'incarico per scadenza del
mandato ed esercizio dello spoil system, perderebbe, sì,
l'incarico dirigenziale, ma non il lavoro (salvo il caso di
persone provenienti dal privato che non riescano ad ottenere
la collocazione in aspettativa).
I dirigenti di ruolo, invece, se restano privi di incarico
per il tempo che indicheranno con maggior precisione i
decreti delegati non avranno alcun paracadute: perderanno
non solo l'incarico, ma, decadendo dal ruolo, subiranno la
risoluzione del rapporto di lavoro.
L'assenza di un rapporto di simmetria tra il numero dei
dirigenti di ruolo e il numero degli incarichi dirigenziali
potrebbe agevolare non di poco l'opera degli organi politici
intenzionati a disfarsi dei dirigenti «scomodo». Intasando,
infatti, gli incarichi dirigenziali assumendo quanti più
possibile dirigenti a tempo determinato, potrebbero mettere
facilmente fuori gioco i dirigenti vincitori di concorsi
«scomodi», eccependo l'assenza di incarichi disponibili e
destinandoli alla disponibilità.
Si tratterebbe di
un'apertura della strada verso il licenziamento, senza
nemmeno dover scomodare il complicato processo di
valutazione dei risultati: di fatto, non sarebbe necessario
dimostrare che il mancato conferimento dell'incarico
deriverebbe da carenze gestionali o dal mancato
raggiungimento degli obiettivi fissati
(articolo ItaliaOggi del
15.07.2014). |
VARI: Bonus arredi a maglie larghe.
Dai box ai conviventi: prevale la linea pro-contribuenti.
I chiarimenti più recenti della prassi in materia di
detrazioni per lavori di ristrutturazione.
Aperture positive per i contribuenti dalla
circolare 21.05.2014 n. 11/E in
tema di detrazione per le ristrutturazioni.
Dall'imperfezione della documentazione agli errori sui
bonifici l'Agenzia si mostra di manica larga e concede
qualche spiraglio ai contribuenti. La prima indicazione è
stata necessaria per superare alcune perplessità sorte dal
testo delle istruzioni contenute nel modello 730 di
quest'anno.
Nelle stesse si legge, infatti, che il diritto alla
detrazione spetta anche al familiare convivente del
possessore o detentore dell'immobile purché lo stesso abbia
sostenuto le spese e le fatture e i bonifici siano a lui
intestati. Ciò non è però in linea con quanto già affermato
dalla prassi nella circolare 20/E del 2011 al punto 2.1 in
cui si è sostenuto che, nel caso in cui la fattura e il
bonifico siano intestati a un solo comproprietario, mentre
la spesa di ristrutturazione è sostenuta da entrambi, la
detrazione spetta anche al soggetto che non risulti indicato
nei predetti documenti, a condizione che nella fattura sia
annotata la percentuale di spesa da quest'ultimo sostenuta.
In sostanza nella circolare 20/E si era dato prevalenza al
pagamento delle spese rispetto all'intestazione dei
documenti mentre ora nelle istruzioni al modello 730
sembrava intervenire una marcia indietro (seppur per un caso
non identico).
La circolare 11/E ha però fugato i dubbi ribadendo la tesi
meno restrittiva. La stessa ha, infatti, sostenuto che le
istruzioni al modello 730/2014 dettano una regola per così
dire generale (già sostenuta nella circolare 121 del 1998)
che però deve essere coordinata con le ulteriori prese di
posizione che concedono di dare il via libera alla
possibilità che il familiare convivente seppur non
intestatario dei documenti goda della detrazione a patto che
i versamenti siano anche a lui riferibili. In tema di
ripartizione del bonus l'Agenzia sottolinea anche che
«l'annotazione sui documenti della percentuale di spesa
sostenuta deve essere effettuata fin dal primo anno di
fruizione del beneficio e che il comportamento dei
contribuenti deve essere coerente con detta annotazione. È
esclusa la possibilità di modificare, nei periodi d'imposta
successivi, la ripartizione della spesa sostenuta».
Similare
il caso di acquisto del box pertinenziale. Tale situazione è
compresa tra gli interventi ammessi a fruire della
detrazione per i lavori di ristrutturazione edilizia. È
necessario però che sia costituito un vincolo pertinenziale
derivando da ciò la necessità che la detrazione per gli
interventi in esame abbia come presupposto l'acquisto da
parte del proprietario o del titolare di un diritto reale
sull'unità immobiliare che può costituire tale vincolo. Come
conseguenza si ha che la detrazione competa al soggetto,
familiare convivente, che ha effettivamente sostenuto la
spesa, attestando sulla fattura che le spese per gli
interventi agevolabili sono dallo stesso sostenute ed
effettivamente rimaste a carico.
Un ulteriore chiarimento interviene in tema di lavori di
ristrutturazione su parti comuni e immobile di proprietà del
coniuge incapiente. Il caso è quello delle spese sulle parti
comuni certificate dall'amministratore del condominio al
proprietario che però non possiede reddito. Nel caso le rate
condominiali sono state saldate con l'emissione di assegni
su un conto corrente cointestato ai due coniugi. Anche su
questo punto la risposta è stata positiva in quanto si è
affermato che il contribuente-coniuge convivente del
proprietario dell'immobile, ha la possibilità di portare in
detrazione nella propria dichiarazione dei redditi le spese
sostenute relative ai lavori condominiali pagate con assegno
bancario tratto sul conto corrente cointestato ai due
coniugi. In tal caso ai fini di provare quanto intervenuto
occorre che il coniuge convivente indichi i propri estremi
anagrafici e l'attestazione dell'effettivo sostenimento
delle spese sul documento rilasciato dall'amministratore del
condominio.
La terza presa di posizione riguarda un caso molto frequente
ovvero quello in cui si constata un bonifico con causale
errata: il bonifico è regolarmente effettuato, la ritenuta
del 4% è applicata solo che ad esempio è indicato il
riferimento normativo dell'agevolazione per la
riqualificazione energetica degli edifici in luogo di quella
previste per le ristrutturazioni edilizie. Anche qui giunge
il via libera dell'Agenzia delle entrate la quale individua
nell'effettuazione della ritenuta il fatto decisivo per il
riconoscimento del bonus.
Partendo da ciò la circolare afferma che nell'ipotesi in cui
l'indicazione nella causale del bonifico dei riferimenti
normativi della detrazione per la riqualificazione
energetica degli edifici in luogo di quella per gli
interventi di recupero del patrimonio edilizio sia dovuta a
un mero errore materiale e non abbia pregiudicato
l'applicazione della ritenuta d'acconto del 4%, «si ritiene
che la detrazione possa comunque essere riconosciuta, nel
rispetto degli altri presupposti previsti dalla norma agevolativa. Le medesime conclusioni possono applicarsi
anche nel caso opposto in cui, per un errore materiale,
nella causale del bonifico siano stati indicati i
riferimenti normativi degli interventi di recupero del
patrimonio edilizio in luogo di quelli della detrazione per
la riqualificazione energetica degli edifici, fermo restando
il rispetto dei presupposti per la fruizione di quest'ultima
detrazione».
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Agevolazioni anche senza condominio.
Anche senza condominio il bonus è da riconoscere. Ma i
condomini devono farsi parte diligente.
Una ulteriore
questione superata dalla
circolare 21.05.2014 n. 11
riguarda il caso di
assenza di costituzione del condominio e relative tabelle
millesimali. Ci si chiedeva se i comproprietari potessero
suddividere la spesa sulla base di un rendiconto che tenga
conto degli importi effettivamente pagati o se sia
necessario ripartire in parti uguali la spesa e anche se
fosse possibile che tutti i comproprietari bonificassero la
spesa all'impresa sulla base delle singole fatture emesse
(non esistendo il soggetto giuridico «condominio» cui
fatturare).
La risposta dell'Agenzia si basa sulla considerazione che in
presenza di un «condominio minimo», edificio composto da un
numero non superiore a otto condomini sono comunque
applicabili le norme civilistiche sul condominio fatta
eccezione, tra l'altro, l'obbligo di nomina
dell'amministratore. Da ciò la circolare conclude che, al
fine di beneficiare della detrazione per i lavori di
ristrutturazione delle parti comuni i condomini che, non
avendone l'obbligo, non abbiano nominato un amministratore
devono però obbligatoriamente richiedere il codice fiscale.
Con riguardo ai pagamenti gli stessi devono effettuare i
bonifici indicando oltre al codice fiscale del condominio,
anche quello del condomino che effettua il pagamento (il
conto corrente bancario o postale può anche essere quello di
uno dei condomini).
La detrazione spetterà soltanto in ragione delle spese
effettivamente sostenute da ciascuno e per la ripartizione
non può derogarsi al fatto che tutti devono concorrere alle
stesse in ragione dei millesimi di proprietà o ai diversi
criteri applicabili ai sensi del codice civile. Una volta
chiarito l'obbligo del codice fiscale ne consegue anche che
(vedi anche la circolare 57/E del 1998) i documenti
giustificativi delle spese relative alle parti comuni
dovranno essere intestati al condominio.
Nella sostanza una volta accertata l'esistenza dal
condominio pur in assenza di amministratore saranno i
condomini che dovranno farsi parte diligente in quanto
titolare degli adempimenti necessari che consentono ai
singoli di godere delle detrazione è e deve essere
unicamente il «soggetto» condominio (articolo ItaliaOggi Sette
del 14.07.2014). |
APPALTI: Appalti pubblici a rischio caos. Possibili blocchi per i bandi-tipo o per la banca dati.
Gli effetti della soppressione dell'Avcp, in attesa del
piano di riassetto di Cantone.
La soppressione dell'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici ha inciso sugli organi ma non ancora sui compiti e
sulle funzioni. Rimangono, infatti, separate le strutture
dell'Avcp e dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac).
Fino al piano di completo riassetto che presenterà Raffaele
Cantone entro sei mesi, il rischio è che vi siano problemi
di governance per molte attività gestite dalla struttura
dell'Avcp, dal precontenzioso, al sistema informatico
Avcpass, alla qualificazione delle imprese, con possibili
rallentamenti delle attività stesse.
È questo l'effetto che,
salvo correttivi apportati nella fase di conversione del
decreto-legge 90/2014, potrebbe determinarsi sul settore
degli appalti a seguito della soppressione dell'Avcp,
disposta appunto dal decreto-legge 90/2014.
Il blocco
potrebbe interessare l'emanazione di bandi-tipo e di linee
guida in diversi ambiti di attività, dai lavori ai servizi,
così come la gestione della banca dati nazionale dei
contratti pubblici e il sistema di verifica dei requisiti (Avcpass),
entrato in vigore dal 1° luglio, oltre all'Anagrafe delle
stazioni appaltanti di cui alla legge 89/2014.
Ma problemi,
nel medio termine, potrebbero esserci anche a livello
europeo se è vero le nuove direttive europee sugli appalti
pubblici (23, 24 e 25/2014) puntano con determinazione su
strutture nazionali che, oltre ad avere il monitoraggio del
mercato di riferimento, siano anche in grado di gestire
sistemi informatici complessi, funzionali alla messa a
regime di un trasparente «registro nazionale degli appalti».
Le funzioni dell'Avcp. Moltissime le funzioni della
soppressa Autorità assorbite, in base al decreto 90/2014,
dall'Anac e relative a tutti i contratti pubblici (anche
forniture e servizi), che nel 2012 valevano 95,3 miliardi di
euro, per 125.700 contratti stipulati oltre i 40 mila euro.
In particolare, in base al codice dei contratti, l'Avcp si
occupa, anche con poteri sanzionatori e ispettivi, di:
vigilare sui contratti pubblici, sull'osservanza della
legislazione e sul sistema di qualificazione delle imprese
di costruzioni; ha poi il compito di gestire il cosiddetto «precontenzioso»
attivabile su ogni singola gara, di predisporre bandi-tipo
obbligatori per le stazioni appaltanti, di presentare al
governo e al parlamento una relazione annuale, di gestire la
Banca dati nazionale dei contratti pubblici (dalla quale
deriva anche il sistema Avcpass di verifica dei requisiti
dichiarati in gara dai concorrenti).
La soppressione dell'Avcp e l'assorbimento da parte dell'Anac.
Con effetto dal 25 giugno è scattata la soppressione dell'Avcp
e l'immediata decadenza dei suoi organi, disposta con il
decreto-legge 90/2014 di riforma della p.a. che assegna
anche nuovi e incisivi poteri all'Anac (si veda altro
articolo in pagina). Il decreto prevede anche che siano
trasferiti all'Autorità presieduta da Raffaele Cantone «i
compiti e le funzioni» dell'Avcp, una scelta che il ministro
delle infrastrutture Maurizio Lupi ha dovuto accettare
nonostante avesse avanzato la proposta di scorporare alcuni
compiti dell'Avcp per portarli al suo dicastero (ma la
partita, almeno sulla materia della qualificazione delle
imprese, potrebbe riaprirsi con il recepimento delle
direttive europee). Il trasferimento dovrà avvenire in base
a un piano di completo passaggio delle funzioni e di
riduzione del 20% delle spese e del personale che il
presidente Anac dovrà predisporre entro fine 2014 e
presentare al presidente del consiglio, Matteo Renzi.
La «convivenza» delle due strutture. In una recente delibera
(la n. 102/2014) Cantone ha stabilito che «le attività dell'Anac
connesse ai compiti e alle funzioni trasferiti a seguito
della soppressione dell'Avcp, sono svolte in modo separato
rispetto alle attività in materia di anticorruzione e
trasparenza»; stesso concetto per la fase gestionale e
amministrativa. In effetti, quindi, sembra che i due
organismi operino come due branche della stessa società,
ancorché su qualche materia (trasparenza, attività
ispettiva) vi siano sovrapposizioni fra compiti dell'Avcp e
dell'Anac. Tutto come prima, quindi, almeno così
sembrerebbe.
I rischi per imprese e per le stazioni appaltanti.
L'impressione generale è che la soppressione dell'Avcp abbia
avuto più il senso dell'eliminazione dei suoi organi che non
dell'organismo e che manchi ancora una chiara definizione
delle competenze decisorie. In questa fase transitoria, in
attesa del piano di Cantone, il rischio di impasse e di
blocco delle attività potrebbe derivare dalla mancanza di
indicazioni espresse sull'assunzione dei provvedimenti
relativi a delicate funzioni della soppressa Avcp (precontenzioso,
vigilanza sulle Soa, regolazione) usualmente oggetto di
provvedimenti del Consiglio (soppresso). Le difficoltà per
le imprese e per le stazioni appaltanti, che, per esempio,
richiedono pareri all'Avcp non mancherebbero. Potrebbe
essere utile chiarire che transitoriamente tutte le
decisioni siano oggetto di delibera da parte del Consiglio
Anac ancorché attinenti a funzioni non relative alla materia
dell'«anticorruzione».
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Commissariamenti e controlli su varianti: i poteri assegnati
all'Anac.
Dal commissariamento delle imprese oggetto di indagini
giudiziari per reati contro la Pubblica amministrazione al
controllo sulle varianti in corso d'opera: sono questi
alcuni dei poteri assegnati all'Anac per la vigilanza sul
settore degli appalti con il recente decreto-legge 90/2014.
Il decreto prevede, per il singolo contratto, la possibilità
che l'Anac proceda al «commissariamento» delle imprese
coinvolte in indagini giudiziarie (anche per quelle di Expo
2015).
La possibilità scatta quando siano state «rilevate
situazioni anomale e comunque sintomatiche di condotte
illecite, o eventi criminali attribuibili a un'impresa
aggiudicataria di un appalto». Sarà il presidente dell'Anac,
Raffaele Cantone, a proporre al prefetto competente per
territorio la rinnovazione, entro un termine determinato,
degli organi sociali (mediante la sostituzione dei soggetti
coinvolti) e, nel caso in cui l'impresa non si adegui nei
termini stabiliti, la straordinaria e temporanea gestione
dell'impresa appaltatrice, limitata alla completa esecuzione
del contratto d'appalto oggetto di indagine.
Molto probabilmente questa misura sarà utilizzata poche
volte dal momento che la prassi, in questi casi, vede i
soggetti coinvolti dimettersi appena si ha sentore di un «fumus»
di indagini. In alternativa il presidente Anac potrà
proporre al prefetto di provvedere direttamente alla
straordinaria e temporanea gestione dell'impresa
appaltatrice (attività dichiarata di «pubblico interesse»
anche ai fini delle eventuali conseguenze penali), saltando
la procedura di sostituzione dei vertici dell'impresa. Gli
«amministratori» che gestiranno la società su nomina del
prefetto potranno essere al massimo tre (dotati di requisiti
di «onorabilità e professionalità») e a essi verranno
attribuiti tutti i poteri e le funzioni degli organi di
amministrazione dell'impresa finalizzati al completamento
dell'opera, con la conseguente «sospensione» dei poteri di
disposizione e gestione dei titolari dell'impresa (sospesi
anche i poteri dell'assemblea in caso di società).
Previsto anche il monitoraggio finanziario dei lavori
relativi a infrastrutture strategiche e insediamenti
produttivi. Il decreto prevede l'obbligo di trasmissione
delle varianti all'Anac di tutte le varianti in corso
d'opera (escluse quelle per errore o omissione della
progettazione e per esigenze derivanti da sopravvenute norme
di legge), unitamente al progetto esecutivo, all'atto di
validazione e a una apposita nota del responsabile del
procedimento. La trasmissione di questi atti dovrà avvenire
entro trenta giorni dall'approvazione della variante da
parte della stazione appaltante, per le valutazioni e gli
eventuali provvedimenti di competenza che Anac potrà
adottare (articolo ItaliaOggi
Sette del 14.07.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Materiali di scavo, gestione soft.
Meno vincoli per riutilizzare riporti in attività di
cantiere. Da Minambiente e Tar Lazio chiarimenti sui sottoprodotti: si
evita la disciplina sui rifiuti.
I materiali di riporto escavati possono essere riutilizzati
come ordinari beni, senza dunque passare dalla gravosa
disciplina sui rifiuti, per riempimenti, rilevati e
reinterri indifferentemente dalla quantità della loro
componente antropica e origine storica, ma a condizione che
rispettino i valori limite di inquinamento previsti dal dlgs
152/2006 (cd. «Codice ambientale») per la tutela delle acque
e delle altre matrici dell'ecosistema.
A fornire nuovi
chiarimenti sulla complessa disciplina relativa a terre e
rocce da scavo (tra le quali normalmente rientrano i
«riporti», miscela di terreno naturale e residui vari) è il
«combinato disposto» di due recenti pronunce della pubblica
amministrazione in risposta (sebbene a titolo ed effetti
diversi) a molteplici dubbi applicativi: la nota
14.05.2014 n. 1338 del Minambiente e la
sentenza 10.06.2014 n. 6187 del
TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis.
Le
pronunce in parola intervengono su un castello normativo
costituito da oltre 10 provvedimenti normativi e due
pronunce della Corte costituzionale (tanti sono gli atti
stratificatisi dal 2010 a oggi sul dlgs 152/2006)
effettuando una ricognizione sui confini tra gestione dei
materiali di scavo come «rifiuti», riutilizzo degli stessi
come «sottoprodotti» e loro esclusione, a monte, da entrambe
le categorie.
Terre, rocce e altri materiali da scavo. La disciplina dei
materiali in questione lo ricordiamo, è attualmente
rintracciabile negli articoli 183, 184, 184-bis, 184-ter e
185 del «Codice ambientale», nell'articolo 3 del dl 2/2012,
nel dm Ambiente 161/2012 e nell'articolo 41-bis del dl
69/2013.
Da tale complesso normativo deriva che le terre e
rocce da scavo sono, a monte, escluse dalla disciplina dei
rifiuti (articolo 185, dlgs 152/2006): se non contaminate ed
escavate nel corso di attività di costruzione, ove sia certo
il loro riutilizzo allo stato naturale per i medesimi fini e
nello stesso sito; sempre se non contaminate, ove siano
riutilizzate, nel rispetto delle regole sui sottoprodotti,
in sito diverso da quello di escavazione.
Le particolari
regole da osservare per la gestione come sottoprodotti sono
invece, rispettivamente: quelle dettate dal dm 161/2012 per
i materiali provenienti da impianti sottoposti a disciplina
«Via» (valutazione di impatto ambientale) o «Aia»
(autorizzazione integrata ambientale) ex dlgs 152/2006;
quelle dettate dall'articolo 184-bis dello stesso «Codice
ambientale» unitamente alle norme recate dal citato articolo
41-bis, dl 69/2013 per i materiali provenienti da attività
diverse dalle prime.
Tale sofisticato sistema giuridico si
applica anche ai «materiali di riporto», come definiti
dall'articolo 3 del dl 2/2012 (e successive, radicali,
modifiche e integrazioni), provvedimento che li equipara al
«suolo» (dunque, anche nella sua forma escavata) qualora sia
accertato che non superino determinate soglie di
inquinamento.
I chiarimenti del Minambiente... È su tale assetto normativo
che interviene la nota Minambiente del 14.05.2014. Il
Dicastero chiarisce innanzitutto le condizioni che rendono i
citati «materiali di riporto» assimilabili alle altre terre
e rocce da scavo, sottolineando come il ricorso alle norme
tecniche del proprio dm 05.02.1998 (richiamato
dall'articolo 3, dl 2/2012) sia relativo alle sole metodiche
di analisi da utilizzare per verificarne il potere
inquinante, e non agli specifici parametri da impiegare, i
quali devono invece essere identificati (in accordo con le
Autorità di controllo) sulla base delle caratteristiche dei
residui.
Così come i limiti inquinanti da rispettare, che
devono essere quelli previsti dallo stesso dlgs 152/2006 in
relazione a bonifica dei siti inquinati e tutela delle
acque. Nel caso di riutilizzo «in situ», avverte ancora il
Minambiente, i valori da rispettare devono altresì essere i
più stringenti tra i diversi eventualmente applicabili alle
singole sub-aree presenti nel sito. Con la nota in parola il
Dicastero si pronuncia anche sulle (più generali) regole che
permettono la gestione come «sottoprodotti» dei materiali da
scavo provenienti da impianti non sottoposti a «Via» o
«Aia», precisando la portata delle «normali pratiche
industriali o di cantiere», unici trattamenti ammessi sui
residui in parola (senza farli scivolare nel regime dei
rifiuti).
Tali «normali pratiche», previste sia
dall'articolo 184-bis del dlgs 152/2006 che dall'articolo
41-bis del dl 69/2013 (e costituenti uno dei quattro
elementi per qualificare i materiali come sottoprodotti),
coincidono (sottolinea il Minambiente) unicamente con
trattamenti che non hanno incidenza sulle caratteristiche
chimico-fisiche delle sostanze ai fini del rispetto dei
requisiti di protezione sanitaria e ambientale richiesti dal
dlgs 152/2006. Ben rientra dunque in tali «pratiche», si
precisa nella nota a titolo esemplificativo, la miscelazione
del terreno non contaminato con la calce, com'è altrettanto
estraneo alle stesse (invece) il mischiare terra contaminata
con calce al fine di abbassarne il livello inquinante.
... E quelli del Tar Lazio. Con la successiva sentenza 10.06.2014 n. 6187, il Tribunale amministrativo del Lazio
ha chiarito alcuni aspetti nodali relativi sia alla più
generale definizione di «materiali di riporto» che al campo
di applicazione del citato dm 161/2012 per la gestione delle
terre da scavo come sottoprodotti.
In relazione al primo
aspetto il giudice dei provvedimenti amministrativi ha
sottolineato come la nuova nozione di «matrice materiale di
riporto» introdotta dal dl 69/2013 (tramite riformulazione
dell'articolo 3, dl 2/2012) abbia superato (con valenza
generale, poiché posta da provvedimento di rango superiore)
quella prevista dal (precedente) dm Ambiente 161/2012. E ciò
allargando i confini della nozione: per il Tar non appare
infatti più applicabile il limite del 20% massimo di
componente antropica previsto dal dm del 2012 tra le
condizioni per il legittimo riutilizzo dei materiali di
riporto. Evidentemente, in quanto tale parametro non risulta
essere più presente nella nuova definizione legislativa di
«riporto» prevista dal dl 69/2013.
Dunque, ragionando in
modo analogo, sembra superata anche la caratteristica di
«storicità» di detti riporti voluta dal dm del 2012, laddove
il regolamento indica(va) gli stessi come miscela eterogenea
di terreno e materiali antropici «utilizzati nel corso dei
secoli». Previsione, anche questa, che non trova più analoga
collocazione nella nuova definizione del 2013. In relazione
al campo di applicazione del dm 161/2012, il Tar Roma ha
invece sottolineato come esso regolamento trovi
effettivamente applicazione alle sole terre e rocce «da
scavo» (materiali di riporto, come più sopra definiti,
compresi), ad esclusione (quindi) dei residui di
«lavorazione» di materiali lapidei (poiché oggetto di
attività diversa dall'«estrazione»).
Infine lo stesso
giudice ha specificato come lo stesso dm 161/2012 si
applichi ai soli materiali da scavo utilizzati in siti
diversi da quelli in cui sono stati escavati e (confermando
quanto già suggerito dalla citata nota del Minambiente del
precedente maggio) come esso regolamento sia però da
rispettare in tutti gli impianti soggetti ad «Aia» o «Via»
che i suddetti materiali generano, indifferentemente
(dunque) da volumi prodotti (articolo ItaliaOggi
Sette del 14.07.2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Modelli (quasi) unici per i lavori edili.
Avviata la revisione dei documenti per il permesso di
costruire e la segnalazione di inizio attività.
Con il Dl 90
del 24 giugno scorso il Governo rilancia la semplificazione
nell'edilizia, attraverso la standardizzazione dei moduli
del permesso di costruire e della Scia.
I moduli unici per tutti i Comuni italiani, una volta
adottati, potranno effettivamente avviare il tentativo di
unificare il lessico dell'edilizia, normalizzando gli
eccessi prodotti nella materia del governo del territorio –in attesa della preannunciata riforma del titolo V della
Costituzione– dall'attuale regionalismo spinto e dalla
irrefrenabile tendenza della regolamentazione comunale (vero
ostacolo della semplificazione nonostante gli sforzi
governativi degli ultimi anni) a complicare la disciplina
delle costruzioni con piani, programmi e regolamenti spesso
cervellotici o "lunari" e comunque di difficile
interpretazione?
A ben vedere la semplificazione è un percorso più culturale
che giuridico e che pertanto parrebbe poter essere guidato
da elementi semplici e formali come la modulistica unica,
che hanno già dato buona prova di sé ,ad esempio, nel
commercio e nella gestione del condono edilizio.
Insomma il legislatore, vista l'impossibilità di uniformare
l'insostenibile eterogeneità della disciplina edilizia la
sta forzando, consapevolmente o meno, in modelli unici che
dovrebbero sensibilizzare le autonomie locali ad adottare
linguaggi e requisiti prestazionali uniformi e più
comprensibili.
Le tappe
Concretamente, il Dl 90 impegna Governo, Regioni e enti
locali, a concludere, in Conferenza unificata, accordi per
adottare, tenendo conto delle specifiche normative
regionali, una modulistica unificata e standardizzata su
tutto il territorio nazionale per presentare a Regioni e
enti locali istanze, dichiarazioni e segnalazioni inerenti
all'attività edilizia.
Il percorso è dunque tracciato. I primi modelli per la Scia
edilizia e il permesso di costruire sono peraltro già stati
condivisi con l'accordo cosiddetto "Italia Semplice" siglato
il 12.06.2014 tra Governo, Regioni ed enti locali.
Seguiranno gli ulteriori moduli in materia. L'utilizzo di
modelli unici garantirà la semplificazione nella
presentazione delle pratiche e assicurerà parità di
condizioni tra i professionisti.
I nodi
Il progetto, per quanto ben indirizzato, non si manifesta di
semplice attuazione. Ciascuno degli oltre 8mila Comuni
italiani ai sensi dell'articolo 33 della legge urbanistica
nazionale del '42 (disposizione che, per quanto abrogata
dall'articolo 136, comma 2, del Dpr 380/2001, ha orientato
tutti i regolamenti edilizi) ha creato la propria disciplina
regolamentare e i modelli delle dichiarazioni e delle
domande che recepiscono le previsioni urbanistiche ed
edilizie locali, in modo del tutto eterogeneo.
Le diversità non scompariranno automaticamente con
l'adozione dei modelli unici; quindi la riforma rischia di
risolversi almeno in prima battuta in una mera
semplificazione di forma, che potrebbe generare un aggravio
istruttorio sostanziale (la bozza dei modelli, ad esempio,
si compone di 30 pagine).
Se i modelli declinati secondo le peculiarità comunali
prevedono dichiarazioni e indicazioni connesse alle
specifiche previsioni locali e dunque idonee a valutare con
immediatezza la rispondenza del progetto alle peculiarità
tecniche applicabili, con i modelli unici nazionali c'è
invece il rischio che la verifica di conformità del progetto
alle leggi e ai regolamenti locali, si manifesti meno
immediata con aggravio sui tempi di evasione delle pratiche
e sulla stessa certezza dei rapporti con i cittadini.
L'auspicio è che comunque lo sforzo avviato dal Governo sia
un passaggio, per quanto doloroso, efficace per il
conseguimento di una disciplina urbanistica più coerente con
le necessità di semplificazione e omogeneizzazione delle
pratiche edilizie.
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La compilazione resta variabile.
L'attuazione. Accordo tra Stato, Regioni ed enti locali sui
testi per nuove costruzioni, restauro e risanamento.
Con l'accordo
"Italia semplice" siglato lo scorso 12.06.2014 tra
Governo, Regioni ed enti locali, sono stati condivisi i
primi due modelli unici in materia edilizia.
Si tratta della richiesta di permesso di costruire e della
segnalazione certificata di inizio attività, ossia dei due
moduli correlati agli interventi edilizi di maggiore
incisività quali, rispettivamente, le nuove costruzioni e il
restauro e risanamento conservativo.
I nuovi moduli sono composti da tre distinte sezioni. La
prima è dedicata all'individuazione del richiedente e ai
dati fondamentali inerenti la qualificazione e
localizzazione dell'intervento. Sono inoltre previsti
specifici campi per la determinazione dell'onerosità o meno
delle opere.
La seconda sezione riguarda invece l'identificazione dei
soggetti coinvolti nella realizzazione dell'opera e, in
particolare, dei titolari, dei progettisti e altri
incaricati tecnici, nonché delle imprese esecutrici.
La terza sezione attiene infine all'asseverazione da parte
del progettista responsabile delle peculiarità
urbanistico-edilizie che caratterizzano il progetto e,
quindi, include l'identificazione delle superfici e dei
volumi, l'indicazione della classificazione urbanistica del
bene, nonché le dichiarazioni concernenti il superamento
delle barriere architettoniche, la sicurezza degli impianti,
il consumo energetico, la prevenzione incendi e la normativa
igienico-sanitaria.
La sezione contiene anche una esaustiva scheda per
l'individuazione dei vincoli e delle tutele alle quali
l'immobile è eventualmente assoggettato. I moduli appaiono
lineari, completi e facilmente gestibili.
Nel loro formato digitale, i moduli sono progettati in modo
da richiedere la compilazione delle sole informazioni
necessarie a seconda del tipo di intervento indicato.
Prosegue dunque il processo di dematerializzazione e
informatizzazione delle procedure edilizie che, sebbene
possa generare qualche difficoltà di adeguamento per i
professionisti, complessivamente dovrebbe portare ad un
miglioramento dell'efficienza delle pubbliche
amministrazioni, consentendo una più agevole gestione delle
pratiche e un più efficiente controllo sullo sviluppo del
territorio (articolo Il Sole 24 Ore del
14.07.2014 - articolo tratto da
www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI: La certificazione attenua i controlli.
Le garanzie. Lo strumento è utilizzabile in fase preliminare
o di esecuzione.
Se non
vogliono correre il rischio di vedersi attribuire un
rapporto di lavoro con i dipendenti dell'appaltatore o,
ancor peggio, subire conseguenze penali, le aziende dovranno
ponderare con attenzione l'eventuale risparmio economico
derivante dalla stipula di un contratto di appalto per
realizzare un'opera o per gestire un servizio.
Uno strumento per contenere i rischi derivanti da un
contratto di appalto illecito è l'istituto della
certificazione, previsto dall'articolo 84 del decreto
legislativo 276/2003. A questo fine le imprese dovranno
sottoporre il contratto di appalto alle commissioni di
certificazione istituite presso le istituzioni pubbliche o
private autorizzate (come gli enti bilaterali costituiti
dalle associazioni di datori e prestatori di lavoro, le
direzioni provinciali del Lavoro, le università).
I vantaggi
sono duplici: da un lato il ricorso dei lavoratori si
scontrerà con il contratto certificato, non impedendo,
tuttavia, la possibilità del dipendente di ricorrere al
giudice del lavoro. Dall'altro lato, invece, gli enti di
controllo devono concentrare le attività investigative nei
confronti di aziende che non hanno contratti certificati
secondo le indicazioni della direttiva del ministro del
Lavoro del 18.09.2008.
Con la
circolare
11.02.2011 n. 5, come detto, il
ministero del Lavoro pone le basi per individuare
correttamente un appalto lecito.
In particolare, ribadendo
l'opportunità di usare la certificazione per ridurre il
contenzioso sulla qualificazione dei contratti di lavoro, il
ministero ricorda che l'indagine dell'organo certificatore
si orienterà a una disamina attenta della sussistenza degli
elementi formali e sostanziali individuati dall'articolo 29,
comma 1, del decreto legislativo 276/2003, non soltanto su
base documentale, ma anche tramite dichiarazioni
pubblicamente rese e acquisite dalle parti contraenti in
sede di audizione nell'iter di certificazione.
Infatti, la
procedura di certificazione può essere usata sia nella fase
di formazione del contratto, sia in quella di esecuzione e
attuazione del programma negoziale. In quest'ultima ipotesi,
gli effetti della certificazione si produrranno dal momento
di inizio del contratto, se la commissione ha appurato la
regolarità dell'appalto anche nel periodo precedente.
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Rischio d'impresa, indice di regolarità.
I criteri. L'attività preesistente va considerata come un
fattore positivo.
Devono gravare
sull'appaltatore l'organizzazione dei lavoratori e dei mezzi
e il rischio di impresa.
È la linea dettata dal ministero
del Lavoro nella
circolare
11.02.2011 n. 5, che
ha fissato tre criteri per un contratto d'appalto genuino.
L'appaltatore dovrà concretamente esercitare il potere
organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori
impiegati nell'appalto. Infatti, l'oggetto del contratto di
appalto è un «fare», poiché l'appaltatore fornisce al
committente un'opera o un servizio. Nella somministrazione
di lavoro, invece, l'oggetto del contratto è un «dare»
poiché il somministratore fornisce a un terzo forza lavoro
da lui assunta. Del resto, il legislatore ha previsto che le
agenzie per il lavoro debbano essere autorizzate dal
ministero del Lavoro, proprio per garantire le parti
contraenti lo svolgimento di questa attività senza la
necessità di alcuna certificazione.
Un altro criterio è quello dell'organizzazione dei mezzi:
sarà necessario valutare se il servizio si caratterizza per
la prevalente o esclusiva necessità di lavoro intellettuale
o comunque personale dei lavoratori impiegati nell'appalto.
Si pensi ai contratti a basso tasso di materialità (servizi
informatici, di pulizia) che cioè non hanno bisogno di
mezzi, attrezzature e capitali e che si contraddistinguono
invece per il know how aziendale in possesso
dell'appaltatore (circolare del Lavoro 48/2004). In
sostanza, la genuinità emergerà se ci sarà il potere
organizzativo e direttivo dell'appaltatore nei confronti dei
propri dipendenti specializzati.
Infine, il terzo elemento è
l'assunzione del rischio di impresa da parte
dell'appaltatore. Un criterio che sarà presente, secondo il
ministero, in caso di attività imprenditoriale preesistente
che è esercitata abitualmente, in caso di svolgimento di
attività produttiva evidente e comprovata e in caso di pluricommittenza esercitata nel tempo. Il ministero del
Lavoro ha ulteriormente chiarito, con le risposte a
interpello n. 16/2009 e n. 77/2009, che si potrà ritenere
genuino anche un appalto in cui l'appaltatore usa mezzi e
attrezzature del committente, purché la responsabilità del
loro utilizzo rimanga in capo all'appaltatore (articolo Il Sole 24 Ore del
14.07.2014). |
INCARICHI PROFESSIONALI: L'obbligo del Pos non risparmia l'ente.
Tracciabilità. Per l'attività d'impresa.
Dall'inizio di
questo mese è entrato in vigore l'obbligo per i soggetti che
effettuano l'attività di vendita di prodotti e di
prestazione di servizi, anche professionali, di accettare
anche pagamenti effettuati attraverso carte di debito.
Il Dm attuativo dello Sviluppo economico di concerto con il
Mef del 24.01.2014 individua l'ambito oggettivo e
soggettivo della disposizione coinvolgendo anche gli enti
locali. Dal punto di vista oggettivo l'articolo 2, comma 1,
del decreto prevede che l'obbligo si applichi a tutti i
pagamenti disposti per l'acquisto di prodotti o la
prestazione di servizi, mentre dal punto di vista soggettivo
il soggetto obbligato è, ai sensi dell'articolo 1 lettera
d), l'esercente, definito come il beneficiario, impresa o
professionista, di un pagamento. Tale definizione riconduce
nella previsione della norma anche gli enti locali, quando
questi ricevono pagamenti per prestazioni di servizi o
acquisto di prodotti nell'ambito di proprie attività
rilevanti ai fini Iva.
L'ente locale è imprenditore quando esercita un'attività che
rientra nel campo di applicazione dell'Iva ai sensi
dell'articolo 4 del Dpr 633/1972 che, nel definire il
requisito soggettivo, recita: «Per esercizio di imprese si
intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non
esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli
articoli 2135 e 2195 del Codice civile».
Di conseguenza l'ente che soddisfa il requisito soggettivo
ai fini Iva esercita attività d'impresa e rientra quindi tra
i soggetti all'articolo 1, lettera d), del Dm 24.01.2014. Ne deriva che anche gli enti locali, per quanto
riguarda incassi superiori a 30 euro relativi alle attività
commerciali esercitate, dovranno dotare gli uffici che
accettano pagamenti relativi a tali attività, tipicamente
sportelli polivalenti e biblioteche, della tecnologia per
accettare pagamenti mediante carte di debito. Peraltro, come
già evidenziato da diverse associazioni professionali, e
come ribadito nella risposta
all'Interrogazione
a risposta in commissione 5-02936 del 04.06.2014, la norma non prevede alcuna sanzione specifica
in caso di mancato assolvimento dell'obbligo.
Più complesse e da approfondire le conseguenze dal punto di
vista civilistico per i responsabili degli enti, in quanto
non accettare una forma di pagamento imposta dalla legge
realizza la fattispecie della mora del creditore, ex
articolo 1206 e seguenti del Codice civile, che prevede
l'obbligo, a determinate condizioni, di rifondere le
eventuali spese aggiuntive sopportate dal debitore per
adempiere alla propria obbligazione (articolo Il Sole 24 Ore del
14.07.2014 - articolo tratto da
www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Compensi elettorali in cerca di certezze.
Straordinari. Ai non dirigenti.
Corto circuito
sul pagamento degli straordinari elettorali per i
responsabili di servizio non dirigenti: il contratto
collettivo ne prevede la corresponsione insieme alla
retribuzione di risultato e, quindi, nel prossimo anno. Ma
il ministero dell'Interno richiede, entro settembre 2014, i
mandati di pagamento per rimborsare i relativi oneri.
La questione sorge dall'articolo 39, comma 2, del Ccnl del
14.09.2000, secondo il quale, per i dipendenti
titolari di posizione organizzativa, i compensi relativi a
prestazioni straordinarie rese in occasione delle
consultazioni elettorali o referendarie sono attribuiti «in
coerenza con la disciplina della retribuzione di risultato».
Si è discusso sul significato di tale previsione, dato che
lo stesso contratto collettivo sottolineava che si prescinde
dalla valutazione per il pagamento.
A chiarirne la portata è intervenuto il parere Ral_1559
dell'Aran del 28.10.2013. Secondo l'Agenzia, gli
straordinari elettorali, alla categoria di dipendenti in
questione, sono da riconoscere a consuntivo e in coincidenza
con l'attribuzione della retribuzione di risultato. Per
rafforzare il concetto, prosegue sottolineando che tali
straordinari non possono essere pagati ai titolari di
posizione organizzativa con le stesse modalità, anche
temporali, previste per i restanti dipendenti. In sostanza,
quindi, l'Aran afferma che gli straordinari elettorali sono
da riconoscere contemporaneamente alla retribuzione di
risultato, vale a dire non prima del 2015.
Sul versante completamente diverso si collocano le esigenze
di procedere in tempi rapidi al rimborso degli oneri
sostenuti dalle amministrazioni comunali per le
consultazioni elettorali. La legge di stabilità 2014,
modificando la previsione del Dl 8/1993, ha fissato nello
spirare del quarto mese successivo al giorno delle elezioni
il termine entro il quale l'ente deve presentare richiesta
di rimborso delle spese elettorali, pena la perdita del
diritto al rimborso stesso.
Fornendo chiarimenti in merito,
il dipartimento per gli Affari interni e territoriali del
ministero dell'Interno, con la circolare Fl 6/2014 del 30
aprile, dispone che al rendiconto debbano essere allegati,
relativamente agli straordinari, la copia degli atti di
liquidazione e i mandati di pagamento, in originale o in
copia conforme. In sostanza, quindi, il predetto rendiconto
deve essere presentato entro il 25 settembre e, per poter
allegarne i mandati (o la copia), è necessario che gli
straordinari siano pagati, al massimo, con la mensilità di
agosto.
Quindi, che fare? O si disattende la norma contrattuale
sulle modalità di corresponsione degli straordinari oppure
si disapplica la disposizione sui rimborsi. Ma la prima
strada può essere contestata soltanto in sede di verifica
ispettiva, mentre la seconda mette immediatamente a
repentaglio il rimborso. Urgono indicazioni ufficiali a
riguardo, in assenza delle quali le amministrazioni obtorto
collo saranno costrette a decidere per il male minore (articolo Il Sole 24 Ore del
14.07.2014). |
APPALTI: Monitoraggio pagamenti a regime.
Registro unico delle fatture e tutti gli importi da saldare
sulla piattaforma elettronica.
Il Dl 66/2014 ha dato forte impulso alla digitalizzazione e
automazione del monitoraggio dei debiti attraverso
l'anticipazione dell'obbligo di fatturazione elettronica e
l'interconnessione tra il Sistema di interscambio (Sdi) e la
piattaforma di certificazione crediti (Pcc), a sua volta
arricchita di nuove funzionalità. Gli articoli 25
(anticipazione al 31.03.2015 della fattura elettronica),
27 (trasparenza nella gestione dei debiti) e 42 (registro
unico delle fatture) dello stesso provvedimento vanno letti
congiuntamente, in quanto funzionali alla progressiva dematerializzazione dei documenti e automazione dei processi
di spesa, dove la fattura rappresenta l'unità elementare
alla base delle rilevazioni contabili.
L'articolo 27, comma 2, ha introdotto il monitoraggio di
tutto il ciclo di vita dei debiti commerciali, compresa la
contabilizzazione e il pagamento, finalizzato
all'informazione in tempo reale all'andamento della spesa
pubblica e al monitoraggio dei tempi di pagamento. In caso
di trasmissione di fatture elettroniche, i dati di invio e
ricezione saranno acquisiti dalla Pcc direttamente dal
Sistema di interscambio. Per le fatture analogiche, il
caricamento avverrà manualmente o in forma massiva, e potrà
essere effettuato anche dal fornitore.
Con la fattura elettronica e l'integrazione del sistema
contabile gestionale adottato alla Pcc, il sistema sarà più
funzionale e veloce. Nel caso di sistemi contabili integrati
(ad esempio il Sicoge per le amministrazioni statali che già
ricevono le fatture attraverso il sistema di interscambio),
tutto il processo di acquisizione e registrazione dei dati
di contabilizzazione e pagamento avverrà automaticamente,
mentre negli altri casi sarà da impostare con prevedibili
difficoltà, soprattutto in fase di prima applicazione.
Il monitoraggio riguarda le fatture o richieste equivalenti
emesse dai fornitori dal 01.01.2014, ancorché solo
quelle spiccate dal 1° luglio scorso rientrano nelle
ristrette tempistiche previste dall'articolo 27, comma 4, e
dall'articolo 42 del Dl 66/2014 che prevedono,
rispettivamente, la comunicazione ogni 15 del mese dei
debiti scaduti e l'annotazione, entro 10 giorni dalla
registrazione, delle fatture nel registro unico.
Quest'ultimo può essere gestito attraverso apposite
funzionalità della Pcc, ma sarà più facilmente tenuto
nell'ambito del sistema contabile dell'ente, di cui fa
parte, alimentando a sua volta la Pcc.
Il sistema segnalerà in automatico le fatture già caricate
per le quali è scaduto il termine di pagamento, ma l'ente
deve verificare che la data sia corretta dato che, in
mancanza, la Pcc applica automaticamente i 30 giorni di
legge. La prima scadenza è il 15.08.2014, anche se gli
enti dovranno comunque procedere a caricare prima i dati
relativi alle fatture (emesse dal 1° luglio) in caso di
pagamento (articolo 7-bis, comma 5, del Dl 35/2013). Per le
fatture emesse nel primo semestre 2014, la comunicazione,
riferita ai soli debiti non ancora estinti, avverrà una
tantum a settembre (si presume entro il giorno 30), come da
circolare della Ragioneria 21/2014.
La
circolare 07.07.2014 n. 22
della RGS ha invece fissato al 21 luglio il
termine perentorio per inviare attraverso la Pcc la
comunicazione degli spazi finanziari, a valere sul patto di
stabilità interno, di cui necessitano gli enti locali per
estinguere nel 2014 i debiti certi, liquidi ed esigibili di
parte capitale ancora in essere al 31.12.2013. Alla
stessa data gli enti devono comunicare, a soli fini
conoscitivi, anche l'ammontare dei debiti maturati al 31.12.2013 che non rientrano tra quelli certi, liquidi ed
esigibili, per i quali è stata emessa fattura di pagamento
ma non sussistono ancora i presupposti per la liquidazione.
Regioni e Province dovranno comunicare anche i debiti al 31.12.2013 di qualunque natura nei confronti degli enti
locali.
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Il calendario
Gli obblighi di monitoraggio dei debiti commerciali per la
Pa
ENTRO 10 GIORNI DALLA RICEZIONE
Per ogni ente pubblico è già scattato l'obbligo di
annotazione nel registro unico delle fatture o richieste
equivalenti emesse dai fornitori a partire da questa data
21 LUGLIO 2014 (*)
Comunicazione degli spazi necessari per estinguere nel 2014
i debiti certi, liquidi e esigibili di parte capitale ancora
in essere alla
data del 31.12.2013
21 LUGLIO 2014
Comunicazione –a fini conoscitivi– dei debiti maturati al
31.12.2013 che non rientrano tra quelli certi, liquidi
ed esigibili, per
i quali è stata emessa fattura, ma non sussistono ancora i
presupposti alla liquidazione
21 LUGLIO 2014
Per Regioni e Province comunicazione (a fini conoscitivi)
dei debiti verso gli enti locali al 31.12.2013 di
qualunque natura,
con distinta annotazione di quelli correnti e quelli in
conto capitale
ENTRO IL 15 DI OGNI MESE (**)
Comunicazione dei debiti per i quali sono scaduti i termini
di
pagamento nel mese precedente (valido per le fatture emesse
a
partire dal 01.07.2014)
SETTEMBRE 2014
Comunicazione dei dati di ricezione e contabilizzazione
relativi
alle fatture emesse dal 1° gennaio al 30.06.2014 per
debiti
non ancora estinti
CON L'ORDINE DI PAGAMENTO
Comunicazione alla piattaforma di certificazione crediti dei
dati
di ricezione, contabilizzazione e pagamento relativi alle
fatture
ricevute dai fornitori a partire dal 01.07.2014 (articolo Il Sole 24 Ore del
14.07.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni stabili, tre vie per superare i limiti ai
contratti. Personale, tempo indeterminato.
L'aumento
delle assunzioni a tempo indeterminato che gli enti locali
possono effettuare sulla base del Dl 90/2014 rischia di
restare sulla carta. Questo perché il vincolo del non
superamento del tetto alla spesa del personale dell'anno
precedente e il negare un effetto prenotativo alla
programmazione del fabbisogno del personale determinano, per
molte amministrazioni, la impossibilità di utilizzare i
maggiori plafond.
Una parziale limitazione di questo effetto può arrivare
anche dal consolidamento della scelta compiuta dalla sezione
regionale di controllo della magistratura contabile
dell'Umbria (parere n. 15), per la quale il tetto alla spesa
del personale deve essere calcolato sul bilancio preventivo
e non sugli oneri effettivamente sostenuti, cioè sul conto
consuntivo.
Gli enti locali soggetti al patto di stabilità devono
restare, come tetto di spesa del personale, all'interno di
quella dell'anno precedente. Il che può impedire di fatto
nuove assunzioni. Facciamo un esempio: un dipendente cessa
all'inizio dell'anno e uno nuovo viene assunto all'inizio
dell'anno successivo. Se non riuscirà a ridurre in altro
modo la spesa del personale nell'anno in cui effettua
l'assunzione, il Comune non potrà effettuarla perché, con i
nuovi oneri, supererà la spesa del personale dell'anno
precedente, in cui la cessazione ha determinato l'effetto di
fargli ridurre la spesa del personale. Il che determina una
limitazione ulteriore alle assunzioni di personale rispetto
a quelle dettate direttamente dal legislatore. Questo
vincolo appare come irragionevole nel momento in cui il
Governo ha ampliato le possibilità di assunzione di
personale a tempo indeterminato da parte degli enti locali,
parziale riapertura che si è realizzata con due scelte:
- in primo luogo, con l'aumento della percentuale dei
risparmi derivanti dalle cessazioni che gli enti possono
destinare alle nuove assunzioni: al 60%, per il biennio
2014/2015; all'80%, per il biennio 2016/2017; al 100%, dal
2018;
- poi attraverso l'abolizione del divieto per gli enti che,
anche considerando la spesa per il personale delle società
partecipate, superano la soglia massima del 50% nel rapporto
tra spesa del personale e spesa corrente.
Per eliminare le limitazioni alle nuove assunzioni che
derivano dal tetto alla spesa del personale vi sono almeno
tre strade percorribili.
- La prima è quella di assumere, come già si fa per gli enti
non soggetti al patto, come tetto di spesa non superabile
quella di un dato anno o meglio, per evitare effetti di
casualità, di un triennio.
- La seconda è quella di assegnare, scelta auspicata dalla
stessa sezione autonomie della Corte dei conti, un effetto
prenotativo sulla spesa del personale alla programmazione
del fabbisogno del personale, cosicché l'inserimento di una
assunzione in tale documento consente di aumentare
convenzionalmente il tetto di spesa del personale dell'anno
su cui fare poi il confronto nell'anno successivo.
- La terza risposta (di portata più limitata) è quella
suggerita dai giudici contabili dell'Umbria di assumere,
come base di confronto, la spesa del personale del bilancio
preventivo, così da non farla diminuire a seguito di eventi
casuali (il ritardo in un'assunzione, l'aspettativa di
personale senza sostituzione, l'assenza del segretario,
eccetera) (articolo Il Sole 24 Ore del
14.07.2014). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
I poteri dell’Amministrazione statale non si
estendono a un riesame complessivo delle valutazioni
discrezionali compiute dalla Regione o da un ente
sub-delegato, tale da consentire la sovrapposizione o
sostituzione di una propria valutazione di merito a quella
compiuta in sede di rilascio dell'autorizzazione
(paesaggistica), ma si estrinsecano in un controllo di mera
legittimità, che comprende tutte le ipotesi riconducibili
all'eccesso di potere per difetto d'istruttoria e carenza,
illogicità o irrazionalità motivazionale.
Per completezza si deve però osservare che
si attaglierebbe alla concreta fattispecie quella
consolidata giurisprudenza secondo la quale i poteri
dell’Amministrazione statale non si estendono a un riesame
complessivo delle valutazioni discrezionali compiute dalla
Regione o da un ente sub-delegato, tale da consentire la
sovrapposizione o sostituzione di una propria valutazione di
merito a quella compiuta in sede di rilascio
dell'autorizzazione, ma si estrinsecano in un controllo di
mera legittimità, che comprende tutte le ipotesi
riconducibili all'eccesso di potere per difetto
d'istruttoria e carenza, illogicità o irrazionalità
motivazionale (ex plurimis: Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9; Sez. VI, 11.09.2013, n. 4481; 12.04.2013, n. 1991)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 16.07.2014 n. 1843 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In base all’articolo 31,
secondo e terzo comma del d.p.r. 06.06.2001 n. 380, il
proprietario deve ritenersi passivamente legittimato
rispetto al provvedimento di demolizione, indipendentemente
dall'essere o meno estraneo alla realizzazione dell' abuso.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, in ogni
caso, nell’ipotesi in cui il proprietario dimostri la sua
assoluta estraneità all'abuso edilizio commesso da altri e
manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi
consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera
abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso
sia stato impossibilitato ad eseguire.
Occorre ricordare che, in base
all’articolo 31, secondo e terzo comma del d.p.r. 06.06.2001 n. 380, il proprietario deve ritenersi passivamente
legittimato rispetto al provvedimento di demolizione,
indipendentemente dall'essere o meno estraneo alla
realizzazione dell' abuso (ex plurimis: TAR Campania,
Napoli, Sezione VIII, 26.04.2013 n. 2180; TAR Puglia,
Lecce, Sezione III, 20.01.2014 n. 184).
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, in ogni
caso, nell’ipotesi in cui il proprietario dimostri la sua
assoluta estraneità all'abuso edilizio commesso da altri e
manifesti il suo attivo interessamento, con i mezzi
consentitigli dall'ordinamento, per la rimozione dell'opera
abusiva, resta salva la sua tutela dagli effetti
dell'inottemperanza all'ordine di demolizione che lo stesso
sia stato impossibilitato ad eseguire (tra le tante
Consiglio di Stato, Sezione IV, 03.05.2011 n. 2639;
TAR Sicilia, Palermo, Sezione III, 21.01.2013 n.
153; TAR Campania, Napoli, Sezione VIII, 17.09.2012 n. 3879; TAR Lazio, Sezione II,
14.02.2011 n. 1395; TAR Umbria, 25.11.2008, n. 787)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 16.07.2014 n. 1840 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le delibere comunali di
adeguamento degli oneri di urbanizzazione possono trovare
applicazione esclusivamente “per i permessi rilasciati a far tempo
dall’epoca di adozione dell’atto deliberativo e non anche
per quelli rilasciati in epoca anteriore”.
L’art. 16 del D.P.R n. 380/2001
stabilisce che “la quota di contributo relativa agli oneri
di urbanizzazione è corrisposta al comune all’atto del
rilascio del permesso di costruire e, su richiesta
dell’interessato, può essere rateizzata” mentre “la quota di
contributo relativa al costo di costruzione, determinata
all’atto del rilascio, è corrisposta in corso d’opera con le
modalità e le garanzie stabilite dal comune, non oltre
sessanta giorni dalla ultimazione della costruzione”.
Se i contributi concessori devono essere stabiliti, secondo
la lettera della norma, al momento del rilascio del permesso
di costruire, “a tale momento occorre dunque avere riguardo
par l’entità dell’onere facendo applicazione della normativa
vigente al momento del rilascio del titolo edilizio”.
Ciò significa che le delibere comunali di adeguamento degli
oneri di urbanizzazione possono trovare applicazione
esclusivamente “per i permessi rilasciati a far tempo
dall’epoca di adozione dell’atto deliberativo e non anche
per quelli rilasciati in epoca anteriore”.
Di conseguenza, una volta che la determinazione degli oneri
concessori sia correttamente avvenuta sulla base delle
tabelle vigente all’epoca del rilascio del permesso di
costruire, non può che rivelarsi “illegittima la pretesa
dell’Amministrazione di addossare al titolare del permesso
edilizio rilasciato anni prima l’ulteriore carico
finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento”.
D’altro canto la convenienza a realizzare o meno
l’intervento edilizio non può prescindere da una valutazione
degli oneri concessori quale significativa componente dei
costo complessivo; per cui, un adeguamento del contributo ex
post si tradurrebbe in un alea insopportabile per chi, ove a
conoscenza di un diversa e maggiore entità del contributo,
si sarebbe magari astenuto dall’iniziativa economica
intrapresa.
Il ricorso pone una questione già
affrontata da questo Tribunale (cfr. sent. n. 48 e n.
2058/2013) che, sulla base di una giurisprudenza
consolidata, ha ritenuto di dover affermare la
irretroattività delle determinazioni comunali a carattere
regolamentare, con cui vengono stabiliti i criteri generali
e le nuove tariffe e modalità di calcolo degli oneri
concessori, in applicazione del principio “tempus regit
actum”.
Il collegio, pertanto, non ravvisando motivo per un diverso
orientamento, ritiene di poter ribadire le conclusioni
raggiunte, richiamandone le argomentazioni svolte.
L’art. 16 del D.P.R n. 380/2001 stabilisce che “la quota di
contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è
corrisposta al comune all’atto del rilascio del permesso di
costruire e, su richiesta dell’interessato, può essere
rateizzata” mentre “la quota di contributo relativa al costo
di costruzione, determinata all’atto del rilascio, è
corrisposta in corso d’opera con le modalità e le garanzie
stabilite dal comune, non oltre sessanta giorni dalla
ultimazione della costruzione”.
Se i contributi concessori devono essere stabiliti, secondo
la lettera della norma, al momento del rilascio del permesso
di costruire, “a tale momento occorre dunque avere riguardo
par l’entità dell’onere facendo applicazione della normativa
vigente al momento del rilascio del titolo edilizio” (TAR
Puglia–Lecce sent. n. 2058/2013).
Ciò significa che le delibere comunali di adeguamento degli
oneri di urbanizzazione possono trovare applicazione
esclusivamente “per i permessi rilasciati a far tempo
dall’epoca di adozione dell’atto deliberativo e non anche
per quelli rilasciati in epoca anteriore” (TAR Puglia–Lecce sent. n. 48/2013).
Di conseguenza, una volta che la determinazione degli oneri
concessori sia correttamente avvenuta sulla base delle
tabelle vigente all’epoca del rilascio del permesso di
costruire, non può che rivelarsi “illegittima la pretesa
dell’Amministrazione di addossare al titolare del permesso
edilizio rilasciato anni prima l’ulteriore carico
finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento”.
D’altro canto la convenienza a realizzare o meno
l’intervento edilizio non può prescindere da una valutazione
degli oneri concessori quale significativa componente dei
costo complessivo; per cui, un adeguamento del contributo ex
post si tradurrebbe in un alea insopportabile per chi, ove a
conoscenza di un diversa e maggiore entità del contributo,
si sarebbe magari astenuto dall’iniziativa economica
intrapresa.
Nella specie, quindi, l’integrazione del costo di
costruzione (Euro 4.970,88), richiesta dal comune di Castro
a distanza di oltre cinque anni dal rilascio del permesso di
costruire con oneri concessori a suo tempo definiti senza
riserve, non può che apparire ingiustificata e contraria a
quanto disposto dell’art. 16 del D.P.R. n. 380 la cui
violazione viene dal ricorrente fondatamente denunciata
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 16.07.2014 n. 1838 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione
dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi
dell’art. 36 d.p.r. n. 380 del 2001 successivamente
all’impugnazione dell’ordine di demolizione produce
l’effetto di rendere improcedibile l’impugnazione stessa per
carenza di interesse: il riesame dell’abusività dell’opera
provocato dall’istanza di sanatoria, difatti, determina la
necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di
accoglimento o di rigetto, che vale comunque a rendere
inefficace il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell’originario ricorso.
L’interesse del responsabile dell’abuso, per conseguenza, si
concentra in queste ipotesi sugli eventuali provvedimenti di
rigetto della domanda di sanatoria prima e di demolizione
poi.
Tanto premesso in fatto, si deve
rammentare che, secondo il prevalente indirizzo della
giurisprudenza amministrativa (per tutte, TAR Puglia,
Lecce, Sezione III, 01.2012 n. 1447), cui questo
Collegio aderisce, “la presentazione dell’istanza di
accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n.
380 del 2001 successivamente all’impugnazione dell’ordine di
demolizione produce l’effetto di rendere improcedibile
l’impugnazione stessa per carenza di interesse: il riesame
dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di
sanatoria, difatti, determina la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto, che vale
comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio
oggetto dell’originario ricorso.
L’interesse del responsabile dell’abuso, per conseguenza, si
concentra in queste ipotesi sugli eventuali provvedimenti di
rigetto della domanda di sanatoria prima e di demolizione
poi (fra le ultime, Tar Campania Napoli, VII, 08.03.2012, n.
1202)”
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 16.07.2014 n. 1833 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il vincolo d’inedificabilità relativa quale la
"fascia di rispetto stradale, a tutela di una viabilità
esistente" esprime un limite di natura conformativa, che si
traduce nell’obbligo di osservare determinate distanze delle
costruzioni dal ciglio delle strade, ed è quindi
insuscettibile di decadenza, con il trascorrere del periodo
quinquennale, legislativamente previsto.
Invero, è già stato ribadito di recente quanto segue:
“Ritorna all’attenzione del Collegio il problema della
decadenza dei vincoli preordinati all’esproprio, di cui si è
più volte occupata la giurisprudenza costituzionale ed
amministrativa.
Il caso di specie, non ancora governato dalle previsioni di
cui al DPR n. 327/2001, risulta riconducibile all’assetto
normativo di cui alla legge fondamentale ed alle previsioni
di cui all’art. 2 della legge 19.11.1968 n. 1187, le cui
linee portanti, così come elaborate dalla giurisprudenza,
possono compendiarsi nella sintetica ricostruzione che
segue.
2.a.- Alla stregua dei principi espressi dalla Corte
costituzionale, con la sentenza 20.05.1999, n. 179
–dichiarativa dell’illegittimità costituzionale del
combinato disposto degli articoli 7, n. 2, 3 e 4 e 40 della
legge 17.08.1942, n. 1150, e 2, primo comma, della legge
19.11.1968, n. 1187, nella parte in cui consente
all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici
scaduti preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità,
senza la previsione di un indennizzo– i vincoli urbanistici
non indennizzabili, e che sfuggono alla previsione del
predetto articolo 2 della legge 19.11.1968, n. 1187, sono
quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di
tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli
urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, e che
devono essere indennizzati, sono:
a) quelli preordinati all’espropriazione ovvero aventi
carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto
implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non
discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore
statale o regionale, attraverso l’imposizione a titolo
particolare su beni determinati di condizioni di
inedificabilità assoluta;
b) quelli che superano la durata non irragionevole e non
arbitraria ove non si compia l’esproprio o non si avvii la
procedura attuativa preordinata a tale esproprio con
l’approvazione dei piani urbanistici esecutivi;
c) quelli che superano quantitativamente la normale
tollerabilità, secondo una concezione della proprietà
regolata dalla legge nell’ambito dell’art. 42 Cost. Il
Consiglio di Stato ha più volte precisato che costituiscono
vincoli soggetti a decadenza, ai sensi dell’articolo 2 della
legge 19.11.1968, n. 1187, quelli preordinati
all’espropriazione, o che comportino l’inedificabilità, e
che, dunque, svuotano il contenuto del diritto di proprietà,
incidendo sul godimento del bene in modo tale da renderlo
inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale,
ovvero diminuendone significativamente il suo valore di
scambio.
A seguito della scadenza dei vincoli di inedificabilità
imposti dal piano regolatore generale, per effetto dell’art.
2 l. 19.11.1968 n. 1187, l’area resta assoggettata alla
disciplina prevista dall’art. 4, ultimo comma, l. 28.01.1977
n. 10 o alla legislazione regionale ove esistente per i
comuni sprovvisti di strumento urbanistico e non alla
disciplina anteriore all’imposizione del vincolo o
ricavabile dalle destinazioni proprie delle aree limitrofe.
2.b. Tanto premesso, la Suprema Corte di Cassazione,
occupandosi della natura dei vincoli relativi alle opere di
viabilità previste nel prg, ha chiarito che l’indicazione
delle opere di viabilità nel piano regolatore generale (art.
7, comma 2, n. 1 l. 17.08.1942 n. 1150), pur comportando un
vincolo di inedificabilità delle parti del territorio
interessate, con le relative conseguenze nella scelta del
criterio di determinazione dell’indennità di esproprio nel
sistema dell’art. 5-bis l. 08.08.1992 n. 359, basato sulla
edificabilità o meno dei suoli, non concreta un vincolo
preordinato all’esproprio, a meno che tale destinazione non
sia assimilabile all’indicazione delle reti stradali
all’interno e a servizio delle singole zone (art. 13 l. n.
1150 del 1942) di regola rimesse allo strumento di
attuazione, e come tali riconducibili ai vincoli imposti a
titolo particolare, a carattere espropriativo.
2.c.- La giurisprudenza di merito ha chiarito, altresì, che
la destinazione dell’area a fascia di rispetto della sede
viaria non costituisce utilizzazione a fini pubblici
dell’area stessa né introduce un vincolo preordinato
all’esproprio, ma integra un vincolo di natura conformativa
costituente un limite all’edificabilità dell’area che
l’amministrazione può imporre nell’esercizio dei suoi poteri
ampiamente discrezionali in tema di pianificazione del
territorio e che trova la sua giustificazione nell’esigenza
di tutela del superiore interesse pubblico alla sicurezza
della circolazione stradale; pertanto, alla natura
conformativa del vincolo consegue che lo stesso non soggiace
a decadenza quinquennale”.
---------------
La stessa conclusione, cui giunge la sentenza di questo
Tribunale, testé citata, non costituisce, del resto, una
voce isolata nella giurisprudenza amministrativa, ma è
ribadita costantemente, come si ricava dalle massime
seguenti (per citare solo le più recenti):
- “In caso di area ricadente in parte all’interno della
“fascia di rispetto delle sedi stradali” e in parte in “sede
stradale”, le porzioni di terreno ricadenti nella zona di
rispetto della sede stradale sono soggette ad un vincolo
conformativo non soggetto a decadenza, mentre la porzione di
terreno ricadente in area destinata a sede stradale è
soggetta ad un vincolo di natura espropriativa”;
- “Il vincolo di inedificabilità della “fascia di rispetto
stradale” –che è una tipica espressione dell’attività
pianificatoria della p.a. nei riguardi di una generalità di
beni e di soggetti– non ha natura espropriativa, ma
unicamente conformativa, perché ha il solo effetto di
imporre alla proprietà l’obbligo di conformarsi alla
destinazione impressa al suolo in funzione di salvaguardia
della programmazione urbanistica, indipendentemente
dall’eventuale instaurazione di procedure espropriative”.
A tale riguardo, la difesa del Comune ha
opposto che, per consolidato orientamento giurisprudenziale,
il vincolo d’inedificabilità relativa in questione (fascia
di rispetto stradale, a tutela di una viabilità esistente)
esprimerebbe, invece, un limite di natura conformativa, che
si traduce nell’obbligo di osservare determinate distanze
delle costruzioni dal ciglio delle strade, ed è quindi
insuscettibile di decadenza, con il trascorrere del periodo
quinquennale, legislativamente previsto.
La tesi della difesa del Comune è condivisibile: si
richiama, a tale proposito, la parte motiva della recente
sentenza di questa Sezione Staccata di Salerno del TAR Campania
- Sez. II, n. 1276 del 13.06.2013, ove è
dato leggere quanto segue:
“Ritorna all’attenzione del Collegio il problema della
decadenza dei vincoli preordinati all’esproprio, di cui si è
più volte occupata la giurisprudenza costituzionale ed
amministrativa.
Il caso di specie, non ancora governato dalle previsioni di
cui al DPR n. 327/2001, risulta riconducibile all’assetto
normativo di cui alla legge fondamentale ed alle previsioni
di cui all’art. 2 della legge 19.11.1968 n. 1187, le
cui linee portanti, così come elaborate dalla
giurisprudenza, possono compendiarsi nella sintetica
ricostruzione che segue.
2.a.- Alla stregua dei principi espressi dalla Corte
costituzionale, con la sentenza 20.05.1999, n. 179 –dichiarativa dell’illegittimità costituzionale del combinato
disposto degli articoli 7, n. 2, 3 e 4 e 40 della legge 17.08.1942, n. 1150, e 2, primo comma, della legge 19.11.1968, n. 1187, nella parte in cui consente
all’Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici
scaduti preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità,
senza la previsione di un indennizzo– i vincoli urbanistici
non indennizzabili, e che sfuggono alla previsione del
predetto articolo 2 della legge 19.11.1968, n. 1187,
sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli
di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i
vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, e
che devono essere indennizzati, sono:
a) quelli preordinati
all’espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente
espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo
della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel
tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso
l’imposizione a titolo particolare su beni determinati di
condizioni di inedificabilità assoluta;
b) quelli che
superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove
non si compia l’esproprio o non si avvii la procedura
attuativa preordinata a tale esproprio con l’approvazione
dei piani urbanistici esecutivi;
c) quelli che superano
quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una
concezione della proprietà regolata dalla legge nell’ambito
dell’art. 42 Cost. Il Consiglio di Stato ha più volte
precisato che costituiscono vincoli soggetti a decadenza, ai
sensi dell’articolo 2 della legge 19.11.1968, n. 1187,
quelli preordinati all’espropriazione, o che comportino l’inedificabilità,
e che, dunque, svuotano il contenuto del diritto di
proprietà, incidendo sul godimento del bene in modo tale da
renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione
naturale, ovvero diminuendone significativamente il suo
valore di scambio.
A seguito della scadenza dei vincoli di inedificabilità
imposti dal piano regolatore generale, per effetto dell’art.
2 l. 19.11.1968 n. 1187, l’area resta assoggettata
alla disciplina prevista dall’art. 4, ultimo comma, l. 28.01.1977 n. 10 o alla legislazione regionale ove
esistente per i comuni sprovvisti di strumento urbanistico e
non alla disciplina anteriore all’imposizione del vincolo o
ricavabile dalle destinazioni proprie delle aree limitrofe
(ex multis Cons. St. Sez. V 03.10.1992 n. 924).
2.b. Tanto premesso, la Suprema Corte di Cassazione,
occupandosi della natura dei vincoli relativi alle opere di
viabilità previste nel prg, ha chiarito che l’indicazione
delle opere di viabilità nel piano regolatore generale (art.
7, comma 2, n. 1 l. 17.08.1942 n. 1150), pur comportando
un vincolo di inedificabilità delle parti del territorio
interessate, con le relative conseguenze nella scelta del
criterio di determinazione dell’indennità di esproprio nel
sistema dell’art. 5-bis l. 08.08.1992 n. 359, basato
sulla edificabilità o meno dei suoli, non concreta un
vincolo preordinato all’esproprio, a meno che tale
destinazione non sia assimilabile all’indicazione delle reti
stradali all’interno e a servizio delle singole zone (art.
13 l. n. 1150 del 1942) di regola rimesse allo strumento di
attuazione, e come tali riconducibili ai vincoli imposti a
titolo particolare, a carattere espropriativo (Sez. I 06.11.2008 n. 26615).
2.c.- La giurisprudenza di merito ha chiarito, altresì, che
la destinazione dell’area a fascia di rispetto della sede
viaria non costituisce utilizzazione a fini pubblici
dell’area stessa né introduce un vincolo preordinato
all’esproprio, ma integra un vincolo di natura conformativa
costituente un limite all’edificabilità dell’area che
l’amministrazione può imporre nell’esercizio dei suoi poteri
ampiamente discrezionali in tema di pianificazione del
territorio e che trova la sua giustificazione nell’esigenza
di tutela del superiore interesse pubblico alla sicurezza
della circolazione stradale; pertanto, alla natura
conformativa del vincolo consegue che lo stesso non soggiace
a decadenza quinquennale (ex multis Tar Liguria Sez. I 01.02.2011 n. 172)”.
La stessa conclusione, cui giunge la sentenza di questo
Tribunale, testé citata, non costituisce, del resto, una
voce isolata nella giurisprudenza amministrativa, ma è
ribadita costantemente, come si ricava dalle massime
seguenti (per citare solo le più recenti): “In caso di area
ricadente in parte all’interno della “fascia di rispetto
delle sedi stradali” e in parte in “sede stradale”, le
porzioni di terreno ricadenti nella zona di rispetto della
sede stradale sono soggette ad un vincolo conformativo non
soggetto a decadenza, mentre la porzione di terreno
ricadente in area destinata a sede stradale è soggetta ad un
vincolo di natura espropriativa” (TAR Sicilia–Palermo
– Sez. III, 24.05.2013, n. 1167); “Il vincolo di inedificabilità della “fascia di rispetto stradale” –che è
una tipica espressione dell’attività pianificatoria della p.a. nei riguardi di una generalità di beni e di soggetti–
non ha natura espropriativa, ma unicamente conformativa,
perché ha il solo effetto di imporre alla proprietà
l’obbligo di conformarsi alla destinazione impressa al suolo
in funzione di salvaguardia della programmazione
urbanistica, indipendentemente dall’eventuale instaurazione
di procedure espropriative” (Consiglio di Stato – Sez. IV,
27.09.2012, n. 5113; conformi: TAR Puglia–Lecce, Sez.
I, 19.10.2011, n. 1798; TAR Lombardia–Milano, Sez. IV,
21.04.2011, n. 1019).
Ne deriva che, trattandosi di vincolo conformativo anziché
espropriativo, e non essendo quindi, il medesimo, soggetto a
decadenza quinquennale, il motivo di diniego, impingente
nella destinazione impressa alla zona, e nelle connesse
previsioni, circa l’edificazione assentibile, contenute
nelle N.T.A. del P.R.G., resiste alle censure espresse
in ricorso (ammesso e non concesso che le stesse possano
ritenersi compiutamente formulate sul punto).
Ne deriva che il motivo di ricorso sub 1), basato proprio
sulla natura di “zona bianca” ascrivibile all’area “de qua”,
non ha pregio, una volta venuto meno il presupposto, su cui
si fondava; lo stesso dicasi per il motivo sub 2)
(imperniato sull’asserito non superamento del limite
volumetrico dello 0,03 mc/mq); mentre, quanto al difetto di
motivazione circa le “modifiche inaccettabili del piano di
campagna”, che l’intervento proposto avrebbe determinato,
dedotto dal ricorrente sub 3), deve rimarcarsene
l’irrilevanza, una volta stabilito che un altro motivo di
diniego resisterebbe, in ogni caso, alle doglianze espresse
in ricorso, giusta quanto anche sopra rilevato.
Per ciò che concerne, infine, l’asserita violazione
dell’art. 10-bis della l. 241/1990, di cui alla quarta ed
ultima censura, la stessa non merita accoglimento, posto che
i nuovi motivi di definitivo diniego (i quali, non espressi
nel preavviso ex art. 10-bis l. 241/1990, avrebbero
determinato la violazione del principio del contraddittorio
sostanziale), sono stati formulati, come sopra anche
rilevato, in risposta alle osservazioni, rassegnate dal
ricorrente nelle memorie prodotte, dopo aver ricevuto il
detto preavviso di provvedimento negativo; sicché non può
predicarsene la diversità, rispetto a quelli espressi
precedentemente, dovendosi anzi rimarcare come il rispetto
del canone del contraddittorio procedimentale si sia spinto,
nella specie, fino alla formulazione di una ragione di
rigetto dell’istanza di p. di c., ulteriore rispetto a
quella, dirimente, del contrasto dell’intervento previsto
con il vincolo di fascia di rispetto stradale, per il caso
che quest’ultima non fosse stata ritenuta valida
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 16.07.2014 n. 1393 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ noto che, in presenza di una domanda di
sanatoria di abusi edilizi, diventano inefficaci i
precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizioni,
inibitorie, ordine di sospensione dei lavori), sul
presupposto, così come affermato da ricorrente
giurisprudenza, che “sul piano procedimentale, il Comune è
tenuto innanzi tutto a esaminare ed eventualmente a
respingere la domanda di condono effettuando, comunque, una
nuova valutazione della situazione mentre, dal punto di
vista processuale, la documentata presentazione di istanza
di condono comporta l’improcedibilità del ricorso per
carenza di interesse avverso i pregressi provvedimenti
repressivi”.
Ciò detto, il ricorso può essere
dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse, vista l’istanza di sanatoria presentata dal
ricorrente e documentata in atti.
E’ noto, infatti, che, in presenza di una domanda di
sanatoria di abusi edilizi, diventano inefficaci i
precedenti atti sanzionatori (ordini di demolizioni,
inibitorie, ordine di sospensione dei lavori), sul
presupposto, così come affermato da ricorrente
giurisprudenza, che “sul piano procedimentale, il Comune
è tenuto innanzi tutto a esaminare ed eventualmente a
respingere la domanda di condono effettuando, comunque, una
nuova valutazione della situazione mentre, dal punto di
vista processuale, la documentata presentazione di istanza
di condono comporta l’improcedibilità del ricorso per
carenza di interesse avverso i pregressi provvedimenti
repressivi” (Consiglio di Stato, Sez. V, 31.10.2012, n.
5553)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 16.07.2014 n. 1387 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Il Collegio osserva che, nella fattispecie in esame,
l’incarico affidato ai legali esterni consisteva nella
complessiva attività di assistenza e consulenza legale da
espletarsi in favore del Comune, ovvero nella gestione di
tutto il servizio di attività legale dell’amministrazione,
comprensivo, come specificato nello schema di convenzione,
di attività di consultazioni orali, scritte, e di redazione
di pareri.
In sostanza, non si trattava, nello specifico,
dell’affidamento, in via fiduciaria, di un singolo incarico
o di una singola attività afferente ad una specifica
vertenza legale, ma, piuttosto, della organizzazione di una
complessiva attività di assistenza in favore dell’ente
locale, da farsi rientrare, a pieno titolo, nella nozione
ampia di consulenza legale.
Per tali ragioni, il Collegio ritiene che il Comune avrebbe
dovuto attivare una procedura comparativa allo scopo di
selezionare, secondo logiche concorrenziali, il proprio
contraente.
A sostegno di tale conclusione, soccorre anche quanto
previsto nello stesso Regolamento per la disciplina degli
incarichi esterni, approvato dal Comune con
delibera n. 102/2010 che, allo scopo di garantire la
trasparenza e pubblicità dell’azione amministrativa,
unitamente alla professionalità degli incarichi, ammette,
all’art. 6, la possibilità di procedere al conferimento
diretto di incarichi legali a professionisti esterni nelle
sole e limitate ipotesi di rappresentanza e difesa in
giudizio e di particolari consulenze, laddove l’ente locale
reputi che la scelta di un determinato professionista
risulti utile al buon esito della lite, prevedendo, negli
altri casi, l’utilizzo di procedure selettive per la scelta
del professionista esterno.
Il tutto in conformità con quanto previsto, in via generale,
dall’art. 7, comma 6, del D. Lgs n. 165/2001, come modificato
dall’art. 32 del D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006, a
mente del quale le amministrazioni pubbliche disciplinano e
rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, le
procedure comparative per il conferimento degli incarichi di
collaborazione a professionisti esterni, potendo procedere
al conferimento di incarichi individuali solo per soddisfare
esigenze cui non possono far fronte con personale in
servizio, ed alle condizioni e con i presupposti
specificamente individuati dal legislatore.
Giova, inoltre, ricordare quanto espresso di recente dalla
giurisprudenza contabile (Corte Conti, Sez. Reg. Controllo
Basilicata, parere n. 8/2009) e dall’autorevole orientamento
della giurisprudenza amministrativa, secondo la quale
occorre distinguere la nozione di servizio legale da quella
di singolo incarico difensivo, caratterizzandosi il
servizio
legale per un quid pluris, sotto il profilo
dell’organizzazione, della continuità e della complessità,
rispetto al singolo contratto d’opera intellettuale.
Mentre il patrocinio legale, infatti, costituendo il
contratto volto a soddisfare il solo e circoscritto bisogno
di difesa giudiziale del cliente, deve essere inquadrato
nell’ambito della prestazione d’opera intellettuale, il
servizio legale presenta qualcosa in più, per prestazione o
modalità organizzativa, che giustifica il suo
assoggettamento alla disciplina concorsuale.
L’affidamento di servizi legali è, a questa stregua,
configurabile allorquando l’oggetto del servizio non si
esaurisce nel patrocinio legale a favore dell’Ente, ma si
configura quale modalità organizzativa di un servizio,
affidato a professionisti esterni, più complesso e
articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale
ma in essa non si esaurisce.
Esso, quindi, soggiace alle regole delle procedure
concorsuali di stampo selettivo, incompatibili con il solo
contratto di conferimento del singolo e puntuale incarico
legale, vista la struttura della fattispecie contrattuale,
qualificata, alla luce dell’aleatorietà dell’iter del
giudizio, dalla non predeterminabilità degli aspetti
temporali, economici e sostanziali della prestazioni e dalla
conseguente assenza di basi oggettive sulla scorta delle
quali fissare i criteri di valutazione necessari in forza
della disciplina recata dal codice dei contratti pubblici.
L’avv.to B.L.A., titolare di uno
studio legale in Calabritto ed avvocato iscritto all’Albo
del Foro di S. Angelo dei Lombardi (AV), ha impugnato la
delibera n. 1 del 11.06.2013 con la quale il Comune di Caposele ha conferito agli avv.ti P.M. e T.R. l’incarico di collaborazione esterna ad alto
contenuto di professionalità da svolgersi per la consulenza
legale, giudiziale e stragiudiziale, a tutti gli organi
comunali, per la durata di un anno.
Il ricorrente ha dedotto l’illegittimità di tale delibera
per violazione dell’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, dell’art.
100 del T.U. n. 267/2000, del Regolamento sugli incarichi
esterni del Comune di Caposele, approvato con delibera n.
102/2010, e dell’art. 33 del R.O. del Comune.
Ha, inoltre, censurato la delibera per illegittimità
derivata dalla violazione degli artt. 21 e 23 della Carta
Europea dei diritti dell’Uomo, dell’art. 51 della
Costituzione, dell’art. 6 del T.U. n. 267/2000 e degli artt.
9 e 40 dello Statuto Comunale.
Da ultimo, ha censurato la violazione degli artt. 78 e 49 del
T.U. n. 267/2000.
In sostanza, a detta del ricorrente, il Comune, vista la
natura dell’incarico in questione, non avrebbe potuto
procedere al suo diretto conferimento agli avv.ti M.
e R. ma avrebbe dovuto porre in essere una procedura
concorsuale di tipo selettivo, aperta alla partecipazione di
tutti coloro che, in possesso dei titoli e requisiti
richiesti, aspiravano al conseguimento dell’incarico.
Nella formazione della seduta consiliare del 10.06.2013,
poi, non erano state rispettate le c.d. quote rosa, ed il
Sindaco non si era astenuto, proponendo e affidando
l’incarico al coniuge di un parente entro il quarto grado,
sottoscrivendo, altresì, il parere tecnico sulla proposta di
delibera impugnata.
Per tali ragioni la delibera andava annullata.
...
Passando, ora, al merito delle censure proposte, il Collegio
ritiene che il ricorso sia fondato.
Il Collegio osserva che, nella fattispecie in esame,
l’incarico affidato ai legali esterni consisteva nella
complessiva attività di assistenza e consulenza legale da
espletarsi in favore del Comune, ovvero nella gestione di
tutto il servizio di attività legale dell’amministrazione,
comprensivo, come specificato nello schema di convenzione,
di attività di consultazioni orali, scritte, e di redazione
di pareri. In sostanza, non si trattava, nello specifico,
dell’affidamento, in via fiduciaria, di un singolo incarico
o di una singola attività afferente ad una specifica
vertenza legale, ma, piuttosto, della organizzazione di una
complessiva attività di assistenza in favore dell’ente
locale, da farsi rientrare, a pieno titolo, nella nozione
ampia di consulenza legale.
Per tali ragioni, il Collegio ritiene che il Comune avrebbe
dovuto attivare una procedura comparativa allo scopo di
selezionare, secondo logiche concorrenziali, il proprio
contraente.
A sostegno di tale conclusione, soccorre anche quanto
previsto nello stesso Regolamento per la disciplina degli
incarichi esterni, approvato dal Comune di Caposele con
delibera n. 102/2010 che, allo scopo di garantire la
trasparenza e pubblicità dell’azione amministrativa,
unitamente alla professionalità degli incarichi, ammette,
all’art. 6, la possibilità di procedere al conferimento
diretto di incarichi legali a professionisti esterni nelle
sole e limitate ipotesi di rappresentanza e difesa in
giudizio e di particolari consulenze, laddove l’ente locale
reputi che la scelta di un determinato professionista
risulti utile al buon esito della lite, prevedendo, negli
altri casi, l’utilizzo di procedure selettive per la scelta
del professionista esterno.
Il tutto in conformità con quanto previsto, in via generale,
dall’art. 7, comma 6, del D. Lgs n. 165/2001, come modificato
dall’art. 32 del D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006, a
mente del quale le amministrazioni pubbliche disciplinano e
rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, le
procedure comparative per il conferimento degli incarichi di
collaborazione a professionisti esterni, potendo procedere
al conferimento di incarichi individuali solo per soddisfare
esigenze cui non possono far fronte con personale in
servizio, ed alle condizioni e con i presupposti
specificamente individuati dal legislatore.
Giova, inoltre, ricordare quanto espresso di recente dalla
giurisprudenza contabile (Corte Conti, Sez. Reg. Controllo
Basilicata, parere n. 8/2009) e dall’autorevole orientamento
della giurisprudenza amministrativa, secondo la quale
occorre distinguere la nozione di servizio legale da quella
di singolo incarico difensivo, caratterizzandosi il
servizio
legale per un quid pluris, sotto il profilo
dell’organizzazione, della continuità e della complessità,
rispetto al singolo contratto d’opera intellettuale.
Mentre il patrocinio legale, infatti, costituendo il
contratto volto a soddisfare il solo e circoscritto bisogno
di difesa giudiziale del cliente, deve essere inquadrato
nell’ambito della prestazione d’opera intellettuale, il
servizio legale presenta qualcosa in più, per prestazione o
modalità organizzativa, che giustifica il suo
assoggettamento alla disciplina concorsuale.
L’affidamento di servizi legali è, a questa stregua,
configurabile allorquando l’oggetto del servizio non si
esaurisce nel patrocinio legale a favore dell’Ente, ma si
configura quale modalità organizzativa di un servizio,
affidato a professionisti esterni, più complesso e
articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale
ma in essa non si esaurisce (Autorità per la Vigilanza sui
Contratti, determina n. 4 del 07.07.2011).
Esso, quindi, soggiace alle regole delle procedure
concorsuali di stampo selettivo, incompatibili con il solo
contratto di conferimento del singolo e puntuale incarico
legale, vista la struttura della fattispecie contrattuale,
qualificata, alla luce dell’aleatorietà dell’iter del
giudizio, dalla non predeterminabilità degli aspetti
temporali, economici e sostanziali della prestazioni e dalla
conseguente assenza di basi oggettive sulla scorta delle
quali fissare i criteri di valutazione necessari in forza
della disciplina recata dal codice dei contratti pubblici (Cons. Stato, sez. V. 11.05.2012 n. 2730).
Alla luce di tali argomentazioni, deve concludersi che,
vista la natura e complessità dell’incarico conferito dal
Comune di Caposele, la mancata attivazione di una procedura
comparativa di tipo concorsuale, da parte dell’Ente locale,
per la scelta del miglior contraente, abbia determinato
l’illegittimità della delibera gravata, che, per tale
ragione, deve essere annullata
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 16.07.2014 n. 1383 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La prescrizione di cui all’art. 8 del D.M.
1444/1968 (secondo cui, per le costruzioni da realizzarsi in
zone C, che siano contigue o in diretto rapporto visuale con
zone A, le altezze massime dei nuovi edifici non possono
superare altezze “compatibili” con quelle degli edifici
delle zone A) rimanda all’amministrazione la valutazione di
compatibilità delle altezze delle nuove costruzioni rispetto
a quelle esistenti in zona A, con un giudizio che è
pacificamente caratterizzato da connotati di discrezionalità
tecnica, quindi sindacabile solo nelle ipotesi in cui
emergano elementi sintomatici dell’eccesso di potere sotto
il profilo della illogicità manifesta, della erroneità dei
presupposti di fatto e della sproporzionalità del rapporto
tra esistente e realizzando in deroga.
Infine, anche il quarto motivo di
ricorso risulta infondato.
Sul punto questo tribunale si è
già espresso con la sentenza numero 41 del 2014, affermando
che la prescrizione di cui all’art. 8 del D.M. 1444/1968
(secondo cui, per le costruzioni da realizzarsi in zone C,
che siano contigue o in diretto rapporto visuale con zone A,
le altezze massime dei nuovi edifici non possono superare
altezze “compatibili” con quelle degli edifici delle zone A)
rimanda all’amministrazione la valutazione di compatibilità
delle altezze delle nuove costruzioni rispetto a quelle
esistenti in zona A, con un giudizio che è pacificamente
caratterizzato da connotati di discrezionalità tecnica,
quindi sindacabile solo nelle ipotesi in cui emergano
elementi sintomatici dell’eccesso di potere sotto il profilo
della illogicità manifesta, della erroneità dei presupposti
di fatto e della sproporzionalità del rapporto tra esistente
e realizzando in deroga (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 16.07.2014 n. 1036 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La tutela del diritto di accesso, come previsto
dall'art. 22, comma 2, della L. n. 241 del 1990 (come
modificata dalla L. n. 69 del 2009), è preordinata al
perseguimento di rilevanti finalità di pubblico interesse al
fine di favorire la partecipazione e di assicurare
l'imparzialità e la trasparenza dell'attività
amministrativa.
La giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che la domanda
di accesso:
a) deve avere un oggetto determinato o quanto meno
determinabile, e non può essere generica;
b) deve riferirsi a specifici documenti senza necessità di
un'attività di elaborazione di dati da parte del soggetto
destinatario della richiesta;
c) deve essere finalizzata alla tutela di uno specifico
interesse giuridico di cui il richiedente è portatore;
d) non può essere uno strumento di controllo generalizzato
dell'operato della P.A.;
e) non può assumere il carattere di una indagine o un
controllo ispettivo, cui sono ordinariamente preposti organi
pubblici.
Ed ancora, è stato affermato che l'accesso c.d.
defensionale, cioè propedeutico alla miglior tutela delle
proprie ragioni in giudizio (già pendente o da introdurre),
ovvero nell'ambito di un procedimento amministrativo, riceve
protezione preminente dall'ordinamento atteso che, per
espressa previsione normativa (art. 24, u.c., L. n. 241 del
1990), prevale su eventuali interessi contrapposti (in
particolare sull'interesse alla riservatezza dei terzi,
financo quando sono in gioco dati personali sensibili e, in
alcuni casi, anche dati ultrasensibili.
Il ricorso è fondato.
Ed invero, la tutela del diritto di accesso, come previsto
dall'art. 22, comma 2, della L. n. 241 del 1990 (come
modificata dalla L. n. 69 del 2009), è preordinata al
perseguimento di rilevanti finalità di pubblico interesse al
fine di favorire la partecipazione e di assicurare
l'imparzialità e la trasparenza dell'attività amministrativa
(ex multis Cons. St., sez. IV, 14.04.2010, n. 2093).
La giurisprudenza amministrativa (ex multis Cons. St., sez.
VI, 10.02.2006, n. 555) ha ritenuto che la domanda di
accesso:
a) deve avere un oggetto determinato o quanto meno
determinabile, e non può essere generica;
b) deve riferirsi
a specifici documenti senza necessità di un'attività di
elaborazione di dati da parte del soggetto destinatario
della richiesta (Cons. Stato, sez. VI, 20.05.2004, n.
3271; sez. IV, 09.08.2005, n. 4216);
c) deve essere
finalizzata alla tutela di uno specifico interesse giuridico
di cui il richiedente è portatore;
d) non può essere uno
strumento di controllo generalizzato dell'operato della P.A.
(ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 12.01.2011, n. 116;
id., sez. IV, n. 2283/2002; TAR Campania Salerno, sez. II,
02.02.2011, n. 187);
e) non può assumere il carattere
di una indagine o un controllo ispettivo, cui sono
ordinariamente preposti organi pubblici (Cons. St., sez. IV,
29.04.2002, n. 2283; Tar Lazio, sez. II, 22.07.1998, n. 1201).
Ed ancora, è stato affermato che l'accesso c.d.
defensionale, cioè propedeutico alla miglior tutela delle
proprie ragioni in giudizio (già pendente o da introdurre),
ovvero nell'ambito di un procedimento amministrativo, riceve
protezione preminente dall'ordinamento atteso che, per
espressa previsione normativa (art. 24, u.c., L. n. 241 del
1990), prevale su eventuali interessi contrapposti (in
particolare sull'interesse alla riservatezza dei terzi,
financo quando sono in gioco dati personali sensibili e, in
alcuni casi, anche dati ultrasensibili (Cfr. C.S., Sez. VI,
03.02.2011 n. 783)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 16.07.2014 n. 1042 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' legittima la prescrizione della
Soprintendenza, nell'espressione del proprio parere ex art.
167 d.lgs 42/2004, laddove impone la rimozione dell’impianto
fotovoltaico costituito da tredici pannelli ed allocato
sulla falda est del tetto relativo alla costruzione a due
piani e motivato nei seguenti termini:
“che enga rimosso l’impianto fotovoltaico e/o solare
costituito da 13 pannelli installati sulla falda est, in
quanto risulta in ordine alla posizione, alle dimensioni,
alle forme, ai cromatismi, al trattamento superficiale e
riflettente, estremamente stridente rispetto all’ambito nel
quale si colloca e tale da alterare in modo negativo la
visione del contesto paesaggistico circostante che si può
percepire sia dal basso che da posizione elevata o a
distanza”.
Il Ministero per i beni e le attività culturali impugna la
sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Veneto
10.10.2013 n. 1157 che ha accolto il ricorso proposto
dai signori Pericolosi e Consolati avverso il parere della
Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di
Verona, Rovigo e Vicenza 10.06.2013 n. 8346 nella parte
in cui imponeva la rimozione dell’impianto fotovoltaico
costituito da tredici pannelli ed allocato sulla falda est
del tetto relativo alla costruzione a due piani posta nel
Comune di Malcesine (Verona).
L’Amministrazione appellante si duole della erroneità della
sentenza e ne chiede la riforma, con consequenziale
reiezione del ricorso di primo grado, sul rilievo della
congruità e della compiutezza della motivazione addotta
dalla Soprintendenza nel parere avversato in primo grado.
...
2. Rileva il Collegio che la manifesta fondatezza
dell’appello consente la immediata definizione del giudizio
con sentenza in forma semplificata, ai sensi dell’art. 60
Cod. proc. amm..
Nell’atto oggetto della impugnazione di primo grado, reso ai
sensi dell’art. 167 e dell’art. 181 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), la
Soprintendenza ha espresso il parere favorevole
all’intervento edilizio programmato dagli odierni appellati
sulla costruzione a due piani sita nel Comune di Malcesine
(intervento consistente, nel suo insieme, nella apertura di
alcune porte e finestre, nel rialzamento della falda di
copertura, nell’abbassamento della falda posta ad est e
nell’ installazione di pannelli fotovoltaici su falda est ed
ovest), subordinando tuttavia il parere favorevole alla
osservanza della seguente condizione prescrittiva:
- “venga rimosso l’impianto fotovoltaico e/o solare
costituito da 13 pannelli installati sulla falda est, in
quanto risulta in ordine alla posizione, alle dimensioni,
alle forme, ai cromatismi, al trattamento superficiale e
riflettente, estremamente stridente rispetto all’ambito nel
quale si colloca e tale da alterare in modo negativo la
visione del contesto paesaggistico circostante che si può
percepire sia dal basso che da posizione elevata o a
distanza”.
3.- Ritiene il Collegio che, contrariamente a quanto
rilevato dal giudice di primo grado, la Soprintendenza abbia
dato una congrua motivazione riguardo alle ragioni che si
frappongono alla definitiva allocazione dei pannelli
fotovoltaici anche sulla falda est della costruzione (nella
prospettiva particolare, cioè, del lago di Garda), a
differenza di quanto assentito senza riserve o condizioni in
relazione ai pannelli apposti sulla falda ovest dello stesso
fabbricato.
L’autorità preposta alla tutela paesaggistica si è
soffermata, in particolare, ad analizzare i distinti profili
(posizione, dimensioni, forme, cromatismi) che la hanno
spinta ad apporre la condizione al parere di compatibilità
paesaggistica (per la restante parte, vale sottolineare,
favorevole all’intervento) di tal che, considerata la
puntualità e la congruità delle ragioni addotte a sostegno
della condizione, non pare condivisibile quanto affermato
dal giudice di primo grado a proposito del carattere
stereotipato e “adattabile a qualsiasi caso” della
motivazione dell’atto soprintendentizio.
Al contrario, si deve convenire con il Ministero appellante
sul fatto che dalla lettura del parere risultano chiare e
coerenti le ragioni ostative individuate, con una
valutazione tecnico-discrezionale che è propria della tutela
del patrimonio culturale e che risulta immune dai vizi di
irragionevolezza o di errore nei presupposti, e che
escludono la compatibilità paesaggistica dell’impianto
fotovoltaico posizionato sul lato est del tetto in ragione
del suo negativo impatto sul particolare paesaggio lacuale,
stante la sua piena visibilità, anche a distanza, sia dal
basso che dall’alto.
4.-Alla luce delle considerazioni che precedono, l’appello
va accolto e, in riforma dell’impugnata sentenza, va
respinto il ricorso di primo grado
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.07.2014 n. 3637 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla contrattazione collettiva che le imprese
partecipanti a procedure di affidamento di appalti pubblici
sono tenute a rispettare.
La contrattazione collettiva che le imprese partecipanti a
procedure di affidamento di appalti pubblici sono tenute a
rispettare deve essere coerente con la natura delle
prestazioni oggetto dei contratti posti a gara ("collegata
alla realtà dell'operazione successiva"), a garanzia
della corretta esecuzione degli stessi.
Questo profilo rileva ai fini della verifica della congruità
dell'offerta, ma non già come ragione di esclusione dalla
gara.
Per quanto concerne le cooperative sociali, esse sono
pacificamente legittimati a partecipare a procedure di
affidamento di appalti pubblici [art. 34, c. 1, lett. a),
d.lgs. n. 163/2006] e la contrattazione collettiva cui sono
soggette è applicabile "a tutti i diversi tipi di
attività che le cooperative sociali possono svolgere",
ivi compresa la raccolta dei rifiuti, in relazione al quale
il contratto collettivo attualmente vigente contempla figure
professionali coerenti con la tipologia di detta attività,
tra cui operai qualificati ed autisti con patenti per la
guida degli automezzi in essa impiegati (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 11.07.2014 n. 3571 - link a
www.dirittodeiservizipubbici.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sull'annullamento di una delibera comunale con
cui è stato disposto l'affidamento in house del servizio di
igiene urbana ad una società a partecipazione pubblica per
mancanza dei requisiti del controllo analogo e della
prevalenza dell'attività.
Deve essere annullata la delibera di un consiglio comunale
con cui è stato disposto l'affidamento in house del servizio
di igiene urbana ad una società a partecipazione pubblica,
per mancanza dei requisiti prescritti ai fini di un
legittimo affidamento senza gara ("controllo analogo"
sulla società da parte degli enti soci e "destinazione
prevalente dell'attività a favore dell'ente affidante").
Nel caso di specie, infatti, in considerazione della minima
partecipazione che l'ente locale ha nella società e della
situazione normativa, statutaria e fattuale della stessa, il
medesimo non ha, nell'ambito della società affidataria
posseduta in comune con gli altri enti locali, una posizione
idonea a garantirgli la benché minima possibilità di
partecipare al controllo di tale società. Il comune,
infatti, non risulta prendere parte, in alcun modo,
all'esercizio del controllo analogo sulla società in
questione, neanche congiuntamente con gli altri comuni soci.
La minima partecipazione al capitale della società,
costituita da una sola azione su 1200 totali e la
circostanza che essa non partecipa agli organi direttivi e
amministrativi della società, se non nelle forme del diritto
comune ossia mediante la partecipazione, in qualità di
socio, all'assemblea che nomina i membri del CdA, e non ha
specifici poteri per indirizzarne o controllarne l'attività
devono, dunque, escludere che il controllo esercitato dal
comune affidante sulla società affidataria sia effettivo.
Il requisito del controllo analogo, necessario ai fini della
legittimità dell'affidamento in house, è pertanto assente,
come il requisito della prevalenza dell'attività. Infatti,
la circostanza che la società affidataria svolga in favore
dei vari enti locali soci, complessivamente considerati,
solamente la metà della sua attività complessiva non
consente di ritenere integrato anche il secondo requisito
previsto ai fini di un legittimo affidamento in house (TAR
Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 10.07.2014 n. 596 - link a
www.dirittodeiservizipubbici.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Al legale non spetta compenso ulteriore.
Accordo per un riconoscimento onnicomprensivo.
Poiché il comune ha dimostrato che gli importi corrisposti
all'avvocato erano onnicomprensivi per l'attività dallo
stesso professionista svolta, si deve escludere ogni
ulteriore riconoscimento economico.
A stabilirlo è stata la II Sez. civile della Corte
di Cassazione, con sentenza 04.07.2014 n. 15403.
I supremi giudici hanno infatti osservato che riportando il
testo della convenzione stipulata con il professionista, il
comune ricorrente ha dimostrato l'onnicomprensività degli
importi corrisposti al professionista per l'opera svolta sia
come coordinatore e organizzatore del servizio legale
dell'ente territoriale sia per i pareri espressi sia infine
per la difesa e la rappresentanza in giudizio.
La sentenza della Corte di cassazione prendeva le mosse
dalla citazione fatta dall'avvocato innanzi al giudice di
pace al fine di far accertare l'ammontare delle proprie
competenze per l'opera svolta in favore del comune, poiché
il comune stesso non aveva inteso riconoscere la somma
all'uopo richiesta.
L'ente aveva rilevato che con il professionista era
intervenuta una convenzione, avente durata quinquennale, con
la quale l'avvocato stesso, assieme ad altri, si era
impegnato a difendere l'ente in vari giudizi e a prestare la
propria opera di consulenza per un corrispettivo annuo
stabilito.
Il giudice di pace rigettava la domanda, mentre il tribunale
accolse parzialmente l'appello e condannò altresì l'ente
territoriale a pagare la metà delle spese di lite afferenti
al precedente giudizio, nonché di quelle del giudizio di
appello, compensando la restante metà.
Il comune proponeva, quindi, ricorso per la cassazione della
sentenza.
Appare in questa sede opportuno soffermarsi, seppure
brevemente, sul rapporto, non sempre agevole, tra gli
avvocati e gli enti pubblici, premettendo che tali
professionisti non beneficiano di una disciplina specifica,
pertanto è opportuno un frequente e costante ricorso alla
elaborazione giurisprudenziale, utilissima come nel caso in
esame, e che sta andando a sedimentare una vera e propria
disciplina alla quale fare riferimento in caso di
controversie tra i professionisti e gli enti pubblici.
Si sottolinea, inoltre, che il conferimento di incarichi a
professionisti esterni, da parte degli enti pubblici, anche
nell'ipotesi in cui il rapporto assuma una connotazione
essenzialmente di tipo continuativo, è riconducibile
sostanzialmente alla sfera della parasubordinazione, anche
in ossequio a una consolidata giurisprudenza della Corte di
cassazione (articolo ItaliaOggi Sette del
21.07.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni dalle vecchie graduatorie.
Pubblica amministrazione. Il Consiglio di Stato ribadisce il
principio.
La Pubblica
amministrazione per l'assunzione di nuovo personale deve
attingere dalle graduatorie ancora valide ed efficaci
relative ai precedenti concorsi. Tale principio non viene
scalfito neppure da un'eventuale sopravvenienza normativa in
grado di modificare requisiti ulteriori per l'ingresso e lo
svolgimento delle medesime attività per l'amministrazione.
Il Consiglio di Stato, VI Sez., con la
sentenza
04.07.2014 n. 3407, è ritornato sulle modalità di
assunzione di nuovo personale pubblico. Nel caso di specie
si trattava di un concorso bandito nel 2006 da un ateneo per
la copertura di posti del profilo professionale già oggetto
di concorso precedente del quale permaneva la relativa
graduatoria, con la presenza di soggetti ritenuti idonei e
non ancora assunti.
In tale circostanza, l'ateneo aveva sostenuto di non avere
interesse allo scorrimento della graduatoria precedente,
stante l'esigenza di avere a disposizione personale più
qualificato alla luce delle modifiche normative intervenute
dopo l'entrata in vigore del nuovo ordinamento universitario
(legge 240/2010) con l'introduzione di rilevanti novità nel
settore amministrativo e contabile non richieste, come
requisiti, nel concorso precedente.
Il Consiglio di Stato ha tenuto fermo il principio di
diritto già affermato in passato dall'Adunanza plenaria con
il pronunciamento del 28.07.2011, n. 14, in virtù del
quale la presenza di graduatorie concorsuali valide ed
efficaci impone all'Amministrazione di utilizzare
prioritariamente queste ultime. In quella circostanza ci si
era, tuttavia, limitati a fissare il principio come regola
di carattere generale, mentre ora, con la sentenza 3407/2014,
si precisa che il suddetto principio si applica anche
nell'ipotesi di sopravvenienze normative che abbiano
modificato o preteso requisiti o condizioni ulteriori
rispetto a quelle previste dal precedente concorso per il
reclutamento di personale del medesimo profilo
professionale.
Un nuovo concorso rappresenta, quindi, una situazione
eccezionale, letta con sfavore dall'ordinamento vigente più
recente in quanto contraria ai principi di economicità ed
efficacia dell'azione amministrativa sanciti dallo stesso
articolo 1 della legge 241/1990.
Diversi i riferimenti normativi presi in considerazione
nell'emettere la sentenza. Si tratta del Testo Unico degli
impiegati civili dello Stato (Dpr 3/1957), del regolamento
sull'accesso agli impieghi nelle Pa (articolo 15, comma 7,
del Dpr 487/1994), dell'articolo 35, comma 5-ter, del Dlgs
65/2001 in base al quale le graduatorie dei concorsi per il
reclutamento del personale presso le Pa rimangono vigenti
per un termine di tre anni dalla data di pubblicazione e,
infine, dell'articolo 91, comma 4, del Dlgs 267/00 (Testo
unico degli enti locali), secondo cui «per gli Enti locali
le graduatorie concorsuali rimangono efficaci per un termine
di tre anni dalla data di pubblicazione».
Il Consiglio ritiene insufficiente, per motivare un nuovo
concorso, il mero richiamo alla sopravvenienza normativa,
sulla base della considerazione che i continui interventi
normativi e le relative modifiche rappresentano ormai
«tratti indistinguibili coessenziali e comuni ad ogni
settore della Pubblica amministrazione». In relazione alla
prassi che contraddistingue l'attuale periodo storico,
quindi, il «continuo mutamento del quadro normativo di
riferimento di per sé elide la consistenza della motivazione
adotta a sostegno dell'opzione del nuovo concorso».
Sicché, solo una maggiore continenza del legislatore e, con
essa, il mutamento dell'attuale prassi normativa, potrà a
questo punto giustificare, motivandola, la scelta di bandire
un nuovo concorso in luogo dello scorrimento delle
graduatorie vigenti per il reclutamento del personale (articolo Il Sole 24 Ore del
18.07.2014). |
VARI: Costa caro al trasgressore minacciare il vigilino
L'automobilista pizzicato in sosta irregolare colleziona
anche una denuncia penale se si scalda troppo con
l'ausiliario della sosta alzando il pugno verso l'operatore
con tono minaccioso.
Lo ha confermato la Corte di
cassazione, Sez. VI penale, con la sentenza 02.07.2014 n. 28521.
Un cittadino ha trovato una multa sul
parabrezza e ha apostrofato il verificatore della sosta
specificando che se non veniva tolta subito la sanzione
sarebbe passato all'uso della forza.
Contro la conseguente condanna per resistenza a pubblico
ufficiale l'interessato ha proposto censure agli ermellini
ma senza successo. Un automobilista che minaccia di lesioni
personali un verificatore della sosta per impedirgli di fare
il proprio mestiere incorre sicuramente nel reato di
resistenza a pubblico ufficiale previsto e punito dall'art.
337 del codice penale, specifica la sentenza.
Diversamente
si versa nell'ipotesi prevista dall'art. 336 cp quando la
violenza è orientata verso il pubblico ufficiale per
costringerlo ad omettere l'atto prima dell'inizio della
redazione dello stesso (articolo ItaliaOggi Sette del
21.07.2014). |
APPALTI:
Il file illeggibile esclude dalla gara per via telematica.
Consiglio di Stato. I rischi sono a carico dell'impresa.
Nel caso in cui l'appalto
preveda la trasmissione della domanda di partecipazione (e
dei relativi allegati) unicamente in forma telematica, i
rischi derivanti dalla illeggibilità del file trasmesso sono
a esclusivo carico del partecipante. Non potendo
quest'ultimo, per il principio del favor partecipationis,
contestare in alcun modo l'esclusione, anche in difetto di
colpa certa a proprio carico per le particolari modalità di
invio dei documenti.
Così si sono espressi i giudici della III Sez. del
Consiglio di Stato nella
sentenza 02.07.2014 n. 3329, ribaltando in
toto quanto invece deciso in primo grado. La vicenda trae
spunto da una gara, la cui lex specialis prevedeva quale
mezzo per l'inoltro della domanda unicamente l'utilizzo di
un'apposita piattaforma informatica. Tuttavia, durante le
operazioni di trasmissione, il file contenente la domanda di
una società risultava di grandi dimensioni (più di 80 Mb) e
soprattutto illeggibile. Nonostante la stazione appaltante
avesse consentito alla società partecipante di operare un
secondo invio, il medesimo esito negativo comportava da
ultimo l'esclusione dalla gara.
Nel giudizio di primo grado il Tar aveva dato ragione alla
società, riconoscendo l'illegittimità dell'esclusione per
via della mancata individuazione dell'effettiva causa che
aveva determinato il problema di lettura dei documenti. In
senso opposto ha invece deciso il collegio, che ha rimarcato
dapprima il fatto che la gestione informatizzata della gara
non implica maggiori rischi, ma piuttosto risponde a
un'esigenza semplificativa e di certezza della procedura,
avente una funzione di legalità oggettiva e che, come tale,
trascende la posizione di tutti e di ciascun operatore. Da
cui deriva l'esigibilità per le imprese che partecipano
all'appalto tramite una piattaforma informatica, di una
peculiare diligenza nella trasmissione degli atti di gara
compensata dalla possibilità di uso diretto della loro
postazione informatica.
Nella fattispecie, quindi, non si tratta di tutelare il
favor consistente nella più ampia partecipazione, in quanto
l'utilizzo di una piattaforma informatica ben può implicare
l'esclusione dalla gara del l'operatore economico, la cui
domanda risulti illeggibile per un guasto non dei comandi di
trasmissione, ma dell'originazione del relativo file.
E questo proprio perché le modalità telematiche
rappresentano una regola posta a tutela della quanto più
ragionevolmente rapida e sicura gestione dei flussi di
informazioni sulla partecipazione alla gara, che garantisce
(e non pregiudica) l'interesse pubblico generale della
stazione appaltante (articolo Il Sole 24 Ore del
21.07.2014). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: COMPENSI
AVVOCATI/
La valenza decide l'importo liquidato.
Il compenso per un avvocato che ha svolto consulenza ed
assistenza deve essere computato alla stregua della tariffa
professionale, ma proporzionato alla reale consistenza e
all'effettiva valenza professionale espletata.
Lo hanno
stabilito i giudici della II Sez. civile della Corte
di Cassazione, con sentenza 30.06.2014 n. 14800.
Si osserva che la liquidazione dell'onorario deve seguire il
principio d'inderogabilità dei minimi tariffari, non
assolutamente interpretando però tale assunto come
preclusivo della necessità di riscontrare l'imprescindibile
rapporto di proporzionalità tra la reale consistenza,
l'effettiva valenza dell'opera professionale espletata ed il
compenso erogando.
Si sottolinea inoltre che, alla luce della più recente
normativa, il professionista legale non è più tenuto a
comunicare il preventivo in forma scritta, a meno che non
sia il cliente a richiederlo, caso in cui l'avvocato sarebbe
obbligato a rendere nota la prevedibile misura del costo
della prestazione, distinguendo fra oneri, spese, anche
forfetarie, e compenso professionale. Resta, comunque,
l'obbligo, nel rispetto del principio di trasparenza, di
rendere edotto il cliente circa il livello di complessità
dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa
gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla
conclusione dello stesso.
Nei compensi, inoltre, non sono comprese le spese da
rimborsare secondo qualsiasi modalità, compresa quella
concordata in modo forfettario. Non sono altresì compresi
oneri e contributi dovuti a qualsiasi titolo. I costi degli
ausiliari incaricati dal professionista sono ricompresi tra
le spese dello stesso. E l'attività stragiudiziale è
liquidata, a norma di legge, tenendo conto del valore e
della natura dell'affare, del numero e dell'importanza delle
questioni trattate, del pregio dell'opera prestata, dei
risultati e dei vantaggi, anche non economici, conseguiti
dal cliente, dell'eventuale urgenza della prestazione.
Ai fini della liquidazione del compenso, infine, il valore
della controversia viene determinato a norma del codice di
procedura civile avendo riguardo, nei giudizi per azioni
surrogatorie e revocatorie, all'entità economica della
ragione di credito alla cui tutela l'azione è diretta, nei
giudizi di divisione, alla quota o ai supplementi di quota
in contestazione, e nei giudizi per pagamento di somme,
anche a titolo di danno, alla somma attribuita alla parte
vincitrice e non alla somma domandata (articolo ItaliaOggi Sette del
21.07.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze in edilizia: quando è necessaria la
rimozione delle balconate?
La Corte di Cassazione conferma l'orientamento della
giurisprudenza in materia di edificazione di balconate sulle
facciate degli edifici
All'interno della labirintica tematica delle distanze in
edilizia grande rilievo assumono le controversie
sull'edificazione di balconate sulle facciate delle
costruzioni edili: in tal senso è intervenuta l'importante
sentenza 20.06.2014 n. 14118 della Corte di Cassazione,
Sez. II civile, la quale conferma l'orientamento consolidato
per cui vanno rimosse le vedute e le balconate costruite
senza rispettare le distanze legali, con l’eccezione
dell'eventuale acquisto del diritto di veduta per
usucapione.
La Suprema Corte ha affermato testualmente che "l'inosservanza
delle distanze legali per l'apertura delle vedute
concretizza una molestia di diritto legittimante il
possessore del fondo finitimo ad esercitare l'azione di
manutenzione, intesa a tutelare in via provvisoria ed
immediata l'integrità del fondo medesimo con il ripristino
dello stato dei luoghi".
Non va infatti dimenticato che la giurisprudenza civile ed
amministrativa da anni reitera il seguente concetto:
ovverosia che la distanza di dieci metri tra pareti
finestrate di edifici antistanti, va rispettata in tutti i
casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione
di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario,
e pertanto non è eludibile in funzione della natura
giuridica dell’intercapedine (Consiglio di Stato,
05.12.2005, n. 6909).
La sentenza della Cassazione in questione fa riferimento
alla costruzione (precedente al 1969) di una balconata in
aggetto, "frontistante per buona parte l'immobile di
proprietà dei convenuti" attraverso la quale si era dato
inizio all'esercizio, continuativo e pacifico, di una
servitù di veduta diretta ed obliqua in danno dell'edificio
in questione.
Per la decisione finale i giudici si sono focalizzati sulla
disciplina di usucapione e servitù. Ma per giungere a tale
decisione viene data conferma evidente al fondamentale
concetto: balconate e vedute edificate in spregio del
rispetto delle distanze legali devono essere rimosse a spese
di colui che ha cagionato l'abuso. Ovviamente l’usucapione
può sanare la questione mediante il decorso del tempo
(commento tratto da www.ediliziaurbanistica.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Troppa gente nei locali? Ok allo stop del comune.
Se il testo unico di pubblica sicurezza prevede procedimenti
semplificati per l'agibilità dei locali con affluenza
inferiore alle 200 persone ma il titolare della discoteca
all'aperto ne consente l'accesso a 600, è legittima
l'ordinanza del dirigente del Comune che dispone la
sospensione dell'attività per dieci giorni.
Lo ha stabilito il TAR Puglia-Bari, (Sez. III), con la
sentenza 18.06.2014 n. 746 con ciò
convalidando la decisione dell'Ente locale che ha applicato,
di fatto, due disposizioni del Tulps strettamente connesse,
gli articoli 9 e 10, le quali prevedono da un lato l'obbligo
di esercitare le attività oggetto di autorizzazioni o
licenze amministrative, conformemente alle prescrizioni
contenute nelle leggi e nelle altre fonti sub-primarie,
dall'altro che la loro violazione costituisce un uso anomalo
e quindi un abuso del titolo, da sanzionare ai sensi del
citato art. 10.
Peraltro, secondo il Giudice amministrativo,
a nulla rileva il fatto che gli articoli in questioni
facciano riferimento ad autorizzazioni «di polizia» La Corte
costituzionale ha infatti chiarito che l'art. 19 del dpr n.
616/1977 ha trasferito a Regioni ed Enti locali una serie di
funzioni, prima demandate agli organi di pubblica sicurezza,
riconducibili all'ambito dei poteri di «polizia
amministrativa» per differenziarle da quelle propriamente di
«pubblica sicurezza» che restano riservate allo stato
(articolo ItaliaOggi del
15.07.2014). |
URBANISTICA: Comuni, chi sbaglia paga. Danni da pianificazione
urbanistica risarcibili. Il Tar Brescia condanna un ente che aveva penalizzato
un'impresa
Se il comune approva un piano di lottizzazione d'ufficio
illegittimo, in quanto volto a espellere dal territorio
un'impresa (nel caso di specie ritenuta inquinante)
favorendo l'insediamento di nuove tipologie di attività,
scatta il diritto al risarcimento del danno. E a liquidarlo
possono essere già i giudici amministrativi.
Esattamente quanto ha fatto il TAR Lombardia-Brescia, Sez.
I,
sentenza
04.06.2014 n. 598, che ha condannato il comune
di Pian Camuno a risarcire complessivamente circa 300 mila
euro a favore di due imprese, attive nei settori del carbone
e della siderurgia, gravemente penalizzate dalle scelte
dell'amministrazione comunale.
Sul destino imprenditoriale di entrambe, proprietarie delle
aree produttive (stabilimenti e pertinenze), si era
abbattuta nel lontano 1997 la variante urbanistica del
comune che assoggettava a piano di lottizzazione d'ufficio
tutta l'area dove sorgevano gli stabilimenti per realizzare
«una rinnovata zona artigianale con esclusione delle
industrie inquinanti».
Ne è nato un contenzioso che si è trascinato per diversi
anni e che ha portato alla richiesta di risarcimento danni
causati dalla pianificazione urbanistica.
Le due imprese (difese dagli avvocati Gian Carlo Tanzarella,
Elena Tanzarella e Massimo Compagnino) hanno reclamato una
doppia lesione: il danno da mancata produzione, ossia il
mancato guadagno perché, a loro dire, la nuova disciplina
urbanistica introdotta con il piano di lottizzazione
d'ufficio avrebbe impedito «un rilevante sviluppo
dell'attività produttiva», e il «danno da zonizzazione»,
conseguente alla «situazione di incertezza» sofferta dalle
aziende a seguito dei provvedimenti del comune.
La prima voce di risarcimento non è stata liquidata dai
giudici. Per il Tar, infatti, non vi è prova che con la
precedente destinazione urbanistica lo stabilimento
produttivo si sarebbe potenziato secondo le attese dei
ricorrenti (anzi, hanno fatto notare i magistrati bresciani
«nella realtà vi sono invece segnali che indicano uno
sviluppo molto più graduale e contenuto»).
Il danno da zonizzazione, invece, secondo il Tar, «è fonte
di danno risarcibile». Come chiarito dai giudici, «se il
disegno urbanistico può essere improntato a criteri
ragionevoli (come l'allontanamento dal centro abitato delle
industrie insalubri), l'uso del potere di pianificazione con
finalità espulsive è sempre vietato». Quello che il comune
può fare quando decide di allontanare imprese inquinanti dal
territorio è solo incentivare la delocalizzazione
«individuando soluzioni alternative praticabili, previo
coinvolgimento degli interessati».
Tuttavia la quantificazione del danno è stata notevolmente
ridotta dal Tar che, stimando in 50 anni la durata dei beni
immobili produttivi, ha calcolato la differenza di valore
determinatasi nel decennio (1997-2007) oggetto del ricorso.
L'importo così liquidato (circa 600 mila euro) è stato poi
ulteriormente ridotto in considerazione delle utilità che le
imprese ricevono grazie alle urbanizzazioni realizzate dal
comune e in considerazione del fatto che gran parte dei beni
erano detenuti in leasing. Di qui la condanna del comune a
pagare circa 300 mila euro più gli interessi legali dal 2007
(articolo Italia Oggi
19.07.2014). |
APPALTI SERVIZI: L'appalto corretto si vede dalla gestione.
Nell'esternalizzazione di servizi l'appaltatore deve
mantenere l'organizzazione delle prestazioni.
L'appalto di
servizi può essere utile, purché sia genuino. Altrimenti, le
aziende si espongono a rischi rilevanti, anche sul piano
penale. Oggi le imprese esternalizzano spesso intere fasi
del ciclo produttivo, affidandosi a ditte o a lavoratori
esterni. Se da un lato appaltare un servizio consente ai
datori di lavoro di usufruire di regimi normativi agevolati,
legati alle dimensioni aziendali ridotte, o di sostenere un
costo del lavoro contenuto, dall'altro lato la non genuinità
dell'appalto comporta rischi importanti.
Vediamo, dunque,
quali sono le indicazioni da seguire.
La prestazione acquisita
Un ruolo fondamentale è giocato dalle pronunce della
Cassazione: la giurisprudenza traccia infatti una linea, che
è molto utile seguire per conoscere i requisiti di un
appalto corretto.
Con la
sentenza 03.06.2014 n. 12357, la
Suprema Corte ha affermato che, nell'appalto «endoaziendale»,
si configura l'intermediazione vietata di manodopera quando
al committente è messa a disposizione una prestazione
meramente lavorativa. Questo vale anche se l'appaltatore non
è una società fittizia ma si limita alla gestione
amministrativa della posizione del lavoratore, senza che da
parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione.
Il caso su cui si è pronunciata la Cassazione nasce dal
ricorso di un operaio, socio lavoratore di una cooperativa,
che aveva prestato la sua attività alle dipendenze
dell'impresa appaltatrice, in favore di una società
ferroviaria. Sia il Tribunale, sia la Corte d'appello
avevano accolto il ricorso, dichiarando la sussistenza di un
rapporto di natura subordinata alle dirette dipendenze
dell'utilizzatore delle prestazioni.
In sostanza, il
lavoratore aveva ricevuto le direttive dal personale
dell'appaltante e aveva svolto il proprio lavoro nei locali
dell'utilizzatore insieme ai dipendenti di questo e con beni
e strumenti di proprietà dello stesso. La Cassazione,
condividendo il ragionamento del giudice del merito, afferma
che c'è intermediazione e interposizione nelle prestazioni
lavorative quando l'appaltatore mette a disposizione del
committente una mera prestazione di lavoro, rimanendo in
capo all'appaltatore i soli compiti di gestione
amministrativa del rapporto (quali retribuzione,
pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità
della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una
reale organizzazione della prestazione, finalizzata a un
risultato produttivo autonomo.
Inoltre –precisa la sentenza– non è necessario per realizzare un'ipotesi di
intermediazione vietata, che l'impresa appaltatrice sia
fittizia: una volta accertata l'estraneità dell'appaltatore
all'organizzazione e direzione del prestatore di lavoro
nell'esecuzione dell'appalto, rimane irrilevante ogni
questione inerente il rischio economico e l'autonoma
organizzazione dello stesso (si veda anche Cassazione
6343/2013).
Il controllo e le mansioni
Nella sentenza 21030 del 27.11.2012, la Cassazione
pone l'accento, invece, sulla possibilità di verifica e
controllo diretto da parte del committente e sull'ingerenza
nell'organizzazione del servizio. I lavoratori
dell'appaltatore non devono sostituire in alcun modo i
dipendenti del committente, né devono prendere ordini da
soggetti diversi dall'appaltatore, anche se coordinati da un
responsabile del committente.
Nella sentenza 8863 dell'11.04.2013, la Corte sposta
l'attenzione sulle mansioni svolte dal lavoratore per conto
dell'utilizzatore. Un socio lavoratore di una cooperativa di
pulizie svolgeva attività di archivista in una banca, con la
quale l'appaltatore aveva un contratto di appalto di
servizi. La Corte d'appello aveva accolto il ricorso del
dipendente, condannando l'istituto di credito all'assunzione
con contratto subordinato sin dall'inizio della prestazione
e al pagamento delle differenze retributive tra il contratto
bancario e quello delle pulizie. La Cassazione rinvia alla
Corte d'appello la decisione, spiegando che il caso non
rientra nella disciplina prevista dall'articolo 1 della
legge 1369/1960 (poi sostituita dal Dlgs 276/2003).
Per la
Corte, l'articolo 1 della legge prevede che certe
prestazioni di lavoro, possibili nell'ambito organizzativo
dell'impresa pseudo-appaltante, vengano affidate all'impresa
pseudo-appaltatrice. Esula, però, dalla previsione normativa
il caso in cui l'impresa appaltatrice di certe prestazioni
(pulizia) tolleri che suoi dipendenti eseguano prestazioni
diverse (archivistiche) a vantaggio dell'appaltante, ma
senza manifestazioni di volontà dei suoi organi competenti.
In questo caso, l'impresa appaltante sarà tenuta alla sola
remunerazione in base all'articolo 2126 del Codice civile.
---------------
La check list e le sanzioni.
I requisiti essenziali per verificare la genuinità
dell'appalto di servizi.
1 -
IL POTERE DIRETTIVO
Il controllo all'appaltatore
Un appalto per l'affidamento di un servizio o di un'opera
potrà essere considerato genuino e, quindi, lecito, se il
potere direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati
è esercitato dall'appaltatore,
con l'assunzione del relativo rischio. Non basta, infatti,
la semplice gestione amministrativa del personale.
Si avrà
invece un appalto illecito se si riscontrano questi indici:
c'è similitudine
di orario tra i dipendenti dell'appaltatore e quelli
dell'appaltante; il pagamento delle retribuzioni è
effettuato
dal committente; i preposti dell'appaltante controllano
direttamente i dipendenti; la richiesta delle ferie e dei
permessi è presentata all'appaltante che decide se
concederli; la scelta del numero di persone da impiegare
nell'appalto è rimessa solo al committente; il controllo
degli adempimenti dell'appaltatore
è fatto dal committente
2 -
IL RISCHIO DI IMPRESA
Rileva il rischio economico
Un altro elemento da valutare
per la genuinità del contratto di appalto è l'assunzione da
parte dell'appaltatore del rischio d'impresa, in base
all'articolo 29 del Dlgs 276/2003.
In particolare, il rischio non
è da intendere in senso tecnico-giuridico, ma economico,
frutto dell'impossibilità di stabilire in anticipo i costi
legati all'esecuzione del contratto
di appalto, con la conseguenza legittima che l'appaltatore
potrà incorrere in una perdita in caso
di costi superiori al corrispettivo concordato. Il rischio
riguarda anche la possibilità di non raggiungere il
risultato legato alla stipulazione del contratto.
In sostanza, il corrispettivo dell'appalto dovrà essere
subordinato al risultato produttivo dell'opera o del
servizio e non alla semplice messa a disposizione di
prestazioni di lavoro
3 -
L'ORGANIZZAZIONE DEI MEZZI
Da valutare le competenze
L'organizzazione dei mezzi
è un requisito importante per la genuinità dell'appalto. Non
ci sarà interposizione di manodopera se il committente fa un
conferimento di strumenti e di capitali minimo,
tale da non annullare l'apporto organizzativo
dell'appaltatore.
Per i «contratti di appalto concernenti lavori
specialistici» (si pensi al settore del terziario avanzato),
la speciale rilevanza delle competenze dei lavoratori
impiegati (il know how) bilancia
la mancanza di attrezzature
e di beni strumentali di proprietà dell'appaltatore. Non ci
sarà interposizione di manodopera neanche se il committente
fornisce le materie prime a garanzia della qualità del
prodotto da realizzare o perché devono essere trasformate
dall'appaltatore. In questi casi, l'organizzazione dei mezzi
può manifestarsi nell'esercizio del potere organizzativo e
direttivo
sui lavoratori
4 -
L'OPERA O IL SERVIZIO
Il servizio è temporaneo
Un appalto è genuino se l'attività lavorativa dedotta in
contratto rientra nell'oggetto sociale dell'azienda che
fornisce l'opera
o il servizio. Altri elementi necessari sono la temporaneità
e la contingenza dell'opera
o del servizio. Il personale impiegato nell'appalto non
deve essere stabilmente inserito nell'organigramma aziendale
del committente, e deve svolgere mansioni diverse dai
dipendenti del committente.
Ci deve, poi, essere una
distinzione netta
ed effettiva tra i lavoratori dell'appaltatore e quelli
dell'appaltante, tale da evitare rischi di commistione e di
interferenza delle attività svolte. Non si potrà considerare
illecito
un contratto di appalto se la prestazione di lavoro svolta
dai dipendenti dell'appaltatore impiegati nel servizio non
rientra in maniera esclusiva negli obiettivi aziendali del
committente
5 -
LE SANZIONI
Puniti appaltatore e committente
La non genuinità dell'appalto determinerà l'ipotesi di
interposizione illecita di manodopera. Le conseguenze
saranno, innanzitutto,
la possibilità del lavoratore impiegato nell'appalto
di chiedere giudizialmente il riconoscimento e la
costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del
committente, ossia del soggetto che ha esercitato
effettivamente i poteri tipici del datore di lavoro,
usandone concretamente la prestazione di lavoro.
Inoltre,
un contratto di appalto illecito prevede conseguenze penali
a carico dello pseudo-appaltatore e dello pseudo-committente.
L'appaltatore e il committente, che abbiano messo in atto un
contratto di appalto fittizio, sono entrambi soggetti
all'ammenda di 50 euro per ogni lavoratore occupato e per
ogni giornata
di occupazione (articolo Il Sole 24 Ore del
14.07.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Aria - Emissioni -
Rilevanza limiti tabellari - Responsabilità in ordine al
reato previsto dall'art. 674 c.p. - Presupposti e limiti.
Ai fini dell'affermazione di responsabilità in ordine al
reato previsto dall'art. 674 c.p., nell'ipotesi di attività
industriali che trovano la loro regolamentazione in una
specifica normativa di settore, non è sufficiente ad
integrare la fattispecie l'idoneità delle emissioni a recare
disturbo o fastidio, occorrendo invece la puntuale e
specifica dimostrazione che tali emissioni superino gli
standards fissati dalla legge (in termini Sez. 3",
03.03.2004, n. 9757; Sez. 1^, 12.03.2002, n. 15717, Pagano
ed altri) sez. 3, 2005 n. 9503, Montanaro; idem, 2006 n.
8299, P.M. in proc. Tortora ed altri).
Pertanto, quando esistono precisi limiti tabellari fissati
dalla legge, non possono ritenersi "non consentite"
le emissioni che abbiano, in concreto, le caratteristiche
qualitative e quantitative già valutate ed ammesse dal
legislatore. Discorso diverso va fatto in quei casi nei
quali non esiste una predeterminazione normativa, gravando
sul giudice penale l'obbligo di valutare la tollerabilità
consentita, ma pur sempre con riferimento ai principi
ispiranti le specifiche normative di settore, (Cass. Sez.
3^, 27.02.2008 n. 15653, Colombo ed altri). Fattispecie:
emissione e deposito di polveri conseguenti da attività
industriale.
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Getto
pericoloso di cose - Configurabilità del reato - Presupposti
- Art. 674 cod. pen..
La configurabilità del reato di getto pericoloso di cose è
esclusa in caso di emissioni (nella specie, di polveri)
provenienti da attività autorizzata o disciplinata dalla
legge, e contenute nei limiti normativi o
dell'autorizzazione, in quanto il rispetto dei predetti
limiti implica una presunzione di legittimità del
comportamento (Cass. Sez. 3^ 21.10.2010 n. 40849 Rocchi,
idem 13.07.2011 n. 37495, P.M. in proc. Dradi e altro,
secondo la quale all'espressione "nei casi non consentiti
dalla legge" contenuta nella seconda parte dell'art. 674
cod. pen. deve attribuirsi un valore rigido; ancora, Sez. 3^
09.01.2009 n. 15707, Abbaneo).
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Immissioni e
limiti di tollerabilità - Criterio della "stretta
tollerabilità" - Protezione dell'ambiente ed della salute
umana - Valutazione da parte del giudice - Art. 844 cod. civ..
L'art. 844, secondo comma, cod. civ., nella parte in cui
prevede la valutazione, da parte del giudice, del
contemperamento delle esigenze della produzione con le
ragioni della proprietà che impone di leggere il cd. "preuso",
tenendo conto che il limite della tutela della salute, è da
ritenersi ormai intrinseco nell'attività di produzione oltre
che nei rapporti di vicinato, alla luce di una
interpretazione costituzionalmente orientata, dovendo
considerarsi prevalente rispetto alle esigenze della
produzione il soddisfacimento di una normale qualità della
vita (Sez. 2^ Civ. 08.03.2010 n. 5564; in senso analogo Sez.
3^ 11.04.2006 n. 8420, secondo la quale deve ritenersi
illegittima una produzione industriale, ancorché iniziata
prima della edificazione dell'immobile limitrofo, che si sia
svolta e poi proseguita senza la predisposizione di apposite
misure di cautela idonee ad evitare o limitare
l'inquinamento atmosferico).
Rientra, pertanto, nella facoltà del giudice disattendere la
regola della priorità di uso la quale ha carattere di
sussidiarietà, a condizione che sulla base degli
accertamenti di fatto dallo stesso compiuti venga fornita
idonea motivazione in ordine al superamento della soglia di
tollerabilità (Sez. 2^ Civ. 11.5.2005 n. 9865; idem
10.01.1996 n. 161).
Il criterio della "stretta tollerabilità", deve
essere inteso in termini più rigorosi rispetto al concetto
civilistico di normale tollerabilità dettato dal menzionato
art. 844 cod. civ., attesa l'inidoneità del criterio della "normale
tollerabilità" ad approntare una protezione adeguata
all'ambiente ed alla salute umana, allorché non vengano
rispettati, nell'esercizio di un'attività industriale o più
genericamente produttiva, i limiti e le prescrizioni
previste dai provvedimenti autorizzatoli che la disciplinano
(Corte di
Cassazione, Sez. III,
sentenza 08.05.2014 n. 18896
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Terre e rocce da scavo e materiali di
risulta da demolizione - Trattamento congiunto - Qualifica
di sottoprodotti - Esclusione - Attività e autorizzazioni -
Disciplina vigente - Art. 186, 208, 214 e 256, c.1, lett.
A), D. Lgs. n. 152/2006.
La non assimilazione degli inerti derivanti da demolizione
di edifici o da scavi di strade alle terre e rocce da scavo
è stata ribadita con il D.Lgs. n. 152/2006 (v., Sez. III,
13/09/2013, n. 37541, Paglialunga e altri; in precedenza:
Sez. III, 12/06/2008 n. 37280 - dep. 01/10/2008, P., che,
peraltro, precisa che le terre e rocce da scavo devono
essere distinte dai materiali di risulta da demolizione, in
quanto mentre lo scavo ha per oggetto il terreno, la
demolizione ha per oggetto un edificio o, comunque, un
manufatto costruito dall'uomo).
Nel caso in esame, non rileva, pertanto, la questione della
qualificabilità come sottoprodotti e non rifiuti dei
materiali costituiti da terre e rocce da scavo (né, quindi,
la nuova disciplina derivante dall'art. 41-bis della legge
09.08.2013, n. 98, di conversione del c.d. decreto "del
Fare", D.L. n. 69/2013, che introduce nell'ordinamento
alcune disposizioni tese a disciplinare l'utilizzo, come
sottoprodotti, dei materiali da scavo prodotti nel corso di
attività e interventi autorizzati in base alle norme
vigenti, in deroga a quanto previsto dal D.M. 10.08. 2012,
n. 161, recante il regolamento per la disciplina
dell'utilizzazione delle terre e rocce da scavo), atteso
che, oltre terre e rocce da scavo propriamente definibili
come tali, nell'impianto della società di cui l'imputato
risultava amministratore venivano trattati, per sua stessa
ammissione, materiali di risulta edile, diversi dalle terre
e rocce da scavo, con conseguente necessità
dell'autorizzazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.02.2014 n. 5470
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
forma di sanatoria ex art. 37 dpr 380/2001, differenziandosi
dalla ipotesi di cui al precedente art. 36 d.p.r., riguarda
le opere eseguite in assenza o in difformità dalla denuncia
di inizio attività nei casi di cui all’art. 22, commi 1 e 2,
del d.p.r. medesimo, mentre per i casi di d.i.a.
“alternativa” al permesso di costruire trova applicazione
l’art. 36 cit..
7.1. Sotto il primo profilo va evidenziato che la s.c.i.a.
in sanatoria di cui si discute risulta presentata ai sensi
dell’art. 37 del d.p.r. n. 380/2001 che, per gli interventi
eseguiti in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio
attività, consente il conseguimento della sanatoria nel caso
in cui risulti la c.d. doppia conformità rispetto alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dell'intervento, sia al momento della
presentazione della domanda, subordinatamente al pagamento
da parte del responsabile dell'abuso o del proprietario di
una a somma, non superiore a 5164 euro e non inferiore a 516
euro, stabilita dal responsabile del procedimento in
relazione all'aumento di valore dell'immobile valutato
dall'agenzia del territorio.
Tale forma di sanatoria, differenziandosi dalla ipotesi di
cui al precedente art. 36 d.p.r.. cit. riguarda le opere
eseguite in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio
attività nei casi di cui all’art. 22, commi 1 e 2, del
d.p.r. medesimo, mentre per i casi di d.i.a. “alternativa”
al permesso di costruire trova applicazione l’art. 36 cit..
7.2 Ciò posto deve innanzitutto escludersi la fondatezza
dell’assunto secondo cui alla sanatoria di cui all’art. 37
cit., non potrebbero applicarsi le innovazioni di cui 49,
comma 4-bis, della legge 30.07.2010 n. 122, che, nel
riformulare integralmente l'art. 19 della l. n. 241/1990, ha
sostituito la dichiarazione di inizio attività (d.i.a.), con
la segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.)
Al riguardo gli iniziali dubbi interpretativi sorti
all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 122 cit.
sull’applicabilità della s.c.i.a. alla materia edilizia
motivati dal fatto che la novella riguardasse la sola
materia della concorrenza e non del governo del territorio
sono stati in un primo momento superati da una circolare del
16.09.2010 con cui l'Ufficio Legislativo del Ministero per
la Semplificazione Normativa presso la Presidenza del
Consiglio dei Ministri (in risposta alla richiesta di
chiarimenti inoltrata dall'Assessore Territorio e
Urbanistica della Regione Lombardia del 16.09.2010) ha
chiarito, anche alla luce dei lavori preparatori ricavabili
dalla documentazione del Servizio Studi del Senato, che la "nuova"
s.c.i.a. doveva considerarsi applicabile anche al settore
degli interventi edilizi, giacché, ai sensi del comma 4-ter
dell’art. 49 della legge n. 122 cit., le espressioni “segnalazione
certificata di inizio attività” e “s.c.i.a.”
sostituiscono rispettivamente quelle di “dichiarazione di
inizio attività“ e “d.i.a.” “ovunque ricorrano”
anche come parte di un’espressione più ampia sia nelle
normative statali che in quelle regionali.
Il medesimo comma stabilisce altresì che la disciplina della
s.c.i.a. contenuta nel novellato art. 19 della legge n.
241/1990 sostituisce direttamente, dalla data di entrata in
vigore della legge di conversione del decreto medesimo,
quella di dichiarazione di inizio attività recata da ogni
normativa statale e regionale.
Il dubbio in questione è stato poi definitivamente risolto a
livello legislativo con l’entrata in vigore del decreto
legge 13.05.2011 n. 70, che ha esteso l'istituto della
segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.) anche
al settore degli interventi edilizi. L'art. 5, comma 1,
lettera b), del decreto-legge 13.05.2011, n. 70 (Semestre
Europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia),
convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma
1, della legge 12.07.2011, n. 106, ha poi chiarito che la
S.C.I.A. trova applicazione anche con riguardo agli
interventi edilizi precedentemente compiuti con la
D.I.A.,con esclusione dei casi in cui la denuncia è
alternativa o sostitutiva del permesso di costruire.
L’inerenza della s.c.i.a. al settore edilizio è stata poi
confermata dalla Corte Costituzionale con sentenze
27.06.2012 n. 164 e 16.07.2012 n.188.
La natura generale della previsione normativa recata dal
comma 3, in altri termini, si adatta compiutamente alla
materia dell'edilizia, alla quale non vi è ragione per
ritenere che non si riferisca. Del resto, si esporrebbe a
censura di manifesta irragionevolezza una interpretazione
contraria, che venisse a sottrarre gli interessi implicati
dal governo del territorio all'applicabilità di un generale
istituto del diritto amministrativo, la cui compatibilità
con la SCIA è stata riconosciuta dallo stesso legislatore
con il citato comma 3.
Di qui consegue che la indicazione legislativa nel senso
della sostituzione della s.c.i.a. alla d.i.a. “ovunque
ricorra”, anche come parte di un’espressione più ampia,
implica altresì l’utilizzabilità del modulo procedimentale
anche nei casi di cui all’art. 37 del d.p.r. n. 380/2001.
Diversamente non si comprenderebbe la ragione di
un’eventuale differenziazione di regime procedimentale,
specie se si considera che il regime della s.c.i.a. rispetto
alla d.i.a. è sostenuto dalla previsione della allegazione
di una relazione tecnica asseverata e presenta per tale
ragione maggiore incidenza e responsabilizzazione rispetto
alla d.i.a..
Il decreto legge n. 70 cit. è stato pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale n. 110 del 13.05.2011 ed era quindi già
entrato in vigore alla data della presentazione della
s.c.i.a. in sanatoria in esame depositata il 24.05.2011 cui
trova quindi applicazione
(TAR Campania, Sez. VIII,
sentenza 21.06.2013 n. 3230 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della legittimazione attiva al rilascio
di titoli abilitativi nella materia edilizia, la
giurisprudenza ritiene necessaria, sulla base degli artt. 11
e 23 del D.P.R. 380/2011, la titolarità del diritto di
proprietà, ovvero di altro diritto reale od anche
obbligatorio a condizione, in tale ultima ipotesi, del
riconoscimento della disponibilità giuridica e materiale del
bene nonché della relativa potestà edificatoria.
Quanto al promissario acquirente, la tesi che ne riconosce
la legittimazione non è affatto pacifica in giurisprudenza,
richiedendosi, anche in ipotesi di preliminare ad effetti
anticipati, la specifica autorizzazione del proprietario
promissario venditore all’esercizio dello ius aedificandi.
Tale opzione esegetica risulta ancor più corretta
qualificando la relazione del promissario acquirente con
l’immobile, anche in caso di preliminare ad effetti
anticipati, quale “detenzione qualificata” e non già come
possesso, secondo la più recente ricostruzione pretoria.
Ciò premesso, la posizione di promissario conduttore, in
assenza di specifico consenso del proprietario, non è titolo
di legittimazione idoneo al rilascio di titoli abilitativi,
anche se a regime semplificato, mancando la disponibilità
giuridica dell’area su cui realizzare l’intervento.
Ai fini della legittimazione attiva al rilascio di titoli
abilitativi nella materia edilizia, la giurisprudenza
ritiene necessaria, sulla base degli artt. 11 e 23 del
D.P.R. 380/2011, la titolarità del diritto di proprietà,
ovvero di altro diritto reale od anche obbligatorio a
condizione, in tale ultima ipotesi, del riconoscimento della
disponibilità giuridica e materiale del bene nonché della
relativa potestà edificatoria (Consiglio di Stato sez. V
28.05.2001 n. 2881; id. sez. IV 25.11.2008, n. 5811; TAR
Emilia Romagna Bologna 21.02.2007, n. 53; TAR Lombardia
Milano sez II 31.03.2010, n. 842).
Quanto al promissario acquirente, la tesi che ne riconosce
la legittimazione non è affatto pacifica in giurisprudenza,
richiedendosi, anche in ipotesi di preliminare ad effetti
anticipati, la specifica autorizzazione del proprietario
promissario venditore all’esercizio dello ius aedificandi
(Consiglio Stato, sez. IV, 18.01.2010, n. 144; Cassazione
civile sez. III 15.03.2007, n. 6005; TAR Lazio-Latina
26.07.2005, n. 636). Tale opzione esegetica risulta ancor
più corretta qualificando la relazione del promissario
acquirente con l’immobile, anche in caso di preliminare ad
effetti anticipati, quale “detenzione qualificata” e
non già come possesso, secondo la più recente ricostruzione
pretoria (ex multis Cassazione Sez. Unite 27.03.2008,
n. 7930; id. sez. I 01.03.2010, n. 4863).
Ciò premesso, la posizione di promissario conduttore, in
assenza di specifico consenso del proprietario, non è titolo
di legittimazione idoneo al rilascio di titoli abilitativi,
anche se a regime semplificato, mancando la disponibilità
giuridica dell’area su cui realizzare l’intervento
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 18.06.2012 n. 1193 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Con riferimento sia alle
d.i.a. di cui alla normativa di settore (con particolare
riferimento all’edilizia) sia al modello generale di cui
all’art. 19 legge 241/1990, la giurisprudenza ritiene che
presupposti indefettibili perché una d.i.a. possa essere
produttiva di effetti siano la completezza e la veridicità
delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione.
Infatti, il decorso del termine di trenta giorni non può
avere alcun effetto di legittimazione dell'intervento,
rispetto ad una dichiarazione inesatta o incompleta, con la
conseguenza che l'Amministrazione ha la facoltà ed il potere
di inibire l'attività o di sospendere i lavori.
Così opinando, tale potere non è equiparabile ad un potere
di autotutela, poiché non vi è alcun provvedimento su cui
intervenire, ma ad un “potere di verifica della non
formazione della d.i.a.”, con conseguente ordine di
interruzione dei lavori, così come d’altronde normativamente
previsto per l’ipotesi di mendacio (vedi comma 3 art. 19 L.
241/1990); per tale motivo, l'esercizio di tale potere non è
sottoposto al termine perentorio di trenta giorni, che
presuppone invece che la d.i.a. sia completa nei suoi
elementi essenziali.
--------------------
Tali coordinate interpretative, invero, risultano già fatte
proprie da questa Sezione con specifico riferimento ai
procedimenti per l’autorizzazione di impianti di produzione
di energia elettrica da fonti rinnovabili -caratterizzati
come detto dal connotato della specialità- laddove si è
precisato che le attestazioni che devono accompagnare la
denuncia di inizio attività prevista dall'art. 5 del D.lgs.
29.12.2003 n. 387 non possono che ricalcare in linea di
massima la documentazione da produrre con l'istanza per
l'ottenimento dell'autorizzazione, di cui ai commi terzo e
quarto dell'articolo 12 del decreto legislativo 29.12.2003
n. 387.
Pertanto in assenza della documentazione, se pertinente ed
essenziale, la dichiarazione d'inizio attività “non può
reputarsi formalmente presentata” e quindi, dalla data del
suo deposito, non può iniziare a decorrere il termine
dilatorio di 30 giorni.
--------------
A diverse conclusioni non può giungersi in relazione
all’intervenuta qualificazione normativa (per effetto
dell’art. 6, comma 1, lett. c), D.L. 13.08.2011, n. 138)
della d.i.a. (e della s.c.i.a.) quale titolo abilitativo ex
lege e non già di fattispecie provvedimentale a formazione
tacita, come anticipato in via pretoria dall’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato.
Infatti, allorché il legislatore introduca fattispecie di
liberalizzazione di attività, vale il principio dell'autoresponsabilità
del dichiarante, in base al quale, la dichiarazione può
ritenersi valida ed efficace soltanto se essa rispetti
-oltre alle formalità estrinseche prescritte
dall'ordinamento (essenzialmente dirette a rendere
incontrovertibile la paternità di una determinata
dichiarazione)- anche il canone dell'autosufficienza
contenutistica, nel senso che occorre porre in condizione
l’Amministrazione di poter effettivamente esercitare in
concreto il potere inibitorio e di controllo previsto dalla
legge. E ciò, si badi bene, non solo nell’interesse pubblico
alla repressione delle attività abusive, ma nello stesso
interesse del dichiarante a non esporsi inutilmente
all’eventuale potere inibitorio e/o sanzionatorio una volta
già realizzate le opere ed effettuati i correlati
investimenti.
Le esigenze di concentrazione dei procedimenti e di
tempestività e contenimento dei termini, poste alla base del
decreto legislativo 29.12.2003 n. 387 in materia di
autorizzazione di impianti di produzione di energia
elettrica da fonti rinnovabili, sia in riferimento alle
fattispecie di autorizzazione unica che di d.i.a., non può
allora esonerare il richiedente, secondo il suesposto
principio della autoresponsabilità, dalla presentazione
della documentazione prescritta dalla legge, al fine di
consentire all’Amministrazione di effettuare preventivamente
gli opportuni controlli su quanto l’interessato intenda
realizzare.
Conclusivamente, anche in riferimento alle d.i.a. prescritte
dalla normativa in materia di realizzazione di impianti di
produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili -per le
quali in considerazione della specialità non pare
ipotizzabile la sostituzione con la s.c.i.a. di cui all’art.
19 L. 241/1990- deve rimanere fermo il principio per cui le
fattispecie di semplificazione astrattamente previste dal
legislatore (statale o regionale) possono ritenersi “formate
ed esistenti” soltanto quando esse risultino idonee, da
sole, a soddisfare le esigenze informative indispensabili
per l’esercizio del potere inibitorio–repressivo.
3.3. Tanto premesso, con
riferimento sia alle d.i.a. di cui alla normativa di settore
(con particolare riferimento all’edilizia) sia al modello
generale di cui all’art. 19 legge 241/1990, la
giurisprudenza ritiene che presupposti indefettibili perché
una d.i.a. possa essere produttiva di effetti siano la
completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute
nell'autocertificazione (ex multis TAR Lombardia
Milano II 09.12.2008 n. 5737; TAR Emilia-Romagna Bologna
sez. II 17.07.2006 n. 142; Consiglio di Stato sez. IV
24.05.2010, n. 3263; TAR Lazio-Roma sez. I 02.12.2010, n.
35023).
Infatti, il decorso del termine di trenta giorni non può
avere alcun effetto di legittimazione dell'intervento,
rispetto ad una dichiarazione inesatta o incompleta, con la
conseguenza che l'Amministrazione ha la facoltà ed il potere
di inibire l'attività o di sospendere i lavori. Così
opinando, tale potere non è equiparabile ad un potere di
autotutela, poiché non vi è alcun provvedimento su cui
intervenire, ma ad un “potere di verifica della non
formazione della d.i.a.”, con conseguente ordine di
interruzione dei lavori, così come d’altronde normativamente
previsto per l’ipotesi di mendacio (vedi comma 3 art. 19 L.
241/1990); per tale motivo, l'esercizio di tale potere non è
sottoposto al termine perentorio di trenta giorni, che
presuppone invece che la d.i.a. sia completa nei suoi
elementi essenziali (ex multis TAR Lombardia Milano
II 09.12.2008, n. 5737).
3.4. Tali coordinate interpretative, invero, risultano già
fatte proprie da questa Sezione con specifico riferimento ai
procedimenti per l’autorizzazione di impianti di produzione
di energia elettrica da fonti rinnovabili -caratterizzati
come detto dal connotato della specialità- laddove si è
precisato che le attestazioni che devono accompagnare la
denuncia di inizio attività prevista dall'art. 5 del D.lgs.
29.12.2003 n. 387 non possono che ricalcare in linea di
massima la documentazione da produrre con l'istanza per
l'ottenimento dell'autorizzazione, di cui ai commi terzo e
quarto dell'articolo 12 del decreto legislativo 29.12.2003
n. 387; pertanto in assenza della documentazione, se
pertinente ed essenziale, la dichiarazione d'inizio attività
“non può reputarsi formalmente presentata” e quindi,
dalla data del suo deposito, non può iniziare a decorrere il
termine dilatorio di 30 giorni (sentenza 02.10.2009, n.
2226).
3.5. A diverse conclusioni non può giungersi in relazione
all’intervenuta qualificazione normativa (per effetto
dell’art. 6, comma 1, lett. c), D.L. 13.08.2011, n. 138)
della d.i.a. (e della s.c.i.a.) quale titolo abilitativo
ex lege e non già di fattispecie provvedimentale a
formazione tacita, come anticipato in via pretoria
dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza
29.07.2011, n. 15).
Infatti, allorché il legislatore introduca fattispecie di
liberalizzazione di attività, vale il principio dell'autoresponsabilità
del dichiarante, in base al quale, la dichiarazione può
ritenersi valida ed efficace soltanto se essa rispetti
-oltre alle formalità estrinseche prescritte
dall'ordinamento (essenzialmente dirette a rendere
incontrovertibile la paternità di una determinata
dichiarazione)- anche il canone dell'autosufficienza
contenutistica, nel senso che occorre porre in condizione
l’Amministrazione di poter effettivamente esercitare in
concreto il potere inibitorio e di controllo previsto dalla
legge. E ciò, si badi bene, non solo nell’interesse pubblico
alla repressione delle attività abusive, ma nello stesso
interesse del dichiarante a non esporsi inutilmente
all’eventuale potere inibitorio e/o sanzionatorio una volta
già realizzate le opere ed effettuati i correlati
investimenti.
Le esigenze di concentrazione dei procedimenti e di
tempestività e contenimento dei termini, poste alla base del
decreto legislativo 29.12.2003 n. 387 in materia di
autorizzazione di impianti di produzione di energia
elettrica da fonti rinnovabili, sia in riferimento alle
fattispecie di autorizzazione unica che di d.i.a., non può
allora esonerare il richiedente, secondo il suesposto
principio della autoresponsabilità, dalla presentazione
della documentazione prescritta dalla legge, al fine di
consentire all’Amministrazione di effettuare preventivamente
gli opportuni controlli su quanto l’interessato intenda
realizzare (in questi termini, in riferimento all’art. 23
t.u. edilizia e all’art. 19 legge 241/1990, Consiglio di
Stato sez. IV 24.05.2010 n. 3263; in riferimento alla d.i.a.
per la realizzazione di impianti di telefonia mobile TAR
Emilia Romagna Bologna, sez. II, 17.07.2006, n. 1462.)
Conclusivamente, anche in riferimento alle d.i.a. prescritte
dalla normativa in materia di realizzazione di impianti di
produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili -per le
quali in considerazione della specialità non pare
ipotizzabile la sostituzione con la s.c.i.a. di cui all’art.
19 L. 241/1990- deve rimanere fermo il principio per cui le
fattispecie di semplificazione astrattamente previste dal
legislatore (statale o regionale) possono ritenersi “formate
ed esistenti” soltanto quando esse risultino idonee, da
sole, a soddisfare le esigenze informative indispensabili
per l’esercizio del potere inibitorio–repressivo
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 18.06.2012 n. 1193 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’ubicazione
del canile è compatibile con la destinazione d’uso a zona
agricola e non rende necessaria alcuna variante dello
strumento urbanistico generale.
---------------
Sia il canile che l’azienda venatoria sono compatibili con
la destinazione agricola dell’area e non è pacificamente
necessaria la DIA per il canile, così come per l’azienda
venatoria.
Comune di Bagnoregio ... contro Comune di Viterbo ...
per l'annullamento della DELIBERA 25/06 AVENTE AD OGGETTO:
LAVORI DI COSTRUZIONE DEL CANILE MUNICIPALE IN LOC. FRACASSA
- STRADA PROVINCIALE PRATOLEVA - IX CIRCOSCRIZIONE -
CONTRODEDUZIONI E OSSERVAZIONI - 23-BIS.
...
Ritenuto e considerato in fatto ed in diritto quanto segue:
1 – Che a seguito di avviso pubblico in data 03.06.2004 il
Comune di Viterbo si rendeva acquirente del terreno agricolo
sito in località Fracassa, al confine del territorio del
Comune di Viterbo con quelli di Bagnoregio e Celleno e
ricadente nel perimetro dell'Azienda Faunistico- Venatoria "Carbonara",
ed in data 16.12.2004 il Consiglio Comunale approvava il
progetto preliminare dell'erigendo canile e contestualmente
la variante urbanistica con la quale il terreno acquistato,
"zonizzato" come E4 (zona agricola), veniva
trasformato in F3 (servizi e attrezzature tecnologici e
specializzati);
2 – Che, avendo avuto notizia di tali vicende, facevano
pervenire osservazioni in opposizione al Comune, in tempi
diversi, l'ing. Tecchi, la Signora Michelina Tecchi
Cristofori Celiani (proprietaria di un'azienda agricola
limitrofa alla zona in questione), il Comune di Bagnoregio,
e alcuni cittadini (circa sessanta) residenti in prossimità
del luogo;
...
9 – Che, tuttavia, ogni ulteriore approfondimento
sull’eccezione in esame appare superfluo, considerato che il
ricorso palesa comunque la propria non fondatezza nel
merito;
10- Che, in particolare, quanto ai singoli motivi di
ricorso:
1) l’ubicazione del canile è compatibile con la destinazione
d’uso a zona agricola e non rende necessaria alcuna variante
dello strumento urbanistico generale, e ciò fa perdere ogni
rilievo alle censure sub 1;
2) dagli atti depositati in giudizio risulta lo svolgimento
di un’adeguata istruttoria, che ha in particolare consentito
di escludere la presenza di “insediamenti abitativi”
in prossimità, senza con ciò escludere, ed anzi dando atto
della presenza, di alcune abitazioni rurali, che risultano
(restando del tutto irrilevanti eventuali fenomeni di
edilizia “spontanea” o abusiva) del tutto compatibili
con il canile, sulla premessa della sua compatibilità
(riconosciuta dalla costante giurisprudenza) con la
destinazione agricola della zona, facendo ciò cadere le
censure sub 2;
3) la presenza di un inceneritore di portata maggiore
rispetto alla taglia media di un cane viene adeguatamente
motivata, nel progetto, con ragioni di economia di gestione,
e da sola non lascia ipotizzare alcuno sviamento, come
invece sostenuto nella censura sub 3;
4) le censure sub 4, comunque estranee allo osservazioni ed
alla conseguenti controdeduzioni della delibera impugnata,
non si sostanziano in alcuna specifica evidenziazione di
illegittimità, e comunque appaiono contraddette dalle norme
che sottopongono il canile municipale ad un’adeguata
sorveglianza sanitaria e veterinaria, sempre necessaria,
indipendentemente dal fatto che i possibili bersagli delle
temute infezioni siano animali selvatici o domestici diversi
da quelli dell’azienda venatoria in questione e dai cani da
caccia dei relativi clienti;
5) quanto infine alla contestata violazione della normativa
ambientale ed alla affermata mancata ponderazione dei valori
ambientali, di cui l’azienda venatoria ricorrente sarebbe
portatrice, osserva il Collegio che sia il canile che
l’azienda venatoria sono compatibili con la destinazione
agricola dell’area e che non è pacificamente necessaria la
DIA per il canile, così come per l’azienda venatoria.
Pertanto, non venendo neppure allegata alcuna censura
relativa a specifiche presunte violazioni ambientali in
danno dell’azienda (ed essendo, in ogni caso, gli “ospiti”
del canile ristretti in un’area sorvegliata e ben
confinata), la dedotta censura si palesa priva di
consistenza;
11 – Che il ricorso , in disparte ogni considerazione circa
la sua inammissibilità, palesa quindi la propria non
fondatezza e deve pertanto essere respinto
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 26.04.2011 n. 3583 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di box a servizio di un canile -
Destinazione “zona agricola” - Incompatibilità urbanistica
oggettiva e assoluta - Esclusione - Permesso di costruire -
Diniego - Illegittimità - Fattispecie.
In materia urbanistica, non è configurabile una pretesa
incompatibilità urbanistica oggettiva e assoluta tra la
destinazione agricola e la realizzazione di box a servizio
del canile, sia in quanto la destinazione agricola di una
zona comporta che la stessa non può essere destinata ad
insediamento abitativo residenziale, ma non preclude
l'installazione di opere che nulla hanno a che vedere con la
localizzazione della residenza della popolazione, sia in
quanto, per ovvie ragioni, un ricovero per cani randagi è
preferibile che venga ubicato in aperta campagna e quindi in
zona agricola, salvo che il piano regolatore generale non
preveda apposite localizzazioni (cfr., circa la
compatibilità di un canile municipale con la destinazione a
zona agricola, Consiglio di Stato, IV Sezione, 31.01.2005,
n. 253).
Nella specie, è stato ritenuto illegittimo il provvedimento
che negava il rilascio del permesso di costruire, per la
realizzazione di 21 box destinati al ricovero di cani
randagi, sul presupposto che “la zona interessata è
classificata secondo il vigente P.R.G. come Zona E Agricola
e viabilità esistente” e che le norme tecniche di
attuazione, di detta zona, non contemplano l’intervento
richiesto (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 21.11.2006 n. 10065 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di
diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico
del costruttore a titolo di partecipazione ai costi delle
opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei
benefici che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché il
tipo di uso offre la giustificazione giuridica all’an
debeatur, mentre le modalità concrete dell’uso danno la
ragione del quantum.
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di
urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore
dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.)
nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione
d’uso concretamente impressa all’alloggio, in quanto una
diversa utilizzazione rispetto a quella stabilita
nell’originario titolo abilitativo può determinare una
variazione quantitativa e qualitativa del carico
urbanistico.
In termini generali, il fondamento del contributo di
urbanizzazione –da versare al momento del rilascio di una
concessione edilizia– non consiste nell'atto amministrativo
in sé bensì nella necessità di ridistribuire i costi sociali
delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli
interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla
presenza delle medesime, secondo modalità eque per la
comunità.
Pertanto, anche nel caso di modificazione della destinazione
d'uso cui si correla un maggior carico urbanistico, è
integrato il presupposto che giustifica l’imposizione al
titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di
urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e
quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione
impressa: il mutamento è rilevante allorquando sussiste un
passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo
della differenza del regime contributivo in ragione di
diversi carichi urbanistici, cosicché la circostanza che le
modifiche di destinazione d’uso senza opere non sono
soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale
non comporta ipso jure l’esenzione dagli oneri di
urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione.
Un diverso ragionamento sarebbe evidentemente inaccettabile,
dal momento che gli interessati sarebbero altrimenti indotti
a chiedere ed ottenere una concessione edilizia che sconta
il pagamento di un minor contributo per il basso carico
urbanistico, per poi mutare liberamente la destinazione
d'uso originaria senza pagare i più elevati oneri che
derivano dal maggior carico urbanistico.
Se è comunque indispensabile l’esame della fattispecie
concreta per accertare se il nuovo insediamento o la nuova
opera abbia determinato un incremento nella domanda di
strutture ed opere collettive, nella specie il mutamento di
destinazione –da residenziale ad ufficio– è riconducibile ad
una classe diversa e più onerosa della precedente tale che,
se la concessione fosse stata richiesta fin dall’origine per
la nuova destinazione, avrebbe comportato un diverso e meno
favorevole regime contributivo urbanistico: ai fini del
calcolo dei cd. standard, l’ufficio di un’attività d’impresa
assume la consistenza di un distinto ed autonomo centro
d'attrazione, non riconducibile alle esigenze di normale
vivibilità delle zone residenziali, ed è pertanto fonte di
un maggiore carico urbanistico.
In definitiva, a fronte dell’accertato mutamento di
destinazione d’uso l’amministrazione ha legittimamente
provveduto a calcolare di nuovo il quantum dovuto in
relazione al diverso carico urbanistico
La censura è priva di pregio.
Ad avviso della costante giurisprudenza (Consiglio di Stato,
sez. V – 26/07/1984 n. 592; TAR Catania–31/07/1979 n. 408),
il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo
di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a
carico del costruttore a titolo di partecipazione ai costi
delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei
benefici che la nuova costruzione ne ritrae, cosicché il
tipo di uso offre la giustificazione giuridica all’an
debeatur, mentre le modalità concrete dell’uso danno la
ragione del quantum (Consiglio di Stato, sez. V – 23/05/1997
n. 529).
Il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di
urbanizzazione va ravvisato nella domanda di una maggiore
dotazione di servizi (rete viaria, fognature, ecc.)
nell’area di riferimento, che sia indotta dalla destinazione
d’uso concretamente impressa all’alloggio, in quanto una
diversa utilizzazione rispetto a quella stabilita
nell’originario titolo abilitativo può determinare una
variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico
(Sentenza Sezione 11/06/2004 n. 646; TAR Lombardia Milano,
sez. II – 02/10/2003 n. 4502; Consiglio Stato, sez. V –
25/05/1995 n. 822).
In termini generali, il fondamento del contributo di
urbanizzazione –da versare al momento del rilascio di una
concessione edilizia– non consiste nell'atto amministrativo
in sé bensì nella necessità di ridistribuire i costi sociali
delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli
interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla
presenza delle medesime, secondo modalità eque per la
comunità (cfr. TAR Veneto, sez. II – 13/11/2001 n. 3699).
Pertanto, anche nel caso di modificazione della destinazione
d'uso cui si correla un maggior carico urbanistico, è
integrato il presupposto che giustifica l’imposizione al
titolare del pagamento della differenza tra gli oneri di
urbanizzazione dovuti per la destinazione originaria e
quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione
impressa: il mutamento è rilevante allorquando sussiste un
passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo
della differenza del regime contributivo in ragione di
diversi carichi urbanistici, cosicché la circostanza che le
modifiche di destinazione d’uso senza opere non sono
soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale
non comporta ipso jure l’esenzione dagli oneri di
urbanizzazione e quindi la gratuità dell’operazione (cfr.,
in tal senso, sentenze Sezione 10/03/2005 n. 145 e
23/01/1998 n. 34).
Un diverso ragionamento sarebbe evidentemente inaccettabile,
dal momento che gli interessati sarebbero altrimenti indotti
a chiedere ed ottenere una concessione edilizia che sconta
il pagamento di un minor contributo per il basso carico
urbanistico, per poi mutare liberamente la destinazione
d'uso originaria senza pagare i più elevati oneri che
derivano dal maggior carico urbanistico.
Se è comunque indispensabile l’esame della fattispecie
concreta per accertare se il nuovo insediamento o la nuova
opera abbia determinato un incremento nella domanda di
strutture ed opere collettive (TAR Piemonte, sez. I –
04/12/1997 n. 821; Consiglio di Stato, sez. V – 29/01/2004
n. 295), nella specie il mutamento di destinazione –da
residenziale ad ufficio– è riconducibile ad una classe
diversa e più onerosa della precedente tale che, se la
concessione fosse stata richiesta fin dall’origine per la
nuova destinazione, avrebbe comportato un diverso e meno
favorevole regime contributivo urbanistico: ai fini del
calcolo dei cd. standard, l’ufficio di un’attività d’impresa
assume la consistenza di un distinto ed autonomo centro
d'attrazione, non riconducibile alle esigenze di normale
vivibilità delle zone residenziali, ed è pertanto fonte di
un maggiore carico urbanistico (Consiglio Stato, sez. V –
19/05/1998 n. 626).
In definitiva, a fronte dell’accertato mutamento di
destinazione d’uso l’amministrazione ha legittimamente
provveduto a calcolare di nuovo il quantum dovuto in
relazione al diverso carico urbanistico (TAR
Lombardia-Brescia,
sentenza 07.11.2005
n. 1115). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esenzione dal versamento degli oo.uu. e del costo di
costruzione, ex art. 9 L. n. 10/1977, non si applica alle
opere pubbliche realizzate da un soggetto non rientri nella
nozione di ente istituzionalmente competente.
L'art. 9, comma 1, lett. f), della legge
28.01.1977, n. 10 enuncia due requisiti che devono
entrambi concorrere per fondare lo speciale regime di
gratuità della concessione, l'uno di carattere
oggettivo e l'altro di carattere soggettivo.
Per effetto del primo la costruzione deve riguardare opere
pubbliche o di interesse generale mentre, per effetto del
secondo, devono essere eseguite da un ente istituzionalmente
competente.
In merito al primo aspetto, non vi è dubbio che il caso di
specie (ndr: uffici ed ambulatori nuova sede INAIL) rientri
nella previsione normativa e ciò è provato dall’espresso
contenuto della concessione edilizia rilasciata dal Comune.
Difficoltà di ordine interpretativo nascono in ordine al
possesso in capo alla impresa COGECAR s.r.l. del requisito
soggettivo di “ente istituzionalmente competente”.
In questo senso, è necessario individuare la ratio
dell’esenzione in argomento che è finalizzata sì ad
agevolare l'esecuzione di opere dalle quali la collettività
possa trarne una utilità ma anche ad evitare che il soggetto
che interviene per l'istituzionale attuazione del pubblico
interesse corrisponda un contributo che verrebbe a gravare,
sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe
avvantaggiarsi dal loro pagamento.
In questo senso, la disposizione si rivolge, oltre che agli
enti pubblici, a quelle figure soggettive che non agiscono
per esclusivo scopo lucrativo ovvero che accompagnano al
lucro un collegamento giuridicamente rilevante con
l'amministrazione, sì da rafforzare il legame istituzionale
con l'azione del soggetto pubblico per la cura degli
interessi della collettività.
Tale raccordo, peraltro, deve essere idoneo ad assicurare,
grazie alla presenza del soggetto pubblico, un
contemperamento dell'obiettivo privatistico dell'esecutore
dell'opera con il fine pubblicistico realizzato, come ad
esempio nel caso del concessionario di opera pubblica, il
quale, pur mirando al conseguimento di un lucro d'impresa, è
parificabile a pieno titolo al soggetto che cura
istituzionalmente l'esecuzione di opere di interesse
generale.
Ciò premesso, nella fattispecie controversa non è dato
apprezzare il requisito soggettivo, poiché l’impresa
ricorrente non può essere ricompressa nella nozione di ente
istituzionalmente competente.
A questo fine, il fatto che l’immobile fosse destinato ad
ospitare la nuova sede dell’INAIL non porta conseguentemente
a ritenere sussistente l’elemento soggettivo che, al
contrario, deve essere verificato sulla base di altri
fattori di collegamento.
In questo quadro, la circostanza di aver partecipato ad una
gara indetta dall’INAIL per l’acquisto di un immobile, da
costruire e da destinare al predetto istituto (con
successiva stipula del contratto di compravendita di cosa
futura), non esclude il fatto che la COGECAR S.r.l. abbia
comunque operato e programmato l'intervento edilizio in
qualità di soggetto privato e che la valutazione dei costi
dell'opera e dei margini di lucro sia stata eseguita
nell'ambito delle specifiche competenze dell'impresa.
La COGECAR s.r.l. ha conservato, nel caso di specie, la sua
veste di operatore economico privato ed ha quindi conseguito
un utile in posizione comune a quella di ogni altro libero
operatore nel mercato, segnando così un netto distacco
rispetto all'ipotesi in cui l'opera viene costruita
dall'ente istituzionalmente competente.
... per l'annullamento, con tutti gli atti preordinati,
consequenziali e connessi, della concessione edilizia n. 14
del 25.01.1999 e relativo avviso di rilascio del Comune di
Monza, avente ad oggetto la costruzione di un edificio
direzionale (uffici ed ambulatori nuova sede INAIL), nella
parte in cui impone il versamento del contributo commisurato
al costo di costruzione, stabilito in £. 572.637.084, e
degli oneri di urbanizzazione, stabiliti in £. 294.584.085,
ovvero per la declaratoria del diritto della ricorrente alla
esenzione dal pagamento di oneri concessori e la conseguente
condanna del Comune di Monza alla restituzione della somma
di £. 845.751.170 oltre interessi e rivalutazione.
...
La censura avanzata dalla ricorrente non appare fondata
condividendo il Collegio l’interpretazione dell’art. 9,
comma 1, lett. f), della legge 28.01.1977, n. 10 fornita
dalla prevalente giurisprudenza amministrativa (per tutte,
Cons. St., sez. V, 20.07.2000, n. 3860).
La norma enuncia, infatti, due requisiti che devono
entrambi concorrere per fondare lo speciale regime di
gratuità della concessione, l'uno di carattere
oggettivo e l'altro di carattere soggettivo.
Per effetto del primo la costruzione deve riguardare opere
pubbliche o di interesse generale mentre, per effetto del
secondo, devono essere eseguite da un ente istituzionalmente
competente.
In merito al primo aspetto, non vi è dubbio che il caso di
specie rientri nella previsione normativa e ciò è provato
dall’espresso contenuto della concessione edilizia
rilasciata dal Comune.
Difficoltà di ordine interpretativo nascono in ordine al
possesso in capo alla impresa COGECAR s.r.l. del requisito
soggettivo di “ente istituzionalmente competente”.
In questo senso, è necessario individuare la ratio
dell’esenzione in argomento che è finalizzata sì ad
agevolare l'esecuzione di opere dalle quali la collettività
possa trarne una utilità ma anche ad evitare che il soggetto
che interviene per l'istituzionale attuazione del pubblico
interesse corrisponda un contributo che verrebbe a gravare,
sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe
avvantaggiarsi dal loro pagamento.
In questo senso, la disposizione si rivolge, oltre che agli
enti pubblici, a quelle figure soggettive che non agiscono
per esclusivo scopo lucrativo ovvero che accompagnano al
lucro un collegamento giuridicamente rilevante con
l'amministrazione, sì da rafforzare il legame istituzionale
con l'azione del soggetto pubblico per la cura degli
interessi della collettività.
Tale raccordo, peraltro, deve essere idoneo ad assicurare,
grazie alla presenza del soggetto pubblico, un
contemperamento dell'obiettivo privatistico dell'esecutore
dell'opera con il fine pubblicistico realizzato, come ad
esempio nel caso del concessionario di opera pubblica, il
quale, pur mirando al conseguimento di un lucro d'impresa, è
parificabile a pieno titolo al soggetto che cura
istituzionalmente l'esecuzione di opere di interesse
generale.
Ciò premesso, nella fattispecie controversa non è dato
apprezzare il requisito soggettivo, poiché l’impresa
ricorrente non può essere ricompressa nella nozione di ente
istituzionalmente competente.
A questo fine, il fatto che l’immobile fosse destinato ad
ospitare la nuova sede dell’INAIL non porta conseguentemente
a ritenere sussistente l’elemento soggettivo che, al
contrario, deve essere verificato sulla base di altri
fattori di collegamento.
In questo quadro, la circostanza di aver partecipato ad una
gara indetta dall’INAIL per l’acquisto di un immobile, da
costruire e da destinare al predetto istituto (con
successiva stipula del contratto di compravendita di cosa
futura), non esclude il fatto che la COGECAR S.r.l. abbia
comunque operato e programmato l'intervento edilizio in
qualità di soggetto privato e che la valutazione dei costi
dell'opera e dei margini di lucro sia stata eseguita
nell'ambito delle specifiche competenze dell'impresa.
La COGECAR s.r.l. ha conservato, nel caso di specie, la sua
veste di operatore economico privato ed ha quindi conseguito
un utile in posizione comune a quella di ogni altro libero
operatore nel mercato, segnando così un netto distacco
rispetto all'ipotesi in cui l'opera viene costruita
dall'ente istituzionalmente competente.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza
09.02.2004 n. 653). |
AGGIORNAMENTO AL 15.07.2014 |
ã |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 prevede
che l’autorità amministrativa competente accerta la
compatibilità paesaggistica nei casi di “lavori,
realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”,
“impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica”, “lavori comunque
configurabili quali interventi di manutenzione
ordinaria o straordinaria” ai sensi dell'articolo 3
del d.P.R. n. 380/2001.
A tale riguardo:
- il Collegio ritiene di non doversi discostare da
una interpretazione del testo normativo fedele alla
lettera, la quale esclude l’accertamento di
compatibilità paesaggistica nel caso di creazione o
aumento di superfici utili “o” volumi;
- il Consiglio di Stato ha chiarito che “il divieto
di incremento dei volumi edilizi imposto ai fini
della tutela del paesaggio preclude qualsiasi nuova
edificazione comportante creazione di volume, senza
che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed
altro tipo di volume...la natura del volume edilizio
realizzato non rileva sul giudizio di compatibilità
paesaggistica ex post delle opere, in cui la nuova
volumetria, quale che sia la sua natura, impone una
valutazione di compatibilità con i valori
paesaggistici dell'area ex ante, essendo precluse
autorizzazioni postume di opere che abbiano
comportato nuovi volumi ai sensi dell’art. 167
D.Lgs. n. 42 del 2004”;
- “quanto al rilievo dei volumi seminterrati o
interrati…la Sezione richiama e ribadisce in questa
sede la propria consolidata giurisprudenza, per la
quale -come si desume dall'articolo 167, comma 4,
del medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i
volumi interrati e seminterrati: così come per essi
è applicabile il divieto di sanatoria quando sono
realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il
rilascio della sanatoria paesaggistica quando
l'abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi
natura), così essi hanno una propria rilevanza
paesaggistica per le opere da realizzare”.
---------------
Il parere ministeriale
(di cui alla
nota 13.09.2010 n. 16721 di prot.
dell’Ufficio legislativo del Ministero B.A.C.) -nell’intento
di evitare interpretazioni eccessivamente
formalistiche della normativa- escluderebbe la
necessità dell’autorizzazione paesaggistica con
riferimento a incrementi di volume o di superficie
“di minima entità”, che non risultino “neppure
visibili” e che non rechino pregiudizio ai valori
protetti “in quanto oggettivamente non percepibili”.
Tuttavia, si ritiene di dover condividere la
posizione della Soprintendenza, laddove afferma che
“la normativa invocata prescinde da valutazioni
soggettive e discrezionali inerenti alla
percettibilità delle opere eseguite sine titulo, la
cui ammissibilità ai benefici di legge va valutata
–trattandosi di deroga al divieto generale di
rilascio di autorizzazioni in via postuma– con
tassativo riferimento a quanto disposto dall’art.
167, comma 4, d.lgs. n. 42/2004”.
Ancora, in relazione all’ambiente urbano circostante
–secondo la ricorrente “di scarsissimo valore
paesaggistico attesa la presenza di grandi edifici
anonimi e privi di qualsiasi qualità
architettonica”– la Soprintendenza utilmente
richiama quanto da tempo affermato dal Consiglio di
Stato circa il fatto che “non può affermarsi la
sussistenza dei vizi di difetto di istruttoria e di
motivazione in relazione al fatto che l'area in
parola fosse stata nel corso del tempo degradata e
parzialmente urbanizzata e che le aree circostanti
fossero state notevolmente alterate… l'avvenuta
edificazione di un'area o le sue condizioni di
degrado non costituiscono ragione sufficiente per
recedere dall'intento di proteggere i valori
estetici o culturali ad essa legati, poiché
l'imposizione del vincolo costituisce il presupposto
per l'imposizione al proprietario delle cautele e
delle opere necessarie alla conservazione del bene e
per la cessazione degli usi incompatibili con la
conservazione dell'integrità dello stesso”; e che
“siccome la qualificazione di rilevanza
paesaggistico-ambientale di un sito non è
determinata dal suo grado d'inquinamento -ché,
allora, in tutti i casi di degrado ambientale
sarebbe preclusa ogni ulteriore protezione del
paesaggio riconosciuto meritevole di tutela-, ne
consegue che l'imposizione del relativo vincolo
serve piuttosto a prevenire l'aggravamento della
situazione ed a perseguirne il possibile recupero”.
In ogni caso, la Soprintendenza rileva che
l’immobile “non apporta un contributo alla
qualificazione delle vedute d’insieme del luogo e
non può essere ritenuto migliorativo per il
paesaggio rispetto all’edificio preesistente”.
Il Collegio ritiene che la Soprintendenza abbia
agito correttamente, per le ragioni di seguito
illustrate.
L’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 prevede che
l’autorità amministrativa competente accerta la
compatibilità paesaggistica nei casi di “lavori,
realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati”,
“impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica”, “lavori
comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria” ai sensi
dell'articolo 3 del d.P.R. n. 380/2001.
Nel caso in esame la mancanza della necessaria
autorizzazione paesaggistica riguarda l’intero
fabbricato. Il decorso del tempo dopo il rilascio
del p.d.c. n. 23/2008 non muta il fatto che
l’immobile per il quale esso è stato rilasciato era
e resta abusivo dal punto di vista paesaggistico.
Sicché, per la Soprintendenza, i lavori realizzati
in assenza di autorizzazione paesaggistica non
possono che essere costituiti dall’intera
costruzione.
A tutto concedere -e così risulta aver ragionato la
Soprintendenza- il raffronto, avente lo scopo di
verificare la natura e la consistenza dei lavori ai
fini della ammissibilità di una valutazione
paesaggistica postuma, può dunque essere compiuto
assumendo come parametro di riferimento l’immobile
originariamente acquisito dalla ricorrente.
A tale riguardo, occorre premettere che:
- il Collegio ritiene di non doversi discostare da
una interpretazione del testo normativo fedele alla
lettera, la quale esclude l’accertamento di
compatibilità paesaggistica nel caso di creazione o
aumento di superfici utili “o” volumi;
- il Consiglio di Stato ha chiarito che “il
divieto di incremento dei volumi edilizi imposto ai
fini della tutela del paesaggio preclude qualsiasi
nuova edificazione comportante creazione di volume,
senza che sia possibile distinguere tra volume
tecnico ed altro tipo di volume...la natura del
volume edilizio realizzato non rileva sul giudizio
di compatibilità paesaggistica ex post delle opere,
in cui la nuova volumetria, quale che sia la sua
natura, impone una valutazione di compatibilità con
i valori paesaggistici dell'area ex ante, essendo
precluse autorizzazioni postume di opere che abbiano
comportato nuovi volumi ai sensi dell’art. 167
D.Lgs. n. 42 del 2004” (sez. II, parere
06.06.2012, n. affare 04814/2011);
- “quanto al rilievo dei volumi seminterrati o
interrati…la Sezione richiama e ribadisce in questa
sede la propria consolidata giurisprudenza, per la
quale -come si desume dall'articolo 167, comma 4,
del medesimo Codice- hanno rilievo paesaggistico i
volumi interrati e seminterrati: così come per essi
è applicabile il divieto di sanatoria quando sono
realizzati senza titolo (perché il comma 4 vieta il
rilascio della sanatoria paesaggistica quando
l'abuso abbia riguardato volumi di qualsiasi
natura), così essi hanno una propria rilevanza
paesaggistica per le opere da realizzare” (sez.
VI, sent. n. 4503/2013).
Nella fattispecie, la Soprintendenza ha rilevato che
“originariamente il fabbricato rurale aveva due
piani (seminterrato, destinato a stalla, e piano
terra, di fatto rialzato, adibito a residenza) oltre
al sottotetto della copertura a capanna, mentre la
costruzione attuale ha tre piani (più il sottotetto
non praticabile, ma comunque dotato di botola e
bucature), con superfici utili incrementate, di cui
il livello inferiore (con altezza netta di 2,70 m) è
seminterrato con tre lati in gran parte fuori terra,
tanto da essere predisposti ad avere più aperture, e
dovrebbe essere adibito a vari usi (autorimessa con
portico antistante, locale pluriuso, cantina, wc,
disimpegno ecc.) nonché presenta, rispetto al
fabbricato preesistente, una sagoma con altezze alla
gronda (nonché al colmo e all’interpiano)
prevalentemente maggiori, la conformazione e
l’estensione delle facciate sostanzialmente variate
e sia caratteristiche tipologiche generali che
l’assetto del tetto significativamente mutati”.
---------------
La ricorrente lamenta
la violazione dell’art. 10-bis della legge n.
241/1990, per non avere la Soprintendenza
sufficientemente motivato, nel provvedimento finale,
in merito alle controdeduzioni prodotte dalla stessa
ricorrente in riscontro alla comunicazione dei
motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza.
La censura non convince.
Il parere della Soprintendenza argomenta in ordine a
tutte le questioni ivi sollevate: il carattere
abusivo delle opere, la consistenza obiettiva delle
costruzioni, l’insussistenza dei presupposti di cui
alla
nota 13.09.2010 n. 16721 di prot.
dell’Ufficio legislativo del Ministero B.A.C., la
ritenuta incongruenza di alcune parti della
documentazione, le caratteristiche della zona nella
quale si trova il fabbricato.
In particolare, il richiamato parere ministeriale
-nell’intento di evitare interpretazioni
eccessivamente formalistiche della normativa-
escluderebbe la necessità dell’autorizzazione
paesaggistica con riferimento a incrementi di volume
o di superficie “di minima entità”, che non
risultino “neppure visibili” e che non
rechino pregiudizio ai valori protetti “in quanto
oggettivamente non percepibili”.
Sul punto, la Soprintendenza ha correttamente
osservato che tali condizioni non risultano
verificate nel caso oggetto del presente giudizio,
nel quale si riscontrano mutamenti della sagoma
(altezze alla gronda, al colmo e all’interpiano
prevalentemente maggiori), delle facciate (per
conformazione ed estensione), delle caratteristiche
tipologiche generali, dell’assetto del tetto, nonché
interferenze della nuova struttura con l’andamento
del terreno circostante.
In ogni caso, si ritiene di dover condividere la
posizione della Soprintendenza, laddove afferma che
“la normativa invocata prescinde da valutazioni
soggettive e discrezionali inerenti alla
percettibilità delle opere eseguite sine titulo, la
cui ammissibilità ai benefici di legge va valutata
–trattandosi di deroga al divieto generale di
rilascio di autorizzazioni in via postuma– con
tassativo riferimento a quanto disposto dall’art.
167, comma 4, d.lgs. n. 42/2004”.
Ancora, in relazione all’ambiente urbano circostante
–secondo la ricorrente “di scarsissimo valore
paesaggistico attesa la presenza di grandi edifici
anonimi e privi di qualsiasi qualità architettonica”–
la Soprintendenza utilmente richiama quanto da tempo
affermato dal Consiglio di Stato circa il fatto che
“non può affermarsi la sussistenza dei vizi di
difetto di istruttoria e di motivazione in relazione
al fatto che l'area in parola fosse stata nel corso
del tempo degradata e parzialmente urbanizzata e che
le aree circostanti fossero state notevolmente
alterate… l'avvenuta edificazione di un'area o le
sue condizioni di degrado non costituiscono ragione
sufficiente per recedere dall'intento di proteggere
i valori estetici o culturali ad essa legati, poiché
l'imposizione del vincolo costituisce il presupposto
per l'imposizione al proprietario delle cautele e
delle opere necessarie alla conservazione del bene e
per la cessazione degli usi incompatibili con la
conservazione dell'integrità dello stesso” (sez.
VI, sent. n. 3556/2010); e che “siccome la
qualificazione di rilevanza paesaggistico-ambientale
di un sito non è determinata dal suo grado
d'inquinamento -ché, allora, in tutti i casi di
degrado ambientale sarebbe preclusa ogni ulteriore
protezione del paesaggio riconosciuto meritevole di
tutela-, ne consegue che l'imposizione del relativo
vincolo serve piuttosto a prevenire l'aggravamento
della situazione ed a perseguirne il possibile
recupero” (Cons. Stato, VI, 27.04.2010, n.
2377).
In ogni caso, la Soprintendenza rileva che
l’immobile “non apporta un contributo alla
qualificazione delle vedute d’insieme del luogo e
non può essere ritenuto migliorativo per il
paesaggio rispetto all’edificio preesistente”.
Alla luce di tutto quanto sopra considerato, il
ricorso è infondato e deve pertanto essere respinto
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 04.07.2014 n. 1192 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
consolidati principi, il divieto di incremento dei
volume edilizi imposto ai fini della tutela del
paesaggio preclude qualsiasi nuova edificazione
comportante creazione di volume, senza che sia
possibile distinguere tra “volume tecnico” ed altro
tipo di volume.
Ai sensi dell’art. 146, comma 4, D.Lgs. n. 42 del
2004, l'autorizzazione paesaggistica non può essere
rilasciata in sanatoria successivamente alla
realizzazione, anche parziale, delle opere , al di
fuori dai casi tassativamente previsti dall'art.
167, commi 4 e 5.
Con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare
ulteriormente il regime delle opere incidenti su
beni paesaggistici, escludendo in radice che l'esame
di compatibilità paesaggistica possa essere
postergato all'intervento realizzato (sine titulo o
in difformità dal titolo rilasciato), così tutelando
più rigorosamente i beni sottoposti al vincolo
paesaggistico, ad eccezione delle opere
tassativamente indicate nello stesso art. 167 del
D.Lgs. n. 42 del 2004 riguardanti lavori che, pur se
realizzati in assenza o difformità
dell'autorizzazione paesaggistica, non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Tuttavia, nel caso in esame, correttamente la
Soprintendenza ha escluso la ricorrenza della
fattispecie derogatoria appena richiamata, atteso
che i vani realizzati sul terrazzo di copertura (tre
vani, per una superficie complessiva di 30 mq. ed
un’altezza di cm. 250) hanno comportato un aumento
delle volumetrie dell'edificio e, per di più,
un'opera rilevante sul piano della sua percezione
visiva nel contesto paesaggistico di riferimento.
A tal proposito, non può condividersi l'approccio
interpretativo dell'appellante, che mira a
neutralizzare il profilo dell'aumento volumetrico
determinato dai vani ospitanti impianti tecnici,
richiamando la normativa sui cosiddetti volumi
tecnici.
Nella prospettiva della tutela del paesaggio, in cui
assume preminenza l’impatto visivo ed estetico
dell’insieme architettonico dei volumi, alla nozione
di “volume tecnico”, come volume destinato ad
ospitare un impianto o parte di esso che, per
ragioni di funzionalità, di igiene o di sicurezza
non potrebbe essere allocato nella volumetria
assentita o comunque assentibile, non può essere
riconosciuto il medesimo rilievo assegnato sul piano
del carico urbanistico.
Pertanto, la natura del volume edilizio realizzato
(sia o meno qualificabile come volume tecnico) non
rileva sul giudizio di compatibilità paesaggistica
ex post delle opere, in cui la nuova volumetria,
quale che sia la sua natura, impone una valutazione
di compatibilità con i valori paesaggistici
dell'area (che deve compiersi da parte della
autorità preposta alla tutela del vincolo, ovvero
dalla competente Soprintendenza in sede di redazione
di un suo parere) ex ante, essendo precluse
autorizzazioni postume di opere che abbiano
comportato nuovi volumi ai sensi dell’art. 167
D.Lgs. n. 42 del 2004.
Con ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica, il ricorrente in oggetto ha chiesto
l’annullamento, previa sospensione, del parere della
Soprintendenza per i beni architettonici e
paesaggistici per la Provincia di Lecce, Brindisi e
Taranto in data 13.10.2008, con cui la sua richiesta
di autorizzazione in sanatoria alla realizzazione di
volumi tecnici su fabbricato di sua proprietà,
eretti in assenza di titolo abilitativo, è stata
giudicata non rientrante nei casi di sanatoria
postuma previsti dall’art. 167 del d. lgs. n.
42/2004.
...
Con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente
sostiene che i vani realizzati, per la loro natura
di “volumi tecnici”, come tali inidonei a
determinare creazione di superfici utili o volumi o
aumento di quelli legittimamente realizzati,
sarebbero sanabili ai sensi dell’art. 167, n. 4
d.lgs. n. 42/2004 e che, pertanto, illegittimamente
la Soprintendenza avrebbe ritenuto non esperibile il
procedimento di autorizzazione in sanatoria, senza
esaminare, nel merito, l’entità dell’abuso (da
considerarsi “piccolo abuso”).
Il motivo è infondato.
Per consolidati principi (Cons. St. Sez. VI,
20.6.2012, n. 3578, Sez. IV, 28.03.2011, n. 1879;
04.05.2010, n. 2565), il divieto di incremento dei
volume edilizi imposto ai fini della tutela del
paesaggio preclude qualsiasi nuova edificazione
comportante creazione di volume, senza che sia
possibile distinguere tra “volume tecnico” ed
altro tipo di volume.
Ai sensi dell’art. 146, comma 4, D.Lgs. n. 42 del
2004, l'autorizzazione paesaggistica non può essere
rilasciata in sanatoria successivamente alla
realizzazione, anche parziale, delle opere , al di
fuori dai casi tassativamente previsti dall'art.
167, commi 4 e 5.
Con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare
ulteriormente il regime delle opere incidenti su
beni paesaggistici, escludendo in radice che l'esame
di compatibilità paesaggistica possa essere
postergato all'intervento realizzato (sine titulo
o in difformità dal titolo rilasciato), così
tutelando più rigorosamente i beni sottoposti al
vincolo paesaggistico, ad eccezione delle opere
tassativamente indicate nello stesso art. 167 del
D.Lgs. n. 42 del 2004 riguardanti lavori che, pur se
realizzati in assenza o difformità
dell'autorizzazione paesaggistica, non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Tuttavia, nel caso in esame, correttamente la
Soprintendenza ha escluso la ricorrenza della
fattispecie derogatoria appena richiamata, atteso
che i vani realizzati sul terrazzo di copertura (tre
vani, per una superficie complessiva di 30 mq. ed
un’altezza di cm. 250) hanno comportato un aumento
delle volumetrie dell'edificio e, per di più,
un'opera rilevante sul piano della sua percezione
visiva nel contesto paesaggistico di riferimento.
A tal proposito, non può condividersi l'approccio
interpretativo dell'appellante, che mira a
neutralizzare il profilo dell'aumento volumetrico
determinato dai vani ospitanti impianti tecnici,
richiamando la normativa sui cosiddetti volumi
tecnici.
Nella prospettiva della tutela del paesaggio, in cui
assume preminenza l’impatto visivo ed estetico
dell’insieme architettonico dei volumi, alla nozione
di “volume tecnico”, come volume destinato ad
ospitare un impianto o parte di esso che, per
ragioni di funzionalità, di igiene o di sicurezza
non potrebbe essere allocato nella volumetria
assentita o comunque assentibile, non può essere
riconosciuto il medesimo rilievo assegnato sul piano
del carico urbanistico.
Pertanto, la natura del volume edilizio realizzato
(sia o meno qualificabile come volume tecnico) non
rileva sul giudizio di compatibilità paesaggistica
ex post delle opere, in cui la nuova
volumetria, quale che sia la sua natura, impone una
valutazione di compatibilità con i valori
paesaggistici dell'area (che deve compiersi da parte
della autorità preposta alla tutela del vincolo,
ovvero dalla competente Soprintendenza in sede di
redazione di un suo parere) ex ante, essendo
precluse autorizzazioni postume di opere che abbiano
comportato nuovi volumi ai sensi dell’art. 167
D.Lgs. n. 42 del 2004
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 06.09.2012 n. 3807 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla Camera dei Deputati è stato
approvato un emendamento importante (ndr: in quale norma non
è dato conoscere) che prevede, in relazione ai pareri dei
soprintendenti che oggi sono in qualche misura non
discutibili e non ricorribili se non attraverso la procedura
davanti all'autorità giudiziaria ordinaria o amministrativa,
per la prima volta, un meccanismo interno al Ministero che
consenta, su richiesta di un'altra amministrazione pubblica,
un comune, una regione o d'ufficio da parte del Ministero di
riesaminare, dentro il Ministero stesso, quel parere
togliendo in questo modo questa eccezionalità ai pareri dei
sovrintendenti che fino ad oggi non erano ridiscutibili,
nemmeno per le vie gerarchiche del Ministero.
---------------
Camera dei Deputati,
question-time del 09.07.2014
interrogazione n. 3-00932.
Al Ministro dei beni e delle attività culturali e del
turismo. — Per sapere – premesso che:
(... omissis)
- sotto altri aspetti nella regione Friuli
Venezia Giulia,
come già rilevato in altri recenti atti di sindacato
ispettivo indirizzati al Ministro interrogato,
si è riscontrata una rilevante difficoltà nei
rapporti tra la soprintendenza gestita dall'architetto
M.G.P. e i soggetti pubblici locali per ritardi
inaccettabili nell'inoltro dei pareri, per assenza di
motivazioni a giustificazione di diversa valutazione
rispetto alle commissioni locali per il paesaggio;
- un tale comportamento a giudizio degli
interroganti rappresenta un grave atto di scorrettezza
istituzionale, tale da configurare una lesione
dell'autonomia del Friuli Venezia Giulia e, quindi, un
conflitto di attribuzione tra regione e Stato;
- a seguito della posizione assunta dalla soprintendente per
i beni architettonici e paesaggistici del Friuli Venezia
Giulia, il consiglio comunale di Trieste, in data
07.04.2014, avrebbe approvato la delibera che regolamenta i
dehor, ossia gli arredi esterni dei locali, imponendo
norme stringenti per i gestori degli esercizi pubblici;
- la delibera è entrata in vigore il 30.04.2014 ed entro
tale data dovevano essere presentate al comune le domande
conformi al nuovo regolamento, le quali hanno richiesto un
iter molto complesso, con obbligo di presentazione di un
progetto redatto da un professionista;
- gli esercenti, per far accomodare i propri clienti negli
spazi esterni circostanti ai locali, sono tenuti ad
acquisire l'autorizzazione monumentale da parte della
soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del
Friuli Venezia Giulia;
- la richiesta monumentale è necessaria per ottenere il
rilascio dell'autorizzazione da parte del comune, ma l’iter
non ha tempi certi e non prevede la possibilità del ricorso
al silenzio-assenso, col rischio di paralizzare l'attività
commerciale;
- il danno economico causato dall'entrata in vigore della
suddetta delibera è stato rilevante. I gestori che in
passato hanno investito negli arredi esterni sono stati
costretti, in molti casi, a sostenere nuovi investimenti, i
cui costi, specie in questo momento di crisi, sono stati
pesanti, con ricadute negative per la clientela, andando a
deprimere ulteriormente il settore turistico;
- la totale mancanza di certezza sui tempi di approvazione
delle domande rischia di scoraggiare i gestori
dall'effettuare gli investimenti necessari, spingendo molti
di loro a rinunciare agli spazi esterni, con ricadute
negative sul servizio, sull'occupazione e, in generale,
sull'economia del territorio;
- è, inoltre, recente, nell'imminenza dell'avvio della
stagione turistica estiva, l'invio ad enti locali e
strutture ricettive di autorizzazioni contraddittorie, rese
anche pubbliche da organi di informazione per tale evidenza,
che recitano testualmente: «Vista la
documentazione descrittiva degli interventi, quali: tavoli,
sedie, sgabelli, tavoli rialzati, divani, poltrone, pedane,
fioriere ed elementi perimetrali di cui all'istanza sopra
richiamata e ritenuto che gli stessi sono da ritenersi
ammissibili in rapporto alle disposizioni del vigente
decreto legislativo n. 42 del 2004 (...), questa
soprintendenza (...) autorizza a condizione l'esecuzione
degli interventi di collocazione di tavoli, sedie, sgabelli
e tavoli rialzati, di cui alla documentazione descrittiva
pervenuta in allegato all'istanza a riscontro con
l'esclusione dei divani, poltrone, pedane, fioriere e
pannelli separatori, in quanto tale allestimento impedisce
la leggibilità d'insieme e la godibilità dello spazio urbano
vincolato ai sensi dell'articolo 10, comma 4, lettera g),
del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al
decreto legislativo n. 42 del 2004, e successive
modificazioni ed integrazioni»;
- tali provvedimenti presentano secondo gli interroganti
un'evidentissima contraddizione tra motivi e dispositivo,
che deriva dall'erronea valutazione dei fatti e da
un'illogicità e irragionevolezza della motivazione, cosa che
di norma è ricondotta all'eccesso di potere:
- quali siano gli esiti dell'ispezione
compiuta dal Ministero dei beni e delle attività culturali e
del turismo negli uffici della soprintendenza per i beni
culturali della regione Piemonte, quali conseguenze
disciplinari abbia comportato e se il Ministro interrogato
non ritenga necessario predisporre un particolare sistema di
controllo sull'operato delle soprintendenze, percorrendo
anche l'ipotesi di riservare le assegnazioni dei lavori
sotto soglia ad imprese di ridotte dimensioni legate al
territorio di riferimento, e, in particolare, quali
iniziative intenda assumere nei confronti del soprintendente.
...
DARIO FRANCESCHINI, Ministro dei beni e delle attività
culturali e del turismo.
Signor Presidente, l'onorevole Allasia ricorda bene che
abbiamo affrontato questo tema di carattere generale anche
questa mattina. Qui è stato approvato un
emendamento importante che prevede, in relazione ai pareri
dei soprintendenti che oggi sono in qualche misura non
discutibili e non ricorribili se non attraverso la procedura
davanti all'autorità giudiziaria ordinaria o amministrativa,
per la prima volta, un meccanismo interno al Ministero che
consenta, su richiesta di un'altra amministrazione pubblica,
un comune, una regione o d'ufficio da parte del Ministero di
riesaminare, dentro il Ministero stesso, quel parere
togliendo in questo modo questa eccezionalità ai pareri dei
sovrintendenti che fino ad oggi non erano ridiscutibili,
nemmeno per le vie gerarchiche del Ministero.
Quindi, questo tema sono ben consapevole che esista; sono
ben consapevole del fatto che non ci sia nulla di più
sbagliato che semplificare dividendo il Paese in due tra chi
è a favore e chi è contro le soprintendenze; è una cosa
assurda e caricaturale, perché le soprintendenze non fanno
altro che applicare l'articolo 9 della Costituzione che
prevede il dovere di tutela; naturalmente ci sono
comportamenti positivi e comportamenti negativi, ma io devo
assolutamente respingere la sua affermazione secondo cui ci
sarebbe abuso di potere. Ci sarà qualche caso isolato che va
giustamente perseguito dall'autorità giudiziaria, ma le
sovrintendenze svolgono la funzione loro assegnata dalla
Costituzione (...omissis) (INTERROGAZIONE
A RISPOSTA IMMEDIATA IN ASSEMBLEA N. 3/00932 DELL'08.07.2014
- link a http://banchedati.camera.it). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Bruciatura di residui vegetali provenienti da
attività agricola - D.L. 91/2014 - "campo libero"
(Prefettura di Avellino,
nota 08.07.2014 n. 15444 di prot.). |
SINDACATI |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Il foglio dei lavoratori della Funzione
Pubblica (CGIL-FP
di Bergamo,
giugno
2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
RIFORMA DE LLA P.A. – Meno vincoli per aziende
speciali e società partecipate
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 10.07.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
RIFORMA DELLA P.A. – Mobilità obbligatoria e
volontaria - la versione definitiva contenuta nel D.L.
90/2014 (CGIL-FP
di Bergamo,
nota 08.07.2014). |
UTILITA' |
CONSIGLIERI COMUNALI: Guida
per gli Amministratori Locali - aggiornata alla legge Delrio
n. 56/2014
(Cittalia e Anci Lazio, luglio 2014). |
LAVORI PUBBLICI:
Unità
Tecnica Finanza di Progetto (UTFP): 100 domande & 100
risposte
(II edizione - maggio 2014 - tratto da
www.cipecomitato.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 15.07.2014, "Disposizioni
in ordine alle acquisizioni di forniture e servizi in
economia, ai sensi dell’art. 125 del d.lgs. n. 163/2006 e
s.m.i e del relativo regolamento di attuazione" (deliberazione
G.R. 11.07.2014 n. 2104).
--------------
Tanto per avere un'idea di come operano in regione ... e
se c'è qualcosa di buono da scopiazzare per i propri
regolamenti comunali. |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
14.07.2014 n. 161, suppl. ord. n. 56, "Accordo tra il
Governo, le regioni e gli enti locali, concernente
l’adozione di moduli unificati e semplificati per la
presentazione dell’istanza del permesso di costruire e della
segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) edilizia.
Accordo, ai sensi dell’articolo 9, comma 2, lett. c) del
decreto legislativo 28.08.1997, n. 281 (Repertorio atti n.
67/CU)" (Conferenza Unificata,
accordo 12.06.2014).
---------------
Poiché i moduli unificati di cui sopra sono valevoli per
tutta Italia ed affinché in ogni regione li si possa
modificare in maniera personalizzata ovverosia in conformità
con la propria legislazione regionale, di seguito i due
moduli in formato Word:
1-
modello del Permesso di Costruire
2-
modello della SCIA |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 11.07.2014 n. 159 "Regola tecnica di prevenzione
incendi per la progettazione, costruzione ed esercizio delle
attività di demolizioni di veicoli e simili, con relativi
depositi, di superficie superiore a 3000 m2" (Ministero
dell'Interno,
decreto 01.07.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 28 dell'11.07.2014,
"Disposizioni per la razionalizzazione di interventi
regionali negli ambiti istituzionale, economico, sanitario e
territoriale" (L.R.
08.07.2014 n. 19).
---------------
Di particolare interesse si leggano:
►
Art. 19 - (Modifiche alla l.r. 7/2012)
►
Art. 20 - (Modifiche alla l.r. 5/2010)
►
Art. 22 - (Disposizioni per l’attuazione del decreto
del Presidente della Repubblica 13.03.2013, n. 59
«Regolamento recante la disciplina dell’autorizzazione unica
ambientale e la semplificazione di adempimenti
amministrativi in materia ambientale gravanti sulle piccole
e medie imprese e sugli impianti non soggetti ad
autorizzazione integrata ambientale, a norma dell’articolo
23 del decreto-legge 09.02.2012, n. 5, convertito, con
modificazioni, dalla legge 04.04.2012, n. 35». Modifica
dell’articolo 32 della l.r. 24/2006)
►
Art. 23 - (Modifiche alla l.r. 86/1983)
►
Art. 25 - (Modifica dell’articolo 5 della l.r.
13/2001)
►
Art. 26 - (Modifiche alla l.r. 11/2001)
►
Art. 29 - (Modifiche all’articolo 2 della l.r.
1/2000)
►
Art. 30 - (Modifica alla l.r. 14/2012)
►
Art. 31 - (Proroga dei termini per l’approvazione dei
PGT per i comuni soggetti a commissariamento e modifica
dell’articolo 13 della l.r. 12/2005)
►
Art. 33 - (Disposizioni in materia di agibilità degli
edifici) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 28 dell'11.07.2014, "Conclusione
del procedimento relativo all’aggiornamento, per il 2014,
dell’Albo regionale delle imprese boschive (l.r. 31/2008,
art. 57)"
(decreto
D.S. 07.07.2014 n. 6497). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 10.07.2014,
"Differimento al 15.10.2014 dell’entrata in vigore di
alcune disposizioni in materia di impianti termici,
approvate con decreto 5027 dell’11.06.2014" (decreto
D.U.O. 07.07.2014 n. 6518).
---------------
A seguito della proroga del Ministero dello Sviluppo
Economico, approvata con Decreto Ministeriale del
20.06.2014, Regione Lombardia con Decreto regionale n. 6518
del 07.07.2014 ha ridefinito le scadenze relative
all’entrata in vigore di alcune disposizioni.
Di seguito è possibile scaricare
una
sintesi che illustra le nuove regole e le relative modalità
e tempistiche di entrata in vigore. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 10.07.2014, "Disposizioni
regionali per il trattamento e l’utilizzo, a beneficio
dell’agricoltura, dei fanghi di depurazione delle acque
reflue di impianti civili ed industriali in attuazione
dell’art. 8, comma 8, della legge regionale 12.07.2007, n.
12. Conseguente integrazione del punto 7.4.2, comma 6, n. 2)
della d.g.r. 18.04.2012, n. IX 3298, riguardante le linee
guida regionali per l’autorizzazione degli impianti per la
produzione di energia elettrica da fonti energetiche
rinnovabili" (deliberazione
G.R. 01.07.2014 n. 2031). |
APPALTI: Centrali Uniche di Committenza: tutto rinviato al 2015.
La conferenza Stato-città nella seduta del 10 luglio u.s.,
ha sancito un accordo sull’obbligo per i Comuni di ricorrere
alle Centrali uniche di committenza. E’ stata approvata
un’intesa governo-enti locali che posticipa l’entrata in
vigore della norma, contenuta nell’art. 9, D.L. n. 66 del
2014, convertito in legge 89 del 2014.
In particolare, viste le difficoltà applicative delle
disposizioni, viene rimandata all’01.01.2015
l’applicazione della norma per l’acquisto di beni e servizi
da parte delle amministrazioni e al 01.07.2015
l’applicazione di quella riguardante gli appalti dei lavori
pubblici.
Inoltre, si stabilisce che nel frattempo gli atti compiuti
dai Comuni sono fatti salvi e si dà indicazione all’ANAC di
concedere i cig (Codici identificativi gara) anche ai Comuni
non capoluogo, che dal 1° luglio non abbiano potuto
ricorrere alle acquisizioni con le attuali modalità previste
(intesa 10.07.2014 Conferenza
Stato-Città e autonomie locali). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 09.07.2014,
"Informatizzazione delle comunicazioni di azioni e
modifiche non soggette ad autorizzazione concernenti gli
impianti di distribuzione di carburanti per autotrazione
sulla rete stradale ordinaria, sulle autostrade e raccordi
autostradali e gli impianti per gli aeromobili/natanti ad
uso pubblico e relative indicazioni operative" (decreto
D.G. 02.07.2014 n. 6398). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
SEGRETARI
COMUNALI: F.
Colacicco,
DIRITTI DI ROGITO E COMPARTECIPAZIONE
(Gazzetta Amministrativa n. 4/2013).
---------------
Riflessioni e considerazioni sui diritti di rogito e
compartecipazione dei segretari comunali e provinciali. |
COMPETENZE GESTIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: S.
Fifi,
DEL POTERE DI DELEGA E DEL DOVERE DI CONTROLLO DEL SINDACO
(Gazzetta Amministrativa n. 4/2013).
---------------
La facoltà per legge di delegare ai dirigenti del proprio
organico le funzioni tecniche e amministrative esulanti
l’indirizzo generale non esonera il sindaco da un dovere di
costante controllo di quelle particolari funzioni che pure
per legge sono ad egli riservate, come la materia ambientale
e, segnatamente, dei rifiuti. Ciò, a maggior ragione, in
presenza di particolari contingenze. |
PUBBLICO
IMPIEGO: E.
Pierantozzi,
ANCORA SUL RIPARTO DI GIURISDIZIONE IN MATERIA DI
AFFIDAMENTO DI INCARICHI DIRIGENZIALI DA PARTE DELLA
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
(Gazzetta Amministrativa n. 4/2013).
---------------
Nel caso di
procedimento amministrativo finalizzato all’attribuzione di
incarichi dirigenziali di fascia superiore, avviato con
invito a presentare domande e comprovare titoli e requisiti
professionali, secondo il TAR del Lazio la circostanza che
l’Amministrazione abbia poi selezionato i candidati senza
svolgere una effettiva comparazione tra gli stessi e senza
stilarne una graduatoria esclude l’applicabilità dell’art.
63, co. 4, del d.lgs. n. 165/2001 e comporta la
giurisdizione del giudice ordinario. |
PUBBLICO
IMPIEGO: S.
Russo,
IL DIRITTO ALLA CORRESPONSIONE DELL'INDENNITÀ PER FERIE NON
GODUTE SOGGIACE ALLA PRESCRIZIONE ORDINARIA DECENNALE
(Gazzetta Amministrativa n. 4/2013).
---------------
Il compenso sostitutivo per mancata fruizione delle ferie
spettanti al prestatore di lavoro costituisce credito di
natura risarcitoria e non retributiva. |
PUBBLICO IMPIEGO: D.
Iannone e S. Del Vasto,
LA RETRIBUZIONE “EXTRA” DEL PUBBLICO DIPENDENTE
(Gazzetta Amministrativa n. 4/2013).
---------------
L’analisi si ripropone due obiettivi. Il primo
attiene alla necessità di fornire elementi per determinare
il principio di carattere generale secondo il quale è
legittimo e doveroso corrispondere al dipendente pubblico
non dirigente emolumenti ulteriori. Il secondo
riguarda l’esigenza di individuare l’ambito di
onnicomprensività dell’emolumento da erogare al dipendente
pubblico dirigente. |
APPALTI: M.
De Cilla,
SULL’OBBLIGO DI DICHIARARE IL SOGGETTO SUBAPPALTATORE
NELL’OFFERTA
(Gazzetta Amministrativa n. 4/2013).
---------------
Subappalto necessario e facoltativo: ultime novità dal
Consiglio di Stato. |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Elezioni, vale il manifesto. La prorogatio decorre
dalla pubblicazione. Come
determinare la decorrenza della limitazione dei poteri dei
consiglieri.
Ai fini della decorrenza della limitazione dei poteri dei
consigli comunali agli atti urgenti e improrogabili,
prevista dall'art. 38, comma 5, del dlgs n. 267/2000, la
data di pubblicazione del decreto di indizione dei comizi
elettorali coincide con la pubblicazione del manifesto
elettorale da effettuarsi a cura del sindaco quarantacinque
giorni prima della data delle elezioni?
Ai sensi dell'art. 38, comma 5, del dlgs. n. 267/2000, i
consigli comunali durano in carica per un periodo di cinque
anni sino all'elezione dei nuovi, limitandosi, dopo la
pubblicazione del citato decreto di indizione dei comizi
elettorali, a adottare gli atti urgenti e improrogabili.
A tale proposito l'art. 38 citato va coordinato in combinato
disposto con l'art. 18, comma 1, del dpr n. 570 del 1960,
nel quale si prevede che il sindaco è tenuto, con la
pubblicazione di un manifesto da effettuarsi quarantacinque
giorni prima della data delle elezioni, a comunicare agli
elettori, in quanto soggetti destinatari, il dispositivo del
decreto prefettizio di indizione dei comizi elettorali con
la data fissata per le elezioni.
Pertanto, al fine di individuare la decorrenza
dell'operatività della disciplina recata dall'art. 38, comma
5, del dlgs n. 267/2000, dovrà farsi riferimento in via
esclusiva alla data di pubblicazione del manifesto
elettorale previsto dall'art. 18, comma 1, del dpr n.
570/1960 citato.
Da tale data, quindi, i consigli comunali saranno tenuti a
limitare la propria attività all'adozione degli «atti
urgenti e improrogabili»
(articolo ItaliaOggi dell'11.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Composizione della giunta.
È legittima la decisione di un sindaco di modificare la
propria giunta, cooptando nell'organo esecutivo anche
assessori appartenenti a forze politiche di opposizione, in
caso di mutamento della compagine di governo dell'ente
rispetto al risultato scaturito dalle elezioni
amministrative?
Nella fattispecie in esame, a un anno circa
dall'insediamento della amministrazione, a fronte
dell'eventualità di una crisi del rapporto fiduciario tra il
sindaco e la propria maggioranza, alcuni esponenti della
originaria opposizione avrebbero accettato di sostenere il
capo dell'esecutivo, al fine di scongiurare la fine
anticipata della consiliatura e il conseguente
commissariamento dell'ente.
La situazione prospettata si inquadra nell'ambito dei
possibili mutamenti che possono sopravvenire all'interno
delle forze politiche presenti in consiglio comunale per
effetto del passaggio dei consiglieri dalla maggioranza alla
minoranza e viceversa.
Il principio generale del divieto di mandato imperativo
sancito dall'articolo 67 della Costituzione, pacificamente
applicabile a ogni assemblea elettiva, assicura a ogni
consigliere l'esercizio del mandato ricevuto dagli elettori,
pur conservando verso gli stessi la responsabilità politica,
con assoluta libertà, ivi compresa quella di far venir meno
l'appartenenza dell'eletto alla lista o alla coalizione di
originaria appartenenza (cfr.
Tar, Trentino-Alto Adige, Trento n. 75/2009).
Nel caso di specie non sono, pertanto, ravvisabili profili
di illegittimità, ancor più se si consideri che il ricorso
alla formula delle «larghe intese» locali, si è determinato
proprio al fine di scongiurare la realizzazione di quegli
eventi, (dimissioni del sindaco, approvazione di mozione di
sfiducia, dimissioni ultra dimidium dei consiglieri)
che avrebbero costituito il presupposto giuridico per lo
scioglimento anticipato del consiglio comunale
(articolo ItaliaOggi dell'11.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ordinanza ex art. 192, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006, per
ripristino dello stato dei luoghi in caso di abbandono e
deposito incontrollato di rifiuti.
L'art. 192, D.Lgs. n. 152/2006, sancisce
il divieto di abbandono e di deposito incontrollato di
rifiuti sul suolo e nel sottosuolo (comma 1) e prevede la
misura dell'ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti e
di ripristino dei luoghi nei confronti dell'autore della
violazione ambientale e, in via solidale, del proprietario
dell'area di cui sia accertata, in contraddittorio da parte
dei soggetti preposti al controllo, la responsabilità a
titolo di dolo o colpa (comma 3).
Sulla base di questo assetto normativo, che ripone la
responsabilità del proprietario di un'area per il danno
causato all'ambiente dall'abbandono incontrollato di rifiuti
sull'elemento soggettivo del dolo o della colpa, la
giurisprudenza ha affermato l'illegittimità e ha annullato
gli ordini di smaltimento di rifiuti rivolti al proprietario
di un fondo in ragione della sua sola qualità, ma in
mancanza di adeguata dimostrazione da parte
dell'amministrazione procedente, sulla base di
un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione,
dell'imputabilità soggettiva della condotta.
Il Comune riferisce di un'area privata, in relazione alla
quale sono stati effettuati e notificati accertamenti di
illeciti amministrativi in materia ambientale (nella specie,
abbandono di rifiuti), e chiede un parere un ordine alla
possibilità di notificare l'ordinanza ex art. 192, comma 3,
D.Lgs. n. 152/2006 [1]
al soggetto che, successivamente ai suddetti accertamenti,
ha acquistato una quota indivisa della suddetta area.
L'art. 192, D.Lgs. n. 152/2006, sancisce il divieto di
abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti sul suolo e
nel sottosuolo (comma 1). La violazione del divieto
comporta, per chi ne sia autore, l'obbligo di procedere alla
rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei
rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido
con il proprietario e con i titolari di diritti reali o
personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione
sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo. Il Sindaco
dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed
il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede
all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al
recupero delle somme anticipate (comma 3).
Al fine di poter meglio inquadrare la misura ripristinatoria
di cui all'art. 192, comma 3, richiamato, si ritengono utili
alcuni cenni all'evoluzione normativa in materia, avvenuta
conformemente alle indicazioni provenienti dalla
giurisprudenza in ordine all'individuazione dei soggetti
responsabili delle violazioni ambientali nei cui confronti
emettere l'ordinanza di rimozione dei rifiuti
[2].
La prima disciplina recata dall'art. 9, D.P.R. 10.09.1982,
n. 15, prevedeva l'emissione dell'ordinanza sindacale di
sgombero delle aree in danno dei 'soggetti obbligati'
[3];
successivamente, l'art. 14, D.Lgs. 05.02.1997, n. 22,
includeva tra i soggetti obbligati al ripristino dello stato
dei luoghi, a titolo di responsabilità solidale, il
proprietario dell'area, ma richiedendo espressamente
l'imputabilità allo stesso, a titolo di dolo o colpa, della
violazione del divieto di abbandono [4].
La previsione del requisito dell'imputabilità soggettiva
della violazione ambientale, ad opera dell'art. 14 del
D.Lgs. n. 22/1997, ha positivizzato l'orientamento
giurisprudenziale assolutamente maggioritario formatosi sul
disposto dell'art. 9, D.P.R. n. 15/1982, nel senso che
l'ordine di smaltimento dei rifiuti non potesse essere
rivolto al proprietario come tale, se non in quanto egli
potesse ritenersi 'obbligato' a causa di un
comportamento -anche omissivo- di corresponsabilità con
l'autore dell'abbandono illecito dei rifiuti. E questo in
considerazione della natura dell'ordine di smaltimento,
configurato quale sanzione avente carattere ripristinatorio,
che presuppone l'accertamento della responsabilità da
illecito in capo al destinatario [5].
Il disposto dell'art. 192, D.Lgs. n. 152/2006, riproduce il
tenore dell'abrogato art. 14 sopra citato, con riferimento
alla necessaria imputabilità a titolo di dolo o colpa, e in
più integra il precedente precetto precisando che l'ordine
di rimozione può essere adottato esclusivamente 'in base
agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i
soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo'
[6].
Infatti, solo partecipando concretamente alla fase di
accertamento, tali soggetti possono evidenziare eventuali
elementi a loro discolpa, che l'amministrazione deve
congruamente valutare [7].
Sulla base di questo assetto normativo, la giurisprudenza ha
affermato l'illegittimità e ha annullato gli ordini di
smaltimento di rifiuti rivolti al proprietario di un fondo
in ragione della sua sola qualità, ma in mancanza di
adeguata dimostrazione da parte dell'amministrazione
procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di
un'esauriente motivazione, dell'imputabilità soggettiva
della condotta [8].
Pertanto, secondo la costante giurisprudenza amministrativa,
l'ordinanza di rimozione dei rifiuti deve essere preceduta
dalla comunicazione, prevista dall'art. 7 della L. n.
241/1990, di avvio del procedimento ai soggetti interessati,
ai fini dell'effettiva instaurazione di un contraddittorio
procedimentale con questi soggetti [9].
Un tanto premesso e venendo alla questione posta dall'Ente
circa la possibilità di notificare l'ordinanza di rimozione
dei rifiuti e di ripristino dei luoghi, oltre che al
soggetto autore dell'abbandono, anche al soggetto divenuto
proprietario di una quota indivisa dell'area successivamente
all'accertamento dello stato di abbandono e
all'individuazione dell'autore dell'illecito, si osserva che
questo risulta possibile a condizione che venga accertata la
sua responsabilità soggettiva, in relazione alla violazione
ambientale di che trattasi.
Più precisamente, ai sensi dell'art. 192, comma 3, D.Lgs. n.
152/2006, occorre che gli organi preposti al controllo
[10]
provvedano a svolgere un'attività istruttoria mirata ad
accertare il suo coinvolgimento doloso o colposo, che si
concluda con l'accertamento della sussistenza dell'elemento
soggettivo, quanto meno di quello della colpa
[11].
Qualora, invece, l'attività di accertamento compiuta
dall'amministrazione procedente nei confronti del
comproprietario dell'area -divenuto tale successivamente
all'accertamento dello stato abbandono e all'individuazione
di chi ne è stato l'autore- si concluda con l'esclusione
della sua responsabilità soggettiva e dunque con
l'archiviazione nei suoi confronti del procedimento
finalizzato all'emissione dell'ordinanza sindacale di
sgombero, ne deriva che questa non potrà essere emessa a suo
carico, per mancanza dei presupposti di legittimità previsti
dall'art. 192, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006, postulanti,
appunto, l'accertamento della responsabilità da illecito in
capo al destinatario del provvedimento [12].
---------------
[1] D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, recante: 'Norme in materia
ambientale'.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 08.02.2005, n. 323.
[3] Si riporta il testo dei primi due commi dell'art. 9 in
commento, non più in vigore, sostituito prima dall'art. 14
del D.Lgs. n. 22/1997 e poi dall'art. 192 del D.Lgs. n.
152/2006: '1. È vietato l'abbandono, lo scarico o il
deposito incontrollato dei rifiuti in aree pubbliche e
private soggette ad uso pubblico.
2. In caso d'inadempienza, il sindaco, allorché sussistano
motivi sanitari, igienici od ambientali, dispone con
ordinanza, previa fissazione di un termine per provvedere,
lo sgombero di dette aree in danno dei soggetti obbligati'.
[4] Si riporta il testo dell'art. 14 in commento, abrogato
dal D.Lgs. n. 152/2006: "1. L'abbandono e il deposito
incontrollati di rifiuti sul suolo e nel suolo sono vietati.
2. È altresì vietata l'immissione di rifiuti di qualsiasi
genere, allo stato solido o liquido, nelle acque
superficiali e sotterranee.
3. Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli
articoli 50 e 51, chiunque viola i divieti di cui ai commi 1
e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a
recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i
titolari di diritti reali o personali di godimento
sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo
di dolo o colpa. Il sindaco dispone con ordinanza le
operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme
anticipate".
[5] Consiglio di Stato, sez. V, 08.02.2005, n. 323. Nello
stesso senso, Consiglio di Stato, sez. V, 08.03.2005, n.
935, secondo cui l'abbandono di rifiuti configura una figura
specifica di atto illecito, punito dall'ordinamento con
sanzioni amministrative in quanto viola una norma di tutela
ambientale in danno della collettività, che ripone la
responsabilità del proprietario di un'area per il danno
causato all'ambiente dall'abbandono incontrollato di rifiuti
proprio sull'elemento soggettivo del dolo o della colpa.
[6] Consiglio di Stato, sez. V, 25.08.2008, n. 4061, che
espone una sintesi della giurisprudenza amministrativa in
tema di responsabilità per illecito abbandono di rifiuti;
Consiglio di Stato, sez. V, 19.03.2009, n. 1612; TAR Puglia,
sez. I, 07.02.2008, n. 375; Consiglio di Stato, sez. V,
08.02.2005, n. 323.
[7] TAR Sardegna, sez. II, 02.09.2011, n. 915. Conforme, TAR
Abruzzo Pescara, sez. I, 23.04.2013, n. 237, che sottolinea
la rilevanza del contraddittorio per l'apporto
procedimentale che i soggetti interessati possono fornire,
quanto meno in riferimento all'accertamento delle effettive
responsabilità per l'abusivo deposito dei rifiuti. Nello
stesso senso, TAR Campania, Napoli, sez. V, 03.03.2014, n.
1294.
[8] TAR Lombardia, sez. IV, 29.01.2014, n. 312; TAR
Campania, Napoli, sez. V, 03.03.2014, n. 1294; TAR Abruzzo
Pescara, sez. I, 23.04.2013, n. 237; TAR Calabria, sez. I,
19.11.2012, n. 747; TAR Sardegna, sez. II, 02.09.2011, n.
915.
[9] Consiglio di Stato, n. 4061/2008, cit.; TAR Abruzzo
Pescara, n. 237/2013, cit.; TAR Calabria, n. 747/2012, cit..
[10] L'abbandono di rifiuti configura illecito punito con
sanzione amministrativa (v. nota 5). L'art. 13 della L. n.
689/1981 prevede due categorie di soggetti competenti ad
eseguire gli accertamenti di violazioni amministrative: gli
ufficiali o agenti di polizia giudiziaria ed i generici
organi addetti al controllo sull'osservanza delle
disposizioni per la cui violazione è prevista una sanzione
amministrativa. In particolare, il comma 4 dell'art. 13
riconosce espressamente agli organi di polizia giudiziaria
il potere di accertare le violazioni punite con sanzioni
amministrative (cfr. Stefania Pallotta, Spunti
teorico-pratici in materia di accertamento degli illeciti
amministrativi ambientali, su www.dirittoambiente.com). È
inoltre il caso di ricordare, in questa sede, la titolarità
in capo ai comuni dei poteri di polizia amministrativa in
materia di rifiuti. Infatti: l'art. 9, D.P.R. n. 616/1977,
prevede che 'i comuni... sono titolari delle funzioni di
polizia amministrativa nelle materie ad essi rispettivamente
trasferite o attribuite'; l'art. 158, comma 2, D.Lgs. n.
112/1998, prevede che 'le regioni e gli enti locali sono
titolari delle funzioni e dei compiti di polizia
amministrativa nelle materie ad essi rispettivamente
trasferite o attribuite. La delega di funzioni
amministrative dallo Stato alle regioni e da queste ultime
agli enti locali, anche per quanto attiene alla subdelega,
ricomprende anche l'esercizio delle connesse funzioni e
compiti di polizia amministrativa'; l'art. 195, comma 5,
D.Lgs. n. 152/2006, in tema di vigilanza e accertamento
degli illeciti in materia di rifiuti, fa espressamente salve
le disposizioni di cui al citato D.Lgs. n. 112/1998. Una
lettura coordinata dei testi normativi richiamati porta a
concludere che nella materia 'gestione dei rifiuti',
affidata ai comuni dall'art. 198 d.lgs. 152/06, questi
ultimi siano titolari dei connessi poteri di polizia
amministrativa. (Cfr. Bruno Cristinao, L'ispettore
ambientale (o ecovigile) quale organo di polizia
amministrativa di derivazione comunale, su diritto.it).
[11] L'elemento soggettivo della colpa non è agevolmente
configurabile (Consiglio di Stato, sez. V, 08.03.2005, n.
935) e va accertato caso per caso, in relazione alle
particolarità del caso concreto. Per il Supremo Giudice
amministrativo, non sembra a tal fine essere sufficiente la
culpa in vigilando, dacché afferma che in ogni caso il
dovere di diligenza, che fa carico al titolare del fondo,
non può arrivare al punto di richiedere una costante
vigilanza, da esercitarsi giorno e notte, per impedire
l'abbandono dei rifiuti (sentenza n. 935/2008, cit.). Per il
Supremo Giudice amministrativo, inoltre, l'elemento
soggettivo (dolo o colpa) non può rinvenirsi nella mera
conoscenza di un fatto di cui altri siano i responsabili
(Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 04.03.2008, n. 807).
[12] Cfr. Consiglio di Stato, n. 323/2005, cit.
(08.07.2014 -
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APPALTI SERVIZI:
Affidamento gestione rete di distribuzione energia a
servizio di immobili comunali.
La giurisprudenza afferma, in generale,
per tutti i contratti in cui sia parte una p.a. il
necessario rispetto dei principi dell'evidenza pubblica.
In particolare, l'affidamento a ditta privata dell'attività
di gestione della rete di distribuzione di energia elettrica
per immobili comunali, in ragione della sua natura di
servizio svolto a favore del Comune, che ne fruisce alla
stregua di un qualsiasi altro soggetto, e non alla
collettività, deve qualificarsi come appalto di servizi e
richiede il ricorso ad una procedura di gara di appalto.
Il Comune chiede un parere in ordine alle modalità di
affidamento della gestione di una rete di distribuzione di
energia elettrica, di sua proprietà, realizzata a servizio
di proprie strutture malghive.
In via preliminare, è importante far osservare che per tutti
i contratti in cui sia parte una p.a. la giurisprudenza ha
affermato il necessario rispetto dei principi dell'evidenza
pubblica. Osserva infatti il Supremo Giudice amministrativo
che il principio di concorrenza e quelli -che ne
rappresentano attuazione e corollario- di trasparenza, non
discriminazione e parità di trattamento, costituendo
principi fondamentali del diritto comunitario, si elevano a
principi generali di tutti i contratti pubblici e sono
direttamente applicabili a prescindere dalla ricorrenza di
specifiche norme comunitarie o interne e in modo prevalente
su eventuali disposizioni di segno contrario
[1].
Ciò premesso, la tipologia di procedura da utilizzare per
l'affidamento del servizio di gestione della rete elettrica
è condizionata dall'atteggiarsi del rapporto contrattuale
tra l'Ente e la ditta privata e dall'essere o meno
coinvolta, in detto rapporto, l'utenza.
Su tali fattori, invero, l'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP)
[2] ha
fondato le proprie considerazioni in ordine alla
qualificazione della natura del rapporto giuridico
intervenuto tra un comune e una ditta privata per le
attività di gestione del servizio elettrico su immobili
comunali.
L'AVCP ha innanzitutto delineato i tratti distintivi del
contratto di concessione di pubblico servizio rispetto a
quello di appalto di servizio, e dunque: assunzione del
rischio economico relativo alla gestione del servizio a
carico del concessionario, a differenza che nell'appalto,
ove l'esecutore è remunerato dalla stazione appaltante;
versamento di un canone all'amministrazione concedente,
diversamente da quanto avviene nell'appalto, ove è la
stazione appaltante a versare un corrispettivo alla ditta
esecutrice dei servizi/lavori; rapporto trilaterale che
coinvolge l'amministrazione, il gestore e gli utenti
destinatari del pubblico servizio, mentre nell'appalto il
rapporto è bilaterale, esaurendosi tra erogatore del
servizio e amministrazione [3].
Un tanto precisato, l'AVCP ha configurato quale appalto il
contratto con cui un comune ha affidato la gestione degli
impianti elettrici di immobili comunali ad una ditta
privata, argomentando dalla circostanza che, nella
fattispecie al suo esame, il rischio della gestione non
appare a carico del concessionario, che in realtà riceve un
canone annuale dall'amministrazione, e dal fatto che il
rapporto appare essere bilaterale, coinvolgendo solamente la
p.a. e la ditta, per cui le prestazioni del servizio sono
dirette unicamente al comune e non alla collettività, e
pertanto non rientrano nella nozione di servizio pubblico
locale [4].
Del pari, il Consiglio di Stato muove dalla natura del
servizio oggetto di affidamento per derivarne la relativa
modalità di affidamento. In particolare, il Supremo Giudice
amministrativo ha osservato che il servizio 'gestione
calore' per immobili comunali, comprensivo, per quanto
qui di interesse, anche dei lavori di manutenzione degli
impianti, non presenta i caratteri di servizio pubblico, in
quanto trattasi di un servizio che non viene svolto dal
comune a favore della collettività, ma viene erogato in
senso inverso cioè a favore del Comune. Pertanto,
l'affidamento a ditta privata di un siffatto servizio deve
avvenire previo il necessario espletamento di una procedura
concorsuale di appalto [5].
Allo stesso modo, il Tribunale regionale di giustizia
amministrativa, sezione Bolzano, ha affermato che il
'servizio energia' per edifici comunali, comprensivo, per
quanto qui di interesse, della gestione degli impianti, non
possa qualificarsi come 'servizio pubblico', poiché
le prestazioni sono dirette unicamente al comune, che ne
fruisce alla stregua di un qualsiasi altro soggetto, e non
alla collettività. Dunque, l'affidamento del 'servizio
energia' deve qualificarsi come appalto di servizi, non come
concessione di un pubblico servizio [6].
Venendo al caso di specie e alla luce delle considerazioni
espresse, si ritiene che l'affidamento dell'attività di
gestione della rete di distribuzione di energia elettrica
per immobili comunali, in ragione della sua natura di
servizio svolto a favore del Comune [7],
richieda il ricorso ad una procedura di gara di appalto
[8].
---------------
[1] TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. II, 21.05.2008, n.
1978, che richiama Consiglio di Stato, sez. VI, 30.01.2007,
n. 362; 30.12.2005, n. 7616; 25.01.2005, n. 168.
[2] AVCP, deliberazione n. 12 del 26.01.2011.
[3] Sulla distinzione tra concessione e appalto, cfr. anche
Consiglio di Stato, 16.04.2014, n . 1863.
[4] In tal senso, l'AVCP richiama il Parere dell'Autorità n.
201 del 17.07.2008 e il Consiglio di Stato, sez. V,
10.03.2003, n. 1289.
[5] Consiglio di Stato, sez. V, 10.03.2003, n. 1289.
[6] Tribunale regionale di giustizia amministrativa, sezione
Bolzano, 08.03.2007, n. 91. Sull'argomento di recente anche
la Corte di Cassazione (Cass. civ., S.U., ord. n.
12252/2009) ha osservato che 'la linea di demarcazione tra
appalti pubblici di servizi e concessioni di servizi [...] è
netta, poiché l'appalto pubblico di servizi, a differenza
della concessione, riguarda di regola i servizi resi alla
pubblica amministrazione e non al pubblico degli utenti'.
Conclusivamente, osserva l'AVCP, nella concessione di
servizi il destinatario del servizio pubblico è l'utenza, la
quale paga un ticket al concessionario (Cfr. AVCP,
deliberazione n. 47 del 04.05.2011, che richiama l'ordinanza
della Cassazione n. 12252/2009).
[7] Cfr. Cons. St., n. 1289/2003, cit..
[8] Si ritiene comunque di precisare, richiamando quanto
espresso in premessa sui contratti pubblici in generale, che
anche le concessioni di servizi devono garantire il più
ampio confronto concorrenziale; a tal fine è pertanto
auspicabile un regime pubblicitario degli affidamenti in
concessione che, in ragione della rilevanza dell'importo
dell'affidamento, si estenda anche a livello europeo in
linea con i principi di adeguata pubblicità e trasparenza,
applicabili anche alle concessioni di servizi in quanto
espressamente richiamati dall'art. 30 del D.Lgs. n. 163/2006
(Cfr. AVCP, deliberazione n. 47/2011, cit.)
(01.07.2014 -
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CORTE DEI CONTI |
PATRIMONIO: Il
Comune non può legittimamente contribuire al pagamento del
canone di locazione di un immobile, di proprietà privata,
destinato ad ospitare la locale caserma dei Carabinieri.
Ferma restando l’importanza degli strumenti di
concertazione interistituzionale e la rilevanza degli
obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da
perseguire nell’ambito degli appositi programmi, di cui
all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007,
tuttavia la Sezione ritiene che non
possano rientrare nell’ambito degli anzidetti strumenti le
forme di contribuzione come quella in esame, volte al
pagamento del canone di locazione.
Ciò anche in
considerazione del carattere non episodico della
contribuzione, che deve presumersi possa interessare la
gestione del bilancio dell’ente bel oltre l’esercizio in
corso e che, pertanto, mal si attaglia alla natura
transitoria degli accordi in questione, la cui durata in
generale è annuale.
---------------
Il Sindaco del Comune di Russi ha inoltrato a questa
Sezione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge
131/2003, una richiesta di parere avente ad oggetto la
possibilità di contribuire legittimamente al pagamento del
canone di locazione di un immobile, di proprietà privata,
destinato ad ospitare la locale caserma dei Carabinieri.
Il Sindaco di Russi ha spiegato che l’edificio che ospitava
la Stazione dei Carabinieri è stato dichiarato parzialmente
inagibile e che l’Arma, attualmente, per poter svolgere
l’attività di presidio, in attesa di una soluzione adeguata,
sta fruendo di un ufficio nella sede municipale, concesso
gratuitamente dal Comune con delibera di giunta. Per
completezza è stato evidenziato che non vi sono immobili di
proprietà del comune adatti allo scopo ed è stato
manifestato il timore che l’Arma possa non essere in grado
di sostenere l’onere di locazione dell’edificio che sarà in
futuro individuato.
Questa Sezione, considerata la natura generale della
problematica, che imponeva un’interpretazione e
un’applicazione unitaria della stessa, tenuto conto della
circostanza che alcune sezioni regionali di controllo si
erano già espresse prospettando una soluzione alla quale non
riteneva di potersi conformare, rimetteva al Presidente
della Corte dei conti la valutazione dell’opportunità di
deferire alla Sezione delle autonomie, ovvero alle Sezioni
riunite, la questione di massima in ordine alla possibilità,
per gli enti locali, in base al quadro normativo vigente, di
contribuire alle ordinarie spese di locazione delle caserme.
L’alternativa era di ritenere detta spesa legittimamente
imputabile al bilancio comunale soltanto in presenza di uno
specifico accordo, finalizzato ad incrementare
effettivamente la sicurezza pubblica.
La pronuncia di questa Sezione sulla richiesta di parere era
conseguentemente sospesa e ne veniva data comunicazione ai
Sindaco richiedente. Successivamente, il Presidente della
Corte dei conti rimetteva la questione alla Sezione delle
autonomie, che si è espressa con deliberazione n. 16/SEZAUT/2014/QMIG,
del 27.05.2014.
...
La Costituzione italiana, all’articolo 117, comma 2, lett.
h), include, tra le materie di legislazione statale
esclusiva, “ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della
polizia amministrativa locale”. Il successivo articolo 118,
al comma 3, aggiunge che “la legge statale disciplina forme
di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui
alle lettere b) e h) del secondo comma dell’articolo 117
(…)”. Anche la potestà regolamentare in materia spetta
conseguentemente allo Stato, poiché l’art. 117, comma 6,
stabilisce che “la potestà regolamentare spetta allo Stato
nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle
Regioni”.
In merito alla funzione amministrativa concernente ordine
pubblico e sicurezza, occorre ricordare che, a seguito della
riforma costituzionale del 2001, è venuto meno il
parallelismo tra poteri legislativi e amministrativi;
pertanto, il legislatore statale non incontra ostacoli di
natura costituzionale nell’attribuire, in materia, funzioni
agli enti locali, come ha previsto, per esempio, in favore
del sindaco, reso garante della sicurezza urbana, mediante
l’art. 6 del d.l. 23.05.2008, n. 92, rubricato “misure
urgenti in materia di sicurezza pubblica”, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24.07.2008, n. 125.
Nell’ambito di un progressivo coinvolgimento degli enti
locali in materia di ordine e sicurezza pubblica, il
legislatore statale ha disciplinato la possibilità di
stipulare convenzioni tra il Ministero dell’interno e gli
enti territoriali, allo scopo di incrementare i servizi di
pubblica sicurezza. L’art. 39 della legge 16.01.2003,
n. 3 (“Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica
amministrazione”), rubricato “Convenzioni in materia di
sicurezza”, ha stabilito che “Nell’ambito delle direttive
impartite dal Ministero dell’interno per il potenziamento
dell’attività di prevenzione, il Dipartimento della pubblica
sicurezza può stipulare convenzioni con soggetti pubblici e
privati dirette a fornire, con la contribuzione degli stessi
soggetti, servizi specialistici, finalizzati ad incrementare
la sicurezza pubblica. La contribuzione può consistere nella
fornitura dei mezzi, attrezzature, locali, nella
corresponsione dei costi aggiuntivi sostenuti dal Ministero
dell’interno, nella corresponsione al personale impiegato di
indennità (…)”.
Similmente, l’art. 1, comma 439, della legge
27.12.2006, n. 296, recante “Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
(legge finanziaria 2007)”, ha stabilito che “per la
realizzazione di programmi straordinari di incremento dei
servizi di polizia, di soccorso tecnico urgente e per la
sicurezza dei cittadini, il Ministro dell’Interno e, per sua
delega, i prefetti, possono stipulare convenzioni con
regioni e gli enti locali che prevedano la contribuzione
logistica, strumentale o finanziaria delle stesse regioni e
degli enti locali”.
Il fondamento di tali previsioni, ovviamente, non è da
rinvenire nell’art. 118, comma 3, della Costituzione, il
quale introduce la possibilità di concordare forme di
coordinamento tra Stato e Regioni nelle materie de quibus,
bensì più semplicemente nella generale possibilità che ha il
legislatore di disciplinare la materia.
Pertanto, nell’ordinario gli oneri finanziari per la
locazione di locali in favore delle Forze di Polizia statali
sono da considerare a carico dello Stato, al quale è
intestata in via esclusiva la materia dell’“ordine pubblico
e sicurezza”; tuttavia il quadro normativo facoltizza il
Ministero dell’interno a stipulare convenzioni con gli enti
territoriali dirette a fornire, con la contribuzione di
questi ultimi, servizi specialistici finalizzati ad
incrementare la sicurezza pubblica.
Il fine di raggiungere un più efficace controllo del
territorio rispetto a quello ordinariamente assicurato (la
norma fa riferimento, infatti, a “servizi specialistici”),
quindi, giustifica il sacrificio straordinario che comuni e
province possono decidere di sostenere contribuendo alla
funzione in argomento, allo scopo di rafforzarla sul proprio
territorio, anche mediante fornitura di locali. In mancanza
di un accordo, infatti, avente lo scopo di conseguire una
maggiore sicurezza, non può che operare il principio
generale in forza del quale le risorse assegnate agli enti
territoriali sono destinate a finanziare integralmente le
funzioni pubbliche loro attribuite.
Sulla problematica de qua, si sono espresse diverse sezioni
di queste Corte.
La Sezione di controllo della Regione Friuli–Venezia Giulia,
con deliberazione 16.12.2004, n. 25, ha ritenuto
legittima la riduzione del canone di un contratto di
locazione inerente l’uso, come caserma dei Carabinieri, di
un immobile di proprietà comunale, contratto già concluso,
ma non ancora approvato dal Ministero dell’interno. Alla
base della richiesta di riduzione, avanzata dal locale
Prefetto, si poneva la circolare emanata dal Ministero
dell’interno – Dip. della pubblica sicurezza, 12.05.2004, n. 600, la quale invitava, appunto, i prefetti a
proporre agli enti pubblici titolari degli immobili
destinati a caserme una riduzione del canone, in ragione
dell’interesse delle comunità locali a garantire la
funzionalità dei servizi di polizia, nella prospettiva di
una sicurezza partecipata, nella quale gli enti locali
dovrebbero assumere un ruolo rilevante, anche
nell’assicurare la presenza di presidi delle forze
dell’ordine sul territorio.
La Sezione di controllo per il
Friuli-Venezia Giulia ha giudicato legittima la riduzione
del canone, valorizzando il disposto di cui all’art. 39
della legge 3/2003, il quale, secondo quanto affermato dalla
citata sezione “sottende l’esistenza di un interesse
pubblico alla condivisione delle esigenze di ordine
pubblico, intestate non solo all’amministrazione statale
(Ministero dell’interno), ma partecipate anche dalle singole
amministrazioni locali”. Ha concluso il collegio
evidenziando che il comune istante “proprio per favorire la
presenza sul territorio comunale della caserma dei
carabinieri, può quindi ben rinunciare a parte del canone
locatizio”.
La questione in argomento è stata in seguito oggetto di
analisi da parte della Sezione di controllo per la Regione
Sardegna, la quale si è pronunciata con deliberazione
28.01.2010, n. 3. La richiesta di parere riguardava la
possibilità, per il comune istante, di sostenere i costi di
locazione di un immobile da reperire sul mercato e da
destinare a caserma dell’Arma dei Carabinieri.
La richiamata sezione, nel rispondere, ha innanzitutto
evidenziato che l’art. 118, comma 3, della Costituzione
prevede forme di coordinamento tra Stato e Regioni in
materia di ordine pubblico e sicurezza; inoltre, ha
richiamato le disposizioni mediante le quali, nel tempo,
sono state disciplinate modalità di collaborazione tra
l’amministrazione statale e quelle territoriali per
rafforzare la sicurezza locale. In particolare, sono state
ricordate le già menzionate previsioni di cui all’art. 39
della legge 3/2003 e art. 1, comma 439, legge 296/2006,
nonché i piani coordinati di controllo del territorio aventi
ad oggetto una stretta collaborazione tra Polizia municipale
e provinciale e organi della Polizia di stato ed, infine, il
“patto per la sicurezza” siglato tra il Ministero
dell’interno e l’A.N.C.I. il 20.03.2007.
Sulla base del delineato quadro normativo, la Sezione di
controllo per la Sardegna ha concluso che le esigenze di
tutela dell’ordine pubblico si inseriscono nel quadro dei
rapporti e delle valutazioni da assumersi in sede
interistituzionale, secondo le procedure previste dalla
legge. In tale contesto concertativo, potrebbero assumersi
le deliberazioni dello Stato e degli enti territoriali,
incidenti sulle rispettive dotazioni finanziarie, in
relazione ad eventuali forme di contribuzione alla spesa
necessarie per le esigenze di salvaguardia della sicurezza
pubblica.
La Sezione regionale di controllo per la Campania, con
deliberazione 13.03.2012, n. 66, esprimendosi in merito alla
possibilità per un comune di contribuire al pagamento
dell’affitto per i locali in uso alla caserma dei
Carabinieri, pur dichiarando l’inammissibilità oggettiva
della questione, ha citato, mostrando di condividerla, la
soluzione prospettata dalla Sezione di controllo per la
Sardegna con la richiamata deliberazione 3/2010.
Diversa la posizione prospettata dalla Sezione regionale di
controllo per la Calabria, mediante deliberazione
28.04.2009, n. 289. La richiesta di parere aveva ad oggetto
la legittimità della spesa, a carico del bilancio comunale,
per la costruzione di un immobile da destinare a caserma dei
Carabinieri. Detto collegio, pur dichiarando la questione
inammissibile, ha svolto alcune considerazioni. Innanzitutto
ha rimarcato come la possibilità di partecipazione alla
gestione della pubblica sicurezza, da parte delle regioni e
degli enti locali, sia prevista nell’ambito di appositi
programmi straordinari di incremento dei servizi
specialistici di polizia, alla cui realizzazione i soggetti
pubblici in questione possono partecipare contribuendovi, e
come detta partecipazione, in ogni caso, debba essere
disciplinata attraverso specifiche convenzioni appositamente
stipulate tra gli enti locali interessati ed il Ministro
dell’interno (o, per sua delega, il Prefetto).
Pertanto,
essendo disciplinato un articolato contesto di cooperazione
interistituzionale nel campo dei servizi specialistici di
polizia, che appariva carente nella concreta vicenda
segnalata, si è ritenuto che l’operazione prospettata non
fosse realizzabile.
Alla luce di quanto evidenziato, emergeva un contrasto tra
l’interpretazione che dell’art. 39, legge 3/2003, dell’art.
1, comma 439, legge 296/2006, e più in generale dell’intero
quadro normativo in materia, hanno dato le Sezioni di
controllo Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Campania e la
lettura, ad avviso di questo collegio preferibile, fornita
dalla Sezione di controllo per la Calabria. Il conflitto
interpretativo riguardava l’ambito di estensione della
facoltà che hanno gli enti territoriali di contribuire al
pagamento del canone di locazione di un immobile, destinato
ad ospitare una caserma di una Forza di Polizia statale.
Tale possibilità era stata riconosciuta da diverse sezioni
regionali di controllo in misura abbastanza ampia, sulla
base dell’interesse alla condivisione delle esigenze di
ordine e sicurezza pubblica; al contrario, questa Sezione
riteneva dovesse essere limitata ai casi in cui si miri,
mediante specifica convenzione, a perseguire un incremento
della sicurezza pubblica. Solo a seguito della stipulazione
di una specifica convenzione, avente lo scopo di
incrementare la sicurezza, infatti, sembra potersi
giustificare un impegno finanziario degli enti locali, i
quali non dovrebbero, al contrario, essere chiamati a
contribuire alle ordinarie spese di locazione delle caserme,
poste ad esclusivo carico dello Stato.
Il contrasto interpretativo induceva questa Sezione a
rimettere la questione di massima al Presidente della Corte
dei conti allo scopo di stabilire se gli enti locali possano
contribuire alle ordinarie spese di locazione delle caserme,
o se tale possibilità sia loro consentita solo in presenza
di uno specifico accordo finalizzato ad incrementare
effettivamente la sicurezza pubblica.
La Sezione delle autonomie, con
deliberazione 09.06.2014 n. 16 (disponibile sul
sito web della Corte al quale si rinvia) ha risolto la
questione di massima, rendendo una pronuncia di orientamento
che, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 174/2012,
costituisce esercizio di funzione nomofilattica e, pertanto,
vincola le sezioni regionali di controllo. In particolare,
mostrando di condividere l’orientamento espresso da questa
Sezione, ha evidenziato quanto segue: “(…) la
Costituzione, pur attribuendo allo Stato la competenza
esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza (art.
117, comma 2, lett. h), tuttavia, riconosce, nella nuova
formulazione dell’art. 118, l’esigenza di stabilire, con
legge statale, forme di coordinamento fra Amministrazioni
statali e periferiche, in vista del potenziamento della
sicurezza a livello locale.
Al riguardo, deve osservarsi che una specifica base
normativa e soprattutto finanziaria è stata posta dall’art.
1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007, che
autorizza i Prefetti a stipulare convenzioni con le Regioni
e gli enti locali per realizzare programmi straordinari,
tesi ad un potenziamento dei presidi di sicurezza sul
territorio, accedendo alle risorse logistiche, strumentali e
finanziarie messe a disposizione dagli enti che aderiscono.
(…) La finalità di potenziamento della tutela dell’ordine
pubblico e della sicurezza trova pieno riconoscimento
nell’ambito dell’autonomia degli enti, che sono chiamati a
valutare le necessità della collettività amministrata in
termini di priorità e di compatibilità finanziarie e
gestionali e, sulla scorta di tali valutazioni, ad avviare
le eventuali concertazioni interistituzionali, volte
all’adozione di specifici protocolli d’intesa che
individuino obiettivi e risorse.
Peraltro, ferma restando l’importanza degli strumenti di
concertazione interistituzionale e la rilevanza degli
obiettivi di potenziamento della sicurezza pubblica da
perseguire nell’ambito degli appositi programmi, di cui
all’art. 1, comma 439, della legge finanziaria per il 2007,
tuttavia la Sezione ritiene che non
possano rientrare nell’ambito degli anzidetti strumenti le
forme di contribuzione come quella in esame, volte al
pagamento del canone di locazione. Ciò anche in
considerazione del carattere non episodico della
contribuzione, che deve presumersi possa interessare la
gestione del bilancio dell’ente bel oltre l’esercizio in
corso e che, pertanto, mal si attaglia alla natura
transitoria degli accordi in questione, la cui durata in
generale è annuale”
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 07.07.2014 n. 173). |
APPALTI: Centrale unica acquisti senza scappatoie.
Sulla centralizzazione degli acquisti, niente da fare per i
comuni non capoluogo di provincia. Infatti, in assenza di
deroghe legislative, la disposizione contenuta nel decreto
legge n. 66/2014 che impone il ricorso ad una centrale di
committenza escludendo l'affidamento diretto, deve
intendersi tassativa e di carattere speciale, quindi
prevalente alle disposizioni in materia contenute nel codice
dei contratti pubblici.
La querelle sull'obbligo di centralizzazione degli acquisti
prevista dall'articolo 9 del decreto Irpef, pertanto, si
completa con un nuovo tassello che giunge dal
parere 02.07.2014 n. 144
rilasciato pochi giorni fa dalla sezione regionale di
controllo della Corte dei conti Piemonte.
Come si ricorderà la norma sopra richiamata prevede che i
comuni non capoluogo di provincia procedono all'acquisizione
di lavori, beni e servizi nell'ambito delle unioni dei
comuni, ove esistenti, ovvero costituendo un apposito
accordo consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei
competenti uffici anche delle province, residuando lo spazio
per negoziazioni dirette solo a mezzo degli strumenti
elettronici di acquisto gestiti dalla Consip o da altro
soggetto aggregatore di riferimento. Che il quadro sia
prossimo alla paralisi è anche dato dal fatto che la norma
in questione ha cancellato la deroga introdotta dalla legge
di stabilità 2014 per gli acquisti inferiori a 40 mila euro
spiazzando, di fatto, la maggior parte dei comuni, tenuto
conto che l'obbligo sino ad oggi ha riguardato i comuni con
meno di 5 mila abitanti.
È pur vero (si veda ItaliaOggi di ieri) che, per sbloccare
l'impasse dopo l'allarme lanciato dal presidente Anci, Piero
Fassino, il legislatore si sta muovendo con una soluzione.
Ovvero l'inserimento di un emendamento ad hoc, al testo di
conversione di un decreto legge attualmente in discussione
in parlamento (i boatos danno favorito il ddl di riforma
della p.a.), che rinvii l'operatività della norma del
decreto Irpef in due scadenze. La prima, al 1° gennaio del
prossimo anno, per quanto riguarda gli acquisti di beni e
servizi, la seconda al 30.06.2015 per l'acquisizione di
lavori.
A chiudere il cerchio, come detto, il parere della Corte dei
conti piemontese che, in risposta ad una richiesta del
comune di Torre Canavese (To), ha giustamente sottolineato
il carattere tassativo della disposizione richiamata, non
potendo ammettere deroghe a favore dell'affidamento diretto,
così come previsto dall'articolo 125 del codice dei
contratti pubblici.
Secondo la magistratura contabile piemontese, la ratio della
nuova disciplina è quella di soddisfare le esigenze di
semplificazione dei centri di acquisto, inserendosi nel
solco dell'indirizzo comunitario (il riferimento è alla
direttiva Appalti 2014/24), che ha registrato nei mercati
degli appalti pubblici della Ue, «una forte tendenza
all'aggregazione della domanda da parte dei committenti
pubblici, al fine di ottenere economie di scala». Quindi, ha
rilevato la Corte, dal tenore letterale della disposizione
si conferma l'aggregazione obbligatoria per i comuni non
capoluogo di provincia, per le procedure contrattuali
relative all'affidamento dei contratti di lavori, servizi e
forniture.
Non ci sono pertanto margini che possano aprire ad alcuna
deroga. I comuni interessati sono tenuti a costituire la
centrale di committenza nell'ambito delle unioni di comuni,
ove esistenti, oppure si siedono attorno ad un tavolo e
sottoscrivono un accordo consortile avvalendosi dei propri
uffici.
In conclusione, per rispondere al parere formulato dal primo
cittadino di Torre Canavese, la Corte ha rilevato che la
nuova disposizione di finanza pubblica ex articolo 9 del dl
n. 66/2014, assume nell'ordinamento carattere di specialità
e, quindi, di prevalenza rispetto alla norma generale ex
art. 125 del codice dei contratti pubblici che, allo stato
attuale, non è percorribile
(articolo ItaliaOggi del 09.07.2014). |
URBANISTICA: La
realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, quale
condizione cui è subordinato il rilascio del permesso di
costruire, non può essere soddisfatta attraverso la
realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria, tanto
più se da realizzarsi in area esterna all’ambito
territoriale interessato dal Piano attuativo.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe l’Ente ha formulato alla
Sezione una richiesta di motivato avviso in materia di
corretta individuazione delle modalità di riconoscimento
dello scomputo degli oneri di urbanizzazione posti a carico
dei privati proprietari in ragione della relativa
compatibilità con i vincoli di bilancio imposti agli Enti
locali.
...
1. L’Ente interroga la Sezione sull’ammissibilità di
procedere allo scomputo degli oneri di urbanizzazione
secondaria per la realizzazione di opere di urbanizzazione
primaria in aree di urbanizzazione rientranti in Piani
particolareggiati di iniziativa privata, nonché
sull’ammissibilità dello scomputo anche con riferimento a
opere esterne all’ambito.
Chiede inoltre se sia ammissibile lo scomputo degli oneri
connessi a opere di urbanizzazione secondaria per gli
interventi specificati al comma 3 dell’articolo 5 del
D.P.Reg. n. 18/2012, ma posti esternamente all’ambito (come
ad esempio per la manutenzione straordinaria di una scuola).
Chiede in ultimo se, alla luce delle previsioni recate
dall’art. 29 della L.R. 19/2009-Codice regionale
dell’edilizia, nonché dall’art. 6 del relativo Regolamento
attuativo di cui al D.P.Reg. n. 18/2012 citato, il costo di
costruzione possa essere soggetto a scomputo e, in caso
affermativo, per quali categorie di opere.
Preliminarmente, ritiene il Collegio di dover evidenziare
taluni profili di carattere sistematico, utili a meglio
inquadrare la fattispecie prospettata dal Comune sotto il
profilo degli istituti sia contabili che ordinamentali che
in essa ricorrono.
A tal proposito, vale ricordare che l’articolo 13 della
legge n. 1150 del 1942 prevede che il Piano regolatore
generale sia attuato a mezzo di piani particolareggiati di
esecuzione “nei quali devono essere indicate le reti
stradali e i principali dati altimetrici di ciascuna zona e
debbono inoltre essere determinati: le masse e le altezze
delle costruzioni lungo le principali strade e piazze; gli
spazi riservati ad opere od impianti di interesse pubblico;
gli edifici destinati a demolizione o ricostruzione ovvero
soggetti a restauro o a bonifica edilizia; le suddivisioni
degli isolati in lotti fabbricabili secondo la tipologia
indicata nel piano; gli elenchi catastali delle proprietà da
espropriare o da vincolare; la profondità delle zone
laterali a opere pubbliche, la cui occupazione serva ad
integrare le finalità delle opere stesse ed a soddisfare
prevedibili esigenze future. Ciascun piano particolareggiato
di esecuzione deve essere corredato dalla relazione
illustrativa e dal piano finanziario di cui al successivo
articolo 30”.
Alla luce della normativa richiamata risulta pacifico che il
piano particolareggiato, quale principale strumento di
attuazione, ha la funzione fondamentale di rendere
specifiche e dettagliate le direttive del piano regolatore
generale, che non potrà modificare, essendo illegittimo il
provvedimento di adozione di un piano particolareggiato in
variante al piano regolatore generale, ai sensi degli
articoli 7 e 13 della legge n. 1150 del 1942.
Dal punto di vista della disciplina contabile,
si ricorda che le entrate derivanti dalla
riscossione degli oneri di urbanizzazione connessi al
rilascio dei permessi di costruire sono iscritte al Titolo
IV del bilancio, mentre la legislazione finanziaria degli
ultimi anni ha posto precisi e cogenti vincoli di
destinazione alle risorse così introitate.
Infatti, mentre dalla legge regionale n. 22 del 29.12.2010
(Legge finanziaria per il 2011) era consentito ai Comuni,
per gli anni 2011 e 2012, utilizzare i proventi delle
concessioni edilizie e delle sanzioni previste dal Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia, di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, anche
interamente per il finanziamento di spese correnti, la legge
finanziaria regionale per il 2013 (l.r. n. 27/2012) ha
eliminato tale possibilità, con la conseguenza che per gli
esercizi finanziari 2013 e 2014 le relative entrate potranno
finanziare esclusivamente le spese in conto capitale (cfr.
art. 14, comma 38, l.r. finanz. cit.).
Ancora, rimanendo in tema di corretta gestione della
contabilità pubblica, deve osservarsi che
le entrate derivanti dal versamento di tali oneri devono
essere considerate disponibili nel bilancio dell’Ente non
dal momento del loro accertamento, ma da quello della
effettiva riscossione, al fine di evitare il cosiddetto
criterio dell’“accertato per riscosso”, il quale può
provocare temporanei vuoti di cassa e ingenerare il ricorso
ad anticipazioni di tesoreria, in deroga al principio di
contemporanea corresponsione del contributo all’atto del
rilascio del permesso di costruire.
La disciplina sul contributo per il rilascio del permesso di
costruire, per la Regione Friuli Venezia Giulia è posta
all’art. 29 della legge regionale n. 19
dell’11.11.2009-Codice regionale dell’edilizia- mentre
ulteriori norme di dettaglio in materia di oneri e
convenzioni edilizie sono poste dal relativo Regolamento di
attuazione di cui al d.P.R. 20.01.2012, n. 18 (artt. 5-7 del
Capo II, recante, per l’appunto, “Disposizioni in materia
di oneri e convenzioni edilizie”).
Dal complesso delle disposizioni citate si evince che il
rilascio del permesso di costruire comporta la
corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza
degli oneri di urbanizzazione, nonché al costo di
costruzione, determinato secondo le modalità e i parametri
indicati al citato art. 29.
Gli oneri concessori sono stabiliti con delibera del
Consiglio comunale con riferimento alle tabelle parametriche
definite per classi di Comuni in relazione alla dimensione e
alla fascia demografica dei Comuni; alle caratteristiche
territoriali, alle destinazioni di zona previste dagli
strumenti urbanistici vigenti; agli standard o rapporti
minimi inderogabili tra insediamenti residenziali o
produttivi e spazi pubblici o destinati a verde pubblico o a
parcheggio, da osservarsi nella redazione degli strumenti
urbanistici comunali.
La quota di contributo inerente gli oneri di urbanizzazione
è corrisposta al Comune all’atto del rilascio del permesso
di costruire e può essere rateizzata a richiesta
dell’interessato.
A scomputo totale o parziale del contributo dovuto, il
richiedente il permesso di costruire può obbligarsi a
realizzare direttamente le opere di urbanizzazione richieste
dal Comune, nel rispetto della normativa in materia di
contratti pubblici, ovvero, anche, costituire diritti
perpetui di uso pubblico su aree, secondo le modalità e le
garanzie stabilite dal Comune. Le opere realizzate o i
diritti perpetui di uso pubblico sulle aree interessate sono
acquisiti al patrimonio indisponibile del Comune e devono
rientrare nell’aggiornamento dell’inventario.
Il momento di passaggio della proprietà e della titolarità
di dette opere pubbliche deve individuarsi nell’atto di
collaudo e di consegna dei lavori al Comune.
2. Venendo al merito dei quesiti, può osservarsi che, tanto
alla luce di un criterio ermeneutico di tipo letterale,
quanto di tipo logico-sistematico, le opere
di urbanizzazione primaria e secondaria si configurano come
istituti tra loro diversi e non sovrapponibili quanto a
natura, funzioni e finalità.
Vale in tal senso richiamare l’art. 5 del citato Regolamento
attuativo del Codice regionale dell’edilizia, il quale
distingue le opere di urbanizzazione rilevanti ai fini della
determinazione dell’incidenza dei relativi oneri, in opere
di urbanizzazione primaria e secondaria (primo comma),
dettandone, al comma successivo una distinta elencazione,
conformemente, peraltro, a quanto stabilito in sede statale
dal d.P.R. n. 380/2001 (rispettivamente, ai commi 7, 7-bis e
8 dell’art. 16).
Rientrano nella prima categoria le strade locali,
spazi di sosta e parcheggi, nuclei elementari di verde,
fognature, rete idrica, illuminazione pubblica, rete di
distribuzione dell’energia elettrica e del gas, cavi per il
passaggio di reti di telecomunicazioni.
Appartengono alla seconda: le strade di quartiere e
di scorrimento, asili nido e scuole di ogni ordine e grado,
chiese, impianti sportivi di quartiere, aree verdi, impianti
di smaltimento dei rifiuti, sedi locali di forze
dell’ordine, vigili del fuoco, protezione civile.
Deve pertanto ritenersi che dalle richiamate disposizioni,
sia di fonte statale che regionale, emerge come le
opere di urbanizzazione primaria e secondaria siano
considerate separatamente dal legislatore in ragione della
loro diversa funzione e che la relativa ratio debba
essere rinvenuta non tanto e non solo nell’attribuire
un’entrata ai Comuni, quanto piuttosto nell’assicurare
l’esecuzione delle opere o in via diretta (a scomputo del
contributo dovuto a titolo di permesso di costruire), ovvero
mediante la corresponsione del relativo costo
(cfr. in tal senso sez. reg.le Piemonte,
parere 20.05.2010 n. 40,
nonché sez. reg.le Lombardia,
parere
15.09.2008 n. 66).
Sulla base di tale generale ricostruzione normativa e
interpretativa, il Collegio osserva che va dunque
coerentemente intesa anche la previsione recata dal sesto
comma dell’ art. 29 della legge regionale 19/2009, laddove
prevede che: “La deliberazione del Consiglio comunale(…)
determina, altresì, la misura percentuale della
compensazione fra oneri di urbanizzazione primaria e
secondaria e fra oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione per gli interventi previsti dal comma 2” .
Trattasi, evidentemente, di una norma che, introducendo una
mera facoltà per il Comune, non può porsi in contrasto con
il preminente interesse pubblico a che l’Amministrazione
comunale usufruisca delle opere di urbanizzazione, in
ragione della loro diversa funzione: di rendere
effettivamente edificabile l’area su cui sorgerà
l’intervento edilizio, dotandola dei manufatti e dei servizi
indispensabili per l’agibilità e la fruibilità del
fabbricato secondo la destinazione d’uso, quanto a quelle di
urbanizzazione primaria; di arricchire la comunità
urbanizzata nel suo complesso di strutture e servizi a fini
generali (asili, parchi, biblioteche, impianti sportivi,
etc.) quanto a quelle di urbanizzazione secondaria.
In sostanza, deve ritenersi che solo
allorché risultino comunque salvaguardate le diverse
esigenze di ordinato sviluppo del territorio, conseguenti
agli interventi di trasformazione urbanistica, cui sono
distintamente finalizzate le opere di urbanizzazione della
prima e della seconda categoria, sarà
possibile prevedere, in via residuale, ipotesi di
compensazione a carico del privato proprietario.
Peraltro, deve ancora osservarsi che ulteriori elementi
orientativi per l’interprete possono trarsi dalla evoluzione
normativa in materia di disciplina delle opere a scomputo
degli oneri di urbanizzazione, intervenuta in epoca
successiva alla disposizione regionale richiamata.
A livello statale, l’art. 45, comma 1, del D.L. n. 201 del
06.12.2011 ha infatti introdotto all’art. 16 del d.P.R. n.
380/2001 il comma 16-bis, che così dispone: “Nell’ambito
degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque
denominati nonché degli interventi in diretta attuazione
dello strumento urbanistico generale, l’esecuzione diretta
delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7, di
importo inferiore alla soglia di cui all’articolo 28, comma
1, lett. c), del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, funzionali
all’intervento di trasformazione urbanistica del territorio,
è a carico del titolare del permesso di costruire e non
trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163”.
Con tale norma, il legislatore, in un’ottica di
semplificazione, ha stabilito che
nell’ambito degli strumenti attuativi e degli atti
equivalenti comunque denominati, nonché degli interventi in
diretta attuazione dello strumento urbanistico generale,
l’esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria, di
importo inferiore alla soglia comunitaria, è a carico del
titolare del permesso di costruire, è sottratta alla
disciplina del Codice dei contratti pubblici e può essere
realizzata direttamente (ovvero con affidamento diretto e
senza ricorso a procedure di gara, negoziata o a evidenza
pubblica) dai soggetti attuatori di piani urbanistici e dai
titolari di un permesso di costruire.
La novella normativa appare coerente con la diversità
ontologica e funzionale sopra richiamata: “Le
opere di urbanizzazione primaria e secondaria appartengono,
in effetti, a tipologie di interventi che hanno funzione
differente: le prime sono costituite da quelle opere
indispensabili ad assicurare l’edificabilità di un’area
sotto il profilo dell’igiene, della viabilità e della
sicurezza; le seconde sono costituite da quelle
infrastrutture necessarie alla vita civile e comunitaria(…)”..
E ancora: “(…) mentre le prime
hanno una funzione sostanzialmente servente rispetto ai
singoli organismi edilizi, in quanto ne garantiscono le
condizioni minime di fruibilità ed assicurano i servizi
indispensabili alla civile convivenza (strade, parcheggi,
fognature, etc.), le seconde mirano ad assicurare
migliore vivibilità ad un ambito territoriale più vasto di
quello oggetto dell’intervento da realizzare e sono a
servizio dell’intera comunità (scuole, mercati di quartiere,
delegazioni comunali, chiese, etc.)"
(cfr.
deliberazione 03.05.2012 n. 46 AVCP).
Diversamente, ovvero allorché si
consentisse un trattamento in termini di reciproca
fungibilità delle due categorie di opere, si consentirebbe
di soddisfare in maniera difforme dalle prescrizioni
normative da ultimo introdotte dal legislatore statale nella
materia dei contratti pubblici il preminente interesse
pubblico a che l’amministrazione comunale usufruisca delle
opere di urbanizzazione in ragione della loro diversa
funzione (cfr.
sez. reg.le controllo Piemonte
parere 20.05.2010 n. 40
cit.).
Nel medesimo ordine di considerazioni non constano peraltro
interventi ulteriori sul versante della disciplina regionale
nel settore in esame; mentre, sul versante propriamente
contabile, l’intervento del legislatore regionale è
consistito, come sopra ricordato (vd. art. 14, comma 38,
l.r. n. 22/2010) unicamente nell’escludere tra le possibili
destinazioni dei proventi delle concessioni edilizie,
l’utilizzo per il finanziamento di spese di parte corrente,
senza nulla aggiungere in merito a eventuali possibili
operazioni di compensazione tra gli oneri concessori e il
valore della realizzazione delle opere di urbanizzazione
poste a carico del privato proprietario.
Da tale complesso e articolato iter evolutivo, con riguardo
ai quesiti posti dal Comune richiedente, deve
conclusivamente osservarsi che la
realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, quale
condizione cui è subordinato il rilascio del permesso di
costruire, non può essere soddisfatta attraverso la
realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria, tanto
più se da realizzarsi in area esterna all’ambito
territoriale interessato dal Piano attuativo.
Rimangono assorbiti gli ulteriori quesiti di cui ai punti 2.
e 3.della richiesta formulata dal Comune (Corte dei Conti,
Sez. controllo Friuli Venezia Giulia,
parere 24.06.2014 n. 112). |
PATRIMONIO: Danno erariale se il canone di locazione è troppo basso.
L'affidamento oneroso di un immobile comunale a soggetti
privati che, in concreto non apporta alcun beneficio per le
casse comunali, esponendole anzi a una perdita, è fonte di
danno erariale cui devono rispondere innanzi al giudice
contabile sia il funzionario che ha disposto tale
affidamento sia il sindaco colpevole di aver omesso
qualsiasi controllo sulla gestione della struttura comunale.
È quanto ha messo nero su bianco la Sez. giurisdizionale
della Corte dei Conti Toscana, nel testo della
sentenza 23.05.2014 n.
96, con la quale ha condannato un funzionario del
comune di Forte dei Marmi e il sindaco della cittadina versiliana per aver affidato, nel triennio 2008-2011, a
ditte private la gestione di spazi espositivi all'interno
del locale palazzetto dello sport.
Ditte che hanno versato canoni di concessioni molto bassi
che, al termine della manifestazione, non hanno coperto le
spese di allestimento sopportate dall'amministrazione
comunale. A detta del collegio giudicante, è inequivocabile
che la scelta di destinare gli spazi espositivi non ha
apportato alcuna utilità al comune. Anzi, come dimostrato
dalla procura, l'aver concesso l'uso della struttura alla
condizioni praticate nel concreto si è rivelata una scelta
antieconomica, poiché l'amministrazione ha subito forti
perdite conseguenti alla spese per allestimento e
condizionamento di tali spazi, che non hanno trovato neppure
copertura con i canoni di affitto versati dagli
aggiudicatari.
A corollario della decisione, il collegio ha ravvisato che
non ritenersi che tale esborso trovi giustificazione
nell'utilità, ovvero nel vantaggio che ne sarebbe conseguito
per l'immagine della città e per il rilancio del turismo,
poiché in atti non è stata fornita prova di tale
circostanza.
Le parti, per dimostrare l'assenza del danno, avrebbero
dovuto provare che l'esposizione allestita nel palazzetto
dello sport avrebbe assunto un peso determinante
nell'aumento delle presenze in loco anche procedendo a dei
raffronti delle presenze negli anni in cui non vi si erano
tenute tali iniziative
(articolo ItaliaOggi dell'08.07.2014). |
NEWS |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: Il
regolamento edilizio diventa «unico», appalti nella legge
comunitaria.
L'agenda.
Legge europea il 21, decreto a fine mese.
Parte il forcing del governo per rimettere in moto edilizia
e infrastrutture. Il decreto legge sblocca-Italia di fine
mese sarà preceduto dal varo in Consiglio dei ministri della
norma delega per il recepimento delle nuove direttive 24 e
25 del 2014 in materia di appalti e concessioni. La norma
delega, che darà il via a una revisione radicale
dell'attuale tandem codice-regolamento appalti con la
riduzione ipotizzata da 600 a 200 articoli, entrerà infatti
nella nuova «legge europea» che il governo ha in programma
di varare il 21 luglio, accelerando anche in questo caso i
tempi (l'obiettivo è anche quello di presentarsi in Europa
nel semestre italiano con un'operazione di disboscamento di
direttive non recepite).
Nel decreto legge sblocca-Italia ci saranno anzitutto
risorse finanziarie dal Tesoro e da fondi Ue per far
ripartire i cantieri, che si attestano per ora, dopo
l'incontro Padoan-Lupi di venerdì, in una forchetta compresa
fra 1,5 e 3 miliardi che, grazie alla leva dei
cofinanziamenti pubblici locali e privati, potrebbe arrivare
a 12-15 miliardi di investimenti da mettere in moto (sono
compresi anche quelli delle concessionarie autostradali).
Fra le opere che saranno finanziate grandi classici (come la
ferrovia Napoli-Bari, l'Alta velocità Brescia-Padova e il
raddoppio della tirrenica Livorno-Civitavecchia) e nuovi
ingressi fra le opere prioritarie come, per esempio, il
quadruplicamento della ferrovia Firenze-Pistoia-Lucca.
Nello «sblocca-Italia», però, ci sarà anche un pacchetto
robusto di norme per semplificare e snellire le procedure
relative ai lavori edilizi privati. La norma che promette di
essere la più dirompente in senso positivo è l'introduzione
di un regolamento edilizio standard nazionale che dovrà
valere per tutti gli 8.057 comuni, salva ovviamente la
possibilità data a ciascun comune di integrare o introdurre
modifiche al regolamento-tipo.
Una novità che avrebbe il merito di superare drasticamente
lo spezzatino normativo e amministrativo che di fatto
costituisce un ostacolo alla trasparenza e una barriera a
una competizione leale fra professionisti e imprese da
comune a comune. Senza contare che non di rado nei
regolamenti edilizi si nascondono, proprio grazie alla loro
complessità, definizioni, sistemi di calcolo, regole che
poco hanno a che fare con un trasparente interesse generale.
Nelle settimane scorse a rompere un atteggiamento prudente e
in alcuni casi addirittura ostile delle professioni sul
regolamento unico edilizio era stato il presidente del
Consiglio nazionale degli architetti (Cna), Leopoldo Freyrie,
con una presa di posizione innovativa. Ovviamente l'apertura
di credito del Cna metteva alcuni paletti come quelli di
essere un regolamento «sostenibile» sotto il profilo
ambientale, introdurre riferimenti alle «prestazioni»
superando il regime delle «prescrizioni», assorbire le
regole igienico sanitarie, stabilire livelli essenziali
delle prestazioni degli edifici uguali per tutti in Italia.
La richiesta è, insomma, che, al di là dell'aspetto formale,
la rivoluzione del regolamento edilizio unico sia anche
sostanziale e di contenuto.
Nella legge europea dovrebbe entrare il testo con i criteri
di delega per il recepimento delle direttive 24 e 25 messo a
punto dalla commissione ministeriale guidata dal
viceministro alle Infrastrutture, Riccardo Nencini: la
proposta introduce una rivoluzione a 360° che prenderà corpo
in un arco di sei mesi.
Tra le novità di quel testo (su cui
si veda Il Sole 24 Ore dell'11 giugno scorso) concorrenza e
gare generalizzate con limitazione delle deroghe solo a
pochi casi codificati, riduzione delle stazioni appaltanti,
semplificazioni e «riduzione degli oneri documentali» a
carico di imprese e professionisti, «miglioramento del le
condizioni di accesso al mercato» per le Pmi, revisione
delle Soa e della qualificazione, introduzione del débat
public per la consultazione dei cittadini sui progetti,
risoluzione delle controversie alternative al giudice anche
per la fase della gara e dell'aggiudicazione, strumenti
finanziari innovativi e incentivi per il project financing.
Sarà azzerato il codice appalti e sarà «armonizzata» la
legge obiettivo alle regole generali
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.07.2014). |
ENTI LOCALI - VARI: Un pin unico per tutta la p.a.. Partirà dal 2015. Potere
sostitutivo del governo sugli atti. Il ministro Madia ha illustrato il ddl «riapprovato» dal cdm.
Utg al posto delle prefetture.
Un pin unico per accedere a tutti i servizi della pubblica
amministrazione e ricevere nel proprio domicilio digitale, o
a casa, certificati e atti della p.a. Sarà attivo dal 2015,
ma in versione ridotta perché tutte le funzionalità saranno
implementate entro la fine della legislatura.
Mille giorni, questo l'orizzonte temporale che il governo
Renzi si è dato per avvicinare la p.a. ai cittadini-utenti
grazie all'utilizzo delle moderne tecnologie. Parte dalla
digitalizzazione la lunga conferenza stampa convocata ieri
dal ministro della funzione pubblica Marianna Madia per
spiegare i contenuti del disegno di legge delega «Repubblica
semplice», già licenziato lo scorso 13 giugno, e nuovamente
approvato nel consiglio dei ministri di giovedì. Un doppio
passaggio in cdm che il ministro spiega come necessario «per
migliorare e rendere più incisivo il testo» che approderà in
parlamento. Anche se, ha annunciato, sarà esaminato a
partire da settembre per non ingolfare il lavoro estivo
delle camere impegnate nella conversione dei decreti legge
n. 90 e n. 91 (riforma p.a. e crescita).
Dal ruolo unico della dirigenza al silenzio-assenso, dalla
riforma delle conferenze di servizi al taglio delle
prefetture trasformate in Uffici territoriali del governo,
il leitmotiv della delega può riassumersi così: garantire ai
cittadini risposte immediate dalla p.a., evitando che il
gioco dei veti incrociati, dei concerti rimandati alle
calende greche, delle conferenze di servizi in stallo possa
bloccare la vita dello stato.
Di qui la regola generale del silenzio-assenso che scatterà
decorsi 30 giorni da quando la p.a. proponente invia il
provvedimento all'ente di cui si richiede il concerto senza
riceverne osservazioni. Il silenzio-assenso sarà rafforzato
dal potere sostitutivo che il governo potrà usare per
dirimere le controversie sorte tra p.a. proponente e p.a.
concertante.
L'istituzione del ruolo unico della dirigenza dovrà segnare,
secondo il ministro, un cambiamento culturale epocale.
«Bisogna uscire dalla logica che il dirigente statale sia di
proprietà dell'ente di appartenenza. Il manager pubblico
deve sentirsi servitore dello stato, della Repubblica, deve
abbandonare la logica di frammentarietà che ha fino ad oggi
contraddistinto l'agire amministrativo. Per questo il ruolo
unico è utile perché consentirà una maggiore osmosi di
personale dirigenziale tra p.a. centrali e locali». Stesso
discorso per i dipendenti che tra mobilità obbligatoria (in
un raggio di 50 km) e volontaria andranno là dove c'è reale
bisogno di risorse umane. I passaggi di carriera, poi, non
saranno più automatici ma legati al merito. Se si vale, ha
spiegato Madia, si potranno bruciare le tappe.
«Oggi invece
un funzionario di seconda fascia deve attendere che si
liberi un posto per passare alla prima, domani non sarà più
così, gli incarichi saranno più mobili». Nel ruolo unico i
futuri dirigenti entreranno per concorso e troveranno
collocamento autocandidandosi sulla base degli interpelli
(offerte di posti) provenienti dalle singole
amministrazioni. Sarà poi una commissione formata da tre
esperti super partes a valutare i curricula.
L'unitarietà della dirigenza nel progetto Renzi-Madia va di
pari passo col rafforzamento dell'azione di governo anche a
livello locale. Le prefetture lasceranno il posto agli
Uffici territoriali di governo (dovrebbero essere 40 ma il
ministro non ha voluto dare numeri certi perché tutto
dipenderà dall'attuazione sul territorio della legge Delrio)
in cui i cittadini potranno interfacciarsi con le singole
articolazioni dello stato sul territorio (Sovraintendenze,
uffici regionali dell'Agenzia delle entrate e della
Ragioneria dello stato) con evidente risparmio di tempi e di
costi.
Infine un accenno al decreto p.a. all'esame della camera. I
lavori stanno per entrare nel vivo con il deposito di una
valanga di emendamenti in commissione affari costituzionali.
Il ministro si è detta «aperta a valutare ogni modifica
migliorativa al testo». A cominciare dalla soppressione
delle otto sedi distaccate dei Tar che ha provocato una
levata di scudi da parte di giudici e avvocati amministrativisti.
In commissione sono stati presentati emendamenti volti a
salvare i Tar delle città sedi di Corte d'Appello (Lecce,
Reggio Calabria, Salerno, Brescia, Catania).
«Sono disposta a cambiare idea», ha dichiarato il
ministro, «se mi convincono che ci sono ragioni oggettive
legate al funzionamento della giustizia per mantenerli. Ma
se si tratta si iniziative localistiche dei singoli deputati
per salvare i Tar del proprio collegio allora non ci sto»
(articolo ItaliaOggi del 12.07.2014). |
LAVORI PUBBLICI: Parte il monitoraggio del Mef sulla spesa in opere pubbliche.
Al via dal 1° ottobre il monitoraggio del Mef sulle opere
pubbliche. L'obiettivo è ottenere un quadro d'insieme
finalizzato ad una migliore allocazione delle risorse
finanziarie.
Gli uffici del Mef stanno inviando e-mail a 13
mila destinatari, tra pubbliche amministrazioni, società
concessionarie di opere pubbliche o titolari di interventi
infrastrutturali, per avere informazioni relative allo stato
di avanzamento dei lavori, agli affidamenti, ai pagamenti
effettuati, agli indicatori fisici (ad esempio, quanti
chilometri di una certa strada sono effettivamente in corso
di realizzazione, o realizzati). Dopo il censimento iniziale
seguiranno aggiornamenti trimestrali in modo da garantire un
monitoraggio continuativo nel tempo.
I titolari delle opere devono fornire solo quelle
informazioni che non siano già state trasmesse in altri
contesti. Per questo le e-mail del Mef contengono le
credenziali di accesso alla Banca dati delle amministrazioni
pubbliche della Ragioneria dello Stato dove, a partire dal
1° settembre, i 13 mila destinatari possono verificare
direttamente i dati già presenti nei sistemi del Mef e
provenienti da altre amministrazioni con cui il ministero ha
stretto accordi.
Per sfruttare questa facilitazione, il Mef invita i titolari
delle opere a integrare e aggiornare i codici identificativi
dei progetti (Cup e Cig), nei sistemi dei soggetti loro
referenti che sono: l'ex Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici (oggi confluita nell'Autorità nazionale
anticorruzione), la presidenza del consiglio dei ministri
(che assegna il Cup a ciascun investimento pubblico) e il
Siope, gestito da Banca d'Italia per conto dello stesso Mef,
dove vengono registrati i mandati di pagamento. In questo
modo viene assicurata la compatibilità delle informazioni
provenienti da sistemi differenti, altrimenti non
integrabili
(articolo ItaliaOggi del 12.07.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per la termoregolazione potestà regionale.
Impianti. Conflitto tra leggi nazionali e del Piemonte e
della Lombardia.
Il decreto legislativo
approvato il 30 giugno dal Governo, che fissa a fine 2016 il
termine per provvedere alla termoregolazione degli impianti
di riscaldamento, quando alcune regioni (in particolare
Piemonte e Lombardia) avevano già stabilito lo stesso
termine a inizio agosto o inizio settembre 2014, apre un
nuovo contrasto tra norme statali e regionali in materia di
riscaldamento.
Il «distacco»
Più volte la Cassazione civile (7518/2006, 5974/2004,
8924/2001) ha ribadito il diritto del condomino (purché non
derivino squilibri di funzionamento dell'impianto
centralizzato o aggravio di spese per gli altri condomini)
di "staccarsi" dall'impianto di riscaldamento condominiale.
Un orientamento recepito poi con legge 220/2012. Tuttavia,
alcune regioni avevano di fatto già in precedenza vietato il
distacco del condomino: in particolare il Piemonte (legge
regionale 13/2007) ha stabilito l'impossibilità di staccarsi
negli edifici con oltre quattro unità abitative, con
relative sanzioni economiche per i trasgressori.
Intervenendo nuovamente in materia, la Cassazione ha
ribadito (sentenza 9526/2014) il proprio consolidato
orientamento favorevole alla possibilità di distacco, senza
neppure prendere in considerazioni le differenti
disposizioni legislative regionali e anzi, in riferimento
alla legge 220/2012, rilevando come «ed è questo, per la
verità, un orientamento giurisprudenziale che ha assunto
adesso veste di diritto positivo».
Il termine
Il contrasto si pone ora fra leggi regionali (ad esempio
Piemonte e Lombardia) e legge statale anche per quanto
riguarda il termine concesso ai cittadini per adeguarsi alle
nuove disposizioni in materia di termoregolamentazione: ci
si deve attenere al termine (fine 2016) fissato dallo Stato
o a quello "regionale" ben più prossimo, Piemonte 1°
settembre e Lombardia 01.08.2014? E analogamente: in
Piemonte ci si può staccare dall'impianto condominiale, come
prevede la legge dello Stato, oppure bisogna attenersi alla
legge regionale, che lo vieta?
Per rispondere a queste domande occorre fare riferimento
alla materia regolata dalle predette disposizioni di legge,
o per meglio dire occorre verificare se questa materia è
riservata o meno dalla Costituzione alla disciplina
legislativa statale.
Utili indicazioni, in proposito, si ricavano dal parere
(datato 2012 ma tuttora valido) dato dalla Regione Piemonte,
ove si specifica che la «tutela della qualità dell'aria e la
finalità di riduzione delle emissioni in atmosfera attengono
alla materia esclusiva statale della tutela dell'ambiente»,
mentre il «miglioramento delle prestazioni energetiche degli
edifici con contestuale riduzione dei relativi consumi e
promozione di energie rinnovabili ricade nelle materie di
potestà legislativa concorrente».
La conclusione, allora, dovrebbe logicamente essere la
seguente: per gli interventi volti a ridurre i consumi,
quali sono certamente quelli relativi alla regolamentazione
dell'impianto, dovrebbero prevalere le normative regionali,
data la possibilità delle regioni di legiferare in materia,
mentre non vi è ragione in materia di "distacco", dove per
lo più ci si è sempre basati, nel concederlo o meno, sul
miglioramento o meno della qualità dell'aria che ne può
derivare, di non ritenere prevalente la normativa statale
(del resto con "l'avallo" della Cassazione che lo ammette.
Gli stessi interventi legislativi (Piemonte) regionali, del
resto, hanno evidenziato che la tematica del distacco del
riscaldamento centralizzato investe aspetti di disciplina
pertinenti da un lato al diritto privato, e dall'altro
ambiti di disciplina pertinenti al diritto pubblico
ambientale e segnatamente alla tutela della qualità
dell'aria , materia quest'ultima come detto riservata
all'intervento del legislatore nazionale (articolo Il Sole 24 Ore del 12.07.2014). |
APPALTI - ENTI LOCALI: Slittano centrale unica e bilanci. Acquisti centralizzati
all'01/01 e 01/07/2015. Preventivi al 30/09.
La conferenza stato-città ha dato il via libera alla doppia
proroga chiesta dall'Anci.
Rinvio al 01.01.2015 per gli acquisti centralizzati di
beni e servizi da parte dei comuni non capoluogo e al 01.07.2015 per i lavori. Mentre per approvare il bilancio
di previsione di quest'anno, tutti gli enti locali avranno
tempo fino al prossimo 30 settembre.
La conferenza stato-città e autonomie locali di ieri,
confermando le aspettative della vigilia, con l'intesa 10.07.2014 ha dato il via
libera alla doppia proroga sulle centrali uniche e sui
preventivi 2014.
Anzi, in realtà, le proroghe sono tre.
Infatti, come anticipato da ItaliaOggi dell'8 luglio, per la
centralizzazione degli acquisti di prevedono due nuove
scadenze: 01.01.2015 per i beni e i servizi e 01.07.2015 per i lavori. Il correttivo verrà inserito nella legge
di conversione del dl 90/2014 (quello sulla riforma della
p.a.) al momento all'esame della camera.
La modifica, quindi, non entrerà in vigore subito, per cui
rimane il rischio di un blocco, sia pure temporaneo, delle
procedure.
Tuttavia, l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici
(ora soppressa e incorporata nell'Autorità anticorruzione)
sarebbe disponibile a rilasciare comunque il codice
identificativo di gara (Cig), in deroga al divieto previsto
dallo stesso dl 66 (si veda altro pezzo in pagina).
Da chiarire anche la sorte degli acquisti di modesto valore,
che in precedenza la giurisprudenza contabile riteneva
esclusi dall'obbligo e che oggi, invece, vi rientrano (con
la sola esclusione dell'amministrazione diretta), come
confermato dal recente parere n. 144/2014 della sezione
regionale di controllo per il Piemonte (si veda ItaliaOggi
del 9 luglio).
A tal fine, in parlamento è stato presentato un emendamento
allo stesso dl 90 (primo firmatario Massimo Fiorio, Pd), che
si propone di mantenere, almeno per interventi urgenti e di
importi limitati (ossia fino a 40.000 euro), l'autonomia
procedurale di affidamento da parte dei comuni. Ciò,
sottolinea Fiorio, anche per non espellere dal mercato le
piccole e medie imprese, che non dispongono dei requisiti
tecnici, economici e professionali per partecipare a gare su
importi elevati.
Anche sul bilancio, nessuna sorpresa. A fronte della
richiesta dell'Anci di spostare al 15 settembre l'attuale
scadenza del 31 luglio, si è decisa una proroga più ampia,
fino al 30 settembre (si veda ItaliaOggi del 5 luglio).
Resta fermo, però, il termine del 10 settembre per
l'approvazione delle deliberazione sulle aliquote e le
detrazioni della Tasi, mentre andrà chiarito se resterà
obbligatoria la salvaguardia degli equilibri contabili, che
in base all'art. 193 del Tuel deve essere anch'essa messa in
calendario entro il 30 settembre. Al riguardo, sarebbe
opportuno prevedere una deroga per gli enti che
licenzieranno il preventivo a settembre, come accaduto lo
scorso anno.
Nella stessa delibera di rinvio dei bilanci, l'Anci ha poi
chiesto al governo un'anticipazione del fondo di solidarietà
per velocizzare i tempi rispetto all'iter normale del
decreto ministeriale che ne regola il riparto.
«La ragione principale che ci ha spinto, nostro malgrado, a
chiedere il differimento», ha spiegato al termine della
riunione il presidente Anci, Piero Fassino, «riguarda il
gran numero di comuni andati al voto nell'ultima tornata
amministrativa. Questo ha, di fatto, impedito alle nuove
amministrazioni di predisporre i bilanci, su cui pesano
anche problematiche normative e finanziarie ancora
irrisolte».
«Questo rinvio», ha aggiunto Fassino, «non è una grande
convenienza per i sindaci, tuttavia è necessario per poter
mettere le amministrazioni nelle condizioni di chiudere
esercizi già in sofferenza».
Sempre riguardo i bilanci, il presidente Anci ha segnalato
il problema delle province «che devono essere messe nelle
condizioni di poter non solo gestire l'indifferibile e
l'inderogabile, ma tutte le funzioni ordinarie a loro
assegnate». Il sindaco di Torino ha portato un esempio
concreto. «Chiudendo il 31 dicembre, non possiamo rischiare
di trovarci senza risorse per una nevicata dei primi di
gennaio».
Da qui la richiesta di provvedere «quanto prima su un
problema delicatissimo e urgente, anche in vista della
nascita delle nuove città metropolitane che rischiano di
inglobare enti già in forte sofferenza economica e
finanziaria»
(articolo ItaliaOggi dell'11.07.2014). |
APPALTI: L'Anac dovrà rilasciare il codice identificativo gara agli
enti.
L'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) deve consentire
ai comuni non capoluogo di fare le gare di appalto se non
hanno già attuato meccanismi di centralizzazione degli
acquisiti, disapplicando quindi il divieto in vigore dal 1°
luglio, di concedere il Cig (codice identificativo gara) ai
comuni non capoluogo di provincia.
È questa l'indicazione
contenuta nell'intesa 10.07.2014 conferenza stato-città-enti locali
siglata ieri dal ministro dell'interno, Angelino Alfano, e
dal segretario della conferenza, Caterina Cittadino.
Il problema nasce dalle modifiche apportate all'articolo 33
del codice dei contratti pubblici con la legge 89/2014, di
conversione del decreto legge 69/2014 che, nell'introdurre
il comma 3-bis, impedisce ai comuni non capoluoghi di
provincia di effettuare gare di appalto pubblico e li
obbliga ad acquisire lavori, beni e servizi attraverso
soggetti aggregatori della domanda (che dovranno in futuro
essere non più di 35), cioè le centrali di committenza, la
Consip, gli accordi consortili, o le unioni di comuni.
In caso di inosservanza dell'obbligo di ricorrere al
«soggetto aggregatore», è previsto che l'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici (cioè l'Anac di Raffaele
Cantone che l'ha assorbita) non rilasci alle stazioni
appaltanti il codice identificativo di gara (Cig),
adempimento necessario per potere bandire ogni gara.
L'applicazione in questi primi dieci giorni della norma sta
però determinando una vera e propria paralisi in molte
realtà territoriali che si concretizza nel blocco delle
gare, perché i comuni sono molto in ritardo (avendo sempre
sperato in una proroga dell'obbligo) e anche le centrali di
committenza regionali non risultano spesso costituite e
operative.
Nell'atto approvato ieri si prende atto dei rilievi
formulati dall'Anci, che ha denunciato il rischio blocco
delle gare (vedi ItaliaOggi del 27.06.2014) e ha
richiesto una proroga per consentire ai comuni di mettersi
in regola, e si è ritenuto opportuno un adeguato percorso
che consenta agli enti locali di adeguarsi.
Le motivazioni attengono al fatto che i soggetti aggregatori
non sono «né organizzati, né operativi», inoltre «Consip e
le altre centrali di committenza non coprono tutte le
esigenze e l'area vasta che avrà funzioni di centrale di
committenza sarà operativa soltanto dal 01.10.2015».
Da qui la richiesta di proroga da apportare in conversione
del decreto 90/2014 e l'indicazione espressa all'Anac («deve»)
di concedere il codice identificativo gara per ogni tipo di
affidamento, indipendentemente dall'importo, disapplicando
quindi una legge dello stato
(articolo ItaliaOggi dell'11.07.2014). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Più assunzioni, ma non per tutti. Penalizzati vigili,
welfare, istruzione e i piccoli comuni.
La riforma della p.a. innalza i limiti al turnover ma
cancella le deroghe settoriali.
Più spazio alle nuove assunzioni, ma stop alle deroghe
settoriali. Possono essere sintetizzate in questi termini le
modifiche introdotte dal decreto legge sulla p.a. (dl
90/2014) in materia di limiti alle spesa di personale degli
enti locali.
Le maggiori novità interessano gli enti soggetti al Patto,
per i quali il limite al turnover dei dipendenti a tempo
indeterminato viene innalzato, dall'attuale 40%, al 60% per
gli anni 2014-2015, all'80% per il biennio 2016-2017, per
arrivare al 100% nel 2018. Ricordiamo che le percentuali
vanno applicate alla spesa relativa al personale di ruolo
cessato nell'anno precedente.
Di fatto, però, le maglie si allargano solo per i comuni con
popolazione superiore a 1.000 abitanti, dato che per le
province rimane il blocco totale delle assunzioni imposto,
nelle more del completamento del riordino, dall'art. 16,
comma 9, del dl 95/2012.
Per gli enti non soggetti al patto, invece, ossia per i
comuni con meno di 1.000 abitanti e per le unioni di comuni,
rimane confermata la regola del turnover integrale «per
teste» fissata dall'art. 1, comma 562, della legge 296/2006.
Sia gli enti soggetti che quelli non soggetti devono
comunque continuare a garantire il contenimento della spesa
complessiva di personale: nel primo caso, il parametro di
riferimento è l'anno precedente, mentre nel secondo è la
spesa sostenuta nell'anno 2008.
Con l'abrogazione dell'art. 76, comma 7, del dl 112/2008,
invece, è stato eliminato il divieto di effettuare nuove
assunzioni per gli enti la cui spesa di personale pesa più
del 50% della spesa corrente. Ovviamente, viene meno anche
l'obbligo, ai fini della verifica di tale limite, di
consolidare la spesa di aziende speciali, istituzioni e
partecipate. A queste ultime, inoltre, non si applicano più
in via diretta gli stessi vincoli previsti per gli enti
controllanti, ma solo un (assai più blando) potere di
coordinamento da parte di questi ultimi con l'obiettivo di
garantire la «graduale riduzione» dell'incidenza degli oneri
di personale su quelli correnti.
Fin qui, tutto bene. La cancellazione dell'art. 76, comma 7,
tuttavia, comporta l'eliminazione del regime agevolato che
dimezzava il peso delle nuove assunzioni nell'istruzione,
nei servizi sociali e nella polizia locale. In questi
ambiti, quindi, c'è un peggioramento, dal momento che il
turnover scende dall'80% al 60%. Sparisce anche la
possibilità, per gli enti con spese di personale inferiori
al 35% di quelle correnti, di sostituire integralmente i
vigili cessati dal servizio.
Altra restrizione riguarda la possibilità di cumulare le
risorse assunzionali accumulate e non utilizzate, che viene
circoscritta all'ultimo triennio.
Nessuna novità per il lavoro flessibile, con la conferma del
limite del 50% rispetto al 2009 previsto dall'art. 9, comma
28, del dl 78/2010.
Da segnalare, infine, una questione relativa alle unioni di
comuni. La legge Delrio (l. 56/2014), nel riscrivere l'art.
32 del Tuel, ha eliminato il comma 5 (che era stato inserito
dall'art. 19 del dl 95). Tale disposizione recitava: «All'unione
sono conferite dai comuni partecipanti le risorse umane e
strumentali necessarie all'esercizio delle funzioni loro
attribuite. Fermi restando i vincoli previsti dalla
normativa vigente in materia di personale, la spesa
sostenuta per il personale dell'Unione non può comportare,
in sede di prima applicazione, il superamento della somma
delle spese di personale sostenute precedentemente dai
singoli comuni partecipanti. A regime, attraverso specifiche
misure di razionalizzazione organizzativa e una rigorosa
programmazione dei fabbisogni, devono essere assicurati
progressivi risparmi di spesa in materia di personale».
Ora il dubbio è se la novella faccia venire meno l'obbligo
di garantire che l'unione rispetti il limite rappresentato
dalla spesa aggregata dei comuni aderenti. Sul punto, si
propende per la risposta negativa, sulla scorta della
consolidata giurisprudenza contabile e delle finalità di
contenimento della spesa pubblica sottese all'obbligo di
gestione in forma associata delle funzioni
(articolo ItaliaOggi dell'11.07.2014). |
SEGRETARI COMUNALI: Segretari in rivolta. Sull'abolizione dei diritti di rogito.
La categoria ha manifestato davanti a Montecitorio.
L'abolizione dei diritti di rogito «snatura la figura del
segretario comunale, che è di supporto al cittadino, oltre
che all'amministrazione». E spianare la strada ad ex
direttori generali, «non vincitori di concorso e legati alla
politica», affinché possano ricoprire tale incarico,
«rischia di incidere sul principio di imparzialità del
funzionario».
È un coro di critiche (ma anche di proposte)
quello che si leva dalla categoria dei segretari comunali,
protagonista ieri mattina di una manifestazione, a Roma,
dinanzi a palazzo Montecitorio, per contestare le norme
contenute nel decreto 90/2014 (misure urgenti per la
semplificazione e la trasparenza amministrativa e per
l'efficienza degli uffici giudiziari), varato lo scorso 13
giugno dal consiglio dei ministri e attualmente all'esame
del parlamento.
Netta contrarietà ai contenuti dell'articolo 10 del
provvedimento, che stabilisce sia l'abrogazione dei diritti
di rogito della categoria, sia l'eliminazione della
ripartizione del provento annuale dei diritti di segreteria;
le nuove regole, infatti, attribuiscono ai comuni e alle
province l'intero ricavo, abolendo in tal modo sia la quota
destinata allo stato, sia quella relativa ai contratti
rogati spettante ai funzionari.
Un taglio, quest'ultimo, «dalle conseguenze gravissime»,
commenta a ItaliaOggi Maria Concetta Giardina, responsabile
della sezione Unadis dei segretari comunali, «perché con le
somme che ci vengono sottratte noi paghiamo la nostra
formazione, i corsi che ci fanno progredire in carriera. E,
mancando le risorse per svolgere attività di aggiornamento e
perfezionamento», sottolinea, «si indebolisce il dipendente
e lo si condanna a non avere un futuro».
Rivendicano di essere «i primi collaboratori dei sindaci»,
però rifiutano di operare in una condizione di
«soggettività», essendo l'unica figura, si lamentano, «che
da 17 anni subisce lo spoil system», poiché molto spesso chi
vince le elezioni seleziona la sua squadra seguendo logiche
di partito, «facendo perdere credibilità all'istituzione». A
dar loro appoggio, in piazza, il primo cittadino di Parma,
Federico Pizzarotti, convinto che «rispetto alle tariffe
notarili, quanto spetta ai segretari comunali rappresenta un
indubbio risparmio per le amministrazioni. Avevo molte
aspettative, riguardo alla riforma della p.a.», prosegue,
«ma si stanno infrangendo dinanzi ad alcune decisioni, come
questo ridimensionamento dei segretari comunali, che non mi
sembra vadano a beneficio dei cittadini».
Ad oggi, si
contano circa 3.500 appartenenti all'albo, in Italia, e la
media reddituale «si aggira sui 70-80 mila euro lordi
annui», dichiara Giampiero Vangi (responsabile per la
categoria del sindacato Diccap) che tiene a evidenziare
quale sia il carico di responsabilità sulle spalle dei
colleghi, «perché se, ad esempio, si sbaglia la
registrazione di un atto, non è il comune a pagare, bensì
tutto ricade sul personale rogante, tenuto a corrispondere
250 euro di sanzione».
Osteggiata duramente, poi, la scelta del governo di Matteo
Renzi di far entrare a ruolo persone che hanno ricoperto in
precedenza la carica di direttore generale, non essendo
passate attraverso la trafila del concorso pubblico; una
delle proposte emendative suggerite alle forze politiche che
esprimono loro vicinanza (in particolare al Ncd e a Fi)
riguarda delle modifiche all'attuale funzionamento
dell'albo, per consentire ai dirigenti che hanno dato buona
prova di se stessi di poter aspirare a funzioni apicali
negli enti di massima dimensione, «ma come scelta
professionale, non in maniera episodica, venendo nominati,
magari per qualche anno, in virtù di mera appartenenza
politica».
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Ma la competenza non è stata cancellata.
Per i segretari comunali resta in piedi la possibilità di
rogare i contratti e, se richiesti, il dovere di procedere.
L'abolizione della compartecipazione ai diritti di rogito
disposta dall'articolo 10 del dl 90/2014 non elimina la
competenza dei segretari a svolgere le funzioni di ufficiale
rogante, ma sta sortendo l'effetto di indurre molti
segretari a rinunciare o, quanto meno ventilare di farlo, a
rogare i contratti, anche a scopo di protesta ed evidenziare
che la compartecipazione ai diritti di rogito non rientri
pienamente nel principio di onnicomprensività della
retribuzione, molti segretari comunali ritengono di potersi
astenere dallo svolgere il compito.
Tuttavia, il dl 90/2014
ha sì abolito il compenso per l'attività di ufficiale
rogante, ma non ha intaccato l'articolo 97, comma 4, lettera
c), del dlgs 267/2000, ai sensi del quale il segretario «può
rogare tutti i contratti nei quali l'ente è parte e
autenticare scritture private e atti unilaterali
nell'interesse dell'ente». L'utilizzo del verbo «potere» non
deve trarre in inganno. La legge non attribuisce al
segretario la facoltà di scegliere se rogare i contratti o
meno, bensì evidenzia che in via straordinaria detta
funzione, negli enti locali, può essere svolta non solo dal
notaio, ma anche appunto dal segretario comunale.
Dunque, si
tratta di una vera e propria attribuzione di potestà
giuridica e non di una facoltà. Per dirla meglio, i
segretari comunali hanno il dovere di svolgere la funzione.
Specie se vi sia una formale ed esplicita richiesta a
procedere da parte del sindaco o dei dirigenti e funzionari
che debbono intervenire nell'atto per la sua sottoscrizione.
La funzione rogante deve essere considerata ancora
obbligatoria e vigente, per evidenti ragioni di risparmio e
razionalità organizzativa. L'affidamento del compito di
rogare i contratti degli enti ai notai si rivelerebbe per la
riforma della p.a un boomerang devastante.
Infatti, non solo
aumenterebbero i costi (per l'amministrazione, ma anche per
le imprese appaltatrici), ma si ridurrebbero anche le
entrate connesse alla funzione: se non è l'ufficiale rogante
segretario comunale a rogare l'atto pubblico in forma
amministrativa o autenticare la scrittura privata, infatti,
mancano totalmente i presupposti per acquisire i connessi
diritti di rogito da parte del comune. A questa disfunzione
si collegherebbe, come già rilevato, anche quella
organizzativa, connessa alla necessità di scegliere il
notaio e concordare con un soggetto esterno
all'organizzazione sede, tempi e modi per la stipulazione.
Il rallentamento e la complicazione operativa sono
evidentemente percepibili.
Dovesse passare, dunque, l'idea che ai segretari è
consentito non svolgere più la funzione rogante, per i
comuni si determinerebbe una situazione estremamente vicina
al caos. Indubbiamente, l'unico modo per rimediare in modo
efficace sarebbe rivedere prontamente il contenuto
dell'articolo 10 del dl 90/2014, anche perché difficilmente
è dimostrabile che la maggiore efficienza della p.a. passi
per l'abolizione della compartecipazione dei segretari ai
diritti di rogito (articolo ItaliaOggi dell'11.07.2014). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
L'obbligo di Pos non elimina l'adeguata verifica.
Antiriciclaggio. Pagamenti ai professionisti.
Il controverso obbligo di
pagamento con Pos ha un impatto soft sulla normativa
antiriciclaggio. L'articolo 49 del dlgs 231 del 2007, sugli
adempimenti relativi all'uso del contante, stabilisce che è
vietato il trasferimento a qualsiasi titolo di denaro
contante o strumenti al portatore per importi pari o
superiori a 1000 euro. Sono quindi consentiti liberamente e
in ogni sede, a qualsiasi titolo (oneroso o gratuito, ad es.
per pagamenti o donazioni), movimenti in contanti fino a
999,99 euro. Ciò sta a significare, per quanto qui
interessa, che presso gli esercizi commerciali e tutti i
soggetti toccati dal decreto appena entrato in vigore, i
pagamenti in contanti restano liberi fino alla predetta
soglia.
Questi concetti, tuttavia, non sono parsi affatto ovvi nei
primi giorni di vigenza dell'obbligo di Pos. Si è pensato ad
un divieto assoluto del contante, o quantomeno fino ai 30
euro, dato che la legge prevede l'obbligo di dotarsi di Pos
per garantire ai clienti pagamenti con carte bancomat e
prepagate (non di credito, poiché si parla di strumenti che
funzionino «previo deposito di fondi in via anticipata da
parte dell'utilizzatore») dai 30 euro in su.
Inoltre, per i liberi professionisti contabili e legali,
obbligati dalle norme antiriciclaggio alla cosiddetta
"adeguata verifica" e alla registrazione di rapporti ed
operazioni occasionali pari o superiori ai 15.000 euro su
registro cartaceo dedicato, resta comunque l'obbligo della
prima, mentre la registrazione dei pagamenti avverrebbe solo
per somme pari o superiori ai 15.000 (o diversa soglia
scelta dal professionista medesimo), ricordando che deve
trattarsi non di parcelle, esentate dalla annotazione.
Potrebbe però darsi il caso che con il Pos il cliente voglia
fare arrivare al professionista dei soldi che, dal conto
corrente di quest'ultimo, il cliente debba consegnare a una
controparte a fronte di una transazione o qualsivoglia altro
debito pecuniario il cui pagamento avvenga tramite un
legale. Si ricorda che questi casi comportano comunque una
adeguata verifica (con richiesta dello «scopo e natura»
dell'operazione e del «titolare effettivo» della medesima).
Ciò rientrerebbe nella fattispecie prevista dall'art. 12,
comma 1, lettera c), numero 2, del decreto 231/2007, a
fronte della quale si dovrebbe prescindere anche dalla
soglia dei 15.000 euro.
Un problema invece ben più serio
potrebbe porsi nel momento in cui il cliente voglia usare il Pos ma frazionare il pagamento in più tranche. L'acconto
oggi, il saldo fra un mese, ad esempio. Se l'acconto non
supera i 1.000 euro, si potrà pagarlo in contanti. Ma il
saldo dovrà avvenire per forza con Pos o assegno o bonifico,
in quanto -trattandosi della medesima operazione,
consulenza o rapporto continuativo che dir si voglia- se il
cliente versasse dell'altro contante, superando il limite
suddetto, potrebbe incorrere nel «cumulo» di cui sempre
all'art. 49, comma 1, della legge antiriciclaggio, che usa
l'avverbio «complessivamente» quando pone, per l'appunto, il
divieto ai trasferimenti di contante.
Qui si rileva un assurdo già nella normativa in questione,
soprattutto con la soglia così bassa ai 1.000 euro (unica in
Europa). Si costringe al pagamento tracciato, a procurarsi
un bancomat o carta o assegni anche chi non ha un rapporto
di conto corrente bancario o postale (e in Italia trattasi
di circa 2 milioni di cittadini). È appena il caso di
ricordare che il reato di evasione fiscale si realizza,
sempre in sintesi, quando una prestazione economica non
viene supportata da alcun documento giustificativo, a
prescindere da come sia stata pagata.
E ciò non si risolve
con i blocchi ai pagamenti, quelli leciti, obbligando
inoltre un cittadino italiano o comunitario in Italia a
possedere strumenti diversi dal contante. Tra l'altro, per
importi di cui si parla non vi sarebbe reato fiscale, ai
sensi del decreto legislativo 74 del 2000, ma solo una
violazione amministrativa. Come dovrà comportarsi il
professionista che si veda chiedere dal cliente di
effettuare più pagamenti sopra soglia, paradossalmente senza
mai usare il contante, visto che i bancomat hanno limiti di
importo spendibile giornaliero? Anche il frequente utilizzo
di strumenti di debito o carte di credito viene considerato
un indicatore di anomalia dalla Banca d'Italia nelle sue
istruzioni sulle segnalazioni di operazioni sospette.
Banale, ma non ultima, la domanda sui pagamenti «misti»,
dati i limiti di spendibilità, ai quali si sarà costretti
comunque, magari dando il rimanente in contanti, seppure
sotto soglia. Le autorità li considerano comunque pagamenti
elusivi delle norme contro il riciclaggio. Ciò qualora il
bancomat, essendo ad addebito immediato, dovesse
considerarsi «contante». Un maggiore raccordo tra norme è
auspicabile (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Ripartono le gare nei Comuni.
Gli obblighi di centralizzazione degli acquisti si spostano
al 2015. Enti locali. Via libera immediato agli appalti e proroga al
1° gennaio per beni e servizi e al 1° luglio per i lavori.
Possono ripartire gli
acquisti e gli appalti nei Comuni non capoluogo di
Provincia, bloccate dall'entrata in vigore il 1° luglio
scorso delle nuove regole sulle centrali uniche di
committenza, perché dei nuovi obblighi si riparlerà solo nel
2015: anche le procedure già avviate nei Comuni in queste
settimane possono proseguire perché i relativi atti vengono
fatti salvi.
La Conferenza Stato-Città di ieri ha formalizzato l'accordo
che sposta e sdoppia la scadenza dell'entrata in vigore dei
nuovi vincoli: in pratica (come anticipato sul Sole 24 Ore
del 4 luglio) l'obbligo di agire attraverso Unioni di
Comuni, accordi consortili, altri «soggetti aggregatori» o
la Consip viene spostato al 1° gennaio prossimo per
l'acquisto di beni e servizi, e al 1° luglio per quel che
riguarda gli appalti di lavori.
Il nuovo calendario sarà
scritto in un emendamento da introdurre nella legge di
conversione al decreto sulla Pubblica amministrazione oppure
a quello sullo sviluppo, ma per registrare gli effetti
concreti del nuovo accordo non bisognerà attendere la fine
del percorso parlamentare: il blocco generalizzato degli
acquisti appalti nei quasi 8mila Comuni non capoluogo è
dovuto al fatto che a partire dal 1° luglio l'Autorità di
vigilanza sugli appalti non ha più potuto rilasciare i
codici identificativi di gara (Cig) indispensabili per lo
svolgimento delle procedure, e ovviamente l'accordo
raggiunto ieri fra Governo e amministrazioni locali dà
indicazione all'Autorità di ricominciare a distribuire i
codici.
La vicenda interviene proprio nelle settimane in cui sul
versante della spending review si lavora alle regole per
"superare" le migliaia di stazioni appaltanti attuali
riducendole a poche decine, e mostra bene tutte le
difficoltà che si incontrano quando si passa dalle strategie
ai tentativi di applicazione. La storia infinita delle
centrali uniche nasce infatti alla fine del 2011 quando il
decreto «Salva-Italia» (articolo 23, commi 4 e 5 del Dl
201/2011) impone una centrale unica provinciale per
l'acquisizione di lavori, servizi e forniture superiori a
4mila euro nei Comuni fino a 5mila abitanti.
Di proroga in
proroga, la scadenza originaria del 31.03.2012 è stata
spostata fino al 1° luglio scorso, ma alla vigilia del nuovo
termine il decreto con il bonus Irpef (articolo 9, comma 4
del Dl 66/2014) ha modificato la regola, cancellando la
salvaguardia per gli acquisti fino a 40mila euro di valore
ed estendendo l'obbligo di "centralizzazione" a tutti i
Comuni non capoluogo di Provincia. Con il nuovo decreto, la
centrale provinciale non è l'unica strada, perché tra le
opzioni ci sono come accennato le Unioni di Comuni, gli
accordi consortili o la Consip (che però non è praticabile
per quanto riguarda i lavori), ma sul territorio questi
«soggetti aggregatori» sono ancora tutti da costruire.
Un'altra prova delle difficoltà che si incontrano quando si
prova a superare l'articolazione in singoli enti locali e
procedere per aree più ampie arriva dal settore del gas,
dove è stato definito il nuovo calendario per le gare. Il
calendario è stato messo nero su bianco dal ministro dello
Sviluppo economico, Federica Guidi, e prevede uno
slittamento di otto mesi per gli ambiti di primo
raggruppamento, di sei mesi per gli ambiti del secondo,
terzo e quarto raggruppamento e di quattro mesi per quelli
che rientrano nel quinto e sesto raggruppamento (articolo Il Sole 24 Ore dell'11.07.2014). |
ENTI LOCALI: Bilanci, oggi l'ok alla proroga.
In stato-città.
Slitta al 30 settembre il termine per l'approvazione del
bilancio 2014 degli enti locali.
Il via libera (scontato)
arriverà oggi dalla Conferenza stato-città, che darà parere
favorevole alla terza proroga in poco più di sei mesi. Il
record dello scorso anno, quanto la dead-line venne spostata
fino al 30 novembre, non è lontano.
Restano da affrontare due problemi di coordinamento. Da un
lato, quello con la normativa relativa alla Tasi, che lascia
tempo solo fino al 10 settembre ai sindaci che non lo hanno
ancora fatto per fissare aliquote e detrazioni con effetti
sull'anno di imposta corrente. In ogni caso, i comuni
potranno provvedere anche prima di varare il preventivo,
dato che l'unico vincolo è che la deliberazione consiliare
sulla Tasi preceda l'approvazione del bilancio. Essa, però,
deve essere successiva alla deliberazione di giunta che
approva il relativo schema, dato che le decisioni sui
tributi devono essere sempre basarsi su motivate esigenze
finanziarie.
Il secondo problema riguarda la salvaguardia degli equilibri
contabili, che in base all'art. 193 del Tuel deve essere
messa in calendario entro il 30 settembre. Al riguardo,
sarebbe opportuno prevedere una deroga per gli enti che
licenzieranno il preventivo a settembre, come accaduto lo
scorso anno
(articolo ItaliaOggi del 10.07.2014). |
VARI: Con le gomme da neve si circola anche d'estate.
Le gomme da neve permettono all'utente di circolare in
regola anche d'estate purché vengano rispettate tutte le
condizioni previste dalla carta di circolazione del veicolo.
E solo nella rara ipotesi in cui siano state installati
pneumatici con indice di velocità inferiore occorrerà
sostituirli entro il 15 maggio. La questione della
sostituzione dei pneumatici invernali con quelli estivi ha
destato molta preoccupazione negli utenti dopo le notizie
generaliste diffuse dai media. In pratica però nessuna norma
obbliga gli automobilisti ad affrettarsi per smontare le
gomme invernali eccetto il caso in cui i pneumatici scelti
abbiano un indice di velocità inferiore all'ordinario.
Lo ha chiarito il Ministero dei Trasporti con la circolare
n. 1049/2014.
A norma di legge i pneumatici invernali
possono essere utilizzati anche tutto l'anno senza incorrere
in sanzione. Purché si tratti di gomme con requisiti
corrispondenti a quelli indicati nella carta di circolazione
del veicolo. Durante il periodo invernale, a parere del
ministero, possono essere installati anche pneumatici con
codici di velocità inferiori a quelli previsti dal libretto
del veicolo, fino a Q (ovvero 160 km/h).
Con la nota ministeriale è stato spiegato qual è il periodo
di riferimento di questa deroga che non corrisponde al lasso
temporale evidenziato dalla direttiva sull'uso dei
dispositivi invernali 16.01.2013. Ovvero dal 15
novembre al 15 aprile. Viene infatti allargata la forbice
dal 15 ottobre al 15 maggio.
In pratica per evitare un eccessivo affollamento dei centri
di assistenza viene consentita la circolazione con le gomme
invernali anche con codici di velocità inferiori a quelle
previste dal libretto di circolazione fino al 15 maggio di
ogni anno. Solo per questa tipologia di gomme invernali
quindi non è permesso circolare tutto l'anno senza incorrere
in multe. La generalità degli automobilisti possono stare
tranquilli.
Nessun organo di polizia potrà sanzionare un utente che avrà
scelto di mantenere il proprio treno di gomme invernali
anche nel periodo caldo. Magari proprio per completarne
l'usura prima dell'arrivo del nuovo periodo invernale
(articolo ItaliaOggi del 09.07.2014). |
APPALTI: Appalti supermonitorati. Conti dedicati e solo bonifici per
le ditte. Lo prevede il decreto sulle semplificazioni p.a. per le
grandi opere.
Rafforzato il monitoraggio finanziario sulle imprese che
partecipano ai grandi appalti. Gli aggiudicatari dovranno
avere conti dedicati per i pagamenti e utilizzare solo
bonifici. Previsto un prelievo dello 0,6 per mille
sull'importo del contratto, che andrà a finanziare il
sistema di monitoraggio.
È quanto prevede l'articolo 36 del
dl 90/2014 (decreto p.a.), all'esame della camera, che
interviene sulla disciplina del monitoraggio finanziario dei
grandi lavori infrastrutturali (opere della ex legge
Obiettivo), stabilendo che si seguano le modalità e le
procedure, anche informatiche, individuate dalla delibera Cipe n. 145 del 2011 (che dovrà però essere aggiornata).
La
disposizione stabilisce inoltre un obbligo per le stazioni
appaltanti di adeguamento degli atti generali di propria
competenza rispetto alle modalità di monitoraggio indicate
nella delibera n. 45 del 2011 e ai suoi futuri
aggiornamenti. Si prevede anche una opportuna disciplina
transitoria per i contratti stipulati anteriormente alla
data di entrata in vigore del decreto legge (25.06.2014), consentendo l'adeguamento delle modalità di controllo
dei flussi finanziari di cui alla delibera 45/2011 entro sei
mesi.
Come accennato, con una nuova delibera del Cipe
saranno dettate le disposizioni di aggiornamento delle
modalità di esercizio del sistema di monitoraggio
finanziario contenute nella delibera n. 45/2011, allo scopo
di dare attuazione alla norma e di recepire le indicazioni
contenute nei decreti legislativi n. 228 e n. 229 del 2011
(sul monitoraggio ex ante ed ex post delle opere) e nella
delibera del Cipe n. 124 del 2011.
Per l'implementazione del
sistema di monitoraggio finanziario viene autorizzata una
spesa di 1.321.000 euro per l'anno 2014 alla cui copertura
si provvede con una quota del Fondo di rotazione per la
solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle
richieste estorsive e dell'usura. Agli oneri per la gestione
ordinaria del sistema, che vengono quantificati dal governo
in 617.000 euro annui, si provvederà invece con le risorse
derivanti da una percentuale dell'importo dei contratti,
nella misura dello 0,0006 per cento, che devono essere
versate dai soggetti aggiudicatari annualmente e fino alla
messa in esercizio degli interventi medesimi, a decorrere
dall'anno 2014.
Il monitoraggio dei flussi finanziari delle
grandi opere è previsto dall'articolo 161, comma 6-bis del
codice dei contratti pubblici (con riguardo all'uso del
sistema Siope-Sistema Informatico delle operazioni e degli
enti pubblici) e l'articolo 176, comma 3, dello stesso codice
rinvia al Cipe per i dettagli attuativi e operativi. La
delibera n. 45 del 2011, fra i diversi oneri, stabilisce
l'obbligo istituzionale di «conti correnti dedicati», da
utilizzare per tutti gli incassi e i pagamenti relativi alla
realizzazione dell'opera, l'obbligo di pagamento solo
tramite bonifici elettronici Sepa (Single euro payments
area) e l'obbligo, per i titolari dei suddetti conti
dedicati, di richiedere alla propria banca di fornire un
servizio di «esito» dei singoli pagamenti e di comunicare
gli estratti conto all'ente che cura il monitoraggio.
Nella
medesima delibera si precisa, inoltre, che le attività
svolte e i risultati ottenuti sono stati utilizzati per
l'elaborazione del «progetto Capaci» (Creating automated
procedures against criminal infiltration in public contracts),
che è stato cofinanziato dall'Unione europea e che la
sperimentazione del monitoraggio finanziario prosegue in
sede di attuazione del progetto Capaci, con l'obiettivo di
mettere a punto alcuni applicativi informatici, tra cui in
particolare quelli concernenti un sistema di warning
automatico
(articolo ItaliaOggi del 09.07.2014). |
APPALTI: Gare con proroga. La centrale unica slitta al 2015.
Pronto emendamento ad hoc. Due date per il rinvio.
Un emendamento al decreto sulla p.a. per rinviare l'obbligo
di centralizzazione degli acquisti imposto ai comuni non
capoluogo. Con due nuove scadenze: 01.01.2015 per i
beni e i servizi e 30.06.2015 per i lavori.
È questa la soluzione al momento più gettonata per ovviare
al caos creato dall'art. 9 del dl 66/2014, che, a decorrere
dal 1° luglio scorso, ha imposto a tutti i comuni, tranne
quelli capoluogo di provincia, di approvvigionarsi
esclusivamente facendo ricorso a una centrale di committenza
(da istituire all'interno delle unioni o mediante accordo
consortile) ovvero a un soggetto aggregatore.
La norma, al momento, non fa sconti, avendo anche cancellato
la deroga (introdotta dalla legge 147/2013) per gli
acquisiti in economia o per importi inferiori a 40.000 euro.
Come denunciato dall'Anci, la maggior parte dei comuni non è
pronta ad adeguarsi, anche perché, in base alla normativa
previgente, l'obbligo riguardava solo quelli con meno di
5.000 abitanti. Per alcune categorie di lavori e servizi (si
pensi alle manutenzioni edilizie o ai servizi sociali), non
è neppure possibile fare ricorso a Consip, trattandosi di
prodotti non standardizzabili.
Da qui la richiesta di una proroga, su cui fin da subito il
governo si è dimostrato favorevole. Delle due soluzioni
disponibili sul piano tecnico -ossia un emendamento a uno
dei decreti legge in via di conversione oppure l'adozione di
un nuovo provvedimento d'urgenza- al momento sembra
favorita la prima. Il correttivo dovrebbe confluire nella
legge di conversione del dl 90/2014 (quello sulla riforma
della p.a., al momento all'esame della camera) e prevedere
due scadenze differenziate per beni e servizi (01.01.2015) e per i lavori (30.06.2015).
Nelle more del perfezionamento della norma, comunque,
l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (ora
soppressa e incorporata nell'Autorità anticorruzione)
sarebbe disponibile a rilasciare comunque il codice
identificativo di gara (Cig), in deroga al divieto previsto
dallo stesso dl 66.
Da più parti, inoltre, si sottolinea la necessità di
chiarire anche la sorte degli acquisti di modesto valore,
che in precedenza la giurisprudenza contabile riteneva
esclusi dall'obbligo e che oggi sembrerebbero, invece,
rientrarvi almeno in parte (con la sola esclusione
dell'amministrazione diretta)
(articolo ItaliaOggi dell'08.07.2014). |
PUBBLICO IMPIEGO: Province, i dipendenti per ora non si spostano.
Pubblico impiego. Slitta il ridisegno di attività e organici.
Avrebbe dovuto vedere la
luce entro oggi la nuova geografia delle funzioni locali,
chiamata anche a redistribuire fra Regioni e Comuni il
personale impegnato nelle attività che le Province "leggere"
dovrebbero abbandonare. I tre mesi dall'approvazione della
riforma, pubblicata sulla «Gazzetta Ufficiale» il 7 aprile
scorso, sono passati senza nemmeno fissare in agenda un
incontro con i sindacati, tappa necessaria per arrivare agli
accordi sulla redistribuzione del personale, e i tempi si
allungano.
I calendari elastici sono il classico effetto collaterale
dell'ingorgo di decreti attuativi che accompagna il
sovrapporsi delle leggi approvate, ma in questo caso
l'incrocio è ancora più complesso. In gioco, infatti, c'è
anche il decreto sulla Pubblica amministrazione, che fissa
il principio della mobilità "libera" entro 50 chilometri
dalla sede di prima assegnazione e sembra quindi aprire una
via più facile per spostare i dipendenti: resta il fatto,
però, che senza la riassegnazione delle funzioni su lavoro,
ambiente e sugli altri settori che dovrebbero essere
abbandonati dalle Province resta impossibile decidere dove e
come trasferire i dipendenti.
Anche perché nel frattempo il clima dei rapporti con i
sindacati si sta scaldando. Ieri Cgil, Cisl e Uil hanno
annunciato una «mobilitazione generale del personale degli
enti locali» perché le incertezze nel settore si
intensificano.
Tra i cronoprogrammi saltati c'è, per esempio, anche quello
previsto dal comitato temporaneo fra Governo ed enti locali
che dovrebbe risolvere la grana dei contratti integrativi
fuori regola, e che entro giugno avrebbe dovuto preparare
una nuova circolare e una direttiva all'Aran nel tentativo
di evitare il danno erariale per i dirigenti e le richieste
di restituzione di soldi ai dipendenti.
Al momento non si è visto ancora nulla, anche perché la
strada adatta a superare lo stallo che coinvolge Roma,
Vicenza, Reggio Calabria e tanti altri Comuni (a Milano
l'annuncio della Giunta di voler adeguare gli integrativi
della Polizia locale ha originato una protesta per il 10
luglio, giorno dell'ultimo concerto di Vasco Rossi a San
Siro) è quella di una revisione normativa.
Intanto per domani è in calendario a Roma la manifestazione
dei segretari comunali contro l'addio ai diritti di rogito
scritto nel decreto sulla Pa e la loro confluenza in un
ruolo unico della dirigenza abbozzato dalla legge delega
(articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PATRIMONIO: Per l'edilizia scolastica pagamenti liberi dal Patto.
Enti locali. Firmati i decreti per sbloccare 404 interventi.
Il primo capitolo del
piano governativo per l'edilizia scolastica diventa
operativo: dopo il via libera dell'ufficio del bilancio di
Palazzo Chigi sono stati infatti pubblicati due decreti del
presidente del Consiglio che individuano gli sconti sul
Patto di stabilità assegnati a 404 Comuni che nelle
settimane scorse ne hanno fatto richiesta. Parte così uno
dei tre filoni del programma per rinnovare le scuole, che
secondo i progetti del Governo dovrebbe riguardare 20.845
edifici e mettere in campo 1,094 miliardi fra quest'anno e
il prossimo.
I provvedimenti traducono in pratica una misura del decreto
Irpef (articolo 48 del Dl 66/2014), che permette di non
considerare nel Patto di stabilità una dote di 122 milioni
di euro per quest'anno e altrettanti per l'anno prossimo da
destinare ai pagamenti di investimenti nell'edilizia
scolastica. I progetti da agevolare per questa via sono
stati trovati con lo scambio di lettere avviato il 3 marzo
scorso tra il presidente del consiglio e i sindaci, chiamati
a segnalare i cantieri in corso o in programma, interamente
finanziabili da risorse comunali ma ostacolati dai vincoli
di finanza pubblica. Lo sblocco dei pagamenti sarà
comunicato ufficialmente a ogni amministrazione dalla
Ragioneria generale, secondo le procedure consuete del Patto
di stabilità, ma in allegato ai due provvedimenti è già
riportato l'elenco dei beneficiari con le somme liberate per
ciascuno di loro.
Da questo punto di vista, la notizia più importante arriva a
Paese, in provincia di Treviso, dove il via libera vale poco
più di 3 milioni di euro: seguono i 2,5 milioni riconosciuti
a Sorrento (Napoli) e i due milioni liberati a Cavallino
Treporti (Venezia). Per il momento, le risorse escluse dalle
regole ordinarie di finanza pubblica locale finiscono qui,
ma il Governo assicura che con il prossimo Documento di
economia e finanza saranno assegnati altri spazi finanziari:
già in cantiere, del resto, c'è una riprogrammazione dei
fondi Ue che dovrebbe portare nuovi aiuti alla scuola (si
veda il servizio a pagina 2).
Proprio da un'operazione di questo tipo, del resto, sono già
stati tratti i 510 milioni di euro individuati dal Cipe
nella delibera del 30 giugno scorso, che ha formalizzato la
decisione di reindirizzare all'edilizia scolastica risorse
non utilizzate nell'ambito dei fondi di Sviluppo e Coesione.
In questo caso gli interventi sono più piccoli ma più
numerosi, perché una prima tranche, da 400 milioni, è
destinata a finanziare 2.480 opere per la messa in sicurezza
e l'agibilità delle scuole, con un valore medio da circa
160mila euro l'uno.
Questo pacchetto di opere nasce dal
decreto «Fare» del Governo Letta, e gli enti locali hanno
tempo fino al 30 ottobre per aggiudicare gli appalti e
ottenere i finanziamenti. L'altra quota, da 110 milioni,
sarà invece destinata al "rammendo", cioè a piccoli
interventi di manutenzione e ripristino che dovrebbero
riguardare 7.081 edifici. Altri 300 milioni, secondo i
programmi di Palazzo Chigi, dovrebbero arrivare nel 2015 (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: In cortile i caricabatterie per auto elettriche.
Energia verde. L'installazione delle «colonnine» con
maggioranza semplificata.
Il Condominio diventa
sempre più "Eco". Dal 1° giugno è diventato possibile
installare nelle aree condominiali le cosiddette "colonnine"
per la ricarica elettrica delle auto.
È questa una delle novità inserite nella legge 134/2012, che
ha convertito, con modificazioni, il Dl 83/2012. L'articolo
17-quinquies, n. 2 e n. 3, dispone che «Fatto salvo il
regime di cui all'articolo 1102 del codice civile, le opere
edilizie per l'installazione delle infrastrutture di
ricarica elettrica dei veicoli in edifici in condominio sono
approvate dall'assemblea di condominio, in prima o in
seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall'articolo 1136, secondo comma, del codice civile» e che
«Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non
assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni di cui al comma 2, il condomino interessato
può installare, a proprie spese, i dispositivi di cui al
citato comma 2, secondo le modalità ivi previste. Resta
fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo comma, e
1121, terzo comma, del Codice civile».
L'intervento è inquadrabile tra le innovazioni "agevolate"
perché, deroga ai quorum deliberativi previsti per le
innovazioni, e richiama il quorum ordinario dell'articolo
1136, comma 2 (sia per la prima che per la seconda
convocazione), ossia la maggioranza dei partecipanti
all'assemblea ed almeno la metà del valore dell'edificio.
I limiti posti all'installazione sono quelli indicati
nell'articolo 1120 del Codice civile, cioè che, con
l'installazione, non vengano danneggiate le parti comuni o
alterata la sicurezza o il decoro dell'edificio oppure
ostacolato o compromesso l'uso delle parti comuni anche ad
un solo condomino.
A fronte di una richiesta individuale di apposizione di una
colonnina in un'area comune, l'amministratore è tenuto a
convocare l'assemblea entro 30 giorni. Tale richiesta deve
contenere l'indicazione del contenuto specifico e delle
modalità di esecuzione dell'intervento proposto. In mancanza
l'amministratore deve invitare senza indugio il condomino
proponente a fornire le necessarie integrazioni.
Qualora però il condominio rifiuti di assumere, o non assuma
entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni, il condomino interessato può installare, a
proprie spese, i dispositivi con possibilità, per i
condomini che volessero avvalersi dell'impianto di ricarica
in futuro, di poterlo utilizzare contribuendo alle spese di
esecuzione e di manutenzione dell'opera (articolo 1121). In
tal caso l'installazione rientra nella disciplina e nei
limiti dell'articolo 1102, anche se tali limiti non
escludono quelli dell'articolo 1120.
Tale "novità" relativa alla realizzazione di impianti di
ricarica dei veicoli elettrici mediante l'installazione di
colonnine adibite alla ricarica rientra nell'ambito di un
progetto più ampio che coinvolge non solo i condomini ma
anche i Comuni (molti dei quali hanno già aderito, come ad
Bari, Roma, Bologna, Milano, Salerno, Treviso, Brindisi,
Parma, Cagliari, Napoli, Firenze, Genova).
Si tratta di opere di urbanizzazione primaria realizzabili
su tutto il territorio comunale in regime di esenzione dal
contributo di costruzione.
Entro il 01.06.2014 i Comuni avrebbero dovuto adeguare i
loro regolamenti edilizi. Decorso inutilmente il termine, le
Regioni hanno la facoltà di annullare il permesso di
costruire rilasciato in precedenza (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2014). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 37 del d.P.R. n. 380/2001, rubricato
“Interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla
denuncia di inizio attività e accertamento di conformità”,
non contempla –a differenza dell’art. 36 dello stesso T.U.
relativo alle opere realizzate in mancanza di permesso di
costruire– alcuna forma di silenzio significativo.
Come affermato in fattispecie analoghe dalla giurisprudenza,
il privato può dunque censurare la condotta omissiva
dell'Amministrazione nelle forme del silenzio-inadempimento,
atteso che nessun silenzio-significativo può ritenersi
perfezionato.
Il procedimento disciplinato dal comma 4 dell'articolo 37,
infatti, “non è suscettibile di definizione tacita, sia
perché la norma, a differenza che per l'art. 36 del medesimo
testo unico, non prevede esplicitamente una ipotesi di
silenzio-significativo, sia perché la stessa stabilisce che
il procedimento si chiuda con un provvedimento espresso, con
il quale il responsabile del procedimento stabilisce la
somma che il responsabile dell'abuso deve versare in
relazione all'aumento di valore dell'immobile”.
... per l'annullamento del silenzio-rifiuto serbato dal
comune di Capaccio in ordine all'istanza di accertamento di
conformità relativa ad una struttura alberghiera sita in via
s.s.18 loc. Cerro.
...
L’art. 37 del d.P.R. n. 380/2001, rubricato “Interventi
eseguiti in assenza o in difformità dalla denuncia di inizio
attività e accertamento di conformità”, non contempla –a
differenza dell’art. 36 dello stesso T.U. relativo alle
opere realizzate in mancanza di permesso di costruire–
alcuna forma di silenzio significativo.
Come affermato in fattispecie analoghe dalla giurisprudenza
richiamata dallo stesso ricorrente, il privato può dunque
censurare la condotta omissiva dell'Amministrazione nelle
forme del silenzio-inadempimento, atteso che nessun silenzio-significativo può ritenersi perfezionato.
Il procedimento disciplinato dal comma 4 dell'articolo 37,
infatti, “non è suscettibile di definizione tacita, sia
perché la norma, a differenza che per l'art. 36 del medesimo
testo unico, non prevede esplicitamente una ipotesi di
silenzio-significativo, sia perché la stessa stabilisce che
il procedimento si chiuda con un provvedimento espresso, con
il quale il responsabile del procedimento stabilisce la
somma che il responsabile dell'abuso deve versare in
relazione all'aumento di valore dell'immobile” (TAR Campania
Napoli, sez. VII, sent. n. 1145/2011).
Alla luce di quanto sopra considerato, in accoglimento delle
istanze del ricorrente, devono pertanto essere dichiarati
l’illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Capaccio
e l’obbligo in capo allo stesso di provvedere sull’istanza
del ricorrente, nel termine di cui in dispositivo, nominando
un Commissario ad acta per il caso di ulteriore
inerzia dell’Amministrazione
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 10.07.2014 n. 1259 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento di
diniego del permesso di costruire determina una contrazione
del ius aedificandi e, quindi –pur essendo il risultato di
un’attività vincolata, consistente nella verifica della
conformità o meno dell’intervento edilizio proposto rispetto
alla disciplina dettata dalla legge e dagli strumenti
urbanistici– necessita di una completa e circostanziata
motivazione, esplicativa delle reali ragioni ostative al
rilascio del titolo abilitativo, dovendosi consentire
all’interessato di tutelarsi in sede giurisdizionale ovvero
di superare, laddove possibile, le ragioni ostative addotte
dall’amministrazione mediante una modifica del progetto
originariamente elaborato.
In giurisprudenza, cfr. la decisione del TAR Campania Napoli, Sez. VIII, n. 2438 del 2009, nella
cui parte motiva è dato, in particolare, leggere: “Al
riguardo, giova rammentare che il provvedimento di diniego
del permesso di costruire determina una contrazione del ius
aedificandi e, quindi –pur essendo il risultato di
un’attività vincolata, consistente nella verifica della
conformità o meno dell’intervento edilizio proposto rispetto
alla disciplina dettata dalla legge e dagli strumenti
urbanistici– necessita di una completa e circostanziata
motivazione, esplicativa delle reali ragioni ostative al
rilascio del titolo abilitativo, dovendosi consentire
all’interessato di tutelarsi in sede giurisdizionale ovvero
di superare, laddove possibile, le ragioni ostative addotte
dall’amministrazione mediante una modifica del progetto
originariamente elaborato (TAR Puglia, Lecce, sez. III, 26.09.2006, n. 4655; 18.10.2006, n. 4981; 10.09.2007, n. 3149; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 20.11.2006, n. 9983; sez. VI, 12.03.2007, n. 1789)”
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 10.07.2014 n. 1257 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
- “Ai sensi dell’art. 2, l. 07.08.1990 n. 241 il
procedimento amministrativo va concluso, anche con un atto
sfavorevole per il richiedente, in quanto nel nostro
ordinamento è considerato diritto fondamentale del cittadino
sapere se una sua istanza rivolta alla Pubblica
amministrazione merita o non accoglimento; l’obbligo in
questione non sussiste solo nei casi di silenzio assenso o
di silenzio rigetto, di meccanismi di semplificazione della
d.i.a. o della s.c.i.a., di manifesta infondatezza della
domanda o mera reiterazione di istanze già evase
dall’Amministrazione con provvedimenti espressi <e di
istanze volte a sollecitare l’esercizio del potere di
autotutela>”;
- “Il meccanismo del silenzio, nel rito speciale
disciplinato dall’art. 117 c. p. a., come quello in esame, è
diretto ad accertare se l’inerzia serbata dalla P. A. in
ordine all’istanza del privato vanti o meno l’obbligo di
adottare il provvedimento esplicito richiesto con l’istanza
stessa e sussiste in tale contesto l’obbligo di provvedere
in quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di
correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica,
sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere
il contenuto e le ragioni delle determinazioni di
quest’ultima.
Pertanto, l’Amministrazione non ha l’obbligo di pronunciarsi
su un’istanza finalizzata ad ottenere un provvedimento in
via di autotutela: l’attivazione del procedimento di riesame
della legittimità dell’atto amministrativo mediante
l’istituto del silenzio rifiuto non è infatti coercibile “ab
extra”, costituendo l’esercizio del potere di autotutela
facoltà ampiamente discrezionale della P. A., in quanto il
potere di autotutela si esercita d’ufficio e non su istanza
di parte, avente valore di mera sollecitazione per la quale
non c’è obbligo giuridico di provvedere”;
- “Non sussiste la possibilità di fare ricorso alla
procedura del silenzio rifiuto allo scopo di provocare il
ricorso dell’Amministrazione all’autotutela; tale divieto
trova il proprio fondamento nell’esigenza di evitare il
superamento della regola della necessaria impugnazione
dell’atto amministrativo nel termine di decadenza.
Siffatto éscamotage presuppone, in definitiva, una sequenza
procedimentale in cui sussista un provvedimento non
impugnato, e l’intrapresa della procedura del silenzio
rifiuto allo scopo di provocare l’adozione di un secondo
provvedimento, volto a mettere nel nulla quello non
tempestivamente impugnato; la richiesta dei privati, rivolta
all’Amministrazione, di esercizio dell’autotutela, è una
mera denuncia, con funzione sollecitatoria, ma non fa
sorgere in capo all’Amministrazione stessa alcun obbligo di
provvedere”.
Dalla lettura della nota dell’11.10.2012,
si verifica che la stessa aveva, in pratica, lo stesso
oggetto della precedente, sostanziandosi, anch’essa, in una
richiesta di rettifica del punteggio di cui sopra.
Trattandosi, quindi, sia nel primo sia nel secondo caso, di
istanze dirette a stimolare l’esercizio, da parte del
Presidente del Corecom Campania, dei propri poteri di
rettificare, in autotutela, la graduatoria già pubblicata, e
rimasta inoppugnata, nessun obbligo di provvedere poteva
dirsi sussistere, in capo all’Amministrazione, e tanto
conformemente all’orientamento pacificamente espresso dalla
giurisprudenza in materia, di cui sono testimonianza, da
ultimo, le seguenti decisioni:
- “Ai sensi dell’art. 2, l. 07.08.1990 n. 241 il
procedimento amministrativo va concluso, anche con un atto
sfavorevole per il richiedente, in quanto nel nostro
ordinamento è considerato diritto fondamentale del cittadino
sapere se una sua istanza rivolta alla Pubblica
amministrazione merita o non accoglimento; l’obbligo in
questione non sussiste solo nei casi di silenzio assenso o
di silenzio rigetto, di meccanismi di semplificazione della
d.i.a. o della s.c.i.a., di manifesta infondatezza
della domanda o mera reiterazione di istanze già evase
dall’Amministrazione con provvedimenti espressi <e di
istanze volte a sollecitare l’esercizio del potere di
autotutela>” (TAR Marche, Sez. I, 21/03/2014, n. 369);
- “Il meccanismo del silenzio, nel rito speciale
disciplinato dall’art. 117 c. p. a., come quello in esame, è
diretto ad accertare se l’inerzia serbata dalla P. A. in
ordine all’istanza del privato vanti o meno l’obbligo di
adottare il provvedimento esplicito richiesto con l’istanza
stessa e sussiste in tale contesto l’obbligo di provvedere
in quelle ipotesi in cui, in relazione al dovere di
correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica,
sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere
il contenuto e le ragioni delle determinazioni di
quest’ultima. Pertanto, l’Amministrazione non ha l’obbligo
di pronunciarsi su un’istanza finalizzata ad ottenere un
provvedimento in via di autotutela: l’attivazione del
procedimento di riesame della legittimità dell’atto
amministrativo mediante l’istituto del silenzio rifiuto non
è infatti coercibile “ab extra”, costituendo l’esercizio del
potere di autotutela facoltà ampiamente discrezionale della
P. A., in quanto il potere di autotutela si esercita
d’ufficio e non su istanza di parte, avente valore di mera
sollecitazione per la quale non c’è obbligo giuridico di
provvedere” (TAR Roma (Lazio), Sez. II, 02/10/2013, n.
8543);
- “Non sussiste la possibilità di fare ricorso alla
procedura del silenzio rifiuto allo scopo di provocare il
ricorso dell’Amministrazione all’autotutela; tale divieto
trova il proprio fondamento nell’esigenza di evitare il
superamento della regola della necessaria impugnazione
dell’atto amministrativo nel termine di decadenza. Siffatto
éscamotage presuppone, in definitiva, una sequenza
procedimentale in cui sussista un provvedimento non
impugnato, e l’intrapresa della procedura del silenzio
rifiuto allo scopo di provocare l’adozione di un secondo
provvedimento, volto a mettere nel nulla quello non
tempestivamente impugnato; la richiesta dei privati, rivolta
all’Amministrazione, di esercizio dell’autotutela, è una
mera denuncia, con funzione sollecitatoria, ma non fa
sorgere in capo all’Amministrazione stessa alcun obbligo di
provvedere” (Consiglio di Stato, Sez. V, 03/05/2012, n.
2549)
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 10.07.2014 n. 1252 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Anche un mancato versamento dei contributi mette fuori gara.
Anche per un mancato versamento di soli 278 euro di
contributi si può legittimamente essere esclusi da un
appalto pubblico.
È quanto afferma la
sentenza 10.07.2014
(causa C-358/12) della
X Sez. della Corte di giustizia europea dichiarando compatibile con il Trattato Ue
la disciplina italiana che consente di escludere anche chi
ha commesso una violazione superiore a 100 euro.
La vicenda
riguardava una gara per l'affidamento di un appalto di
lavori di manutenzione straordinaria, da aggiudicare al
massimo ribasso, di importo inferiore alla soglia
comunitaria dei cinque milioni di euro. Un concorrente aveva
dichiarato di «non avere commesso violazioni gravi,
definitivamente accertate, alle norme in materia di
contributi previdenziali e assistenziali», secondo quanto
previsto dall'articolo 38, comma 1, lettera i), del codice dei
contratti pubblici.
In sede di verifica del Durc la stazione appaltante
accertava invece che il concorrente, aggiudicatario della
gara, aveva omesso di effettuare, entro il termine
richiesto, i versamenti relativi al mese di maggio 2011, di
importo pari a 278 euro e corrispondenti alla totalità dei
versamenti contributivi dovuti per tale mese. In
considerazione dell'infrazione la stazione appaltante
annullava l'aggiudicazione, ancorché fosse stato effettuato
il tardivo versamento.
A seguito dell'impugnativa dell'impresa, il Tar Lombardia
proponeva questione pregiudiziale alla corte Ue per sapere
se fosse coerente con il principio di proporzionalità la
disciplina italiana che (dm lavoro del 24.10.2007) considera
«grave» lo scostamento pari o superiore al 5% tra le
somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun
periodo di paga o di contribuzione o, comunque, uno
scostamento superiore a 100 euro. La corte europea, dopo
avere in termini generali affermato che l'applicazione di
una disposizione come quella prevista dal codice potrebbe
essere tale da ostacolare la partecipazione più ampia
possibile di offerenti alle procedure di aggiudicazione,
precisa che «una restrizione siffatta può essere
giustificata qualora essa persegua un obiettivo legittimo di
interesse pubblico e purché rispetti il principio di
proporzionalità».
Sotto il primo profilo i giudici europei considerano che
accertarsi dell'affidabilità, della diligenza e della
serietà dell'offerente nonché della correttezza del suo
comportamento nei confronti dei suoi dipendenti, «costituisca
un obiettivo legittimo di interesse generale». Sotto il
secondo profilo, i parametri previsti per la «gravità»
della violazione «garantiscono non solo la parità di
trattamento degli offerenti ma anche la certezza del
diritto, principio il cui rispetto costituisce una
condizione della proporzionalità di una misura restrittiva».
Per cui anche 101 euro di violazione legittimano
l'esclusione dalla gara. Ciò vale sotto soglia (rispetto al
Trattato), ma anche sopra soglia sarebbe lo stesso perché,
dice la sentenza, gli stati membri hanno la facoltà di
applicare le norme europee con un grado di rigore che
potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di
considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale
prevalenti a livello nazionale
(articolo ItaliaOggi dell'11.07.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'annullamento giurisdizionale del permesso di
costruire provoca la qualificazione di abusività delle opere
edilizie realizzate in base ad esso, per cui il Comune,
stante l'efficacia conformativa della sentenza del giudice
amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è
obbligato a dare esecuzione al giudicato adottando i
provvedimenti consequenziali.
Tali provvedimenti non devono, peraltro, avere ad oggetto
necessariamente la demolizione delle opere realizzate,
l'art. 38, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, prescrivendo, in caso
di annullamento del permesso di costruire, una nuova
valutazione da parte del dirigente del competente ufficio
comunale riguardo la possibilità di restituzione in
pristino; qualora la demolizione non risulti possibile, il
Comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini
fissati dallo stesso art. 38, D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Dalla previsione di cui all'art. 38 del DPR 380/2001, che
prevede, come sopra rilevato, la rimozione dei vizi delle
procedure amministrative in caso di permesso di costruire
annullato in via giurisdizionale, non deriva un generale
divieto di rinnovazione dei permessi di costruire annullati
in sede giurisdizionale per vizi di carattere sostanziale.
La norma non implica, invero, alcun generale divieto di
rinnovazione dei permessi di costruire annullati in sede
giurisdizionale per vizi di carattere sostanziale.
Non può ritenersi, pertanto, che la concessione edilizia in
sanatoria sarebbe ammissibile solo in caso di annullamento
della prima per motivi procedurali o formali, rimanendone,
conseguentemente, esclusa la legittimità in ordine
all'annullamento dell'originaria concessione per motivi
sostanziali di contrarietà allo strumento urbanistico.
A ciò va aggiunto che l'affidamento del privato a poter
conservare l'opera realizzata sulla base di un titolo
edilizio successivamente annullato non é tutelato in via
generale, ma é rimesso alla discrezionalità del legislatore,
al quale compete emanare norme speciali di tutela come la
potenziale commutabilità della sanzione demolitoria in
quella pecuniaria (da cui la disciplina dell’art. 38 d.P.R.
n. 380 del 2001), ovvero un regime di favore in sede di
condono edilizio, come avvenuto con l'art. 39, l. n. 724 del
1994.
Il D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia) all’art. 38 disciplina gli interventi eseguiti in
base a permesso annullato disponendo che “1. In caso di
annullamento del permesso di costruire, qualora non sia
possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei
vizi delle procedure amministrative o la restituzione in
pristino, il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al
valore venale delle opere o loro parti abusivamente
eseguite, valutato dall'Agenzia del territorio, anche sulla
base di accordi stipulati tra quest'ultima e
l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia è
notificata all'interessato dal dirigente o dal responsabile
dell'ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di
impugnativa.
2. L'integrale corresponsione della sanzione
pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso
di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36.
2-bis. Le
disposizioni del presente articolo si applicano anche agli
interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma 3, in caso
di accertamento dell'inesistenza dei presupposti per la
formazione del titolo”.
In applicazione di detta disposizione la giurisprudenza
(Consiglio di Stato Sez. VI, sent. n. 3571 del 13.06.2011) ha affermato il principio che l'annullamento
giurisdizionale del permesso di costruire provoca la
qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate
in base ad esso, per cui il Comune, stante l'efficacia conformativa della sentenza del giudice amministrativo,
oltre che costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a dare
esecuzione al giudicato adottando i provvedimenti
consequenziali.
Tali provvedimenti non devono, peraltro, avere ad oggetto
necessariamente la demolizione delle opere realizzate,
l'art. 38, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, prescrivendo, in
caso di annullamento del permesso di costruire, una nuova
valutazione da parte del dirigente del competente ufficio
comunale riguardo la possibilità di restituzione in
pristino; qualora la demolizione non risulti possibile, il
Comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini
fissati dallo stesso art. 38, D.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Dalla previsione di cui all'art. 38 del DPR 380/2001, che
prevede, come sopra rilevato, la rimozione dei vizi delle
procedure amministrative in caso di permesso di costruire
annullato in via giurisdizionale, non deriva un generale
divieto di rinnovazione dei permessi di costruire annullati
in sede giurisdizionale per vizi di carattere sostanziale.
La norma non implica, invero, alcun generale divieto di
rinnovazione dei permessi di costruire annullati in sede
giurisdizionale per vizi di carattere sostanziale.
Non può ritenersi, pertanto, che la concessione edilizia in
sanatoria sarebbe ammissibile solo in caso di annullamento
della prima per motivi procedurali o formali, rimanendone,
conseguentemente, esclusa la legittimità in ordine
all'annullamento dell'originaria concessione per motivi
sostanziali di contrarietà allo strumento urbanistico
(Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 7731 del 02.11.2010).
A ciò va aggiunto che l'affidamento del privato a poter
conservare l'opera realizzata sulla base di un titolo
edilizio successivamente annullato non é tutelato in via
generale, ma é rimesso alla discrezionalità del legislatore,
al quale compete emanare norme speciali di tutela come la
potenziale commutabilità della sanzione demolitoria in
quella pecuniaria (da cui la disciplina dell’art. 38 d.P.R.
n. 380 del 2001), ovvero un regime di favore in sede di
condono edilizio, come avvenuto con l'art. 39, l. n. 724 del
1994 (Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 4770 del
10.08.2011)
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 08.07.2014 n. 1171 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sull'insussistenza dell'obbligo del concorrente
che dichiari di voler avvalersi del subappalto per alcune
specifiche lavorazioni di indicare già in sede di
presentazione dell'offerta il nominativo dell'impresa
subappaltrice.
Dal combinato disposto degli artt. 37, c. 11, e 118, c. 2,
del D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, e 92 del D.P.R. 05.10.2010,
n. 207, non si evince espressamente l'esistenza dell'obbligo
del concorrente, che dichiari di voler avvalersi del
subappalto per alcune specifiche lavorazioni, di indicare
già in sede di presentazione dell'offerta il nominativo
dell'impresa subappaltrice. L'affidamento in subappalto (o
in cottimo), come espressamente stabilito dal ricordato art.
118, è infatti sottoposto alle seguenti condizioni:
a) che i concorrenti all'atto dell'offerta o l'affidatario,
nel caso di varianti in corso di esecuzione, abbiano
indicato i lavori o le parti di opere che intendono
subappaltare (o concedere in cottimo);
b) che l'affidatario provveda al deposito del contratto di
subappalto presso la stazione appaltante almeno venti giorni
prima della data di effettivo inizio dell'esecuzione delle
relative prestazioni;
c) che al momento del deposito del contratto di subappalto
presso la stazione appaltante l'affidatario trasmetta
altresì la certificazione attestante il possesso da parte
del subappaltatore dei requisiti di qualificazione richiesti
dal presente codice in relazione alla prestazione
subappaltata e la dichiarazione del subappaltatore
attestante il possesso dei requisiti generali di cui
all'art. 38;
d) che non sussista, nei confronti dell'affidatario del
subappaltato (o del cottimo), alcuno dei divieti previsti
dall'art. 10 della l. 31.05.1965, n. 575, e successive
modificazioni.
Del resto, va rimarcata la netta diversità del subappalto
rispetto a quella contenuta nella l. 11.02.1994, n. 109, che
imponeva fin dal momento della formulazione dell'offerta
l'indicazione del nominato dell'impresa subappaltatrice
(previsione peraltro soppressa già dall'art. 9 della l.n.
415 del 1998). Né in senso diverso può invocarsi
l'applicazione nel caso di specie del principio del c.d.
subappalto necessario, elaborato dalla giurisprudenza,
secondo cui la indicazione dell'impresa subappaltatrice già
all'atto della presentazione dell'offerta (e la
dimostrazione del possesso da parte dell'impresa
subappaltatrice dei requisiti di qualificazione) sarebbe
necessaria nelle ipotesi in cui il richiamo al subappalto
sarebbe necessario in ragione del mancato autonomo possesso,
da parte del concorrente, dei necessari requisiti di
qualificazione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.07.2014 n. 3449 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla giurisdizione del Tribunale Superiore delle
Acque Pubbliche.
L'art. 133, c. 1, lett. b) ed f), del c.p.a., in tema di
rapporti di concessione di beni pubblici ed in materia
urbanistico-edilizia e di uso del territorio (incluso il
fenomeno espropriativo), ha salvaguardato la giurisdizione
del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, regolata
dalla previgente normativa, di cui all'art. 143, c. 1, lett.
a), del r.d. n. 1775/1933.
Tale giurisdizione va estesa anche ai provvedimenti che, pur
se promananti da autorità diverse da quelle specificamente
preposte alla tutela delle acque, siano caratterizzati
dall'incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche e
concorrano, in concreto, a disciplinare la realizzazione, la
localizzazione, la gestione e l'esercizio delle opere
idrauliche, ivi compresi pure i provvedimenti espropriativi
o di occupazione d'urgenza delle aree occorrenti per la
realizzazione dell'opera idraulica, oltre agli atti comunque
influenti sulla sua localizzazione sul suo spostamento.
Tale principio rileva indipendentemente dalla ragione che
abbia determinato l'adozione di detti provvedimenti, quindi
anche se non connessi al regime delle acque e quindi anche
se resi necessari dalla tutela dell'ambiente o di un bene
artistico o da valutazioni tecniche in funzione della
salvaguardia dell'incolumità pubblica o ancora da mere
ragioni di opportunità amministrativa.
Pertanto può affermarsi che, mentre esulano dalla
giurisdizione del Tribunale delle Acque delle Acque
Pubbliche (e rientrano in quella del g.a.) i provvedimenti
incidenti sulla materia e sul regime delle acque pubbliche
in via meramente strumentale ed indiretta, vi rientrino i
provvedimenti di approvazione del progetto definitivo per la
realizzazione di una centrale idroelettrica, previa V.I.A.,
gli atti concernenti la costituzione di una servitù
coattiva, mediante procedura espropriativa, per il passaggio
della condotta necessaria per la realizzazione dell'opera,
nonché il relativo permesso di costruzione, atti tutti
incidenti in maniera diretta ed immediata sul regime delle
acque pubbliche.
In particolare è stata ritenuta la sussistenza della
giurisdizione del Tribunale Superiore in caso di impugnativa
di provvedimenti influenti sulla localizzazione dell'opera
idraulica o sul suo spostamento, nonché sulla definizione
delle sue caratteristiche e sulla sua realizzazione, nonché
sui provvedimenti di occupazione ed espropriazione di opere
necessarie per realizzare la condotta idraulica relativa
alla costruzione di una centrale idroelettrica contestata
dal titolare del fondo ove era previsto il transito
interrato di una nuova condotta di adduzione finalizzata
alla canalizzazione delle acque per il successivo
sfruttamento idroelettrico.
---------------
Sussiste la giurisdizione di legittimità del Tribunale
Superiore delle Acque Pubbliche, a norma dell'art. 143, c.
1, lett. a), del r.d. n. 1775 del 1933, oltre che con
riguardo alle questioni investenti gli interessi pubblici
connessi al regime delle acque strettamente inteso
(demanialità delle acque, contenuto o limiti di una
concessione di utenza, nonché questioni di carattere
eminentemente tecnico relative alla distribuzione ed all'uso
delle acque pubbliche ed ai diritti di derivazione o
utilizzazione dell'utenza nei confronti della P.A.), ogni
volta che siano impugnati provvedimenti amministrativi
caratterizzati da incidenza diretta sulla materia delle
acque pubbliche, nel senso che concorrano in concreto a
disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere
idrauliche, i rapporti con i concessionari, oppure a
determinare i modi di acquisto dei beni necessari
all'esercizio e alla realizzazione delle opere stesse, o a
stabilire o modificare la localizzazione di esse o ad
influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o
revoca dei relativi provvedimenti.
Anche la giurisprudenza amministrativa ha affermato la
sussistenza della giurisdizione di legittimità del Tribunale
Superiore delle Acque Pubbliche sui ricorsi avverso i
provvedimenti in materia di acque pubbliche, "allorquando
i provvedimenti impugnati incidono direttamente ed
immediatamente sulla materia delle acque, concorrendo in
concreto a disciplinare la gestione, l'esercizio delle opere
idrauliche, i rapporti con i concessionari ovvero a
determinare i modi di acquisto dei beni necessari
all'esercizio e/o alla realizzazione delle opere stesse o a
stabilirne e/o a modificare la localizzazione di esse o
influire sulla loro realizzazione mediante sospensione o
revoca dei relativi provvedimento...Non rientrano, per
contro, in tale speciale competenza giurisdizionale le
controversie che hanno per oggetto atti solo strumentalmente
inseriti in procedimenti finalizzati ad incidere sul regime
delle acque" (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.07.2014 n. 3436 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per pacifica giurisprudenza, il vincolo
cimiteriale determina una tipica situazione di
inedificabilità ex lege, suscettibile di venire rimossa solo
in ipotesi eccezionali e comunque per considerazioni di
interesse pubblico.
Quanto sopra, in presenza delle condizioni specificate nel
comma 4 dell’art. 338, non anche per agevolare singoli
proprietari, che abbiano effettuato abusivamente, o
intendano effettuare, interventi edilizi su un’area, resa a
tal fine indisponibile per ragioni di ordine
igienico-sanitario, nonché per la peculiare sacralità dei
luoghi destinati alla sepoltura, senza esclusione di
ulteriori esigenze di mantenimento di un’area di possibile
espansione della cinta cimiteriale.
L’unico procedimento, attivabile dai singoli proprietari
all’interno della fascia di rispetto, pertanto, è quello
finalizzato agli interventi di cui all’art. 338, comma 7,
dello stesso r.d. n. 1265/1934 (recupero o cambio di
destinazione d’uso di edificazioni preesistenti), restando
attivabile solo d’ufficio –per i motivi anzidetti– la
procedura di riduzione della fascia inedificabile in
questione.
Fermo restando, quindi, che solo il Consiglio Comunale –non
su istanza di singoli cittadini, ma per ragioni di interesse
pubblico– può intervenire per ridurre l’ampiezza di detta
fascia, per le decisioni da assumere su eventuali istanze di
autorizzazione edilizia, anche in sanatoria, vale il riparto
generale di competenze, che assegna ai dirigenti gli
ordinari atti di gestione (come peraltro ribadito, in
materia di sanatoria, dal terzo comma del citato art. 36
d.P.R. n. 380/2001).
In base al citato art. 338, comma 4, r.d.
n. 1265/1934, infatti, “Il Consiglio Comunale può approvare,
previo parere favorevole delle competete azienda sanitaria
locale, la costruzione di nuovi cimiteri o l’ampliamento di
quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri
dal centro abitato, purché non oltre il limite di 50 metri,
quando ricorrano, anche alternativamente, le seguenti
condizioni:
a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che,
per particolari condizioni locali, non sia possibile
provvedere altrimenti;
b) l’impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da
strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base
della classificazione prevista ai sensi della legislazione
vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti,
ovvero da ponti o da impianti ferroviari”.
La norma sopra riportata ha carattere derogatorio, in via
eccezionale, rispetto alla regola –enunciata al primo comma
del medesimo articolo– secondo cui “I cimiteri debbono
essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal
centro abitato. E’ vietato costruire intorno ai cimiteri
nuovi edifici…”.
Per pacifica giurisprudenza, il vincolo cimiteriale
determina quindi una tipica situazione di inedificabilità ex
lege, suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi
eccezionali e comunque per considerazioni di interesse
pubblico. Quanto sopra, in presenza delle condizioni
specificate nel ricordato comma 4 dell’art. 338, non anche
per agevolare singoli proprietari, che abbiano effettuato
abusivamente, o intendano effettuare, interventi edilizi su
un’area, resa a tal fine indisponibile per ragioni di ordine
igienico-sanitario, nonché per la peculiare sacralità dei
luoghi destinati alla sepoltura, senza esclusione di
ulteriori esigenze di mantenimento di un’area di possibile
espansione della cinta cimiteriale (cfr. Cass. civ. sez. I,
23.06.2004, n. 11669; Cons. St., sez. II, 07.03.1990, parere n.
1109; Cons. St., sez. IV, 11.10.2006, n. 6064; Cons. St.,
sez. V, 02.04.1991, n. 379, 29.03.2006, n. 1593, 03.05.2007, n.
1934 e 14.09.2010, n. 6671).
L’unico procedimento, attivabile dai singoli proprietari
all’interno della fascia di rispetto, pertanto, è quello
finalizzato agli interventi di cui all’art. 338, comma 7,
dello stesso r.d. n. 1265/1934 (recupero o cambio di
destinazione d’uso di edificazioni preesistenti), restando
attivabile solo d’ufficio –per i motivi anzidetti– la
procedura di riduzione della fascia inedificabile in
questione.
Fermo restando, quindi, che solo il Consiglio Comunale –non
su istanza di singoli cittadini, ma per ragioni di interesse
pubblico– può intervenire per ridurre l’ampiezza di detta
fascia, per le decisioni da assumere su eventuali istanze di
autorizzazione edilizia, anche in sanatoria, vale il riparto
generale di competenze, che assegna ai dirigenti gli
ordinari atti di gestione (come peraltro ribadito, in
materia di sanatoria, dal terzo comma del citato art. 36 d.P.R.
n. 380/2001)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.07.2014 n. 3410 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non sfugge al Collegio un orientamento secondo
cui la realizzazione di muri di cinta di altezza inferiore a
tre metri (articolo 878 del Codice civile) sarebbe in ogni
caso assoggettabile al solo regime della denuncia di inizio
di attività di cui all’articolo 22 e, in seguito, al regime
della segnalazione certificata di inizio di attività di cui
al nuovo articolo 19 della l. n. 241 del 1990.
Il Collegio, tuttavia, osserva anzitutto che la norma di cui
all’art. 878 del Codice civile attiene ai rapporti
interprivati nelle costruzioni (non di cognizione del
giudice amministrativo), mentre qui si tratta di
identificare il tipo di titolo edilizio in rapporto
all’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio;
e ritiene che prevalenti ragioni sistematiche inducano a
coniugare il richiamato orientamento con quello secondo cui
la configurabilità di un intervento edilizio quale ‘nuova
costruzione’ (con quanto ne consegue ai fini del previo
rilascio dei necessari titoli abilitativi) debba essere
valutata secondo un’ottica sostanziale, avendo prioritario
riguardo all’effettiva idoneità del singolo intervento a
determinare significative trasformazioni urbanistiche e
edilizie del territorio.
In particolare, indipendentemente dal dato meramente
quantitativo relativo all’altezza del manufatto (nel caso di
specie l’appellante riferisce un’altezza al colmo pari a
1,70 mt.), appare necessario il permesso di costruire nelle
ipotesi in cui il singolo intervento determini un’incidenza
sull’assetto complessivo del territorio di entità ed impatto
tali da produrre un’apprezzabile trasformazione urbanistica
o edilizia.
Si tratta di un’evenienza che ricorre nel caso in esame, dal
momento che –come condivisibilmente osservato dal primo
giudice– il muro di cinta qui non assume una mera funzione
di difesa della proprietà da ingerenze materiali, vale a
dire una funzione strumentale all’esercizio del ius
excludendi alios (il che sarebbe stato possibile anche
attraverso la realizzazione di una semplice cancellata), ma
dà luogo a una significativa e permanente trasformazione
territoriale attraverso un consistente manufatto
caratterizzato da un rilevante ingombro visivo e spaziale,
incidente sul deflusso delle acque e condizionante il
passaggio dell’aria, di per sé non indispensabile in
relazione alla dichiarata funzione di semplice protezione
della proprietà.
Sotto questo aspetto, deve essere qui puntualmente
confermato l’orientamento secondo cui se è vero che la
realizzazione di recinzioni, muri di cinta e cancellate
rimane assoggettata al regime della d.i.a. (in seguito:
s.c.i.a.) laddove non superi in concreto la soglia della
trasformazione urbanistico-edilizia, occorre –invece- il
permesso di costruire, ove detti interventi superino (come
nel caso in esame) tale soglia.
2. L’appello è infondato.
2.1. Risulta dirimente ai fini della presente decisione
stabilire se l’intervento edilizio rientrasse fra quelli di
nuova costruzione (di cui agli articoli 3, comma 1, lettera
e) e 10 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) per i quali è
richiesto il rilascio del permesso di costruire ovvero fra
quelli per i quali è richiesta unicamente la denuncia di
inizio di attività di cui all’articolo 22 del medesimo d.P.R. n. 380 del 2001 (in seguito: segnalazione certificata
di inizio di attività ai sensi dell’articolo 19 della l. 07.08.1990, n. 241, nel testo introdotto dal comma 4-bis
dell’articolo 49 del decreto-legge 31.05.2010, n. 78,
come convertito con modificazioni dalla l. 30.07.2010,
n. 122).
Al riguardo non sfugge al Collegio un orientamento secondo
cui la realizzazione di muri di cinta di altezza inferiore a
tre metri (articolo 878 del Codice civile) sarebbe in ogni
caso assoggettabile al solo regime della denuncia di inizio
di attività di cui all’articolo 22 e, in seguito, al regime
della segnalazione certificata di inizio di attività di cui
al nuovo articolo 19 della l. n. 241 del 1990 (in tal senso:
Cons. Stato, IV, 03.05.2011, n. 2621).
Il Collegio, tuttavia, osserva anzitutto che la norma di cui
all’art. 878 del Codice civile attiene ai rapporti
interprivati nelle costruzioni (non di cognizione del
giudice amministrativo), mentre qui si tratta di
identificare il tipo di titolo edilizio in rapporto
all’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio;
e ritiene che prevalenti ragioni sistematiche inducano a
coniugare il richiamato orientamento con quello secondo cui
la configurabilità di un intervento edilizio quale ‘nuova
costruzione’ (con quanto ne consegue ai fini del previo
rilascio dei necessari titoli abilitativi) debba essere
valutata secondo un’ottica sostanziale, avendo prioritario
riguardo all’effettiva idoneità del singolo intervento a
determinare significative trasformazioni urbanistiche e
edilizie del territorio.
In particolare, indipendentemente dal dato meramente
quantitativo relativo all’altezza del manufatto (nel caso di
specie l’appellante riferisce un’altezza al colmo pari a
1,70 mt.), appare necessario il permesso di costruire nelle
ipotesi in cui il singolo intervento determini un’incidenza
sull’assetto complessivo del territorio di entità ed impatto
tali da produrre un’apprezzabile trasformazione urbanistica
o edilizia.
Si tratta di un’evenienza che ricorre nel caso in esame, dal
momento che –come condivisibilmente osservato dal primo
giudice– il muro di cinta qui non assume una mera funzione
di difesa della proprietà da ingerenze materiali, vale a
dire una funzione strumentale all’esercizio del ius
excludendi alios (il che sarebbe stato possibile anche
attraverso la realizzazione di una semplice cancellata), ma
dà luogo a una significativa e permanente trasformazione
territoriale attraverso un consistente manufatto
caratterizzato da un rilevante ingombro visivo e spaziale,
incidente sul deflusso delle acque e condizionante il
passaggio dell’aria, di per sé non indispensabile in
relazione alla dichiarata funzione di semplice protezione
della proprietà.
Sotto questo aspetto, deve essere qui puntualmente
confermato l’orientamento secondo cui se è vero che la
realizzazione di recinzioni, muri di cinta e cancellate
rimane assoggettata al regime della d.i.a. (in seguito:
s.c.i.a.) laddove non superi in concreto la soglia della
trasformazione urbanistico-edilizia, occorre –invece- il
permesso di costruire, ove detti interventi superino (come
nel caso in esame) tale soglia.
Si aggiunga al riguardo che l’impatto quali-quantitativo
sortito dal manufatto in parola risulta tanto più rilevante
laddove si osservi che è posto su un’affollata zona
litoranea sul cui complessivo equilibrio il manufatto in
questione incide in senso certamente sensibile.
2.1.2. Né può in alcun modo essere condivisa la tesi
dell’appellante il quale sottolinea che l’intervento in
questione si sarebbe limitato al mero ripristino di una
porzione di muro già esistente già al momento dell’acquisto
dell’area (e successivamente crollato), nonché a una modesta
sopraelevazione della recinzione sul lato nord e ovest.
In particolare, anche ad ammettere in punto di fatto la
circostanza per cui l’appellante avrebbe realizzato la mera
ricostruzione di un muro in larga parte già esistente, ciò
non esclude la configurabilità dell’intervento in questione
quale ‘nuova costruzione’ ai sensi dell’articolo 3, comma 1,
lettera e) del d.P.R. n. 380 del 2001., sussistendone tutti
relativi presupposti.
In particolare, le opere realizzate dall’odierno appellante,
in quanto sostitutive di interventi edilizi mai in
precedenza assistiti da alcun titolo abilitativo, erano da
qualificarsi comunque quali interventi di ‘nuova
costruzione’, irrilevante essendo –ai fini
dell’individuazione della disciplina applicabile- il dato
solo materiale relativo alla preesistenza fisica delle opere (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.07.2014 n. 3408 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PATRIMONIO:
La sdemanializzazione di un bene pubblico, quando
non derivi da un provvedimento espresso, deve risultare da
altri atti o comportamenti univoci da parte
dell’amministrazione proprietaria i quali siano concludenti
e incompatibili con la volontà di quest'ultima di conservare
la destinazione del bene stesso all’uso pubblico, oppure da
circostanze tali da rendere non configurabile un'ipotesi
diversa dalla definitiva rinuncia al ripristino della
funzione pubblica del bene.
Ne consegue che la sdemanializzazione non si può desumere
dal mero fatto che il bene non sia più adibito, per un certo
tempo a detto uso.
In ogni caso il Collegio
ritiene che nel caso in esame debba essere richiamato
l’orientamento secondo cui la sdemanializzazione di un bene
pubblico, quando non derivi da un provvedimento espresso,
deve risultare da altri atti o comportamenti univoci da
parte dell’amministrazione proprietaria i quali siano
concludenti e incompatibili con la volontà di quest'ultima
di conservare la destinazione del bene stesso all’uso
pubblico, oppure da circostanze tali da rendere non
configurabile un'ipotesi diversa dalla definitiva rinuncia
al ripristino della funzione pubblica del bene. Ne consegue
che la sdemanializzazione non si può desumere dal mero fatto
che il bene non sia più adibito, per un certo tempo a detto
uso (in tal senso: Cons. Stato, IV, 14.12.2002, n. 6923) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.07.2014 n. 3408 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di mancato
rispetto del termine fissato dall'art. 146, comma 5,…il
potere della Soprintendenza continua a sussistere.
La perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del
potere o la legittimità del parere, ma l'obbligo di
concludere la fase del procedimento.
2. Sulla tardività del parere della Soprintendenza:
Neppure può trovare accoglimento la censura di tardività del
parere. Come già più volte ribadito da questo Tribunale, non
vi è infatti nell’invocato articolo 146 del Codice dei beni
culturali e del paesaggio alcuna espressa comminatoria di
decadenza della Soprintendenza dall’esercizio del relativo
potere, decorso il termine ivi previsto. In tal senso si è
espresso anche il Consiglio di Stato: “nel caso di mancato
rispetto del termine fissato dall'art. 146, comma 5,…il
potere della Soprintendenza continua a sussistere”, “la
perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del
potere o la legittimità del parere, ma l'obbligo di
concludere la fase del procedimento” (sezione VI, sentenza
n. 4914/2013) (TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 04.07.2014 n. 1195 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sull'illegittimità della clausola di un bando di
gara che prevede la certificazione sin dal momento della
presentazione della domanda a pena di esclusione, esulando
tale prescrizione dall'art. 46, c. 1-bis, d.lgs. 163/2006.
In materia di servizi e forniture, nell'assenza di un
sistema accreditato di qualificazione (che, viceversa, per
gli appalti di lavori pubblici è rimesso alle SOA, cui
compete anche l'attestazione del possesso della
certificazione di qualità aziendale), l'art. 43, d.lgs. n.
163 del 2006, stabilisce che le stazioni appaltanti, qualora
richiedano la presentazione di certificazione di qualità
aziendale rilasciata da organismi indipendenti, fanno
riferimento ai sistemi di assicurazione della qualità basati
su una serie di norme europee in materia e certificati di
organismi conformi alle norme europee relative alla
certificazione; in ogni caso, le stazioni appaltanti
riconoscono i certificati equivalenti rilasciati da
organismi stabiliti in altri Stati membri ed ammettono
parimenti altre prove relative all'impiego di misure
equivalenti di garanzia della qualità prodotte dagli
operatori economici.
Si tratta di una norma che, nell'ammettere la produzione in
gara di "certificati equivalenti" e di "altre
prove relative all'impiego di misure equivalenti di garanzia",
codifica principi di carattere generale, essendo finalizzata
a favorire la più ampia partecipazione degli operatori
economici alla gare pubbliche in condizioni di parità e di
non discriminazione, oltre che a garantire la ragionevolezza
e la proporzionalità dei requisiti soggettivi di
partecipazione.
Ciò determina la conseguenza che, pur essendo il possesso
del requisito elemento essenziale, è illegittima la clausola
che ne prevede la certificazione sin dal momento della
presentazione della domanda a pena di esclusione, esulando
tale prescrizione in via escludente dagli elementi indicati
dall'art. 46, c. 1-bis, d.lgs. 163/2006 che ha introdotto il
principio della tassatività delle clausole di esclusione,
limitando la discrezionalità delle stazioni appaltanti in
tal senso. La tassatività delle ipotesi di esclusione,
infatti, assurge ormai a principio generale relativo ai
contratti pubblici e costituisce specificazione del
principio di proporzionalità (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 02.07.2014 n. 3621 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sull'irrilevanza dell'apposizione alle
dichiarazioni ex art. 38 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 e
ss.mm.ii., relative a terzi, della precisazione "per quanto
a propria conoscenza".
E' irrilevante l'apposizione alle dichiarazioni ai sensi
dell'art. 38 del d.lgs. 12.04.2006 n. 163 ss.mm.ii. relative
a terzi della precisazione "per quanto a propria
conoscenza", in quanto aderente al dato normativo
contenuto nell'art. 47, co. 2, del d.P.R. 28.12.2000 n. 445,
a cui rimanda il detto art. 38, il quale dispone che "la
dichiarazione resa nell'interesse proprio del dichiarante
può riguardare anche stati, qualità personali e fatti
relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta
conoscenza"; pertanto siffatta precisazione non può
considerarsi alla stregua di una esclusione di
responsabilità del dichiarante, che nel rendere la
dichiarazione si assume le conseguenze ad essa riconnesse,
ma di un semplice richiamo al dato normativo.
Inoltre, il dichiarante non è tenuto ad indicare le ragioni
per le quali non ha potuto produrre le dichiarazioni dei
diretti interessati, quindi l'eventuale omissione di
siffatta indicazione non può costituire causa di esclusione
dalla gara, ben potendo invece la stazione appaltante -a
fronte di una compiuta identificazione di tali soggetti-
procedere essa stessa alle opportune verifiche, anche
attraverso il casellario giudiziale e altri archivi pubblici
ai quali essa ha accesso, diversamente dal dichiarante
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 02.07.2014 n. 3325 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
fiumi e i torrenti sono soggetti a tutela paesistica di per
sé stessi, a prescindere dall’iscrizione negli elenchi delle
acque pubbliche, che ha efficacia costitutiva del vincolo
paesaggistico solo per le acque fluenti di minori dimensioni
e importanza, vale a dire per i corsi d’acqua che non sono
né fiumi né torrenti.
Per quanto detto poi innanzi, con riguardo alla presenza del
vincolo paesaggistico e con riferimento all'ultimo motivo di
appello ripreso dai motivi aggiunti in primo grado, il
Collegio rileva:
a) la legittimità dell'acquisizione al patrimonio comunale
del bene abusivo a seguito dell'inottemperanza all'ordine di
demolizione e alla mancata presentazione nel termine
(peraltro prorogato) dell'istanza di permesso di costruire
in sanatoria;
b) che dagli accertamenti tecnici effettuati dal Comune di
Drapia è emerso che il fabbricato è stato costruito nella
fascia di rispetto di 150 metri dalla sponda o piedi
d'argine del torrente Lumia, in area dunque sottoposta a
vincolo paesaggistico ai sensi degli articoli 142 e seguenti
del d.lgs. n. 42 del 2004.
E', infatti, priva di consistenza l'argomentazione
dell'appellante in ordine alla non soggezione a vincolo del
citato torrente perché non ricompreso nell'elenco delle
acque pubbliche. Vale invero rammentare che i fiumi e i
torrenti sono soggetti a tutela paesistica di per sé stessi,
a prescindere dall’iscrizione negli elenchi delle acque
pubbliche, che ha efficacia costitutiva del vincolo
paesaggistico solo per le acque fluenti di minori dimensioni
e importanza, vale a dire per i corsi d’acqua che non sono
né fiumi né torrenti (Cons. Stato, VI, 04.02.2002, n. 657).
Il fabbricato in questione non è, quindi, sanabile e bene ha
provveduto l’Amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.06.2014 n. 3264 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
GESTIONALI:
La riforma delle autonomie locali e la parallela
affermazione del principio di distinzione tra la funzione di
indirizzo politico-amministrativo e le attività di gestione
amministrativa rendono evidente, infatti, che il rilascio di
provvedimenti edilizi spetta ai dirigenti del competente
servizio, anche in mancanza di un'espressa disposizione
statutaria o regolamentare che recepisca la norma generale.
Nel merito e con riferimento al primo degli atti impugnati,
non sussistono dubbi in ordine alla denunciata incompetenza
dell'organo che ha adottato la nota del 17.10.2002 (recante
la firma dell’assessore all’urbanistica).
La riforma delle autonomie locali e la parallela
affermazione del principio di distinzione tra la funzione di
indirizzo politico-amministrativo e le attività di gestione
amministrativa rendono evidente, infatti, che il rilascio di
provvedimenti edilizi spetta ai dirigenti del competente
servizio, anche in mancanza di un'espressa disposizione
statutaria o regolamentare che recepisca la norma generale
(Cons. Stato, sez. V, 09.10.2007, n. 5232 e 28.12.2001, n.
6465; TAR Napoli, sez. VI, 07.11.2012, n. 4441) (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 27.06.2014 n.
1142 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
La mancata impugnazione
dell'atto impositivo del vincolo (come della dichiarazione
di pubblica utilità) preclude la possibilità di farne valere
l'illegittimità derivata in sede di impugnativa di atti
successivi.
Costituisce principio pacifico
in seno al procedimento espropriativo, infatti, che la
mancata impugnazione dell'atto impositivo del vincolo (come
della dichiarazione di pubblica utilità) preclude la
possibilità di farne valere l'illegittimità derivata in sede
di impugnativa di atti successivi (ex multis TAR
Piemonte 21.05.2010, n. 2438; Cons. Stato, sez. IV,
15.05.2008, n. 2246).
Ne conseguirebbe l’inammissibilità del gravame per difetto
di interesse, poiché la ricorrente si duole, sotto il
profilo sostanziale, dell'illegittimità degli atti impugnati
proprio in relazione all'irragionevolezza e al difetto di
proporzionalità della scelta urbanistica, divenuta non
modificabile stante la perdurante efficacia dell'inoppugnata
deliberazione, resa intangibile dalla mancata tempestiva
impugnazione (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 27.06.2014 n.
1142 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Per recinzione deve intendersi un manufatto
essenzialmente destinato a delimitare una determinata
proprietà allo scopo di separarla dalle altre, di custodirla
e difenderla da intrusioni, secondo la nozione elaborata
dalla giurisprudenza civile in materia di muro di cinta ex
art. 878 c.c..
Sotto il profilo amministrativo, si è ritenuto che la posa
di una recinzione, anche in muratura, da parte del
proprietario, non ha di per sé il fine di imprimere all'area
una destinazione diversa da quella prevista dalle norme
urbanistiche, essendo solo diretta a far valere lo ius
excludendi alios che costituisce contenuto tipico del
diritto di proprietà. Secondo detta linea interpretativa,
anche la presenza di un vincolo di P.R.G. non può incidere
di per sé negativamente sulla potestà del dominus di
chiudere in qualunque tempo il proprio fondo ai sensi
dell'art. 841 c.c., tramite la costruzione di una
recinzione.
La descritta facoltà è legittimamente sacrificabile
solamente quando ricorrano le condizioni previste
dall'ordinamento in funzione di superiori interessi
pubblici, dei quali va dato conto nella motivazione
attraverso il loro bilanciamento con le opposte ragioni di
cui sono portatori i soggetti privati coinvolti: così il
P.R.G. -in materia di recinzioni della proprietà privata-
può dettare particolari prescrizioni ispirate a fini di
tutela ambientale, ad esempio individuando particolari
modalità costruttive da adottare e disponendo l'uso di
specifici materiali, purché ciò avvenga nel rispetto del
principio generale di buona amministrazione, sancito
dall'art. 97 della Carta costituzionale, e dei canoni di
logicità, equità, imparzialità ed economicità, nonché delle
norme di diritto positivo di carattere inderogabile.
È di conseguenza inammissibile un generalizzato divieto di
recinzione dei fondi, perché esso sostanzialmente elimina un
attributo essenziale tipico del diritto di proprietà,
espressamente confermato dalla richiamata disciplina
codicistica. In questo senso, neppure la presenza del
vincolo espropriativo derivante da una previsione di piano
regolatore priva il proprietario di tale diritto, né è con
esso incompatibile, posto che tale previsione si limita ad
attribuire al fondo una qualità giuridica, esponendolo
all’acquisizione alla mano pubblica, ma non lo sottrae alla
disponibilità del proprietario fino a quando non vengano
emessi idonei atti ablativi (di espropriazione o di
occupazione d’urgenza) previa dichiarazione di pubblica
utilità dell’opera.
Né, d’altra parte, la realizzazione della recinzione
costituisce fattore ostativo -sul piano giuridico o
materiale- alla futura ed eventuale attuazione del vincolo.
Va premesso che per recinzione
deve intendersi un manufatto essenzialmente destinato a
delimitare una determinata proprietà allo scopo di separarla
dalle altre, di custodirla e difenderla da intrusioni,
secondo la nozione elaborata dalla giurisprudenza civile in
materia di muro di cinta ex art. 878 c.c. (cfr. Cass. civ.,
sez. II 03.09.1991 n. 9348 e 15.11.1986 n. 6737).
Sotto il profilo amministrativo, si è ritenuto -con
impostazione già condivisa da questa sezione (TAR Piemonte,
sez. I - sentenza 22.05.2013 n. 617)- che la posa di una
recinzione, anche in muratura, da parte del proprietario,
non ha di per sé il fine di imprimere all'area una
destinazione diversa da quella prevista dalle norme
urbanistiche, essendo solo diretta a far valere lo ius
excludendi alios che costituisce contenuto tipico del
diritto di proprietà. Secondo detta linea interpretativa,
anche la presenza di un vincolo di P.R.G. non può incidere
di per sé negativamente sulla potestà del dominus di
chiudere in qualunque tempo il proprio fondo ai sensi
dell'art. 841 c.c., tramite la costruzione di una recinzione
(TAR Napoli, sez. II 04.02.2005 n. 803; TAR Milano, sez. II,
11.02.2005, n. 367).
La descritta facoltà è legittimamente sacrificabile
solamente quando ricorrano le condizioni previste
dall'ordinamento in funzione di superiori interessi
pubblici, dei quali va dato conto nella motivazione
attraverso il loro bilanciamento con le opposte ragioni di
cui sono portatori i soggetti privati coinvolti: così il
P.R.G. -in materia di recinzioni della proprietà privata-
può dettare particolari prescrizioni ispirate a fini di
tutela ambientale, ad esempio individuando particolari
modalità costruttive da adottare e disponendo l'uso di
specifici materiali, purché ciò avvenga nel rispetto del
principio generale di buona amministrazione, sancito
dall'art. 97 della Carta costituzionale, e dei canoni di
logicità, equità, imparzialità ed economicità, nonché delle
norme di diritto positivo di carattere inderogabile (TAR
Friuli Venezia Giulia, 23.07.2001, n. 421).
È di conseguenza inammissibile un generalizzato divieto di
recinzione dei fondi, perché esso sostanzialmente elimina un
attributo essenziale tipico del diritto di proprietà,
espressamente confermato dalla richiamata disciplina
codicistica. In questo senso, neppure la presenza del
vincolo espropriativo derivante da una previsione di piano
regolatore priva il proprietario di tale diritto, né è con
esso incompatibile, posto che tale previsione si limita ad
attribuire al fondo una qualità giuridica, esponendolo
all’acquisizione alla mano pubblica, ma non lo sottrae alla
disponibilità del proprietario fino a quando non vengano
emessi idonei atti ablativi (di espropriazione o di
occupazione d’urgenza) previa dichiarazione di pubblica
utilità dell’opera (TAR Milano, sez. II, 11.02.2005, n. 367;
TAR Brescia, sez. I, 05.02.2008, n. 40; TAR Bari sez. III,
22.02.2006, n. 572).
Né, d’altra parte, la realizzazione della recinzione
costituisce fattore ostativo -sul piano giuridico o
materiale- alla futura ed eventuale attuazione del vincolo
(TAR Milano, sez. II, 19.06.2009, n. 4072) (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 27.06.2014 n.
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APPALTI: L'onere
di immediata impugnazione del bando di concorso è
circoscritto al caso della contestazione di clausole
escludenti, riguardanti requisiti di partecipazione, che
siano “ex se” ostative all'ammissione dell'interessato, o,
al più, impositive, ai fini della partecipazione, di oneri
manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati
per eccesso rispetto ai contenuti della procedura
concorsuale, dovendo le altre clausole essere ritenute
lesive ed impugnate insieme con l'atto di approvazione della
graduatoria definitiva, che definisce la procedura
concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal
provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della
situazione soggettiva.
Invero, a fronte di una clausola illegittima della “lex
specialis” di gara, ma non impeditiva della partecipazione,
il concorrente non è ancora titolare di un interesse attuale
all'impugnazione, poiché non sa ancora se l'astratta e
potenziale illegittimità della predetta clausola si
risolverà in un esito negativo della sua partecipazione alla
procedura concorsuale, e quindi in una effettiva lesione
della situazione soggettiva che solo da tale esito può
derivare.
Ritiene la Sezione che le censure in esame non siano
condivisibili perché condivide il tradizionale e prevalente
insegnamento giurisprudenziale, secondo cui l'onere di
immediata impugnazione del bando di concorso è circoscritto
al caso della contestazione di clausole escludenti,
riguardanti requisiti di partecipazione, che siano “ex se”
ostative all'ammissione dell'interessato, o, al più,
impositive, ai fini della partecipazione, di oneri
manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati
per eccesso rispetto ai contenuti della procedura
concorsuale (Consiglio di Stato, Sez. V, 21.11.2011, n.
6135), dovendo le altre clausole essere ritenute lesive ed
impugnate insieme con l'atto di approvazione della
graduatoria definitiva, che definisce la procedura
concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal
provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della
situazione soggettiva; invero, a fronte di una clausola
illegittima della “lex specialis” di gara, ma non
impeditiva della partecipazione, il concorrente non è ancora
titolare di un interesse attuale all'impugnazione, poiché
non sa ancora se l'astratta e potenziale illegittimità della
predetta clausola si risolverà in un esito negativo della
sua partecipazione alla procedura concorsuale, e quindi in
una effettiva lesione della situazione soggettiva che solo
da tale esito può derivare (Consiglio di Stato, sez. III,
10.12.2013, n. 5909)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.06.2014 n. 3203 - link a
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APPALTI:
In materia di appalti pubblici, il silenzio
serbato dalla stazione appaltante a seguito di informativa
in ordine all'intento di proporre ricorso giurisdizionale ex
art. 243-bis del d.lgs. n. 163/2006 non corrisponde alla
figura del silenzio-rigetto, perché il testo della norma
lascia intendere che il legislatore non abbia voluto dar
vita a un procedimento contenzioso o para-contenzioso a
tutela di una posizione giuridica soggettiva, ma solo
offrire all'Ente pubblico l'opportunità di un riesame in via
di autotutela; l’inerzia al riguardo nulla aggiunge
all’assetto di interessi previsto nel provvedimento
principale e da punto di vista sostanziale ha contenuto
meramente confermativo, che, non essendo foriero di autonomi
effetti lesivi, non è suscettibile di doverosa impugnazione.
L'impresa partecipante alla gara per l'affidamento di un
pubblico appalto non ha quindi l'onere di impugnare il
diniego espresso (o il silenzio) della stazione appaltante
sull'istanza di ritiro perché la disposizione contenuta
nell'ultimo comma dell'art. 243-bis del d.lgs. n. 163/2006,
in virtù della quale "il diniego totale o parziale di
autotutela, espresso o tacito, è impugnabile solo unitamente
all'atto cui si riferisce, ovvero, se quest'ultimo è già
stato impugnato, con motivi aggiunti", è da considerare
norma meramente processuale, volta ad assicurare che la
necessaria impugnazione del provvedimento lesivo e quella
(soltanto eventuale) del diniego di autotutela, siano
trattate nell'ambito di un "simultaneus processus".
La non obbligatorietà dell’impugnazione di detto silenzio
rende inidonea la mancata formulazione di specifiche censure
al riguardo con il ricorso introduttivo del giudizio a
comportarne l’inammissibilità nella parte in cui è volto
all’annullamento degli ulteriori provvedimenti concretamente
lesivi.
La Sezione condivide al
riguardo al giurisprudenza secondo la quale, in materia di
appalti pubblici, il silenzio serbato dalla stazione
appaltante a seguito di informativa in ordine all'intento di
proporre ricorso giurisdizionale ex art. 243-bis del d.lgs.
n. 163/2006 non corrisponde alla figura del
silenzio-rigetto, perché il testo della norma lascia
intendere che il legislatore non abbia voluto dar vita a un
procedimento contenzioso o para-contenzioso a tutela di una
posizione giuridica soggettiva, ma solo offrire all'Ente
pubblico l'opportunità di un riesame in via di autotutela;
l’inerzia al riguardo nulla aggiunge all’assetto di
interessi previsto nel provvedimento principale e da punto
di vista sostanziale ha contenuto meramente confermativo,
che, non essendo foriero di autonomi effetti lesivi, non è
suscettibile di doverosa impugnazione (Consiglio di Stato,
sez. III, 29.12.2012, n. 6712).
L'impresa partecipante alla gara per l'affidamento di un
pubblico appalto non ha quindi l'onere di impugnare il
diniego espresso (o il silenzio) della stazione appaltante
sull'istanza di ritiro perché la disposizione contenuta
nell'ultimo comma dell'art. 243-bis del d.lgs. n. 163/2006,
in virtù della quale "il diniego totale o parziale di
autotutela, espresso o tacito, è impugnabile solo unitamente
all'atto cui si riferisce, ovvero, se quest'ultimo è già
stato impugnato, con motivi aggiunti", è da considerare
norma meramente processuale, volta ad assicurare che la
necessaria impugnazione del provvedimento lesivo e quella
(soltanto eventuale) del diniego di autotutela, siano
trattate nell'ambito di un "simultaneus processus".
La non obbligatorietà dell’impugnazione di detto silenzio
rende inidonea la mancata formulazione di specifiche censure
al riguardo con il ricorso introduttivo del giudizio a
comportarne l’inammissibilità nella parte in cui è volto
all’annullamento degli ulteriori provvedimenti concretamente
lesivi
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.06.2014 n. 3203 - link a
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APPALTI:
E' da considerare
illegittimo il criterio di valutazione dell'offerta prezzo
che, mediante una formula aritmetica, conduca ad esiti
opposti a quelli prefissati dal bando, dal momento che,
anche se i criteri di attribuzione dei punteggi all’offerta
economica possono essere molteplici, ciò che conta è che,
nell'assegnazione degli stessi, venga utilizzata tutta la
potenziale gamma differenziale prevista; ciò in particolare
con riguardo alla voce prezzo, al fine di evitare uno
svuotamento della sostanziale efficacia della componente
economica dell'offerta.
Se è vero che la Commissione di gara per l'individuazione
dell'offerta economicamente più vantaggiosa,
nell'attribuzione del punteggio agli elementi costituenti
l'offerta tecnica, gode di ampia discrezionalità, tuttavia
questa può essere oggetto di sindacato giurisdizionale
quando, come nel caso che occupa, presenti macroscopiche
irrazionalità e incongruenze, tenuto conto che la gamma di
attribuzione di punteggi per l’offerta economica con la
formula in questione oscillava in pochi punti e che il bando
aveva stabilito che l’individuazione della offerta
economicamente più vantaggiosa sarebbe stata effettuata con
il metodo aggregativo compensatore di cui all’allegato “G”
al d.P.R. n. 207/2010, che invece attribuisce rilevanza al
ribasso percentuale offerto.
Ciò posto, nessun rilievo può assumere, con riguardo alla
legittimità della clausola in questione, la circostanza che
con il bando la stazione appaltante si fosse auto vincolata
al suo rispetto e che i partecipanti avessero fatto
affidamento su di essa.
Osserva in proposito la Sezione
che al riguardo non possono che condividersi le
argomentazioni riguardo all’inidoneità della formula in
questione a garantire un idoneo apprezzamento della offerta
economica mediante attribuzione di punteggi simili a fronte
di offerte recanti percentuali di ribasso notevolmente
diverse, secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale in materia, per il quale è da considerare
illegittimo il criterio di valutazione dell'offerta prezzo
che, mediante una formula aritmetica, conduca ad esiti
opposti a quelli prefissati dal bando, dal momento che,
anche se i criteri di attribuzione dei punteggi all’offerta
economica possono essere molteplici, ciò che conta è che,
nell'assegnazione degli stessi, venga utilizzata tutta la
potenziale gamma differenziale prevista; ciò in particolare
con riguardo alla voce prezzo, al fine di evitare uno
svuotamento della sostanziale efficacia della componente
economica dell'offerta (Consiglio di Stato, sez. V,
15.07.2013, n. 3802 e 31.03.2012, n. 1899).
Se è vero che la Commissione di gara per l'individuazione
dell'offerta economicamente più vantaggiosa,
nell'attribuzione del punteggio agli elementi costituenti
l'offerta tecnica, gode di ampia discrezionalità, tuttavia
questa può essere oggetto di sindacato giurisdizionale
quando, come nel caso che occupa, presenti macroscopiche
irrazionalità e incongruenze, tenuto conto che la gamma di
attribuzione di punteggi per l’offerta economica con la
formula in questione oscillava in pochi punti e che il bando
aveva stabilito che l’individuazione della offerta
economicamente più vantaggiosa sarebbe stata effettuata con
il metodo aggregativo compensatore di cui all’allegato “G”
al d.P.R. n. 207/2010, che invece attribuisce rilevanza al
ribasso percentuale offerto.
Ciò posto, nessun rilievo può assumere, con riguardo alla
legittimità della clausola in questione, la circostanza che
con il bando la stazione appaltante si fosse auto vincolata
al suo rispetto e che i partecipanti avessero fatto
affidamento su di essa
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.06.2014 n. 3203 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Nelle gare d'appalto niente orticelli per le università.
Il consiglio di stato dice no all'affidamento di attività
reperibili sul mercato da operatori privati.
Le università non possono essere affidatarie da altre
amministrazioni di attività che potrebbero essere acquisite
sul mercato da altri operatori privati; illegittimo
l'accordo di cooperazione anche se prevede il solo rimborso
spese; illegittima la gara riservata alle sole università.
È
quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 23.06.2014 n. 3130, con riguardo ad una
gara di importo pari a 195.000 euro per l' affidamento, con
accordo di collaborazione ex art. 15 della legge 241/1990,
della redazione del Piano di governo del territorio (Pgt)
comunale, aperta ai soli istituti universitari, pubblici e
privati.
Il Consiglio di stato, ribaltando la sentenza di
primo grado su ricorso della Consulta regionale degli ordini
della Lombardia, premetteva che nel caso specifico il
contratto non conteneva una «disciplina» di attività comuni
agli enti, ma regolava gli interessi tra un ente pubblico
che offriva prestazioni di ricerca e consulenza deducibili
in contratti di appalto pubblico di servizi ed un diverso
ente pubblico che, conformandosi a precetti normativi,
domandava tali prestazioni in quanto strumentali allo
svolgimento dei propri compiti istituzionali. Pertanto era
«da escludere la configurabilità di una cooperazione tra
enti pubblici finalizzata a garantire l'adempimento di una
funzione di servizio pubblico comune a questi ultimi».
Secondo i giudici di palazzo Spada, gli obiettivi delle
direttive sugli appalti e di tutto il diritto europeo,
consistono, in positivo, nell'imporre alle amministrazioni
il rispetto della concorrenza laddove debba affidare
attività economicamente contendibili e, in negativo,
nell'escludere la gara quando non vi siano rischi di
distorsioni del mercato interno.
Pertanto si può parlare di
accordi fra amministrazioni quando si tratta di
«disciplinare attività non deducibili in contratti di
diritto privato, perché non inquadrabili in alcuna delle
categorie di prestazioni elencate nell'allegato II-A alla
direttiva 2004/18» e non quando un'amministrazione,
come, nel caso specifico, una Università, si ponga rispetto
all'accordo come operatore economico (prestatore di
servizi), verso un corrispettivo anche non implicante il
riconoscimento di un utile economico, ma solo il rimborso
dei costi
(articolo ItaliaOggi del 10.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Legittima la «fee» sulla gara digitale.
Appalti. Per il Consiglio di Stato.
La forte spinta al
risparmio presente nel decreto legge 66/2014, con centrali
uniche di committenza, trova conferma in alcuni casi di
acquisti effettuati attraverso gare telematiche, esaminate
dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con
sentenza 17.06.2014 n. 3042.
La vicenda riguardava la Provincia di Bolzano e l'appalto
per la fornitura di mezzi di contrasto per esami
radiologici. La Bayer era stata esclusa da un appalto che
partiva dal prezzo base di 170mila euro, perché non aveva
accettato la clausola che le imponeva, se vincitrice, il
pagamento di un corrispettivo al gestore del sistema
telematico. Il bando infatti imponeva a chi fosse risultato
aggiudicatario di versare un corrispettivo al gestore del
sistema (nel caso specifico, pari al 0,4% dell'importo
aggiudicato). Occorreva infatti presentare una dichiarazione
di accettazione del corrispettivo dovuto al gestore del
sistema telematico di acquisto.
Il Codice degli appalti consente alle stazioni appaltante di
avvalersi, nella scelta del contraente, di un soggetto,
anche esterno alle stazioni medesime, per la gestione
tecnica dei sistemi informatici di negoziazione e ciò,
insieme con una previsione normativa di principio, consente
alle stazioni appaltanti di porre a carico dell'impresa
aggiudicataria la remunerazione dei costi di funzionamento
del sistema informatico di negoziazione.
Una generica possibilità di rivolgersi agli aggiudicatari
per tali spese, è prevista qualora si utilizzi il sistema
informatico di negoziazione predisposto dal ministero
dell'Economia. La norma cardine, poi, è prevista nella legge
di contabilità di Stato 2240/1923, articolo 16-bis, secondo
la quale sono poste a carico del contraente privato le spese
contrattuali (di copia, stampa, carta bollata e tutte le
altre inerenti i contratti). Ed in effetti anche la
contribuzione alle spese dei sistemi informatici di gara,
sotto forma di commissioni di transazione, può qualificarsi
come spesa contrattuale, che si sostituisce alle vecchie
spese inerenti i contratti stipulati secondo forme non
telematiche: in conseguenza è possibile chiedere ai
concorrenti di versare un corrispettivo, se aggiudicatari,
in proporzione all'importo assegnato.
Del resto, osserva il Consiglio di Stato, attraverso aste
elettroniche e gare telematiche diventa più agevole la
partecipazione e quindi più imprese possono concorrere,
anche se logisticamente distanti rispetto al luogo di
svolgimento della gara, con risparmi di costi gravanti sulle
imprese. Quindi, in definitiva le modalità di gara
telematica sono un beneficio per le stesse imprese
partecipanti, e da ciò deriva la possibilità di porre a
carico dell'impresa aggiudicataria una commissione di
transazione. Oltretutto, la commissione transazione (transaction
fee) non grava sulle imprese concorrenti in ragione della
mera partecipazione, ma è imposta esclusivamente all'impresa
che diventa aggiudicataria. Questa spesa contrattuale, va
calcolata già in sede di formulazione dell'offerta e quindi
non comporta un'unilaterale prestazione patrimoniale imposta
che l'articolo 23 della Costituzione ammette solo con una
copertura legislativa.
Inoltre, il Codice degli appalti
vieta che si pongano a carico degli operatori economici
contributi di carattere amministrativo, ma al solo fine di
ostacolare albi o elenchi di operatori ammessi al sistema,
in cui l'imposizione di un contributo di carattere
amministrativo graverebbe sulle imprese partecipanti in
quanto tali, a prescindere dall'aggiudicazione del singolo
appalto (articolo Il Sole 24 Ore del 10.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO: Terrazzo, paga chi fa il danno.
Quando c' è stata incuria va adottato il principio della
responsabilità.
Infiltrazioni. Il sistema di ripartizione un terzo-due terzi
non funziona se la colpa è imputabile.
La II Sez. civile
della Corte di Cassazione, con
ordinanza
13.06.2014 n. 13526
(presidente Triola, relatore D'Ascola), torna sul tema del
risarcimento dei danni da infiltrazioni all'appartamento
sottostante al lastrico solare: chi deve pagare le spese?
Secondo la seconda sezione, che ha rimesso la questione alle
sezioni unite, quando un condomino o un terzo subisce un
danno, non c'è un obbligo di ripartire le "spese"
condominiali in base agli articoli 1123 e seguenti del
Codice civile, quanto di risarcire lo stesso ai sensi degli
articoli 2043 e seguenti. Quindi va individuato il
responsabile del danno e questo (che sia il condominio nel
suo complesso per la mancata manutenzione o il singolo
titolare dell'uso esclusivo per la cattiva gestione del
lastrico) dovrà pagare tutto il danno.
Esula dunque dal contenuto e dagli obiettivi degli articoli
1123 e seguenti l'ipotesi del danno arrecato a terzi, in
quanto il "danno" è l'elemento materiale della fattispecie
di illecito civile. Quando ricorre un danno sorge infatti
non un obbligo di "spesa", ma un obbligo risarcitorio. Così,
quando le spese necessarie per la manutenzione delle parti
comuni dell'edificio e per l'eliminazione dei pregiudizi
arrecati (proprio a causa dell'omessa manutenzione o
riparazione di quelle parti) alle singole unità immobiliari
di proprietà esclusiva, o comunque a terzi, abbiano la loro
fonte in una particolare condotta, commissiva od omissiva di
uno o più condomini, andrebbe unicamente affermata la
responsabilità di questi ultimi, ai sensi dell'articolo 2043
del Codice civile, dedicato proprio al «risarcimento per
fatto illecito». E il soggetto danneggiato (anche se a sua
volta sia un condòmino) assume la posizione di terzo
rispetto ai condomini responsabili dell'omessa manutenzione
o del cattivo uso del bene.
Nella sentenza impugnata davanti alla Suprema corte, la
Corte d'appello di Roma aveva fatto applicazione del
principio affermato diciassette anni fa dalle sezioni unite
(sentenza 3672/1997) secondo la quale dei danni causati
all'appartamento sottostante per le infiltrazioni d'acqua
provenienti dal lastrico o dal terrazzo a livello di
proprietà o di uso esclusivo, deteriorato per difetto di
manutenzione, rispondono, in base alle proporzioni stabilite
dall'articolo 1126 del Codice civile, tutti i condomini ai
quali il bene stesso serve da copertura. Che quindi sono
chiamati a pagare in proporzione dei due terzi, mentre il
titolare della proprietà superficiaria o dell'uso esclusivo
del lastrico o del terrazzo nella misura del terzo residuo.
Nell'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, invece, i
giudici della Seconda Sezione evidenziano come gli obblighi
di contribuzione alle spese (articoli 1123, 1125 e 1126)
riguardino il diritto dei proprietari e l'utilità che essi
traggono dai beni e non l'imputazione del danno subito dai
terzi, che prescinde, di regola, dalla condotta
dell'utilizzatore, e risale (in particolare nel caso in
esame), nella mancata solerzia del condominio
nell'apprestare le riparazioni prima che si produca il
pregiudizio per l'appartamento sottostante. Ciò,
indipendentemente da qualsiasi colpa del condòmino che abbia
l'uso esclusivo del lastrico o la proprietà della terrazza.
Le perplessità della seconda sezione civile vanno condivise:
La Cassazione (sentenza 3672/1997) aveva affermato che la
responsabilità per i danni si ricollegasse non al disposto
dell'articolo 2051 del Codice quanto alla titolarità del
diritto reale e, perciò, dovesse considerarsi come
conseguenza del l'inadempimento delle obbligazioni di
conservare le parti comuni, poste a carico dei condomini
(articolo 1123) e del titolare della proprietà superficiaria
o dell'uso esclusivo (articolo 1126). Le norme sulla
ripartizione degli oneri condominiali, (articoli 1123, 1124,
1125 e 1126) dovrebbero, invece, ritenersi sempre
inutilizzabili in relazione alle obbligazioni risarcitorie
dei condòmini verso i terzi (articolo Il Sole 24 Ore dell'08.07.2014). |
APPALTI SERVIZI:
Società in house detenute congiuntamente da più
enti pubblici.
I precedenti della Corte di Giustizia dell'UE hanno più
volte chiarito che nel caso in cui venga fatto ricorso ad
un'entità posseduta in comune da più autorità pubbliche, il
"controllo
analogo" può
essere esercitato congiuntamente da tali autorità, senza che
sia indispensabile che detto controllo venga esercitato
individualmente da ciascuna di esse.
Il concetto è stato ribadito dalla giurisprudenza nazionale,
nel senso che il requisito del controllo analogo deve essere
verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico,
sicché è sufficiente che la signoria della mano pubblica
sull'ente affidatario, purché effettiva e reale, sia
esercitata dagli enti partecipanti nella loro totalità,
senza che necessiti una verifica della posizione dominante
di ogni singolo ente.
Peraltro, pur non richiedendosi che ciascun partecipante
detenga da solo un potere di controllo individuale,
nondimeno si esige che il controllo esercitato sull'entità
partecipata non si fondi soltanto sulla posizione dominante
dell'autorità pubblica che detiene una partecipazione di
maggioranza del capitale sociale.
È necessario, infatti, che anche il singolo socio possa
vantare una posizione più che simbolica, idonea, per quanto
minoritaria, a garantirgli una possibilità effettiva di
partecipazione alla gestione dell'organismo del quale è
parte; sicché, una presenza puramente formale nella
compagine partecipata o in un organo comune incaricato della
direzione della stessa, non risulterebbe sufficiente.
La giurisprudenza comunitaria sottolinea inoltre la
necessità che detto controllo analogo si esplichi sotto
forma di partecipazione sia al capitale, sia agli organi
direttivi dell'organismo controllato.
---------------
La giurisprudenza comunitaria non specifica attraverso quali
sistemi operativi debba estrinsecarsi la presenza di ciascun
socio negli organi direttivi e con quale modalità concreta
quest'ultimo debba concorrere al controllo analogo.
La prassi conosce svariate meccanismi, fondati ora sulla
nomina diretta e concorrente di singoli rappresentanti (uno
per ogni socio) in seno al consiglio di amministrazione
della società; ora sulla partecipazione mediata agli organi
direttivi attraverso la nomina da parte dell'assemblea di
consiglieri riservati ai soci di minoranza.
Valida alternativa è offerta dagli strumenti di carattere
parasociale, che operano attraverso la predisposizione di
organismi di controllo, costituiti dai rappresentanti di
ciascun ente locale, muniti di penetranti poteri di verifica
preventiva sulla gestione dell'attività ordinaria e
straordinaria del soggetto in house, tali da rendere
l'organo amministrativo privo di apprezzabile autonomia
rispetto alle direttive delle amministrazioni partecipanti.
E' dato pacifico in giurisprudenza, infine, che il controllo
debba essere esercitato non solo in forma propulsiva ma
anche attraverso l'esercizio -in chiave preventiva- di
poteri inibitori, volti a disinnescare iniziative o
decisioni contrastanti con gli interessi dell'ente locale
direttamente interessato al servizio.
--------------
In materia di società in house detenute
congiuntamente da più enti pubblici, la giurisprudenza non
manca di sottolineare la necessità che il relativo consiglio
di amministrazione non abbia rilevanti poteri gestionali di
carattere autonomo, e che l'ente pubblico affidante (la
totalità dei soci pubblici) eserciti, pur se con moduli
fondati su base statutaria, poteri di ingerenza e di
condizionamento superiori a quelli tipici del diritto
societario e caratterizzati da un margine di rilevante
autonomia della governance rispetto alla maggioranza
azionaria.
Risulta a ciò indispensabile che le decisioni strategiche e
più importanti siano sottoposte al vaglio preventivo
dell'ente affidante o, in caso di in house frazionato -come
nella fattispecie in esame- all'approvazione della totalità
degli enti pubblici soci (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 13.06.2014 n. 1069 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Edifici storici vincolati. Progettazione e direzione lavori
agli architetti. Il Tar del Veneto esclude gli ingegneri dalle opere di
restauro e ripristino.
Vietata la progettazione e la direzione lavori di immobili
vincolati nel settore dei beni culturali; la competenza è
degli architetti e non esiste un problema di
«discriminazione inversa» dei nostri ingegneri con i
colleghi degli altri paesi europei.
È quanto afferma il TAR Veneto, Sez. I, con la
sentenza 03.06.2014 n. 743
relativa a un affidamento di progettazione e di direzione
dei lavori di un immobile culturale (ex museo) sito in una
area vincolata, aggiudicato, a seguito di procedura
negoziata, a un ingegnere, ma impugnato da un architetto per
violazione dell'art. 52, comma 2, del rd 23.10.1925 n.
2537.
La norma del '25 affida infatti alle competenze
dell'architetto le opere di edilizia civile di rilevante
carattere artistico e il restauro e ripristino degli edifici
contemplati dall'articolo 22 del codice dei beni culturali.
Secondo un orientamento precedente dello stesso Tar, questa
norma si sarebbe posta in violazione del diritto
comunitario, che avrebbe quindi equiparato i due titoli, e
doveva essere disapplicata. A tale tesi ha fatto riferimento
il comune nel disporre l'affidamento all'ingegnere,
ritenendo che anche da quanto affermato in sede comunitaria
si sarebbe potuto dedurre l'esistenza, nel caso contrario,
di una forma di discriminazione inversa, o «alla rovescia»,
che avrebbe penalizzato gli ingegneri italiani rispetto ai
colleghi europei.
Sul punto la sentenza della Corte europea
del 21.02.2013 (C111-12) ha stabilito il principio per
cui, in base alla normativa sul riconoscimento dei diplomi,
certificati e altri titoli del settore dell'architettura e
sulle misure destinate ad agevolare l'esercizio effettivo
del diritto di stabilimento e di libera prestazione della
professione di architetto (artt. 10 e 11 della direttiva 85/384/Cee), i professionisti con un titolo rilasciato in un
altro stato membro, che abilita all'esercizio di attività
nel settore dell'architettura, «possono svolgere, in
quest'ultimo stato, attività riguardanti immobili di
interesse artistico solamente qualora dimostrino,
eventualmente nell'ambito di una specifica verifica della
loro idoneità professionale, di possedere particolari
qualifiche nel settore dei beni culturali».
Sulla base di
questo principio il Consiglio di stato (sezione VI, n.
21/2014) ha successivamente escluso, contrariamente alla
tesi del comune veneto affidatario dell'incarico, che si
possa produrre un effetto di «reverse discrimination».
I giudici veneti, aderendo a quanto sostenuto dal Consiglio
di stato, affermano adesso che le norme comunitarie non
impongono all'Italia di ritenere che il diploma di laurea in
architettura e quello in ingegneria civile si pongano sullo
stesso piano (e quindi che i due titoli risultino
equivalenti).
Inoltre le stesse norme, afferma la sentenza veneta, non
consentono a tutti gli ingegneri europei (tranne gli
italiani) di esercitare attività comprese anche nelle
competenze degli architetti, perché quel che conta è avere
svolto un corso di studi finalizzato dell'attività di
architetto, anche se con diploma diverso. Da ciò quindi
l'inidoneità dell'ingegnere a partecipare alla procedura e,
quindi a essere affidatario dell'incarico
(articolo ItaliaOggi del 09.07.2014
- tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il Collegio non intende decampare dai principi
elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio e della
Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da
illecita attività provvedimentale dell’amministrazione in
forza dei quali:
a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale
rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale
disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per
accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non
sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto
soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da
comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso
nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica
e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che
funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e
che non consente di configurare la tutela degli interessi
c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei
ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius;
b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi
costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta,
evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza),
grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto
l’illegittimo esercizio della funzione pubblica;
c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno
deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto
che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua
volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica
sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile
(oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando
vi sia una rilevante probabilità di risultato utile
frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della
p.a.;
d) al di fuori del settore degli appalti (governato da
autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di
giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza
nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata
illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai
sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto
costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla
sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne
consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità
dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti
giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di
improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di
oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della
formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di
rilevante complessità del fatto, della influenza
determinante dei comportamenti di altri soggetti, di
illegittimità derivante da successiva declaratoria di
incostituzionalità della norma applicata
dall’amministrazione;
e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito
della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio
della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione
dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in
forza dei quali un evento è da considerare causato da un
altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non
si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria
della condicio sine qua non).
Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto
dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la produzione di un
evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve
riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il
suo temperamento nel principio di causalità efficiente,
desumibile dall’art. 41, co. 2, c.p., in base al quale
l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente
all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa
condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause
preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di
sviluppo della serie causale già in atto.
Al contempo non è sufficiente tale relazione causale per
determinare una causalità giuridicamente rilevante,
dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate,
dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si
produce l’evento causante non appaiano del tutto
inverosimili, ma che si presentino come effetto non del
tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d.
causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità
causale; in quest’ottica, all’interno della serie causale,
occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano
—ad una valutazione ex ante— del tutto inverosimili.
Il Collegio non intende decampare dai principi
elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio e della
Corte di cassazione in materia di risarcimento del danno da
illecita attività provvedimentale dell’amministrazione (cfr.
ex plurimis e da ultimo, Cass. civ., sez. III, 22.10.2013, n. 23993; sez. un., 23.03.2011, n. 6594; sez. un.,
11.01.2008, n. 576 e 582; Cons. Stato, ad. plen., 19.04.2013, n. 7; ad. plen., 23.03.2011, n. 3; sez. III,
19.03.2014, n. 1357; sez. V, 17.01.2014, n. 183;
sez. V, 31.10.2013, n. 5247; sez. V, 21.06.2013, n.
3408; sez. III, 30.05.2012, n. 3245; sez. IV, 22.05.2012, n. 2974; sez. IV,
02.04. 2012, n. 1957; sez. IV, 31.01.2012, n. 482; cui si rinvia a mente dell’art. 88, co.
2, lett. d), c.p.a.), in forza dei quali:
a) la qualificazione del danno da illecito provvedimentale
rientra nello schema della responsabilità extra contrattuale
disciplinata dall’art. 2043 c.c.; conseguentemente, per
accedere alla tutela è indispensabile, ancorché non
sufficiente, che l’interesse legittimo o il diritto
soggettivo sia stato leso da un provvedimento (o da
comportamento) illegittimo dell’amministrazione reso
nell’esplicazione (o nell’inerzia) di una funzione pubblica
e la lesione deve incidere sul bene della vita finale, che
funge da sostrato materiale della situazione soggettiva e
che non consente di configurare la tutela degli interessi
c.d. procedimentali puri, delle mere aspettative, dei
ritardi procedimentali, o degli interessi contra ius;
b) l’onere di provare la presenza di tutti gli elementi
costitutivi dell’illecito extracontrattuale (condotta,
evento, nesso di causalità, antigiuridicità, colpevolezza),
grava sulla parte danneggiata che abbia visto riconosciuto
l’illegittimo esercizio della funzione pubblica;
c) la prova dell’esistenza dell’antigiuridicità del danno
deve intervenire all’esito di una verifica del caso concreto
che faccia concludere per la sua certezza la quale, a sua
volta, presuppone: l’esistenza di una posizione giuridica
sostanziale; l’esistenza di una lesione che è configurabile
(oltre ché nell’ovvia evidenza fattuale) anche allorquando
vi sia una rilevante probabilità di risultato utile
frustrata dall’agire (o dall’inerzia) illegittima della
p.a.;
d) al di fuori del settore degli appalti (governato da
autonomi principi sviluppati nel tempo dalla Corte di
giustizia UE), in sede di accertamento della colpevolezza
nell’esercizio della funzione pubblica, l’acclarata
illegittimità del provvedimento amministrativo, integra, ai
sensi degli artt. 2727 e 2729, co. 1, c.c., il fatto
costitutivo di una presunzione semplice in ordine alla
sussistenza della colpa in capo all’amministrazione; ne
consegue che spetta a quest’ultima dimostrare la scusabilità
dell’errore per la presenza, ad esempio, di contrasti
giurisprudenziali sull’interpretazione della norma (o di
improvvisi revirement da parte delle Corti supreme), di
oscurità oggettiva del quadro normativo (anche a causa della
formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore), di
rilevante complessità del fatto, della influenza
determinante dei comportamenti di altri soggetti, di
illegittimità derivante da successiva declaratoria di
incostituzionalità della norma applicata
dall’amministrazione;
e) ai fini del riscontro del nesso di causalità nell’ambito
della responsabilità extra contrattuale da cattivo esercizio
della funzione pubblica, si deve muovere dall’applicazione
dei principî penalistici, di cui agli art. 40 e 41 c.p., in
forza dei quali un evento è da considerare causato da un
altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non
si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria
della condicio sine qua non); il rigore del principio
dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in
base al quale, se la produzione di un evento dannoso è
riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad
ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento
nel principio di causalità efficiente, desumibile dall’art.
41, co. 2, c.p., in base al quale l’evento dannoso deve
essere attribuito esclusivamente all’autore della condotta
sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da
rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi
al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie
causale già in atto; al contempo non è sufficiente tale
relazione causale per determinare una causalità
giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie
causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto
che, nel momento in cui si produce l’evento causante non
appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come
effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio
della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d.
regolarità causale; in quest’ottica, all’interno della serie
causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non
appaiano —ad una valutazione ex ante— del tutto
inverosimili
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
27.05.2014 n. 2708 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Mentre il risarcimento del danno biologico è
subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità
psico-fisica medicalmente accertabile, il danno non
patrimoniale -da intendersi come ogni pregiudizio (di natura
non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente
accertabile) provocato sul “fare areddittuale” del soggetto,
che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali
propri, inducendo il soggetto medesimo a scelte di vita
diverse quanto all’espressione e alla realizzazione della
sua personalità nel mondo esterno- deve essere dimostrato in
giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento,
potendo peraltro anche in tale evenienza assumere precipuo
rilievo la prova per presunzioni.
Ne discende che il prestatore di lavoro, che chieda la
condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno
(anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di
relazione o di c.d. danno biologico), subito a causa della
lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione
lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita,
deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del
nesso di causalità con l’inadempimento, posto che tale danno
non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni
comportamento illegittimo e che pertanto non è sufficiente
dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta
datoriale, nel mentre incombe al lavoratore che denunzi il
danno subito di fornire la prova in base all’anzidetta
regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ.
Per quanto poi concerne l’aspetto che qui segnatamente
rileva, ossia il nesso causale tra l’illecito e il danno
subito, va parimenti rimarcato che l’onnicomprensiva
categoria del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059
c.c., pur nelle ipotesi in cui consegue alla violazione di
diritti inviolabili della persona (ad es. il diritto alla
salute di cui all’art. 32 Cost.), costituisce pur sempre
un’ipotesi di danno-conseguenza, il cui ristoro è in
concreto possibile solo a seguito dell’integrale allegazione
e prova in ordine alla sua consistenza materiale ed in
ordine alla sua riferibilità eziologica alla condotta del
soggetto asseritamente danneggiante.
Ne consegue, quindi, che il riconoscimento del diritto del
lavoratore al risarcimento del danno professionale e
biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di
inadempimento datoriale e non può prescindere da una
specifica allegazione, da parte di colui che si pretende
danneggiato, sulla natura e sulle caratteristiche del
pregiudizio medesimo.
In una con i principi elaborati dalle sezioni unite della
Corte di cassazione (cfr. le celebri sentenze gemelle sez.
un., nn. 26973, 26974, 26975 del 2008, successivamente si
vedano gli affinamenti elaborati da Cass. civ., sez. III,
2228 del 2012) e dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio
(n. 7 del 2013 cit.), si rileva che mentre il risarcimento
del danno biologico è subordinato all’esistenza di una
lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente
accertabile, il danno non patrimoniale -da intendersi come
ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed
interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul
“fare areddittuale” del soggetto, che alteri le sue
abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendo il
soggetto medesimo a scelte di vita diverse quanto
all’espressione e alla realizzazione della sua personalità
nel mondo esterno- deve essere dimostrato in giudizio con
tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, potendo peraltro
anche in tale evenienza assumere precipuo rilievo la prova
per presunzioni; ne discende che il prestatore di lavoro,
che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento
del danno (anche nella sua eventuale componente di danno
alla vita di relazione o di c.d. danno biologico), subito a
causa della lesione del proprio diritto di eseguire la
prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale
rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale
danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, posto
che tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza
automatica di ogni comportamento illegittimo e che pertanto
non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva
della condotta datoriale, nel mentre incombe al lavoratore
che denunzi il danno subito di fornire la prova in base
all’anzidetta regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ.
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
27.05.2014 n. 2708 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
L'impresa perde l'appalto se omette i costi di sicurezza
aziendali.
L'impresa perde l'appalto pubblico quando non indica i costi
di sicurezza aziendali, anche se è lo stesso committente a
escludere la necessità del Duvri, il documento unico di
regolarità contributiva, perché il servizio messo a gara non
lo impone. Il fatto che l'amministrazione escluda la
sussistenza di rischi d'interferenze non autorizza l'impresa
a ignorare nella sua offerta gli oneri di tutela dei
lavoratori che scaturiscono direttamente dalla legge.
Lo stabilisce il TAR Lazio-Roma, con la
sentenza 20.05.2014 n. 5309, pubblicata dalla
Sez. III-bis.
È la stessa l'amministrazione, nella specie, dichiarare non
sussistenti i rischi da interferenze, che risultano pari a
zero, «tenuto conto della natura strettamente
intellettuale del servizio». Ma ciò non esclude l'onere
per l'impresa di prevedere e quantificare in sede di offerta
i costi della sicurezza da «rischio specifico»: la
necessità deriva direttamente dalla norme di legge che sono
poste a presidio di diritti fondamentali dei lavoratori e,
quindi, sussiste anche quando il disciplinare di gara non
contiene alcuna previsione al riguardo.
Accolto il ricorso incidentale della concorrente: l'impresa
doveva essere subito esclusa dalla procedura. In
particolare, spiegano i giudici amministrativi, si definisce
«costo della sicurezza aziendale», il valore
determinato come frazione percentuale delle spese generali
che l'impresa sostiene nell'esecuzione dell'appalto, in base
alla tipologia dei lavori dell'opera e alla stato dei
luoghi.
È stata la legge 98/2013, che ha convertito il dl fare
(decreto legge 69/2013) a introdurre il comma 3-bis
dell'articolo 82 del codice dei contratti pubblici, il
decreto legislativo 163/06: la novella impone che il costo
del lavoro deve essere valutato puntualmente in quanto «costo
puro e incomprimibile», che non può essere assoggettato
al mercato: la verifica non può limitarsi a un mero
controllo di congruità formulato su valutazioni in base a
meri parametri e decontestualizzate.
Fra i costi della sicurezza, dunque, rientrano anche gli
esborsi riferibili in modo generico alla sicurezza «nel»
luogo di lavoro
(articolo ItaliaOggi del 12.07.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione edilizia in area sottoposta a
vincolo paesaggistico - Cd. super DIA - Preventivo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica - Artt. 6, 22 e 44, lett.
c), d.P.R. n. 380/2001 - Art. 181 del D.Lgs. n. 42/2004 e
734 c.p..
Gli interventi di ristrutturazione edilizia, sia se
eseguibili mediante "semplice" denuncia di inizio
attività ai sensi dell'art. 22, commi primo e secondo, del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sia se eseguibili in base alla
cosiddetta super DIA, prevista dal comma terzo della citata
disposizione, necessitano del preventivo rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica da parte dell'autorità
preposta alla tutela del vincolo (Cass. Sez. 3, n. 8739 del
21/01/2010 - dep. 04/03/2010, Perna).
Solo per gli interventi di restauro e risanamento
conservativo e per quelli di manutenzione straordinaria non
comportanti alterazione dello stato dei luoghi o
dell'aspetto esteriore degli edifici, la D.I.A. non deve
essere preceduta dall'autorizzazione paesaggistica.
Opere nel sottosuolo in zone sottoposte
a vincolo - Realizzazione in difetto di autorizzazione -
Reato di cui all'art. 181 D.Lgs. n. 42/2004 -
Configurabilità.
Il reato di cui all'art. 181 D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 si
configura anche relativamente ad opere realizzate, in
difetto di autorizzazione, nel sottosuolo di zone sottoposte
a vincolo, atteso che il citato art. 181 vieta l'esecuzione
di lavori di qualunque genere su beni paesaggistici e che
anche per tali opere si realizza una modificazione, anche se
non immediatamente visibile, dell'assetto del territorio
(Cass. Sez. 3, n. 7292 del 16/01/2007 - dep. 22/02/2007,
Armenise ed altro).
Opera abusiva - Sequestro preventivo e
reati paesaggistici - Il periculum in relazione al reato
paesaggistico - Art. 181 D.Lgs. n. 42/2004.
In tema di sequestro preventivo per reati paesaggistici, la
sola esistenza di una struttura abusiva integra il requisito
dell'attualità del pericolo indipendentemente dall'essere
l'edificazione ultimata o meno, in quanto il rischio di
offesa al territorio ed all'equilibrio ambientale, a
prescindere dall'effettivo danno al paesaggio, perdura in
stretta connessione con l'utilizzazione della costruzione
ultimata (Cass. Sez. 3, n. 24539 del 20/03/2013 - dep.
05/06/2013, Chiantone).
Interventi edilizi costituiti in una
tettoia di copertura - Preventivo rilascio del permesso di
costruire - Art. 44, lett. b), del d.P.R. n. 380/2001 - Caso
di configurabilità.
Integra il reato previsto dall'art. 44, lett. b), del d.P.R.
n. 380 del 2001 la realizzazione, senza il preventivo
rilascio del permesso di costruire, di una tettoia di
copertura che, non rientrando nella nozione
tecnico-giuridica di pertinenza per la mancanza di una
propria individualità fisica e strutturale, costituisce
parte integrante dell'edificio sul quale viene realizzata
(Cass. Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013 - dep. 15/10/2013,
Salanitro e altro) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.04.2014 n. 16687
- link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi in parziale difformità
dall'autorizzazione paesaggistica - Configurabilità del
reato ex art. 181 d.lgs. n. 42/2004 - Natura formale di
reato di pericolo.
L'art. 181 d.lgs. n. 42/2004 sanziona la condotta di
chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità
di essa, esegua lavori di qualsiasi genere su beni
paesaggistici.
La norma in esame non distingue tra parziale o totale
difformità, come avviene invece per la disciplina
urbanistica, cosicché è idonea a configurare il reato in
esame ogni difformità significativa dall'intervento
autorizzato e tale da vanificare gli scopi di tutela e
controllo che il legislatore ha assicurato agli organi
competenti attraverso la preventiva verifica della
consistenza delle opere da eseguire (Cass. Sez. III n.
19077, 07/05/2009; Cass. Sez. III n. 10478, 12/03/2007).
Pertanto, in tema di violazioni paesaggistiche, è pacifica
la natura formale di pericolo del reato contemplato
dall'art. 181 d.lgs. 42/2004 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.01.2014 n. 3655
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ATTI AMMINISTRATIVI - AMBIENTE-ECOLOGIA: In
problematiche che afferiscono a pericoli per la salute
pubblica, sovente si fa ricorso ad ordinanze contingibili ed
urgenti adottate dal Sindaco quale Ufficiale di Governo al
fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano
l’incolumità dei cittadini, per la cui esecuzione è anche
possibile richiedere al Prefetto l’assistenza della forza
pubblica.
Detto potere di urgenza può essere esercitato solo per
affrontare situazioni di carattere eccezionale ed
impreviste, costituenti concreta minaccia per la pubblica
incolumità, per le quali sia impossibile utilizzare i
normali mezzi apprestati dall’ordinamento giuridico in
presenza di un preventivo accertamento della situazione che
deve fondarsi su prove concrete e non su mere presunzioni,
anche se l’obiettivo può essere di prevenire ed eliminare
gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini.
---------------
Invero, la stessa Corte Costituzionale ha rimarcato che il
Sindaco non può adottare provvedimenti a “contenuto
normativo ed efficacia a tempo indeterminato”, potendo
derogare alla normativa primaria solo in maniera
temporalmente delimitata e nei limiti della “concreta
situazione di fatto che si intende fronteggiare” dovendosi
infatti garantire il principio di legalità sostanziale posto
alla base dello Stato di diritto.
Le ordinanze sindacali in questione incidono d’altra parte
sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità
amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento,
divieti, obblighi di fare e di non fare che, pur indirizzati
alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque
restrizioni ai soggetti considerati.
---------------
La partecipazione degli interessati al procedimento si
attiva in prima battuta attraverso la obbligatoria
comunicazione di avvio come disciplinata dagli artt. 7 e 8
della Legge n. 241 del 1990, comunicazione che, per espressa
previsione normativa, può peraltro venire omessa ove
sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari
esigenze di celerità del procedimento, fermo restando che,
in termini generali, l’Amministrazione è sempre tenuta a
rendere conto della sussistenza di tali ragioni di urgenza
qualificata, e che i principi appena enunciati si attagliano
alle peculiarità del caso in esame.
---------------
La giurisprudenza più recente ritiene che ai sensi dell'art.
192 D.L.vo 03.04.2006, n. 152 l'Ente proprietario (e, in sua
vece, l’Ente gestore) della strada ha l'obbligo di
provvedere alla pulizia della stessa in modo da non creare
danno o pericoli alla circolazione.
Pertanto spetta alla detta P.A. procedere alla raccolta dei
rifiuti abbandonati da terzi “sull'area di sedime della
strada stessa” a prescindere dalla sussistenza dell'elemento
soggettivo del dolo o della colpa del detto proprietario.
La soluzione è invece diversa allorché si tratti di rifiuti
solidi non pericolosi abusivamente depositati nelle
“vicinanze” dell'area stradale e non risulti riscontrabile
né tanto meno denunciato alcun profilo soggettivo di dolo o
quanto meno di colpa in capo all' Ente proprietario o
gestore.
---------------
L’art. 192 del Decr. Legisl. n. 152/2006 ha dunque
introdotto una sanzione amministrativa di tipo
reintegratorio, potendo essere adottata anche in assenza di
una situazione in cui sussista l’urgente necessità di
provvedere con efficacia e immediatezza e avente a contenuto
l’obbligo di rimozione, di recupero o di smaltimento e di
ripristino a carico del responsabile del fatto di discarica
o immissione abusiva, a carico, cioè, di “chiunque viola i
divieti di abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti
sul suolo”, in solido con il proprietario e con i titolari
di diritti reali o personali di godimento sull’area ai quali
tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o di colpa.
La norma, pertanto, ai fini dell’imputabilità della condotta
del divieto di abbandono e di deposito incontrollato di
rifiuti sul suolo, richiede, a carico del proprietario o dei
titolari di diritti reali o personali sul bene, un
comportamento titolato di dolo o colpa, così come richiesto
per l’autore materiale, mentre le conseguenze sanzionatorie
connesse alla violazione del divieto di abbandono
incontrollato di rifiuti sul suolo o nel suolo sono
accollate anche al proprietario dell’area, ma ciò solo nel
caso in cui la violazione sia a lui imputabile a titolo di
dolo o di colpa.
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L’art. 14 del D.lgs. n. 285/1992 dispone che "Gli enti
proprietari delle strade, allo scopo di garantire la
sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: a)
alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle
loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature,
impianti e servizi” e con riferimento alla fattispecie di
insistenza dei rifiuti abbandonati sull'area di sedime di
una strada, questa norma è stata effettivamente in passato
interpretata come speciale rispetto all’art. 198 del D.lgs.
152/2006 che, in materia di gestione di rifiuti urbani e
assimilati, sancisce la competenza dei Comuni per la
raccolta, trasporto e avvio a smaltimento dei rifiuti
urbani.
Infatti la pulizia della strada, interferendo direttamente
con la stessa funzionalità dell'infrastruttura e con la
sicurezza della viabilità, non può non fare capo
direttamente al soggetto gestore (proprietario,
concessionario o comunque affidatario della gestione del
bene) sul quale gravano speciali doveri di vigilanza,
controllo e conservazione, doveri che rivestono carattere di
oggettività e prescindono dai profili di dolo o colpa,
affermandosi tale carattere di specialità anche rispetto
alla previsione di cui all’art. 192 del D.lgs. n. 152/2006
che, in materia di abbandono e deposito incontrollato di
rifiuti sul suolo, prevede l’obbligo di provvedere all'avvio
a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino
dello stato dei luoghi non solo in capo agli autori
dell’illecito, ma anche, in solido con essi, del
proprietario e del titolare di diritti reali o personali di
godimento sull'area, purché tale violazione sia loro
imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo, laddove
l’obbligo di mantenere la pulizia delle strade e di loro
pertinenze è imposto al proprietario dal citato art. 14 del
Codice della strada a prescindere dalla contestazione di un
comportamento doloso o colposo.
---------------
L'ordine di rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può
essere rivolto al proprietario solo quando ne sia dimostrata
almeno la corresponsabilità con gli autori dell'illecito,
per avere cioè posto in essere un comportamento, omissivo o
commissivo, a titolo doloso o colposo, dovendosi escludere
che la norma configuri un'ipotesi legale di responsabilità
oggettiva.
Ne discende la illegittimità degli ordini di smaltimento dei
rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un
fondo in ragione della sua mera qualità ed in mancanza di
adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione
procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di
un'esauriente motivazione, dell'imputabilità soggettiva
della condotta; tale orientamento è stato di recente
confermato anche con riferimento al disposto di cui all'art.
192 del D.lgs. 152/2006.
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Premesso che, in simili problematiche che afferiscono a
pericoli per la salute pubblica, sovente si fa ricorso ad
ordinanze contingibili ed urgenti adottate dal Sindaco quale
Ufficiale di Governo al fine di prevenire ed eliminare gravi
pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini, per la
cui esecuzione è anche possibile richiedere al Prefetto
l’assistenza della forza pubblica; detto potere di urgenza
può essere esercitato solo per affrontare situazioni di
carattere eccezionale ed impreviste, costituenti concreta
minaccia per la pubblica incolumità, per le quali sia
impossibile utilizzare i normali mezzi apprestati
dall’ordinamento giuridico in presenza di un preventivo
accertamento della situazione che deve fondarsi su prove
concrete e non su mere presunzioni (ex multis, TAR
Piemonte, II, 12.06.2009, n. 1680), anche se l’obiettivo può
essere di prevenire ed eliminare gravi pericoli che
minacciano l’incolumità dei cittadini (TAR Lazio, Roma, II, 17.06.2009, n. 5726; Cons. Stato, V,
07.04.2003, n. 1831;
02.04.2001, n. 1904; Cass. Civ., SS.UU., 17.01.2002, n. 490);
-
Rilevato che la stessa Corte Costituzionale (07.04.2011,
n.115), nel dichiarare la illegittimità costituzionale del
comma 4 del citato art. 54 quale introdotto dal D.L.
n. 92/2008 convertito in Legge n. 125/2008 nella parte in cui
comprende la locuzione “anche” prima delle parole
“contingibili e urgenti”, ha rimarcato che il Sindaco non
può adottare provvedimenti a “contenuto normativo ed
efficacia a tempo indeterminato”, potendo derogare alla
normativa primaria solo in maniera temporalmente delimitata
e nei limiti della “concreta situazione di fatto che si
intende fronteggiare” dovendosi infatti garantire il
principio di legalità sostanziale posto alla base dello
Stato di diritto; le ordinanze sindacali in questione
incidono d’altra parte sulla sfera generale di libertà dei
singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni
di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare
che, pur indirizzati alla tutela di beni pubblici
importanti, impongono comunque restrizioni ai soggetti
considerati;
-
Considerato in via preliminare che la partecipazione degli
interessati al procedimento si attiva in prima battuta
attraverso la obbligatoria comunicazione di avvio (cfr.
Cons. Stato, V, 25.08.2008, n. 4061) come disciplinata dagli
artt. 7 e 8 della Legge n. 241 del 1990, comunicazione che,
per espressa previsione normativa, può peraltro venire
omessa ove sussistano ragioni di impedimento derivanti da
particolari esigenze di celerità del procedimento, fermo
restando che, in termini generali, l’Amministrazione è
sempre tenuta a rendere conto della sussistenza di tali
ragioni di urgenza qualificata, e che i principi appena
enunciati si attagliano alle peculiarità del caso in esame;
-
Ricordato che la giurisprudenza più recente ritiene che ai
sensi dell'art. 192 D.L.vo 03.04.2006, n. 152, vale a dire
della norma invocata dalla stessa Amministrazione
resistente, l'Ente proprietario (e, in sua vece, l’Ente
gestore) della strada ha l'obbligo di provvedere alla
pulizia della stessa in modo da non creare danno o pericoli
alla circolazione; pertanto spetta alla detta P.A. procedere
alla raccolta dei rifiuti abbandonati da terzi “sull'area di sedime della strada stessa” a prescindere dalla sussistenza
dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa del detto
proprietario (cfr. Cons. Stato, IV, 18.6.2009, n. 4005). La
soluzione è invece diversa allorché si tratti di rifiuti
solidi non pericolosi abusivamente depositati nelle
“vicinanze” dell'area stradale e non risulti riscontrabile
né tanto meno denunciato alcun profilo soggettivo di dolo o
quanto meno di colpa in capo all' Ente proprietario o
gestore (TAR Campania, Napoli, V, 05.12.2008, n. 21013);
-
Chiarito che l’art. 192 del Decr. Legisl. n. 152/2006,
attualmente vigente e che ha riprodotto l'art. 14, comma 3,
del Decr. Legisl. n. 22/1997, dispone che “Fatta salva
l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 50 e 51,
chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a
procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo
smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei
luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di
diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali
tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa. Il
sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine
necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il
quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati
ed al recupero delle somme anticipate”.
La fattispecie
normativa (per la sua esegesi, cfr. Cons. Stato, V,
25.08.2008, n. 4061) ha dunque introdotto una sanzione
amministrativa di tipo reintegratorio, potendo essere
adottata anche in assenza di una situazione in cui sussista
l’urgente necessità di provvedere con efficacia e
immediatezza (TAR Veneto, III, 29.09.2009, n. 2454) e
avente a contenuto l’obbligo di rimozione, di recupero o di
smaltimento e di ripristino a carico del responsabile del
fatto di discarica o immissione abusiva, a carico, cioè, di
“chiunque viola i divieti di abbandono e di deposito
incontrollato di rifiuti sul suolo”, in solido con il
proprietario e con i titolari di diritti reali o personali
di godimento sull’area ai quali tale violazione sia
imputabile a titolo di dolo o di colpa; la norma, pertanto,
ai fini dell’imputabilità della condotta del divieto di
abbandono e di deposito incontrollato di rifiuti sul suolo,
richiede, a carico del proprietario o dei titolari di
diritti reali o personali sul bene, un comportamento
titolato di dolo o colpa, così come richiesto per l’autore
materiale, mentre le conseguenze sanzionatorie connesse alla
violazione del divieto di abbandono incontrollato di rifiuti
sul suolo o nel suolo sono accollate anche al proprietario
dell’area, ma ciò solo nel caso in cui la violazione sia a
lui imputabile a titolo di dolo o di colpa (ex multis,
TAR Calabria, Catanzaro, I, 20.10.2009, n.1118; Cons.
Stato, V, 19.03.2009, n. 1612; TAR Sardegna, 18.05.2007,
n. 975; 19.09.2004, n. 1076; TAR Puglia, Bari, 27.02.2003,
n. 872; TAR Lombardia, Milano, I, 26.01.2000, n. 292);
-
Atteso che, a mente dell’art. 14 del D.lgs. n. 285/1992,
“Gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire
la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono:
a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle
loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature,
impianti e servizi” e che, con riferimento alla fattispecie
di insistenza dei rifiuti abbandonati sull'area di sedime di
una strada, questa norma è stata effettivamente in passato
interpretata come speciale rispetto all’art. 198 del D.lgs.
152/2006 che, in materia di gestione di rifiuti urbani e
assimilati, sancisce la competenza dei Comuni per la
raccolta, trasporto e avvio a smaltimento dei rifiuti
urbani.
Infatti la pulizia della strada, interferendo
direttamente con la stessa funzionalità dell'infrastruttura
e con la sicurezza della viabilità, non può non fare capo
direttamente al soggetto gestore (proprietario,
concessionario o comunque affidatario della gestione del
bene) sul quale gravano speciali doveri di vigilanza,
controllo e conservazione, doveri che rivestono carattere di
oggettività e prescindono dai profili di dolo o colpa
(TAR Campania, Napoli, V, 11.07.2006, n. 7428; TAR
Puglia, Lecce, I, 18.06.2008, n. 487), affermandosi tale
carattere di specialità anche rispetto alla previsione di
cui all’art. 192 del D.lgs. n. 152/2006 che, in materia di
abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo,
prevede l’obbligo di provvedere all'avvio a recupero o allo
smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei
luoghi non solo in capo agli autori dell’illecito, ma anche,
in solido con essi, del proprietario e del titolare di
diritti reali o personali di godimento sull'area, purché
tale violazione sia loro imputabile a titolo di dolo o
colpa, in base agli accertamenti effettuati, in
contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo, laddove l’obbligo di mantenere la
pulizia delle strade e di loro pertinenze è imposto al
proprietario dal citato art. 14 del Codice della strada a
prescindere dalla contestazione di un comportamento doloso o
colposo;
-
Ritenuto, a distanza di anni, di aderire al più recente
orientamento giurisprudenziale (TAR Molise, 28.05.2010,
n. 227; TAR Sicilia, Palermo, I, 20.01.2010, n. 584),
autorevolmente avallato anche dal Giudice d'Appello (Cons.
Stato, V, 25.01.2005, n. 136), secondo il quale l'ordine di
rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto
al proprietario solo quando ne sia dimostrata almeno la
corresponsabilità con gli autori dell'illecito, per avere
cioè posto in essere un comportamento, omissivo o
commissivo, a titolo doloso o colposo, dovendosi escludere
che la norma configuri un'ipotesi legale di responsabilità
oggettiva; ne discende la illegittimità degli ordini di
smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al
proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità
ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte
dell'Amministrazione procedente, sulla base di
un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione,
dell'imputabilità soggettiva della condotta; tale
orientamento è stato di recente confermato anche con
riferimento al disposto di cui all'art. 192 del D.lgs.
152/2006 (Cons. Stato, V, 19.03.2009, n. 1612; 25.08.2008,
n.4061) (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 20.05.2013 n. 2586 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Quando
lo strumento urbanistico non prevede l’obbligo di osservare
un determinato distacco dal confine, trova applicazione il
principio della prevenzione temporale (art. 873 ss. c.c.),
secondo cui il proprietario che costruisce per primo
determina, in concreto, le distanze da osservare dalle altre
costruzioni sui fondi vicini, il che vale anche rispetto a
successive sopraelevazioni.
Solo in presenza di una norma regolamentare che prescrive
una distanza tra fabbricati con riguardo al confine,
infatti, si pone l'esigenza di un'equa ripartizione tra
proprietari confinanti dell'onere di salvaguardare una zona
di distacco tra le costruzioni, con la conseguenza che, in
assenza di una siffatta prescrizione, deve trovare
applicazione il principio della prevenzione.
Lo stesso principio vale anche nel caso in cui la distanza
tra gli edifici resti regolata dalla norma suppletiva
dettata dall’art. 17, co. 1, lett. c), della legge n.
765/1967 (che ha inserito nella legge n. 1150/1942 l’art.
41-quinquies, applicabile non soltanto ai Comuni sprovvisti
di piani regolatori e programmi di fabbricazione, ma anche a
quelli dotati di regolamento edilizio non contenente
prescrizioni sulle distanze), poiché tale norma, al pari
dell’art. 873 c.c., non fa alcun riferimento ai confini e
non può, dunque, essere interpretata nel senso di imporre,
sia pur implicitamente, un distacco rispetto agli stessi
(cfr. Cass., SS.UU., 01.08.2002, n. 11489: «la distanza tra
gli edifici non è prevista dalla norma come fissa, essendo,
invece, mobile e variabile con riferimento all'altezza
dell'edificio successivo; il che, da un canto, conferma che
il confine tra i due fondi non assume alcun rilievo nella
struttura della norma, dall'altro evidenzia, come dato
imprescindibile, che la norma, così com’é strutturata,
presuppone la preesistenza di un fabbricato, solo rispetto
al quale, non già rispetto al confine (od anche rispetto al
confine), viene prescritta la distanza minima, da
determinarsi in relazione all'altezza del nuovo edificio»).
Si tratta di un ragionamento che è pianamente estensibile
alle distanze di cui all’art. 9 D.M. n. 1444 del 02.04.1968,
ugualmente prive di ogni riferimento ai confini ed espresse,
ancora una volta, in termini mobili e variabili con riguardo
alla altezza di edifici preesistenti (ovvero alla larghezza,
maggiorata, della sede stradale interposta) oppure ancora in
termini assoluti tra i fabbricati stessi (nel senso della
applicabilità del principio di prevenzione anche con
riferimento al D.M. 1444/1968, cfr., implicitamente, TAR
Campania Napoli, n. 1899/2011): tutto ciò senza che,
naturalmente, la circostanza che il preveniente possa aver
costruito una parete finestrata, anziché non finestrata,
possa mutare la consistenza di questo dato normativo e
influire sulla applicabilità della regola della prevenzione.
Al riguardo, la giurisprudenza, ancor prima della suddetta
pronuncia delle Sezioni Unite, ha espressamente ritenuto che
dall’art. 9 n. 2 del D.M. n. 1444/1968 è desumibile la
inesistenza di un obbligo di rispettare in ogni caso una
distanza minima dal confine, ove non prevista negli
strumenti urbanistici locali, e ha sostenuto che, in
applicazione del principio di prevenzione, esso va
interpretato nel senso che tra una parete finestrata e
l’edificio antistante va rispettata la distanza di metri
dieci, con conseguente obbligo del prevenuto di arretrare la
propria costruzione (fino ad una distanza di metri cinque
dal confine, se il preveniente, nel realizzare tale parete
finestrata, ha rispettato una distanza di almeno metri
cinque dal confine; in caso contrario, ossia se il
preveniente abbia realizzato una parete finestrata ad una
distanza dal confine inferiore a metri cinque, il vicino, in
alternativa all'arretrare la propria costruzione fino a
rispettare la distanza di dieci metri, può scegliere
d'imporre al preveniente di chiudere le aperture ed a sua
volta costruire con parete non finestrata rispettando la
metà della distanza legale dal confine, oppure di procedere
all’interpello di cui all’art. 875, co. 2, c.c. per la
comunione forzosa del muro che non si trovi sul confine, ove
ne ricorrano le condizioni, od ancora, nel caso di
costruzione sul confine, chiedere la comunione del muro o
costruire in aderenza).
Ebbene, per condivisibile indirizzo, quando lo strumento
urbanistico non prevede l’obbligo di osservare un
determinato distacco dal confine, trova applicazione il
principio della prevenzione temporale (art. 873 ss. c.c.),
secondo cui il proprietario che costruisce per primo
determina, in concreto, le distanze da osservare dalle altre
costruzioni sui fondi vicini (cfr. C.d.S., sez. IV, 04.02.2011, n. 802), il che vale anche rispetto a
successive sopraelevazioni (cfr. C.d.S., sez. V, 10.01.2012, n. 53).
Solo in presenza di una norma regolamentare che prescrive
una distanza tra fabbricati con riguardo al confine,
infatti, si pone l'esigenza di un'equa ripartizione tra
proprietari confinanti dell'onere di salvaguardare una zona
di distacco tra le costruzioni, con la conseguenza che, in
assenza di una siffatta prescrizione, deve trovare
applicazione il principio della prevenzione.
Lo stesso principio vale anche nel caso in cui la distanza
tra gli edifici resti regolata dalla norma suppletiva
dettata dall’art. 17, co. 1, lett. c), della legge n. 765/1967
(che ha inserito nella legge n. 1150/1942 l’art. 41-quinquies,
applicabile non soltanto ai Comuni sprovvisti di piani
regolatori e programmi di fabbricazione, ma anche a quelli
dotati di regolamento edilizio non contenente prescrizioni
sulle distanze: cfr. C.d.S., sez. V, 23.05.2000, n.
2983), poiché tale norma, al pari dell’art. 873 c.c., non fa
alcun riferimento ai confini e non può, dunque, essere
interpretata nel senso di imporre, sia pur implicitamente,
un distacco rispetto agli stessi (cfr. Cass., SS.UU., 01.08.2002, n. 11489: «la distanza tra gli edifici non è
prevista dalla norma come fissa, essendo, invece, mobile e
variabile con riferimento all'altezza dell'edificio
successivo; il che, da un canto, conferma che il confine tra
i due fondi non assume alcun rilievo nella struttura della
norma, dall'altro evidenzia, come dato imprescindibile, che
la norma, così com’é strutturata, presuppone la preesistenza
di un fabbricato, solo rispetto al quale, non già rispetto
al confine (od anche rispetto al confine), viene prescritta
la distanza minima, da determinarsi in relazione all'altezza
del nuovo edificio»).
Si tratta di un ragionamento che è pianamente estensibile
alle distanze di cui all’art. 9 D.M. n. 1444 del 02.04.1968, ugualmente prive di ogni riferimento ai confini ed
espresse, ancora una volta, in termini mobili e variabili
con riguardo alla altezza di edifici preesistenti (ovvero
alla larghezza, maggiorata, della sede stradale interposta)
oppure ancora in termini assoluti tra i fabbricati stessi
(nel senso della applicabilità del principio di prevenzione
anche con riferimento al D.M. 1444/1968, cfr., implicitamente,
TAR Campania Napoli, sez. II, 01.04.2011, n. 1899):
tutto ciò senza che, naturalmente, la circostanza che il
preveniente possa aver costruito una parete finestrata,
anziché non finestrata, possa mutare la consistenza di
questo dato normativo e influire sulla applicabilità della
regola della prevenzione.
Al riguardo, la giurisprudenza, ancor prima della suddetta
pronuncia delle Sezioni Unite, ha espressamente ritenuto
(cfr. Cass., sez. II, 07.03.2002, n. 3340) che dall’art. 9
n. 2 del D.M. n. 1444/1968 è desumibile la inesistenza di un
obbligo di rispettare in ogni caso una distanza minima dal
confine, ove non prevista negli strumenti urbanistici
locali, e ha sostenuto che, in applicazione del principio di
prevenzione, esso va interpretato nel senso che tra una
parete finestrata e l’edificio antistante va rispettata la
distanza di metri dieci, con conseguente obbligo del
prevenuto di arretrare la propria costruzione (fino ad una
distanza di metri cinque dal confine, se il preveniente, nel
realizzare tale parete finestrata, ha rispettato una
distanza di almeno metri cinque dal confine; in caso
contrario, ossia se il preveniente abbia realizzato una
parete finestrata ad una distanza dal confine inferiore a
metri cinque, il vicino, in alternativa all'arretrare la
propria costruzione fino a rispettare la distanza di dieci
metri, può scegliere d'imporre al preveniente di chiudere le
aperture ed a sua volta costruire con parete non finestrata
rispettando la metà della distanza legale dal confine,
oppure di procedere all’interpello di cui all’art. 875, co.
2, c.c. per la comunione forzosa del muro che non si trovi
sul confine, ove ne ricorrano le condizioni, od ancora, nel
caso di costruzione sul confine, chiedere la comunione del
muro o costruire in aderenza) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 14.05.2013 n. 2495 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Gli spazi per parcheggio di natura pertinenziale
e obbligatoria non vanno considerati ai fini del calcolo
della volumetria complessiva consentita e della
determinazione della superficie coperta.
Si tratta di un principio che deve essere in questa sede
riaffermato, salve diverse previsioni di piano o
regolamentari.
Per un verso, infatti, l'art. 9 della legge 24.03.1989, n.
122, prevede che «i proprietari di immobili possono
realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali
siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare
a pertinenza delle singole unità immobiliari anche in deroga
agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi
vigenti» (cui fa eco l’articolo 6 della legge della Regione
Campania n. 19 del 28.11.2001, secondo cui la realizzazione
in aree libere, anche non di pertinenza del lotto dove
insistono gli edifici, ovvero nel sottosuolo di fabbricati o
al pianterreno di essi, di parcheggi da destinare a
pertinenze di unità immobiliare è soggetta a permesso di
costruire non oneroso, anche in deroga agli strumenti
urbanistici vigenti): il che consente di concludere che la
realizzazione di autorimesse e parcheggi pertinenziali
effettuata in locali siti a piano terra o totalmente al di
sotto del piano di campagna naturale non è soggetta alla
disciplina urbanistica che regola le nuove costruzioni fuori
terra.
Per altro verso, sin dal 1967 il legislatore, in ragione del
crescente impatto della motorizzazione di massa
sull’ordinato assetto urbano, ha dapprima imposto nelle
nuove costruzioni appositi spazi per parcheggi, in misura
non inferiore a un mq per ogni 20 mc di costruzione (art.
41-sexies legge 1155/1942, introdotto dall’art. 18 della l.
n. 765/1967); poi ha sancito che tali spazi costituiscono
pertinenze delle costruzioni (art. 26 l. n. 47/1985); da
ultimo, ha raddoppiato lo spazio da destinare
obbligatoriamente a parcheggio pertinenziale degli edifici
(art. 2 l. n. 122/1989: un mq per ogni 10 mc di costruzione)
e stabilito che i relativi interventi costituiscono opere di
urbanizzazione, come tali esenti da contributo di
concessione (art. 11 l. n. 122/1989): con ciò inducendo ad
individuare nella mancanza di carico urbanistico dei
parcheggi obbligatori e pertinenziali (a differenza dei
parcheggi non pertinenziali, apportatori di carico
urbanistico) la ragione per escluderne la computabilità
nella cubatura complessiva consentita.
Da tutto quanto detto consegue, in definitiva, che non
concorre al calcolo della volumetria assentibile il
parcheggio pertinenziale che sia realizzato, come previsto
nel caso di specie, al piano terreno di un edificio
esistente, per il quale il rapporto di pertinenzialità deve
essere visto in relazione appunto alla suddetta normativa
speciale in materia di parcheggi dettata dalla legge n. 122
del 1989 e dalla l.r. n. 19 del 2001, e non già con
riferimento alla disciplina di carattere generale sugli
interventi pertinenziali di cui all'art. 3 del D.P.R. n.
380/2001.
Peraltro,
anche su un piano generale la giurisprudenza di questa
Sezione ha già espresso l’avviso che gli spazi per
parcheggio di natura pertinenziale e obbligatoria non vanno
considerati ai fini del calcolo della volumetria complessiva
consentita e della determinazione della superficie coperta
(cfr. TAR Campania Napoli, sez. II, 23.06.2010, n.
15731).
Si tratta di un principio che deve essere in questa sede
riaffermato, salve diverse previsioni di piano o
regolamentari.
Per un verso, infatti, l'art. 9 della legge 24.03.1989,
n. 122, prevede che «i proprietari di immobili possono
realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali
siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare
a pertinenza delle singole unità immobiliari anche in deroga
agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi
vigenti» (cui fa eco l’articolo 6 della legge della Regione
Campania n. 19 del 28.11.2001, secondo cui la
realizzazione in aree libere, anche non di pertinenza del
lotto dove insistono gli edifici, ovvero nel sottosuolo di
fabbricati o al pianterreno di essi, di parcheggi da
destinare a pertinenze di unità immobiliare è soggetta a
permesso di costruire non oneroso, anche in deroga agli
strumenti urbanistici vigenti): il che consente di
concludere che la realizzazione di autorimesse e parcheggi pertinenziali effettuata in locali siti a piano terra o
totalmente al di sotto del piano di campagna naturale non è
soggetta alla disciplina urbanistica che regola le nuove
costruzioni fuori terra (cfr., ex multis, C.d.S., sez. IV,
13.07.2011 n. 4234, C.d.S., sez. IV, 26.09.2008 n.
4645).
Per altro verso, sin dal 1967 il legislatore, in ragione del
crescente impatto della motorizzazione di massa
sull’ordinato assetto urbano, ha dapprima imposto nelle
nuove costruzioni appositi spazi per parcheggi, in misura
non inferiore a un mq per ogni 20 mc di costruzione (art. 41-sexies legge 1155/1942, introdotto dall’art. 18 della l. n.
765/1967); poi ha sancito che tali spazi costituiscono
pertinenze delle costruzioni (art. 26 l. n. 47/1985); da
ultimo, ha raddoppiato lo spazio da destinare
obbligatoriamente a parcheggio pertinenziale degli edifici
(art. 2 l. n. 122/1989: un mq per ogni 10 mc di costruzione) e
stabilito che i relativi interventi costituiscono opere di
urbanizzazione, come tali esenti da contributo di
concessione (art. 11 l. n. 122/1989): con ciò inducendo ad
individuare nella mancanza di carico urbanistico dei
parcheggi obbligatori e pertinenziali (a differenza dei
parcheggi non pertinenziali, apportatori di carico
urbanistico) la ragione per escluderne la computabilità
nella cubatura complessiva consentita (cfr. TAR Friuli
Venezia Giulia, 12.06.2006, n. 426).
Da tutto quanto detto consegue, in definitiva, che non
concorre al calcolo della volumetria assentibile il
parcheggio pertinenziale che sia realizzato, come previsto
nel caso di specie, al piano terreno di un edificio
esistente, per il quale il rapporto di pertinenzialità deve
essere visto in relazione appunto alla suddetta normativa
speciale in materia di parcheggi dettata dalla legge n. 122
del 1989 e dalla l.r. n. 19 del 2001, e non già con
riferimento alla disciplina di carattere generale sugli
interventi pertinenziali di cui all'art. 3 del D.P.R. n.
380/2001 (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 14.05.2013 n. 2495 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’autorizzazione
all’installazione di impianti pubblicitari è subordinata
alla valutazione in ordine alla sua compatibilità con il
diverso interesse pubblico generale alla ordinata
regolamentazione degli spazi pubblicitari nel territorio e
nell’ambiente (che non possono essere indiscriminatamente
lasciati alla libera iniziativa privata pur se configurabili
come forma di attività economica), e, quindi, essa
costituisce oggetto di una specifica disciplina, non
sovrapponibile o confondibile con quella edilizia,
considerato che l’art. 3 del decreto legislativo 15.11.1993
n. 507 prevede che i comuni, nel disciplinare con proprio
regolamento le modalità di effettuazione della pubblicità,
stabiliscano limitazioni e divieti per particolari forme
pubblicitarie esclusivamente in relazione ad esigenze di
pubblico interesse.
Premesso:
- con il ricorso in esame proposto il 30.6-1.7 del 2011 la
società De Sanctis Pubblicità, a mezzo di due motivi di
censura per violazione di legge ed eccesso di potere, ha
domandato l’annullamento del provvedimento dirigenziale
emesso dal IV Settore comunale (impianti pubblicitari) il
25.05.2011, recante diffida e dichiarazione di decadenza
relativamente a permessi in precedenza rilasciati per
l’installazione di impianti pubblicitari che vengono
ritenuti tardivamente collocati (rispetto a 30 giorni dal
rilascio del permesso e in assenza della dichiarazione di
inizio lavori) e, perciò, da considerare abusivi;
- il comune di Rieti, con le controdeduzioni, ha formulato
talune eccezioni, di difetto di legittimazione attiva (per
essere stato il ricorso proposto dal signor Paolo De Sanctis
in proprio anziché nella sua veste di amministratore della
De Sanctis Pubblicità s.r.l. alla quale è stato rilasciato
il permesso del 07.05.2010), di genericità della domanda
d’annullamento (per le argomentazioni confuse e caotiche),
di tardività del secondo motivo d’impugnazione, diretto a
contestare la quantità degl’impianti pubblicitari
autorizzati con l’atto concessorio del 2010;
- la relazione ministeriale, constatate tanto la poco
chiarezza del ricorso quanto la confusione nelle
controdeduzioni comunali, ha concluso per l’accoglimento del
ricorso nell’assunto che dall’atto impugnato non sarebbe
dato di evincere il tipo di violazione commessa.
Considerato:
- va disattesa l’eccezione, formulata dal comune, di difetto
di legittimazione del ricorrente, con cui si sostiene,
formalisticamente, l’estraneità del ricorrente alla pretesa
facente invece capo alla società della quale il ricorrente è
amministratore. La legitimatio ad causam, attiva e passiva,
consiste nella titolarità del potere e del dovere di
promuovere e subire un giudizio in ordine al rapporto
sostanziale dedotto in causa. Essa dev'essere accertata in
relazione non alla sua concreta sussistenza, da contrastare
con adeguata prova, bensì in ordine alla sua affermazione
contenuta nell’atto introduttivo del giudizio.
Conseguentemente l’indagine volta a verificarne l’esistenza
dev'essere unicamente diretta ad accertare la coincidenza,
dal lato attivo, tra il soggetto che propone la domanda e
colui che nella stessa domanda è affermato titolare del
diritto. Nella specie, sussiste coincidenza fra l’attore e
la società che nella domanda è individuata ed affermata come
destinataria della pretesa attorea, come tale risultante
anche dagli stessi atti di provenienza comunale (il
ricorrente ha ritirato il permesso accordato nella
dichiarata qualità di amministratore della società) e, del
resto, il comune non ha neppure contestato tale titolarità
del rapporto controverso;
- da respingere è altresì la eccepita genericità
dell’impugnazione. Sul punto, è sufficiente rilevare che
l’inammissibilità dell’impugnazione per genericità dei
motivi sussiste solo quando il giudice non sia posto in
grado di comprendere quali vizi il ricorrente deduca per
sostenere l’invalidità del provvedimento impugnato
(Consiglio Stato, sez. IV, 17.02.2009 n. 912). Fuori
da questi limiti, è dovere del giudicante interpretare il
ricorso ed esaminare le censure ancorché non organicamente
articolate, ricavandole dal contesto del ricorso e della
richiesta formulata. Nel caso di specie emerge con
sufficiente chiarezza che il ricorrente ha impugnato
soltanto l’atto di decadenza del permesso assentito e si
duole della relativa pronuncia ritenendola ingiustificata e
perciò illegittima;
- in collegamento, è quindi priva di pregio anche l’altra
eccezione circa la tardiva impugnazione della quantità degli
impianti pubblicitari autorizzati con l’atto concessorio del
2010, perché questo provvedimento non è stato impugnato, e
il secondo motivo di censura è unicamente diretto a mettere
in luce il contesto decisionale e operativo del comune,
tacciato di atteggiamento persecutorio;
- nel merito, il ricorso dev’essere accolto poiché non
possono essere condivise le motivazioni poste dal comune a
base dell’automatica decadenza pronunciata a termini
dell’art. 15 del decreto del Presidente della repubblica 06.06.2001 n. 380 (“...Il termine per l’inizio dei lavori
non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo;
quello di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere
completata, non può superare i tre anni dall’inizio dei
lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con
provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla
volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il
permesso decade di diritto per la parte non eseguita”...) in
relazione all’art. 10, comma 5, del regolamento
sugl’impianti pubblicitari (“L’autorizzazione potrà essere
revocata qualora l’installazione non avvenga entro trenta
giorni dal rilascio della stessa...");
- al riguardo, va premesso che si sta discorrendo in materia
di impianti pubblicitari e dell’installazione di un totem e
di cinque fioriere, il che esclude che a tale tipologia di
attività debba applicarsi senz’altro la disposizione recata
dal citato art. 15 del d.P.R. n. 380/2001 in tema di
osservanza del termine (di trenta giorni previsto dal
regolamento), quando poi lo stesso suo art. 10, comma 5,
prevede come possibile e discrezionale la relativa decadenza
della concessione accordata;
- l’autorizzazione all’installazione di impianti
pubblicitari è subordinata alla valutazione in ordine alla
sua compatibilità con il diverso interesse pubblico generale
alla ordinata regolamentazione degli spazi pubblicitari nel
territorio e nell’ambiente (che non possono essere
indiscriminatamente lasciati alla libera iniziativa privata
pur se configurabili come forma di attività economica), e,
quindi, essa costituisce oggetto di una specifica
disciplina, non sovrapponibile o confondibile con quella
edilizia, considerato che l’art. 3 del decreto legislativo
15.11.1993 n. 507 prevede che i comuni, nel disciplinare con
proprio regolamento le modalità di effettuazione della
pubblicità, stabiliscano limitazioni e divieti per
particolari forme pubblicitarie esclusivamente in relazione
ad esigenze di pubblico interesse;
- nell’atto impugnato non sono neppure evidenziate esigenze
d’utilità sociale ovvero di tutela ambientale o di valenza
estetica che inibiscano l’esercizio di tali forme
pubblicitarie senza violare l’art. 41 della Costituzione, e
da esso non è dato neanche evincere il tipo di violazione
commessa dal ricorrente, come giustamente posto in risalto
dalla relazione ministeriale;
- d’altro canto, quanto all’effettiva sussistenza nella
specie dei presupposti di fatto relativi all’inerzia
dell’interessato e pur a riguardare la fattispecie in una
visuale di decadenza automatica, va pure rilevato come il
comune non abbia minimamente contrastato la circostanza
dedotta nel ricorso, che l’installazione è avvenuta entro i
30 giorni alla presenza, sul luogo di ubicazione degli
impianti e d’inizio lavori, di un vigile urbano (dott.ssa
Carla Francia) e del responsabile dell’ufficio tecnico
comunale (signora Catia Rossi);
- conclusivamente, per tutte le considerazioni sopra
sviluppate, la censura di carenza di motivazione della
pronuncia di decadenza è fondato e il ricorso va accolto,
annullando l’atto impugnato (Consiglio di
Stato, Sez. I,
parere 16.04.2013 n. 1801 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In presenza di un atto vincolato, non preceduto
dal preavviso ex art. 10-bis L. n. 241/1990, va considerato
operante il disposto della prima parte dell'art. 21-octies
della stessa legge, che impedisce al Giudice di annullare
l'atto che sia affetto da tale vizio procedimentale.
Ne consegue che non può essere inficiato dalla omessa
comunicazione di avvio del procedimento il provvedimento
negativo sulla richiesta di autorizzazione in sanatoria di
opere realizzate in carenza del titolo abilitativo,
trattandosi di determinazione costituente atto vincolato,
indipendentemente dalla partecipazione dell'interessato.
Anche il secondo motivo è infondato.
In presenza di un atto vincolato, non preceduto dal
preavviso ex art. 10-bis L. n. 241/1990, va considerato
operante il disposto della prima parte dell'art. 21-octies
della stessa legge, che impedisce al Giudice di annullare
l'atto che sia affetto da tale vizio procedimentale (Cons.
Stato Sez. V, 03.09.2009, n. 5169).
Ne consegue che non può essere inficiato dalla omessa
comunicazione di avvio del procedimento il provvedimento
negativo sulla richiesta di autorizzazione in sanatoria di
opere realizzate in carenza del titolo abilitativo,
trattandosi di determinazione costituente atto vincolato,
indipendentemente dalla partecipazione dell'interessato
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 06.09.2012 n. 3807 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'08.07.2014 |
ã |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA:
Nel caso di abusi ambientali, non sanabili perché
non rientranti nella casistica ex art. 167 d.lgs.
42/2004, legittimamente l'istanza di accertamento di
compatibilità paesaggistica è da subito rigettata
dal responsabile dell'Ufficio Tecnico, senza perdere
tempo ad acquisire il parere della Commissione
Paesaggio e, soprattutto, il successivo parere
(obbligatorio e vincolante) della Soprintendenza.
I lavori (abusivamente) effettuati (in area
paesaggisticamente vincolata) non sono, invero,
riconducibili:
- né ai casi di cui alla lettera a) del comma 4 del
richiamato articolo 167 (lavori, realizzati in
assenza o difformità dall'autorizzazione
paesaggistica, che non abbiano determinato creazione
di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati),
- né alle ipotesi di cui alla successiva lettera b)
(impiego di materiali in difformità
dall'autorizzazione paesaggistica),
- né si configurano quali interventi di manutenzione
ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3
del d.P.R. n. 380/2001 (lett. c) del medesimo
comma).
Pertanto, posto che, per pacifico e consolidato
orientamento giurisprudenziale, ove le opere
risultino diverse da quelle sanabili e indicate
nell’art. 167, le competenti autorità non possono
che procedere alla reiezione dell’istanza di
sanatoria, con l’unica eccezione a tale rigida
prescrizione per il caso in cui i lavori, pur
realizzati in assenza o difformità
dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
---------------
Inoltre, per sostenere l’illegittimità del
provvedimento impugnato non può invocarsi l’omessa
acquisizione del parere vincolante della
Soprintendenza, di natura endoprocedimentale.
Osserva il Collegio che l’attuale disposto
dell’articolo 21-octies della L. 241/1990, come
novellata dalla L. 15/2005, ha oramai chiaramente
disposto che le violazioni procedimentali intanto
rilevano ai fini dell’annullamento giurisdizionale
dell’atto in quanto risulti che la loro mancanza
avrebbe condotto ad un esito provvedimentale
diverso.
Invero, nel caso di specie, il parere della
competente Soprintendenza non avrebbe certamente
potuto essere favorevole, attesa la sussistenza di
abusi perpetrati in zona soggetta a tutela
paesaggistica e, pertanto, il provvedimento gravato,
quale atto dal contenuto vincolato, non avrebbe
potuto essere diverso da quello concretamente
adottato.
---------------
L’articolo 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42/2004,
invero, prevede l’irrogazione della sanzione penale,
oltre che nelle ipotesi di cui alla lettera a),
anche nel caso di esecuzione di lavori in assenza di
autorizzazione paesaggistica o in difformità da
essa, che “ricadano su immobili od aree tutelati per
legge ai sensi dell'articolo 142 ed abbiano
comportato un aumento dei manufatti superiore al
trenta per cento della volumetria della costruzione
originaria o, in alternativa, un ampliamento della
medesima superiore a settecentocinquanta metri cubi,
ovvero ancora abbiano comportato una nuova
costruzione con una volumetria superiore ai mille
metri cubi.” (lettera b).
In sintesi, le richiamate disposizioni sanciscono il
divieto di eseguire lavori su beni paesaggistici
comportanti creazione di superfici utili o volumi
ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati,
senza il previo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica o in difformità da quella in ipotesi
ottenuta, dalla cui violazione scaturisce
l’applicazione delle sanzioni previste dall’articolo
167 e 181 del Codice Urbani, ossia la rimessione in
pristino, la sanzione amministrativa pecuniaria e,
nei casi, tra l’altro, di ampliamento superiore a
settecentocinquanta metri cubi, la pena della
reclusione da uno a quattro anni.
La circostanza, quindi, che il ricorrente senza che
fosse stata rilasciata autorizzazione paesaggistica
in variante abbia abusivamente realizzato una
volumetria inferiore a quella prevista per
l’irrogazione della sanzione penale, lo esime dalla
comminatoria di tale sanzione ma non certo dalla
soggezione alle misure afflittive contemplate dal
plesso normativo testé richiamato per gli abusi di
minore entità che non risultano, però, ascrivibili,
come nel caso in esame, alle fattispecie per le
quali, ferma restando l’applicazione delle sanzioni
amministrative pecuniarie, è consentito il rilascio
di autorizzazione paesaggistica postuma.
Ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica proposti
dal sig. E.N., contro l’Ente Consorzio Parco Regionale dei
Colli di Bergamo, per l’annullamento, rispettivamente,
quanto al ricorso n. 7188 del 2012, del provvedimento n. 513
del 01.02.2011, e, quanto al ricorso n. 7189 del 2012, del
provvedimento n. 531 dell’11.02.2010, in relazione al
diniego di compatibilità paesaggistica per opere concernenti
“formazione di deposito agricolo ad uso promiscuo,
stabulazione mobile animali, coltivazione di fiori e piante
esotiche”, in Via Maresana a Ponteranica (BG);
...
Le censure dedotte, riassunte in narrativa, sono infondate.
Va, in primo luogo, ricordato che l’intervento edilizio di
cui si controverte è stato realizzato in area sita in Via
Maresana, Comune di Ponteranica, soggetta a tutela
paesaggistica in base al vincolo di cui all’art. 142, comma
1, lett. f), del d.lgs. n. 42/2004, in quanto ricadente
all’interno del perimetro di Parco Regionale dei Colli di
Bergamo zona C1/b, parco agricolo forestale del P.T.C..
Un’area, quindi, per la quale, a mente dell’art. 146 del
Codice Urbani, vige l’obbligo di presentare alle
Amministrazioni competenti il progetto degli interventi che
si intendono intraprendere e di astenersi dall’avviare i
lavori fino a quando non sia stata rilasciata autorizzazione
paesaggistica.
Orbene, nel caso di specie, assume rilievo la circostanza
che il ricorrente ha intrapreso i lavori senza che fossero
stati rilasciati l’autorizzazione paesaggistica in variante
e il necessario titolo abilitativo edilizio.
L’intervento effettuato dal ricorrente è consistito, perciò,
in lavori abusivamente realizzati, per i quali
legittimamente il Parco dei Colli di Bergamo, all’esito
degli accertamenti delle Guardie del Parco e del
Responsabile edilizia privata del Comune di Ponteranica, cui
era seguita la nota del medesimo Comune in data 06/03/2009,
citata in premessa, con il gravato atto n. 513/2011 ha
dichiarato non accoglibile l’istanza del 27/07/2009 di
accertamento di compatibilità paesaggistica per le opere
eseguite in assenza di autorizzazione paesaggistica, in
ottemperanza a quanto disposto dagli articoli 181, commi
1-ter e 1-quater e 167, comma 5, del d.lgs. n. 42/2004,
successivamente emettendo il provvedimento intimativo del
ripristino n. 1970/2011.
Del resto il predetto diniego, diversamente da quanto
sostenuto dal ricorrente, non poteva giungere “inaspettato”,
dal momento che il N. stesso era pienamente a conoscenza
della circostanza che il precedente diniego era stato
annullato non per inesatta valutazione dell’entità degli
abusi realizzati, ma in quanto erroneamente sottoscritto da
soggetto carente della relativa competenza (il Presidente
del Consorzio).
Tanto è vero che l’avversato provvedimento riproduce la
ricostruzione dell’iter logico-giuridico operata attraverso
la citazione delle ragioni di fatto, delle fasi
procedimentali espletate, dei presupposti giuridici sottesi
all’atto n. 531/2010, richiamando, nelle premesse, il
preavviso di rigetto in data 01/12/2010 con il quale si
comunicava che l’istanza del ricorrente non poteva essere
accolta in quanto “trattasi di richiesta di compatibilità
paesistica per opere consistenti in ampliamento di un
edificio con destinazione agricola in Via Maresana nel
Comune di Ponteranica, realizzate in assenza di titoli
abilitativi edilizi nonché della relativa autorizzazione
paesaggistica, che hanno determinato (documentazione agli
atti) aumento volumetrico e di superficie utile derivante
dall’ampliamento e sottochiusura delle gronde esterne del
deposito agricolo esistente (mc. 66,08 e sup. coperta m.
29,82)", e, quindi, operando un evidente rinvio per
relationem a siffatte motivazioni.
Occorre, in ogni caso, precisare che, il provvedimento in
questione, oltre a dar conto di quanto sopra rilevato, dà
evidenza, altresì, della circostanza che le osservazioni
presentate dall’istante a seguito della comunicazione di
preavviso di rigetto della richiesta di compatibilità
paesaggistica, valutate puntualmente dalla Commissione
preposta alla determinazione delle sanzioni ripristinatorie
o pecuniarie inerenti interventi realizzati in assenza di
autorizzazioni paesaggistiche entro il perimetro del Parco
dei Colli, non consentivano di superare i motivi ostativi al
rilascio della certificazione di compatibilità
paesaggistica, in quanto “l’intervento non autorizzato
pertinente le opere fuori terra del deposito agricolo ha
determinato creazione di nuovo volume, come evidenziato
negli elaborati grafici allegati e come ammesso nelle
osservazioni presentate, pertanto non è riconducibile alla
tipologia di lavori di cui possa essere richiesta la
compatibilità paesaggistica ai sensi del c. 4 art. 167 del
d.lgs. n. 42/2004 e s.m.i.”.
Prive di pregio risultano, quindi, le censure volta a
dimostrare la genericità e l’indeterminatezza del contenuto
del provvedimento impugnato, nonché l’affermazione riferita
al fatto che i lavori realizzati “si caratterizzano per
il modesto ampliamento di un deposito funzionale
all’attività di imprenditore agricolo”.
E, alla luce delle considerazioni fin qui svolte sulla
scorta della documentazione in atti, che non si trattasse di
“abusi minori”, ossia delle fattispecie marginali
contemplate all’articolo 167, comma 4, del d.lgs. n.
42/2004, per i quali era consentito accedere alla procedura
di accertamento della compatibilità paesaggistica, non è
revocabile in dubbio.
I lavori effettuati non erano, invero, riconducibili né ai
casi di cui alla lettera a) del comma 4 del richiamato
articolo 167 (lavori, realizzati in assenza o difformità
dall'autorizzazione paesaggistica, che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati), né alle
ipotesi di cui alla successiva lettera b) (impiego di
materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica),
né si configuravano quali interventi di manutenzione
ordinaria o straordinaria ai sensi dell’articolo 3 del
d.P.R. n. 380/2001 (lett. c) del medesimo comma).
Pertanto, posto che, per pacifico e consolidato orientamento
giurisprudenziale, ove le opere risultino diverse da quelle
sanabili e indicate nell’art. 167, le competenti autorità
non possono che procedere alla reiezione dell’istanza di
sanatoria (ex plurimis, Cons. Stato, VI, n.
3578/2012), con l’unica eccezione a tale rigida prescrizione
per il caso in cui i lavori, pur realizzati in assenza o
difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati, nel caso di
specie, l’Ente Parco, a motivo del fatto che le
trasformazioni apportate avevano comportato aumenti di
superficie utile e volume, ha escluso la ricorrenza della
fattispecie derogatoria appena richiamata, ed ha emanato, ai
sensi degli articoli 167 e 181 del Codice Urbani, il
contestato provvedimento di diniego di compatibilità
paesaggistica e il conseguente provvedimento sanzionatorio
di ripristino, con il quale si ordinava la “demolizione
delle opere inerenti l’ampliamento volumetrico dei fronti
nord, est ed ovest a piano terra del fabbricato a
destinazione deposito/ripostiglio (locale pluriuso, bagno,
angolo cottura vivande, ingresso vano scala, come indicato
negli elaborati allegati alla richiesta di compatibilità
paesaggistica pg. 3379 del 27.07.2009 TAV. 03)”.
A ciò si aggiunga, come evidenziato dall’Amministrazione
riferente, che con la circolare esplicativa emanata dal
medesimo Ministero n. 33 del 26.06.2009 è stato chiarito che
per “volumi” si intende “qualsiasi manufatto
costituito da parti chiuse emergente dal terreno o dalla
sagoma di un fabbricato preesistente indipendentemente dalla
destinazione d’uso del manufatto, ad esclusione dei volumi
tecnici”.
Né risulta conferente alla specificità della questione in
trattazione, la citazione da parte del ricorrente di
precedenti pronunce dei giudici amministrativi territoriali
lombardi, non essendo fornita alcuna prova di quale possa
essere il “guadagno ambientale” derivante dalla
realizzazione di opere, quali quelle oggetto della odierna
controversia, eseguite nella suddetta area vincolata in
totale assenza di titoli autorizzatori e abilitativi.
Neppure rileva l’invocazione delle norme contenute nella
L.R. della Regione Lombardia n. 12/2005, non solo perché le
stesse non hanno intaccato la tutela del paesaggio, ma anche
perché, nel caso di specie, il manufatto in questione ricade
in area vincolata paesaggisticamente e dunque è assoggettato
ad autorizzazione da parte degli organi preposti alla tutela
del vincolo.
Inoltre, per sostenere l’illegittimità del provvedimento
impugnato non può invocarsi l’omessa acquisizione del parere
vincolante della Soprintendenza, di natura
endoprocedimentale.
Osserva il Collegio che l’attuale disposto dell’articolo
21-octies della L. 241/1990, come novellata dalla L.
15/2005, ha oramai chiaramente disposto che le violazioni
procedimentali intanto rilevano ai fini dell’annullamento
giurisdizionale dell’atto in quanto risulti che la loro
mancanza avrebbe condotto ad un esito provvedimentale
diverso.
Invero, nel caso di specie, il parere della competente
Soprintendenza non avrebbe certamente potuto essere
favorevole, attesa la sussistenza di abusi perpetrati in
zona soggetta a tutela paesaggistica e, pertanto, il
provvedimento gravato, quale atto dal contenuto vincolato,
non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente
adottato.
Non meritevole di favorevole apprezzamento è anche
l’affermazione del ricorrente laddove sostiene che nessuna
sanzione poteva essergli inflitta, dal momento che l’aumento
di volumetria realizzato risultava inferiore alla misura
prevista dall’articolo 181-bis del codice dei beni culturali
e del paesaggio.
La domanda di rilascio di autorizzazione paesaggistica
postuma, infatti, è stata presentata dal ricorrente ai sensi
degli articoli 167, comma 5 e 181, commi 1-ter e 1-quater,
disposizioni che prevedono la possibilità di una valutazione
postuma della compatibilità paesaggistica per i cennati
interventi di minore rilevanza e consistenza, all’esito
della quale si applicano comunque le sanzioni amministrative
ma non quelle penali stabilite per il reato
contravvenzionale contemplato dall’articolo 181, comma 1.
L’articolo 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42/2004, invero,
prevede l’irrogazione della sanzione penale, oltre che nelle
ipotesi di cui alla lettera a), anche nel caso di esecuzione
di lavori in assenza di autorizzazione paesaggistica o in
difformità da essa, che “ricadano su immobili od aree
tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed abbiano
comportato un aumento dei manufatti superiore al trenta per
cento della volumetria della costruzione originaria o, in
alternativa, un ampliamento della medesima superiore a
settecentocinquanta metri cubi, ovvero ancora abbiano
comportato una nuova costruzione con una volumetria
superiore ai mille metri cubi.” (lettera b).
In sintesi, le richiamate disposizioni sanciscono il divieto
di eseguire lavori su beni paesaggistici comportanti
creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di
quelli legittimamente realizzati, senza il previo rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica o in difformità da quella
in ipotesi ottenuta, dalla cui violazione scaturisce
l’applicazione delle sanzioni previste dall’articolo 167 e
181 del Codice Urbani, ossia la rimessione in pristino, la
sanzione amministrativa pecuniaria e, nei casi, tra l’altro,
di ampliamento superiore a settecentocinquanta metri cubi,
la pena della reclusione da uno a quattro anni.
La circostanza, quindi, che il ricorrente senza che fosse
stata rilasciata autorizzazione paesaggistica in variante
abbia abusivamente realizzato una volumetria inferiore a
quella prevista per l’irrogazione della sanzione penale, lo
esime dalla comminatoria di tale sanzione ma non certo dalla
soggezione alle misure afflittive contemplate dal plesso
normativo testé richiamato per gli abusi di minore entità
che non risultano, però, ascrivibili, come nel caso in
esame, alle fattispecie per le quali, ferma restando
l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, è
consentito il rilascio di autorizzazione paesaggistica
postuma.
In base al complesso delle considerazioni sin qui svolte,
pertanto, il ricorso n. 7188/2012 non può essere accolto
(Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 19.04.2013 n. 1888 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
dite
la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
INCARICHI
PROFESSIONALI - PUBBLICO
IMPIEGO:
R. Lasca,
L'omofonia del termine
“incarichi” usato dal legislatore delegato pro TRASPARENZA e
anti CORRUZIONE - Corretto? Mica tanto. Semmai: due
pesi e due misure per la stessa finalità! Ma c'è comunque
tanto da dire su entrambi i versanti normativi! (25.06.2014). |
SINDACATI |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE - SEGRETARI COMUNALI:
RIFORMA DELLA P.A. – tagli all’avvocatura e alla
progettazione interna dei dirigenti, stop ai diritti di
rogito dei segretari comunali
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 28.06.2014). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA
PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 07.07.2014, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 30.06.2014, in attuazione dell’articolo 2,
commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato
regionale 30.06.2014 n. 81). |
EDILIZIA
PRIVATA: G.U.
04.07.2014 n. 153 "Proroga del termine per adeguare i
modelli di libretto e i rapporti di efficienza energetica
degli impianti di climatizzazione" (Ministero dello
Sviluppo Economico,
decreto 20.06.2014). |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 04.07.2014 "Classificazione
dei piccoli comuni non montani della Lombardia in zone che
presentano simili condizioni di sviluppo socio-economico e
infrastrutturale ai sensi dell’art. 2 della legge regionale
05.05.2004, n. 11 e classificazione generale dei piccoli
comuni della Lombardia" (deliberazione
G.R. 01.07.2014 n. 2008). |
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 04.07.2014
"Approvazione delle «Indicazioni operative per la
classificazione e la declassificazione amministrativa della
rete viaria in Regione Lombardia»" (decreto
D.S. 30.06.2014 n. 5660). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 27 del 03.07.2014, "Approvazione
del programma regionale di gestione dei rifiuti (P.R.G.R.)
comprensivo di piano regionale delle bonifiche (P.R.B.) e
dei relativi documenti previsti dalla valutazione ambientale
strategica (VAS); conseguente riordino degli atti
amministrativi relativi alla pianificazione di rifiuti e
bonifiche" (deliberazione
G.R. 20.06.2014 n. 1990). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI:
F. Gavioli,
Carenza dei requisiti di partecipazione alla gara: imprese
sanzionate
(04.07.2014 - tratto da www.ipsoa.it). |
VARI:
R. D'Isa,
La vendita di cosa altrui e
di cosa parzialmente altrui (02.07.2014 -
tratto da http://renatodisa.com).
--------------
Sommario:
A) Vendita di cosa altrui
1) La produzione dell’effetto reale
2) Disciplina giuridica – pag. 6
3) Vendita di cosa altrui venduta come propria
4) Rifiuto del terzo
B) Vendita di cosa parzialmente altrui |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
OGGETTO: Istanza di Interpello - Cessioni a titolo
gratuito al Comune, di aree ed opere di urbanizzazione –
Applicabilità dell’articolo 32 del DPR n. 601 del 1973
(Agenzia delle Entrate,
risoluzione 03.07.2014 n. 68/E). |
ENTI LOCALI:
OGGETTO: Articolo 243, comma 3-bis, del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267 – Organo di revisione
economico-finanziaria delle unioni di comuni che svolgono
tutte le funzioni fondamentali dei comuni membri – Articolo
1, comma 110, lett. c), della legge 07.04.2014, n. 56 –
facoltà di svolgimento in forma associata da parte delle
unioni di comuni delle funzioni dell’organo di revisione
(Ministero dell'Interno, Dipartimento per gli Affari Interni
e Territoriali,
circolare 03.07.2014 n. 12/2014 - link a http://finanzalocale.interno.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Oggetto: Legge 80/2014, art. 12: nuovi riferimenti
normativi riguardanti le condizioni per la partecipazione
alle gare d’appalto per i lavori – Quote nei raggruppamenti
temporanei orizzontali (ANCE Bergamo,
circolare 01.07.2014 n. 131). |
APPALTI
- CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI - PATRIMONIO:
DECRETO-LEGGE 24.04.2014, N. 66 “MISURE URGENTI PER LA
COMPETITIVITÀ E LA GIUSTIZIA SOCIALE” CONVERTITO NELLA LEGGE
23.06.2014, N. 89 -
Nota di
lettura sugli articoli di interesse per i Comuni e
scadenzario delle norme di attuazione (ANCI,
30.06.2014). |
APPALTI - ENTI
LOCALI:
OGGETTO: PIATTAFORMA PER LA CERTIFICAZIONE DEI CREDITI.
MODALITÀ DI TRASMISSIONE DEI DATI. REGOLE TECNICHE PER LA
COMUNICAZIONE DEI DATI RIFERITI A FATTURE (O RICHIESTE
EQUIVALENTI DI PAGAMENTO). ART. 27 DECRETO LEGGE 24.04.2014
N. 66, CONVERTITO CON MODIFICAZIONI DALLA LEGGE 23.06.2014,
N. 89 (Ministero dell'Economia e delle Finanze,
Ragioneria Generale dello Stato,
circolare 25.06.2014 n. 21). |
EDILIZIA
PRIVATA: La
disciplina nazionale della certificazione energetica - Guida
operativa 2014 (Consiglio
Nazionale del Notariato,
studio
19-20.06.2014 n. 657-2013/C).
--------------
Sommario:
1. LA CERTIFICAZIONE ENERGETICA:
NORMATIVA, SCOPI E FUNZIONI:
1.1. La normativa; 1.2. L’adeguamento normativo alla
direttiva 2010/31/UE; 1.3. Il rilascio dell’attestato di
prestazione energetica a partire dal 6 giugno 2013; 1.4.
Scopi; 1.5. Funzioni; 1.6.1 Gli obblighi in materia di
certificazione energetica;
2. L’OBBLIGO DI DOTAZIONE DELL’ATTESTATO DI
PRESTAZIONE ENERGETICA:
2.1. I presupposti; 2.2. Gli edifici da dotare di
certificazione energetica a prescindere da un loro
trasferimento o locazione (cd. “presupposto oggettivo”);
2.3. Gli edifici da dotare di certificazione energetica in
occasione del trasferimento e/o locazione (cd. “presupposto
contrattuale”); 2.4. L’obbligo di dotazione per gli atti
traslativi (dopo il D.L. 145/2013); 2.5. La locazione; 2.6.
Il preliminare e le trattative contrattuali; 2.7. Il
trasferimento e la locazione di immobile da costruire; 2.8.
Esclusioni oggettive dall’obbligo di dotazione; 2.9. Gli
immobili soggetti a vincolo culturale e paesaggistico;
3. L’OBBLIGO DI ALLEGAZIONE DELL’ATTESTATO
DI PRESTAZIONE ENERGETICA:
3.1. La disciplina dopo il D.L. 145/2013; 3.2. L’obbligo di
allegazione e l’obbligo di dotazione; 3.3. L’obbligo di
allegazione e ruolo del Notaio; 3.4. L’allegazione
dell’attestato di certificazione rilasciato prima del 6
giugno 2013; 3.5. Il riutilizzo di un attestato già allegato
a precedente atto;
4. L’OBBLIGO DI CONSEGNA DELL’ATTESTATO DI
PRESTAZIONE ENERGETICA:
4.1. Sussistenza di un autonomo obbligo di consegna;
5. L’OBBLIGO DI INFORMATIVA:
5.1. I presupposti; 5.2. La clausola;
6. GLI OBBLIGHI IN MATERIA DI
CERTIFICAZIONE ENERGETICA CON RIGUARDO ALLE DIVERSE
TIPOLOGIE DI ATTI:
6.1. Gli atti traslativi a titolo oneroso; 6.2. Gli atti
traslativi a titolo gratuito; 6.3. Gli atti non traslativi;
6.4. I casi particolari; 6.5. Le locazioni; 6.6. Il ruolo
del Notaio;
7. LE SANZIONI:
7.1. Le sanzioni per il caso di violazione dell’obbligo di
dotazione; 7.2. Le sanzioni per il caso di violazione
dell’obbligo di allegazione; 7.3. Le sanzioni per il caso di
violazione dell’obbligo di consegna; 7.4. Le sanzioni per il
caso di violazione dell’obbligo di dichiarazione di ricevuta
informativa; 7.5. La sanzione amministrativa “in luogo”
della nullità; 7.6. Adempimenti successivi all’applicazione
della sanzione pecuniaria;
8. LA VALIDITÀ TEMPORALE DELL’ATTESTATO DI
PRESTAZIONE ENERGETICA:
8.1. Le condizioni di validità dell’attestato di prestazione
energetica; 8.2. Certificazione energetica e libretti degli
impianti; 8.3. Certificazione energetica e decadenza;
9. I SOGGETTI CERTIFICATORI:
9.1. I certificatori abilitati; 9.2. I requisiti di
indipendenza e imparzialità; 9.3. La disciplina in tema di
certificazione; 9.4 La disciplina regionale. |
SEGRETARI
COMUNALI:
Oggetto: Legge 27.12.2013, n. 147. Deliberazione del
Consiglio nazionale d'amministrazione dell'Agenzia autonoma
per la gestione dell'Albo dei segretari comunali e
provinciali n. 275/2001 (Ministero dell'Interno, Albo
Nazionale dei Segretari Comunale e Provinciali,
nota 09.06.2014 n. 3636 di prot.). |
CORTE DEI CONTI |
APPALTI: In
assenza di deroghe legislative, deve ritenersi che il Comune
(non capoluogo di provincia) non può procedere ad acquisire
autonomamente neppure lavori, servizi e forniture d’importo
inferiore ad euro 40.000 mediante affidamento diretto,
poiché la nuova disposizione di finanza pubblica, che ha
novellato il comma 3-bis dell'articolo 33 del Codice dei
contratti pubblici, assume nell’ordinamento carattere di
specialità, e quindi di prevalenza, rispetto alla norma
generale di cui all’art. 125, commi 8 e 11, dello stesso
Codice.
---------------
Le opzioni organizzative previste
dalla norma per costituire la centrale di committenza a cui
possono rivolgersi i Comuni sono:
(1) nell'ambito delle unioni dei comuni di cui all'articolo
32 del TUEL, ove esistenti, ovvero
(2) costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni
medesimi e avvalendosi dei competenti uffici, oppure
(3) ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle province,
ai sensi della legge 07.04.2014, n. 56, residuando lo spazio
per negoziazioni autonome solo a mezzo gli strumenti
elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro
soggetto aggregatore di riferimento.
---------------
Con la nota richiamata in epigrafe il Sindaco del Comune
di Torre Canavese (TO) chiede alla Sezione un parere in
merito alla corretta interpretazione dell’art. 33, comma
3-bis, del d.lgs. 12.04.2006 n. 163, come riformulato
dal decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito in legge
23.06.2014, n. 89.
In particolare, chiede se sia corretto ritenere che un
Comune non capoluogo di provincia, avente popolazione
inferiore a mille abitanti, non possa acquisire
autonomamente lavori, servizi e forniture d’importo
inferiore ad euro 40.000, mediante affidamento diretto, come
invece previsto dall’art. 125, commi 8 e 11, dello stesso
Codice dei contratti pubblici.
...
Il comma 3-bis dell'articolo 33 del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici), aggiunto
all’originario articolato dall'art. 23, comma 4, D.L.
06.12.2011, n. 201, conv. in L. 22.12.2011, n. 214, ha
subìto una prima modifica da parte dell'art. 1, comma 4,
D.L. 06.07.2012, n. 95, conv. in L. 07.08.2012, n. 135 e,
successivamente, da parte dell'art. 1, comma 343, L.
27.12.2013, n. 147, a decorrere dal 01.01.2014.
Con l’art. 9, comma 4, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66,
convertito in legge 23.06.2014, n. 89, il Legislatore è
nuovamente intervenuto sul testo normativo in discorso,
sostituendolo con il seguente: «3-bis. I Comuni non
capoluogo di provincia procedono all'acquisizione di lavori,
beni e servizi nell'ambito delle unioni dei comuni di cui
all'articolo 32 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267,
ove esistenti, ovvero costituendo un apposito accordo
consortile tra i comuni medesimi e avvalendosi dei
competenti uffici anche delle province, ovvero ricorrendo ad
un soggetto aggregatore o alle province, ai sensi della
legge 07.04.2014, n. 56. In alternativa, gli stessi Comuni
possono acquisire beni e servizi attraverso gli strumenti
elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro
soggetto aggregatore di riferimento. L’Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture non rilascia il codice identificativo gara (CIG)
ai comuni non capoluogo di provincia che procedano
all’acquisizione di lavori, beni e servizi in violazione
degli adempimenti previsti dal presente comma.».
Il nuovo testo dell’articolo è volto a soddisfare le
esigenze di semplificazione dei centri d’acquisto e si
inserisce nella direzione auspicata, a livello comunitario,
nella recente Direttiva Appalti 2014/24/UE (59°
considerando) che ha registrato nei mercati degli appalti
pubblici dell’Unione una forte tendenza all’aggregazione
della domanda da parte dei committenti pubblici, al fine di
ottenere economie di scala, come prezzi e costi delle
transazioni più bassi, nonché un miglioramento e una maggior
professionalità nella gestione degli appalti.
Il comma in questione conferma, dunque, l’aggregazione
obbligatoria per i Comuni, con esclusione degli enti locali
capoluogo di provincia, per le procedure contrattuali per
l’affidamento dei contratti di lavori, servizi e forniture.
Peraltro, nel testo novellato non è stata riprodotta la
deroga alla disciplina in discorso, che era stata
recentemente introdotta dall’art. 1, comma 343, della Legge
27.12.2013, n. 147 (Legge di stabilità per il 2014) il quale
aveva aggiunto, alla fine del richiamato comma 3-bis, il
seguente periodo: «Le disposizioni di cui al presente
comma non si applicano alle acquisizioni di lavori, servizi
e forniture, effettuate in economia mediante amministrazione
diretta, nonché nei casi di cui al secondo periodo del comma
8 e al secondo periodo del comma 11 dell'articolo 125».
Le opzioni organizzative previste dalla
norma per costituire la centrale di committenza a cui
possono rivolgersi i Comuni sono, pertanto:
(1) nell'ambito delle unioni dei comuni di cui all'articolo
32 del TUEL, ove esistenti, ovvero
(2) costituendo un apposito accordo consortile tra i comuni
medesimi e avvalendosi dei competenti uffici, oppure
(3) ricorrendo ad un soggetto aggregatore o alle province,
ai sensi della legge 07.04.2014, n. 56, residuando lo spazio
per negoziazioni autonome solo a mezzo gli strumenti
elettronici di acquisto gestiti da Consip S.p.A. o da altro
soggetto aggregatore di riferimento.
Conclusivamente, in assenza di deroghe
legislative, deve ritenersi che il Comune richiedente il
parere non possa procedere ad acquisire autonomamente
neppure lavori, servizi e forniture d’importo inferiore ad
euro 40.000 mediante affidamento diretto, poiché la nuova
disposizione di finanza pubblica, che ha novellato il comma
3-bis dell'articolo 33 del Codice dei contratti pubblici,
assume nell’ordinamento carattere di specialità, e quindi di
prevalenza, rispetto alla norma generale di cui all’art.
125, commi 8 e 11, dello stesso Codice
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 02.07.2014 n. 144). |
SEGRETARI
COMUNALI: Sul
danno erariale per aver conferito al Segretario Comunale la
funzione di Direttore Generale.
La richiesta risarcitoria avanzata dalla Procura regionale
si riferisce in concreto all’ingiustificato esercizio, da
parte del Sindaco e del Segretario comunale, della facoltà
prevista dall’art. 108, comma 4 del D.Lgs. n. 267 del 18.08.2000 nel testo all’epoca vigente, che consentiva, nei
Comuni con numero di abitanti inferiore a 15.000, di
attribuire al Segretario comunale la funzione di Direttore
Generale, con riconoscimento della relativa indennità.
...
Passando ora al merito il Collegio deve rilevare,
contrariamente a quanto affermato dalla difesa dei
convenuti, che le norme interne non precludono al Segretario
comunale l’esercizio di poteri gestionali e prova di ciò è
il fatto che gli stessi decreti di nomina non imputano al
Segretario alcuna specifica funzione, rispetto a quelle poi
in concreto esercitate.
Ne consegue che, pur considerando gli atti di nomina quale
espressione del potere di organizzazione dell’Ente, la
condotta dei convenuti appare non conforme a ragionevolezza
in applicazione dei principi di buona gestione a cui deve
ispirarsi l’azione amministrativa, che è attività non libera
ma vincolata nel fine. Infatti, le finalità dell’agire
amministrativo sono riconducibili ai concetti di buon
andamento e di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., come
appare evidente dall’art. 1, comma 1 della Legge n. 241 del
1990 (nel testo modificato dall’art. 1 della Legge n.
15 del 2005 e dall’art. 7, comma 1, lett. a) della Legge n.
69 del 2009), il quale stabilisce che: “l’attività
amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è
retta da criteri di economicità, di efficacia, di
imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le
modalità previste dalla presente legge e dalle altre
disposizioni che disciplinano i singoli procedimenti, nonché
dai principi dell’ordinamento comunitario”.
Inoltre, dal contesto lavorativo in cui il Rapisarda ha
ricevuto le funzioni e la conseguente indennità di Direttore
Generale (Comune di 4.600 abitanti, con un organico di 10
dipendenti e con orario settimanale di 11 ore) risulta
evidente che i convenuti hanno agito in dispregio delle più
elementari regole di prudenza e di buona amministrazione,
avendo concordato un compenso assolutamente spropositato in
considerazione delle oggettive ridottissime dimensioni
demografiche ed organizzative dell’Ente.
Tanto premesso nel caso di specie deve rilevarsi che il
conferimento al Rapisarda delle due aree gestionali “affari
generali” e “servizi alla persona” non avrebbe comportato di
per sé necessariamente alcun onere economico aggiuntivo per
il Comune perché rientranti nelle funzioni attribuibili per
legge e per previsione statutaria al Segretario comunale, e
quindi non specificamente soggette a remunerazione
aggiuntiva sullo stipendio base.
Va da sé che la rilevata irragionevolezza degli atti di
nomina è la diretta conseguenza del comportamento tenuto dai
convenuti, comportamento che ha cagionato un rilevante danno
all’Ente locale ed
è ascrivibile ad un atteggiamento gravemente colposo da
parte loro.
Di tale danno sono responsabili il Sindaco Parsani per aver
adottato i contestati provvedimenti di attribuzione al
Rapisarda delle funzioni di Direttore generale, e il
Rapisarda stesso, che, nella sua qualità, ha omesso di
rilevarne l’irragionevolezza, ed ha così beneficiato
dell’indennità connessa.
Sul punto il Collegio deve anche precisare che la gravità
della colpa non è attenuata dagli obiettivi raggiunti
dall’Ente sotto la direzione del Dott. Rapisarda in quanto
la prestazione lavorativa, in particolare quella relativa al
livello di vertice della struttura amministrativa deve
tendere ad ottenere i risultati programmati e i contratti
collettivi di lavoro della categoria prevedono a tal fine
specifici istituti per l’incentivazione della produttività.
Sussistono, quindi, tutti gli elementi essenziali
costitutivi della responsabilità amministrativa.
Passando ora alla quantificazione del danno deve rilevarsi
che effettivamente il Rapisarda nel periodo in esame
(settembre 2009 - dicembre 2010) ha percepito solo
l’indennità di direzione e non anche quella di risultato
(cfr. all. n. 8 del fascicolo della difesa).
Di conseguenza, questa Sezione, pur in assenza di evidenze
documentali che possano attestare l’effettivo risparmio in
tal senso ottenuto dal Comune di Carrobbio degli Angeli,
ritiene comunque di doverne tener conto, ai fini
dell’esercizio del potere riduttivo.
Il Collegio ritiene altresì di tener conto del fatto che la
Giunta comunale del Comune di Carrobbio degli Angeli con
delibera n. 79/2009 ha espresso il proprio parere favorevole
alla nomina del Rapisarda a Direttore Generale ed al
conferimento a quest’ultimo della conseguente indennità
(cfr. all. n. 4 del fascicolo della difesa).
Infatti, tale circostanza, anche se non incide direttamente
sull’apporto causale alla produzione del danno, in quanto la
Giunta comunale non è di certo l’Organo titolato ad emanare
l’atto di nomina in esame, tuttavia assume un non
trascurabile rilievo sul fronte dell’elemento soggettivo.
Infatti, pur se non è sufficiente per elidere l’elemento
della colpa grave, ne viene in concreto ad attenuare la
consistenza.
Ancora, il Collegio rileva che pur rappresentando il PEG,
come già detto, solo uno degli elementi da valutare per
poter qualificare come ragionevole o meno l’atto di nomina a
Direttore Generale, va comunque tenuto conto anche del fatto
che, nel caso di specie, quest’ultimo è stato quanto meno
abbozzato dal Rapisarda per il 2011.
Di conseguenza, a fronte dell’importo di danno azionato
dalla Procura regionale, ai convenuti può essere imputata la
minor somma di euro 10.000,00, ad oggi già rivalutata oltre
gli interessi legali, calcolati a decorrere dalla data di
deposito della sentenza e sino al saldo effettivo, somma che
deve essere ripartita addebitandone il 40% al Sindaco
Parsani (euro 4.000,00) ed il 60% al Dott. Rapisarda (euro
6.000,00), in ragione della professionalità specifica di
quest’ultimo che, nella veste di Segretario comunale, e
quindi organo di consulenza generale dell’Ente, disponeva di
maggiori elementi per prevedere le ricadute negative della
contestata condotta
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia,
sentenza 27.06.2014 n. 122). |
ENTI
LOCALI: All'ente «capofila» sconti anche se manca l'accordo.
Patto. Tra i piccoli Comuni.
Nel Patto di
stabilità interno la base di calcolo degli obiettivi è
costituita dalla media della spesa corrente triennale (per
il 2014 il triennio di riferimento è il 2009/2011) senza
alcuna riduzione (circolare 5/2013 della Ragioneria generale
dello Stato).
In questo quadro, era stata segnalata (si veda Il Sole 24
Ore 24.08.2013) la situazione insostenibile in cui si
sarebbero venuti a trovare i Comuni capofila delle
convenzioni create dagli enti fino a 5mila abitanti per
gestire le funzioni fondamentali, perché avrebbero dovuto
conteggiare nella base di calcolo anche le spese degli altri
Comuni.
Per rimediare è stato consentita (legge 147/2013, comma 534)
ai Comuni capofila la riduzione degli obiettivi scorporando
dalla base di calcolo le spese a carico degli altri Comuni,
prevedendo tuttavia un simmetrico aumento degli obiettivi di
questi ultimi. Il meccanismo individuato da Anci e ministero
del l'Economia è stato un accordo tra i Comuni interessati.
L'accordo però, dal momento che non è sostenuto da nessuna
norma, spesso è stato respinto dai Comuni che avrebbero
dovuto aumentare il proprio obiettivo. Uno di questi ha
interpellato il ministero del l'Economia, che ha però
ribadito la necessità dell'intesa.
È stata allora
interessata la Sezione regionale lombarda della Corte dei conti, che
(parere 28.05.2014 n. 191) ha argomentato che i Comuni non capofila
devono fornire i dati richiesti, sottoscrivendo (da parte
del sindaco e del responsabile finanziario) il modulo messo
a disposizione dall'Anci. In caso di rifiuto, la Corte
ritiene che il Comune capofila possa comunicare direttamente
al l'Anci i dati richiesti dalla norma. La Corte fa presente
che senza la possibilità di comunicazione diretta dei dati
da parte del comune capofila, la norma rischia di risultare
inapplicabile in mancanza di adesione dei Comuni non
capofila alla luce del lasso di tempo trascorso (ad esempio
base di calcolo 2009-2011 e gestione diretta del servizio
nel 2014 da parte di un Comune precedentemente
convenzionato).
La sezione conclude precisando che la corretta applicazione
della procedure sarà verificata dalla stessa Corte nel
controllo sul rispetto del Patto.
L'assunto della Corte è pienamente condivisibile, anche per
la elementare ragione che un Comune non può essere
condannato a conteggiare spese di altri enti in presenza di
una legge specifica che lo esenta da questa illogica
incombenza e in assenza, per converso, di una norma che
costringa gli altri Comuni convenzionati ad aderire
all'accordo (articolo Il Sole 24 Ore del
30.06.2014). |
QUESITI & PARERI |
CONDOMINIO: Ascensore
installabile autonomamente.
Domanda
Sono
l'amministratore di un condominio, un condomino del quale
intende realizzare un ascensore a proprie spese e ritiene
non necessaria l'autorizzazione dell'assemblea. Vorrei
conoscere quale è l'orientamento della giurisprudenza in
materia.
Risposta
La pretesa del
condomino appare fondata. Anche di recente la Cassazione ha
affermato (sent. n. 10582/2014, che ha confermato la
sentenza della Corte di appello) che è legittima
l'installazione di un ascensore esterno a servizio e a spese
di un solo condomino, senza previa autorizzazione
dell'assemblea.
L'installazione dell'ascensore esterno a servizio esclusivo
di un'unità immobiliare costituisce un'innovazione legittima
che può essere eseguita a spese del proprietario (pertanto
non richiede l'autorizzazione del condominio) se non
pregiudica la stabilità o il decoro architettonico
dell'edificio.
In base alla propria giurisprudenza (Cass. n. 14096/2012),
la Suprema corte ha affermato che «in tema di condominio,
l'installazione di un ascensore, al fine dell'eliminazione
delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino
su parte di un cortile e di un muro comuni, deve
considerarsi indispensabile ai fini dell'accessibilità
dell'edificio e della reale abitabilità dell'appartamento, e
rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini
ai sensi dell'art. 1102 c.c., senza che, ove siano
rispettati i limiti di uso delle cose comuni stabiliti da
tale norma, rilevi, la disciplina dettata dall'art. 907 c.c.
sulla distanza delle costruzioni dalle vedute, neppure per
effetto del richiamo ad essa operato nell'art. 3, 2° c.,
della legge n. 13/1989, non trovando detta disposizione
applicazione in ambito condominiale»
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014). |
ENTI LOCALI -
VARI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Minori, conta la
residenza. Per scegliere l'ente che deve pagare il ricovero.
Se la potestà dei genitori è stata
sospesa si fa riferimento al tutore.
Qual è, ai sensi della legge 08.11.2000, n. 328, l'ente
locale competente al pagamento delle rette di ricovero di
una minore affidata, con provvedimento delle forze
dell'ordine, a una struttura protetta sita in un comune
diverso da quello ove la stessa era precedentemente ospitata
e dalla quale si è allontanata volontariamente?
La disciplina di riferimento per determinare la residenza di
un minore è l'art. 45 del codice civile, per il quale «il
minore ha il domicilio nel luogo di residenza della famiglia
o del tutore». Per quanto riguarda l'attribuzione degli
oneri connessi alla degenza di un soggetto presso strutture
residenziali, la legge n. 328/2000 stabilisce, all'art. 6,
il principio che essi siano imputabili all'ente presso il
quale, prima del ricovero, il soggetto abbia la propria
residenza.
Nel caso di specie, il Tribunale dei minorenni, con proprio
decreto, ha confermato l'inserimento della ragazza in una
struttura stabile, già disposto con precedente
provvedimento, e ha puntualizzato che «vige un ordine di
collocamento in struttura della minore, mai revocato, con
divieto di prelevamento per chiunque, che non occorre
reiterare ma solo attuare (il che per altro impedisce
qualsiasi dismissione della stessa dall'attuale struttura in
cui si trova)».
Ciò posto, la provvisoria collocazione della ragazza in una
struttura situata in un comune diverso da quello individuato
dal Tribunale dei minorenni nei propri provvedimenti,
disposta in situazione di emergenza da parte delle forze
dell'ordine, mantiene comunque fermo l'onere economico a
carico dell'amministrazione o delle amministrazioni come
individuabili, oggettivamente, nel momento di inizio della
prestazione.
Nel caso di specie, indipendentemente dall'accertamento
della residenza dei genitori, a cui peraltro è stata sospesa
la potestà sulla minore, occorre fare riferimento
esclusivamente alla residenza del tutore nominato dal
Tribunale (nella ipotesi in cui tale nomina sia avvenuta con
provvedimento antecedente o simultaneo all'inizio della
prestazione), alla luce del già citato articolo 45 del
codice civile
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Indennità di fine mandato.
Un amministratore locale, al momento della nomina a sindaco,
era già assessore provinciale e da subito ha optato per
l'indennità prevista per tale carica - in virtù del divieto
di cumulo stabilito dal comma 5, art. 82 del dlgs: 267/2000.
Ha continuato a percepire tale indennità sino a quando la
provincia è stata commissariata, poi, dal mese successivo,
ha iniziato a percepire l'indennità quale sindaco dell'ente.
Come deve essere quantificata l'indennità di fine mandato da
corrispondere a tale amministratore in qualità di sindaco
uscente?
L'art. 82, comma 8, del decreto legislativo n. 267/2000 ha
introdotto l'indennità di fine mandato per il sindaco e il
presidente della provincia. Dalla formulazione testuale
della disposizione si evince che la stessa costituisce
«un'integrazione» dell'indennità di funzione prevista in
favore del sindaco alla fine dell'incarico amministrativo.
L'istituto ha trovato espressa previsione e regolamentazione
nell'art. 10 del decreto ministeriale n. 119/2000, che ne ha
stabilito la misura in un'indennità mensile spettante per
ogni 12 mesi di mandato, proporzionalmente ridotto per
periodi inferiori all'anno. Inoltre, la misura
dell'indennità si correla essenzialmente alla funzione
svolta dal percipiente per il periodo di concreto esercizio
dei poteri sindacali.
Per quanto più attiene alle modalità di calcolo
dell'indennità in argomento, il ministero dell'interno, con
circolare n. 5 del 05.06.2000 e, successivamente, con
circolare n. 4 del 28.06.2006, ha ribadito quanto
definito in merito dal Consiglio di stato, all'uopo
interpellato, con il parere espresso nell'adunanza della
sezione prima del 19.10.2005, con cui viene
riconfermato che l'emolumento de quo va commisurato
all'indennità effettivamente corrisposta, per ciascun anno
di mandato.
Nel caso di specie, al sindaco uscente deve essere calcolata
l'indennità di fine mandato solo per il periodo
intercorrente dal momento in cui lo stesso ha iniziato a
percepire l'indennità quale sindaco dell'ente a quello in
cui è cessato il mandato, coincidente con le consultazioni
elettorali, e cioè per l'arco di tempo in cui lo stesso ha
percepito l'indennità in qualità di sindaco
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014). |
VARI:
Iva 10% per stufa a pellet.
Domanda
È possibile avvalersi dell'Iva ridotta al 10% per
l'installazione di una stufa a pellet?
Risposta
La risposta è affermativa, con precisazioni. L'intera
prestazione di fornitura e montaggio può fruire
dell'aliquota Iva 10% se la stufa a pellet è utilizzabile
per il solo riscaldamento dell'ambiente in quanto non
suscettibile di riscaldare anche l'acqua sanitaria né
l'acqua eventualmente presente nell'impianto di
riscaldamento.
In caso contrario, invece, la stufa a pellet assume le
caratteristiche di una caldaia e diviene così un
«bene
significativo» agli effetti stabiliti dalla normativa (art.
7, 1° comma, lett. b), legge n. 488/1999): in quanto bene
significativo, l'Iva al 10% si applica se il valore dello
stesso non supera la metà del valore dell'intera prestazione
di servizi, altrimenti, se eccede il 50%, l'Iva al 10% si
applica solo in parte (precisamente, sulla parte di
corrispettivo che non è riconducibile a beni significativi
nonché sulla differenza tra il valore complessivo della
prestazione e il valore del bene significativo) mentre, per
la parte restante, la prestazione soggiace all'aliquota Iva
ordinaria (22%). In pratica, come esemplificato nella guida
al recupero edilizio dell'Ag. delle entrate (pagg. 20-21),
su una prestazione di complessivi euro 10.000, 6.000 dei
quali riferibili a un bene significativo, l'aliquota del 22%
si applica solo su 2.000, e quella del 10% sui restanti
8.000.
È, tuttavia, necessario che l'operazione si configuri come
prestazione di servizi –di manutenzione ordinaria o
straordinaria– e non come semplice fornitura della stufa a pellet, per cui deve essere accompagnata necessariamente
anche dall'installazione al fine di massimizzare il
beneficio fiscale relativo all'Iva.
Se, invece, la prestazione rientrasse all'interno di
un'attività di recupero di rango ancor più elevato (ossia,
restauro, risanamento conservativo o ristrutturazione),
l'intero corrispettivo potrebbe fruire dell'Iva al 10%,
senza necessità di scorporare il valore dei beni
significativi individuati tassativamente dal dm 29/12/1999
(caldaie, ascensori e montacarichi, infissi esterni e
interni, video citofoni, apparecchiature di condizionamento
e riciclo dell'aria, sanitari e rubinetteria da bagni,
impianti di sicurezza).
Rammentiamo anche che non si può applicare l'Iva al 10% ai
materiali o ai beni forniti da un soggetto diverso da quello
che esegue i lavori, ai materiali o ai beni acquistati
direttamente dal committente, alle prestazioni professionali
(anche se rese nell'ambito degli interventi finalizzati al
recupero edilizio), alle prestazioni di servizi resi in
esecuzione di subappalti all'impresa esecutrice dei lavori
(in tal caso, peraltro, l'impresa subappaltatrice deve
fatturare con l'aliquota Iva ordinaria del 22% all'impresa
appaltatrice principale ma questa può poi fatturare la
prestazione al committente con l'Iva al 10%, se ricorrono i
presupposti) (articolo
ItaliaOggi Sette del 30.06.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Proroga incarico di posizione
organizzativa.
L'art. 42, comma 4, del CCRL del
07.12.2006 prevede che gli incarichi di posizione
organizzativa siano conferiti per un periodo non superiore
alla durata del mandato elettorale del sindaco.
L'eventuale disciplina regolamentare, che disponga la
proroga degli incarichi alla scadenza del mandato elettorale
del sindaco, sembra consentita soltanto se limitata al
periodo strettamente necessario all'affidamento dei nuovi
incarichi da parte del sindaco neoeletto.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla proroga dei
poteri gestionali dei titolari di posizione organizzativa,
allo scadere del mandato amministrativo del sindaco, fino a
nuova nomina. L'Ente precisa che il vigente regolamento di
organizzazione degli uffici e dei servizi nulla prevede in
merito e rappresenta l'esigenza di evitare l'interruzione
dello svolgimento dell'attività gestionale
dell'Amministrazione.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione, valutazione
e relazioni sindacali della Direzione Generale, si osserva
quanto segue.
La disciplina contrattuale contemplata all'art. 42, comma 4,
del CCRL del 07.12.2006 dispone che, negli enti privi di
qualifiche dirigenziali, le funzioni correlate
all'affidamento dell'incarico di titolarità di posizione
organizzativa sono conferite a tempo determinato, per un
periodo non superiore al mandato elettivo in corso del
sindaco all'atto dell'affidamento e, comunque, non inferiore
ad un anno.
La citata clausola contrattuale sottolinea, pertanto, la
temporaneità degli incarichi in argomento, che si
caratterizzano per la loro natura fiduciaria, in quanto
legati alla durata del mandato elettivo in corso del sindaco
all'atto del conferimento, durata che è indicata come limite
massimo temporale e che non può, in ogni caso, essere
superata. Un tanto anche in coerenza con la disciplina del
Testo Unico n. 267/2000.
Conseguentemente, dalla formulazione della norma
contrattuale in esame sembra evincersi che la durata minima
fissata per l'attribuzione dell'incarico di posizione
organizzativa corrisponda ad un periodo di almeno un anno
(periodo peraltro conciliabile con le esigenze correlate a
tale responsabilità e con l'annualità della valutazione
degli interessati).
Pertanto, la previsione contrattuale ha indicato con
chiarezza la durata minima degli incarichi in argomento,
nonché quella massima coincidente con il periodo di mandato
del sindaco, non prevedendo ipotesi di proroga degli
incarichi di posizione organizzativa.
Si è, quindi, dell'avviso che si possa ricorrere a tale
istituto solo in casi eccezionali, in cui non sia possibile
procedere altrimenti, per ragioni di preminente interesse
pubblico.
L'ANCI ha evidenziato come alcune previsioni inserite in
atti regolamentari degli enti locali, che dispongano una
limitata proroga degli incarichi in argomento, alla scadenza
del mandato elettorale del sindaco e per un periodo
decisamente inferiore all'anno (introducendo una disciplina
complementare a quella stabilita a livello contrattuale, che
detta le regole generali) trovi valido motivo giustificativo
esclusivamente nell'intento di evitare la creazione di un 'vuoto
gestionale', nella fase di avvicendamento
politico-amministrativo, con particolare riferimento alla
realtà di enti di piccole o medie dimensioni
[1].
Qualora gli enti non abbiano approvato una disciplina
regolamentare in relazione alla proroga in oggetto, si
ritiene che, nelle more dell'affidamento dei nuovi incarichi
di posizione organizzativa, il sindaco neo eletto possa
attribuire la diretta responsabilità della gestione dei
servizi al segretario comunale, ai sensi dell'art. 97, comma
4, lett. d), del d. lgs. 267/2000, richiamato espressamente
dall'art. 42, comma 1, del CCRL del 07.12.2006.
---------------
[1] Cfr. parere dell'11.06.2007
(30.06.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Assegnazione temporanea/comando.
Stante il disposto di cui all'art. 1,
comma 413, della l. 228/2012, sembra potersi evincere che,
con il consenso di tutte le parti interessate,
l'assegnazione temporanea di personale delle pubbliche
amministrazioni possa essere consentita anche in deroga al
limite temporale dei tre anni, previsto all'art. 30, comma
2-sexies, del d.lgs. 165/2001.
L'Ente ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
utilizzare ancora, mediante l'istituto del
comando/assegnazione temporanea, un dipendente comunale,
considerato che lo stesso ha già operato funzionalmente,
alle dipendenze dell'Amministrazione istante, per un periodo
di tre anni.
Preliminarmente si informa che a tutt'oggi non è pervenuto
alcun chiarimento, da parte del Dipartimento della funzione
pubblica, in risposta al quesito inoltrato dallo scrivente
[1] in
ordine all'interpretazione della fattispecie contemplata
all'art. 30, comma 2-sexies, del d.lgs. 165/2001, come
novellato dall'art. 13 della l. 183/2010. Detta norma,
stabilisce che le pubbliche amministrazioni, per motivate
esigenze organizzative, risultanti dai documenti di
programmazione previsti all'articolo 6 del medesimo decreto
legislativo 165/2001 [2],
possono utilizzare in assegnazione temporanea, con le
modalità previste dai rispettivi ordinamenti, personale di
altre amministrazioni per un periodo non superiore a tre
anni, fermo restando quanto già previsto da norme speciali
sulla materia, nonché il regime di spesa eventualmente
previsto da tali norme e dallo stesso decreto legislativo.
Dalla formulazione della richiamata disposizione non emerge
con chiarezza se la fattispecie dell'assegnazione temporanea
di personale coincida o si differenzi dall'istituto del
comando.
Ad ogni buon conto, in attesa di riscontro da parte
dell'Autorità competente, si osserva che l'art. 1, comma
413, della l. 228/2012 (legge di stabilità 2013) ha
stabilito che, a decorrere dal 01.01.2013, i provvedimenti
con i quali sono disposte le assegnazioni temporanee del
personale delle pubbliche amministrazioni in applicazione
della norma in esame, sono adottati d'intesa tra le
amministrazioni interessate, con l'assenso del dipendente in
questione.
Una siffatta formulazione potrebbe lasciar intendere che,
con il consenso di tutte le parti coinvolte, l'assegnazione
temporanea di personale possa essere disposta anche in
deroga ai limiti temporali fissati dalla norma medesima.
---------------
[1] Vedasi precedente nota n. prot. 10086 del 02.04.2014,
indirizzata a codesto Ente.
[2] Documento di programmazione triennale del fabbisogno del
personale
(27.06.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
APPALTI SERVIZI:
Proroga del servizio di raccolta, trasporto e smaltimento
rifiuti.
Qualora nel bando di gara e nel
capitolato speciale d'appalto sia contemplata la possibilità
di prorogare il contratto per il tempo necessario
all'espletamento di una nuova gara, si ritiene che non sia
necessaria la stipulazione di un contratto di proroga,
risultando sufficiente l'accettazione da parte
dell'appaltatore della determinazione di proroga adottata
dall'Ente.
La Comunità Montana, su delega di 25 Comuni del suo
territorio, ha indetto nel 2011 una gara europea aperta per
la gestione del servizio di raccolta, trasporto e
smistamento dei rifiuti, al termine della quale ha stipulato
un contratto di durata triennale che scadrà il prossimo
30.06.2014. Come appreso per le vie brevi, nel capitolato
speciale d'appalto era prevista la possibilità di prorogare
il contratto per un periodo massimo pari a sei mesi, al fine
di consentire all'Ente di espletare le procedure di
reperimento di un nuovo contraente, tramite nuova gara
aperta.
In considerazione del fatto che tale proroga comporta
soltanto uno spostamento in avanti della scadenza
dell'attuale contratto, e che il servizio sarà svolto agli
stessi patti e condizioni del contratto principale, chiede
l'Ente se vi sia la necessità di stipulare con la ditta
appaltatrice un 'contratto di proroga' relativo
all'importo aggiuntivo, ovvero se sia sufficiente far
sottoscrivere all'appaltatore la determinazione di proroga
per integrale accettazione, oltre ad una lettera commerciale
avente valore contrattuale, fermi restando l'adeguamento del
deposito cauzionale e l'acquisizione della documentazione
prevista dalla vigente normativa.
Sentito il Servizio provveditorato e servizi generali di
questa Direzione centrale, si esprimono le seguenti
considerazioni.
Preliminarmente pare opportuno ricordare che si ha una
proroga tecnica nel momento in cui la stazione appaltante
decide di avvalersi della facoltà di prolungare l'efficacia
del contratto spostando in avanti la sua scadenza, a
condizioni invariate.
Tale proroga trova generalmente fondamento nella lex
specialis della gara, così che tutti i concorrenti siano
a conoscenza della facoltà della stazione appaltante di
potervi, in determinate circostanze, fare ricorso.
Nel caso di specie, stando a quanto affermato dall'Ente
instante, la possibilità di proroga per sei mesi del
contratto in essere è stata indicata nel bando di gara e nel
capitolato speciale d'appalto.
Di conseguenza, nel momento in cui l'appaltatore ha
sottoscritto il contratto iniziale, ha anche accettato tale
eventualità, costituendo la clausola parte integrante del
contratto stesso.
Perciò, in capo all'appaltatore, non sussisterebbe nemmeno
la facoltà di rispondere negativamente, poiché, in questo
caso, verrebbe meno agli accordi sottoscritti inizialmente.
Infatti, in relazione all'accettazione, da parte
dell'appaltatore, della proroga in parola, si osserva che
secondo l'AVCP 'il riscontro negativo alla richiesta di
proroga inviata alla stazione appaltante potrebbe (...)
qualificarsi come inadempimento ad uno degli obblighi
derivanti dal contratto e conseguentemente legittimare la
stazione appaltante all'incameramento della cauzione
costituita dal fornitore' [1].
Lo slittamento in avanti del termine dell'appalto, peraltro
già ipotizzato nel contratto, non costituisce quindi una
modifica sostanziale allo stesso, poiché restano inalterate
tutte le condizioni di svolgimento dell'appalto.
Si ritiene, pertanto, che non sia necessaria la stipulazione
di un contratto di proroga, risultando sufficiente
l'accettazione da parte dell'appaltatore della
determinazione di proroga.
Si rileva infine che, come stabilito dall'AVCP, qualora la
proroga sia concessa per garantire la prosecuzione dello
svolgimento del servizio (in capo al precedente affidatario)
nelle more dell'espletamento delle procedure necessarie per
l'individuazione di un nuovo soggetto affidatario, non è
nemmeno necessario chiedere un nuovo codice CIG
[2].
---------------
[1] AVCP, deliberazione n. 85 del 10.10.2012.
[2] AVCP, FAQ sulla tracciabilità dei flussi finanziari
(20.06.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
EDILIZIA
PRIVATA:
Prefabbricati e tendoni, serve il permesso.
L'installazione di strutture smontabili a uso stagionale non
rientra nell'attività edilizia libera.
Titoli abilitativi. Secondo i giudici il requisito
dell'utilizzo ricorrente nel tempo prevale su quello
dell'impianto leggero e dei materiali impiegati.
L'ultimo intervento in ordine di tempo è quello della legge
80/2014, di conversione del Dl 47, che ha escluso l'obbligo
di acquisire un titolo abilitativo per le roulotte, i camper
e le case mobili, ma solo se posti all'interno di strutture
ricettive all'aperto (si veda l'altro articolo in pagina).
Il tema dei permessi edilizi relativi alle strutture leggere
e temporanee, però, è molto più ampio, ed è sempre al centro
dell'attenzione dei giudici.
Il Dpr 380/2001 ricomprende tra gli interventi di «nuova
costruzione» –per la cui esecuzione è necessario il previo
rilascio di un titolo abilitativo– l'installazione di
manufatti leggeri, anche se prefabbricati, e le strutture di
qualsiasi genere (articolo 3, comma 1, lettera e.5, prima
parte). Tra queste strutture, in particolare, rientrano
anche le roulotte, i camper, le case mobili e le
imbarcazioni che vengano adibiti ad abitazione, ambienti di
lavoro, depositi o magazzini, e che –proprio per tale
destinazione– non siano diretti a soddisfare esigenze
meramente temporanee e di carattere precario.
Le opere «precarie»
La giurisprudenza si è soffermata da tempo sulla nozione di
«precarietà» delle opere e sugli elementi distintivi che
queste devono possedere al fine di stabilire se farle
rientrare nell'ambito dell'attività edilizia libera o
ricondurle tra le nuove costruzioni. La Corte
costituzionale, con la sentenza 278/2010, poi ripresa nella
pronuncia 171/2012, ha ricordato che per la normativa
statale ogni trasformazione permanente del territorio
necessita di titolo abilitativo e ciò anche ove si tratti di
strutture mobili, quando queste strutture non abbiano
carattere precario.
La pronuncia chiarisce sul punto che la
nozione di «precarietà» deve intendersi in una duplice
accezione: quella «oggettiva», correlata «alle tipologie dei
materiali utilizzati» per l'intervento, e quella
«funzionale», che risulta invece «caratterizzata dalla
temporaneità dell'intervento». La distinzione operata dalla
Consulta si richiama a un orientamento progressivamente
consolidatosi nel tempo, che ha fatto assumere decisivo
rilievo alla «precarietà funzionale» e che è stato ribadito
dalla VI sezione del Consiglio di Stato nella sentenza n.
2846 del 03.06.2014. Qui si evidenzia che la precarietà
di un'opera, quale condizione che esclude il permesso di
costruire, presuppone un utilizzo del bene specifico e
temporalmente limitato.
Sul punto i giudici di Palazzo Spada sottolineano poi che il
concetto di «temporaneità» dell'uso non deve essere confuso
con quello di «stagionalità», perché quest'ultima non è
volta a soddisfare un bisogno eccezionale, provvisorio o
contingente. Le opere stagionali, insomma, non sono precarie
e costituiscono nuova costruzione. E questo fa passare in
secondo piano l'elemento oggettivo e la tipologia del
materiale utilizzato, se l'intervento è funzionale a
soddisfare esigenze permanenti, «a nulla rilevando la
precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della
struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il
manufatto non precario (ad esempio: gazebo o chiosco) non è
deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato
a un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo» ed è
quindi idoneo ad alterare lo stato dei luoghi e ad
incrementare il carico urbanistico.
Bocciata la tensostruttura
Nello stesso senso si pone la recente decisione del Tar
Lombardia-Brescia (Sezione I, 04.06.2014, n. 600), che ha
esaminato il caso di una tensostruttura in montanti di
metallo e teloni di plastica, stabilendo che la stessa –pur
se dotata di meccanismi che la rendono retrattile– non si
colloca nell'attività edilizia libera, ma tra tra gli
interventi di nuova costruzione, di cui all'articolo 3 comma
1-e.5, prima parte del Testo unico, trattandosi di manufatti
leggeri, utilizzati come ambienti di lavoro oppure come
deposito o magazzino e non diretto a soddisfare esigenze
meramente temporanee.
Né si potrebbe assimilare la tensostruttura alle serre
mobili stagionali (comma 1-e), poiché non presenta
un'utilizzazione differenziata nel corso dell'anno; né alle
opere contingenti e temporanee destinate a essere rimosse
entro 90 giorni (comma 2-b), essendo evidente che l'utilità
del manufatto non implica alcuna scadenza; né alle aree di
sosta esterne contenute nei limiti dell'indice di
permeabilità (comma 2-c), in quanto oltre alla platea in
calcestruzzo esiste un volume reale o virtuale; né, infine,
alle modifiche della destinazione d'uso dei locali aziendali
(comma 2-e-bis), in quanto non si sostituisce a un
preesistente spazio attrezzato qualificabile come locale
dell'impresa.
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01 | NON SONO PRECARIE LE STRUTTURE
STAGIONALI
La «precarietà» dell'opera –che esonera dall'obbligo del
possesso del permesso di costruire– postula un uso specifico
e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità.
Non possono essere considerati manufatti destinati a
soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a
un'utilizzazione perdurante nel tempo, per i quali
l'alterazione del territorio non può essere considerata
temporanea, precaria o irrilevante.
Consiglio di Stato, sezione VI, 03.06.2014, n. 2842
02 | C'È LOTTIZZAZIONE ANCHE CON OPERE
MODESTE
È legittimo un provvedimento che contesta una lottizzazione
abusiva nel caso in cui il privato non si sia limitato alla
semplice recinzione del fondo e realizzazione di una strada
sterrata, ma abbia eseguito opere che denunciano in modo
inequivoco l'intenzione di procedere a una lottizzazione
(apposizione di baracche di legno e/o roulotte, non
accompagnate dal formale e legittimo esercizio di attività
agricola).
Né si può sostenere che la modesta natura delle
opere non comporti la trasformazione irreversibile del
fondo: tale argomento non può valere per la lottizzazione
repressa dall'articolo 18 della legge 47/1985 (vedi oggi
l'articolo 30 del Dpr n. 380/2001), poiché questa è
qualificata da modificazioni fisiche anche solo dell'uso
dell'area che, a prescindere dalla loro entità, si pongano
in contrasto con le destinazioni stabilite dal Prg.
Consiglio di Stato, sezione IV, 19.02.2013, n. 1028
03 | L'ECCEZIONE DETTATA PER I CAMPEGGI
La collocazione di case mobili sarebbe, in astratto,
definibile come «nuova costruzione», secondo l'articolo 3,
comma 1, lettera e), Dpr 380/2001. La disposizione, infatti,
cita anche la «installazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati e di strutture di qualsiasi genere, quali
roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano
utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini e simili e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee». Tuttavia, la
disposizione va coordinata con le disposizioni regionali e
con le peculiari esigenze di un'area destinata a campeggio,
ovvero rientrante fra le «strutture ricettive all'aria
aperta».
Consiglio di Stato, sezione VI, 05.04.2013, n. 1885
04 | NON SERVONO OPERE IRREVERSIBILI
Ai fini del rilascio della concessione edilizia, deve
parlarsi di nuova costruzione in presenza di opere che
comunque implichino una stabile –per quanto non
irreversibile– trasformazione urbanistico-edilizia del
territorio preordinata a soddisfare esigenze non precarie
del committente sotto il profilo funzionale e della
destinazione dell'immobile.
Consiglio di Stato, sezione IV, 24.07.2012, n. 4214
05 | IL TENDONE IN PVC NON È ATTIVITÀ
LIBERA
Deve essere considerato intervento di nuova costruzione,
come tale soggetto a permesso di costruire, l'installazione
di un manufatto o di struttura di qualsiasi genere (anche
roulotte, camper, case mobili o imbarcazioni) che non siano
diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee.
In particolare è da escludersi che sia destinata a esigenze
temporanee l'installazione di una voluminosa copertura in
Pvc, per quanto stagionale, specie ove si tratti di
struttura destinata all'esercizio di un'attività commerciale
e di somministrazione, come tale ontologicamente «non
temporanea». Nel caso specifico, la struttura veniva
rimossa per un periodo di quattro mesi ogni anno.
Consiglio di Stato, sezione VI, 16.02.2011, n. 986
06 | LA TENSOSTRUTTURA IN PLASTICA E
METALLO
Una tensostruttura in montanti di metallo e teloni di
plastica costituisce nuova costruzione ex articolo 3 comma
1, lettera e.5 (prima parte) del Dpr n. 380/2001 (manufatti
leggeri utilizzati come ambienti di lavoro oppure come
depositi e magazzini, non diretti a soddisfare esigenze
meramente temporanee).
Tar Lombardia-Brescia, sezione I, 04.06.2014, n. 600
07 | LA ROULOTTE CON GLI ALLACCIAMENTI
È legittimo l'ordine di rimozione di una roulotte
stabilmente installata all'interno di un suolo privato,
senza il preventivo rilascio dell'atto di assenso
edificatorio, nel caso in cui sia utilizzata a fini
abitativi (nella specie l'utilizzazione a fini abitativi
risultava dall'allaccio abusivo alle utenze di luce, gas e
acqua). In tal caso, infatti, la roulotte deve qualificarsi
come costruzione urbanisticamente rilevante, per la quale
occorre il previo rilascio di permesso di costruire, stante
la presenza di indici in grado di supportare il carattere
non precario della installazione.
Tar Liguria, sezione I, 18.02.2014, n. 281
08 | NON OCCORRE L'ANCORAGGIO AL SUOLO
Anche per case mobili, camper e roulotte è necessario il
permesso di costruire quando queste –a prescindere da uno
stabile legame con il suolo– siano destinate a esigenze di
tipo abitativo, lavorativo o di deposito, a carattere
duraturo. Anche in queste situazioni, in caso di
inottemperanza all'ordine di demolizione, segue
l'acquisizione dell'area di sedime al patrimonio comunale.
Tar Toscana, sezione III, 29.07.2009, n. 1319
09 | IL CAMPEGGIO CON SERVIZI FISSI
Integra il reato di lottizzazione abusiva la realizzazione
di un campeggio, anche se autorizzato, qualora l'area
destinata alla struttura ricettiva venga radicalmente mutata
per la presenza di opere stabili, strutture abitative e
servizi in grado di snaturarne le caratteristiche
originarie. Nella specie, si trattava di lavatoi, servizi
igienici, piazzole con cucine e verande, uffici e roulottes
intrasportabili.
Cassazione penale, sezione III, 04.06.2013, n. 29731
10 | I PREFABBRICATI MONTATI SU RUOTE
È configurabile il reato di costruzione edilizia abusiva
(articolo 44, comma 1, lettera b, del Testo unico
dell'edilizia, Dpr 380/2001) nell'ipotesi di installazione
su un terreno, senza permesso di costruire, di strutture
mobili quali camper, roulotte e case mobili, sia pure
montate su ruote e non incorporate al suolo, aventi una
destinazione duratura al soddisfacimento di esigenze
abitative. Nel caso specifico, si trattava di case
prefabbricate munite di ruote gommate.
Cassazione penale, sezione III, 23.03.2011, n. 25015
11 | LA LOTTIZZAZIONE TRAMITE QUOTE DI SRL
Integra il reato di lottizzazione abusiva negoziale il
trasferimento di un terreno, sulla base di quote societarie
che conferiscono al suolo un assetto proprietario frazionato
in lotti, ove risulti in modo inequivoco la destinazione dei
lotti a scopo edificatorio. Nel caso esaminato dai giudici,
al versamento della quota da parte di ciascun indagato
–socio di una Srl proprietaria del terreno– conseguiva,
contestualmente al conferimento, l'assegnazione in esclusiva
di una piazzola su cui veniva posizionata una roulotte o un
caravan, di fatto realizzando un frazionamento a scopo
edilizio dell'area, in contrasto con il piano regolatore
generale (Prg) e le norme di attuazione.
Cassazione penale , sezione III, 14.07.2010, n. 35968
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Camper
e roulotte dribblano la richiesta di autorizzazione. Decreto
casa. Liberalizzazione dopo la stretta del decreto «del
fare».
Tornano nel campo dell'edilizia
libera le case mobili e i caravan collocati all'interno di
strutture ricettive all'aperto.
Il decreto del fare (Dl
69/2013), modificando l'articolo 3, comma 1, lettera e.5),
del Testo unico per l'edilizia, aveva ricondotto nel novero
degli interventi di nuova costruzione i manufatti e le altre
strutture leggere –come roulotte, camper e case mobili–
posti all'interno di strutture ricettive all'aperto e
adibiti alla sosta e al soggiorno di turisti, «ancorché
siano installati con temporaneo ancoraggio al suolo», così
escludendo che questa tipologia di installazioni potesse
rientrare nell'ambito dell'attività edilizia libera.
La previsione, evidentemente ritenuta penalizzante per le
attività turistiche, è stata oggetto di una piccola ma
significativa modifica da parte dell'articolo 10-ter, del
decreto casa, Dl 47/2014, inserito dalla legge di
conversione 80/2014, in vigore dall'11 giugno scorso, che ha
sostituito il termine «ancorché» con la locuzione «e salvo
che». Risultato: non è più necessario il titolo abilitativo
edilizio per questa tipologia di strutture, anche quando
sono fissate al terreno, sia pure per un arco temporale
limitato.
La modifica, secondo alcuni, potrebbe avere un impatto
negativo sul territorio, favorendo fenomeni speculativi e
consentendo lo sviluppo di un mercato di «seconde case»,
mascherato da attività ricettiva; ciò in quanto la
disposizione prevede che i manufatti siano adibiti non solo
alla «sosta» dei turisti –implicitamente di breve durata–
ma anche al loro «soggiorno», che invece può assumere
carattere indeterminato, tanto da poterlo assimilare all'uso
abitativo.
Questo fenomeno, peraltro, è già stato affrontato dalla
giurisprudenza. La Cassazione penale ha affermato più volte
la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva negoziale
nel caso di trasferimento di porzioni di terreno su cui
posizionare un caravan o di assegnazione in uso esclusivo di
una piazzola su cui posizionare una roulotte (sezione III, 04.06.2013, n. 29731, 23.03.2011, n. 25015, 14.07.2010, n. 35968 e 18.12.2008, n 3481). Anche il
Consiglio di Stato ha ritenuto configurabile una
lottizzazione "materiale" nel caso di presenza contestuale
dei seguenti elementi: «a) acquisto di lotto, non frazionato
ma pro-indiviso, da parte di più soggetti; b) realizzazione
sul medesimo di un complesso di opere, anche modeste (quali
l'apposizione di baracche o roulottes), la cui installazione
si pone comunque in contrasto con la destinazione attribuita
dalle vigenti norme di Prg» (sezione IV, 19.02.2013,
n. 1028).
In realtà, salvo fenomeni di abusivismo –sempre possibili
in caso di inadeguato controllo del territorio– la norma
non dovrebbe comportare particolari ripercussioni, se
applicata correttamente. La deroga ai principi generali,
infatti, riguarda unicamente i manufatti installati
nell'ambito di strutture ricettive all'aperto, in conformità
alla normativa regionale di settore.
Inoltre l'ancoraggio della struttura può essere soltanto
temporaneo e non stagionale, per cui non può avere carattere
ciclico, poiché diversamente l'installazione del manufatto –e con essa il mutamento dello stato dei luoghi– finirebbe
per diventare permanente. Il semplice ancoraggio non può poi
essere inteso come possibilità di allaccio permanente alle
reti tecnologiche o installazione di fosse imhoff, né può
comportare la realizzazione di accessori o pertinenze del
manufatto, quali cordoli in cemento, recinzioni e cancelli
carrabili per l'ingresso al terreno su cui è ancorato il
manufatto.
Non va infine trascurato che se per qualunque ragione
venisse meno la destinazione turistica della struttura, come
nel caso decadenza di una concessione dell'area o di mancato
rinnovo dell'autorizzazione all'esercizio dell'impresa, i
manufatti presenti dovrebbero essere tutti immediatamente
rimossi a cura e spese dei proprietari o di chi li ha
installati
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Restano i tagli alle avvocature locali.
Incentivi. Gli effetti del decreto sulla Pa.
Il mondo degli economisti
industriali è unanime nel dire che il problema del sistema
Italia è quello della produttività, ed in particolare della
produttività della Pa. In questo quadro rientra lo sforzo di
costruire e valorizzare le professionalità interne, così da
ottenere il duplice beneficio di farle lavorare di più e di
risparmiare qualcosa in termini di consulenze. Un tema
connesso con il nodo generale dell'incentivazione del
personale, ovvero della individuazione di metodi di
valutazione delle performance credibili e corretti.
Se la teoria è condivisibile è anche vero che, nella
generalità dei casi, i risultati sono stati modesti.
Sembravano fare eccezione le avvocature degli enti
territoriali, almeno per le regioni (ad esempio il Veneto e
la Toscana) e per quegli enti locali che si sono attrezzati
adeguatamente, ottenendo cosi il risultato sia di ridurre le
spese per servizi legali esterni, sia di presidiare al
meglio i propri contenziosi.
In poche parole oggi, a norma di contratto nazionale, gli
avvocati pubblici ricevono un compenso aggiuntivo, ma solo
nel caso che vincano la causa e, a differenza degli avvocati
dello Stato, nei limiti di un tetto contenuto, che si aggira
nell'ordine di un importo massimo di 30-40 mila euro annui,
ovvero di 1.000-1.500 euro netti al mese.
Si tratta di un meccanismo pensato per motivare il personale
che, normalmente è inquadrato come funzionario di categoria
D e che quindi non percepisce certo stipendi faraonici.
Per questo, essere intervenuti con l'articolo 9 del Dl
90/2014, dopo per altro avere già penalizzato queste figure
con la legge di stabilità (articolo 1, comma 457, della legge
147/2013) che ne aveva ridotto i compensi "professionali"
del 25%, finisce per cozzare con equità e interesse
pubblico. Proprio per questo il testo del decreto è stato
corretto ancor prima della pubblicazione in «Gazzetta
Ufficiale» proprio per "salvare" gli avvocati degli enti
territoriali, ma il risultato è stato quantomeno incerto (si
veda Il Sole 24 Ore del 26.06.2014).
L'articolo 9, comma 1, del decreto Pa, infatti, prima
cancella la base normativa per gli incentivi (articolo 21
del Rd 1611/1911) e poi propone una curiosa e parziale
"abrogazione dell'abrogazione" precisando che questa «non si
applica agli avvocati inquadrati con qualifica non
dirigenziale negli enti pubblici e negli enti territoriali».
Soprattutto, però, l'entità dei compensi così
disordinatamente "tutelati", cioè quelli rimessi a carico
della controparte nel contenzioso, è insignificante rispetto
a quelli cancellati dal comma successivo, che nega ogni
forma di emolumento nel caso in cui le spese legali vengano
lasciate a carico delle parti. È questa, infatti, la vera
ragione del contendere, perché è quasi la regola che, nei
contenziosi contro la Pa, il giudice conceda la
compensazione delle spese.
In sostanza, almeno per gli avvocati che non hanno qualifica
dirigenziale, la norma da correggere è soprattutto
quest'ultima, per evitare di stravolgere l'operatività di
strutture oggi funzionanti con l'effetto di privare le
amministrazioni territoriali della capacità di governare e
valutare correttamente le proprie situazioni di contenzioso
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Riposi compensativi anche di più giorni.
Personale. Le indicazioni dell'Aran.
Le attività aggiuntive svolte nella
giornata di riposo settimanale devono essere compensante con
una maggiorazione della retribuzione del 50% e con un riposo
pari alla durata della prestazione aggiuntiva. Il riposo
compensativo può anche superare la giornata, nel caso di
prestazione che superi quella media giornaliera, va fruito
di regola entro i 15 giorni successivi e può essere
monetizzato.
Sono queste le indicazioni, indubbiamente innovative,
dettate dall'Aran.
In premessa si deve ricordare che questa risposta si
riferisce al caso di un dipendente che svolge la prestazione
lavorativa durante la giornata di riposo settimanale, di
norma la domenica, in aggiunta al suo normale orario di
lavoro. Nel caso di prestazione svolta durante la domenica,
senza che vi sia un carico orario aggiuntivo, non si applica
questo istituto. Che, nella lettura dell'Aran, contestata
dai sindacati (la giurisprudenza è divisa), non si applica
neppure nel caso di svolgimento della prestazione, non
aggiuntiva, in una giornata di festività infrasettimanale.
In queste ipotesi per l'Aran matura solamente, se ne
ricorrono le condizioni, il diritto alla indennità di turno
festiva, quindi senza alcun recupero.
La disciplina è contenuta nell'articolo 24, comma 1, del
contratto del 14.09.2000 (le "code contrattuali"),
come modificato dal contratto del 05.10.2001. Al
lavoratore spetta la maggiorazione della retribuzione, che
deve essere così calcolata: «fatto 100 il valore della
retribuzione oraria .. l'importo del compenso dovuto al
lavoratore sarà pari a 50 - e non a 150 per ogni ora di
lavoro prestato».
Al dipendente spetta una riposo compensativo che deve avere
una durata pari alla prestazione aggiuntiva svolta. Nel caso
quindi di prestazione di 12 ore e di orario di lavoro
articolato su 6 giorni la settimana, cosicché la durata
media di una giornata è di 6 ore, al dipendente devono
essere concesse 2 giornate di riposo compensativo. Esso deve
essere fruito entro i 15 giorni successivi: questo termine
non ha in alcun modo «natura perentoria, ma sollecitatoria
del corretto adempimento da parte del datore di lavoro
pubblico».
Molto innovativa la conclusione: essendo in
presenza di un «riposo volto a consentire al lavoratore di
godere di quello settimanale, espressamente garantito dalla
legge come diritto soggettivo» esso può «essere anche non
fruito ed essere sostituito da forme di monetizzazione».
Superando cioè esigenze di recupero psico-fisico che sono
alla base del riposo settimanale
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2014). |
APPALTI:
Fattura elettronica, buon avvio Burocrazia
permettendo. Il bilancio
dall'esordio dell'obbligo nei rapporti tra fornitori e
pubblica amministrazione.
Un primo bilancio a poche settimane dall'avvio della
fatturazione elettronica obbligatoria nei rapporti tra i
fornitori e la pubblica amministrazione, avvenuto il 6
giugno scorso, offre un'immagine positiva: i problemi non
mancano e c'è la consapevolezza che ci vorrà tempo per
mettere a posto tutte le caselle, ma intanto gli addetti ai
lavori non lamentano grandi problemi applicativi.
Censimento completo, resta la complessità della burocrazia.
Maria Laura Prislei, ispettore generale capo per
l'Informatizzazione della contabilità dello Stato, fa
un'analisi di quanto finora ha mostrato di funzionare, ma
anche delle questioni ancora aperte: «Dal punto di vista
della tenuta dei sistemi informativi, la nuova disciplina
sta funzionando», spiega. «Le amministrazioni si sono quasi
completamente censite sull'Indice della p.a. (Ipa). Dal
Sistema di interscambio (Sdi) dell'Agenzia delle entrate le
fatture affluiscono regolarmente sul sistema informativo
Sicoge, gestito dalla ragioneria generale per tutti i
ministeri».
Al 23 giugno, al termine di un primo censimento, risultavano
registrate oltre 2 mila fatture affluite a Sicoge, un
risultato non scontato a fronte dei problemi che spesso
accompagnano le innovazioni nel nostro Paese. Va poi
ricordato che l'obbligo scattato il 6 giugno riguarda anche
le agenzie fiscali e gli enti previdenziali e che Sdi
accetta anche fatture via pec, per cui i numeri complessivi
delle fatture elettroniche sono sicuramente molto più
consistenti.
Prislei non nasconde qualche difficoltà applicativa,
soprattutto legata all'impatto organizzativo interno delle
p.a.. Ricorda che la pubblica amministrazione italiana è
complessa e fortemente diversificata nelle modalità di
gestione delle spese. «Le amministrazioni si stanno
organizzando e noi siamo al loro fianco per supportarle»,
assicura la dirigente.
Anche per le imprese fornitrici l'obbligo della fattura non
è privo di difficoltà: «Si pensi alla necessità di inviare
le fatture al corretto indirizzo Ia, alla necessità che
tutti i campi richiesti dal Mef per il monitoraggio dei
debiti della p.a. siano correttamente completati», ricorda
Prislei. Che si mostra comunque fiduciosa sul medio termine,
ricordando che si è dato vita a un «progetto di grande
impatto per il Paese, che richiede da parte di tutti un
forte impegno, specialmente nella fase d'avvio, ma può
diventare uno strumento formidabile di ammodernamento della
macchina pubblica e di accelerazione dei pagamenti della
p.a.».
Il grande cambiamento è partito. Condivide a grandi linee
questa analisi Paolo Catti, responsabile della ricerca
dell'Osservatorio Fatturazione Elettronica e
Dematerializzazione del Politecnico di Milano. «L'avvio
della fatturazione elettronica verso la p.a. ha richiesto
qualche sforzo iniziale e in alcuni casi si sono riscontrate
difficoltà da parte di imprese e p.a. chiamate ad affrontare
le nuove procedure», sottolinea l'esperto. Che considera
inevitabili questi intoppi a fronte di una innovazione che
«stravolge prassi e abitudini consolidate».
Dunque, un
periodo per rodare e affinare la macchina era da mettere in
conto. «È ancora troppo presto per un bilancio
dell'innovazione», secondo Catti, il quale insiste comunque
su un punto: «L'avvio dell'obbligo rappresenta un'occasione
irrinunciabile per trasferire uno stimolo digitale a un
Paese troppo spesso ancorato a prassi e modelli di gestione
cartacei costosi e inefficienti.
A questo proposito Catti ricorda qualche dato che emerge
proprio dall'Osservatorio Fatturazione Elettronica che cura:
la p.a. può risparmiare circa 17 euro per ogni singola
fattura ricevuta, un valore che deriva dall'impatto
sull'intero processo di gestione della documentazione da
parte degli uffici preposti a tale attività (14 euro dalla
riduzione dei tempi di gestione interna delle fatture, 3
euro stimabili sui costi di gestione e archiviazione dei
documenti). «La p.a. complessivamente potrà risparmiare fino
a 1 miliardo di euro all'anno grazie alla fatturazione
elettronica nelle relazioni con i propri fornitori»,
sottolinea.
I commercialisti approvano l'innovazione. «Il sistema sta
funzionando bene e c'è stato modo per molte p.a. di testarlo
e verificarlo», sottolinea Daniele Tumietto, dottore
commercialista di Milano, partner di Menocarta.net, rete
d'impresa nata dall'aggregazione tra aziende di varie
regioni italiane che si rivolge principalmente ai dottori
commercialisti e ad aziende ed enti da loro supportati,
proponendosi come partner tecnologico e di processo.
Non manca qualche criticità, «dovuta non tanto alla
piattaforma quanto al sistema di comunicazione della p.a.,
che ha limiti oggettivi». Da qui il suggerimento di «inviare
fatture elettroniche con dimensioni inferiori ai 5Mb». Un
altro aspetto da considerare è l'estensione degli allegati,
avverte, dato che questa non è sempre evidente. Tumietto
ritiene che occorra attendere ancora qualche settimana per
esprimere un giudizio compiuto, ma intanto si mostra
fiducioso in merito: «Il sistema è stato strutturato in modo
adeguato per reggere volumi importanti». Secondo Andrea
Cortellazzo, dottore commercialista di Padova, «l'elemento
più critico in questa fase di avvio è la difficoltà,
soprattutto per le aziende, di percepire la correlata
obbligatorietà della conservazione sostitutiva a norma come
adempimento obbligatorio per i flussi verso la p.a.».
In particolare le aziende non hanno chiaro se isolare questi
flussi di fatturazione con dei sezionali Iva dedicati o
piuttosto se avviare nella sola conservazione sostitutiva
l'intero ciclo aziendale. «In tanti si stanno concentrando
sulla fatturazione elettronica, sulla produzione delle
fatture elettroniche, sulla instradazione dei flussi, ma
forse ancora più importante è tenere presente che tutto ciò
comporta l'obbligatorietà della conservazione a norma con
tutti degli aspetti che ne conseguono», insiste Cortellazzo,
altro membro di Monecarta.net
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA: Bonus
energia, Ape sufficiente. Non è previsto l'invio di
documentazione preventiva. Le
risposte dell'Enea in materia di detrazioni fiscali del 55 e
65% sulle riqualificazioni.
Per usufruire delle detrazioni fiscali del 55-65% per gli
interventi di riqualificazione energetica di un immobile non
è obbligatorio inviare alcuna documentazione preventiva
all'Enea. La normativa vigente impone solamente che entro 90
giorni dal termine dei lavori tramite l'applicativo
http://finanziaria2014.Enea.it (cliccando sull'icona della
cassetta postale) debba essere trasmessa all'Enea, per via
telematica, la documentazione costituita dall'Ape (allegato
«a»), dalla scheda descrittiva degli interventi realizzati
(allegato «e») o in alcuni casi, una documentazione
semplificata, costituita dal solo allegato «e» (nel caso di
sostituzione di impianti termici con caldaie a
condensazione, pompe di calore ad alta efficienza o impianti
geotermici a bassa entalpia o di sostituzione di scaldacqua
di tipo tradizionale con scaldacqua a pompa di calore) o dal
solo allegato «f» (nei caso di sostituzione di infissi in
singole unità immobiliari o di installazione di pannelli
solari). La risoluzione 244/E del 2007 dell'Agenzia delle
entrate ha precisato che la decorrenza dei termini per
l'invio della documentazione parte dal giorno del «collaudo»
finale dei lavori. Tale collaudo può essere esplicitato
anche dalla ditta che ha eseguito i lavori.
Questa è la risposta fornita con le
nuove faq 1, 2 e 12
(aggiornate alla fine di giugno scorso) dell'Enea in materia
di documentazione da inviare per il riconoscimento delle
detrazioni fiscali.
I tecnici ricordano che non sono previsti altri riscontri da
parte di Enea, né in caso di invio corretto, né in caso di
invio incompleto, errato o non conforme. Di conseguenza, è
consigliabile che l'utente stampi questi documenti e li
conservi in caso di futuri possibili controlli. L'allegato
«a» deve essere necessariamente firmato e timbrato dal
tecnico abilitato a certificare il rispetto dei requisiti
richiesti all'impianto per accedere alle detrazioni.
Effettuata la trasmissione, in automatico ritorna al
mittente da Enea una ricevuta informatica con il codice
personale identificativo, valida a tutti gli effetti come
prova dell'avvenuto invio.
Nella risposta fornita dall'Enea con la faq n. 6 sostiene
che i soggetti ammissibili alla detrazione (del 55% o 65%)
sono i proprietari, locatari o comodatari che sostengono le
spese per l'esecuzione degli interventi su unità immobiliari
esistenti o su parti di esse di qualsiasi categoria
catastale, anche rurali, possedute o detenute, purché
riscaldate. Nel caso di immobili residenziali, ai soggetti
sopraelencati possono aggiungersi anche i familiari
conviventi (il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli
affini entro il secondo grado). Sono esistenti gli immobili
accatastati o con richiesta di accatastamento in corso e con
tributi pagati, se dovuti.
Attestato di prestazione energetica.
Dal 04.08.2013 per accedere agli incentivi fiscali (55% e
65%) finalizzati al miglioramento delle prestazioni
energetiche dell'unità immobiliare, dell'edificio o degli
impianti occorre redigere l'Ape. L'Ape deve essere
conservata dall'utente e, in quanto misura obbligatoria per
l'accesso alle detrazioni, le spese tecniche per la sua
compilazione sono anch'esse detraibili.
Per ciò che attiene
alla metodologia di calcolo da seguire, come riporta la
circolare del Mise del 07.08.2013, «fino all'emanazione
dei decreti previsti dall'art. 4 del dl n. 63/2013, si
adempie alle prescrizioni di legge redigendo l'Ape secondo
le modalità di calcolo di cui al dpr 02.04.2009 n. 59,
fatto salvo nelle regioni che hanno provveduto a emanare
proprie disposizioni normative in attuazione della direttiva
2002/91/Ce».
Questa è la risposta fornita dall'Enea con la
nuova faq n. 39 della fine giugno scorso in materia di
attestato di prestazione energetica. I tecnici Enea
ricordano che con il dl 04.06.2013, n. 63, convertito
nella legge 03.08.2013, n. 90 (che recepisce la direttiva
2010/31/Ue del Parlamento europeo e del consiglio del 19.05.2010, sulla prestazione energetica nell'edilizia),
l'Ace è stato soppresso e sostituito dall'Ape.
Pertanto, dal 04.08.2013, entrata in vigore della legge n. 90, nei casi
ove esso è previsto (e cioè nel caso di interventi ai sensi
della Finanziaria 2007, commi 344 e 345, quest'ultimo
limitatamente alla coibentazione di strutture opache e alla
sostituzione di infissi in contesti diversi dalle singole
unità immobiliari), per accedere a questi incentivi, occorre
ora redigere l'Ape.
Ai soli fini dell'accesso alle
detrazioni in oggetto, nei casi ove esso è previsto, si
continua a utilizzare lo stesso modulo dell'Ace, che può
essere compilato e sottoscritto anche da un tecnico
abilitato coinvolto nei lavori di cui alla richiesta di
detrazione, mentre il tecnico compilatore dell'Ape non deve
essere coinvolto nei lavori (per ulteriori informazioni sui
requisiti dei certificatori, si rimanda al dpr n. 75/2013).
Detrazione Irpef 50% per la diagnosi
energetica. Si
applica la detrazione del 50% (ristrutturazione edilizia)
anche per le opere finalizzate al risparmio energetico di un
immobile, la cui realizzazione avviene in assenza di
interventi edilizi propriamente detti. Anche la sola
diagnosi energetica può essere detratta, purché porti a dei
risparmi energetici misurabili. La diagnosi energetica non
deve essere solamente un'analisi dello stato di fatto, ma
deve contenere in primis risposte immediatamente applicabili
con calcolo del risparmio energetico conseguito agli
interventi proposti e attuati, nonché del raggiungimento
degli standard di legge per le parti oggetto di diagnosi e
intervento.
Ovviamente si tratta di interventi che in prima
fase conseguono risparmi correggendo errori nell'uso della
stessa abitazione per farli rientrare nei standard di legge.
Per esempio, una riduzione della temperatura interna e delle
ore di accensione dell'impianto di riscaldamento, se
superiore ai limiti di legge, potrebbero essere corretti
attraverso una diagnosi energetica per riportarli nei
parametri degli «standard di legge» con chiari ed evidenti
risparmi (documentati).
Inoltre, per ridurre il consumo
energetico potrebbero essere attuati anche interventi legati
a impianti elettrici, acqua calda sanitaria ecc. Alcuni
potrebbero essere immediatamente eseguiti dallo stesso
proprietario o con l'assistenza del professionista
energetico, mentre altri da ditte specializzate. Questa è la
risposta fornita dell'Agenzia delle entrate (Centro di
assistenza multicanale di Salerno) al quesito posto
dall'istituto Casacerta in merito all'applicazione della
detrazione del 50% per la sola diagnosi energetica di un
immobile.
---------------
Due attestati con due funzioni distinte.
Due sono gli attestati utilizzati per la certificazione
energetica di un immobile: l'attestato di qualificazione
energetica e l'attestato di prestazione energetica.
L'attestato di qualificazione energetica è chiamato a
svolgere il ruolo di strumento di controllo «ex post»
del rispetto, in fase di costruzione o ristrutturazione
degli edifici delle prescrizioni volte a migliorarne le
prestazioni energetiche. L'Ape è chiamato a svolgere il
ruolo di strumento di «informazione» del proprietario,
dell'acquirente e/o del locatario circa la prestazione
energetica e il grado di efficienza energetica degli
edifici. L'attestato di prestazione energetica si
differenzia dall'attestato di qualificazione energetica
proprio per la necessità, prevista solo per il primo,
dell'attribuzione della classe di efficienza energetica.
Questo è quanto contenuto nello
studio
19-20.06.2014 n. 657-2013/C
del Consiglio nazionale del notariato rubricato «la
disciplina nazionale della certificazione energetica - Guida
operativa 2014».
Lo studio del Notariato costituisce la versione aggiornata,
a seguito dell'entrata in vigore del dl 23.12.2013 n. 145,
convertito, con modificazioni, con legge 21.02.2014 n. 9,
del precedente studio 657-2013/C approvato dalla commissione
studi pubblicistici il 19.09.2013: «la certificazione
energetica (dall'attestato di certificazione all'attestato
di prestazione energetica)» (pubblicato in Cnn notizie
del 25.10.2013 n. 191)
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
L'Ape va allegato con distinguo. Niente obbligo
per donazioni e locazioni di singole unità.
Lo ha precisato il Notariato in uno studio sulla
certificazione energetica degli edifici.
Novità in materia di sanzioni e obblighi per la
certificazione energetica degli edifici e per l'Ape
(attestato di prestazione energetica). Non è più previsto
l'obbligo di allegazione in caso di trasferimenti a titolo
gratuito (prime fra tutte le donazioni) e in caso di nuove
locazioni di singole unità immobiliari. Sostituzione della
sanzione della nullità con una sanzione pecuniaria a carico
delle parti in caso di omessa dichiarazione o allegazione.
Sono le principali modifiche in materia di certificazione
energetica apportate con il dl 145/2013, convertito con la
legge n. 9/2014, ed esaminate dal recente
studio
19-20.06.2014 n. 657-2013/C, approvato dal Consiglio nazionale del notariato.
Le principali novità. Il comma 7 dell'art. 1 del dl 145/2013
è intervenuto in materia di certificazione energetica,
sostituendo i commi 3 e 3-bis (quest'ultimo introdotto dal
dl n. 63/2013) dell'art. 6 del dlgs n. 192/2005 con un unico
nuovo comma 3 (si vedano in tabella le modifiche).
La nuova normativa, ha inciso sugli obblighi di allegazione,
di informativa e di consegna, lasciando invece immutata la
disciplina vigente in tema di dotazione.
L'attuale quadro normativo.
Il quadro normativo riguardante l'Ape (dopo il dl 145/2013)
è dunque il seguente:
a) l'obbligo di dotazione dell'Ape è sempre imposto in caso
di trasferimento di immobili a titolo oneroso e a titolo
gratuito, e in caso di nuova locazione di interi edifici o
di singole unità immobiliari;
b) in tutti i casi suddetti, sussiste l'obbligo
dell'alienante o del locatore di «mettere a disposizione»
l'Ape al potenziale acquirente o al nuovo locatario
all'avvio delle rispettive trattative;
c) parimenti, in tutti i casi suddetti, sussiste l'obbligo
dell'alienante o del locatore di consegnare l'Ape
all'acquirente o al nuovo locatario alla fine delle
rispettive trattative;
d) l'obbligo di inserimento nel contratto di apposita
clausola (riguardo all'assolvimento dell'obbligo di
informazione) è, invece previsto in caso di trasferimento di
immobili a titolo oneroso, in caso di nuova locazione di
interi edifici, e in caso di nuova locazione di singole
unità immobiliari (esclusi quindi i trasferimenti a titolo
gratuito);
e) l'obbligo di allegazione dell'Ape al contratto è previsto
solo in caso di trasferimento di immobili a titolo oneroso,
e in caso di nuova locazione di interi edifici (con
esclusione dei trasferimenti a titolo gratuito e della nuova
locazione di singole unità immobiliari).
L'obbligo di allegazione e l'obbligo di
dotazione. Il
comma 3 dell'art. 6 del dlgs 192/2005, nel testo riscritto
dal dl 145/2013, nel prescrivere l'obbligo di allegazione
dell'attestato di prestazione energetica ai contratti di
compravendita e di trasferimento di immobili a titolo
oneroso, non precisa quale deve essere il diritto oggetto di
trasferimento.
Come indicato dallo studio del Notariato n.
657-2013/C, la normativa in tema di allegazione della
certificazione energetica (e quindi, per il collegamento
esistente tra i due obblighi, anche la normativa in tema di
dotazione) deve ritenersi applicabile nei seguenti casi:
a)
nel caso di trasferimento sia dell'intera proprietà che di
una quota di comproprietà;
b) nel caso di trasferimento sia
della piena o della nuda proprietà che di altro diritto
reale di godimento (usufrutto, uso, abitazione);
c) nel caso
di costituzione di diritti reali di godimento (usufrutto,
uso, abitazione);
d) nel caso di affrancazione di fabbricati
oggetto di enfiteusi;
e) nel caso di acquisto diretto del
dominio, verso pagamento di un corrispettivo a favore del
proprietario concedente;
f) nel caso di trasferimento della
proprietà superficiaria di edificio già costruito
(comportante «consumo energetico»).
Gli obblighi di
dotazione e allegazione, invece, non esclusi nel caso di
costituzione del diritto di superficie, non sussistendo
ancora in questo momento un edificio per il quale possa
essere rilasciata la certificazione energetica.
Definizione di copia dell'attestato di
prestazione energetica.
Il comma 3 del citato articolo 6 prevede inoltre che «copia
dell'attestato di prestazione energetica deve essere altresì
allegata al contratto». A tal proposito come indicato
ancora dal citato studio del Notariato n. 657-2013/C,
l'espressione «copia» utilizzata dal legislatore deve
ritenersi equivalente a quella di «esemplare». L'attestato,
infatti, viene generato attraverso un programma informatico
e, di conseguenza, il vero «originale» è costituito dal file
generato dal software utilizzato dal certificatore.
Pertanto, conclude lo studio del Notariato, all'atto possono
essere allegati uno degli esemplari firmati in originale dal
certificatore o la copia dichiarata conforme di un esemplare
firmato in originale. È altresì possibile allegare copia
autentica (rilasciata da notaio o da altro pubblico
ufficiale a ciò legittimato) di attestato recante la firma
del certificatore in originale.
Obbligo di allegazione e dotazione in caso
di contratto di locazione.
Per quanto riguarda i contratti di locazione, a seguito
delle modifiche apportate dal dl 145/2013, al comma 3
dell'art. 6, dlgs 192/2005, l'ambito applicativo
dell'obbligo di allegazione è divenuto più restrittivo
rispetto all'ambito applicativo dell'obbligo di dotazione.
Infatti, secondo la normativa vigente, l'obbligo di
dotazione coinvolge tutti i nuovi contratti di locazione di
edifici o di unità immobiliari, mentre l'obbligo di
allegazione coinvolge sempre i nuovi contratti di locazione,
ma con esclusione di quelli non soggetti a registrazione (in
pratica i soli contratti che non superano i 30 giorni
complessivi nell'anno) e di quelli che hanno per oggetto
singole unità immobiliari. Pertanto, come precisato dal
citato studio del Notariato, perché sorga l'obbligo di
allegazione deve trattarsi di una nuova locazione così come
previsto per l'obbligo di dotazione.
Tale disciplina non si
applica, invece, quando non si è in presenza di una nuova
locazione, per esempio un contratto che rinnova, proroga o
reitera un precedente rapporto di locazione, ovvero in caso
di cessione di un contratto di locazione o di subentro in un
simile contratto ex art. 2558 c.c.. Trova, invece,
applicazione la disciplina in materia di certificazione
energetica, in caso di sub-locazione, che altro non è che un
nuovo, autonomo, contratto di locazione
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
bonus del 65% non esclude altri benefici.
Detrazioni. Cumulo con incentivi territoriali ma non
con l'agevolazione del 30% per la ristrutturazione degli
alberghi.
Dal 03.01.2013 la detrazione fiscale
del 55-65% sugli interventi del risparmio energetico è
cumulabile con specifici incentivi disposti da Regioni,
Province, Comuni, «previa verifica che questi incentivi
prevedano la cumulabilità con le detrazioni fiscali e
usufruendo di essi per la parte di spesa eccedente gli
incentivi locali».
Quindi questi benefici sono cumulabili per lo stesso
intervento, a patto che naturalmente il bonus fiscale sia
calcolato sull'effettiva spesa rimasta a carico del
contribuente, cioè sul costo totale al netto di quanto
ricevuto come incentivo regionale, provinciale o comunale.
La conferma è arrivata dall'Enea, nella
nuova Faq 21
(l'articolo 6, comma 3, decreto legislativo 30.05.2008, n.
115, ha abrogato l'articolo 28, comma 5, del decreto
legislativo 28/2011), la quale però ha confermato anche l'incumulabilità
del bonus fiscale del 55-65% «con altre agevolazioni fiscali
previste da altre disposizioni di legge nazionali per i
medesimi interventi», tra le quali vi rientra anche il nuovo
credito d'imposta per la ristrutturazione degli alberghi,
introdotto dal decreto cultura e turismo (articolo 10, del
decreto legge 31.05.2014, n. 83, in fase di conversione in
legge).
Quest'ultima agevolazione consiste in un credito d'imposta
del 30% delle spese relative a interventi di
ristrutturazione edilizia (articolo 3, comma 1, lettera d,
del Dpr 06.06.2001, n. 380) o di eliminazione delle
barriere architettoniche (legge 09.01.1989, n. 13, e
decreto del Ministero dei lavori pubblici 14.06.1989, n.
236) sostenute dal 2014 al 2016 su strutture ricettive
esistenti alla data del 01.01.2012.
L'importo massimo
delle spese agevolate è di 200mila euro. Il bonus va
ripartito in tre quote annuali di pari importo e nel
rispetto degli aiuti "de minimis" (regolamento Ue 1407/2013
della Commissione europea del 18.12.2013, relativo
all'applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato sul
funzionamento dell'Unione Europea).
Il previsto decreto attuativo non dovrebbe introdurre regole
relative all'incumulabilità del credito d'imposta con altre
agevolazioni, quindi, con riferimento della detrazione del
65% per il risparmio energetico, valgono i limiti sanciti da
quest'ultima agevolazione.
La scelta tra le due agevolazioni, naturalmente, deve essere
effettuata solo per quei lavori di ristrutturazione edilizia
che rispettano anche i requisiti per beneficiare del bonus
del risparmio energetico. Si pensi al rifacimento del tetto
o alla costruzione di un cappotto. Inoltre, molti interventi
minori, come il cambio delle finestre o della caldaia con
beni energicamente efficienti (classificati tra le
manutenzioni straordinarie, se presi singolarmente) possono
rientrare nella ristrutturazione, se vengono effettuati in
questo ambito, per il principio di attrazione sancito dalla
circolare 24.02.1998, n. 57/E.
Analizzando, da ultimo, solo la percentuale dei due bonus,
risulta ovviamente più conveniente la detrazione del 65%
(50% dal 01.01.2015 al 31.12.2015) rispetto al
credito d'imposta del 30 per cento ma va considerato anche
che quest'ultimo è compensabile in F24 con altri debiti
tributari o contributivi e può essere riportato anche negli
anni successivi, mentre la detrazione del 65 per cento,
ripartita in 10 anni, può scomputare solo l'Ires o l'Irpef
dell'anno (articolo Il Sole 24 Ore del 06.07.2014). |
ENTI LOCALI:
Proroga bilanci, Viminale generoso: slittamento al 30
settembre.
Il termine per l'approvazione dei bilanci di previsione 2014
degli enti locali slitterà al 30 settembre.
Il ministero
dell'interno, infatti, è orientato ad andare oltre la
richiesta dell'Anci, che nei giorni scorsi ha proposto di
spostare la dead-line al 15 settembre.
Come evidenziato da ItaliaOggi del 02/07/2014, infatti, sono ancora troppe le
incertezze e le incognite che impediscono ai comuni di
chiudere i conti senza rischi. Molte amministrazioni,
inoltre, si sono appena insediate dopo la recente tornata
elettorale e spesso non vi sono i tempi tecnici per
rispettare l'attuale scadenza del 31 luglio. E infatti il
rappresentante dei sindaci, Piero Fassino, ha preso carta e
penna e ha chiesto ad Angelino Alfano una nuova proroga.
«Anche per il 2014, come accaduto nel biennio precedente»,
scrive Fassino, «il processo di formazione dei bilanci resta
caratterizzato da rilevanti incertezze. Ancora oggi,
infatti, i comuni non conoscono alcuni importanti elementi,
indispensabili per la predisposizione del bilancio di
previsione».
Il presidente dell'Anci richiama, in primo luogo, le
rettifiche dell'Imu 2013 e le assegnazioni a titolo di fondo
di solidarietà, rese note solo nei giorni scorsi. Ma
all'appello mancano anche i provvedimenti di riparto di
diversi, ulteriori fondi, per un ammontare superiore al
miliardo, la cui distribuzione avverrà solo nelle prossime
settimane.
Inoltre, sono ancora da distribuire i tagli previsti dal dl
66/2014 come contropartita dei risparmi attesi dalle misure
di contenimento dei costi per gli acquisiti di beni e
servizi, che valgono in tutto 375,6 milioni, e quelli in
corrispondenza del maggior gettito Imu che deriverà dalla
rimodulazione dell'esenzione sui terreni agricoli (350
milioni).
Infine, è in sospeso anche il riparto dei 625
milioni stanziati dallo Stato a favore dei comuni che,
avendo già raggiunto i livelli massimi consentiti sulle
aliquote Imu, non possono applicare la Tasi neppure ad
aliquota base. Proprio la tempistica della Tasi, peraltro,
pone un ulteriore problema: in base al calendario fissato
dalla normativa vigente, infatti, i comuni che non hanno
ancora deciso aliquote e detrazioni avranno tempo per farlo
solo fino al 10 settembre (in mancanza, il tributo sarà
dovuto ad aliquota base e dovrà essere versato in un'unica
soluzione entro il 16 dicembre).
Ecco perché l'Anci aveva indicato come data ultima il 15: in
pratica, l'extra time concesso dal Viminale potrebbe
essere inutile. Altrettanto caotica è la situazione creata
dalle norme dello stesso dl 66 che, dal 1° luglio, hanno
importo a tutti i comuni non capoluogo di provincia la
centralizzazione degli acquisti. Anche in proposito, l'Anci
ha invocato una proroga, almeno fino al 31 dicembre
(articolo ItaliaOggi del 05.07.2014). |
ENTI LOCALI:
Unioni, sotto i 10.000 abitanti il revisore è
sempre uno solo.
Nelle unioni con meno di 10.000 abitanti la revisione è
attribuita sempre a un solo revisore anche quando queste
esercitano in forma associata tutte le funzioni fondamentali
dei comuni che ne fanno parte.
Lo ha chiarito la
circolare 03.07.2014 n. 12/2014
del
dipartimento affari interni e territoriali del ministero
dell'interno.
La nota ministeriale ha fatto il punto sulla doppia
disciplina in materia di revisione nelle unioni a seguito
dell'approvazione della legge Delrio.
Il Viminale ha ribadito che la chance introdotta dall'art. 1
comma 100, lett. c) della legge n. 56/2014 (a norma della
quale le funzioni dell'organo di revisione possono essere
svolte dalle unioni in forma associata anche per i comuni le
costituiscono) rappresenta una facoltà per gli enti e
prescinde dalla quantità di funzioni svolte dall'unione per
conto dei comuni membri. In questo caso, come prevede la
legge Delrio, ove l'unione non superi il limite demografico
dei 10.000 abitanti, la revisione contabile sarà attribuita
a un solo revisore. Oltre questa soglia il collegio dei
revisori sarà composto da tre membri.
Diversa è l'ipotesi (art. 234, comma 3, del Tuel) in cui le
unioni esercitino in forma associata tutte le funzioni
fondamentali dei comuni che ne fanno parte. In questo caso
la revisione sarà obbligatoriamente svolta da un collegio di
tre componenti che svolgerà le medesime funzioni anche per i
comuni membri dell'unione. Ma per analogia con quanto
previsto dalla legge Delrio, il collegio di tre revisori
resterà in piedi solo nelle unioni sopra i 10.000 abitanti.
Al di sotto di tale soglia, il revisore dovrà essere anche
in questo caso uno solo. Secondo il ministero, infatti, la
diversificata composizione dell'organo di revisione in base
alla popolazione si applica anche alla fattispecie prevista
dal Testo unico degli enti locali.
Pertanto, conclude il Viminale, «nel caso di unioni di
comuni che esercitano in forma associata tutte le funzioni
fondamentali dei comuni, l'organo di revisione esercita le
medesime funzioni anche nei comuni che ne fanno parte e sarà
costituito, alla luce di quanto previsto dall'articolo 1,
comma 110, lett. c), della legge n. 56 del 2014, da un unico
revisore nel caso in cui la popolazione complessiva dei
comuni non superi i 10.000 abitanti e da un collegio
composto da tre membri, per le unioni che superano tale
limite»
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA:
Cessioni gratuite ai comuni con imposta di
registro fissa.
Imposta di registro fissa ed esenzione dalle imposte
ipotecaria e catastale per le cessioni a titolo gratuito di
aree sulle quali sono state realizzate opere di
urbanizzazione a favore di un comune. Questa tipologia di
atti non rientra, infatti, tra quelli interessati dalla
soppressione delle agevolazioni per i trasferimenti
immobiliari onerosi prevista dall'articolo 10, comma 4, del
dlgs n. 23/2011 in tema di imposte indirette.
Lo ha chiarito l'Agenzia delle entrate con la
risoluzione 03.07.2014 n. 68/E, rispondendo alla richiesta di un comune
sull'applicazione a queste particolari cessioni del
trattamento di favore previsto dall'articolo 32 del dpr n.
601/1973.
Com'è noto l'articolo 10 del dlgs n. 23/2011 ha introdotto,
a decorrere dall'01.01.2014, delle rilevanti novità nel
regime impositivo, ai fini delle imposte indirette, per gli
atti, a titolo oneroso, traslativi o costitutivi di diritti
reali immobiliari. In particolare, il comma 4 dell'articolo
10 della stessa norma ha previsto la soppressione di tutte
le esenzioni e agevolazioni tributarie per gli atti di
trasferimento immobiliare a titolo oneroso soggetti a
imposta di registro in misura proporzionale. Il dubbio
riguardava l'applicabilità o meno di queste modifiche
normative agli atti di cessione, a titolo gratuito, al
comune, di aree con relative opere di urbanizzazione.
Secondo l'Agenzia delle entrate, le agevolazioni restano
applicabili agli atti se posti in essere a titolo gratuito.
L'articolo 28 della legge urbanistica n. 1150/1942
stabilisce che l'autorizzazione del comune alla
lottizzazione dei terreni a scopo edilizio è subordinata
alla stipula di una convenzione che preveda, tra l'altro, la
cessione gratuita, entro termini prestabiliti, delle aree
necessarie alle opere di urbanizzazione primaria, nonché la
cessione gratuita delle aree necessarie alla realizzazione
delle opere di urbanizzazione secondaria.
Considerato, quindi, che il legislatore qualifica
espressamente queste cessioni come atti a titolo gratuito,
l'Agenzia delle entrate esclude che gli stessi possano
essere ricondotti nell'ambito degli atti costitutivi o
traslativi, a titolo oneroso, di immobili, interessati dalla
norma di soppressione delle agevolazioni. Per questa
tipologia di atti, dunque, continuano ad applicarsi le
previsioni recate dall'articolo 32 del dpr n. 601/1973
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014). |
SEGRETARI
COMUNALI:
Stipendi leggeri per i segretari.
A rischio la retribuzione di posizione.
L'abolizione del divieto di reformatio in peius per il
trattamento economico dei pubblici dipendenti, introdotto
dalla legge di stabilità 2014, colpisce anche la platea dei
segretari comunali e provinciali, i quali non potranno più
mantenere la retribuzione di posizione della propria fascia
professionale nel caso in cui esercitino la propria funzione
in un ente locale appartenente a una classe inferiore.
È quanto mette nero su bianco la
nota 09.06.2014 n. 3636 di prot.
del Mininterno -Albo
nazionale dei segretari comunali e provinciali-, in risposta
a numerosi chiarimenti pervenuti in relazione alle
disposizioni introdotte dallo scorso Capodanno dall'articolo
1, comma 458, della legge n. 147/2013.
Come noto, la predetta norma ha sancito l'espressa
abrogazione dell'articolo 202 del Testo Unico sul pubblico
impiego 10/01/1957, n. 3 e dell'articolo 3, comma 57, della
legge n. 537/1993. Queste ultime, disposizioni di carattere
generale che sancivano il divieto di reformatio in peius
del trattamento economico dei pubblici dipendenti.
Da questa abrogazione, rileva la nota del Viminale, non è
escluso l'ordinamento dei segretari comunali e provinciali,
soprattutto per quanto riguarda il segretario nominato
presso sedi di segreteria di enti che appartengono a fasce
inferiori rispetto a quella di iscrizione.
In pratica, i segretari comunali e provinciali sono
suddivisi in tre fasce professionali (A,B,C), cui
corrispondono distinti trattamenti economici in base alla
tipologia di ente presso cui ricoprono la funzione. Sul
presupposto che il trattamento economico del segretario sia
più elevato in relazione all'avanzamento di carriera e al
servizio presso enti più popolosi, l'ex Agenzia autonoma per
la gestione dell'Albo dei segretari, con deliberazione n.
275/2001, vigendo il principio del divieto di reformatio
in peius, aveva disposto che il segretario mantenesse la
retribuzione di posizione nel caso in cui lo stesso venisse
nominato presso un ente appartenente a una fascia inferiore
rispetto a quella della sua iscrizione. Adesso, con
l'abrogazione del divieto, non sarà più così.
Il Viminale, infatti, ha ritenuto che le disposizioni
espresse nella citata deliberazione dell'ex Agenzia autonoma
siano ormai superate e non applicabili a partire dal 1°
gennaio
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014). |
INCENTIVO
PROGETTAZIONE:
Taglio incentivi, enti nel caos. Aboliti diritti di rogito e
premi ai progettisti. Ma da quando?
DECRETO P.A./ Il dl 90 solleva dubbi sulla decorrenza
temporale delle abrogazioni.
L'abrogazione dei diritti di rogito dei segretari comunali e
degli incentivi alla progettazione per i dirigenti rischia
di creare caos negli enti locali.
I segretari comunali e provinciali assicurano la funzione di
ufficiale rogante negli enti locali. È un'attività altamente
specialistica, che consente da sempre alle amministrazioni
locali di evitare le spese, che sarebbero altrimenti
ingentissime, connesse agli incarichi notarili.
In funzione della specificità del compito assegnato dalla
legge, ai segretari era stato riconosciuta la
compartecipazione ai diritti di rogito, come specifica
remunerazione per questa attività, allo scopo di incentivare
i segretari e compensare anche il lavoro di aggiornamento e
formazione professionale necessari.
A fronte di risparmi irrisori, dunque, la riforma del
ministro Marianna Madia rinuncia a un sistema di
valorizzazione delle professionalità della p.a., per altro
in modo contraddittorio.
Poiché, infatti, la norma modifica l'articolo 30, comma 2,
della legge 734/1973 prevedendo che «il provento annuale dei
diritti di segreteria è attribuito integralmente al comune o
alla provincia», non si capisce se l'effetto sia retroattivo
o meno. Non è chiaro, insomma, se ai segretari spetti la
ripartizione dei diritti di rogito per le attività svolte e
per i diritti, dunque, già maturati prima della vigenza del
dl Pane, insomma, per il solito rituale dei pareri
contrastanti della Corte dei conti e per le ispezioni della
Ragioneria generale dello stato, se non vi siano urgenti
chiarimenti da parte del legislatore.
Moneta simile è quella riservata dall'articolo 13 del dl
90/2014 agli incentivi per la progettazione. Non sono stati
del tutto aboliti, come era emerso dalle tante bozze
circolate nei giorni scorsi. Infatti, all'articolo 92, comma
6, del dlgs 163/2006 è aggiunto un comma 6-bis, ai sensi del
quale «in ragione della onnicomprensività del relativo
trattamento economico, al personale con qualifica
dirigenziale non possono essere corrisposte somme in base
alle disposizioni di cui ai commi 5 e 6».
Pertanto, incentivi per la progettazione sì, ma solo per chi
non possieda la qualifica dirigenziale. Come se
l'incentivazione riguardi non il risultato conseguito, ma lo
status giuridico di chi svolge l'attività, a parità di
lavoro svolto.
Anche nel caso degli incentivi per i dirigenti tecnici, non
si capisce se la norma operi solo per il futuro, cioè per le
attività di progettazione assegnate successivamente alla
vigenza del dl 90/2014, oppure travolga anche le
progettazioni e le pianificazioni già effettuate.
Meno ambigua è, invece, la riforma degli incentivi per gli
avvocati dello stato. Infatti, l'articolo 9 del dl abroga il
comma 457 dell'articolo 1 della legge 147/2013 e il comma 3
dell'articolo 21 del regio decreto 1611/1923, specificando,
però, che tale abrogazione «ha efficacia relativamente alle
sentenze depositate successivamente alla data di entrata in
vigore del presente decreto».
In ogni caso, si riduce anche per i legali delle p.a.
l'incentivo a svolgere con efficienza la propria attività
specialistica, poiché nelle ipotesi di sentenza favorevole
con recupero delle spese legali a carico delle controparti,
solo il 10% delle somme recuperate sarà ripartito tra gli
avvocati dello Stato o tra gli avvocati dipendenti dalle
altre amministrazioni, in base alle norme del regolamento
delle stesse.
Tuttavia, anche in questo caso la riduzione delle
incentivazioni non varrà per gli avvocati inquadrati con
qualifica non dirigenziale negli enti pubblici e negli enti
territoriali
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Nei concorsi per dirigenti non vince sempre il migliore.
Cooptazione del 30% dei dirigenti a contratto negli enti
locali sempre sulla base di criteri sostanzialmente
fiduciari.
Non basta la previsione nel nuovo comma 1
dell'articolo 110 del dlgs 267/2000 (come novellato
dall'articolo 11 del dl 90/2014) di una «selezione pubblica»
per assicurare che i dirigenti a contratto siano assunti
secondo le modalità stabilite dall'articolo 97 della
Costituzione, cioè in base ad un concorso pubblico.
Nella
realtà, la norma è strutturata in modo da lasciare di fatto
ogni scelta ai sindaci, per permettere loro di creare una
sorta di dirigenza «parallela» a quella di ruolo, composta
da persone di fiducia. L'ampia possibilità di continuare a
selezionare le persone più «vicine» politicamente sta
scritta nei dettagli della previsione normativa, ai sensi
della quale «fermi restando i requisiti richiesti per la
qualifica da ricoprire, gli incarichi a contratto di cui al
presente comma sono conferiti previa selezione pubblica
volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il
possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica
professionalità nelle materie oggetto dell'incarico».
Come
si nota, la selezione non ha lo scopo, come avviene nei
concorsi pubblici, di scegliere il migliore dei concorrenti
sulla base delle prove di valutazione delle competenze e
capacità, in esito alle quali si forma una graduatoria che
vincola a stipulare il contratto di lavoro col concorrente
meglio piazzato. La norma, pur sibillina, ha uno scopo
diverso: accertare in capo a coloro che presentano la
candidatura all'assunzione a tempo determinato il possesso
dei requisiti per essere assunti (un'esperienza pluriennale
comprovata e una specifica professionalità), non individuare
il migliore.
In sostanza, la selezione si potrà limitare,
come del resto fin qui è sempre avvenuto nelle circostanze
in cui gli enti hanno ritenuto di procedere in tal modo,
alla sottoposizione ai sindaci di una rosa di candidati che
possiedono i requisiti, demandando, però, la scelta finale
al sindaco, sul presupposto della «fiduciarietà» del
rapporto da instaurare. Di fatto, la norma pare consentire
di «vestire» scelte comunque per cooptazione, con procedure
che di selettivo hanno soltanto il nome.
Non sembra un caso che nella stesura finale del dl 90/2014
siano saltate due previsioni inizialmente inserite nelle
bozze. La prima avrebbe dovuto indurre a definire
preventivamente il profilo professionale dell'incarico, cosa
che avrebbe reso la «selezione» più oggettiva a monte. La
seconda, avrebbe imposto di affidare la selezione a
commissioni composte da soggetti dotati di particolare
competenza, da scegliere tra dirigenti, docenti e
professionisti esterni
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014). |
LAVORI PUBBLICI:
Gli appalti puntano sulle pmi. Incoraggiata la suddivisione
in lotti delle grandi opere.
Le nuove direttive Ue guardano con un occhio di riguardo
alle piccole e medie imprese.
All'interno dei testi delle nuove direttive appalti
(2014/24/Ue e 2014/25/Ue) e concessioni (2014/23/Ue) un
elemento di rilievo è rappresentato dalle svariate
disposizioni che manifestano un evidente favor del
legislatore europeo per le piccole e medie imprese. Scopo
del resto dichiarato sin dai Considerando iniziali delle
medesime direttive. Va ricordato che la definizione di pmi
era già stata offerta dal legislatore comunitario e
successivamente, con dm 18/04/2005, recepita nell'ordinamento
interno.
È interessante rilevare che dalla richiamata definizione e
dai limiti dimensionali (di personale e fatturato)
individuati si ricava che la maggioranza degli operatori
economici italiani sono qualificabili, appunto, come pmi.
Anche per questo motivo il nostro legislatore aveva
introdotto nel Codice dei contratti, anche con successivi
interventi, molteplici disposizioni tese a facilitare tali
soggetti. Al riguardo possiamo, ad esempio, ricordare il
pagamento diretto dei subappaltatori (legge 136/2010), la
raccomandazione di operare suddivisioni in lotti nei grandi
appalti (art. 13 l. 180/2011), la necessaria motivazione per
eventuali requisiti di fatturato (art. 41, comma 2 del dlgs
163/2006 introdotto dalla legge 135/2012) e, infine,
l'attenuazione circa gli obblighi di comprova dei requisiti
richiesti (sempre art. 13, legge 180/2011).
Proprio nel solco di tali previsioni, le direttive tornano a
interessarsi delle pmi. In primo luogo, le direttive
incoraggiano nuovamente la suddivisione in lotti dei grandi
appalti, al riguardo, tuttavia, questa volta offrendo
criteri di suddivisione su base quantitativa o qualitativa e
addirittura prevedendo la facoltà per gli stati membri di
rendere obbligatoria, in alcuni casi, la suddivisione in
lotti di taluni appalti (art. 46). Viene, inoltre, previsto
l'obbligo di fornire puntuali motivazioni circa la
decisione, delle stazioni appaltanti, di non suddividere
l'appalto in lotti.
Peraltro, l'argomento della suddivisione dell'appalto si
interseca con il differente tema dei requisiti di
partecipazione richiesti, poiché l'auspicata suddivisione in
lotti inciderà, ancora in senso positivo per le pmi, su di
una sostanziale ricalibrazione dei requisiti richiesti per
la partecipazione ai singoli lotti.
E proprio a tali fini si può ritenere che sia stata
introdotta l'approfondita disciplina, in ordine alle
modalità di aggiudicazione degli appalti suddivisi in lotti,
ora prevista dalle richiamate direttive; quanto detto al
fine di eliminare ogni zona d'ombra che può avere fin qui
ostacolato la previsione già contenuta nella normativa
interna di attuazione delle previgenti direttive. Pensiamo
in tale contesto all'affermazione giuridica di elementi (ad
es. l'aggiudicazione di più lotti a un solo soggetto) che,
in precedenza, pur rappresentando una forte criticità, non
trovavano alcun riscontro normativo. Come detto, tuttavia,
la nuova disciplina, regolamentando espressamente e con
procedure specifiche l'aggiudicazione di appalti suddivisi
in più lotti, dovrebbe evitare che le stazioni appaltanti
applichino previsioni non omogenee. Assumerà, in ogni caso,
evidente rilievo il contenuto delle motivazioni che le
stazioni appaltanti dovranno fornire in ordine alla
possibilità di non aggiudicare più lotti al medesimo
operatore ovvero ancora in ordine alla non suddivisione
della gara in lotti.
Sotto diverso profilo viene «recepito» l'orientamento
giurisprudenziale che limitava l'introduzione di requisiti
di fatturato a un valore fissato a non oltre il doppio
dell'importo dell'appalto (Tar Roma, sez. II, 5221/2012 e
Avcp, del. n. 20/2007); criterio che va comunque ad
aggiungersi al già richiamato obbligo motivazionale relativo
al requisito di fatturato medesimo, previsto all'interno del
nostro ordinamento. Conseguentemente, le stazioni appaltanti
incontreranno un vero e proprio limite non superabile nonché
un obbligo motivazionale specifico in ordine al requisito
richiesto.
Ulteriore elemento di agevolazione per le pmi è
rappresentato dall'auspicio di un ipotetico documento unico
di gara europeo, con il quale potranno essere limitati gli
oneri amministrativi delle procedure di gara e relativi alla
produzione di un considerevole numero di certificati o altri
documenti richiesti dalle stazioni appaltanti,
introducendosi, al loro posto, una mera autodichiarazione
aggiornata.
Inoltre, nelle direttive è prevista, quale ulteriore forma
di favore per le pmi, l'ipotesi di strutturazione di una
centrale di committenza tramite cui far operare un sistema
dinamico di acquisizione articolato in ben determinate
categorie di forniture, lavori e servizi.
Infine viene previsto che i termini per presentare le
offerte possano essere estesi in ragione della complessità
dell'appalto; quanto detto al precipuo scopo di consentire
alle pmi, non sempre dotate di strutture tecniche in grado
di predisporre documentazione di gara ed offerte tecniche,
di avere più tempo a disposizione. Tali previste novità
delle direttive devono aggiungersi a tutte le ulteriori
agevolazioni di recente introdotte e che, ancorché non
puntualmente rivolte alle pmi, ovviamente esplicano i propri
benefici soprattutto per queste. Il riferimento è, in
particolare, alle previsioni di cui all'art. 4 del dl n.
66/2014 in tema di semplificazioni in materia di Durc.
In definitiva, le varie modifiche normative di recente
intervenute sono protese a facilitare soprattutto le pmi e a
favorire le stesse nell'ambito di un quadro ritenuto di
eccessivo rigore e di ostacolo effettivo a un accesso al
mercato.
Elementi che favoriscono soprattutto il contesto italiano
nel quale, ormai, a differenza di quanto avviene nelle
principali nazioni europee e comunque nel solco di una
tradizione interna, le pmi hanno assunto un ruolo
assolutamente predominante.
Ed è proprio in ragione di ciò che ogni facilitazione deve
essere accolta con soddisfazione
(articolo ItaliaOggi del 04.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI:
In arrivo lo sblocco delle gare d'appalto. Nel Dl Pa un
emendamento ridefinirà il calendario degli acquisti
centralizzati. Comuni. Per superare lo stallo il governo è al lavoro su un
intervento normativo che si articola su più passaggi.
Nel cantiere della spending review gli annunci sulle nuove misure continuano a
intrecciarsi con le difficoltà di attuazione incontrate
dalle leggi già approvate. Mentre è diventato praticamente
inevitabile il rinvio a settembre per i nuovi tagli ai fondi
dei Comuni, dopo che il ministero dell'Interno è stato
costretto a chiedere un nuovo round di certificazioni sulle
spese (si veda Il Sole 24 Ore di ieri) per le modifiche dei
criteri di calcolo intervenute nella legge di conversione
del decreto legge 66/2014 (quello del «bonus Irpef»), la
prospettiva del rinvio si allarga ora alla razionalizzazione
dei sistemi di acquisto utilizzati dalle Pubbliche
amministrazioni locali.
Mercoledì è stato annunciato
l'arrivo entro luglio dei provvedimenti attuativi per
tagliare le 32mila stazioni appaltanti accentrandole in 35
soggetti "aggregatori", ma nelle stesse ore si lavora alla
proroga delle centrali uniche provinciali previste fin dal
2011 e finora mai attuate. La ragione è semplice: anche se è
scritta in «Gazzetta Ufficiale» da trenta mesi,
l'aggregazione degli enti per costruire centrali uniche
territoriali non è mai partita, e l'entrata in vigore dal 1°
luglio dell'obbligo per tutti i Comuni non capoluogo di
unirsi a livello provinciale per appalti e acquisti ha di
fatto creato un blocco generalizzato delle gare (si veda
anche Il Sole 24 Ore del 23 giugno).
Per superarlo in fretta, si lavora su una doppia via. La
settimana prossima in Conferenza Unificata dovrebbero
emergere indicazioni per rinviare tutto in chiave
interpretativa al 1° gennaio, ma questo sarebbe solo un
primo passaggio in vista del rinvio vero, con l'unica strada
possibile: un emendamento da inserire nella legge di
conversione del decreto legge sulla Pubblica amministrazione
per spostare al 1° gennaio gli obblighi di aggregazione per
quel che riguarda gli acquisti di beni e servizi, e al 30.06.2015 la stessa regola per gli appalti di lavori.
Questa, almeno, è la struttura a cui stanno lavorando i
tecnici del Governo, preoccupati del blocco generalizzato
prodotto dal divieto per l'Autorità sugli appalti di
riconoscere il codice identificativo della gara (Cig) alle
procedure che dal 1° luglio scorso non passano da centri
aggregatori. Il problema, come spesso capita, nasce dal
fatto che l'obiettivo dell'aggregazione delle procedure
degli acquisti è stato fissato da tempo, ma non ci si è poi
preoccupati di accompagnarne l'attuazione.
Il debutto delle centrali uniche è nel «Salva-Italia» di
fine 2011 (articolo 23, commi 4 e 5 del Dl 201/2011), che
chiedeva a tutti i Comuni con meno di 5mila abitanti di
rivolgersi a una centrale unica provinciale per
«l'acquisizione di lavori, servizi e forniture» di valore
superiore a 40mila euro. La scadenza era stata fissata al 31
marzo 2012 ma sono bastate un paio di settimane per infilare
nel «Milleproroghe» di fine 2011 un rinvio di nove mesi. Si
è arrivati così all'anno scorso quando, nel decreto ambiente
(Dl 43/2013) è stato introdotto in Parlamento un articolo
5-ter per spostare il tutto al 01.01.2014: giusto in
tempo per far scendere in campo il «Milleproroghe» di fine
2013, che ha fatto slittare i termini al 1° luglio scorso.
Nel frattempo il decreto Irpef (articolo 9, comma 4 del Dl
66/2014) ha ritoccato la regola, cancellando la soglia dei
40mila euro e imponendo a tutti gli enti non capoluogo di
acquistare lavori, servizi e forniture tramite Unioni di
Comuni, accordi consortili, ad altri «soggetti aggregatori»
o alla Consip. Dal momento che accordi consortili e soggetti
aggregatori sono ancora da costruire sul territorio, la via
quasi obbligata diventa quella della Consip o delle centrali
regionali dove esistono: una strada, però, spesso
impraticabile, soprattutto per gli appalti di lavori. Per
questo si lavora alla nuova proroga, che però resta una
scelta politicamente delicata per gli incroci con la
spending review
(articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti, il codice cambia pelle.
I residenti saranno interpellati sui progetti in cantiere.
Il viceministro Riccardo Nencini annuncia l'approvazione
entro il mese di luglio.
Il nuovo codice degli appalti presto («entro questo mese»)
sul tavolo del consiglio dei ministri. E nelle pieghe della
riforma c'è il coinvolgimento diretto dei residenti nelle
aree interessate dai lavori, che potranno essere
interpellati sui progetti in cantiere.
È Riccardo Nencini,
viceministro delle infrastrutture ad annunciare ieri, a
margine della relazione annuale di Assopetroli-Assoenergia,
che il governo esaminerà nei prossimi giorni la legge
delega, concluso «il primo giro di incontri con i
parlamentari e le associazioni», dal quale sono uscite una
serie di proposte inserite nel testo.
All'indomani di
vicende giudiziarie allarmanti che hanno gettato ombre su
grandi opere come l'Expo 2015 di Milano e il Mose di
Venezia, l'esecutivo, dunque, stringe i tempi sul restyling
delle procedure per l'assegnazione degli incarichi pubblici.
E lo fa partendo dall'attuazione di due recenti direttive
europee la 24/2014 in materia di appalti e la 23/2014
concernente regole sull'aggiudicazione dei contratti di
concessione; nella premessa di quest'ultima, in particolare,
si evidenzia come finora «l'assenza di una chiara normativa
che disciplini» la materia a livello comunitario «dà luogo a
incertezza giuridica, ostacola la libera fornitura di
servizi e provoca distorsioni nel funzionamento del mercato
interno», perciò gli operatori economici, soprattutto «le
piccole e medie imprese, vengono privati dei loro diritti» e
perdono «importanti opportunità commerciali».
Insieme a favorire l'accesso ai bandi di gara per le realtà
produttive di minori dimensioni, il codice sfoltirà la
giungla burocratica alla base delle procedure, attraverso un
taglio degli oneri documentali a carico dei soggetti che
intendono partecipare ai progetti. A subire, poi, una
riduzione anche il numero delle stazioni appaltanti, mentre
si troveranno modalità adeguate per la centralizzazione
delle committenze; inoltre, gli investimenti dovranno
avvenire nel rispetto dei «criteri di qualità, efficienza,
contenimento tempi», nonché di una «piena verificabilità di
flussi finanziari».
Novità all'orizzonte anche sul versante
delle Soa (Società organismi di attestazione), gli enti
privati che si occupano di verificare la conformità alle
disposizioni comunitarie in materia di qualificazione dei
soggetti esecutori di lavori pubblici, in base a quanto
stabilito dal decreto del presidente della repubblica
34/2000 (e dopo l'abolizione dell'albo nazionale dei
costruttori): nelle intenzioni governative il meccanismo
sarà modificato con attenzione alla trasparenza e alla
omogeneità.
E, infine, i cittadini potranno esprimere la
propria opinione sui cantieri, giacché il codice contemplerà
il «débat public», chance per chi vive nei territori di
essere consultato su quanto si vuol realizzare «in casa
propria»
(articolo ItaliaOggi del 03.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti, norme senza ingessare. Da liberalizzare i
sottosoglia e diversificare la qualificazione.
Il presidente Aniem, Dino Piacentini, propone di istituire
l'albo dei commissari per le gare.
Riformare e semplificare il Codice appalti. Occorre cambiare
radicalmente il sistema di qualificazione e quelli di gara,
valorizzare la progettazione, superare legge Obiettivo e
general contractor, favorire i sistemi di aggregazione tra
pmi, secondo l'Aniem, l'Associazione nazionale delle imprese
edili presieduta da Dino Piacentini.
Nelle scorse settimane il ministero delle infrastrutture ha
preannunciato alle associazioni imprenditoriali e alle
organizzazioni rappresentative delle stazioni appaltanti il
progetto di riforma legislativa che dovrà portare a una
sostanziale riscrittura del Codice appalti.
L'occasione del recepimento delle direttive europee vuole
essere, pertanto, un'occasione per un'evoluzione della
nostra cultura legislativa in materia di appalti improntata
al principio del soft law.
L'obiettivo è quello di superare una legislazione,
frammentaria e stratificata, che pretendeva di regolare
minuziosamente ogni istituto, meccanismo, fase dell'appalto
per passare a un sistema normativo più semplificato e
leggero caratterizzato da regole più di indirizzo e di
principio.
Domanda.
Presidente Piacentini, avete manifestato al ministero delle
infrastrutture le vostre idee in merito al riordino della
normativa sugli appalti pubblici?
Risposta. Il mese scorso si è svolto un incontro presso il
ministero delle infrastrutture in cui erano presenti le
organizzazioni rappresentative del sistema produttivo e
delle stazioni appaltanti e il viceministro Nencini. Durante
quell'incontro ho anticipato alcuni dei temi prioritari sui
quali le nostre aziende chiedono un intervento di decisa
riforma nel corpo legislativo: una profonda revisione del
sistema di qualificazione, una sensibile semplificazione per
gli appalti di importo inferiore ai 500 mila euro lasciati a
un'ampia discrezionalità della stazione appaltante, ma con
il duplice vincolo a non apportare varianti e al rispetto
assoluto dei tempi e contestuale responsabilizzazione
dell'impresa e del rappresentante legale della stazione
appaltante, una valorizzazione dei requisiti strutturali e
degli investimenti in personale e attrezzature tecniche per
gli appalti di importo superiore.
D. Presidente, partiamo proprio dai suoi esempi. Una
profonda revisione del sistema di qualificazione. Che cosa
vuol dire e soprattutto in che modo?
R. Non è nuovo quello che sto per dire, ma ritengo
importante continuare a sottolinearlo: il sistema Soa
(Società organismo di attestazione) ha fallito il suo
obiettivo di rendere la qualificazione imprenditoriale più
efficace. L'esasperata commercializzazione dell'attività di
qualificazione, la parcellizzazione e le frequenti cessioni
azionarie, la «staticità del sistema», le molteplici
compravendite di rami aziendali e, più in generale, la
configurazione privatistica imperniata su società profit che
esercitano una pubblica funzione sono alcuni degli elementi
che hanno alimentato distorsioni invece di contribuire a
eliminarle. E non possiamo più far finta di niente perché da
tutto questo è scaturito un sistema oneroso, scarsamente
trasparente ed eccessivamente burocratizzato.
D. Quindi Piacentini, qual è la proposta di Aniem?
R. La proposta è un sistema di qualificazione in fase di
gara, diversificato in rapporto alla rilevanza economica
dell'appalto anche al fine di favorire la ripresa economica
dell'attività produttiva sui territori.
Occorre semplificare assolutamente le procedure e
alleggerire gli aspetti formalistici e burocratici che
rallentano e ostacolano la partecipazione del sistema
imprenditoriale a quelle procedure concorsuali che devono
coinvolgere prioritariamente le imprese locali.
Mentre la verifica dovrà concentrarsi principalmente sugli
investimenti dell'impresa in attrezzature tecniche,
individuando dai bilanci il costo storico delle attrezzature
e personale stabilmente impiegato per il quale andranno
presentati un organigramma dell'impresa e i curricula dei
soggetti significativi del processo produttivo, soprattutto
per quanto attiene alle figure specialistiche.
D. E in relazione alla progettazione, questa fase, secondo
lei, può incidere sul sistema di aggiudicazione di una gara?
R. Si, assolutamente, anzi deve essere valorizzata e il
livello progettuale posto a base di gara dovrebbe vincolare
necessariamente il sistema di aggiudicazione.
In presenza di un progetto esecutivo l'aggiudicazione non
potrà che essere attraverso il massimo ribasso con la
responsabilizzazione del progettista.
Qualora, viceversa, fossimo in presenza di un progetto
preliminare, il criterio di aggiudicazione sarà quello
dell'offerta economicamente più vantaggiosa, essendo in
questo caso ampiamente giustificabili varianti migliorative
del progetto.
D. Invece, per quanto riguarda le commissioni giudicatrici?
E anche, come adempiere agli obblighi di pubblicità e
informativa?
R. Per favorire la massima trasparenza, obiettività e
professionalità, da parte delle commissioni giudicatrici,
nelle operazioni di valutazione dell'offerta economicamente
più vantaggiosa, basta istituire un albo di commissari, con
comprovati requisiti professionali, aperto e pubblicizzato a
livello europeo. All'interno di tale albo dovranno essere
scelti per sorteggio i commissari diversi dal presidente.
In relazione invece agli obblighi di pubblicità, Aniem vuole
andare al di là di quelli previsti per gli appalti
soprasoglia dalle direttive comunitarie, proponendo che ogni
stazione appaltante pubblichi sul proprio sito l'avviso di
gara e tutta la relativa documentazione. Il progettista
dovrà inoltre convocare una riunione tecnica con tutti i
soggetti potenzialmente interessati alla gara presso
l'amministrazione dove dovranno svolgersi i lavori.
D. Un altro elemento è l'esperienza general contractor, che
valutazione ne dà il suo sistema associativo?
R. Il sistema della legge Obiettivo ha oggettivamente
fallito. La figura del general contractor ha prodotto un
aumento dei costi, ha avvilito ed emarginato le pmi,
relegandole a ruolo di subappaltatori e penalizzandole sia
sotto l'aspetto economico che professionale. Basta quindi
con le leggi speciali, anche se si tratta di grandi opere.
D. Da sempre Aniem è molto attenta ai sistemi di
aggregazione. Anche in questo campo chiedete interventi?
R. Sì, i contratti di rete vanno valorizzati, ne vanno colte
le potenzialità, non possono essere un duplicato di
strumenti già presenti quali le Ati (associazione temporanea
di imprese). Occorre renderle spendibili nella fase
esecutiva dell'appalto come ulteriore strumento aggregativo
soprattutto a beneficio del sistema territoriale.
È necessario, inoltre, consentire ai consorzi stabili,
figura giuridica tipicamente nazionale, di essere utilizzati
anche all'estero. Chiediamo che le nostre istituzioni
adottino iniziative nei confronti degli altri stati per
promuovere accordi bilaterali in tal senso.
D. Per chiudere, una domanda sui criteri di aggiudicazione
nelle gare. L'associazione che lei rappresenta ha delle
proposte più generali?
R. Coerentemente con quanto già dicevo sul ruolo centrale e
fondamentale della progettazione, mi sembra evidente la
necessità di pervenire a una valutazione sostanziale delle
offerte che premi e valorizzi la specificità operativa
dell'impresa; in questo senso l'Aniem condivide la scelta
del legislatore europeo e ritiene che il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa sia quello più
idoneo a realizzare gli obiettivi di un'ottimale selezione
del soggetto che dovrà realizzare l'opera.
In questo contesto, Aniem ha elaborato una sua proposta che
abbiamo sottoposto a diverse stazioni appaltanti.
L'obiettivo è quello di diffondere un sistema che possa
effettivamente valorizzare quegli operatori che hanno
investito in ricerca, attrezzature tecniche, manodopera
specializzata.
In particolare, è stato previsto di assegnare all'elemento
prezzo un coefficiente variabile dal 25 al 35% del punteggio
finale e all'elemento tecnico il restante 75-65%: la scelta
sarà determinata in ragione della maggiore o minore
difficoltà tecnica dell'opera da realizzare, laddove questa
sia elevata tanto più si dovrà privilegiare l'incidenza
degli elementi tecnici.
E, quanto dichiarato in sede di offerta e che ha ottenuto la
premialità sufficiente per consentire l'aggiudicazione dei
lavori, dovrà successivamente essere riportato nel contratto
con obbligo di verifica e controllo in capo alla stazione
appaltante.
Laddove si verificasse inadempimento dell'appaltatore anche
su uno solo degli elementi indicati in sede di offerta e
qualificanti le stesse, deve prevedersi clausola risolutiva
espressa (ex art. 1456 c.c.) del rapporto per fatto e colpa
dell'appaltatore con escussione della fideiussione e
segnalazione alla competente autorità per gli opportuni
provvedimenti sanzionatori.
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Authority vigilanza, soppressione prima riforma.
Il vicepresidente di Aniem, Angelo Santoro, sulla
soppressione dell'Autorità di vigilanza, ha evidenziato la
soddisfazione dell'associazione per aver espresso, in tempi
lontani e in maniera isolata, una posizione che poi ha visto
prendere lo stesso indirizzo anche dal governo Renzi.
Domanda. Santoro, insomma, soddisfazione dell'Aniem per la
pubblicazione a fine giugno del decreto p.a. e
semplificazioni?
Risposta. Assolutamente sì. Già a gennaio scorso Aniem
manifestò la sua posizione sull'Autorità per la vigilanza
sui contratti pubblici di lavori, sottolineando come
l'attuale sistema fosse assolutamente inadeguato e
inefficace sia per la pubblica amministrazione che per gli
operatori economici.
D. Perché?
R. Come nell'esperienza del ripristino dell'anticipazione
del 10% sul prezzo degli appalti, richiesta e ottenuta da
Aniem, anche la soppressione dell'Autorità segna un punto a
favore dell'efficienza, della riduzione dei costi, delle
certezze delle competenze. L'Autorità non ha contribuito a
controllare la funzionalità del sistema di qualificazione,
ha creato una sovrapposizione di ruoli, ha alimentato oneri
a carico delle aziende. Ci auguriamo che ora si continui
sulla strada delle riforme strutturali nel sistema degli
appalti
(articolo ItaliaOggi del 02.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Appalti, semplificati i controlli. Ridotti i termini per i
«nulla osta» - Giro di vite sulle gare minori.
Lavori pubblici. Esaminata ieri dal governo la nuova bozza
del decreto correttivo del codice antimafia.
Niente
controlli sui minori e sui familiari residenti all'estero,
riduzione dei termini di rilascio dei nulla osta
anti-criminalità, giro di vite sulle verifiche previste per
i piccoli appalti, possibilità di far partire subito i
contratti in caso di urgenza (salvo possibilità di revoca
dei contratti in corsa), attribuzione delle competenze su
comunicazioni e informative al prefetto della provincia in
cui ha sede l'impresa, invece che dell'amministrazione
richiedente.
Sono le principali novità contenute nel secondo
decreto correttivo al codice antimafia (il Dlgs 159/2011).
Un mix di misure di semplificazione delle procedure abbinate
a una linea più attenta alla sostanza che al rigore formale.
Lo schema di decreto è stato esaminato ieri in prima battuta
dal Consiglio dei ministri, iniziato con due ore di ritardo
e sostanzialmente monopolizzato dalla riforma della
Giustizia. Alla fine, dunque, non c'è stato tempo per
portare a termine il vaglio del provvedimento, che sarà
varato con tutta probabilità nel prossimo appuntamento di
governo, già la prossima settimana.
La prima novità è che il provvedimento entrato in Consiglio
è stato alleggerito rispetto alle bozze circolate nei giorni
scorsi. In particolare, è stata stralciata dal testo la
norma che introduceva la possibilità di commissariamento
delle imprese colpite da interdittiva antimafia, che
rischiavano per questo di essere tagliate fuori da tutte le
commesse acquisite. Una norma del tutto simile è stata
infatti inserita nel decreto di riforma della Pa (Dl
90/2014), «in modo da assicurare il completamento
dell'esecuzione del contratto» in relazione a servizi
indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, per
salvaguardare l'occupazione o i bilanci pubblici.
La nuova bozza contiene innanzitutto un chiarimento di
natura operativa riguardo i soggetti da sottoporre alle
verifiche antimafia. Il provvedimento conferma che i
controlli vanno estesi ai familiari conviventi, ma chiarisce
che da questa cerchia vanno esclusi i minori e i residenti
all'estero. Un altro intervento riguarda i contratti
d'urgenza che ora spesso rimangono "congelati" in attesa del
nulla osta prefettizio. Di norma, per il rilascio
dell'informativa ai prefetti viene concesso un termine
minimo di 45 giorni, prorogabile di altri 30. Per gli
appalti d'urgenza già ora questo termine si riduce a 15
giorni. Con le nuove misure, le amministrazioni potranno
bypassare anche questo termine e dare corso agli appalti
urgenti subito, salvo risolvere il contratto in caso di
esito negativo delle verifiche.
Ma non solo. I termini per il rilascio della documentazione
antimafia vengono accorciati in via generale. Per la
comunicazione –nullaosta che analizza solo i casi in cui la
connivenza con ambienti criminali sia provata dall'adozione
di misure di prevenzione o di sentenze di condanna– si
passa a 30 giorni, rispetto agli attuali 45, prorogabili di
altri 30 nei casi di particolare complessità. Anche per le
informazioni antimafia –che oltre alle sentenze analizzano
e puniscono i casi di infiltrazioni emersi nel corso di
indagini di polizia– si scende a 30 giorni, fatta salva una
proroga dai altri 45 giorni per scogliere le riserve nei
casi più difficili. Sia nel caso di richiesta di
comunicazione che di informativa antimafia, decorso il primo
termine di 30 giorni, la Pa potrà procedere con il contratto
o con l'attribuzione di contributi pubblici, salvo la revoca
del contratto (con pagamento delle prestazioni già eseguite)
in caso di esito negativo dei controlli finali.
Giro di vite sugli appalti di taglia medio-piccola, vero
terreno di coltura delle infiltrazioni mafiose. L'attuale
sistema prevede che gli interventi compresi tra 150mila e
5,18 milioni di euro possano essere assegnati sulla base
della semplice comunicazione antimafia. Controllata
l'assenza di condanna o di misure di prevenzione sui
rappresentanti dell'impresa, ora scatta il via libera anche
per le aziende che in realtà sono "in odore" di
infiltrazione.
Con le nuove regole, in caso di ombre, anche per gli appalti
compresi tra questi importi il prefetto potrà emanare un
provvedimento interdittivo alla stipula dei contratti,
basato sugli elementi raccolti nel corso delle indagini. Sia
la comunicazione, sia l'informazione interdittiva antimafia
dovranno essere comunicate dal prefetto all'impresa entro
cinque giorni dalla sua adozione. Ultima notazione
sull'entrata in vigore: le nuove misure non si applicheranno
alle richieste di nulla osta già avanzate al momento di
entrata in vigore del provvedimento, che diventerà operativo
30 giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Pa e privati: 800 milioni per l'efficienza energetica. Nuovi
obblighi in arrivo per chi vive in condominio.
Consiglio dei ministri. Adottato un decreto legislativo che
recepisce le regole Ue.
Pubblica
amministrazione, imprese, consumatori: tutti saranno
chiamati a contribuire a migliorare l'efficienza energetica
in base a quanto previsto dal decreto legislativo approvato
ieri dal Consiglio dei ministri. Il provvedimento, che attua
la direttiva europea 2012/27/Ue, prevede uno stanziamento di
800 milioni di euro di cui 355, da qui al 2020, sono
destinati agli uffici pubblici della pubblica
amministrazione centrale.
Quest'ultima dovrà effettuare
interventi di riqualificazione energetica sugli immobili
posseduti od occupati per almeno il 3% della superficie
coperta utile climatizzata, oppure sarà possibile adottare
interventi di risparmio che garantiscano risparmi uguali a
quelli della riqualificazione. Nel caso di realizzazione o
affitto di edifici dovranno essere rispettati requisiti
minimi di efficienza.
Le grandi aziende e le imprese ad alta intensità energetica,
invece, dal 5 dicembre 2015 dovranno effettuare diagnosi
periodiche per individuare gli interventi migliori al fine
di ridurre i consumi. Sarà necessaria un'analisi
costi-benefici a fronte della realizzazione di impianti di
produzione di energia elettrica o termica con potenza
superiore a 20 Mw termici. Per finanziare gli interventi
nella Pa e nelle imprese viene istituito il Fondo nazionale
per l'efficienza energetica, alimentato con circa 70 milioni
di euro all'anno fino al 2020. Per le Pmi sono stati
stanziati anche 105 milioni di euro.
«Si tratta di un pacchetto che, insieme alle altre misure
approvate finora, consente di affrontare le importanti sfide
dirette a migliorare la sicurezza di approvvigionamento e
alla riduzione dei costi energetici» ha commentato il
ministro per lo Sviluppo economico, Federica Guidi,
auspicando che «possano presto diventare tangibili i
benefici a favore dei consumatori, delle imprese e
dell'ambiente».
Rilevanti le novità per i condomini. Diventa obbligatoria,
entro il 31.12.2016, l'installazione di un contatore
di calore per ciascun edificio nel caso in cui il
riscaldamento, il raffreddamento o la fornitura di acqua
calda siano effettuati da una rete di teleriscaldamento o,
nel caso di supercondomini, da una centrale termica che
serve più palazzi.
In ogni caso entro la stessa data è obbligatoria
l'installazione di contatori individuali per ciascuna unità
immobiliare. L'obbligatorietà, in questa seconda ipotesi,
viene meno se non è tecnicamente possibile, oppure se
l'operazione non è efficiente in termini di costi e
proporzionata rispetto ai risparmi energetici potenziali.
Sarà però necessaria apposita relazione tecnica del
progettista o del tecnico abilitato. I casi di esenzione non
lasciano, però, il condominio privo di altri obblighi.
Infatti si dovrà ricorre all'installazione di sistemi di
termoregolazione e contabilizzazione del calore individuali
per misurare il consumo di calore in corrispondenza a
ciascun radiatore posto all'interno delle unità immobiliari
dei condomini. Anche in questo caso è fatta salva l'ipotesi
in cui l'installazione di tali sistemi risulti essere non
efficiente in termini di costi. Se così fosse, dovranno
essere presi in considerazione metodi alternativi per la
misurazione del consumo di calore. Il cliente finale potrà
affidare la gestione del servizio di termoregolazione e
contabilizzazione del calore ad altro operatore diverso
dall'impresa di fornitura.
Il decreto chiarisce anche quale sia il criterio per
ripartire le spese di riscaldamento, raffrescamento e acqua
calda sanitaria se prodotta in modo centralizzato. L'importo
complessivo deve essere suddiviso in relazione agli
effettivi prelievi volontari di energia termica utile e ai
costi generali per la manutenzione dell'impianto, secondo
quanto previsto dalla norma tecnica Uni 10200 e successivi
aggiornamenti. A oggi la norma di riferimento è quella del
2013. È fatta salva la possibilità, per la prima stagione
termica, che la suddivisione si determini in base ai soli
millesimi di proprietà.
La mancata installazione dei dispositivi e la ripartizione
della spesa non conforme a quanto previsto dal legislatore
comportano una sanzione amministrativa da 500 a 2.500 euro.
Si ritiene che restino fermi gli obblighi imposti da
Lombardia e Piemonte per l'adozione dei sistemi di
termoregolazione e contabilizzazione rispettivamente entro
il 1° agosto e il 01.09.2014 (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Permessi per la «104» a parenti di terzo grado.
Famiglie. Se mancano il coniuge o i
genitori.
I tre giorni al mese di permesso
retribuito per assistere familiari con gravi handicap
possono essere chiesti anche per parenti o affini entro il
terzo grado se costoro non hanno coniuge o genitori che
possono assisterli.
Rispondendo con l'interpello 19 del 26 giugno al quesito
posto dalle associazioni Anquap e Cida, il ministero del
Lavoro chiarisce che questa è l'unica condizione e non
rileva che vi siano altri parenti o affini, di grado
inferiore che potrebbero assistere la persona disabile.
Perché il lavoratore possa chiedere i tre giorni di permesso
per assistere un parente o un affine di terzo grado è
sufficiente, quindi, che i genitori o il coniuge della
persona che necessita dell'assistenza si trovino in una
delle seguenti condizioni: abbiano compiuto i sessantacinque
anni di età; siano anche essi affetti da patologie
invalidanti; siano deceduti o mancanti. Per mancanti si
intende non solo l'assenza naturale o giuridica, ma ogni
altra condizione certificata dall'autorità giudiziaria o da
altra pubblica autorità, quale divorzio, separazione legale
o abbandono. Si ricorda, peraltro, che sono parenti di terzo
grado i bisnonni, i pronipoti, gli zii, i nipoti (figli di
sorelle e fratelli), e sono affini di terzo grado i parenti
(dello stesso grado) del coniuge.
Non possono essere riconosciuti permessi a più lavoratori
per assistere la stessa persona: si tratta del cosiddetto
"referente unico" introdotto dall'articolo 24 della legge
183 del 2010, che ha profondamente modificato la materia. Il
referente può essere cambiato, anche temporaneamente, ma è
necessario presentare una specifica istanza. Potrebbe essere
il caso, abbastanza comune, del trasferimento di residenza
presso un altro familiare che assume, quindi, il compito
dell'assistenza e può chiedere i relativi permessi a
condizione, ovviamente, che sussistano i presupposti
soggettivi. In deroga al requisito del referente unico, i
genitori, anche adottivi, di figli con disabilità grave,
possono fruire dei permessi alternativamente, rispettando il
limite dei tre giorni riferiti alla persona disabile. In
questo senso si è pronunciata l'Inps con la circolare
155/2010, riconoscendo il diverso ruolo che i genitori
esercitano sul bambino rispetto agli altri familiari.
Un lavoratore può,peraltro, chiedere permessi per assistere
più familiari con grave handicap, se si tratta del coniuge o
di un parente o affine entro il primo o il secondo grado e
se i genitori o il coniuge della persona con handicap in
situazione di gravità abbiano compiuto i 65 anni di età,
oppure siano anch'essi affetti da patologie invalidanti o
siano deceduti o mancanti.
In alternativa ai permessi, il coniuge, o in mancanza il
padre o la madre anche adottivi, o, mancando anch'essi, uno
dei figli conviventi, o in ultima alternativa, uno dei
fratelli o sorelle conviventi, per assistere la persona può
richiedere il congedo straordinario indennizzato,
disciplinato dall'articolo 42 del Dlgs 151/2001.
Per fruire dei permessi è regola generale che la persona da
assistere non sia ricoverata a tempo pieno in una struttura.
Tuttavia i permessi possono essere richiesti in caso di
necessità del portatore di grave disabilità di recarsi fuori
dalla struttura per effettuare visite o trattamenti
terapeutici, o nel caso in cui sia certificata l'esigenza
del disabile di essere assistito dai genitori o da un
familiare, ipotesi questa che era precedentemente prevista
per i soli minori.
I permessi possono essere chiesti anche da lavoratori che
risiedono in luoghi distanti dalla residenza della persona
da assistere, purché vi siano i presupposti affinché
l'assistenza sia comunque adeguatamente garantita e il
lavoratore produca i titoli di viaggio. Poche la concessione
dei permessi è strettamente collegata alla necessità
dell'assistenza, il diritto agli stessi decade ogni
qualvolta l'esigenza venga meno (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2014). |
APPALTI: SPECIALE
DECRETO - UN COMMISSARIO «SALVA-LAVORI» - In caso di
corruzione «tutor» da collegare alla conclusione dell'opera.
Il Governo ha fatto
con l'articolo 32 del decreto legge 90 una scelta di fondo
su come colpire le imprese coinvolte nelle inchieste per
corruzione o turbativa d'asta (tutte le inchieste, non solo
Expo o Mose): no alla revoca dei contratti di appalto per
riassegnare il lavoro all'azienda seguente in graduatoria,
ipotesi evocata a un certo punto dal presidente
dell'autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone,
con riferimento ai contratti dell'Expo; sì al
commissariamento delle aziende "inquinate" per dare
continuità ai lavori se l'azienda non abbia provveduto
spontaneamente, o in seguito a sollecitazione della stessa Anac o del prefetto, a rimuovere gli amministratori o i
dirigenti coinvolti nelle inchieste.
Una scelta di fondo che sembra dettata da almeno un paio di
considerazioni tecniche: la prima è che, con riferimento
soprattutto al caso dell'Expo 2015, il commissariamento
dovrebbe consentire una più rapida conclusione dei lavori,
garantendone la continuità; la seconda è che la copertura
legislativa non avrebbe comunque messo al riparo l'ipotesi
della revoca dal rischio di lunghi contenziosi e di
richieste di risarcimento danni da parte dell'azienda
colpita.
L'altra osservazione che va immediatamente fatta in merito
all'estrema delicatezza di una norma che irrompe nel diritto
societario con un intervento straordinario di
commissariamento che limita i diritti dei titolari di
impresa, degli azionisti e degli amministratori in assenza
di una condanna definitiva, è che il «limitatamente alla
completa esecuzione del contratto» -riferito proprio
all'ipotesi di commissariamento delle aziende- non sembra
doversi intendere come un limite di intervento solo alla
parte di azienda coinvolta nell'appalto (il "ramo" di
azienda coinvolto, aveva detto il premier Renzi proprio con
l'intento di rassicurare sull'equilibrio di un intervento
così delicato), ma piuttosto come un limite temporale (cioè
finché l'appalto in questione non venga portato a
conclusione).
All'interno dell'azienda, infatti, l'intervento risulta
quanto mai ampio, arrivando (comma 3) alla gestione
temporanea da parte di amministratori nominati dal prefetto
(che avranno «tutti i poteri e le funzioni degli organi di
amministrazione dell'impresa») e alla sospensione dei
«poteri di disposizione e gestione dei titolari di impresa».
Nel caso di società, sono sospesi anche i poteri
dell'assemblea degli azionisti. Si aggiunga che gli
amministratori esterni rispondono delle «eventuali
diseconomie dei risultati solo nei casi di dolo e colpa
grave» (comma 4) e che l'utile di impresa derivante dalla
conclusione dei contratti di appalto «è accantonato in
apposito fondo» (comma 7).
Se questi sono gli effetti indotti dalla procedura
straordinaria, due limiti dovrebbero agire più
realisticamente a monte, cioè nelle condizioni che
consentono il commissariamento: da una parte, infatti, il
perfetto può agire, su proposta del presidente dell'Anac,
dopo aver valutato «la particolare gravità dei fatti» e
nominare i commissari solo «nei casi più gravi»; dall'altra
la sostituzione degli amministratori potrà avvenire solo
dopo che il prefetto stesso avrà intimato all'impresa la
sostituzione degli amministratori inquisiti. Se sul piano
dei diritti resta molto delicata la sostituzione di un
soggetto non ancora condannato, nella realtà accade che la
quasi totalità degli amministratori e dei manager colpiti da
inchieste gravi per corruzioni si autosospenda
immediatamente o venga comunque sospeso dall'impresa stessa.
Questo dovrebbe di fatto limitare molto, nel concreto,
l'applicazione dell'intero articolo 32 che si può applicare
(comma 1) nei casi di indagini per reati previsti dai
seguenti articoli del codice penale: articolo 317
(concussione); articolo 318 (corruzione nell'esercizio della
funzione); articolo 319 (corruzione per atto contrario ai
doveri di ufficio); articolo 319-bis (aggravante in caso di
contratto della Pa); articolo 319-ter (corruzione in atti
giudiziari); articolo 319-quater (induzione indebita a dare
o promettere utilità); articolo 320 (corruzione di persona
incaricata di pubblico servizi); articolo 322 (istigazione
alla corruzione); articolo 322-bis (peculato, concussione,
induzione indebita dare o promettere utilità, corruzione e
istigazione alla corruzione di membri degli organi delle
Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di
Stati esteri); articolo 346-bis (traffico di influenze
illecite); articolo 353 (turbata libertà degli incanti);
articolo 353-bis (turbata libertà del procedimento di scelta
del contraente).
La procedura dell'articolo 32 si applica
anche «nei casi in cui sia stata emessa dal Prefetto
un'informazione antimafia interdittiva» (comma 10).
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1 | I PREMI
Bonus sui progetti ma non ai dirigenti
I dirigenti che rientrino nei processi elaborativi ed
esecutivi dei progetti per le opere pubbliche o sviluppino
atti di pianificazione non possono percepire l'incentivo
fino al 2% del valore dell'opera previsto dal Codice dei
contratti pubblici perché il loro trattamento economico è
«onnicomprensivo».
La nuova regola (si veda anche Il Sole 24 Ore di ieri) non
incide però sulla posizione del personale privo della
qualifica dirigenziale impiegato nell'elaborazione ed in
alcune fasi attuative dei progetti per lavori pubblici, che
continuerà a percepire l'incentivo. Questa situazione resta
immutata anche per i dipendenti dell'ente locale titolari di
posizione organizzativa
Gli enti locali devono pertanto modificare i regolamenti
relativi alla corresponsione dell'incentivo, recependo la
differenza tra i soggetti con qualifica dirigenziale e
quelli privi della stessa.
Nella ridefinizione dei regolamenti, peraltro, le
amministrazioni devono tener conto dei criteri di
interpretazione rigorosa delle disposizioni contenute nei
commi 5 e 6 dell'articolo 92 del Codice dei contratti
pubblici elaborata dalla Corte dei Conti.
Varie sezioni regionali di controllo (tra cui, in
particolare, quella della Lombardia con la recente
deliberazione n. 188/2014/Par del 28.05.2014) hanno
infatti evidenziato come l'incentivo in relazione ai lavori
pubblici debba essere erogati ai soli dipendenti che
espletano gli incarichi tassativamente indicati dalla norma
(responsabile del procedimento, incaricati della redazione
del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti
all'aggiudicazione ed esecuzione «di un'opera
o un lavoro».
Peraltro, queste interpretazioni escludono dal novero delle
attività retribuibili con l'incentivo i lavori di
manutenzione ordinaria e per i lavori in economia.
Per l'incentivo connesso alla pianificazione urbanistica,
invece, la revisione dei regolamenti deve tener conto degli
indirizzi espressi dalla sezione autonomie, con la
deliberazione n. 7/Sezaut/2014/Qmig del 04.04.2014, che
considera determinante non tanto il nomen juris attribuito
all'atto di pianificazione stesso, quanto il suo contenuto
specifico, che deve risultare strettamente connesso alla
realizzazione di un'opera pubblica.
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2 | INFILTRAZIONI CRIMINALI
Patente di legalità con la «white list»
Il contrasto alle
infiltrazioni mafiose negli appalti passa per la definizione
di white list selettive, istituite presso le prefetture;
l'iscrizione attesta automaticamente il rispetto della
normativa antimafia da parte dell'operatore economico che
svolge determinate tipologie di attività.
L'articolo 29 del Dl 90/2014 riformula l'articolo 1, comma
52 della legge 190/2012, stabilendo che per una serie di
attività imprenditoriali, spesso affidate in economia o con
subappalto, la comunicazione e l'informazione antimafia
liberatorie devono essere acquisite dalle stazioni
appaltanti consultando, anche in via telematica, un elenco
di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori
operanti in questi settori e non soggetti a tentativi di
infiltrazione mafiosa. Tra le attività rischiose sono
comprese il trasporto rifiuti, la movimentazione terra e i
noli a caldo e a freddo.
L'elenco è istituito presso ogni prefettura e l'iscrizione
degli operatori che ne fanno richiesta è disposta dalla
prefettura della Provincia in cui il richiedente ha la sede;
la risposta deve avvenire entro 45 giorni dalla richiesta
(termine che si può estendere di altri 30 giorni in casi
particolari). Tuttavia l'amministrazione aggiudicatrice può
procedere decorso il termine o, in casi di urgenza, può
procedere dopo 15 giorni dalla richiesta, fatta salva
l'eventuale risoluzione del contratto se l'accertamento
dimostra l'infiltrazione. La prefettura effettua verifiche
periodiche sulla perdurante insussistenza dei tentativi di
infiltrazione mafiosa sulle imprese iscritte e, nel caso,
cancella l'impresa dall'elenco.
Un elemento di sostanziale novità è determinato dalla
previsione per cui l'iscrizione nell'elenco speciale presso
le prefetture vale come la comunicazione e l'informazione
antimafia liberatoria anche ai fini della stipula,
approvazione o autorizzazione di contratti o subcontratti
relativi ad attività diverse da quelle per le quali essa è
stata disposta.
In sede di prima applicazione (e per un periodo non
superiore ad un anno) le stazioni appaltanti procedono per
le particolari attività (ad esempio il trasporto rifiuti)
all'affidamento di contratti o all'autorizzazione di
subcontratti previo accertamento della avvenuta
presentazione della domanda di iscrizione nell'elenco
speciale. In caso di sopravvenuto diniego dell'iscrizione,
si applicano le disposizioni sulla risoluzione dei contratti
previste dalla normativa antimafia.
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3 | LA STRETTA SUI COSTI
Modifiche alle opere sotto la lente dell'Anac
Un freno alle varianti in
corso d'opera, che andranno comunicate all'Autorità
anticorruzione dalla stazione appaltante entro il termine
massimo di trenta giorni dall'approvazione. Il decreto n.
90/2014 di riforma della Pa attribuisce alla struttura
guidata da Raffaele Cantone questo nuovo potere e punta così
a limitare uno dei fenomeni che, più di ogni altro, è stato
usato negli ultimi anni per allungare i tempi e far
lievitare i costi delle opere pubbliche. Anche se, sulla
reale applicabilità di questo cambiamento, pende una grande
incognita: un appalto di lavori su due è oggetto di
variante. Un controllo approfondito nel merito di tutti pare
impossibile.
Le varianti nascono, nei lavori pubblici, come strumento per
portare aggiustamenti quando intervengono cause impreviste,
come nuove leggi e regolamenti, eventi naturali, possibilità
di usare materiali più avanzati, errori nel progetto
esecutivo. Nel tempo, però, sono diventate tristemente note
come il principale grimaldello usato per caricare sull'opera
costi extra e dilatarne i tempi di realizzazione. Così il
decreto, all'articolo 37, cerca di arginare il fenomeno e
prevede che le varianti, nel quadro della procedura prevista
dall'articolo 132 del Codice appalti, vadano trasmesse all'Anac,
insieme al progetto esecutivo, entro trenta giorni
dall'approvazione da parte della stazione appaltante.
Non tutte le tipologie di variante dovranno passare
attraverso questa verifica. La norma esclude quelle legate
alle «sopravvenute disposizioni legislative e regolamentari»
e quelle derivanti da «errori od omissioni del progetto
esecutivo». Tutte le altre finiranno sotto la lente
dell'Authority: si tratta di un numero mastodontico di
fascicoli, se pensiamo che ogni anno le gare per lavori sono
più o meno 16mila e che circa la metà di queste è
caratterizzata da varianti. Per verificare la presenza di
eventuali problemi servono approfondimenti di merito
piuttosto articolati: l'obiettivo è controllare che i motivi
per i quali è stato chiesto l'adeguamento siano pretestuosi.
I dubbi sull'applicabilità di questa novità, allora,
sembrano piuttosto fondati. Tanto che lo stesso Cantone,
pochi giorni fa, ha dichiarato che all'inizio il decreto
dovrà avere un effetto deterrente. E la relazione
illustrativa parla, con sano realismo, di «impedire o,
quantomeno, rendere marginale il verificarsi di situazioni
di irregolarità e illiceità». Con il passare del tempo
l'idea è di abbattere drasticamente il numero di varianti.
Rendendo più semplici i controlli.
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4 | LA VIGILANZA
Cantone pigliatutto, cancellata l'Avcp
L'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici sparisce, con
effetto immediato. E viene inglobata dall'Autorità
anticorruzione. Dopo tante ipotesi, è questa la soluzione
prescelta dal decreto n. 90/2014 per riedificare dalle
fondamenta le strutture che in Italia tengono sotto
controllo il mercato degli appalti. Ma non si farà tutto
subito. Il provvedimento disegna un percorso piuttosto
lungo, che parte da una fase transitoria (già avviata) e
culmina in un piano di riorganizzazione che il presidente
dell'Anac dovrà presentare entro fino 2014. Sarà compito di
un Dpcm recepirlo. L'Avcp «è soppressa - recita il decreto -
ed i relativi organi decadono», a partire dal 25 giugno
scorso, data di entrata in vigore del provvedimento. Da quel
giorno, in sostanza, l'Autorità è stata decapitata: ha perso
il suo presidente Sergio Santoro e i tre consiglieri in
carica.
I suoi compiti e funzioni sono andati all'Anac.
Nell'immediato la conseguenza più macroscopica riguarda
qualche piccolo risparmio, legato proprio a questi organi
eliminati. Si tratta di circa 1,5 milioni all'anno. Nessun
effetto per i 301 dipendenti di via di Ripetta, che restano
al loro posto senza tagli di stipendio. Una delibera firmata
da Raffaele Cantone (n. 102/2014) ha già stabilito, infatti,
che le due macro-aree di competenza dell'Anac (appalti da un
lato, anticorruzione e trasparenza dall'altro) saranno
provvisoriamente poste in due contenitori diversi, non
comunicanti. Stesso discorso per i bilanci, che saranno
separati: l'Avcp oggi si approvvigiona con la tassa sulle
gare, pagata da imprese e stazioni appaltanti, per introiti
pari a circa 50 milioni all'anno. Una riorganizzazione più
strutturata sarà affidata a una seconda fase: entro il 31.12.2014 Cantone dovrà presentare al presidente del
Consiglio dei ministri un piano, che determinerà l'assetto
definitivo delle risorse umane, strumentali e finanziarie
dell'ex Avcp e la riduzione di almeno il 20% del trattamento
economico accessorio dei dipendenti e di tutte le spese di
funzionamento.
Per chiudere questo percorso, arriverà un Dpcm. È in quella sede che si otterranno i veri risparmi,
quantificabili solo a partire dal 2015. Ma, soprattutto, è
in quella sede che si giocherà davvero la partita della
ristrutturazione dell'ex Avcp, una struttura elefantiaca
dalle competenze variegate, che si sono ampliate
sistematicamente negli ultimi anni: dal monitoraggio del
mercato alla regolazione e vigilanza, passando per
l'attività consultiva e il precontenzioso in materia di
appalti.
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5 | LA SCIA
Segnalazioni e permessi uguali in tutta
Italia
Le semplificazioni
più attese sono quelle in materia di permesso di costruire e
Scia nell'attività edilizia: si materializzano in modelli da
utilizzare su tutto il territorio nazionale, approvati da
una Conferenza unificata. Per le Regioni e gli enti locali i
moduli sono obbligatori, ma potrebbero essere affiancati da
ulteriori richieste finalizzate a una più completa anagrafe
locale delle procedure. I modelli che già circolano sono
molto dettagliati, tali cioè da esigere una sicura presenza
professionale. Si prevede la figura di un «dichiarante» e
figure satelliti («soggetti coinvolti»); questi ultimi si
articolano in titolari, tecnici incaricati (progettisti,
direttori lavori, altri tecnici impiantistici) e imprese
esecutrici. I modelli comprendono dichiarazioni asseverate a
cura dei professionisti, suddivise in 24 tipologie, dai dati
geometrici di superficie e volume alla necessità di
bonifiche ambientali e alla tutela del paesaggio.
Si tratta di elementi che già molti enti locali
richiedevano, e che ora sono unificate in uno specifico
fascicolo. L'aspetto più rilevante è quello che rafforza le
«asseverazioni» cioè le "affermazioni solenni" che
arricchiscono le dichiarazioni di una particolare rilevanza
formale e di uno specifico valore nei confronti dei terzi
per ciò che riguarda l'affidabilità del loro contenuto
(Cassazione penale 27699/2010). L'ordinamento accorda
infatti fiducia alle dichiarazioni del privato e fa
affidamento sulle relazioni tecniche che accompagnano i
progetti: relazioni che si sostituiscono in via ordinaria ai
controlli dell'ente territoriale e offrono garanzie di
legalità e correttezza di intervento. In questo modo si
accresce il principio di «autoresponsabilità», secondo il
quale il privato è gestore assoluto delle attività che
intende iniziare, senza potersi far scudo del controllo
dell'amministrazione. L'intero meccanismo si collega alle
previsioni della legge 241/1990 (articolo 19) che, in
particolare, nega al meccanismo della Scia le qualità di
provvedimento amministrativo implicito.
Ciò è rilevante in
tutti i casi in cui un vicino o un concorrente commerciale
intenda contestare l'attività che si inizia con una Scia:
poiché non si forma un provvedimento tacito, per contestare
l'attività altrui sarà necessario rivolgersi
all'amministrazione preposta al settore (il Comune,
nell'edilizia) sollecitando l'esercizio di verifiche ed
eventualmente impugnando il successivo provvedimento tacito.
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6 | I PROGRAMMI
La semplificazione «chiama» gli enti locali
L'articolo 24 del decreto legge 90/2014 prevede un
calendario di semplificazioni per il triennio 2015-2017,
coinvolgendo Stato, Regioni ed autonomie locali. Sono
previsti accordi e intese coerenti all'articolo 9 del Dlgs
281/1997 ed all'articolo 8 della legge 131/2003 per attuare
il Dl 5/2012: tutti questi riferimenti significano che le
scelte modificatrici sono adottate sulla base di principi di
sussidiarietà e leale collaborazione, tendendo alla
semplificazione (Dl 5/2012) ma con un accenno a poteri
sostitutivi in caso di contrasto.
L'articolo 24, comma 2 prevede moduli unificati e
standardizzati per istanze, dichiarazioni, segnalazioni da
parte di cittadini e imprese che entrino in contatto con
pubbliche amministrazioni. L'unificazione avverrà con
decreto del Ministro competente, settore per settore. Un
comma separato riguarda la modulistica unificata e
standardizzata per edilizia ed attività produttive. Per
giungere a ciò sono previsti accordi e intese, oltre a una
Conferenza unificata che terrà conto delle normative
regionali. Infine, il quarto comma precisa che gli accordi
in Conferenza unificata dovranno assicurare la libera
concorrenza ed esprimeranno «livelli essenziali delle
prestazioni concernenti diritti civili e sociali».
Inoltre,
andrà assicurato il coordinamento informativo e statistico.
Tutto questo meccanismo serve a rendere omogenee, con moduli
prestampati, situazioni varie che oggi cambiano le procedure
nelle varie Regioni. È stata necessaria una sentenza della
Corte costituzionale (164/2012) per consentire allo Stato di
imporre un meccanismo di Scia in materia edilizia, superando
le resistenze di alcune realtà locali. La sentenza attrae la
procedura di Scia nella materia «tutela della concorrenza»,
collocandola tra le prestazioni collegate a diritti civili e
sociali. La semplificazione diventa uno dei principi
fondamentali dell'azione amministrativa e affida allo Stato
l'onere di semplificare, garantendo diritti omogenei.
Senza
questa possibilità, ogni autonomia potrebbe fissare livelli
e individuare meccanismi particolari di semplificazione, che
si rivelerebbero vere e proprie barriere e quindi
risulterebbero in contrasto con l'esigenza di prestazioni
standard ed accessibili. Le semplificazioni avranno un
sicuro effetto acceleratorio, consentendo un trattamento
omogeneo nella lettura dei dati e quindi, ad esempio,
consentendo l'utilizzo dei dati anche per l'imposizione
fiscale a livello nazionale (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2014). |
APPALTI: Le
gare. Niente requisiti? In regola con multa e nuovi
documenti.
Rischia di
innescare un clamoroso effetto-boomerang la misura destinata
a rafforzare il cosiddetto «soccorso istruttorio» nelle gare
per gli appalti pubblici.
Sotto i fari c'è l'articolo 39 del
decreto Pa. L'obiettivo è ridurre i casi di esclusione delle
imprese "colpevoli" di errori formali nella presentazione
dei documenti di gara. Per raggiungere lo scopo l'articolo
introduce l'ennesima modifica all'articolo 38 del codice dei
contratti pubblici (Dlgs 163/2006): quello, per intenderci,
che definisce i requisiti di ordine generale che i
concorrenti a un appalto pubblico devono possedere (mancanza
di condanne, certificazioni, regolarità fiscale e
contributiva ecc.) e i modi per dimostrarli.
D'ora in avanti
non tutte le mancanze documentali potranno essere punite con
il cartellino rosso. Anzi. Con il decreto Pa si stabilisce
che eventuali mancanze, incompletezze o irregolarità nelle
dichiarazioni relative a condanne penali, violazioni fiscali
e contributive o situazioni di controllo rispetto ad altri
partecipanti (previste dall'articolo 38 comma 2 del codice
appalti) non dovranno più essere punite con l'esclusione
dalla gara. Due le ipotesi sul campo: se l'irregolarità è
«essenziale» il concorrente "se la cava" con una multa di
importo compreso tra l'uno per mille e l'uno per cento del
valore della gara: per un importo «comunque non superiore a
50mila euro» e con versamento garantito dalla cauzione
provvisoria. Saldata la multa la documentazione dovrà
comunque essere integrata nel giro di 10 giorni, pena
l'esclusione. Se invece la carenza non è «essenziale» la
stazione appaltante deve semplicemente chiudere un occhio,
senza chiedere regolarizzazioni o applicare alcuna sanzione.
Il punto è che la norma non chiarisce affatto quali siano le
carenze da giudicare o meno come essenziali. Il compito
sembrerebbe affidato alle stazioni appaltanti che, oltre a
individuare le fattispecie da punire con la multa invece che
con l'esclusione, con il bando di gara devono anche
quantificare le sanzioni da applicare alle imprese per le
eventuali irregolarità. Non è un caso allora che appena
entrata in vigore la norma prevista dall'articolo 39 abbia
già causato un mezzo terremoto negli uffici gara delle
principali amministrazioni alla ricerca di una bussola per
dare seguito a una norma che si annuncia di difficile
applicazione.
Altre complicazioni "annunciate" per le stazioni appaltanti
arriveranno proprio oggi con l'entrata in vigore del vincolo
di servirsi della banca dati (Avcpass) messa in piedi dalla
vecchia Autorità di vigilanza per verificare i requisiti
delle imprese. E scatta oggi anche l'obbligo di dotare le
grandi opere del cosiddetto «performance bond», la garanzia
contro il rischio di mancata conclusione dei lavori a carico
di banche e assicurazioni. Per rinviare queste due misure,
arrivate peraltro al traguardo della terza proroga
consecutiva, era stato ipotizzato un intervento d'urgenza
già nel Consiglio dei ministri tenutosi ieri. Ipotesi poi
tramontata: anche se l'idea di una quarta proroga resta
nell'aria (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.07.2014). |
APPALTI: Appalti, antimafia semplificata. Ok al contratto anche prima
di acquisire i documenti.
CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Il terzo decreto correttivo della
legge n. 136 del 2010.
Possibile stipulare il contratto di appalto anche prima che
sia stata acquisita tutta la documentazione antimafia: le
imprese autocertificheranno di essere in ordine. Ridotti da
45 a 30 i giorni entro i quali il prefetto deve rilasciare
l'informazione e la comunicazione antimafia alla stazione
appaltante.
Il prefetto stesso dovrà inviare all'impresa l'esito del
controllo antimafia per email entro cinque giorni in modo
che l'impresa possa fare velocemente ricorso. Le stazioni
appaltanti non potranno più chiedere ai prefetti informative
antimafia che riguardino i minori.
Sono queste le principali
novità che il governo intende apportare con
il terzo decreto
correttivo della legge 136/2010 portato ieri all'attenzione
del Consiglio dei ministri.
Fra le novità contenute nello schema di decreto legislativo
un primo intervento attiene all'ambito soggettivo di
applicazione delle informazioni antimafia sui familiari
residenti, che dovranno essere svolte soltanto nei confronti
dei familiari maggiorenni, stante il fatto che i soggetti
minorenni sono ritenuti in grado di non incidere né
direttamente né indirettamente sulla gestione delle imprese.
Per quel che attiene alle modalità di rilascio delle
comunicazioni antimafia (provvedimento essenziale ai fini
della stipula dei contratti pubblici e al rilascio di
autorizzazioni e finanziamenti di importo inferiore a
150.000 euro), il testo stabilisce che la comunicazione sia
acquisita direttamente dalle amministrazioni richiedenti,
che potranno collegarsi autonomamente alla Banca dati; unica
eccezione è rappresentata dal caso che il sistema
informativo evidenzi cause ostative che, in questa ipotesi,
devono essere accertate nella loro attualità dal prefetto
che adotta il provvedimento finale (comunicazione
liberatoria o interdittiva).
Il testo prevede che a emettere
la comunicazione sia il Prefetto della provincia dove
l'impresa ha la sede legale o secondario con rappresentanza
stabile; soltanto per le società estere, senza
rappresentanza stabile, la competenza si stabilirà in base
alla sede legale delle amministrazioni richiedenti.
Nell'ipotesi di iscrizione nella banca dati di cause
ostative (misure di prevenzione, condanna in appello) nei
confronti dell'impresa, si riduce da 45 a 30 il termine
entro il quale il prefetto è tenuto a verificare l'attualità
dell'iscrizione di tali cause.
Sempre per le comunicazioni
antimafia, nel caso in cui -a causa della loro complessità- non risulti possibile concludere le verifiche entro il
termine dei trenta giorni, si consente alle amministrazioni,
previa autocertificazione dell'impresa attestante l'assenza
di cause ostative, di stipulare il contratto (per esempio di
appalto) o di rilasciare il provvedimento amministrativo
richiesto dal soggetto privato. In questa ipotesi si prevede
una condizione risolutiva espressa che scatta laddove il
prefetto, alla conclusione delle verifiche, si sia espresso
in termini interdittivi.
Novità anche per le modalità di
comunicazione dei provvedimenti: si stabilisce che il
prefetto debba inviare la comunicazione antimafia entro un
termine ragionevolmente breve (cinque giorni) e utilizzando
anche la posta elettronica; così facendo sarà possibile
anche accelerare il contenzioso evitando le impugnative «al
buio», integrate da motivi aggiunti al ricorso presentato
dall'impresa. Viene inoltre portata a 30 giorni anche la
durata per il rilascio della informazione antimafia (anche
in questo caso prorogabile fino a 45 giorni).
Il decreto,
«in casi di urgenza», consente poi alle amministrazioni di
stipulare contratti immediatamente dopo l'attivazione della
procedura di consultazione della banca dati della
documentazione antimafia, senza quindi attendere il decorso
dei 30 giorni, con ciò accelerando notevolmente l'iter. È
anche prevista interconnessione della banca dati con
l'anagrafe della popolazione residente, raffrontandoli con
il Ced Inteforze previsto dalla legge 121/1981, da
realizzare con apposito regolamento. Infine si stabilisce
che in caso di eventi che impediscano il funzionamento della
banca dati si possa procedere in luogo della comunicazione
antimafia, con autocertificazione
(articolo ItaliaOggi dell'01.07.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Certificazione degli edifici L'obbligo si fa in
quattro
L'obbligo di certificazione energetica degli edifici si fa
in quattro: dotazione, allegazione, consegna e informativa.
Gli atti traslativi a titolo oneroso, come una compravendita
o una permuta, sono soggetti a tutti questi obblighi. Vige
il solo obbligo di dotazione, invece, per gli atti
traslativi a titolo gratuito (donazione, patto di famiglia
ecc.). Mentre gli atti non traslativi, quali per esempio il
comodato o il trust autodichiarato, sono esenti, «mancando
in questo caso la sollecitazione del mercato immobiliare».
È quanto ricorda il Consiglio nazionale del notariato con
l'aggiornamento dello
studio
19-20.06.2014 n. 657-2013/C. Il
documento, curato dal notaio Giovanni Rizzi, costituisce una
guida operativa circa la disciplina nazionale della
certificazione energetica, a seguito delle modifiche
apportate dal dl n. 145/2013.
Lo studio analizza le differenze tra l'attestato di
qualificazione energetica e quello di prestazione energetica
(introdotto a far data dal 06.06.2013), destinati a
funzioni diverse e non fungibili tra loro: il primo può
essere predisposto e asseverato da un professionista
abilitato alla progettazione o alla realizzazione
dell'edificio non necessariamente «terzo», mentre a
rilasciare l'Ape deve essere un esperto qualificato e
indipendente. L'elaborato, poi, passa in rassegna i diversi
regimi sanzionatori vigenti per i singoli obblighi.
Ma cosa succede qualora il notaio riscontri in atto delle
anomalie (per esempio un atto di compravendita privo
dell'Ape e/o della dichiarazione di ricevuta informativa)?
In primo luogo il professionista deve informare le parti
degli obblighi previsti dal dlgs n. 192/2005 e delle
relative sanzioni. A fronte della richiesta delle parti
(debitamente informate) di ricevere l'atto pur in violazione
delle prescrizioni, tuttavia, «si ritiene che il Notaio
non possa, comunque, rifiutare il proprio ministero, posto
che l'atto in violazione non è né nullo né comunque invalido
e posto che non sono, neppure, previste sanzioni per il
notaio».
In questi casi il Notariato ritiene però opportuno
l'inserimento in atto di un'apposita clausola che specifichi
tale circostanza, anche per evitare responsabilità sul piano
civile e azioni di rivalsa nei confronti del notaio
(articolo ItaliaOggi dell'01.07.2014). |
APPALTI - ENTI LOCALI:
P.a., crediti e debiti verificabili in tempo
reale.
Da oggi decollano nuove funzionalità sulla piattaforma
telematica della certificazione dei crediti delle pubbliche
amministrazioni. I fornitori, infatti, potranno verificare
online l'iter di lavorazione dei propri crediti e le p.a.
potranno controllare, in tempo reale, lo stato dei propri
debiti, distinti per data di scadenza e per singolo
creditore.
È quanto riferisce la
circolare 25.06.2014 n. 21
della Ragioneria
generale dello stato diffusa ieri, con cui si forniscono
maggiori dettagli sulle funzionalità in materia introdotte
dall'articolo 27 del decreto legge n. 66/2014.
In pratica, i
soggetti interessati potranno monitorare tutti i passaggi
dei crediti o debiti grazie alla piattaforma per la
certificazione dei crediti (Pcc) che renderà trasparente
l'intero ciclo di vita dei debiti commerciali, per i quali
sia stata emessa fattura a decorrere da oggi, sia in formato
elettronico che cartaceo.
Ai creditori, pertanto, viene
offerta la possibilità di immettere sul sistema Pcc, i dati
di dettaglio di ciascuna fattura (o richiesta di pagamento
equivalente) emesse a far data da oggi. Da un lato, rileva
la circolare, questo procedimento consentirà la rilevazione
del formarsi dei debiti commerciali fin dal loro sorgere,
dall'altro fornirà un valido supporto al lavoro delle p.a.
per il necessario pagamento in tempi brevi. Corre l'obbligo
di sottolineare che l'immissione dei dati delle fatture non
costituisce un obbligo per i creditori, però la stessa
costituisce indubbiamente un vantaggio.
Infatti, i creditori
che utilizzeranno la piattaforma Pcc, potranno verificare il
puntuale assolvimento delle successive fasi del processo da
parte delle p.a. debitrici. A maggior ragione, se si pensa
che il sistema rileva automaticamente a segnalare alle p.a.
le fatture in scadenza, mediante la rilevazione del termine
previsto per il pagamento nella fattura stessa, ovvero in
relazione ai termini previsti dalla direttiva n. 2000/35/Ce,
relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali.
Onde evitare il formarsi di debiti, le p.a. saranno tenute
alla comunicazione delle fasi di lavorazione sulle fatture;
a tal fine, la prima scadenza di tale adempimento deve
intendersi il 15 prossimo agosto. Riveste particolare
importanza la comunicazione del pagamento, così da evitare
che il credito possa impropriamente essere utilizzato dal
fornitore ai fini della certificazione del credito, mediante
operazioni di anticipazione, cessione e compensazione
(articolo ItaliaOggi dell'01.07.2014). |
VARI: Bonus mobili senza segreti.
Sì anche ai pagamenti con carta di credito o di debito.
La circolare 11/E offre una serie di chiarimenti a chi vuole
usufruire dello sconto.
Grazie alla proroga dei termini di versamento c'è qualche
giorno in più per verificare tutti i casi del bonus
riconosciuto per l'acquisto di mobili e grandi
elettrodomestici.
La norma, anche perché più volte
modificata, sta creando non pochi dubbi a chi la deve
applicare in sede di Unico 2014 e sul punto una valido
riferimento è giunto dalle indicazioni contenute nella
circolare 21.05.2014 n. 11/E che ha offerto più di una risposta
ai dubbi maggiormente ricorrenti.
Risparmio energetico. Il bonus mobili è riconosciuto
unicamente solo se sono state sostenute spese dal 26.06.2012 per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio
elencati nella circolare 29/E del 2013. Era in dubbio se gli
interventi per il risparmio energetico potessero consentire
di sfruttare il bonus mobili.
La linea dell'Agenzia è stata molto legata al testo
normativo. Ha infatti sostenuto che gli interventi
finalizzati al risparmio energetico, che beneficiano della
maggiore detrazione del 65%, non possono costituire
presupposto per fruire della detrazione per l'acquisto di
mobili e di grandi elettrodomestici e ha sul punto
richiamato la circolare 29/E la quale ha precisato che «i
soggetti che possono avvalersi del beneficio fiscale sono
(_) i contribuenti che (_) fruiscono della detrazione per
interventi di recupero del patrimonio edilizio di cui
all'art. 16-bis con la maggiore aliquota del 50% e con il
maggior limite di 96.000 euro di spese ammissibili».
Unica apertura concessa è per il caso in cui le spese per
risparmio energetico siano riconducibili anche a quelle che
consentono il bonus ristrutturazione.
Quindi gli interventi finalizzati al risparmio energetico,
per consentire di accedere al bonus mobili, devono potersi
configurare quanto meno come interventi di «manutenzione
straordinaria» che ai sensi della circolare 57/E del 1998 è
da intendere come quella che «si riferisce a interventi,
anche di carattere innovativo, di natura edilizia e
impiantistica finalizzati a mantenere in efficienza e
adeguare all'uso corrente l'edificio e le singole unità
immobiliari, senza alterazione della situazione planimetrica
e tipologica preesistente, e con il rispetto della
superficie, della volumetria e della destinazione d'uso. La
categoria di intervento corrisponde quindi al criterio
dell'innovazione nel rispetto dell'immobile esistente».
Box pertinenziale. Similare la questione riguardante
l'acquisto di un box pertinenziale.
Tale acquisto, secondo l'Agenzia, non può essere compreso
tra gli interventi che consentono di usufruire del bonus
mobili-grandi elettrodomestici.
Ciò in quanto la detrazione per l'acquisto di mobili è
strettamente connessa agli interventi di recupero del
patrimonio edilizio che sono effettuati su immobili
residenziali già esistenti e non anche, quindi, agli
interventi edilizi che comportano la realizzazione di nuove
costruzioni.
Pagamenti. Chiarimenti giungono anche con riguardo ai
pagamenti.
Per godere dello sconto i contribuenti devono eseguire i
pagamenti mediante bonifici bancari o postali, con le
medesime modalità già previste per i pagamenti dei lavori di
ristrutturazione.
Ciò comporta l'applicazione della ritenuta del 4%. Inoltre è
ormai chiaro (vedi anche circolare 29/E del 2013) che il
pagamento possa essere effettuato mediante carte di credito
e di debito.
In questa ultima ipotesi è necessario conservare la
documentazione attestante l'effettivo pagamento e le fatture
di acquisto dei beni con la usuale specificazione della
natura, qualità e quantità dei beni e servizi acquisiti.
La circolare 11/E del 2014 ribadisce la necessità di
conservare la documentazione di addebito sul conto corrente
specificando anche che «lo scontrino che riporta il codice
fiscale dell'acquirente, unitamente all'indicazione della
natura, qualità e quantità dei beni acquistati, è
equivalente alla fattura ai fini in esame. Lo scontrino che
non riporta il codice fiscale dell'acquirente si ritiene
possa comunque consentire la fruizione della detrazione se
contenga l'indicazione della natura, qualità e quantità dei
beni acquistati e sia riconducibile al contribuente titolare
del bancomat in base alla corrispondenza con i dati del
pagamento (esercente, importo, data e ora)».
Il bonus vale anche per gli acquisti effettuati all'estero.
In tal caso la circolare ricorda che nel caso in cui il
pagamento delle spese per mobili e grandi elettrodomestici
avvenga mediante bonifico bancario o postale la ritenuta
d'acconto deve essere operata anche sulle somme accreditate
su conti in Italia di soggetti non residenti.
Ma se il destinatario del bonifico è un soggetto non
residente e non dispone di un conto in Italia, il pagamento
dovrà essere eseguito mediante un ordinario bonifico
internazionale (bancario o postale) e dovrà riportare il
codice fiscale del beneficiario della detrazione e la
causale del versamento, mentre il numero di partita Iva o il
codice fiscale del soggetto a favore del quale il bonifico è
effettuato possono essere sostituiti dall'analogo codice
identificativo eventualmente attribuito dal paese estero.
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Intreccio di date per le detrazioni.
La condizione necessaria per poter godere della detrazione
per l'acquisto di mobili e grandi elettrodomestici è quella
di aver fruito dello sconto previsto per le ristrutturazioni
edilizie. Nella sostanza gli interventi di recupero del
patrimonio edilizio costituiscono il presupposto per
l'ulteriore detrazione per l'acquisto di mobili e grandi
elettrodomestici. Sul punto è però da chiarire la
tempistica.
La legge di stabilità 2014, ha infatti prorogato
al 31.12.2014 l'arco temporale entro cui è possibile
sostenere le spese per l'acquisto dei mobili. Nel prevedere
l'estensione temporale non ha però introdotto alcun vincolo
di consequenzialità tra l'esecuzione dei lavori e l'acquisto
dei mobili.
Ciò significa che le spese di ristrutturazione seppure
necessarie per godere del bonus mobili non devono essere
contemporanee agli acquisti agevolati. L'importante è che il
contribuente abbia sostenuto a decorrere dal 26 giugno 2012
spese per gli interventi edilizi. La circolare 29/E 2013 ha
infatti chiarito:
• il sostenimento di spese di ristrutturazione dal 26.06.2012 è il presupposto a cui collegare la possibilità di
avvalersi della detrazione mobili-grandi elettrodomestici;
• le spese per l'acquisto di mobili e di grandi
elettrodomestici possono essere sostenute anche prima di
quelle per la ristrutturazione dell'immobile, a condizione
che siano stati già avviati i lavori di ristrutturazione
dell'immobile cui detti beni sono destinati.
Ciò significa che la data di inizio lavori deve essere
anteriore a quella in cui sono sostenute le spese per
l'acquisto di mobili e di grandi elettrodomestici, ma non è
necessario che le spese di ristrutturazione siano sostenute
prima di quelle per l'arredo dell'abitazione.
Con riguardo all'importo ammesso allo sconto l'ultimo
intervento di prassi ha infine chiarito come il testo
normativo prevede che la detrazione per l'acquisto di mobili
e grandi elettrodomestici «spetta nella misura del 50% delle
spese sostenute dal 06.06.2013 al 31.12.2014 ed è
calcolata su un ammontare complessivo non superiore a 10.000
euro».
Quindi l'ammontare complessivo di 10.000 euro deve essere
calcolato considerando le spese sostenute nel corso
dell'intero arco temporale che va dal 06.06.2013 al 31.12.2014, anche nel caso di successivi e distinti
interventi edilizi che abbiano interessato un'unità
immobiliare (articolo ItaliaOggi
Sette del 30.06.2014). |
APPALTI: Le vie della ripresa/
Fisco, Pa, pos: ora si cambia.
Tra le nuove misure la stretta sugli acquisti dei Comuni non
capoluogo.
Rischio blocco
per gli appalti gestiti dai Comuni. Ad eccezione dei
capoluoghi di Provincia, da domani, gli enti locali non
potranno più acquisire lavori, beni e servizi in modo
autonomo ma dovranno farlo in maniera associata, o
attraverso le unioni di Comuni (dove esistono) o costituendo
un consorzio. In alternativa possono ricorrere a un soggetto
aggregatore, alle Province o agli strumenti elettronici
gestiti dalla Consip.
È una delle novità al debutto tra oggi
e domani, destinate a incidere pesantemente nella vita delle
imprese e dei cittadini.
L'obiettivo della stretta sui Comuni è ridurre le centrali
di committenza, in modo da semplificare le procedure e
rendere meno costosi gli appalti. Ma il risultato immediato
potrebbe essere l'impasse. Anche perché l'articolo 4 del Dl
66/2014 stabilisce che l'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici non rilasci il codice identificativo gara
(Cig) agli enti locali che non rispettano le nuove norme. E
i Comuni interessati sono più di settemila.
In allarme, l'Anci, chiede una proroga. In una lettera
inviata al ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, il
presidente dell'associazione dei Comuni, Piero Fassino,
sottolinea che non sempre è possibile rivolgersi alla Consip:
«Per alcune categorie di servizi e di lavori non esistono
convenzioni Consip a cui i Comuni possano aderire,
trattandosi di servizi e lavori non standardizzabili, come
ad esempio i servizi sociali o la manutenzione delle
strade», scrive Fassino. L'associazione dei Comuni denuncia
inoltre che è venuta meno la deroga per gli acquisti in
economia fino a 40mila euro e per gli interventi urgenti.
Un'altra novità che interessa tutte le pubbliche
amministrazioni, non solo i Comuni, e che sarà operativa da
domani è l'obbligo di tenere il registro unico delle fatture
o delle richieste equivalenti di pagamento per forniture,
appalti e prestazioni professionali, e di annotarne gli
estremi entro dieci giorni dal ricevimento. La misura
rientra tra quelle adottate per accelerare i pagamenti della
Pa a favore di imprese e professionisti.
Sempre sul fronte di una maggiore efficienza della macchina
pubblica, a partire da oggi diventa obbligatorio depositare
in via telematica -anziché cartacea- gli atti e i
documenti nei procedimenti civili in tribunale: il vincolo
riguarda solo le cause in corso. Per quelle già avviate il
passaggio sarà obbligatorio dal prossimo 31 dicembre.
Due misure interessano il Fisco, direttamente o
indirettamente. Da domani l'aliquota di tassazione applicata
agli investimenti sale dal 20 al 26%. L'aumento interessa
dividenti, cedole, capital gain da azioni e obbligazioni,
proventi da fondi comuni, gestioni patrimoniali, polizze
vita, interessi dei conti correnti e postali. L'aumento non
vale per i titoli di Stato italiani e degli Stati non
paradisi fiscali.
Da oggi, invece, esercenti, professionisti, artigiani e
imprese devono accettare, su richiesta del cliente, il
pagamento tramite bancomat. L'obbligo scatta al di sopra dei
30 euro e mira a ridurre l'uso del contante. E quindi, anche
a circoscrivere l'evasione fiscale.
Buone notizie, per chi viaggia nella Ue. Da domani le
tariffe massime per scaricare i dati in roaming scendono di
oltre il 50%, passando da 45 a 20 centesimi. In questo modo
consultare mappe, guardare video, controllare la posta e
aggiornare i contenuti sui social network, sarà meno caro
(si veda anche il servizio a pagina 11, nell'inserto
Risparmio e famiglia) .
Ma anche le chiamate e gli Sms costeranno meno. Per una
chiamata si pagheranno 19 centesimi al minuto, anziché 24,
mentre il costo di un Sms scende da 8 a 6 centesimi. La
diminuzione delle tariffe è prevista da un regolamento Ue
del 2011.
Da domani chi va all'estero ha anche la possibilità di
scegliere l'operatore cui agganciarsi nel periodo in cui è
fuori dal suo Paese. Chi è in viaggio potrà così confrontare
le offerte di roaming e scegliere la tariffa più
conveniente.
Il 1° luglio è anche una data da segnare sul calendario per
i ragazzi tra i 15 e i 29 anni di età: parte ufficialmente
la fase operativa del Programma Garanzia giovani, che punta
ad assicurare ai giovani un'offerta di lavoro,
apprendistato, tirocinio o altra misura di formazione. La
dotazione finanziaria è di 1,5 miliardi per il biennio
2014-2015 (articolo Il Sole 24 Ore del
30.06.2014). |
ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO -
SEGRETARI COMUNALI: SPECIALE DECRETO/
PER LE ASSUNZIONI LIMITI MENO RIGIDI -
Negli enti turn-over più elevato ma salta la deroga per la
Polizia locale.
La riforma
della pubblica amministrazione (Dl 90/ 2014) parte dalla
riscrittura delle norme che regolamentano il turnover.
L'impianto complessivo è confermato ma con molte novità.
Le amministrazioni statali.
Nel 2014 potranno sostituire il
personale cessato l'anno precedente nel limite del 20%,
tetto che aumenta al 40% nel 2015, al 60% nel 2016, all'80%
nel 2017, per arrivare al turnover completo nel 2018. Si
tratta delle stesse percentuali prima disseminate in
numerose norme, ora modificate o abrogate. L'unica novità
sostanziale riguarda le modalità di calcolo del limite, che
oggi fa riferimento solo alla spesa e non più alle teste.
Gli enti di ricerca.
Anche in questo settore percentuali di
copertura del turnover immutate (50% nel 2014-2015, 60% nel
2016, 80% nel 2017 e 100% dal 2018), ma con una nuova
condizione: potranno assumere solo gli enti la cui spesa per
il personale di ruolo non supera l'80% delle entrate
correnti secondo il bilancio consuntivo dell'anno
precedente. In caso contrario scatta il divieto di nuove
assunzioni a tempo indeterminato. Inoltre, nel calcolo delle
spese relative al personale cessato dal 2014 in poi si potrà
considerare anche il maturato economico, in quanto risulta
disapplicato solo agli enti di ricerca l'articolo 35, comma
3, del decreto legislativo 165/2001. Tale modalità di
calcolo potrà essere revocata con decreto in presenza di
incrementi di spesa che possano compromettere gli equilibri
di finanza pubblica.
Amministrazioni dello Stato ed enti di ricerca saranno
costantemente monitorati e le assunzioni dovranno essere
autorizzate con apposito decreto. Dal 2014 il cumulo dei
budget assunzionali sarà consentito al massimo per tre anni.
Le regioni e gli enti locali.
I benefici maggiori sembrano
riservati a regioni ed enti locali soggetti al patto di
stabilità: è, infatti, previsto un significativo
innalzamento della percentuale di copertura del turnover,
che passa dal 40% al 60% già nel 2014. L'incremento è
confermato nel 2015, arriva all'80% nel biennio 2016-2017 e
approda al 100% nel 2018. Inoltre, viene abrogato il
discusso articolo 76, comma 7, del Dl 112/2008, che vietava
le assunzioni agli enti con incidenza della spesa di
personale sulla spesa corrente superiore al 50%,
consolidando anche le aziende speciali, le istituzioni e le
partecipate. Sembra strano, ma anche agli enti da anni
considerati "non virtuosi", ovvero quelli che sforavano il
suddetto limite, sono state sbloccate le assunzioni.
Le novità, però, non sono tutte positive atteso che con
l'abrogazione del comma 7 dell'articolo 76 vengono
cancellate anche le "agevolazioni" previste per determinati
settori. Di fatto la percentuale di turnover per la polizia
locale, l'istruzione pubblica e il sociale era fissata
all'80% della spesa dei cessati, poiché le nuove assunzioni
si consideravano al 50%.
Altra agevolazione abrogata riguarda la possibilità di
sostituire integralmente il personale della polizia locale
qualora le spese di personale siano inferiori al 35% di
quelle correnti. Anche per gli enti locali è prevista la
possibilità di cumulare le risorse destinate alle assunzioni
solo per un triennio.
A questo punto è necessario mettere in fila tutte le norme
per gli enti territoriali:
– le regioni e i comuni soggetti al patto di stabilità
potranno assumere nel 2014-2015 il 60% del personale cessato
nell'anno precedente a condizione che riducano la spesa
storica di personale (articolo 1, comma 557, della legge
296/2006) e che rispettino il patto di stabilità;
– per le amministrazioni locali non soggette al patto di
stabilità continua ad applicarsi il limite rappresentato
dalle cessazioni avvenute nell'anno precedente (turnover al
100%) a condizione che la spesa di personale non superi
quella del 2008 (articolo 1, comma 562 della legge
296/2006);
– nulla cambia per le province, che continuano ad avere il
blocco totale delle assunzioni (articolo 16, comma 9, del Dl
95/2012).
Le cose sembrano andare decisamente meglio per gli enti del
cosiddetto parapubblico (aziende speciali, istituzioni e
società partecipate), rispetto ai quali gli enti
territoriali avranno il compito di "coordinare" le politiche
assunzionali al fine di garantire «una graduale riduzione
della percentuale tra spese di personale e spese correnti».
Di fatto poco più che una norma di principio.
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1 | TRATTENIMENTO IN SERVIZIO
Nessuna «proroga» arrivati alla pensione
«Disposizioni
per il ricambio generazionale nelle pubbliche
amministrazioni»: così recita il titolo dell'articolo 1 del
decreto legge 90. Ci aspetterebbe, dunque, un intervento
robusto, teso a tagliare in modo significativo l'età media
dei dipendenti pubblici. In realtà, il "ricambio" trova la
sua esplicazione nella cancellazione del trattenimento in
servizio e nella possibilità di risolvere unilateralmente il
rapporto di lavoro alla maturazione della pensione
anticipata secondo la riforma Fornero. Considerato che, a
livello assunzionale, non è ancora riconosciuta mano libera
alle amministrazioni, la strada per raggiungere l'obiettivo
appare lunga. Solo per la completa attuazione delle
disposizioni occorre un anno e mezzo.
Nei primi quattro commi della norma si prevede l'abolizione
dell'articolo 16 del decreto legislativo 503/1992 e degli
interventi legislativi conseguenti. Trova, quindi, lo stop
definitivo una disposizione che agli albori rappresentava il
diritto del dipendente a rimanere in servizio, per un
biennio, una volta raggiunti i limiti di età. Da diritto era
stato derubricato a facoltà per l'amministrazione di
appartenenza di trattenere in servizio il lavoratore, per
poi arrivare a considerarlo come nuova assunzione
nell'ambito dei vincoli posti in materia.
Ma la norma opera immediatamente solo per i trattenimenti
già disposti e non ancora efficaci al 25.06.2014 (data
di entrata in vigore del Dl 90), i quali devono essere
revocati. Quelli già in essere continuano a spiegare gli
effetti, ma solo fino al 31 ottobre prossimo. Resta ferma la
scadenza anteriore, se originariamente fissata.
Disposizioni meno rigide sono previste per i magistrati
ordinari, amministrativi, contabili, militari, gli avvocati
dello Stato e dei militari, per i quali i trattenimenti in
servizio in essere hanno efficacia fino al 31 dicembre 2015,
ovvero fino alla loro scadenza originaria, se antecedente.
Con il comma 5 si chiarisce la portata dell'articolo 72 del
Dl 112/2008, in tema di risoluzione unilaterale del rapporto
di lavoro, alla luce delle modifiche apportate dalla riforma
Fornero. Viene precisato che, per procedere in tal senso i
dipendenti devono aver maturato i 40 anni di servizio, se
hanno raggiunto un diritto a pensione entro il 31.12.2011. Dopo tale data, valgono i requisiti previsti dal Dl
201/2011, che, per il 2014, sono fissati in 42 anni e 6 mesi
per gli uomini e 41 anni e 6 mesi per le donne.
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2 | MOBILITÀ
Favoriti i passaggi ma serve il nullaosta
Il decreto
legge 90 rivede anche l'istituto della mobilità obbligatoria
e volontaria, oltre a intervenire sulle mansioni dei
dipendenti della pubblica amministrazione.
Il passaggio dei lavoratori da un ente all'altro è sempre
stato visto dal legislatore con favore, nel tentativo di
cercare l'ottimale redistribuzione delle risorse umane,
prima di intraprendere procedure concorsuali con accesso
dall'esterno. L'articolo 4 della riforma riscrive l'articolo
30 del decreto legislativo 165/2001, rinsaldando la
possibilità, da parte delle amministrazioni, di ricoprire i
posti vacanti attraverso passaggio diretto di dipendenti di
altre amministrazioni, ma viene confermata la necessità
dell'assenso dell'ente di appartenenza. In ogni caso, è
necessario che vengano prefissati preventivamente i criteri
di scelta e che si proceda a pubblicare per almeno trenta
giorni sul sito istituzionale un apposito bando che
identifichi posti, qualifiche, requisiti.
Solamente nel contesto dei trasferimenti tra ministeri,
agenzie ed enti pubblici non economici –ed in via
sperimentale– scompare il via libera dell'amministrazione
di appartenenza, ma solamente a determinate condizioni.
Presso la Funzione pubblica verrà istituto un portale per
favorire l'incontro tra domanda e offerta. Sono, inoltre,
introdotte regole speciali per lo spostamento dell'attività
dei dipendenti appartenenti a medesime unità produttive.
Un altro leitmotiv del legislatore è la gestione del
personale in eccedenza della pubblica amministrazione, tanto
che la rivisitazione dell'articolo 33 del Dlgs 165/2001,
avvenuta negli ultimi anni, ha previsto una verifica annuale
da parte di tutti gli enti. Il personale in soprannumero
viene collocato in disponibilità per un periodo massimo di
due anni e con una retribuzione pari all'80% dello
stipendio. Al fine di aumentare le occasioni di reimpiego,
il Dl 90 introduce la possibilità da parte di tali soggetti
di chiedere, nei sei mesi antecedenti la scadenza del
biennio, la ricollocazione nell'ambito dei posti vacanti in
organico anche in una qualifica, posizione economica o
categoria inferiore.
Viene, altresì, previsto che l'avvio di procedure
concorsuali per assunzioni a tempo indeterminato o
determinato per più di un anno sia subordinato
all'impossibilità di ricollocare il personale in
disponibilità, il quale, peraltro, può essere altresì
assegnato (con sospensione del termine massimo di due anni)
in posizione di comando presso altre amministrazioni
pubbliche che ne fanno richiesta.
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3 | INCENTIVI
I segretari perdono, i progettisti tengono
Abrogazione
dei diritti di rogito dei segretari e dell'incentivazione ai
dirigenti pubblici per la realizzazione di opere pubbliche e
l'adozione di strumenti urbanistici: a queste due misure di
contenimento della spesa e di limitazione dei compensi che
possono essere erogati a soggetti con incarichi di vertice
nelle Pa, si aggiunge il taglio degli incentivi per gli
avvocati dirigenti (si veda l'altro articolo).
L'articolo 10 del Dl 90 abroga la possibilità per i
segretari di percepire compensi per le attività di rogito
che svolgono per conto dei propri enti. Ricordiamo che la
misura di tale compenso era fissata nel 75% dell'incasso e
che i segretari potevano ricevere queste somme fino al tetto
del 30% del proprio stipendio annuale. Tale beneficio si
estendeva anche ai vicesegretari. Sulla base delle nuove
regole tutto il ricavato va agli enti.
L'utilizzazione del segretario per il rogito è molto gradita
da parte delle amministrazioni e dei privati sia per
esigenze di celerità sia per i costi più ridotti. Ci si
chiede se questa attività continuerà a essere svolta e se i
suoi volumi saranno gli stessi: non siamo infatti in
presenza di un "dovere d'ufficio". L'articolo 97, comma 4,
lettera c) del decreto legislativo 267/2000 si limita
infatti a dire che il segretario "può rogare" contratti e
atti.
Il Dl abroga la possibilità per i dirigenti di ricevere i
compensi incentivanti previsti per i tecnici a fronte della
realizzazione di opere pubbliche e/o dell'adozione di
strumenti urbanistici. Da precisare subito che i titolari di
posizione organizzativa, anche laddove svolgano compiti
dirigenziali, non sono interessati dall'abrogazione. Se
l'effetto concreto della nuova disposizione sarà la
diminuzione della progettazione effettuata direttamente
all'interno degli enti, aumenteranno i costi della
progettazione a carico delle Pa: lo svolgimento all'interno
di questa attività è enormemente meno costoso
dell'affidamento a un libero professionista.
Nella concreta applicazione di ambedue queste misure occorre
considerare che non vi sono specifiche previsioni per il
periodo transitorio, come sarebbe necessario. Si deve,
pertanto, chiarire l'effetto sulle attività svolte prima
dell'entrata in vigore del decreto 90 e non ancora
remunerate. L'interpretazione più coerente con il dettato
normativo è che queste attività vadano remunerate per come
previsto dalla legislazione in vigore al momento. Ma non si
deve dimenticare che in passato per numerose Corti dei
conti, proprio con riferimento all'incentivazione per i
tecnici, i compensi andavano determinati sulla base della
disposizione in vigore all'atto del pagamento
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4 | MAGISTRATI E AVVOCATI
Si riducono i compensi di chi difende lo Stato
La riforma
della Pa investe anche magistrati e avvocati dello Stato e
di altri enti pubblici.
Per giudici e avvocati dello Stato, al pari degli altri
dipendenti pubblici, sarà precluso il trattenimento in
servizio oltre il limite d'età, con la differenza che per
queste categorie è previsto un periodo transitorio più
lungo: sono fatti salvi i trattenimenti esistenti fino al 31
dicembre 2015 o alla loro scadenza naturale se anteriore.
Si prevede poi una nuova e stringente disciplina per gli
incarichi direttivi e semidirettivi dei magistrati ordinari.
Per coprire tempestivamente i vuoti d'organico, si "obbliga"
il Csm a conferire le nuove funzioni in tempi celeri in caso
di cessazione per raggiungimento del limite di età, per
superamento degli otto anni complessivi o per altro motivo.
Per gli avvocati dello Stato e degli enti pubblici si agisce
anche sul piano economico, con un taglio degli incentivi per
la difesa in giudizio delle pubblica amministrazione,
abrogando, per le sentenze depositate dopo il 25 giugno
(data di entrata in vigore del Dl 90), le norme del regio
decreto 1611/33, che prevedevano per gli avvocati dello
Stato il compenso anche nei casi di transazione dopo
sentenza favorevole e di giudizio di non soccombenza con
compensazione di spese. L'articolo 9, comma 1, del decreto
legge limita l'incentivo soltanto al caso di vittoria della
Pa con attribuzione delle spese a carico della controparte
soccombente, ma solo nella misura del 10% delle somme
effettivamente recuperate a carico della stessa.
Si ritiene, dunque, che l'incentivo sia liquidabile, nel
limite del 10%, solo nel caso in cui la Pa riesca a
recuperare al proprio bilancio le spese riconosciute a suo
favore. Il restante 90% va alle casse dell'ente. La norma
non si applica agli avvocati degli enti pubblici e
territoriali inquadrati con qualifica non dirigenziale.
Il comma 2 dell'articolo 9, invece, elimina totalmente
l'incentivo professionale allorché vi sia vittoria della Pa
con compensazione integrale delle spese, compresi i casi di
transazione dopo sentenza favorevole.
Con il comma 3, infine, viene specificato che le nuove
misure (incentivo al 10% ed eliminazione del compenso
professionale in caso di vittoria con compensazione) si
applicano soltanto alle sentenze depositate dopo il 25
giugno.
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5 | DIRIGENTI A TEMPO
Incarichi selezionati con bando pubblico
L'articolo 11
della riforma della Pa (Dl 90) riscrive le regole per
l'affidamento di incarichi dirigenziali a tempo determinato
e per gli uffici di diretta collaborazione con gli organi
politici degli enti locali.
L'articolo 110 del decreto legislativo 267/2000 prevede,
infatti, la possibilità di conferire incarichi a tempo
determinato sia in dotazione organica (comma 1), che
extra-dotazione organica (comma 2). Nella versione
originaria del comma 1 mancava ogni riferimento a limiti
quantitativi per tali assunzioni; paletti inseriti
dall'articolo 19, comma 6-quater, del Dlgs 165/2001, norma
che il Dl 90 cancella riscrivendo i vincoli direttamente
nell'articolo 110 del testo unico degli enti locali.
Per i posti di qualifica dirigenziale è il regolamento
sull'ordinamento degli uffici e dei servizi a definire la
quota attribuibile a tempo determinato. Soglia che, però,
non potrà essere superiore al 30% dei posti della dotazione
organica della medesima qualifica, con arrotondamento almeno
a una unità. Tuttavia, il comma 1 del Dlgs 267 non si
riferisce solamente alle qualifiche dirigenziali, ma prevede
la possibilità di ricoprire a tempo determinato anche i
posti di responsabile di servizi o di uffici. In tale
ipotesi, il testo letterale della norma sembra non fissare
alcun paletto ed è forse questo il motivo per cui la
dottrina costante della Corte dei conti ha ritenuto che
questa tipologia di assunzione rientri nel limite per il
lavoro flessibile, ovvero nella riduzione del 50% della
spesa sostenuta nel 2009, come previsto dall'articolo 9,
comma 28, del Dl 78/2010.
La riforma mette, inoltre, nero su bianco l'obbligo di
espletare, ai fini dell'attribuzione di un incarico ai sensi
dell'articolo 110, una selezione pubblica volta ad accertare
il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica
professionalità nelle materie oggetto dell'incarico, oltre a
verificare i requisiti richiesti per la qualifica da
ricoprire.
Modificando il comma 5 dell'articolo 110 viene anche
previsto il collocamento automatico in aspettativa senza
assegni per i dipendenti pubblici a cui sono affidati gli
incarichi a contratto in esame.
Con una frase a dir poco disorganica viene anche integrato
l'articolo 90 del Dlgs 267: i soggetti assunti in staff agli
organi politici non possono svolgere attività gestionale e
si prescinde, ai fini dell'affidamento dell'incarico, dal
possesso del titolo di studio, ancorché si possa parametrare
il trattamento economico a quello dei dirigenti
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6 | CONTROLLI NEI MUNICIPI
Referto ogni 12 mesi con nuove linee guida
Il referto sui
controlli interni -introdotti dal Dl 174/2012- dopo un
anno di applicazione diventa annuale anziché semestrale.
Stranamente lo prevede non il Dl 90 di riforma della Pa, ma
il Dl 91 sullo sviluppo.
La norma in questione è l'articolo 33, che modifica
l'articolo 148 del testo unico degli enti locali (Tuel) con
l'intento di semplificare gli adempimenti degli enti, fermi
restando i controlli della Corte dei conti sull'effettività
e validità degli strumenti di verifica.
Dopo le prime indicazioni per la compilazione dei due
referti relativi al 2013 contenute nella delibera n. 4/SEZAUT/2013/INPR
della Corte dei conti, si attendono –molto probabilmente
per l'autunno– nuove linee guida per il referto dell'intero
esercizio 2014, per il quale si applicano tutti e sei i
controlli interni per i comuni con popolazione superiore ai
50mila abitanti.
Le nuove linee guida, dopo la sperimentazione dei primi due
referti semestrali, potrebbero entrare più nel merito della
metodologia e dell'effettività dei controlli, dato che il
riformato articolo 148 del Tuel precisa che la Corte
verifica il funzionamento dei controlli interni e che gli
enti trasmettano il referto sul sistema dei controlli e
sulle verifiche effettuate nell'anno.
Con le prossime linee guida potrebbe essere anche opportuno
precisare la scadenza del nuovo referto annuale –che
idealmente potrebbe coincidere con il rendiconto della
gestione– nonché la sovrapposizione a tale referto
dell'articolo 198-bis del Tuel relativo al referto sul
controllo di gestione, che –nonostante se ne auspicasse
l'abrogazione– è ancora in vigore anche se ritenuto di
fatto superato dalla riforma del Dl 174/2012 e da molti enti
inosservato.
L'obiettivo del nuovo sistema dei controlli interni è di
garantire agli enti gli strumenti per una efficiente
gestione. Di conseguenza, il referto annuale da trasmettere
ai giudici contabili dovrebbe rappresentare un rendiconto di
quello che l'amministrazione ha effettivamente svolto in
termini di governance.
La permanenza della previsione di sanzioni nel caso di
assenza o inadeguatezza dei controlli interni vuole rendere
effettiva la nuova mentalità di tipo "aziendale" che tali
controlli di fatto richiedono (articolo Il Sole 24 Ore del
30.06.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Vincolo paesaggistico: l'iter si chiude senza conferenza di
servizi.
Va chiarito se la Regione può dare il via libera anche in
caso di silenzio della Soprintendenza.
Permessi. Le modifiche alla procedura dettate dal Dl 83/2014.
Cambia ancora
il procedimento di rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica. Il Dl 83 del 31.05.2014 interviene ancora
sull'iter richiesto per la realizzazione di interventi
edilizi in aree vincolate in base all'articolo 146 Dlgs n.
42/2004.
L'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire e viene
rilasciata dalla Regione o dall'amministrazione da essa
delegata ad esercitare la funzione autorizzatoria in materia
di paesaggio, dopo avere acquisito il parere da parte della
Soprintendenza competente.
Niente conferenza di servizi
Con la recente modifica introdotta dal Dl 83/2014, il
legislatore ha eliminato la previsione del comma 9
dell'articolo 146, secondo la quale –nel caso in cui il
soprintendente non avesse reso il parere entro 45 giorni
dalla ricezione degli atti– l'amministrazione avrebbe
potuto indire una conferenza di servizi, pur dovendo in ogni
caso concludere il procedimento decorsi 60 giorni dalla
ricezione degli atti da parte del soprintendente.
Il procedimento ora prevede direttamente che –decorsi
inutilmente 60 giorni dalla ricezione degli atti da parte
del soprintendente senza che questi abbia reso il proprio
parere– l'amministrazione competente provvede comunque
sulla domanda di autorizzazione. La modifica cancella quindi
la facoltà di indire la conferenza di servizi.
La correzione fa seguito ai numerosi rimaneggiamenti che
negli ultimi tempi hanno interessato la disposizione. In una
prima fase, con Dl 70/2011 (convertito in legge 106/2011)
era stato precisato come l'autorizzazione fosse efficace
immediatamente dopo il suo rilascio. Con lo stesso
intervento era stata snellita la procedura ordinaria,
prevedendo che –in caso di piani urbanistici adeguati alle
prescrizioni di vincolo– il parere della Soprintendenza
fosse obbligatorio, ma non vincolante, e dovesse essere reso
entro 90 giorni, trascorsi i quali si sarebbe formato il
silenzio-assenso.
Con successivo Dl 69/2013, il procedimento per il rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica per gli strumenti
urbanistici adeguati alle prescrizioni di vincoli era stato
nuovamente modificato, riducendo il termine entro cui deve
essere reso il parere del Soprintendente da 90 a 45 giorni e
sostituendo il silenzio-assenso –in caso di infruttuosa
scadenza di questo termine– con la previsione circa
l'adozione del provvedimento finale da parte
dell'amministrazione competente.
Gli effetti del «silenzio»
Il Dl 83/2014, pur semplificando ulteriormente il
procedimento, lascia ancora aperto il dibattito relativo
agli effetti dell'eventuale silenzio della Soprintendenza.
Stando al dettato letterale della norma, il silenzio sembra
svolgere effetto devolutivo, comportando l'assunzione del
pieno potere decisorio sull'istanza di autorizzazione
paesaggistica in capo alla Regione o al soggetto da questa
delegato.
La giurisprudenza meno recente si era espressa in tal senso,
precisando che il parere della Soprintendenza reso con
ritardo è da considerarsi privo dell'efficacia attribuitagli
dalla legge, e cioè privo di valenza obbligatoria e
vincolante. Dopo il termine, il potere della Soprintendenza
di emanare il parere deve quindi ritenersi esaurito
(Consiglio di Stato, sez. VI, 15.03.2013, n. 1561; Tar
Puglia, Lecce, 24.07.2013, n. 1739; Tar Veneto, sez. II,
14.11.2013, n. 1295). Di conseguenza, la Regione o
l'ente da essa delegato dovrebbe definire il procedimento
nel merito senza attendere altro.
Secondo un più recente orientamento giurisprudenziale, per
contro, nel caso di mancato rispetto del termine, il potere
della Soprintendenza continuerebbe a sussistere. Quindi la
conclusione del procedimento cui la Regione è obbligata (ora
senza convocare la conferenza di servizi) dovrebbe essere
nel senso di dichiarare l'improcedibilità dello stesso, alla
luce dell'inerzia della Soprintendenza. Inerzia comunque
risolvibile mediate ricorso al Tar per la dichiarazione di
illegittimità del silenzio-inadempimento e il conseguente
ordine di procedere (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4914
del 30.07.2013; Tar Campania, Sez. I, n. 459/2014 del 24.02.2014).
Questa seconda lettura pare discostarsi dal tenore letterale
della disposizione, ma è bene che la conversione del decreto
–che dovrà avvenire entro il prossimo 31 luglio– prenda
definitiva posizione in merito, precisando se la Regione o
il Comune delegato possano o meno definire nel merito il
procedimento anche in assenza del formale parere dell'organo
statale.
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In sintesi
1 -
PROVVEDE DIRETTAMENTE LA REGIONE
Come superare il silenzio
della Soprintendenza
Cancellazione della facoltà concessa all'amministrazione
procedente di indire una conferenza di servizi nel caso in
cui il soprintendente non abbia reso il prescritto parere
entro 45 giorni dalla ricezione degli atti. Il procedimento
ora prevede direttamente che, decorsi inutilmente 60 giorni
dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente senza
che questi abbia reso il parere, l'amministrazione
competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione
2 -
EFFICACIA ALLINEATA AI TITOLI
Scongiurati i danni
da ritardo del permesso
Il momento iniziale di efficacia dell'autorizzazione
paesaggistica è stato allineato con quello del titolo
abilitativo edilizio. L'articolo 146 del Codice prevede ora
che il termine di efficacia dell'autorizzazione decorre dal
giorno in cui acquista efficacia il titolo edilizio
eventualmente necessario per la realizzazione
dell'intervento, a meno che il ritardo in ordine al rilascio
e alla conseguente efficacia di quest'ultimo non sia dipeso
da circostanze imputabili all'interessato
3 -
ALLEGGERITI I PICCOLI INTERVENTI
Decreto atteso
entro il 1° dicembre
Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del Dl –quindi entro il 1° dicembre prossimo– deve essere approvato
un regolamento che apporterà modifiche e integrazioni al Dpr
09.07.2010, n. 139, volte ad ampliare e precisare le
ipotesi di «interventi di lieve entità» soggette al
procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica e
a introdurre ulteriori semplificazioni procedimentali. Il
termine per l'emanazione del decreto è ordinatorio
4 - ACCESSO AGLI ARCHIVI DI STATO
Termine ridotto
a «oltre 30 anni»
Sono ora liberamente consultabili anche i documenti che gli
organi giudiziari e amministrativi dello Stato abbiano
versato negli archivi di Stato prima del termine ordinario.
Inoltre, tale termine viene ora ridotto a «oltre trent'anni
dall'esaurimento dell'affare» rispetto ai 40 anni
precedentemente previsti previsti dal Codice, in relazione
al pericolo di dispersione o di danneggiamento o in caso di
appositi accordi tra i responsabili degli archivi e le
amministrazioni
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Le altre novità. Revisione attesa entro il 1° dicembre.
Lista dei lavori minori da ampliare.
Non interviene
solo sulla convocazione della conferenza dei servizi, il Dl
83 del 31 maggio scorso. Vediamo allora le altre modifiche,
partendo da quelle in tema di autorizzazione paesaggistica.
Il Governo ha allineato il momento iniziale di efficacia
quinquennale dell'autorizzazione paesaggistica con quello
del titolo abilitativo edilizio per l' esecuzione
dell'intervento. L'articolo 146 del Codice, pertanto,
prevede ora che il termine di efficacia dell'autorizzazione
decorre dal giorno in cui acquista efficacia il titolo
edilizio eventualmente necessario per la realizzazione
dell'intervento, a meno che il ritardo in ordine al rilascio
e alla conseguente efficacia di quest'ultimo non sia dipeso
da circostanze imputabili al l'interessato.
Questa modifica è particolarmente positiva perché evita
l'infruttuoso decorso del termine di efficacia
dell'autorizzazione nelle more del rilascio del titolo
edilizio.
Quale ulteriore provvedimento per la semplificazione della
tutela del paesaggio, il decreto prevede poi l'approvazione,
entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del Dl stesso
–e dunque entro il prossimo 1° dicembre– di un regolamento
che apporterà modifiche e integrazioni al Dpr 09.07.2010,
n. 139 espressamente finalizzate a:
- ampliare e precisare le ipotesi di interventi di lieve
entità soggette al procedimento semplificato di
autorizzazione paesaggistica;
- introdurre ulteriori semplificazioni procedimentali.
L'elenco degli interventi è attualmente contenuto
nell'allegato I al decreto e conta 39 tipologie di
intervento.
Anche se il termine di sei mesi è ordinatorio, il
regolamento rappresenta l'occasione per chiarire alcune
ipotesi di intervento non affatto chiare, come quella
relativa agli «interventi sistematici nelle aree di
pertinenza di edifici esistenti», ed eventualmente per
estendere la procedura semplificata a interventi ad oggi
esclusi: si pensi ad esempio ai lavori per la realizzazione
di autorimesse pertinenziali totalmente interrate con volume
superiore a 50 metri cubi o alla creazione di serre mobili
funzionali allo svolgimento dell'attività agricola.
La procedura semplificata di autorizzazione potrà invece
essere alleggerita modificando le disposizioni che, in caso
di valutazione negativa, prevedono la trasmissione del
preavviso di rigetto in base al l'articolo 10-bis della
legge 241/1990, ma consentono al l'interessato di far
rivalutare l'istanza da parte della Soprintendenza solamente
a seguito del diniego dell'amministrazione competente.
Infine, il Dl è intervenuto in relazione alla consultazione
degli archivi di Stato. È infatti stato rimosso dal Codice
il divieto di accedere ai documenti che gli organi
giudiziari e amministrativi dello Stato, in relazione al
pericolo di dispersione o di danneggiamento o in caso di
appositi accordi con i responsabili degli archivi, abbiano
immesso negli archivi prima del termine ordinario previsto
dal Codice.
Lo stesso termine ordinario dettato per il
deposito dei documenti negli archivi di Stato, in origine
pari a oltre 40 anni dall'esaurimento dell'affare, è
peraltro stato ridotto a (oltre) 30 anni (articolo Il Sole 24 Ore del
30.06.2014 - tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: In
materia di servizi e forniture, nell'assenza di un sistema
accreditato di qualificazione (che, viceversa, per gli
appalti di lavori pubblici è rimesso alle SOA, cui compete
anche l'attestazione del possesso della certificazione di
qualità aziendale), l'art. 43, d.lgs. n. 163 del 2006
stabilisce che le stazioni appaltanti, qualora richiedano la
presentazione di certificazione di qualità aziendale
rilasciata da organismi indipendenti, fanno riferimento ai
sistemi di assicurazione della qualità basati su una serie
di norme europee in materia e certificati di organismi
conformi alle norme europee relative alla certificazione; in
ogni caso, le stazioni appaltanti riconoscono i certificati
equivalenti rilasciati da organismi stabiliti in altri Stati
membri ed ammettono parimenti altre prove relative
all'impiego di misure equivalenti di garanzia della qualità
prodotte dagli operatori economici.
Si tratta di una norma che, nell’ammettere la produzione in
gara di “certificati equivalenti” e di “altre prove relative
all’impiego di misure equivalenti di garanzia”, codifica
principi di carattere generale, essendo finalizzata a
favorire la più ampia partecipazione degli operatori
economici alla gare pubbliche in condizioni di parità e di
non discriminazione, oltre che a garantire la ragionevolezza
e la proporzionalità dei requisiti soggettivi di
partecipazione. Ciò determina la conseguenza che ,pur
essendo il possesso del requisito elemento essenziale, è
illegittima la clausola che ne prevede la certificazione sin
dal momento della presentazione della domanda a pena di
esclusione, esulando tale prescrizione in via escludente
dagli elementi indicati dal citato art. 46 come recentemente
novellato.
La tassatività delle ipotesi di esclusione, infatti, assurge
ormai a principio generale relativo ai contratti pubblici e
costituisce specificazione del principio di proporzionalità.
In altri termini, l’esclusione e la presupposta clausola
della lex specialis di gara (ritualmente impugnata) sono
illegittime, per violazione dell’art. 46, comma 1-bis), del
Codice, giacché la presentazione della certificazione di
qualità, in originale o in copia autentica, costituisce un
adempimento formale non essenziale e non previsto da alcuna
norma di legge o regolamento; avendo la ricorrente peraltro
fornito un principio di prova del possesso anche con
riferimento alla sussistenza dell’accreditamento per il
settore in questione (EA39 servizi pubblici), giusta le
altre due certificazioni prodotte per le categorie 9001:2008
e 14001/2004, la stazione appaltante avrebbe dovuto
consentirle di integrare la documentazione allegata
all’offerta, ai sensi dell’art. 46, primo comma, del Codice.
Tali principi sono da tempo radicati nella giurisprudenza
comunitaria; le pronunce della Corte di Giustizia CE hanno,
infatti, concordemente precisato che la “volontà del
legislatore comunitario è stata quella di prendere in
considerazione soltanto le cause di esclusione riguardanti
unicamente le qualità professionali (onestà, solvibilità)
degli interessati”; e che l’elencazione tassativa con
riferimento alle dette cause di esclusione “osta a che gli
Stati membri o le amministrazioni aggiudicatrici integrino
l’elenco con altre cause fondate su criteri relativi alla
qualità professionale”.
---------------
Il fondamento giustificativo del principio di tassatività
delle cause di esclusione è quello di ridurre gli oneri
formali gravanti sulle imprese partecipanti a procedure di
affidamento, quando questi non siano strettamente necessari
a raggiungere gli obiettivi perseguiti attraverso gli schemi
dell'evidenza pubblica. Tali obiettivi, consistendo nella
selezione del miglior contraente privato, conducono a
privare di rilievo giuridico, attraverso la sanzione della
nullità testuale, tutte le "cause amministrative" di
esclusione dalle gare incentrate non già sulla qualità della
dichiarazione, ma piuttosto sulle forme con cui questa viene
esternata.
Ancora, è pertinente al caso di specie la pronuncia del
Giudice di appello n. 4471/2013, che ha ritenuto
contrastante con il suddetto principio di tassatività la
clausola di lex specialis impositiva dell'obbligo di
produrre in originale o copia autentica la certificazione di
qualità prevista. Richiamando il disposto dell'art. 43 del
d.lgs. n. 163/2006, viene puntualizzata nella citata
pronuncia la necessità di sfrondare i bandi di gara da
formalismi non necessari, ammettendo quindi le imprese
partecipanti a "provare l'esistenza della qualificazione con
mezzi idonei che garantiscano un soddisfacente grado di
certezza, nel limite della ragionevolezza e della
proporzionalità della previsione della legge speciale di
gara, la quale deve garantire la massima partecipazione". E
ciò sull'incontestabile rilievo dell'inesistenza di un
sistema di qualificazione pubblica, tanto in forza del quale
si giustifica la libertà di prova riconosciuta dalla ora
citata disposizione normativa.
In base ai precedenti ora richiamati, si deve quindi
riconoscere alle imprese partecipanti a gare d'appalto di
provare con ogni mezzo ciò che costituisce oggetto della
certificazione richiesta dalla stazione appaltante, pena
altrimenti, in primo luogo, l'introduzione di una causa
amministrativa di esclusione in contrasto con una chiara
disposizione di legge; ed inoltre la previsione di sanzioni
espulsive sproporzionate rispetto alle esigenze delle
amministrazioni aggiudicatrici, le quali devono
esclusivamente poter confidare sull'effettivo possesso dei
requisiti di qualità aziendale o -per venire al caso di
specie- sul rispetto delle norme sulla tutela della salute e
sicurezza dei lavoratori.
Né può in contrario essere invocato l'indirizzo
giurisprudenziale che afferma essere rimasto inalterato,
anche dopo la positivizzazione del principio di tassatività
della cause di esclusione, il potere delle stazioni
appaltanti di imporre alle imprese tutti i documenti e gli
elementi ritenuti necessari o utili per identificare e
selezionare i partecipanti, nel rispetto del principio di
proporzionalità, in virtù di quanto dispongono gli artt. 73
e 74 d.lgs. n. 163/2006. Si tratta in fatti di pronunce che
si riferiscono a tipologie di documenti diverse dalle
certificazioni di qualità, per le quali la norma primaria,
contenuta nel più volte citato art. 43, stabilisce una
equivalenza con altre prove.
In primis la ricorrente deduce che l’esclusione
sarebbe disposta dal bando (art.4 ) e dal capitolato
speciale di appalto (art. 6, co. 3) con clausola violativa
del principio di tassatività delle cause di esclusione e
pertanto da disapplicarsi in quanto affetta da nullità.
Il motivo è fondato alla luce del nuovo disposto dell’art.
46 comma 1–bis d.lgs. 163/2006 che ha introdotto il
principio della tassatività delle clausole di esclusione,
limitando la discrezionalità delle stazioni appaltanti in
tal senso. Non rientrando l’ipotesi in questione tra i casi
tassativi in cui è possibile comminare l’esclusione, la
ricorrente non poteva comunque essere esclusa.
Va premesso che in materia di servizi e forniture,
nell'assenza di un sistema accreditato di qualificazione
(che, viceversa, per gli appalti di lavori pubblici è
rimesso alle SOA, cui compete anche l'attestazione del
possesso della certificazione di qualità aziendale), l'art.
43, d.lgs. n. 163 del 2006 stabilisce che le stazioni
appaltanti, qualora richiedano la presentazione di
certificazione di qualità aziendale rilasciata da organismi
indipendenti, fanno riferimento ai sistemi di assicurazione
della qualità basati su una serie di norme europee in
materia e certificati di organismi conformi alle norme
europee relative alla certificazione; in ogni caso, le
stazioni appaltanti riconoscono i certificati equivalenti
rilasciati da organismi stabiliti in altri Stati membri ed
ammettono parimenti altre prove relative all'impiego di
misure equivalenti di garanzia della qualità prodotte dagli
operatori economici.
Si tratta di una norma che, nell’ammettere la produzione in
gara di “certificati equivalenti” e di “altre prove relative
all’impiego di misure equivalenti di garanzia”, codifica
principi di carattere generale, essendo finalizzata a
favorire la più ampia partecipazione degli operatori
economici alla gare pubbliche in condizioni di parità e di
non discriminazione, oltre che a garantire la ragionevolezza
e la proporzionalità dei requisiti soggettivi di
partecipazione. Ciò determina la conseguenza che ,pur
essendo il possesso del requisito elemento essenziale, è
illegittima la clausola che ne prevede la certificazione sin
dal momento della presentazione della domanda a pena di
esclusione, esulando tale prescrizione in via escludente
dagli elementi indicati dal citato art. 46 come recentemente
novellato.
La tassatività delle ipotesi di esclusione, infatti, assurge
ormai a principio generale relativo ai contratti pubblici e
costituisce specificazione del principio di proporzionalità.
In altri termini, l’esclusione e la presupposta clausola
della lex specialis di gara (ritualmente impugnata) sono
illegittime, per violazione dell’art. 46, comma 1-bis), del
Codice, giacché la presentazione della certificazione di
qualità, in originale o in copia autentica, costituisce un
adempimento formale non essenziale e non previsto da alcuna
norma di legge o regolamento; avendo la ricorrente peraltro
fornito un principio di prova del possesso anche con
riferimento alla sussistenza dell’accreditamento per il
settore in questione (EA39 servizi pubblici), giusta le
altre due certificazioni prodotte per le categorie 9001:2008
e 14001/2004, la stazione appaltante avrebbe dovuto
consentirle di integrare la documentazione allegata
all’offerta, ai sensi dell’art. 46, primo comma, del Codice
(TAR Puglia, Bari, sez. I, 23.02.2012 n. 371).
Tali principi sono da tempo radicati nella giurisprudenza
comunitaria; le pronunce della Corte di Giustizia CE hanno,
infatti, concordemente precisato che la “volontà del
legislatore comunitario è stata quella di prendere in
considerazione soltanto le cause di esclusione riguardanti
unicamente le qualità professionali (onestà, solvibilità)
degli interessati” (Corte giust., 09.02.2006, in cause
riunite C-226/04 e C-228/04; Corte giust., 16.12.2008,
in causa C-213/07 e Corte giust., 19.05.2009, in causa
C-538/07, Corte giust., 19.05.2009, in causa C-538/07,
punto 20); e che l’elencazione tassativa con riferimento
alle dette cause di esclusione “osta a che gli Stati membri
o le amministrazioni aggiudicatrici integrino l’elenco con
altre cause fondate su criteri relativi alla qualità
professionale” Corte giust., 16.12.2008, in causa
C-213/07, Michaniki AE, punto 43.
In ogni caso, il possesso della certificazione del sistema
di qualità era sussistente già al tempo della presentazione
dell’offerta – come dimostra la certificazione rilasciata
dall’ente accreditatore datata 20.05.2014, ma riferita
alla data del 16.9.2013 e prodotta dalla ricorrente sin
dalla immediata richiesta di esercizio del potere di
autotutela, circostanza peraltro non contestata agli atti di
causa .
Non è infatti in dubbio la legittimità di una norma
impositiva del possesso di detta certificazione, bensì se la
mancanza di quest'ultima debba comportare l'esclusione
dell'impresa concorrente.
La contrarietà rispetto al principio ora detto sussiste, ed
emerge in primo luogo dalla circostanza che ciò che rileva
non è la certificazione in sé ma il possesso dei requisiti
idonei ad ottenerla, ed in secondo luogo dal chiaro disposto
dell'art. 43 cod. contratti pubblici, che riconosce in
termini generali alle imprese partecipanti a procedure di
affidamento la possibilità di fornire "altre prove" relative
al rispetto dei standard di qualità equivalenti a quelli
oggetto di certificazioni rilasciate dai competenti
organismi.
Sul punto è il caso di richiamare la recente pronuncia della
VI Sezione del Consiglio di Stato 18.09.2013 n. 4663,
la quale ha chiarito che il fondamento giustificativo del
principio di tassatività delle cause di esclusione è quello
di ridurre gli oneri formali gravanti sulle imprese
partecipanti a procedure di affidamento, quando questi non
siano strettamente necessari a raggiungere gli obiettivi
perseguiti attraverso gli schemi dell'evidenza pubblica.
Tali obiettivi, consistendo nella selezione del miglior
contraente privato, conducono a privare di rilievo
giuridico, attraverso la sanzione della nullità testuale,
tutte le "cause amministrative" di esclusione dalle gare
incentrate non già sulla qualità della dichiarazione, ma
piuttosto sulle forme con cui questa viene esternata.
Ancora, è pertinente al caso di specie la pronuncia del
Giudice di appello del 09.09.2013 n. 4471, che ha
ritenuto contrastante con il suddetto principio di
tassatività la clausola di lex specialis impositiva
dell'obbligo di produrre in originale o copia autentica la
certificazione di qualità prevista. Richiamando il disposto
dell'art. 43 del d.lgs. n. 163/2006, viene puntualizzata
nella citata pronuncia la necessità di sfrondare i bandi di
gara da formalismi non necessari, ammettendo quindi le
imprese partecipanti a "provare l'esistenza della
qualificazione con mezzi idonei che garantiscano un
soddisfacente grado di certezza, nel limite della
ragionevolezza e della proporzionalità della previsione
della legge speciale di gara, la quale deve garantire la
massima partecipazione". E ciò sull'incontestabile rilievo
dell'inesistenza di un sistema di qualificazione pubblica,
tanto in forza del quale si giustifica la libertà di prova
riconosciuta dalla ora citata disposizione normativa.
In base ai precedenti ora richiamati, si deve quindi
riconoscere alle imprese partecipanti a gare d'appalto di
provare con ogni mezzo ciò che costituisce oggetto della
certificazione richiesta dalla stazione appaltante, pena
altrimenti, in primo luogo, l'introduzione di una causa
amministrativa di esclusione in contrasto con una chiara
disposizione di legge; ed inoltre la previsione di sanzioni
espulsive sproporzionate rispetto alle esigenze delle
amministrazioni aggiudicatrici, le quali devono
esclusivamente poter confidare sull'effettivo possesso dei
requisiti di qualità aziendale o -per venire al caso di
specie- sul rispetto delle norme sulla tutela della salute
e sicurezza dei lavoratori.
Né può in contrario essere invocato l'indirizzo
giurisprudenziale che afferma essere rimasto inalterato,
anche dopo la positivizzazione del principio di tassatività
della cause di esclusione, il potere delle stazioni
appaltanti di imporre alle imprese tutti i documenti e gli
elementi ritenuti necessari o utili per identificare e
selezionare i partecipanti, nel rispetto del principio di
proporzionalità, in virtù di quanto dispongono gli artt. 73
e 74 d.lgs. n. 163/2006 (sentenze 18.02.2013 n. 974 e
03.07.2012, n. 3884). Si tratta in fatti di pronunce che
si riferiscono a tipologie di documenti diverse dalle
certificazioni di qualità, per le quali la norma primaria,
contenuta nel più volte citato art. 43, stabilisce una
equivalenza con altre prove.
Va ancora osservato al riguardo che la disposizione del
codice dei contratti pubblici da ultimo menzionata attiene
alle "norme in materia di garanzia della qualità", mentre
nel caso di specie si controverte in ordine al rispetto di
determinati standard di etica e responsabilità aziendale (OHSAS
Occupational Health and Safety Assessment series-18001:2007). Si tratta all'evidenza di requisiti connotati da un grado
di verificabilità empirica certamente inferiore a quelli
previsti dalla norma, per i quali la possibilità di fornire
prove in via alternativa deve essere riconosciuta a
fortiori.
Ne consegue che, in applicazione dell'art. 46, comma 1-bis,
va dichiarata la nullità della comminatoria espulsiva
contenuta nel disciplinare di gara per il caso di omessa
produzione del certificato in questione, rectius per
produzione di un certificato incompleto in quanto carente di
un settore di riferimento- EA 39 (Consiglio di Stato, Sez.
5, 12.11.2013, n. 5375)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 02.07.2014 n. 3621 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Per
potersi applicare la sanzione pecuniaria sanante deve
risultare impossibile la rimozione dei vizi delle procedure
o (una volta accertato che gli stessi non siano rimuovibili)
la riduzione in pristino stato; e tuttavia la
giurisprudenza, pacificamente, ha da sempre circoscritto i
confini dell’applicazione della suddetta norma alle sole
ipotesi in cui il permesso di costruire sia stato annullato
per vizi formali o procedurali, ritenendola inapplicabile
ove invece l’annullamento del medesimo venga pronunciato per
l’acclarata sussistenza di un vizio sostanziale.
Parimenti infondata è la doglianza dedotta con
il secondo motivo di ricorso, e sostanzialmente incentrata
su di una pretesa errata applicazione dell’art. 38 DPR
380/2001, alla stregua del quale “in caso di annullamento
del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in
base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle
procedure amministrative o la riduzione in pristino, il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale
applica una sanzione amministrativa pari al valore venale
delle opere o di loro parti abusivamente eseguite, valutato
dall’agenzia del territorio (…) 2. L’integrale
corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i
medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di
cui all’art. 36” (disposizione, questa, che costituisce la
riproduzione del previgente art. 11 L. 47/1985).
I ricorrenti sostengono, dunque, che il Comune avrebbe
omesso di effettuare un’adeguata istruttoria onde verificare
la sussistenza dei presupposti per applicare l’articolo in
commento, e, conseguentemente, la motivazione dell’atto
sarebbe carente proprio su questo punto.
Orbene, osserva in proposito il Collegio che per potersi
applicare la sanzione pecuniaria sanante deve risultare
impossibile la rimozione dei vizi delle procedure o (una
volta accertato che gli stessi non siano rimuovibili) la
riduzione in pristino stato; e tuttavia la giurisprudenza,
pacificamente, ha da sempre circoscritto i confini
dell’applicazione della suddetta norma alle sole ipotesi in
cui il permesso di costruire sia stato annullato per vizi
formali o procedurali, ritenendola inapplicabile ove invece
l’annullamento del medesimo venga pronunciato per l’acclarata
sussistenza di un vizio sostanziale (Cons. di Stato sez. VI,
11.02.2013, n. 753; Cons. di Stato, Sez. V, 22.05.2006, n.
2960; Cons. di Stato sez. V, 26.05.2003, n. 2849; Cons. di
Stato sez. V, 12.10.2001, n. 5407; TAR Toscana 27.08.2012, n.
1479).
Ebbene, nel caso di specie è ben evidente che l’annullamento
del permesso di costruire n. 7204/2004 del 13.10.2004 è
avvenuto non per mere ragioni procedurali, bensì per
l’accertata sussistenza di illegittimità sostanziali in
riferimento alla vigente normativa urbanistico-edilizia del
Comune di Marcianise, posto che nella sentenza n. 1149/2000
di questo TAR (che tale annullamento ha disposto in sede
giurisdizionale) si legge, tra l’altro:
- che “risulta in primo luogo evidente…l’incremento
volumetrico che il permesso di costruire impugnato ha
determinato in un’area dove la strumentazione urbanistica
vigente (variante al PRG approvata in via definitiva con
decreto del Presidente della Giunta Provinciale di Caserta
n. 1371 del 10.09.1996) non consente alcun aumento di volume
ma solo interveti di sostituzione edilizia a parità di
volumi e interventi di ristrutturazione edilizia”;
- che “il contestato aumento volumetrico non può essere
giustificato dalla affermata realizzazione di volumi
tecnici”, in quanto “i locali chiusi ad uso lavanderia
realizzati dai controinteressati su due livelli
dell’immobile di loro proprietà non hanno le
caratteristiche, per tipologia e dimensioni, per essere
definiti locali tecnici con la conseguenza che già per tale
profilo il provvedimento impugnato risulta sicuramente
illegittimo”;
- che “così come il locale deposito realizzato con
l’innalzamento del tetto non può essere considerato per
dimensioni, caratteristiche e destinazione, chiaramente
desumibili dalla documentazione grafica in atti, come volume
tecnico e quindi non poteva non essere considerato ai fini
del calcolo della volumetria complessiva dell’edificio”;
- che “anche la prevista realizzazione del porticato non
risulta legittima”, poiché la “funzione di protezione degli
accessi all’edificio (o a parte di esso) dagli agenti
atmosferici, ovvero di temporaneo deposito di cose e
stazionamento dei residenti…sembra mancare del tutto nel
porticato previsto nel permesso di costruire impugnato in
quanto chiaramente finalizzato ad essere inglobato nella
struttura dell’immobile oggetto della ristrutturazione, si
deve ritenere che lo stesso non potesse essere assentito
senza considerare il relativo volume ai fini del computo del
volume complessivo del fabbricato”;
- che “anche la censura sulla violazione della normativa
sulle distanze risulta fondata”;
- che deve ritenersi “illegittimo il permesso impugnato
anche nella parte in cui ha consentito la realizzazione di
opere in ampliamento della preesistente struttura che non
possono ritenersi in aderenza al manufatto dei ricorrenti,
con la conseguente violazione della normativa sulle
distanze”;
- che “risulta poi fondata anche la censura sulla violazione
della normativa antisismica”.
Così stando le cose, allora l’ordine di demolizione delle
opere edificate in virtù dell’annullato permesso di
costruire non può che dirsi del tutto corretto e
sufficientemente motivato mediante il richiamo alla sentenza
n. 1149/2006 di questo TAR; tanto più che i
controinteressati hanno anche fornito ampia dimostrazione, a
mezzo di una consulenza tecnica di parte giurata, a firma
dell’ingegnere Michele Spirito, non solo che le opere in
questione possono ben essere demolite senza che la restante
parte dell’edificio degli attuali ricorrenti ne abbia
pregiudizio, ma anche che l’eventuale permanere di esse
potrebbe risultare –in caso di sisma– estremamente
pernicioso per le contigue fabbriche di loro proprietà
(poiché suscettibili di essere sottoposte a sollecitazioni
da “martellamento”).
Né i ricorrenti Di Carluccio hanno contestato in alcun modo
le conclusioni del tecnico di controparte, essendosi
limitati a paventare in modo del tutto generico, e con mere
affermazioni (fatte dapprima in ricorso, e poi ribadite
nella memoria depositata in data 08.03.2014), la possibilità
di un pregiudizio per la loro proprietà, suscettibile di
derivare dall’ordinata demolizione (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 02.07.2014 n. 3617 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: I
provvedimenti di repressione degli abusi edilizi sono atti
dovuti con carattere essenzialmente vincolato e privi di
margini discrezionali, per cui è da escludere la necessità
di una specifica valutazione delle ragioni d'interesse
pubblico concreto ed attuale o di una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, in quanto non è configurabile alcun affidamento
giuridicamente tutelabile alla conservazione di una
situazione di illecito permanente che non può di norma
essere sanata dal mero trascorrere del tempo.
Nella specie, peraltro, giova ribadire che la misura
sanzionatoria è atto dovuto in quanto consequenziale alla
reiezione delle domande di condono.
Pertanto, per l’adozione dell’ordine di demolizione è
sufficiente la mera enunciazione dei presupposti di fatto e
di diritto rilevanti ai fini della individuazione della
fattispecie di illecito e dell’applicazione della
corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge.
---------------
In base all’art. 31, co. 3, del d.P.R. 380 del 2001,
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli
immobili abusivi e della relativa area di sedime è un
effetto automatico della mancata ottemperanza all'ordine di
demolizione. Pertanto la specificazione dell’area di sedime
non può essere considerata come elemento essenziale
dell’ordine di demolizione ai fini della legittimità
dell’atto.
L’indicazione di cui alla fine del comma 2 dell’articolo
citato è piuttosto richiesta in vista dell’acquisizione, in
ampliamento all’area strettamente di sedime del manufatto
abusivo, dell’ulteriore (eventuale) area "necessaria … alla
realizzazione di opere analoghe...", secondo le prescrizioni
della restante parte del comma 3.
Il termine per la conclusione del procedimento relativo
all’emanazione del provvedimento repressivo non è a
carattere perentorio e non determina quindi la decadenza dal
potere-dovere dell’autorità amministrativa di provvedere in
merito.
I provvedimenti di repressione degli abusi
edilizi sono atti dovuti con carattere essenzialmente
vincolato e privi di margini discrezionali, per cui è da
escludere la necessità di una specifica valutazione delle
ragioni d'interesse pubblico concreto ed attuale o di una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, in quanto non è configurabile alcun
affidamento giuridicamente tutelabile alla conservazione di
una situazione di illecito permanente che non può di norma
essere sanata dal mero trascorrere del tempo (cfr. Cons.
St., sez. IV, 29/04/2014, n. 2228).
Nella specie, peraltro, giova ribadire che la misura
sanzionatoria è atto dovuto in quanto consequenziale alla
reiezione delle domande di condono (cfr. Cons. St., sez. IV,
10/12/2007, n. 6344).
Pertanto, per l’adozione dell’ordine di demolizione è
sufficiente la mera enunciazione dei presupposti di fatto e
di diritto rilevanti ai fini della individuazione della
fattispecie di illecito e dell’applicazione della
corrispondente misura sanzionatoria prevista dalla legge.
---------------
In base all’art. 31, co.
3, del d.P.R. 380 del 2001, l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa
area di sedime è un effetto automatico della mancata
ottemperanza all'ordine di demolizione. Pertanto la
specificazione dell’area di sedime non può essere
considerata come elemento essenziale dell’ordine di
demolizione ai fini della legittimità dell’atto (cfr. Cons.
St., sez. VI, 13/02/2013, n. 894).
L’indicazione di cui alla fine del comma 2 dell’articolo
citato è piuttosto richiesta in vista dell’acquisizione, in
ampliamento all’area strettamente di sedime del manufatto
abusivo, dell’ulteriore (eventuale) area "necessaria … alla
realizzazione di opere analoghe...", secondo le prescrizioni
della restante parte del comma 3.
Il termine per la conclusione del procedimento relativo
all’emanazione del provvedimento repressivo non è a
carattere perentorio e non determina quindi la decadenza dal
potere-dovere dell’autorità amministrativa di provvedere in
merito (cfr. Cons. St., sez. V, 15/11/2012, n. 5773)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 02.07.2014 n. 3614
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'adozione
del provvedimento di annullamento d'ufficio presuppone,
unitamente al riscontro dell'originaria illegittimità
dell'atto, la valutazione della rispondenza della sua
rimozione a un interesse pubblico non solo attuale e
concreto, ma anche prevalente rispetto ad altri interessi
militanti in favore della sua conservazione, e, tra questi,
in particolare, rispetto all'interesse del privato che ha
riposto affidamento nella legittimità e stabilità dell'atto
medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia
consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco
temporale.
Di qui la necessità che l'amministrazione espliciti in sede
motivazionale la compiuta valutazione comparativa tra
interessi confliggenti; impegno motivazionale tanto più
intenso, quanto maggiore sia l'arco temporale trascorso
dall'adozione dell'atto da annullare e solido appaia,
pertanto, l'affidamento ingenerato nel privato.
Ed infatti, costituisce ormai “ius receptum” che "il
provvedimento di annullamento di ufficio di una concessione
edilizia, quale atto discrezionale, deve essere
adeguatamente motivato in ordine all'esistenza
dell'interesse pubblico, specifico e concreto, che
giustifica il ricorso all'autotutela anche in ordine alla
prevalenza del predetto interesse pubblico su quello
antagonista del privato".
--------------
Anche nell'ipotesi di annullamento di una concessione
edilizia va quindi riconosciuta piena operatività ai
principi generali che condizionano il legittimo esercizio
del potere di autotutela. Potere che è espressione della
discrezionalità dell'amministrazione e che, nell'adozione di
un provvedimento espresso, postula la valutazione di
elementi ulteriori rispetto al mero ripristino della
legalità violata. In omaggio all'orientamento tradizionale
che trova il suo fondamento nei valori di rango
costituzionale di buon andamento e dell'imparzialità
dell'azione amministrativa, è, infatti, doveroso rimettere
la verifica di legittimità dell'atto di autotutela ad un
apprezzamento concreto, condotto sulla base dell'effettiva e
specifica situazione creatasi a seguito del rilascio
dell'atto autorizzativo.
Siffatto approdo giurisprudenziale rinviene un espresso
aggancio normativo nell'art. 21-nonies, comma 1, della l. n.
241/1990, in base al quale "il provvedimento amministrativo
illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse
pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli
interessi dei destinatari e dei controinteressati,
dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo
previsto dalla legge".
Nell’interpretazione della predetta normativa la
giurisprudenza ha sistematicamente rimarcato, quanto al
metro di valutazione del tempo, che il termine entro cui
l’amministrazione può intervenire per rimuovere
legittimamente una situazione di illegittimità originaria o
derivata deve essere valutato secondo un criterio di
“ragionevolezza”, nel senso che la valutazione tipicamente
discrezionale dell'atto di autotutela deve essere
espressione di una congrua valutazione comparativa degli
interessi in conflitto, da effettuare entro un lasso di
tempo ragionevole e da riportare nel corredo motivazionale.
Per quanto concerne l’annullamento delle concessioni
edilizie la ragionevolezza del termine in argomento deve
essere altresì rapportata a quanto prescritto dall'articolo
39 del d.p.r. n. 380/2001 che, nel disciplinare il potere
regionale di annullamento dei provvedimenti comunali che
autorizzano interventi edilizi, fissa in dieci anni dalla
loro adozione il termine massimo entro cui la potestà può
essere esercitata.
----------------
A fronte del considerevole lasso di tempo decorso dal
rilascio dei titoli abilitativi edilizi annullati d'ufficio
(oltre 10 anni), il canone di ragionevolezza del termine
massimo per l'esercizio del potere di autotutela (cfr. art.
21-nonies, comma 1, della l. n. 241/1990) deve suggerire una
scelta più attenta e rispettosa verso la consolidata
posizione di affidamento ingenerato nel privato ricorrente
circa la legittimità dell’atto di concessione rilasciatogli.
... per l'annullamento dell’ordinanza UTC del 29.12.2008
recante annullamento della concessione edilizia n. 8 del
16.01.1989 per la realizzazione di un edificio costituito da
un piano terra ed un primo piano
...
Il ricorso è fondato e merita accoglimento nella parte in
cui censura la motivazione dell’annullamento in quanto priva
di qualsivoglia valutazione comparativa fra l’interesse
pubblico alla rimozione della concessione edilizia
rivelatasi illegittima e l’interesse del destinatario
dell’atto al mantenimento in vita del titolo, specie tenuto
conto del lungo tempo decorso a far data dal suo rilascio
superiore a diciotto anni.
Nella materia de qua questo
Collegio ha già avuto modo di rilevare (cfr. sent. Sez. VIII
4976/2013 in precedente analogo contro il medesimo Comune
intimato) che l'adozione del provvedimento di annullamento
d'ufficio presuppone, unitamente al riscontro
dell'originaria illegittimità dell'atto, la valutazione
della rispondenza della sua rimozione a un interesse
pubblico non solo attuale e concreto, ma anche prevalente
rispetto ad altri interessi militanti in favore della sua
conservazione, e, tra questi, in particolare, rispetto
all'interesse del privato che ha riposto affidamento nella
legittimità e stabilità dell'atto medesimo, tanto più quando
un simile affidamento si sia consolidato per effetto del
decorso di un rilevante arco temporale.
Di qui la necessità
che l'amministrazione espliciti in sede motivazionale la
compiuta valutazione comparativa tra interessi confliggenti;
impegno motivazionale tanto più intenso, quanto maggiore sia
l'arco temporale trascorso dall'adozione dell'atto da
annullare e solido appaia, pertanto, l'affidamento
ingenerato nel privato. Ed infatti, costituisce ormai “ius receptum” che "il provvedimento di annullamento di ufficio
di una concessione edilizia, quale atto discrezionale, deve
essere adeguatamente motivato in ordine all'esistenza
dell'interesse pubblico, specifico e concreto, che
giustifica il ricorso all'autotutela anche in ordine alla
prevalenza del predetto interesse pubblico su quello
antagonista del privato" (Cons. Stato, sez. V, 12.11.2003, n. 7218; sez. IV, 31.10.2006, n. 6465; TAR
Campania, Napoli, sez. VII, 22.06.2007, n. 6238; sez. III, 11.09.2007, n. 7483; sez. VIII, 30.07.2008,
n. 9586; 01.10.2008, n. 12321; 07.12.2009, n.
8597; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 19.01.2007, n.
170; sez. II, 08.06.2007, n. 1652; TAR Liguria, sez. I,
11.12.2007, n. 2050; TAR Basilicata, sez. I, 19.01.2008, n. 15).
Anche nell'ipotesi di annullamento di
una concessione edilizia va quindi riconosciuta piena
operatività ai principi generali che condizionano il
legittimo esercizio del potere di autotutela. Potere che è
espressione della discrezionalità dell'amministrazione e
che, nell'adozione di un provvedimento espresso, postula la
valutazione di elementi ulteriori rispetto al mero
ripristino della legalità violata. In omaggio
all'orientamento tradizionale che trova il suo fondamento
nei valori di rango costituzionale di buon andamento e
dell'imparzialità dell'azione amministrativa, è, infatti,
doveroso rimettere la verifica di legittimità dell'atto di
autotutela ad un apprezzamento concreto, condotto sulla base
dell'effettiva e specifica situazione creatasi a seguito del
rilascio dell'atto autorizzativo.
Siffatto approdo
giurisprudenziale rinviene un espresso aggancio normativo
nell'art. 21-nonies, comma 1, della l. n. 241/1990, in base
al quale "il provvedimento amministrativo illegittimo ai
sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato
d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico,
entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi
dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo
ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge".
Nell’interpretazione della predetta normativa la
giurisprudenza ha sistematicamente rimarcato, quanto al
metro di valutazione del tempo, che il termine entro cui
l’amministrazione può intervenire per rimuovere
legittimamente una situazione di illegittimità originaria o
derivata deve essere valutato secondo un criterio di
“ragionevolezza”, nel senso che la valutazione tipicamente
discrezionale dell'atto di autotutela deve essere
espressione di una congrua valutazione comparativa degli
interessi in conflitto, da effettuare entro un lasso di
tempo ragionevole e da riportare nel corredo motivazionale.
Per quanto concerne l’annullamento delle concessioni
edilizie la ragionevolezza del termine in argomento deve
essere altresì rapportata a quanto prescritto dall'articolo
39 del d.p.r. n. 380/2001 che, nel disciplinare il potere
regionale di annullamento dei provvedimenti comunali che
autorizzano interventi edilizi, fissa in dieci anni dalla
loro adozione il termine massimo entro cui la potestà può
essere esercitata (cfr. Cons. St sez. IV 03.08.2010 n. 5170).
Applicando tali principi al caso in esame, il Collegio
rileva che un provvedimento in autotutela adottato ad oltre
10 anni dall'emissione della concessione edilizia con esso
annullata sarebbe stato giustificabile solo se adeguatamente
motivato in ordine all'interesse pubblico specifico,
concreto e attuale, al divisato annullamento d'ufficio, agli
eventuali contrasti dei titoli abilitativi in parola con gli
interessi urbanistici della zona, nonché in rapporto
all'affidamento nella conservazione del medesimo titolo
abilitativo, consolidatosi nell'arco temporale trascorso tra
il suo rilascio e la relativa rimozione.
Nella specie, nessuna ponderazione tra interesse pubblico e
privato risulta, in sostanza, effettuata ed esplicitata
dall'amministrazione resistente, la quale si è limitata a
rilevare la violazione della fascia di rispetto autostradale
sancita in 25 metri all’epoca del rilascio della concessione
edilizia ai sensi dell’art. 8 della legge n. 729/1961.
Viceversa, a fronte del considerevole lasso di tempo decorso
dal rilascio dei titoli abilitativi edilizi annullati
d'ufficio (oltre 10 anni), il canone di ragionevolezza del
termine massimo per l'esercizio del potere di autotutela
(cfr. art. 21-nonies, comma 1, della l. n. 241/1990) avrebbe
dovuto suggerire -come detto- una scelta più attenta e
rispettosa verso la consolidata posizione di affidamento
ingenerato nel privato ricorrente circa la legittimità
dell’atto di concessione rilasciatogli (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 02.10.2007, n. 5074).
Una siffatta comparazione non risulta ricavabile
“aliunde” nemmeno sulla base della riscontrata analogia con
l’immobile costituente oggetto della decisione del Consiglio
di Stato sez. IV n. 4719/1008 posta a base dell’annullamento
impugnato che ha qualificato il vincolo come di natura
assoluta.
A ben vedere nel giudizio svoltosi innanzi al Consiglio di
Stato si discuteva della legittimità di un diniego di
condono opposto dal Comune intimato rispetto ad un immobile
edificato in assenza di concessione edilizia nella stessa
fascia di rispetto autostradale. Rispetto al provvedimento
di diniego di condono non poteva pertanto porsi alcuna
problematica di affidamento da parte del destinatario
dell’atto sulla legittimità della costruzione eseguita che,
nella specie, invece, è radicata dall’intervenuta emissione
del titolo da parte del Comune e dal lungo lasso di tempo
decorso a far data dal suo rilascio. Deve quindi escludersi
la prospettata identità di fattispecie sulla cui base il
Comune si sarebbe ritenuto esonerato dall’obbligo di
sostenere il provvedimento con una motivazione rafforzata
nei termini sopra ampiamente esposti.
Esclusa quindi l’identità del caso in oggetto con la
fattispecie venuta all’esame del Consiglio di Stato, non può
sostenersi che il Comune fosse onerato a disporre
l’annullamento dei titoli illegittimi rilasciati, senza
tuttavia procedere alla dovuta comparazione con le posizioni
soggettive consolidate dei titolari solo per effetto
dell’ordinanza istruttoria con cui il Consiglio di Stato
aveva chiesto, nel predetto giudizio, al Comune intimato di
produrre una relazione di chiarimenti per verificare quali e
quante altre unità immobiliari erano state realizzate
all’interno della zona soggetta ad inedificabilità assoluta
e quali e quanti provvedimenti erano stati adottati
dall’amministrazione comunale nei confronti delle situazioni
di riscontrata violazione della normativa urbanistica ed
edilizia della zona in questione.
Se tale provvedimento di
natura istruttoria poteva legittimamente costituire
sollecitazione all’esercizio del potere di vigilanza sul
rispetto delle prescrizioni urbanistiche di zona, ciò non
esimeva tuttavia il Comune dall’osservanza, nel procedimento
di autotutela instaurato, dalle prerogative e garanzie
previste dalla legge a protezione delle posizioni soggettive
di affidamento medio tempore create. Né, per le stesse
ragioni, una siffatta valutazione poteva ritenersi in certo
modo assorbita dalla constatazione della illegittimità “in
re ipsa” della concessione edilizia per effetto del
sopravvenuto accertamento giurisdizionale della natura
assoluta del vincolo di rispetto autostradale.
In conclusione il ricorso merita accoglimento con
conseguente annullamento dei provvedimenti medesimi
impugnati (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 02.07.2014 n. 3608 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Il
silenzio che si forma sulle istanze di permesso di costruire
ex art. 20, d.P.R. n. 380 del 2001 –nella formulazione
vigente all’epoca dei fatti oggetto del presente giudizio-
costituisce un’ipotesi di silenzio-inadempimento,
impugnabile ai sensi dell'art. 21-bis l. n. 1034 del 1971
(oggi art. 31 cod. proc. amm.), e non di silenzio–rigetto.
--------------
La lettera dell'art. 20 d.P.R. n. 380/2001, invero,
qualifica espressamente il silenzio che si forma
sull'istanza di rilascio del permesso di costruire come
silenzio-rifiuto; inoltre, la previsione di cui al
successivo articolo 21 (e così pure quella di cui all’art.
39, l. Regione Lombardia n. 12/2005) di un intervento
sostitutivo regionale, finalizzato a rimediare all'inerzia
del Comune, non può leggersi che come rimedio ad un'inerzia
non qualificata: la possibilità di un intervento
sostitutivo, una volta decorso il termine in questione, è
incompatibile con l'esistenza di un provvedimento sia pure
implicito mentre è giustificata se il silenzio ha il valore
di omissione.
Per la giurisprudenza maggioritaria, anche di questo
Tribunale, il silenzio che si forma sulle istanze di
permesso di costruire ex art. 20, d.P.R. n. 380 del 2001 –nella formulazione vigente all’epoca dei fatti oggetto del
presente giudizio- costituisce un’ipotesi di
silenzio-inadempimento, impugnabile ai sensi dell'art. 21-bis l. n. 1034 del 1971 (oggi art. 31 cod. proc. amm.), e non
di silenzio–rigetto.
La lettera dell'art. 20 d.P.R. n. 380/2001, invero,
qualifica espressamente il silenzio che si forma
sull'istanza di rilascio del permesso di costruire come
silenzio-rifiuto; inoltre, la previsione di cui al
successivo articolo 21 (e così pure quella di cui all’art.
39, l. Regione Lombardia n. 12/2005) di un intervento
sostitutivo regionale, finalizzato a rimediare all'inerzia
del Comune, non può leggersi che come rimedio ad un'inerzia
non qualificata: la possibilità di un intervento
sostitutivo, una volta decorso il termine in questione, è
incompatibile con l'esistenza di un provvedimento sia pure
implicito mentre è giustificata se il silenzio ha il valore
di omissione (Tar Lombardia, Milano, sent. n. 3781/2009; Tar
Abruzzo, Pescara, sez. I, 06.11.2008 , n. 889; Tar
Veneto, sez. II, 17.04.2008 , n. 999; Tar Puglia, Lecce,
sez. III, 07.11.2008 , n. 3223)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.07.2014 n. 1718 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: La
giurisprudenza ha da tempo chiarito che ai fini del corretto
esercizio del potere sindacale d’ordinanza contingibile ed
urgente non è necessario che la situazione pregiudizievole
si sia verificata in epoca prossima all’adozione dell’atto,
atteso che il requisito d’urgenza è riferito al pericolo in
sé e non al fatto generatore del rischio, con conseguente
legittimità dell’ordinanza emessa in relazione ad una
situazione di pericolo già in atto da tempo.
Con particolare riferimento poi alle emissioni sonore la
giurisprudenza ha chiarito che “il Sindaco può adottare i
provvedimenti che ritenga più opportuni in materia di tutela
dall'inquinamento acustico. Infatti quando vi siano urgenti
necessità di tutela della salute pubblica, lo stesso può
ordinare di contenere o addirittura eliminare le fonti delle
emissioni sonore”.
---------------
In merito al contemporaneo svolgimento della conferenza dei
servizi per il rinnovo dell’autorizzazione unica per i nuovi
impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti, occorre
rilevare che non solo al momento dell’adozione dell’atto
impugnato la conferenza dei servizi aveva espresso parere
negativo proprio con riferimento ai profili acustici, ma
anche che tale conferenza non è deputata ad assumere le
decisioni in materia di impatto acustico, in quanto la
giurisprudenza ha precisato che ai fini dell’adozione della
misura repressiva delle violazioni della disciplina
sull’inquinamento acustico, i Comuni debbano utilizzare lo
specifico strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente.
---------------
In merito al contenuto dei provvedimenti contingibili ed
urgenti la giurisprudenza ha chiarito che “in ogni caso deve
affermarsi che l'ordine impartito deve rispettare il
generalissimo principio di proporzionalità, che fa obbligo
ad ogni autorità amministrativa di prescegliere
nell'esercizio dei propri poteri il mezzo meno gravoso a
carico dei soggetti incisi”.
... per l'annullamento
dell'ordinanza 01.12.2007 n. 9 con cui il Sindaco del
Comune di Verderio Inferiore ha imposto alla ricorrente, con
decorrenza dal trentesimo giorno dalla notifica, di
interrompere la lavorazione nel periodo notturno ... e di
presentare, nel medesimo termine, un piano di bonifica
acustico con l'avvertenza che la presentazione del sopra
citato piano di bonifica rappresenta la condizione per
proseguire la lavorazione diurna; oltre che di ogni altro
atto o provvedimento alla stessa preordinato, conseguente o
comunque connesso, ivi espressamente inclusi, la
comunicazione di avvio di procedimento 18.10.2007
n. 1286 ed il provvedimento sindacale 24.12.2007 n. 8567
di proroga dei termini di cui all'ordinanza 10.12.2007
n. 9 fissandoli rispettivamente al 01.02.2008 per
quanto riguarda l'interruzione delle lavorazioni nel periodo
notturno e al 31.01.2008 per quanto riguarda la
presentazione del piano di bonifica acustica quale
condizione per la prosecuzione delle lavorazioni in periodo
diurno.
...
Il primo motivo di ricorso è infondato in quanto la
giurisprudenza ha da tempo chiarito che ai fini del corretto
esercizio del potere sindacale d’ordinanza contingibile ed
urgente non è necessario che la situazione pregiudizievole
si sia verificata in epoca prossima all’adozione dell’atto,
atteso che il requisito d’urgenza è riferito al pericolo in
sé e non al fatto generatore del rischio, con conseguente
legittimità dell’ordinanza emessa in relazione ad una
situazione di pericolo già in atto da tempo.
Con particolare riferimento poi alle emissioni sonore la
giurisprudenza ha chiarito che “il Sindaco può adottare i
provvedimenti che ritenga più opportuni in materia di tutela
dall'inquinamento acustico. Infatti quando vi siano urgenti
necessità di tutela della salute pubblica, lo stesso può
ordinare di contenere o addirittura eliminare le fonti delle
emissioni sonore” (Tar Lazio, sez. II, 26.06.2002, n.
5904).
In merito poi al contemporaneo svolgimento della conferenza
dei servizi per il rinnovo dell’autorizzazione unica per i
nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti,
occorre rilevare che non solo al momento dell’adozione
dell’atto impugnato la conferenza dei servizi aveva espresso
parere negativo proprio con riferimento ai profili acustici,
ma anche che tale conferenza non è deputata ad assumere le
decisioni in materia di impatto acustico, in quanto la
giurisprudenza ha precisato che ai fini dell’adozione della
misura repressiva delle violazioni della disciplina
sull’inquinamento acustico, i Comuni debbano utilizzare lo
specifico strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente
(TAR Lombardia –MI- sez. IV, 21/09/2011 n. 2253; TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 22.04.2013 n. 302).
In merito al contenuto dei provvedimenti contingibili ed
urgenti la giurisprudenza ha chiarito che “in ogni caso deve
affermarsi che l'ordine impartito deve rispettare il
generalissimo principio di proporzionalità, che fa obbligo
ad ogni autorità amministrativa di prescegliere
nell'esercizio dei propri poteri il mezzo meno gravoso a
carico dei soggetti incisi” (Tar Lombardia, Brescia,
Decreto presidenziale 18.01.2002, n. 41).
Nel caso in questione tale principio è stato rispettato in
quanto non solo l’amministrazione ha individuato le misure
idonee all’eliminazione dell’inquinamento acustico, che la
ricorrente non ha inteso eseguire, ma ha anche individuato,
nell’ambito dell’attività svolta dalla ricorrente, quella
parte dell’attività, la produzione del pellet, che è fonte
dei rumori molesti notturni, soddisfacendo così sia
l’interesse dell’azienda di non subire danni generalizzati
dall’ordine dell’amministrazione, sia l’interesse dei
cittadini residenti nelle vicinanze a godere di un ambiente
salubre anche dal punto di vista sonoro.
Venendo all’ultimo motivo di ricorso esso è infondato sia
nella parte in cui denuncia un profilo di illegittimità
derivata, sia nella parte in cui denuncia l’esistenza di
vizi propri.
Sotto il primo punto di vista la legittimità degli atti
assunti a monte esclude l’ipotesi dell’invalidità derivata.
Per quanto attiene poi al profilo dei rapporti con le
competenze della Provincia si ribadisce che la tutela contro
i rumori spetta al Comune e non alla Provincia, così come
indicato al numero precedente.
Infine il termine di 30 giorni di proroga per l’adozione
delle decisioni richieste non si presenta sproporzionato in
quanto si tratta di una situazione da lungo tempo ormai
esistente e ben a conoscenza della ricorrente, la quale
avrebbe dovuto attivarsi ben prima dell’adozione dell’atto
impugnato. Ne consegue che non si rileva alcuna compressione
irragionevole dei tempi per la redazione del piano di
bonifica acustica.
In definitiva quindi il ricorso va respinto
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. IV,
sentenza 02.07.2014 n. 1708 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Venendo
al concetto di edificio unifamiliare che, ai sensi dell’art.
9 della L. 10/1977 è esente dal pagamento del contributo
concessorio tra l’altro “per gli interventi di restauro, di
risanamento conservativo, di ristrutturazione e di
ampliamento, in misura non superiore al 20 per cento”
occorre rilevare che, secondo la giurisprudenza, la
disposizione è diretta a promuovere le opere di adeguamento
dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo
familiare, circoscrivendone l’operatività agli interventi
che non mutino sostanzialmente l’entità strutturale e la
dimensione spaziale dell’immobile e non ne elevino (in modo
apprezzabile) il valore economico.
---------------
Per quanto riguarda l’individuazione dei caratteri
dell’edificio unifamiliare occorre rilevare che, secondo
un primo un orientamento “per edifici "unifamiliari" in
mancanza di ulteriori specificazioni, sono da intendere
quelli strutturalmente destinati all'uso "abitativo" di un
"solo" nucleo familiare, indipendentemente dalle dimensioni
dell’edificio stesso”; altra giurisprudenza ha
affermato che, ai fini dell’applicazione dell’art. 9, lett.
d) cit., è legittimo individuare e circoscrivere il
contenuto della nozione di “edifici unifamiliari”,
ricorrendo a criteri estratti da altri complessi normativi,
con l’unico limite di non stravolgere la portata della
disciplina da applicare.
In merito la giurisprudenza ha evidenziato che le
fattispecie di esonero dal pagamento del contributo
concessorio, inclusa quella ex art. 9, lett. d), cit., sono
di stretta interpretazione e che la ratio che ispira
l’esenzione di cui alla lettera d), art. 9 l. 10/1977 è di
derivazione sociale in quanto l’edificio unifamiliare
nell’accezione socio economica assunta dalla norma coincide
con la piccola proprietà immobiliare e soltanto se presenti
tali caratteri tale è meritevole di un trattamento
differenziato per le opere di adeguamento alle necessità
abitative del nucleo familiare.
Insomma, la disposizione contenuta nell’art. 9 cit. è norma
eccezionale, la cui portata in applicazione del principio
costituzionale di ragionevolezza deve essere circoscritta
entro parametri idonei a garantire le finalità della
previsione di favore.
---------------
Deve concludersi che non solo è legittimo individuare e
circoscrivere il contenuto della nozione di “edifici
unifamiliari”, ma deve anche ritenersi non manifestamente
illogico o irrazionale il criterio fatto proprio dal Comune,
il quale, al punto A.5 della deliberazione C.C. n. 225/1978
ha definito "edificio unifamiliare", non soggetto al
pagamento del contributo concessorio, la "costruzione
residenziale per uso proprio consistente in una unità
abitativa abitata con continuità", e "unità abitativa" "un
alloggio che abbia ... una superficie utile non superiore a
110 mq'', con l’ulteriore previsione che "le limitazioni di
cui ai bagni ed alla superficie utile possono essere
superate" nel "caso in cui venga dimostrato che
nell'alloggio la superficie utile per abitante non è
superiore a 20 mq. ...".
Passando all’esame del motivo del ricorso
principale relativo alla debenza o meno dei contributi
concessori, ripreso anche nel ricorso per motivi aggiunti
occorre evidenziare, in via di fatto, che l’unità
immobiliare in questione è composta da tre piani e che con
il presente intervento il ricorrente intendeva rendere
abitabile e dotare di diretto accesso al giardino il piano
seminterrato.
Venendo ora al concetto di edificio unifamiliare che, ai
sensi dell’art. 9 della L. 10/1977 è esente dal pagamento
del contributo concessorio tra l’altro “per gli interventi
di restauro, di risanamento conservativo, di
ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore
al 20 per cento” occorre rilevare che, secondo la
giurisprudenza (TAR Marche, sentenza 31/01/2007 n. 8), la
disposizione è diretta a promuovere le opere di adeguamento
dei manufatti alle necessità abitative del singolo nucleo
familiare, circoscrivendone l’operatività agli interventi
che non mutino sostanzialmente l’entità strutturale e la
dimensione spaziale dell’immobile e non ne elevino (in modo
apprezzabile) il valore economico.
Per quanto riguarda l’individuazione dei caratteri
dell’edificio unifamiliare occorre rilevare che, secondo un
primo un orientamento “per edifici "unifamiliari" in
mancanza di ulteriori specificazioni, sono da intendere
quelli strutturalmente destinati all'uso "abitativo" di un
"solo" nucleo familiare, indipendentemente dalle dimensioni
dell’edificio stesso” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 10.08.2012 n. 1446); altra giurisprudenza ha
affermato che, ai fini dell’applicazione dell’art. 9, lett.
d) cit., è legittimo individuare e circoscrivere il
contenuto della nozione di “edifici unifamiliari”,
ricorrendo a criteri estratti da altri complessi normativi,
con l’unico limite di non stravolgere la portata della
disciplina da applicare (così C.d.S., Sez. II, parere n.
1402 del 24.10.1984; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza
26.04.2006 n. 1062).
In merito la giurisprudenza ha evidenziato che le
fattispecie di esonero dal pagamento del contributo
concessorio, inclusa quella ex art. 9, lett. d), cit., sono
di stretta interpretazione e che la ratio che ispira
l’esenzione di cui alla lettera d), art. 9 l. 10/1977 è di
derivazione sociale in quanto l’edificio unifamiliare
nell’accezione socio economica assunta dalla norma coincide
con la piccola proprietà immobiliare e soltanto se presenti
tali caratteri tale è meritevole di un trattamento
differenziato per le opere di adeguamento alle necessità
abitative del nucleo familiare (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 13.03.2008 n. 604).
Insomma, la disposizione contenuta nell’art. 9 cit. è norma
eccezionale, la cui portata in applicazione del principio
costituzionale di ragionevolezza deve essere circoscritta
entro parametri idonei a garantire le finalità della
previsione di favore.
Alla luce di tali considerazioni deve concludersi che non
solo è legittimo individuare e circoscrivere il contenuto
della nozione di “edifici unifamiliari”, ma deve anche
ritenersi non manifestamente illogico o irrazionale il
criterio fatto proprio dal Comune di Nerviano, il quale, al
punto A.5 della deliberazione C.C. n. 225/1978 ha definito
"edificio unifamiliare", non soggetto al pagamento del
contributo concessorio, la "costruzione residenziale per uso
proprio consistente in una unità abitativa abitata con
continuità", e "unità abitativa" "un alloggio che abbia ...
una superficie utile non superiore a 110 mq'', con
l’ulteriore previsione che "le limitazioni di cui ai bagni
ed alla superficie utile possono essere superate" nel "caso
in cui venga dimostrato che nell'alloggio la superficie
utile per abitante non è superiore a 20 mq. ...".
Venendo al caso in decisione, non avendo il ricorrente
provato né che l’acquisizione dell’abitabilità del piano
seminterrato della casa, che si aggiunge agli altri due,
fosse strumentale alle esigenze del suo nucleo familiare, né
l’irrazionalità del criterio adottato dal Comune, deve
concludersi per l’onerosità della d.i.a. suddetta, in quanto
relativa ad immobile avente superficie notevolmente
superiore a quella massima consentita per l’esenzione dal
contributo (TAR Lombardia-MIlano, Sez. IV,
sentenza 02.07.2014 n. 1707 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE
GESTIONALI: Il
nuovo sistema del riparto di competenze tra Giunta e
Consiglio comunale, previsto dagli artt. 42 e ss. del t.u.
18.08.2000 n. 267, è retto dal principio secondo cui
l'organo elettivo (Consiglio comunale) è chiamato ad
esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di rilevo
generale, che si traducono in «atti fondamentali»
tassativamente elencati all'art. 32 della l. 08.06.1990 n.
142, poi trasfuso nell'art. 42 del t.u. approvato con d.lgs.
18.08.2000 n. 267, mentre la Giunta Municipale «compie gli
atti di amministrazione che non siano riservati dalla legge
al consiglio e che non rientrino nelle competenze, previste
dalle leggi o dallo statuto, del sindaco, degli organi di
decentramento, del segretario o dei funzionari dirigenti».
In tale contesto, il ruolo del Consiglio comunale va
ragionevolmente riferito alle sole determinazioni che
comportano un'effettiva incidenza sulle scelte fondamentali
dell'ente, mentre la Giunta resta investita del compito di
attuare gli indirizzi formulati dall'organo elettivo,
eventualmente anche svolgendo attività pur sempre con
finalità esecutive, ma che implichino una valutazione di
natura in qualche misura politico-amministrativa e, come
tale, non spettante alla competenza della dirigenza.
La giurisprudenza ha chiarito che il nuovo
sistema del riparto di competenze tra Giunta e Consiglio
comunale, previsto dagli artt. 42 e ss. del t.u. 18.08.2000 n. 267, è retto dal principio secondo cui l'organo
elettivo (Consiglio comunale) è chiamato ad esprimere gli
indirizzi politici ed amministrativi di rilevo generale, che
si traducono in «atti fondamentali» tassativamente
elencati all'art. 32 della l. 08.06.1990 n. 142, poi
trasfuso nell'art. 42 del t.u. approvato con d.lgs. 18.08.2000 n. 267, mentre la Giunta Municipale «compie gli
atti di amministrazione che non siano riservati dalla legge
al consiglio e che non rientrino nelle competenze, previste
dalle leggi o dallo statuto, del sindaco, degli organi di
decentramento, del segretario o dei funzionari dirigenti».
In tale contesto, il ruolo del Consiglio comunale va
ragionevolmente riferito alle sole determinazioni che
comportano un'effettiva incidenza sulle scelte fondamentali
dell'ente, mentre la Giunta resta investita del compito di
attuare gli indirizzi formulati dall'organo elettivo,
eventualmente anche svolgendo attività pur sempre con
finalità esecutive, ma che implichino una valutazione di
natura in qualche misura politico-amministrativa e, come
tale, non spettante alla competenza della dirigenza (Cons.
Stato, sez. V, 09.12.2002 n. 6764).
Nel caso in questione, una volta che la giunta comunale, con
deliberazione n. 241 del 09.10.2007, aveva approvato il
progetto per l’ampliamento del parcheggio, ogni altra
determinazione in merito rientrava nella competenza dei
dirigenti, trattandosi di atti esecutivi di decisioni già
adottate dal livello politico dell’amministrazione
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. IV,
sentenza 02.07.2014 n. 1706 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Sull'ordinanza
contingibile ed urgente del Sindaco.
Il Collegio fa proprio quanto già
accertato dal Consiglio di Stato con la sentenza n.
4773/2013, il quale ha evidenziato che “non ha pregio ….
l’asserita carenza di urgenza dell’intervento in una
situazione stazionaria da un decennio, in cui le ordinanze
del 1995 e del 1996 non avrebbero avuto seguito per anni,
attesa l’urgenza già evidenziata di processi corrosivi in
atto dei fusti sepolti, diversificati a secondo dell’area di
interramento e della aggressività delle sostanze presenti
nel suolo (anche la perizia penale rilevava fenomeni
corrosivi collocabili a partire dall’anno 1994 in piena
evoluzione peggiorativa), sicché perdurando invariata la
situazione non avrebbe potuto che aggravarsi, portando alla
dispersione del materiale inquinante nell’ambiente”.
La permanenza della situazione di urgenza e di pericolo,
così come accertata sia in sede penale che in sede
giurisdizionale amministrativa, giustifica la reiterazione
dell’esercizio del potere di ordinanza.
In merito poi alla durata del procedimento, la
giurisprudenza ha chiarito, con riferimento alle ordinanza
contingibili ed urgenti, che “l'intervento non deve avere
necessariamente il carattere della provvisorietà, atteso che
suo connotato essenziale è l'adeguatezza della misura a far
fronte alla situazione determinata dall'evento
straordinario. Il che chiaramente sta a indicare che
nell'adozione di provvedimenti contingibili e urgenti non
esiste, in astratto, un metro di valutazione fisso da
seguire, ma la soluzione va individuata di volta in volta,
secondo la natura del rischio da fronteggiare. Sono,
infatti, le esigenze obiettive che si riscontrano nel caso
concreto che determinano la «misura» dell'intervento, anche
se la soluzione deve corrispondere alle finalità del
momento, senza che possa assumere, cioè, i caratteri della
continuità e della stabilità".
Venendo all’esame del secondo e del terzo
motivo di ricorso, con il quale la ricorrente ha contestato
i presupposti per l’esercizio del potere di proroga e la
durata dei lavori, essi sono infondati.
In merito il Collegio fa proprio quanto già accertato dal
Consiglio di Stato con la sentenza n. 4773/2013, il quale ha
evidenziato che “non ha pregio …. l’asserita carenza di
urgenza dell’intervento in una situazione stazionaria da un
decennio, in cui le ordinanze del 1995 e del 1996 non
avrebbero avuto seguito per anni, attesa l’urgenza già
evidenziata di processi corrosivi in atto dei fusti sepolti,
diversificati a secondo dell’area di interramento e della
aggressività delle sostanze presenti nel suolo (anche la
perizia penale rilevava fenomeni corrosivi collocabili a
partire dall’anno 1994 in piena evoluzione peggiorativa),
sicché perdurando invariata la situazione non avrebbe potuto
che aggravarsi, portando alla dispersione del materiale
inquinante nell’ambiente”.
La permanenza della situazione di urgenza e di pericolo,
così come accertata sia in sede penale che in sede
giurisdizionale amministrativa, giustifica la reiterazione
dell’esercizio del potere di ordinanza.
In merito poi alla durata del procedimento, la
giurisprudenza ha chiarito, con riferimento alle ordinanza
contingibili ed urgenti, che “l'intervento non deve avere
necessariamente il carattere della provvisorietà, atteso che
suo connotato essenziale è l'adeguatezza della misura a far
fronte alla situazione determinata dall'evento
straordinario. Il che chiaramente sta a indicare che
nell'adozione di provvedimenti contingibili e urgenti non
esiste, in astratto, un metro di valutazione fisso da
seguire, ma la soluzione va individuata di volta in volta,
secondo la natura del rischio da fronteggiare. Sono,
infatti, le esigenze obiettive che si riscontrano nel caso
concreto che determinano la «misura» dell'intervento,
anche se la soluzione deve corrispondere alle finalità del
momento, senza che possa assumere, cioè, i caratteri della
continuità e della stabilità" (Cons. Stato, sez. V, n. 580
del 09.02.2001).
Nel caso in questione la durata degli interventi è
proporzionata alle opere da eseguire, che consistono non
solo nella rimozione dei rifiuti, come pretenderebbe la
ricorrente, ma anche nell’eliminazione dell’inquinamento del
terreno circostante. Infatti la sentenza del Consiglio di
Stato (n. 4773/2013), che si è pronunciata sui presupposti
per l’avvio del procedimento di bonifica, ha accertato, tra
l’altro, che “I fusti, come risulta dalla relazione peritale
depositata agli atti, erano sottoposti a un processo di
corrosione differenziato da zona a zona in relazione alla
mutevole composizione dei terreni, che avrebbe comportato la
perforazione dei fusti e la conseguente dispersione
nell’ambiente del materiale inquinante contenuto nei fusti.
Vi era inoltre la presenza in loco di un’enorme quantità di
polveri inquinanti contenenti metalli pesanti”. Risulta
chiaro quindi che, a differenza di quanto affermato in modo
apodittico dalla ricorrente, si tratta di un lavoro di
grande complessità rispetto al quale la durata non pare
sproporzionata
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. IV,
sentenza 02.07.2014 n. 1705 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: L’art.
14 del decreto Ronchi conferma la corretta individuazione
nell’organo di vertice dell’amministrazione comunale quale
soggetto competente ad adottare il provvedimento impugnato
(ordinanza di rimozione rifiuti).
Tale competenza sussiste anche ai sensi dell’art. 217 del
R.D. 1265/1934 a norma del quale “quando vapori, gas o altre
esalazioni, scoli di acque, rifiuti solidi o liquidi
provenienti da manifatture o fabbriche, possono riuscire di
pericolo o di danno per la salute pubblica, il sindaco
prescrive le norme da applicare per prevenire o impedire il
danno e il pericolo e si assicura della loro esecuzione ed
efficienza. Nel caso di inadempimento il sindaco può
provvedere di ufficio nei modi e termini stabiliti nel testo
unico della legge comunale e provinciale”.
Il quarto motivo di
ricorso, che denuncia l’incompetenza del Sindaco ad emanare
le ordinanze in questione, è infondato in quanto, come
chiarito dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 4773/2013,
l’art. 14 del decreto Ronchi conferma la corretta
individuazione nell’organo di vertice dell’amministrazione
comunale quale soggetto competente ad adottare il
provvedimento impugnato (Cons. Stato, sezione quinta, 27.03.2009, n. 1826).
Tale competenza sussiste anche ai sensi dell’art. 217 del
R.D. 1265/1934 a norma del quale “quando vapori, gas o
altre esalazioni, scoli di acque, rifiuti solidi o liquidi
provenienti da manifatture o fabbriche, possono riuscire di
pericolo o di danno per la salute pubblica, il sindaco
prescrive le norme da applicare per prevenire o impedire il
danno e il pericolo e si assicura della loro esecuzione ed
efficienza. Nel caso di inadempimento il sindaco può
provvedere di ufficio nei modi e termini stabiliti nel testo
unico della legge comunale e provinciale” (Tar
Lombardia, Milano, sez. I, sentenza n. 518/2014)
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. IV,
sentenza 02.07.2014 n. 1705 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: L'inserimento
di una determinata attività nell'elenco delle industrie
insalubri approvato, da ultimo, con i dd.mm. del 02.03.1987
e del 05.09.1994- assolve alla semplice funzione di
segnalare le potenziali fonti di rischio, fermo restando
pertanto il dovere dell'autorità amministrativa di accertare
direttamente in sede locale l'esistenza in concreto di
siffatta potenzialità.
L'astratta individuazione di un'attività produttiva come
insalubre non preclude infatti l'effettuazione di verifiche
in sede locale circa l'effettiva nocività di strutture e
impianti adibiti all'attività medesima, da valutarsi avendo
riguardo sia al contesto ambientale nel quale la predetta
attività si svolge, sia alla eventuale attivazione di
soddisfacenti misure di salvaguardia.
---------------
Secondo la giurisprudenza l’art. 216 del t.u.ll.ss.
stabilisce due classi di attività industriali insalubri:
l’inserimento nella prima, comporta l’obbligo di isolamento
nelle campagne l’insediamento lontano dalle abitazioni,
mentre solo la collocazione nella seconda prevede il
potere-dovere (a fronte della domanda di insediamento) di
valutare la pericolosità in concreto e di prescrivere le
eventuali cautele.
Ciò premesso, Collegio, deve confermare che la mera
iscrizione nella prima classe deriva da una valutazione
direttamente compiuta dalla scelta legislativa, che perciò
esclude ogni discrezionalità dell’amministrazione sul punto.
--------------
Con riferimento poi al carattere meramente accessorio
dell’attività insalubre esercitata occorre osservare che è
del tutto ininfluente il fatto che l’attività insalubre
abbia carattere accessorio nell’organizzazione di impresa
della ricorrente, essendo rilevante esclusivamente
l’idoneità dell’attività ad interferire con l’ambiente, a
maggior ragione se l’attività sia svolta in area
urbanizzata, come nel caso in decisione.
In merito alla classificazione delle industrie
insalubri di prima classe la giurisprudenza ha chiarito che
l'inserimento di una determinata attività nell'elenco delle
industrie insalubri approvato, da ultimo, con i dd.mm. del 02.03.1987 e del
05.09.1994- assolve alla semplice
funzione di segnalare le potenziali fonti di rischio, fermo
restando pertanto il dovere dell'autorità amministrativa di
accertare direttamente in sede locale l'esistenza in
concreto di siffatta potenzialità (TAR Lombardia, Milano,
22/04/1997 n. 488; Cons. Stato, sez. V, Sentenza 15.02.2001 n. 766).
L'astratta individuazione di un'attività
produttiva come insalubre non preclude infatti
l'effettuazione di verifiche in sede locale circa
l'effettiva nocività di strutture e impianti adibiti
all'attività medesima, da valutarsi avendo riguardo sia al
contesto ambientale nel quale la predetta attività si
svolge, sia alla eventuale attivazione di soddisfacenti
misure di salvaguardia.
--------------
Con riferimento invece al
carattere non pericoloso per la salute delle attività ivi
svolte occorre rilevare che secondo la giurisprudenza l’art.
216 del citato t.u. stabilisce due classi di attività
industriali insalubri: l’inserimento nella prima, comporta
l’obbligo di isolamento nelle campagne l’insediamento
lontano dalle abitazioni, mentre solo la collocazione nella
seconda prevede il potere-dovere (a fronte della domanda di
insediamento) di valutare la pericolosità in concreto e di
prescrivere le eventuali cautele. Ciò premesso, Collegio,
deve confermare che la mera iscrizione nella prima classe
deriva da una valutazione direttamente compiuta dalla scelta
legislativa, che perciò esclude ogni discrezionalità
dell’amministrazione sul punto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 05.03.2013 n. 1345).
Ne consegue che deve escludersi che il Comune dovesse dare
la prova della concreta pericolosità dell’attività svolta.
Con riferimento poi al carattere meramente accessorio
dell’attività insalubre esercitata occorre osservare che è
del tutto ininfluente il fatto che l’attività insalubre
abbia carattere accessorio nell’organizzazione di impresa
della ricorrente, essendo rilevante esclusivamente
l’idoneità dell’attività ad interferire con l’ambiente, a
maggior ragione se l’attività sia svolta in area
urbanizzata, come nel caso in decisione
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. IV,
sentenza 02.07.2014 n. 1704 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
pianificazione urbanistica costituisce un’attività a
carattere discrezionale, per la quale, come più volte
affermato da questo Consiglio, è sufficiente una motivazione
per relationem con la relazione tecnica che contiene le
indicazioni sugli obiettivi che si intende complessivamente
perseguire: quest’ultima deve dare contezza circa la
sincronia e la coerenza, rispettivamente, delle scelte
pianificatorie adottate, degli obiettivi perseguiti e degli
interessi pubblici ad essi sottesi.
Fatte salve le scelte incidenti su zone territorialmente
circoscritte, in sede di adozione di uno strumento
urbanistico l’onere di motivazione gravante
sull’amministrazione è di portata generale e risulta
soddisfatto tramite l’indicazione dei profili generali e dei
criteri che sorreggono le scelte urbanistiche, senza
necessità di una motivazione puntuale.
L'amministrazione comunale non è tenuta ad una
particolareggiata motivazione in ordine ad ogni singola
scelta urbanistica effettuata con il nuovo strumento di
pianificazione, anche laddove la nuova scelta si discosti da
destinazioni precedentemente impresse al territorio dal
precedente strumento urbanistico, essendo sufficiente che
emergano nel complesso le ragioni che sorreggono l'esercizio
della potestà pianificatoria.
--------------
La giurisprudenza è costante nel non ritenere necessario
controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna
osservazione e opposizione presentata dai privati
nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello
strumento urbanistico.
Al contrario, ciò che risulta necessario è che il Comune
abbia effettivamente esaminato e preso atto delle
osservazioni formulate.
Inoltre, poiché le osservazioni devono estrinsecare un
apporto collaborativo dei cittadini in funzione di interessi
generali e non individuali, il loro rigetto può essere
soltanto l’effetto di un contrasto con gli interessi e le
considerazioni generali sottese allo strumento urbanistico.
Quanto, poi, al lamentato difetto di motivazione, si
ricorda che la pianificazione urbanistica costituisce
un’attività a carattere discrezionale, per la quale, come
più volte affermato da questo Consiglio, è sufficiente una
motivazione per relationem con la relazione tecnica che
contiene le indicazioni sugli obiettivi che si intende
complessivamente perseguire: quest’ultima deve dare contezza
circa la sincronia e la coerenza, rispettivamente, delle
scelte pianificatorie adottate, degli obiettivi perseguiti e
degli interessi pubblici ad essi sottesi.
Fatte salve le scelte incidenti su zone territorialmente
circoscritte, in sede di adozione di uno strumento
urbanistico l’onere di motivazione gravante
sull’amministrazione è di portata generale e risulta
soddisfatto tramite l’indicazione dei profili generali e dei
criteri che sorreggono le scelte urbanistiche, senza
necessità di una motivazione puntuale (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 20.02.2014 n. 793; id. 10.05.2012 n.
2710; id. 08.06.2011 n. 3497 e id. 03.11.2008 n.
5478).
L'amministrazione comunale non è tenuta ad una
particolareggiata motivazione in ordine ad ogni singola
scelta urbanistica effettuata con il nuovo strumento di
pianificazione, anche laddove la nuova scelta si discosti da
destinazioni precedentemente impresse al territorio dal
precedente strumento urbanistico, essendo sufficiente che
emergano nel complesso le ragioni che sorreggono l'esercizio
della potestà pianificatoria (cfr. Consiglio di Stato sez.
IV 12/05/2011 n. 2863).
---------------
Al riguardo, infatti, la
giurisprudenza è costante nel non ritenere necessario controdedurre singolarmente e puntualmente a ciascuna
osservazione e opposizione presentata dai privati
nell’ambito del procedimento volto all’adozione dello
strumento urbanistico (cfr. Consiglio di Stato sez. IV n.
2710 cit. e id. n. 1479 del 26.03.2014).
Al contrario, ciò che risulta necessario è che il Comune
abbia effettivamente esaminato e preso atto delle
osservazioni formulate. Inoltre, poiché le osservazioni
devono estrinsecare un apporto collaborativo dei cittadini
in funzione di interessi generali e non individuali, il loro
rigetto può essere soltanto l’effetto di un contrasto con
gli interessi e le considerazioni generali sottese allo
strumento urbanistico (cfr. ex multis Consiglio di Stato
sez. IV n. 2443 del 07.05.2002 e id. n. 5492 del 26.10.2012)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.07.2014 n. 3294 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Niente appalti senza attività autonoma.
Cassazione. Limiti all'«interposizione di manodopera».
La Corte di Cassazione
con sentenza n. 10745/2014 ha ribadito gli elementi che
distinguono l'appalto di servizi "genuino" dalla
interposizione di manodopera, pratica quest'ultima destinata
esclusivamente ai soggetti autorizzati quali, tra gli altri,
le agenzie di lavoro interinale.
Secondo la Suprema Corte, «l'ipotesi di appalto di
manodopera è configurabile sia in presenza degli elementi
presuntivi considerati dal'articolo 1, comma 3, della legge
1369/1960 (impiego di capitale, macchine ed attrezzature
fornite dall'appaltante), sia quando il soggetto interposto,
sebbene si inserisca in una fase del ciclo produttivo del
preteso committente, manchi di una gestione di impresa a
proprio rischio e di un'autonoma organizzazione, da
verificarsi con riguardo alle prestazioni in concreto
affidategli».
Con riferimento agli appalti endoaziendali in
cui si affidano a una ditta esterna fasi di attività
strettamente attinenti al ciclo produttivo del committente,
bisogna verificare se l'appaltatore abbia dato vita a una
organizzazione autonoma assumendosi quindi il rischio
d'impresa relativo al servizio fornito. Dove si accerti che
l'appaltatore si sia limitato a mettere a disposizione una
mera prestazione lavorativa, mantenendo la sola gestione
amministrativa del rapporto (retribuzione ferie eccetera) ma
senza una organizzazione della prestazione finalizzata a un
risultato autonomo, si ricade nell' attività vietata.
La
Corte ribadisce inoltre che venendo meno l'inerenza del
costo all'attività d'impresa, esso diventa indetraibile e,
trattandosi di prestazioni di lavoro dipendente, ai fini Iva
l'imposta è erroneamente applicata e quindi non detraibile
(articoli 3 e 19 Dpr 633/1972). Nella realtà degli enti
locali, stretti tra necessità di garantire i servizi e
blocco di nuove assunzioni, numerosi sono i bandi che
appaiono come richieste di mere prestazioni di manodopera:
assistenza e accompagnamento sullo scuolabus o in refezione,
sostituzione o aiuto cuoco, richieste di personale
(educatori, assistenti) necessario per coprire le necessità
non garantite dal personale scolastico, data entry,
eccetera.
Alle pesantissime sanzioni per il ricorso a soggetti non
autorizzati, 50 euro a lavoratore per giornata lavorata
(articolo 18, comma 2, del Dlgs 276/2003) si aggiungono le
sanzioni fiscali, per i bandi relativi a trasporto alunni,
refezione scolastica e altre attività rilevanti ai fini Iva,
posto che l'indetraibilità comporta la ripresa a tassazione
della minor Iva versata, con sanzioni penali al superamento
della soglia di 50mila euro, o la rettifica della
dichiarazione presentata con il riconoscimento di un minor
credito (articolo Il Sole 24 Ore del
30.06.2014). |
APPALTI SERVIZI:
Nella fattispecie viene
in rilievo una concessione di servizi pubblici,
provvedimento la cui emanazione, ai sensi dell’art. 30 del
codice dei contratti pubblici, non soggiace alle norme
puntuali recate dal codice, ma ai soli principi generali
della materia, principi tra i quali non è annoverabile la
regula iuris fissata dalla norma di cui all’art. 86, comma
4, che impone, solo per gli appalti di servizi e di
forniture, l’indicazione degli oneri di sicurezza in sede di
formulazione dell’ offerta economica.
L'obbligo di indicare i costi di sicurezza nella specie non
è evincibile neanche da un auto-vincolo assunto dalla
stazione appaltante, posto che il bando di gara, per un
verso, stabilisce la struttura dell’offerta economica
indicando cinque voci senza fare menzionare i costi di
sicurezza (punto 8.1.2., pag. 5); e, dall’altro, richiama
gli artt. 86 e 87 del codice dei contratti pubblici ai soli
fini della disciplina della verifica dell’anomalia (punto
8.1.2., pag. 6);
Posta l’assenza di un vincolo derivante dalla normativa
primaria o dalla normativa speciale di gara, deve ritenersi
che l’amministrazione abbia correttamente consentito
all’impresa prima classificata, attraverso l’esplicazione di
un’obbligatoria cooperazione istruttoria, l’indicazione
degli oneri di sicurezza evincibili, attraverso
un’operazione di scomputo, dall’offerta economica.
Reputato che l’appello in epigrafe specificato
merita positiva valutazione e va accolto, alla stregua delle
considerazioni che seguono:
- nella fattispecie viene in rilievo una concessione di
servizi pubblici, provvedimento la cui emanazione, ai sensi
dell’art. 30 del codice dei contratti pubblici, non soggiace
alle norme puntuali recate dal codice, ma ai soli principi
generali della materia, principi tra i quali non è
annoverabile la regula iuris fissata dalla norma di cui
all’art. 86, comma 4, che impone, solo per gli appalti di
servizi e di forniture, l’indicazione degli oneri di
sicurezza in sede di formulazione dell’ offerta economica
(cfr., con riguardo ai servizi esclusi dal codice dei
contratti pubblici, Cons. Stato, sez. III, 21.01.2014,
n, 280);
- l’obbligo di indicare i costi di sicurezza nella specie
non è evincibile neanche da un auto-vincolo assunto dalla
stazione appaltante, posto che il bando di gara, per un
verso, stabilisce la struttura dell’offerta economica
indicando cinque voci senza fare menzionare i costi di
sicurezza (punto 8.1.2., pag. 5); e, dall’altro, richiama
gli artt. 86 e 87 del codice dei contratti pubblici ai soli
fini della disciplina della verifica dell’anomalia (punto
8.1.2., pag. 6);
- posta l’assenza di un vincolo derivante dalla normativa
primaria o dalla normativa speciale di gara, deve ritenersi
che l’amministrazione abbia correttamente consentito
all’impresa prima classificata, attraverso l’esplicazione di
un’obbligatoria cooperazione istruttoria, l’indicazione
degli oneri di sicurezza evincibili, attraverso
un’operazione di scomputo, dall’offerta economica (cfr.,
sull’illegittimità dell’esclusione dalla gara ove il bando
non abbia previsto l’obbligo di specificazione degli oneri
nella disciplina di gara, Cons. Stato, sez. V, 16.05.2014, n. 2517);
- le ulteriori censure relative alle valutazioni della
stazione appaltante sulla congruità degli oneri di sicurezza
indicati dall’aggiudicataria sono, per un verso, infondate,
in ragione della non sindacabilità delle valutazioni
tecniche ove congruamente motivate e non inficiate da
profili di irragionevolezza e di illogicità; e, per altro
verso, inammissibili, in quanto svolte dall’impresa terza
classificata per ottenere l’estromissione della prima
classificata senza incidere sulla posizione della prima
classificata
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.06.2014 n. 3291 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Circa il rispetto della fascia di mt. 10
dall'alveo dei corsi d'acqua, non
rileva il rilievo circa la necessità di riferire la
locuzione “discipline vigenti nelle diverse località” ad una
ambito necessariamente infraregionale.
Infatti, all’epoca dell’entrata in vigore dell'art. 96,
lett. F), del R.D. 25.07.1904, n. 523, le Regioni non erano
state ancora né previste, né istituite, sicché non può farsi
il paragone lessicale con altre disposizioni emanate in un
tempo successivo all’istituzione delle Regioni.
Il riferimento in questione deve pertanto intendersi,
comunque, come un rinvio mobile ad una disciplina non
applicabile sull’intero territorio nazionale e che tenga
conto delle specificità locali. Tale carattere è riferibile
anche alla disciplina regionale, in costanza della quale
perde rilievo la ipotizzata natura suppletiva della norma,
poiché la fattispecie risulta disciplinata dalla nota della
Regione Lombardia dell’08.09.1988.
Va richiamata al riguardo Cass., Sez. Unite, 18.07.2008, n.
19813, secondo la quale: “L'art. 96, lett. f), del r.d.
25.07.1904, n. 523, in materia di distanze delle costruzioni
dagli argini, ha carattere sussidiario, essendo destinato a
prevalere solo in assenza di una specifica normativa locale.
Tuttavia, quest'ultima, che può anche essere contenuta nello
strumento urbanistico, per derogare alla norma statale, deve
essere espressamente destinata alla regolamentazione delle
distanze dagli argini, esplicitando le condizioni locali e
le esigenze di tutela delle acque e degli argini che
giustifichino la determinazione di una distanza maggiore o
minore di quella indicata dalla norma statale”.
---------------
I divieti di edificazione sanciti dall'art. 96, lett. F),
del RD 25.07.1904, n. 523 (t.u. delle leggi sulle opere
idrauliche), sono precipuamente informati alla ragione
pubblicistica di assicurare la possibilità di sfruttamento
delle acque demaniali per i diversi usi disciplinati dalla
speciale legislazione sulle acque, o, comunque, di
assicurare, ai fini di pubblico interesse, il libero
deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, rivi,
canali e scolatoi pubblici: ne consegue che, qualora risulti
oggettivamente non sussistente una massa d'acqua pubblica
suscettibile di essere utilizzata ai suesposti fini
pubblicistici, deve escludersi la operatività, ad ogni
effetto, dei divieti predetti.
1. Con ricorso n. 389 del 1989, proposto al TAR Lombardia,
sez. staccata di Brescia, l’odierno appellante chiedeva
l’annullamento del provvedimento dell’Assessore delegato del
Comune di Sarezzo dell’08.02.1989 avente ad oggetto il
diniego con cui è stata respinta l’istanza di condono
edilizio relativa all’ampliamento dell’opificio nella parte
localizzata all’interno della fascia di mt. 10 di rispetto
del torrente Gombiera, nonché del parere negativo
dell’ufficio del Genio civile di Brescia
2. Il primo Giudice respingeva il ricorso, rilevando che
l’art. 33 della L. n. 47 del 1985 contenente l’elencazione
delle opere non suscettibili di sanatoria, al comma 1, lett.
c), include le opere in contrasto con i “vincoli imposti da
norme statali e regionali a difesa delle coste marine,
lacuali e fluviali”.
Dal canto suo, l’art. 96, lett. F), del R.D. 25.07.1904,
n. 523, vieta in modo assoluto le costruzioni ad una
distanza inferiore di mt. 10 dall’alveo dei corsi d’acqua.
Né vale obbiettare che, da un lato, si sarebbe instaurata di
fatto una prassi locale sfociata nella consuetudine di cui è
parola nell’art. 96 citato, laddove fa riferimento alla
“disciplina locale”, perché quest’ultima locuzione deve
intendersi riferita alla disciplina regionale: la Regione
Lombardia con nota dell’08.09.1988 ha espressamente
affermato la non conformità dell’opera, invitando il Comune
resistente a emettere ordinanza di demolizione, con
ripristino dello stato dei luoghi; dall’altro, il diniego,
che prescinde dalla situazione di fatto, non può dirsi che
non sarebbe congruamente motivato, atteso che l’opera viola
un vincolo assoluto, senza che pertanto residui in sede di
esame della domanda di condono alcun margine di
apprezzamento discrezionale.
...
5. L’appello è infondato e non può essere accolto.
5.1. In ordine alla prima doglianza, non rileva il rilievo
circa la necessità di riferire la locuzione “discipline
vigenti nelle diverse località” ad una ambito
necessariamente infraregionale.
Infatti, all’epoca dell’entrata in vigore del citato art.
96, le Regioni non erano state ancora, né previste, né
istituite, sicché non può farsi il paragone lessicale con
altre disposizioni emanate in un tempo successivo
all’istituzione delle Regioni.
Il riferimento in questione deve pertanto intendersi,
comunque, come un rinvio mobile ad una disciplina non
applicabile sull’intero territorio nazionale e che tenga
conto delle specificità locali. Tale carattere è riferibile
anche alla disciplina regionale, in costanza della quale
perde rilievo la ipotizzata natura suppletiva della norma,
poiché la fattispecie risulta disciplinata dalla nota della
Regione Lombardia dell’08.09.1988.
Va richiamata al riguardo Cass., Sez. Unite, 18.07.2008,
n. 19813, secondo la quale: “L'art. 96, lett. f), del r.d.
25.07.1904, n. 523, in materia di distanze delle
costruzioni dagli argini, ha carattere sussidiario, essendo
destinato a prevalere solo in assenza di una specifica
normativa locale. Tuttavia, quest'ultima, che può anche
essere contenuta nello strumento urbanistico, per derogare
alla norma statale, deve essere espressamente destinata alla
regolamentazione delle distanze dagli argini, esplicitando
le condizioni locali e le esigenze di tutela delle acque e
degli argini che giustifichino la determinazione di una
distanza maggiore o minore di quella indicata dalla norma
statale”.
5.2. Destituita di fondamento risulta anche la seconda
censura.
Come ha chiarito Cass. n. 5644 del 1979, “I divieti di
edificazione sanciti dall'art. 96, lett. F), del RD 25.07.1904, n. 523 (t.u. delle leggi sulle opere idrauliche), sono
precipuamente informati alla ragione pubblicistica di
assicurare la possibilità di sfruttamento delle acque
demaniali per i diversi usi disciplinati dalla speciale
legislazione sulle acque, o, comunque, di assicurare, ai
fini di pubblico interesse, il libero deflusso delle acque
scorrenti nei fiumi, torrenti, rivi, canali e scolatoi
pubblici: ne consegue che, qualora risulti oggettivamente
non sussistente una massa d'acqua pubblica suscettibile di
essere utilizzata ai suesposti fini pubblicistici, deve
escludersi la operatività, ad ogni effetto, dei divieti
predetti”.
Nella fattispecie, però, non risulta contestata la presenza
di una massa d’acqua, ossia il torrente Gombiera, e che la
stessa sia utilizzata da molte imprese (cfr. appello pag.
2), sicché risulta evidente la necessità di assicurarne il
libero decorso.
Pertanto, l’esercizio del potere risultava in concreto
vincolato, sicché l’atto per come formulato non si espone
alla censura di difetto di motivazione reiterata in seconde
cure
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.06.2014 n. 3283 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In tema di distacchi delle costruzioni dalle sedi
autostradali, il vincolo di inedificabilità a distanza
inferiore a 25 metri dal limite della zona di occupazione
dell'autostrada, imposto dall'art. 9 della legge 24.07.1961,
n. 729, si traduce in un divieto assoluto di edificazione.
In tale ipotesi, quindi, non è applicabile la previsione di
cui all'art. 32 della legge 28.02.1985, n. 47 -in base al
quale è ammissibile la sanatoria, anche tramite
silenzio-assenso, per le opere insistenti su aree vincolate
dopo l'esecuzione- bensì quella del successivo art. 33, che
non prevede la possibilità di sanatoria delle opere
realizzate in contrasto con un vincolo di inedificabilità
imposto in epoca anteriore all'esecuzione.
Ne consegue che la società concessionaria per la costruzione
di un'autostrada non perde l'interesse ad agire per il
rispetto della suddetta distanza anche in caso di
presentazione, da parte del privato, della domanda di
condono
Va respinta anche l’ultima doglianza, giacché è proprio
l’esistenza di una massa d’acqua della quale doveva essere
assicurato il libero deflusso e la presenza di una
costruzione in contrasto con il vincolo in questione a
giustificare il diniego di condono che non poteva essere
successivamente superato.
Non rileva infatti il richiamo operato all’art. 32, comma 1,
l. 47 del 1985, in quanto quest’ultimo non deroga l’autonoma
disciplina dettata dal successivo art. 33, comma 1, che
indica gli specifici vincoli che non possono comunque essere
superati, e che comportano l’impossibilità di rilascio del
provvedimento di condono (cfr. Cass. civ., Sez. III, 03.11.2010, n. 22422: “In tema di distacchi delle
costruzioni dalle sedi autostradali, il vincolo di inedificabilità a distanza inferiore a 25 metri dal limite
della zona di occupazione dell'autostrada, imposto dall'art.
9 della legge 24.07.1961, n. 729, si traduce in un
divieto assoluto di edificazione. In tale ipotesi, quindi,
non è applicabile la previsione di cui all'art. 32 della
legge 28.02.1985, n. 47 -in base al quale è
ammissibile la sanatoria, anche tramite silenzio-assenso,
per le opere insistenti su aree vincolate dopo l'esecuzione- bensì quella del successivo art. 33, che non prevede la
possibilità di sanatoria delle opere realizzate in contrasto
con un vincolo di inedificabilità imposto in epoca anteriore
all'esecuzione; ne consegue che la società concessionaria
per la costruzione di un'autostrada non perde l'interesse ad
agire per il rispetto della suddetta distanza anche in caso
di presentazione, da parte del privato, della domanda di
condono.”).
L’appello in esame va dunque respinto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.06.2014 n. 3283 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Secondo l’orientamento
costante di questo Consiglio, l'ordine di demolizione
dell'abuso edilizio, come tutti i provvedimenti sanzionatori
in materia, è atto vincolato alla constatata abusività, che
non richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni
d'interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una
motivazione circa la sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione d'illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto.
Né l’originario ricorrente si può dolere del ritardo con cui
è stato emanato il provvedimento di demolizione, che ha
consentito a suo vantaggio la perdurante illegittima
utilizzazione del bene realizzato sine titulo.
Ancora destituita di fondamento è la doglianza
con la quale si contesta il difetto di motivazione per non
essere stato indicato l’interesse pubblico prevalente.
Infatti, secondo l’orientamento costante di questo
Consiglio, l'ordine di demolizione dell'abuso edilizio, come
tutti i provvedimenti sanzionatori in materia, è atto
vincolato alla constatata abusività, che non richiede alcuna
specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico né
una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione circa la
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, non essendo configurabile alcun
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
d'illecito permanente, che il tempo non può legittimare in
via di fatto (ex multis, Cons. St, Sez. VI, 24.05.2013,
n. 2873).
Né l’originario ricorrente si può dolere del ritardo con cui
è stato emanato il provvedimento di demolizione, che ha
consentito a suo vantaggio la perdurante illegittima
utilizzazione del bene realizzato sine titulo
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.06.2014 n. 3282 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
In materia di inquinamento e conseguente bonifica, sussiste
l'assenza di una corresponsabilità del fallimento, anche
meramente omissiva, in relazione alle condotte poste in
essere dall'impresa fallita.
In primo luogo, proprio l'amministrazione comunale
evidenzia che l'ordinanza sindacale è rivolta al fallimento
in conseguenza dell'inottemperanza dell'impresa ad un
precedente provvedimento. In tal modo, si evidenzia
l'estraneità della curatela fallimentare alla determinazione
degli inconvenienti sanitari riscontrati nell'area.
In questo senso, si pone, del resto, anche una parte
della giurisprudenza amministrativa di primo grado, la quale
evidenzia l'assenza di una corresponsabilità del fallimento,
anche meramente omissiva, in relazione alle condotte poste
in essere dall'impresa fallita.
In secondo luogo, il riferimento alla disponibilità
giuridica degli oggetti, qualificati dal comune come rifiuti
inquinanti, non è sufficiente per imporre l'adempimento di
un obbligo gravante sull'impresa fallita.
Il potere di disporre dei beni fallimentari (secondo le
particolari regole della procedura concorsuale e sotto il
controllo del giudice delegato) non comporta necessariamente
il dovere di adottare particolari comportamenti attivi,
finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati
alla bonifica da fattori inquinanti.
In terzo luogo, poi, proprio il richiamo alla disciplina
del fallimento e della successione nei contratti evidenzia
che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più
strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore
fallito.
Non assume alcun rilievo la disposizione contenuta nell'art.
1576 del codice civile, poiché l'obbligo di mantenimento
della cosa in buono stato locativo riguarda i rapporti tra
conduttore e locatore e non si riverbera, direttamente, sui
doveri fissati da disposizioni dirette ad altro scopo.
Si deve aggiungere, poi, che il fallimento non è stato
autorizzato a proseguire l'attività precedentemente svolta
dall'impresa fallita. Pertanto, l'obbligo di bonifica del
sito non potrebbe essere nemmeno collegato allo svolgimento
di operazioni potenzialmente inquinanti.
-------------
L’art. 192, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 2006 recita:
“Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile
ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai
sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido
la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei
diritti della persona stessa, secondo le previsioni del
decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in materia di
responsabilità amministrativa delle persone giuridiche,
delle società e delle associazioni.”
Ai fini di un’eventuale applicazione della norma appena
trascritta si pone la questione di stabilire se il
Fallimento possa essere considerato alla stregua di un
soggetto “subentrato nei diritti” della società fallita.
Orbene, il Fallimento non può essere reputato un
“subentrante”, ossia un successore, dell’impresa sottoposta
alla procedura fallimentare.
La società dichiarata fallita, invero, conserva la propria
soggettività giuridica e rimane titolare del proprio
patrimonio: solo, ne perde la facoltà di disposizione, pur
sotto pena di inefficacia solo relativa dei suoi atti,
subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento (art.
42 R.D. n. 267/1942: “La sentenza che dichiara il
fallimento, priva dalla sua data il fallito
dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni
esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”; art.
44: “Tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da
lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono
inefficaci rispetto ai creditori”).
Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità
dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di
disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla
titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di
legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito
dagli organi della procedura (art. 31 R.D. n. 267/1942: “Il
curatore ha l'amministrazione del patrimonio fallimentare e
compie tutte le operazioni della procedura sotto la
vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori,
nell'ambito delle funzioni ad esso attribuite”).
Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo
sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito
(cfr. l’art. 72 R.D. n. 267/1942), in via generale “non è
rappresentante, né successore del fallito, ma terzo
subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per
l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge” (Cassazione
civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926).
Più ampiamente, la Suprema Corte ha difatti osservato quanto
segue: “Il fatto che alla curatela sia affidata
l'amministrazione del patrimonio del fallito, per fini
conservativi predisposti alla liquidazione dell'attivo ed
alla soddisfazione paritetica dei creditori, non comporta
affatto che sul curatore incomba l'adempimento di obblighi
facenti carico originariamente all'imprenditore, ancorché
relativi a rapporti tuttavia pendenti all'inizio della
procedura concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti
che la legge (sia esso il R.D. 16.03.1942 n.. 267, siano
esse leggi speciali) gli attribuisce e tra essi non è
ravvisabile alcun obbligo generale di subentro nelle
situazioni giuridiche passive di cui era onerato il fallito.
… Poiché in linea generale, come ricordato, il curatore,
nell'espletamento della pubblica funzione, non si pone come
successore o sostituto necessario del fallito, su di lui non
incombono né gli obblighi dal fallito inadempiuti
volontariamente o per colpa, né quelli che lo stesso non sia
stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della
procedura concorsuale, ancorché la scadenza di adempimento
avvenga in periodo temporale in cui lo stesso curatore possa
qualificarsi come datore di lavoro nei confronti degli
stessi dipendenti, o di alcuni di essi.”.
Per quanto esposto, dunque, nei confronti del Fallimento non
è ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo
potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto
dall’art. 194, comma 4, d.lgs. cit., della legittimazione
passiva rispetto agli obblighi di ripristino che l’articolo
stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del
proprietario versante in dolo o colpa.
2a- La Sezione, dato subito atto che è pacifico
che il Fallimento non sia stato autorizzato, nella specie,
alla prosecuzione dell’attività della società fallita, sul
thema decidendum non può non richiamarsi al proprio
precedente, motivato pronunciamento di cui alla decisione n.
4328 del 29.07.2003:
“12 La questione da esaminare … consiste nello stabilire se
la curatela fallimentare possa essere destinataria di
ordinanze sindacali dirette alla bonifica di siti inquinati,
per effetto del precedente comportamento omissivo o
commissivo dell'impresa fallita.
13 Al riguardo, il comune sostiene che la responsabilità del
fallimento deriva dalla inottemperanza ai precedenti
provvedimenti adottati nei confronti della società (…).
14 Inoltre, l'amministrazione espone che le "migliaia di
tonnellate dei pneumatici inquinanti", oggetto
dell'ordinanza impugnata, sono uscite dalla disponibilità
della società fallita, entrando a far parte della massa
fallimentare, gestita ed amministrata dal curatore.
15 In tal senso, secondo l'appellante, si pone un
orientamento giurisprudenziale, in forza del quale
l'adempimento dell'obbligo di smaltimento dei rifiuti grava
sulla curatela fallimentare (TAR Toscana, Prima Sezione, 03.03.1993, n. 196; Tar Toscana, Seconda Sezione, 28.04.2000, n. 780), poiché la disponibilità dei beni, anche di
quelli classificati come rifiuti nocivi, entra giuridicamente
nella titolarità del curatore e conseguentemente con essa
anche il dovere di rimuoverli in applicazione delle leggi
vigenti.
16 In termini più generali, il comune sostiene che il
fallimento subentra negli obblighi facenti capo all'impresa
fallita e, quindi, è tenuto all'adempimento dei doveri
derivanti dall'accertata responsabilità della stessa
impresa.
17 A tal fine, il comune appellante richiama, fra l'altro,
le disposizioni della legge fallimentare riguardanti la
prosecuzione dei contratti facenti capo all'impresa fallita.
18 Nessuno degli argomenti proposti è persuasivo.
19 In primo luogo, proprio l'amministrazione comunale
evidenzia che l'ordinanza sindacale è rivolta al fallimento
in conseguenza dell'inottemperanza dell'impresa ad un
precedente provvedimento. In tal modo, si evidenzia
l'estraneità della curatela fallimentare alla determinazione
degli inconvenienti sanitari riscontrati nell'area.
20 In questo senso, si pone, del resto, anche una parte
della giurisprudenza amministrativa di primo grado (TAR
Toscana, Sezione Terza, 01.08.2001, n. 1318), la quale
evidenzia l'assenza di una corresponsabilità del fallimento,
anche meramente omissiva, in relazione alle condotte poste
in essere dall'impresa fallita.
21 In secondo luogo, il riferimento alla disponibilità
giuridica degli oggetti, qualificati dal comune come rifiuti
inquinanti, non è sufficiente per imporre l'adempimento di
un obbligo gravante sull'impresa fallita.
Il potere di disporre dei beni fallimentari (secondo le
particolari regole della procedura concorsuale e sotto il
controllo del giudice delegato) non comporta necessariamente
il dovere di adottare particolari comportamenti attivi,
finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati
alla bonifica da fattori inquinanti.
22 In terzo luogo, poi, proprio il richiamo alla disciplina
del fallimento e della successione nei contratti evidenzia
che la curatela fallimentare non subentra negli obblighi più
strettamente correlati alla responsabilità dell'imprenditore
fallito.
Non assume alcun rilievo la disposizione contenuta nell'art.
1576 del codice civile, poiché l'obbligo di mantenimento
della cosa in buono stato locativo riguarda i rapporti tra
conduttore e locatore e non si riverbera, direttamente, sui
doveri fissati da disposizioni dirette ad altro scopo.
23 Si deve aggiungere, poi, che il fallimento non è stato
autorizzato a proseguire l'attività precedentemente svolta
dall'impresa fallita. Pertanto, l'obbligo di bonifica del
sito non potrebbe essere nemmeno collegato allo svolgimento
di operazioni potenzialmente inquinanti.
24 In definitiva, quindi, l'appello deve essere rigettato”
(C.d.S., Sez. V, n. 4328/2003 cit.).
La Sezione ha ribadito questa chiara impostazione con la
successiva decisione n. 3885 del 16.06.2009.
La nuova pronuncia, nel convalidare, sulla scia del riferito
precedente giurisprudenziale, l’atto dell’Amministrazione
che in un caso simile aveva escluso la legittimazione
passiva del curatore, ha puntualizzato che la soluzione
opposta “determinerebbe un sovvertimento del principio “chi
inquina paga" scaricando i costi sui creditori che non
presentano alcun collegamento con l'inquinamento”.
2b- Né l’impostazione così ribadita potrebbe essere ribaltata
in ragione del disposto dell’art. 192, comma 4, del d.lgs.
n. 152 del 2006.
Questo recita: “Qualora la responsabilità del fatto illecito
sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona
giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono
tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che
siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo
le previsioni del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231,
in materia di responsabilità amministrativa delle persone
giuridiche, delle società e delle associazioni.”
Ai fini di un’eventuale applicazione della norma appena
trascritta si pone la questione di stabilire se il
Fallimento della MARCONI possa essere considerato alla
stregua di un soggetto “subentrato nei diritti” della
società fallita.
Orbene, il Fallimento non può essere reputato un
“subentrante”, ossia un successore, dell’impresa sottoposta
alla procedura fallimentare.
La società dichiarata fallita, invero, conserva la propria
soggettività giuridica e rimane titolare del proprio
patrimonio: solo, ne perde la facoltà di disposizione, pur
sotto pena di inefficacia solo relativa dei suoi atti,
subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento (art.
42 R.D. n. 267/1942 : “La sentenza che dichiara il
fallimento, priva dalla sua data il fallito
dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni
esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”; art.
44: “Tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da
lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono
inefficaci rispetto ai creditori”).
Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità
dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di
disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla
titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di
legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito
dagli organi della procedura (art. 31 R.D. n. 267/1942: “Il
curatore ha l'amministrazione del patrimonio fallimentare e
compie tutte le operazioni della procedura sotto la
vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori,
nell'ambito delle funzioni ad esso attribuite”).
Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo
sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito
(cfr. l’art. 72 R.D. n. 267/1942), in via generale “non è
rappresentante, né successore del fallito, ma terzo
subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per
l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge” (Cassazione
civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926).
Più ampiamente, la Suprema Corte (sez. I, 14.09.1991,
n. 9605) ha difatti osservato quanto segue:
“Il fatto che alla curatela sia affidata l'amministrazione
del patrimonio del fallito, per fini conservativi
predisposti alla liquidazione dell'attivo ed alla
soddisfazione paritetica dei creditori, non comporta affatto
che sul curatore incomba l'adempimento di obblighi facenti
carico originariamente all'imprenditore, ancorché relativi a
rapporti tuttavia pendenti all'inizio della procedura
concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti che la
legge (sia esso il R.D. 16.03.1942 n.. 267, siano esse leggi
speciali) gli attribuisce e tra essi non è ravvisabile alcun
obbligo generale di subentro nelle situazioni giuridiche
passive di cui era onerato il fallito. … Poiché in linea
generale, come ricordato, il curatore, nell'espletamento
della pubblica funzione, non si pone come successore o
sostituto necessario del fallito, su di lui non incombono né
gli obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per
colpa, né quelli che lo stesso non sia stato in grado di
adempiere a causa dell'inizio della procedura concorsuale,
ancorché la scadenza di adempimento avvenga in periodo
temporale in cui lo stesso curatore possa qualificarsi come
datore di lavoro nei confronti degli stessi dipendenti, o di
alcuni di essi.”.
Per quanto esposto, dunque, nei confronti del Fallimento non
è ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo
potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto
dall’art. 194, comma 4, d.lgs. cit., della legittimazione
passiva rispetto agli obblighi di ripristino che l’articolo
stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del
proprietario versante in dolo o colpa.
2c- La Sezione deve conseguentemente concludere che gli
obblighi imposti dalle pregresse ordinanze sindacali nn.
33/2008 e n. 63/2008 non possono essere riversati sul
Fallimento della MARCONI (risultando privo di specifica
rilevanza il punto –peraltro controverso tra le parti- del
subentro del Fallimento nel rapporto locatizio instaurato
dalla società)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.06.2014 n. 3274 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Controlli
sostanziali sulle concessioni.
Servizi. La sentenza del Consiglio di Stato.
Nelle concessioni di servizi (gare
sottoposte ex articolo 30 del Codice dei contratti pubblici
solo al rispetto dei principi fondamentali desumibili dal
diritto comunitario e nazionale) la lex specialis può anche
non richiedere le dichiarazioni formali previste
dall'articolo 38 del Codice, purché, nella sostanza, i
requisiti di moralità siano comunque verificati dalla
stazione appaltante.
Nell'ottica della semplificazione formale degli adempimenti
che caratterizzano il procedimento di gara pubblica, (e con
l'obiettivo, richiamato anche dall'articolo 39 del decreto
Pa, di ridurre i casi di esclusione delle imprese per errori
formali), si è pronunciata la VI Sez. del Consiglio di Stato
nella
sentenza
27.06.02014 n. 3251,
in relazione alle formalità della lettera d'invito.
Il fatto trae spunto da una gara per l'affidamento del
servizio di installazione e fornitura di distributori
automatici di bevande e prodotti confezionati: tecnicamente
una concessione di servizi, come evidenziato anche dal Tar
Lazio, nella quale, secondo il parere del ricorrente,
avrebbero comunque dovuto trovare evidenza -in sede di
formalità della lettera d'invito- gli obblighi dichiarativi
sul possesso dei requisiti di moralità, in quanto l'articolo
38 del Codice è norma generale, relativa a un principio di
ordine pubblico economico che soddisfa l'esigenza di
affidabilità e moralità del contraente.
La sesta sezione del Consiglio di Stato ha invece rimarcato
la circostanza che la norma è un precetto generale -e
dunque applicabile a tutte le gare pubbliche indistintamente- ma nel caso specifico delle concessioni di servizi (nelle
quali la controprestazione a favore del concessionario
consiste unicamente nel diritto di gestire funzionalmente e
di sfruttare economicamente il servizio) questo principio
attiene al profilo sostanziale, alla necessità cioè che alla
gara possa partecipare un soggetto affidabile perché in
possesso dei requisiti di moralità; ma non anche al profilo
dichiarativo e formale, cioè alla sussistenza di un obbligo
legale di dichiarare comunque l'assenza di cause ostative.
In altri termini, ciò che per la legge rileva come atto
necessario non è tanto l'assolvimento di obblighi
dichiarativi formali quanto il controllo, in concreto, che
il partecipante alla gara possieda i requisiti. Per questa
ragione non è decisivo il fatto che il bando (o la lettera
d'invito) preveda il rilascio formale delle dichiarazioni
previste dall'articolo 38
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.07.2014). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA
PRIVATA: L'omissione
della comunicazione ex art. 10-bis l. 241/1990 di per sé non
giustifica l'annullamento di un atto, precluso invece, ai
sensi del successivo art. 21-octies, ove il contenuto di
esso non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato.
Per disporre l’annullamento è viceversa necessario quanto
nel caso presente non è avvenuto, ovvero che il privato non
si limiti a contestare l'omessa comunicazione, ma alleghi le
circostanze che avrebbe potuto sottoporre
all'Amministrazione, per indurla a determinarsi
diversamente.
In ordine logico, va scrutinato per primo il ricorso
740/2010, rivolto contro il diniego di sanatoria per gli
abusi edilizi contestati alle ricorrenti. Di esso è
infondato il primo motivo, imperniato sull’omissione
dell’avviso di reiezione dell’istanza di cui all’art. 10-bis
l. 241/1990, cd. prediniego.
L’omissione come fatto storico
è pacifica; risulta però nel caso di specie non rilevante,
sulla base dell’insegnamento giurisprudenziale, espresso da
ultimo da C.d.S. sez. IV 06.12.2013 n. 5818, secondo il
quale essa di per sé non giustifica l'annullamento di un
atto, precluso invece, ai sensi del successivo art.
21-octies, ove il contenuto di esso non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto adottato. Per disporre
l’annullamento è viceversa necessario quanto nel caso
presente non è avvenuto, ovvero che il privato non si limiti
a contestare l'omessa comunicazione, ma alleghi le
circostanze che avrebbe potuto sottoporre
all'Amministrazione, per indurla a determinarsi diversamente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.06.2014 n. 736 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Circa il cd. bonus volumetrico per il risparmio
energetico di cui alla l.r. Lombardia 20.04.1995 n. 26,
sussiste l’impossibilità di richiedere tale bonus
volumetrico in sede di sanatoria desumibile non solo e non
tanto dalla circolare applicativa dell’istituto, D.D.G.
07.08.2008 n. 8935, quanto dalla logica della norma di legge
che lo prevede: trattandosi di istituto premiale e
incentivante un’edilizia di qualità, appare corretto
riservarne l’applicazione a chi dall’origine si proponga di
realizzarla, e non utilizzarlo come ulteriore incentivo agli
abusi edilizi.
Parimenti, del ricorso 740/2010 è infondato anche il
secondo motivo, perché il diniego di sanatoria resiste alle
censure mossegli, nei termini di cui subito in dettaglio.
Incominciando dall’edificio A, va ricordato che le
ricorrenti si erano viste contestare i seguenti abusi,
desunti a contrario dal contenuto dell’ordinanza di
demolizione riportato in narrativa: (1.) ricavo di ulteriore
volumetria a disposizione rispetto al PDR approvato mediante
variazione delle altezze interne derivanti dall’abbassamento
del solaio del piano terra nonché (2.) mediante variazione
della quota dei solai interpiano; (3.) mutate disposizioni
dei fori delle finestre/porte finestre/porte rispetto al PDR approvato; (4.) mutate tipologie costruttive rispetto al
PDR approvato.
A fronte di ciò, il diniego di sanatoria osserva, quanto
all’abuso di cui ai punti (1) e (2) e alla richiesta delle
ricorrenti di sanarlo avvalendosi del cd. bonus volumetrico
per il risparmio energetico di cui alla l.r. Lombardia 20.04.1995 n. 26, che vi sarebbe stato anzitutto un errato
calcolo iniziale della superficie e della volumetria; rileva
poi che la normativa regionale per avvalersi del bonus
richiede di presentare l’apposita relazione tecnica con la
domanda originaria di rilascio del titolo o con una domanda
di variante in corso d’opera; non consente però di
presentarla a corredo di una domanda di sanatoria.
Quanto
agli abusi di cui ai punti 3 e 4, il diniego osserva poi che
l’edificio in base al PDR originario era soggetto all’art.
47 lettera f delle NTA di piano, che escludeva finiture e
materiali non tradizionali e non coerenti con l’esistente; è
ora soggetto alle norme sugli edifici storici di cui
all’art. 6 del Piano delle regole, e in base a tale
normativa non può recare il rivestimento di intonaco, le
cornici in marmo e i serramenti in alluminio in concreto
realizzati.
Le ricorrenti replicano quanto agli abusi (1) e (2) in
sintesi che il calcolo sarebbe corretto, e che la richiesta
di bonus potrebbe farsi anche in sanatoria; quanto agli
abusi (3) e (4), che le prescrizioni evidenziate dal Comune
sarebbero solo indicative, ma nessuna di tali censure è
fondata.
Sul primo punto, abusi (1) e (2), le ricorrenti (ricorso,
pp. 13 e 14) deducono che invece il calcolo sarebbe
corretto, ma si tratta di contestazione generica, non
corredata di una dimostrazione dei presunti errori compiuti
dal Comune, dimostrazione che le ricorrenti avevano tutti
gli elementi per fornire e dovevano quindi allegare in base
al noto principio di vicinanza della prova, sul quale v. per
tutte da ultimo Cass. civ. sez. III 14.01.2014 n. 65.
L’impossibilità di richiedere il bonus volumetrico in sede
di sanatoria è poi desunta non solo e non tanto dalla
circolare applicativa dell’istituto, D.D.G. 07.08.2008
n. 8935, quanto dalla logica della norma di legge che lo
prevede: trattandosi di istituto premiale e incentivante
un’edilizia di qualità, appare corretto riservarne
l’applicazione a chi dall’origine si proponga di
realizzarla, e non utilizzarlo come ulteriore incentivo agli
abusi edilizi (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.06.2014 n. 736 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI
PROGETTUALI: Il
conferimento da parte di un ente pubblico di incarico a un
professionista non inserito nella struttura organica
dell’ente medesimo (e che mantenga, pertanto, la propria
autonomia e l’iscrizione al relativo albo) costituisce
espressione non di una potestà amministrativa, bensì di
semplice autonomia privata, ed è funzionale
all’instaurazione di un rapporto di cosiddetta
parasubordinazione -da ricondurre pur sempre al lavoro
autonomo- pur nell’ipotesi in cui la collaborazione assuma
carattere continuativo, e il professionista riceva direttive
e istruzioni dall’ente, onde anche la successiva delibera di
revoca dell’incarico riveste natura non autoritativa ma di
recesso contrattuale, con conseguente attribuzione della
controversia al giudice ordinario.
- Rilevato che nell’odierna controversia il ricorrente
contesta, impugnando tutti gli atti in epigrafe indicati, la
legittimità della revoca dell'incarico di progettazione e
direzione di lavori pubblici a lui conferito nel 2012 dal
Comune di Palma di Montechiaro, nonché l’affidamento dello
stesso a dei professionisti interni;
-
Ritenuto che, secondo il consolidato indirizzo
giurisprudenziale delle Sezioni unite della Corte di
Cassazione (cfr. sentt. 03.07.2006 n. 15199, 03.01.2007 n. 4 ed ancora, di recente, 19.11.2012, n.
20222), condiviso dal Consiglio di Stato (cfr. sent. V, 12.06.2009, n. 3737) e dal C.G.A. (cfr. sent.
06.05.2008, n. 390 e 31.05.2011, n. 402), "… il conferimento
da parte di un ente pubblico di incarico a un professionista
non inserito nella struttura organica dell’ente medesimo (e
che mantenga, pertanto, la propria autonomia e l’iscrizione
al relativo albo) costituisce espressione non di una potestà
amministrativa, bensì di semplice autonomia privata, ed è
funzionale all’instaurazione di un rapporto di cosiddetta
parasubordinazione -da ricondurre pur sempre al lavoro
autonomo- pur nell’ipotesi in cui la collaborazione assuma
carattere continuativo, e il professionista riceva direttive
e istruzioni dall’ente, onde anche la successiva delibera di
revoca dell’incarico riveste natura non autoritativa ma di
recesso contrattuale, con conseguente attribuzione della
controversia al giudice ordinario" (in termini, di recente,
Tar Palermo, II, 23.05.2014, n. 1342);
-
che, pertanto, il ricorso va dichiarato inammissibile per
difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in
favore del giudice ordinario, anche ai sensi e per gli
effetti dell’art. 11 c.p.a.
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 26.06.2014 n. 1657 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
Notifiche-Pec, non c'è l'intesa. Nulli gli avvisi
di accertamento via posta elettronica.
Una sentenza della Ctp di Milano: il vizio è di
inesistenza quindi non sanabile dal ricorso.
Gli avvisi di accertamento notificati a mezzo Pec sono
nulli. La possibilità di notificare gli atti impositivi per
posta elettronica certificata non è prevista da alcuna norma
e la procedura è quindi inesistente, poiché esce
completamente al di fuori dello schema legale. Il vizio non
è sanabile dalla proposizione del ricorso, in quanto
trattasi di inesistenza e non di nullità.
Con queste conclusioni, che si leggono nella
sentenza
24.06.2014 n.
6087/21/14, la Ctp di Milano ha
annullato un avviso di accertamento emesso dall'Agenzia
delle dogane.
L'atto in questione era stato notificato per
il tramite della posta elettronica certificata. Per questa
ragione, la società accertata adiva i giudici tributari
meneghini, eccependo la nullità derivata del provvedimento,
come effetto dell'inesistenza della sua notificazione. Il
ricorso ha trovato pieno accoglimento, con compensazione
delle spese di giudizio in ragione della novità delle
questioni trattate.
È opportuno rammentare che la notificazione degli atti
tributari via Pec è stata introdotta dal legislatore con
l'art. 38, comma 4, lett. b), dl 31.05.2010, n. 78
(convertito con legge n. 122/2010), che ha aggiunto
all'articolo 26 del dpr n. 602/1973 il comma 2.
Tale norma, tuttavia, è specificamente riferita alle
cartelle di pagamento e non può essere applicata agli altri
atti.
«È pacifico», si legge nelle motivazioni, «che l'avviso sia
stato inviato alla ricorrente a mezzo posta elettronica
certificata, che erroneamente l'Agenzia parifica alla
notifica per posta». L'amministrazione resistente ha tentato
di difendere il proprio operato sostenendo che, ad ogni
modo, l'imperfezione della procedura di notificazione
risulta sanata dalla tempestiva proposizione del ricorso,
sintomo del fatto che il contribuente sia venuto a
conoscenza della pretesa e l'atto abbia quindi raggiunto il
proprio scopo.
Tali argomentazioni, però, non hanno convinto
il giudice tributario, che ha inquadrato il vizio come
«inesistenza» (non sanabile) piuttosto che «nullità». La Ctp
richiama in tal senso un principio della Suprema corte
secondo cui «una notificazione può dirsi giuridicamente
inesistente quando il relativo atto esce completamente dallo
schema legale degli atti di notificazione, ossia quando
difettano totalmente gli elementi caratterizzanti che
consentono la qualificazione di atto sostanzialmente
conforme al modello legale delle notificazioni».
Esperita
detta premessa, la sentenza aggiunge che «la notifica a
mezzo Pec, se non espressamente prevista da una norma, deve
ritenersi esca fuori dal modello legale delle
notificazioni», e ancora, «nessuna norma autorizza che possa
avvenire la notifica di un accertamento e/o di una rettifica
a mezzo Pec». Dunque, «trattandosi di inesistenza della
notifica e non di nullità, non può trovare applicazione la
sanatoria invocata dall'Ufficio doganale».
In conclusione, può dirsi che la possibilità di notificare
gli atti tributari via Pec riguardi esclusivamente le
cartelle di pagamento emesse da Equitalia, mentre rimane
completamente esclusa per ogni altro tipo di provvedimento.
Il difetto di notifica, secondo quanto si legge nella
sentenza in commento, può essere fatto valere impugnando
direttamente l'atto notificato, poiché trattasi di
inesistenza non sanabile con la proposizione del ricorso,
sebbene tale ultimo profilo sia in verità assai dibattuto
nella giurisprudenza tributaria, di merito e legittimità
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014). |
COMPETENZE
GESTIONALI:
L’organo consiliare elettivo è chiamato ad
esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di
rilievo generale, che si traducono in atti fondamentali,
tassativamente elencati nell’art. 42 del D. Lgs. 18.08.2000,
n. 267, laddove la giunta comunale ha una competenza
residuale, potendo compiere tutti gli atti che dalla legge
non sono riservati al consiglio comunale ovvero che non
ricadono, secondo le previsioni legislative o dello statuto,
nelle competente del Sindaco.
---------------
Con riferimento ad una fattispecie di decadenza del privato
da una convenzione attributiva del diritto di superficie è
stato affermato che, mentre spetta al consiglio comunale, ai
sensi del citato articolo 42, di esprimere gli indirizzi
politici ed amministrativi di rilievo generale e gli atti
fondamentali di natura programmatoria, tra cui gli atti di
disposizione del patrimonio immobiliare, compresa
l'approvazione della cessione del diritto di superficie di
aree di proprietà comunale, rientra nella competenza della
Giunta, ai sensi del successivo art. 48 del D.Lgs. n. 267
del 2000, l’attuazione degli indirizzi generali dell’organo
consiliare, ivi compresa la deliberazione di decadenza (del
privato dalla convenzione che attribuisce il diritto di
superficie), tale deliberazione non potendo essere
considerata un "contrarius actus" non contenendo una diversa
(e contraria) volontà rispetto a quella (originariamente)
manifestata dall'organo consiliare, ma costituendo piuttosto
una esecuzione dell'indirizzo generale del Consiglio
trasfuso nella convenzione.
Infatti, secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo per
discostarsi, l’organo consiliare elettivo è chiamato ad
esprimere gli indirizzi politici ed amministrativi di
rilievo generale, che si traducono in atti fondamentali,
tassativamente elencati nell’art. 42 del D. Lgs. 18.08.2000, n. 267, laddove la giunta comunale ha una competenza
residuale, potendo compiere tutti gli atti che dalla legge
non sono riservati al consiglio comunale ovvero che non
ricadono, secondo le previsioni legislative o dello statuto,
nelle competente del Sindaco (Cons. St., sez. V, 13.12.2005, n. 7058, più recentemente
ex multis, sez. V, 15.07.2013, n. 3809; 02.02.2012, n. 539).
Con riferimento ad una fattispecie di decadenza del privato
da una convenzione attributiva del diritto di superficie è
stato affermato che, mentre spetta al consiglio comunale, ai
sensi del citato articolo 42, di esprimere gli indirizzi
politici ed amministrativi di rilievo generale e gli atti
fondamentali di natura programmatoria, tra cui gli atti di
disposizione del patrimonio immobiliare, compresa
l'approvazione della cessione del diritto di superficie di
aree di proprietà comunale, rientra nella competenza della
Giunta, ai sensi del successivo art. 48 del D.Lgs. n. 267
del 2000, l’attuazione degli indirizzi generali dell’organo
consiliare, ivi compresa la deliberazione di decadenza (del
privato dalla convenzione che attribuisce il diritto di
superficie), tale deliberazione non potendo essere
considerata un "contrarius actus" non contenendo una diversa
(e contraria) volontà rispetto a quella (originariamente)
manifestata dall'organo consiliare, ma costituendo piuttosto
una esecuzione dell'indirizzo generale del Consiglio
trasfuso nella convenzione (Cons. St., sez. V, 17.09.2010,
n. 6982)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.06.2014 n. 3137 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In tema di risoluzione di
un contratto a prestazioni corrispettive, sebbene sia stato
affermato che la gravità dell’inadempimento deve essere
accertata non solo in relazione all’entità oggettiva
dell’inadempimento stesso, ma anche con riguardo
all’interesse che l’altra parte intende realizzare e sulla
base, quindi, di un criterio che consenta di coordinare
l’elemento oggettivo della mancata prestazione, nel quadro
dell’economia generale del contratto, con gli elementi
soggettivi, è stato anche rilevato che la valutazione, ai
sensi e per gli effetti dell’art. 1455 c.c., della non
scarsa importanza dell’inadempimento, deve ritenersi
implicita ove l’inadempimento stesso si sia verificato con
riguardo alle obbligazioni primarie ed essenziali del
contratto.
Inoltre, è stato evidenziato che il principio sancito
dall’art. 1455 c.c., secondo cui il contratto non può essere
risolto se l’inadempimento ha scarsa importanza in relazione
all’interesse dell’altra parte, deve essere coordinato ed
ancorato ad un criterio di proporzione fondato sulla buona
fede contrattuale, con la conseguenza che la gravità
dell’inadempimento di una parte non può essere commisurata
unicamente all’entità del danno, che potrebbe anche mancare,
ma anche alla rilevanza della violazione del contratto con
riferimento alla volontà manifestata dai contraenti, alla
natura e alla finalità del rapporto, nonché al concreto
interesse dell’altra parte alla esatta e tempestiva
prestazione.
La Sezione osserva che,
in tema di risoluzione di un contratto a prestazioni
corrispettive, sebbene sia stato affermato che la gravità
dell’inadempimento deve essere accertata non solo in
relazione all’entità oggettiva dell’inadempimento stesso, ma
anche con riguardo all’interesse che l’altra parte intende
realizzare e sulla base, quindi, di un criterio che consenta
di coordinare l’elemento oggettivo della mancata
prestazione, nel quadro dell’economia generale del
contratto, con gli elementi soggettivi (Cass. civ., sez. II,
06.03.2012, n. 3477), è stato anche rilevato che la
valutazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1455 c.c.,
della non scarsa importanza dell’inadempimento, deve
ritenersi implicita ove l’inadempimento stesso si sia
verificato con riguardo alle obbligazioni primarie ed
essenziali del contratto (Cass. civ., sez. I, 28.10.2011, n. 22521; 23.01.2006, n. 1227).
Inoltre, è stato evidenziato (Cass. civ., sez. III, 28.06.2010, n. 14363) che il principio sancito dall’art.
1455 c.c., secondo cui il contratto non può essere risolto
se l’inadempimento ha scarsa importanza in relazione
all’interesse dell’altra parte, deve essere coordinato ed
ancorato ad un criterio di proporzione fondato sulla buona
fede contrattuale, con la conseguenza che la gravità
dell’inadempimento di una parte non può essere commisurata
unicamente all’entità del danno, che potrebbe anche mancare,
ma anche alla rilevanza della violazione del contratto con
riferimento alla volontà manifestata dai contraenti, alla
natura e alla finalità del rapporto, nonché al concreto
interesse dell’altra parte alla esatta e tempestiva
prestazione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.06.2014 n. 3137 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In sede di gara
d'appalto, laddove le necessarie dichiarazioni rese ex art.
38, d.lgs. n. 163 del 2006 siano presenti, la relativa
rilevanza non può reputarsi incisa dalla mera presenza della
precisazione «per quanto a sua conoscenza», in quanto se la
dichiarazione assume tutti i connotati necessari ai sensi
dell'art. 38 cit., l'inciso predetto, all'evidenza, non fa
che ribadire, in termini tanto informali quanto comunque
irrilevanti ai fini di contestazione giurisdizionale, ciò
che è proprio di ogni dichiarazione resa da un soggetto, il
quale riferisce ciò che è a propria conoscenza.
---------------
La dichiarazione sostitutiva (autocertificazione) richiesta
dall'art. 38 d.lgs. 12.04.2006 n. 163 al legale
rappresentante delle imprese concorrenti alle gare per
l'affidamento di appalti pubblici, relativamente ai soggetti
cessati dalle cariche sociali, previste dal medesimo art.
38, nel triennio antecedente (e concernente l'assenza di
atti o fatti impeditivi espressamente indicati dalla
medesima disposizione) deve sicuramente indicare tutti tali
soggetti, identificandoli compiutamente, e tuttavia, in
quanto concernente stati, fatti e qualità riguardanti terzi,
e non il medesimo dichiarante, non può che essere resa, ai
sensi dell'art. 47, t.u. 28.12.2000 n. 445 "per quanto a
conoscenza" del dichiarante medesimo, senza che questi sia
neppure tenuto (né l'eventuale omissione può costituire
causa di esclusione dalla gara) a indicare le ragioni per le
quali non ha potuto produrre le dichiarazioni dei diretti
interessati, ben potendo, invece, l'amministrazione -a
fronte di una compiuta identificazione di questi ultimi-
procedere essa alle opportune verifiche, anche attraverso il
casellario giudiziale e altri archivi pubblici ai quali la
stessa, a differenza del dichiarante, ha accesso; inoltre
gli obblighi gravanti sul legale rappresentate vanno
valutati in termini di buona fede quando i fatti da
attestare riguardano soggetti cessati dalla carica, e dunque
ormai terzi rispetto alla società dichiarante.
Con il primo mezzo di censura l'Istituto di
Vigilanza Cannas deduce l'erroneità della gravata sentenza,
laddove ha ritenuto conforme alle prescrizioni del bando la
dichiarazione sostitutiva relativa all'insussistenza di
alcuna delle ipotesi di cui all'art. 38, comma 1, del D.Lgs.
163/2006 resa dal legale rappresentante di GPR Security, per
quanto a propria conoscenza, relativamente ai soggetti
cessati dalle cariche sociali.
Assume, al riguardo, che l'art. 5.1 del bando richiede a
pena di esclusione che la dichiarazione sia resa o dai
soggetti cessati dalle cariche oppure dall'attuale legale
rappresentante ma, in questo caso, specificando le
circostanze che rendono impossibile o eccessivamente gravosa
la produzione della dichiarazione da parte dei soggetti
interessati.
Nel caso di specie, viceversa, la dichiarazione sostitutiva
non indica le dette circostanze e la violazione di tale
prescrizione avrebbe quindi dovuto condurre all'esclusione
della GPR Security dalla procedura di gara.
La doglianza non può essere condivisa.
Ed invero, in primo luogo, la dichiarazione come resa è
sufficiente a dare conto dell'insussistenza di alcuna delle
ipotesi di cui al citato art. 38, comma 1 e, correttamente,
il primo giudice ha argomentato al riguardo che "in sede di
gara d'appalto, laddove le necessarie dichiarazioni rese ex
art. 38, d.lgs. n. 163 del 2006 siano presenti, la relativa
rilevanza non può reputarsi incisa dalla mera presenza della
precisazione «per quanto a sua conoscenza», in quanto se la
dichiarazione assume tutti i connotati necessari ai sensi
dell'art. 38 cit., l'inciso predetto, all'evidenza, non fa
che ribadire, in termini tanto informali quanto comunque
irrilevanti ai fini di contestazione giurisdizionale, ciò
che è proprio di ogni dichiarazione resa da un soggetto, il
quale riferisce ciò che è a propria conoscenza.".
In secondo luogo, secondo l’insegnamento della
giurisprudenza, anche della Sezione, da cui non sussiste
motivo per discostarsi, “la dichiarazione sostitutiva
(autocertificazione) richiesta dall'art. 38 d.lgs. 12.04.2006 n. 163 al legale rappresentante delle imprese
concorrenti alle gare per l'affidamento di appalti pubblici,
relativamente ai soggetti cessati dalle cariche sociali,
previste dal medesimo art. 38, nel triennio antecedente (e
concernente l'assenza di atti o fatti impeditivi
espressamente indicati dalla medesima disposizione) deve
sicuramente indicare tutti tali soggetti, identificandoli
compiutamente, e tuttavia, in quanto concernente stati,
fatti e qualità riguardanti terzi, e non il medesimo
dichiarante, non può che essere resa, ai sensi dell'art. 47,
t.u. 28.12.2000 n. 445 "per quanto a conoscenza" del
dichiarante medesimo, senza che questi sia neppure tenuto
(né l'eventuale omissione può costituire causa di esclusione
dalla gara) a indicare le ragioni per le quali non ha potuto
produrre le dichiarazioni dei diretti interessati, ben
potendo, invece, l'amministrazione -a fronte di una
compiuta identificazione di questi ultimi- procedere essa
alle opportune verifiche, anche attraverso il casellario
giudiziale e altri archivi pubblici ai quali la stessa, a
differenza del dichiarante, ha accesso; inoltre gli obblighi
gravanti sul legale rappresentate vanno valutati in termini
di buona fede quando i fatti da attestare riguardano
soggetti cessati dalla carica, e dunque ormai terzi rispetto
alla società dichiarante” (sez. IV, 22.03.2012, n. 1646;
sez. V, 20.06.2011, n. 3686).
Infine, come correttamente rilevato dal Tar, la domanda di
partecipazione e le relative dichiarazioni sono state
redatte dal legale rappresentante della GPR Security
compilando diligentemente i moduli allegati al disciplinare
di gara e, di questi, né il Modello 1 che titola "Istanza
di partecipazione a procedura aperta Dichiarazione in ordine
al possesso dei requisiti", né il Modello 2 relativo alle
"Dichiarazioni personali" riportano o richiamano la
prescrizione di cui all'art. 5.1. del bando circa le
specifiche modalità con cui rendere la dichiarazione ai
sensi dell'art. 38 del D.Lgs. 163/2006.
Pertanto, in ossequio ai principi di tutela dell'affidamento
e della più ampia partecipazione alle gare ad evidenza
pubblica, deve ragionevolmente escludersi che la discrepanza
tra le prescrizioni del bando ed i modelli a questo allegati
si risolva a scapito dei concorrenti che hanno
incolpevolmente confidato sulla completezza della
modulistica predisposta dalla stessa stazione appaltante
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.06.2014 n. 3132 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In sede di adozione e/o
approvazione di uno strumento urbanistico generale le scelte
di zonizzazione dell’Amministrazione costituiscono
apprezzamento di merito e/o sono caratterizzate da un
amplissimo margine di discrezionalità, sottratto al
sindacato di legittimità del Giudice Amministrativo, eccetto
i casi in cui siano inficiate da errori di fatto e/o da
abnormi illogicità o palese irragionevolezza.
Inoltre, lo stesso orientamento giurisprudenziale precisa
che le scelte discrezionali, contenute in uno strumento
urbanistico generale, non necessitano di una motivazione
specifica, eccetto alcuni casi, come per es. il superamento
degli standards minimi di cui al D.M. n. 1444 del 02.04.1968
o con riferimento a terreni già oggetto di convenzione di
lottizzazione e/o di provvedimenti di diniego di permesso di
costruire, annullati dal Giudice Amministrativo.
---------------
Le variazioni apportate allo strumento urbanistico adottato,
derivanti dall’accoglimento delle osservazioni e/o
opposizioni presentate dai soggetti privati, comportano
l’obbligo di riadottare lo strumento urbanistico, con la
ripetizione di una nuova fase di pubblicazione, per
consentire ai soggetti privati la presentazione di eventuali
ulteriori osservazioni e/o opposizioni, esclusivamente
nell’ipotesi, insussistente nella specie, in cui
l’accoglimento delle osservazioni abbia comportato una
profonda deviazione dai criteri posti a base dello stesso
piano.
Parimenti sussiste l’obbligo della riadozione dello
strumento urbanistico e della sua nuova pubblicazione nel
caso di variazioni delle previsioni dello strumento
urbanistico adottato, che non derivano dall’accoglimento
delle osservazioni e/o opposizioni dei soggetti privati o
dalle osservazioni formulate dalla Regione, ma da modifiche
apportate d’ufficio dal Comune, come quelle che per es.
modificano il regime giuridico dei terreni da privato a
pubblico, in quanto in tal caso i soggetti privati
verrebbero privati del potere, garantito dall’ordinamento
giuridico, di presentare osservazioni e/o opposizioni.
Il primo motivo di impugnazione non può essere
accolto, in quanto, secondo un pacifico orientamento
giurisprudenziale (sul punto cfr. le Sentenze di questo
Tribunale nn. 596, 597, 598, 600 e 602 del 16.12.2011), in
sede di adozione e/o approvazione di uno strumento
urbanistico generale le scelte di zonizzazione
dell’Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito
e/o sono caratterizzate da un amplissimo margine di
discrezionalità, sottratto al sindacato di legittimità del
Giudice Amministrativo, eccetto i casi in cui siano
inficiate da errori di fatto e/o da abnormi illogicità o
palese irragionevolezza.
Inoltre, lo stesso orientamento giurisprudenziale precisa
che le scelte discrezionali, contenute in uno strumento
urbanistico generale, non necessitano di una motivazione
specifica, eccetto alcuni casi, come per es. il superamento
degli standards minimi di cui al D.M. n. 1444 del 02.04.1968 o
con riferimento a terreni già oggetto di convenzione di
lottizzazione e/o di provvedimenti di diniego di permesso di
costruire, annullati dal Giudice Amministrativo (cfr. C.d.S.
Ad. Plen. Sent. n. 1 dell’08.01.1986).
---------------
Il terzo motivo di
impugnazione non coglie nel segno, in quanto, secondo un
condivisibile orientamento giurisprudenziale (cfr. C.d.S.
Sez. IV Sent. n. 5357 dell’11.10.2007; C.d.S. Sez. IV Sent.
n. 4984 del 05.09.2004; C.d.S. Sez. IV Sent. n. 4980 del
05.09.2004; C.d.S. Sez. IV Sent. n. 6178 del 20.11.2000; TAR
Pescara Sent. n. 30 del 12.01.2009; TAR Piemonte Sez. I sent.
n. 2074 del 25.09.2008; TAR Catania Sez. I sent. n. 1395 del
06.09.2007; TAR Brescia Sent. n. 862 del 04.07.2006; TAR Marche
Sent. n. 1505 del 27.09.2004; TAR Pescara Sent. n. 16 del
15.01.2004; TAR Bologna Sez. I Sent. n. 2731 del 22.12.2003),
le variazioni apportate allo strumento urbanistico adottato,
derivanti dall’accoglimento delle osservazioni e/o
opposizioni presentate dai soggetti privati, comportano
l’obbligo di riadottare lo strumento urbanistico, con la
ripetizione di una nuova fase di pubblicazione, per
consentire ai soggetti privati la presentazione di eventuali
ulteriori osservazioni e/o opposizioni, esclusivamente
nell’ipotesi, insussistente nella specie, in cui
l’accoglimento delle osservazioni abbia comportato una
profonda deviazione dai criteri posti a base dello stesso
piano.
Parimenti sussiste l’obbligo della riadozione dello
strumento urbanistico e della sua nuova pubblicazione nel
caso di variazioni delle previsioni dello strumento
urbanistico adottato, che non derivano dall’accoglimento
delle osservazioni e/o opposizioni dei soggetti privati o
dalle osservazioni formulate dalla Regione, ma da modifiche
apportate d’ufficio dal Comune, come quelle che per es.
modificano il regime giuridico dei terreni da privato a
pubblico, in quanto in tal caso i soggetti privati
verrebbero privati del potere, garantito dall’ordinamento
giuridico, di presentare osservazioni e/o opposizioni
(TAR Basilicata,
sentenza 23.06.2014 n. 414 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Deve ritenersi che le associazioni di
volontariato e/o le ONLUS hanno la capacità di svolgere
attività commerciali e produttive e, dunque, possono anche
partecipare ai procedimenti di evidenza pubblica, quando non
risulta dimostrato che la partecipazione al relativo appalto
pubblico non abbia il carattere della marginalità.
Ad ulteriore riprova della circostanza che non vi sia alcuna
norma, che impedisce alle associazioni di volontariato e/o
alle ONLUS di partecipare ai procedenti di evidenza
pubblica, il medesimo orientamento giurisprudenziale ha
evidenziato che il D.Lg.vo n. 155/2006 ha qualificato tali
persone giuridiche come “imprese sociali”, riconoscendo ad
esse la legittimazione ad esercitare in via stabile e
principale un’attività economica organizzata, anche se non
lucrativa, per la produzione e lo scambio di beni o di
servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità
d'interesse generale.
Inoltre, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la
Sentenza del 23.12.2009 nella causa n. 305/2008 ha ribadito
che la normativa comunitaria deve essere interpretata nel
senso che non può essere impedita la partecipazione alle
gare di pubblici appalti ai “soggetti che non perseguono
preminente scopo di lucro, non dispongono della struttura
organizzativa di un’impresa e non assicurano una presenza
regolare sul mercato”.
Pertanto, dopo quest’ultima Sentenza il Giudice
Amministrativo ha stabilito che l’assenza di fini di lucro
non esclude che le associazioni di volontariato e/o le
ONLUS, anche se non iscritte alla Camera di Commercio o al
Registro delle imprese, possano esercitare un’attività
economica non costituendo l’iscrizione alla CCIAA un
requisito indefettibile di partecipazione alle gare di
appalto.
Secondo un consistente orientamento
giurisprudenziale, formatosi al momento della proposizione
del ricorso in esame, doveva essere impedita la
partecipazione alle gare di appalti pubblici alle
Associazioni di Volontariato e/o alle Organizzazioni non
lucrative di utilità sociale (cd. ONLUS), in quanto ciò
avrebbe provocato “un’alterazione della logica di mercato ed
una turbativa al principio della libera concorrenza, a causa
delle particolari agevolazioni fiscali di cui godono per il
carattere non commerciale della loro attività istituzionale,
non applicabili alle Cooperative: cfr. artt. 111, 111-bis e
111-ter DPR n. 917 del 22.12.1987 e le norme in materia di
esenzione dall’IVA” (sul punto cfr. per es. TAR Lombardia
Sez. III n. 1869 del 03.03.2000; TAR Lecce Sez. II n. 5806 del
05.09.2003; TAR Piemonte Sez. II n. 1043 del 18.04.2005; TAR
Napoli Sez. I n. 3109 del 21.03.2006; TAR Piemonte Sez. II n.
2323 del 12.06.2006; TAR Piemonte Sez. II n. 3330 del
04.10.2006; TAR Veneto Sez. I n. 2034 del 25.06.2007; TAR
Napoli Sez. I n. 1666 del 31.03.2008; CONTRA TAR Piemonte
Sez. II n. 2427 del 15.12.2001).
Tale orientamento giurisprudenziale è stato, però,
successivamente superato dal Giudice Amministrativo (cfr. da
ultimo C.d.S. Sez. III n. 2056 del 15.04.2013; C.d.S. Sez. VI
n. 387 del 23.01.2013), con la statuizione che le
associazioni di volontariato possono essere aggiudicatarie
di gare di pubblici appalti, in quanto l’assenza di fine di
lucro non è di per sé ostativa della partecipazione ad
appalti pubblici.
Ciò, in seguito all’affermazione della Corte di Giustizia
dell’Unione Europea -Sentenza del 29.11.2007 nella causa n.
119/2006- secondo cui “l’assenza di fini di lucro non
esclude che le associazioni di volontariato esercitino
un’attività economica e costituiscano imprese ai sensi delle
disposizioni del Trattato istitutivo dell’Unione Europea
relative alla concorrenza”.
Il più recente orientamento giurisprudenziale sul punto ha
anche rilevato che l’assenza di preclusioni alla
partecipazione alle gare di pubblici appalti delle
associazioni di volontariato si evince anche dall’art. 5,
comma 1, della L. n. 266/1991, in quanto tale norma,
nell’indicare le risorse economiche delle ONLUS, menziona,
oltre ai “rimborsi derivanti dalle convenzioni” (cfr. lett.
F), anche le “entrate derivanti da attività commerciali e
produttive marginali” (cfr. lett. G).
Perciò, deve ritenersi che le associazioni di volontariato
e/o le ONLUS hanno la capacità di svolgere attività
commerciali e produttive e, dunque, possono anche
partecipare ai procedimenti di evidenza pubblica, quando non
risulta dimostrato che la partecipazione al relativo appalto
pubblico non abbia il carattere della marginalità.
Ad ulteriore riprova della circostanza che non vi sia alcuna
norma, che impedisce alle associazioni di volontariato e/o
alle ONLUS di partecipare ai procedenti di evidenza
pubblica, il medesimo orientamento giurisprudenziale ha
evidenziato che il D.Lg.vo n. 155/2006 ha qualificato tali
persone giuridiche come “imprese sociali”, riconoscendo ad
esse la legittimazione ad esercitare in via stabile e
principale un’attività economica organizzata, anche se non
lucrativa, per la produzione e lo scambio di beni o di
servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità
d'interesse generale.
Inoltre, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la
Sentenza del 23.12.2009 nella causa n. 305/2008 ha
ribadito che la normativa comunitaria deve essere
interpretata nel senso che non può essere impedita la
partecipazione alle gare di pubblici appalti ai “soggetti
che non perseguono preminente scopo di lucro, non dispongono
della struttura organizzativa di un’impresa e non assicurano
una presenza regolare sul mercato”.
Pertanto, dopo quest’ultima Sentenza il Giudice
Amministrativo (cfr. C.d.S. Sez. V n. 6528 del 10.9.2010;
C.d.S. Sez. V n. 5956 del 26.08.2010; TAR Milano Sez. I n.
2614 del 03.11.2011) ha stabilito che l’assenza di fini di
lucro non esclude che le associazioni di volontariato e/o le
ONLUS, anche se non iscritte alla Camera di Commercio o al
Registro delle imprese, possano esercitare un’attività
economica non costituendo l’iscrizione alla CCIAA un
requisito indefettibile di partecipazione alle gare di
appalto.
Pertanto, va annullato l’impugnato provvedimento di
esclusione dalla gara dell’Associazione di Volontariato
Croce Bianca e da tale annullamento discende automaticamente
che l’aggiudicazione dell’appalto in questione spettava alla
ricorrente, poiché, tra i due concorrenti rimasti in gara,
era quella che aveva offerto il prezzo più basso
(TAR Basilicata,
sentenza 23.06.2014 n. 411 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L’art. 9 della legge n. 447/95, in presenza di
eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute
pubblica o dell'ambiente, attribuisce al Sindaco, al
Presidente della Provincia, al Presidente della Giunta
regionale, al Prefetto, al Ministro dell'Ambiente, ed al
Presidente del Consiglio dei Ministri, nell'ambito delle
rispettive competenze, la possibilità di ordinare in via
contingibile ed urgente il ricorso temporaneo a speciali
forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni
sonore. In particolare, nel caso di servizi pubblici
essenziali tale facoltà è riservata al Presidente del
Consiglio dei Ministri.
Alla luce della predetta disposizione, ritiene il Collegio
che sia fondata la dedotta eccezione di incompetenza del
Comune di Potenza.
Infatti, la gestione del servizio attinente alla rete
autostradale e alle strade di grande comunicazione
costituisce un servizio pubblico essenziale alla stregua di
quanto disposto dall'art. 3, comma 1, lett. i), della legge
447/1995 e dal c.c.n.l. 06.07.1995, artt. 1, lett. f) e 2,
n. 8, di modo che, nella specie, la configurabilità di
competenze comunali deve essere esclusa in radice, anche
avuto riguardo al fatto che la rete stradale in concessione
della Società ricorrente ha una estensione così ampia da non
tollerare interventi frammentati.
Ne deriva che il potere di ordinanza riferito al
contenimento dell'inquinamento acustico derivante da tale
servizio non può che essere attribuito, come la disposizione
sopra indicata chiaramente prevede, al Presidente del
Consiglio dei Ministri.
Nel merito, il ricorso è fondato nei sensi
di cui in motivazione.
2.2. Il Collegio ritiene preminente la disamina della
prospettata incompetenza del Comune di Potenza ad emanare
provvedimenti contingibili e urgenti in materia di
inquinamento acustico ove vengano in considerazione, come
nella presente fattispecie, servizi pubblici essenziali.
2.3. L’art. 9 della legge n. 447/95, in presenza di
eccezionali ed urgenti necessità di tutela della salute
pubblica o dell'ambiente, attribuisce al Sindaco, al
Presidente della Provincia, al Presidente della Giunta
regionale, al Prefetto, al Ministro dell'Ambiente, ed al
Presidente del Consiglio dei Ministri, nell'ambito delle
rispettive competenze, la possibilità di ordinare in via
contingibile ed urgente il ricorso temporaneo a speciali
forme di contenimento o di abbattimento delle emissioni
sonore. In particolare, nel caso di servizi pubblici
essenziali tale facoltà è riservata al Presidente del
Consiglio dei Ministri.
Alla luce della predetta disposizione, ritiene il Collegio
che sia fondata la dedotta eccezione di incompetenza del
Comune di Potenza. Infatti, la gestione del servizio
attinente alla rete autostradale e alle strade di grande
comunicazione costituisce un servizio pubblico essenziale
alla stregua di quanto disposto dall'art. 3, comma 1, lett.
i), della legge 447/1995 e dal c.c.n.l. 06.07.1995, artt.
1, lett. f) e 2, n. 8, di modo che, nella specie, la
configurabilità di competenze comunali deve essere esclusa
in radice, anche avuto riguardo al fatto che la rete
stradale in concessione della Società ricorrente ha una
estensione così ampia da non tollerare interventi
frammentati (cfr. TAR Toscana, sez. II, 15.03.2002, n.
494).
Ne deriva che il potere di ordinanza riferito al
contenimento dell'inquinamento acustico derivante da tale
servizio non può che essere attribuito, come la disposizione
sopra indicata chiaramente prevede, al Presidente del
Consiglio dei Ministri (cfr. TAR Umbria, 11.11.2008, n. 722).
2.4. Inoltre, la predisposizione dei “piani di contenimento
ed abbattimento del rumore”, quale strumenti specifici
idonei ad affrontare le problematiche del rumore derivante
dai “servizi pubblici di trasporto” e dalle “relative
infrastrutture”, è prevista dall’articolo 10, comma 5, “in
deroga” alle previsioni sanzionatorie che assistono i poteri
di intervento sanciti dalla legge quadro, compreso quello di
ordinanza di cui all’articolo 9, comma 1, quale che sia il
livello di competenza al quale debba essere esercitato, e
per detti piani il controllo del rispetto della loro
attuazione è demandato al Ministero dell'Ambiente, non
prevedendo, peraltro, la legge n. 447/1995 sanzioni
specifiche per la mancata, ritardata, difforme
predisposizione o attuazione dei piani.
2.5. A tali rilievi, di portata assorbente, deve poi
aggiungersi come nel provvedimento impugnato non venga dato
alcun conto dei presupposti legittimanti l’esercizio dei
poteri di ordinanza, segnatamente con riguardo alla mancanza
di qualsivoglia riferimento all’esistenza di una situazione
di eccezionale ed urgente necessità di tutela della salute
pubblica o dell'ambiente, come richiesto dall’art. 9 della
ripetuta legge n. 447/95 (cfr. TAR Toscana, sez. II, 12.07.2010, n. 2501).
2.6. D’altra parte, la portata applicativa della disciplina,
così ricostruita, non appare illogica o priva di ratio, se
si considera la vastità degli impatti acustici collegati
alla viabilità, di regola preesistente agli insediamenti
abitativi, nonché l’esigenza di assicurare ai gestori dei
relativi servizi pubblici ed infrastrutture la possibilità
di effettuare interventi organici e programmati secondo
modalità e tempi che contemperino la salvaguardia delle
posizioni individuali con la gestione complessiva del
servizio, impregiudicata, naturalmente, l’attivazione di
ogni ulteriore forma di tutela della salute.
2.7. Può aggiungersi che l’iniziativa del Comune di Potenza,
così come quella del controinteressato, dalla cui
segnalazione ha avuto origine la problematica, potrà essere
rivolta ad ottenere, da parte del gestore della strada e
delle Amministrazioni statali competenti, la concreta
attuazione dell’articolo 10, comma 5, della legge n.
447/1995 (cfr. TAR Umbria, 07.12.2011, n. 411)
(TAR Basilicata,
sentenza 23.06.2014 n. 410 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
L’emanazione di un atto di secondo grado, quale
annullamento d’ufficio, revoca o decadenza, incidente su
posizioni giuridiche originate da un precedente atto, deve
essere preceduta dalla comunicazione di avvio del
procedimento, salve eventuali ragioni di urgenza, da
esplicitare adeguatamente nella motivazione del
provvedimento, e salvi i casi in cui all'interessato sia
stato comunque consentito di evidenziare i fatti e gli
argomenti a suo favore.
Sul punto, va richiamato l’orientamento
giurisprudenziale secondo cui l’emanazione di un atto di
secondo grado, quale annullamento d’ufficio, revoca o
decadenza, incidente su posizioni giuridiche originate da un
precedente atto, deve essere preceduta dalla comunicazione
di avvio del procedimento, salve eventuali ragioni di
urgenza, da esplicitare adeguatamente nella motivazione del
provvedimento, e salvi i casi in cui all'interessato sia
stato comunque consentito di evidenziare i fatti e gli
argomenti a suo favore (cfr. C.d.S., sez. VI, 26.10.2006, n. 6413; id., sez. V, 18.11.2004, n. 7553;
TAR Campania, sez. VII, 25.03.2013, n. 1618)
(TAR Basilicata,
sentenza 23.06.2014 n. 409 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Accesso agli atti: è diritto soggettivo perfetto e
ricomprende anche i documenti su supporto informatico.
Il TAR per la Calabria, sezione di
Reggio Calabria, fissa due punti importanti a favore della
natura di ^diritto perfetto^ dell'accesso ai documenti
amministrativi, stabilendo che esso può essere esercitato a
prescindere: (a) dalla ammissibilità della domanda
giudiziale eventualmente proponibile sulla base dei
documenti richiesti, (b) dalla natura del supporto materiale
del documento e (c) dall'origine degli stessi.
Oppone l’INPS la non accessibilità di documenti da questa
detenuta su supporto informatico motivando in ragione del
fatto che la domanda di accesso sarebbe inammissibile in
quanto trattasi di documenti dall'Istituto semplicemente
detenuti in copia informatica e in ogni caso relativi ad
avvisi di addebito non impugnati per tempo e per i quali
andrebbe esclusa ogni possibilità di gravame con conseguente
inesistenza dell’utilità dell’accesso.
Il TAR Calabria, con sentenza ampiamente motivata e ricca di
spunti interdisciplinari:
1. esclude che l’asserita formazione di una preclusione
giudiziaria al gravame di atti esecutivi o di accertamento
tributario ne ostacoli l’accesso ai relativi documenti da
parte dell’interessato, dovendosi riconoscere nell’istituto
del diritto di accesso il riconoscimento normativo di un più
generale interesse a conoscere, che trova limite solo in non
ammesse finalità ispettive o di controllo, e che rappresenta
lo strumento indispensabile di un maturo rapporto tra
cittadino ed istituzioni (tra le altre, Cons. Stato, sez. VI,
09.03.2011, n. 1492, secondo cui la legittimazione
all'esercizio del diritto di accesso "è nozione diversa e
più ampia rispetto all'interesse all'impugnativa");
2. esclude che la natura informatica del supporto cui il
documento accede possa essere di ostacolo all'esercizio del
diritto di accesso, vero che ai sensi della lett. “d”
dell'art. 22 della l. 241/1990 ai fini dell’esercizio del
diritto di accesso si intende per documento amministrativo
ogni rappresentazione di qualunque specie del contenuto di
atti, quindi di tipo grafico, fotografico o elettronico,
anche interno o non relativo ad uno specifico procedimento,
detenuta da una pubblica amministrazione;
3. ricorda come la nozione accolta dalla norma menzionata da
un lato si rivela coerente con il più antico ed autorevole
insegnamento, secondo cui è “documento” quella entità
che è idonea a rappresentare atti o fatti giuridicamente
rilevanti, o anche solo storici, e dall'altro ha valore
anche interdisciplinare, essendo coerente con quella accolta
sia nel Codice Civile VI libro sulla Tutela dei Diritti,
così come nella legislazione speciale (DPR 513/1997, art.
10, DPR 445/2000, Dlgs 10/2002, DPR 137/2003, Dlgs 82/2005);
4. conclude nel senso di ritenere soggetti all’accesso anche
quelle documentazioni che siano tenute con sistemi
informatici e che includano atti o documenti formati da
altre PA rispetto a quella emanante il provvedimento finale,
laddove siano parti dell’istruttoria (commento tratto da e
link a http://studiospallino.blogspot.it - TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 20.06.2014 n. 274 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nel procedimento di affidamento di lavori
pubblici le pubbliche amministrazioni se, stipulato il
contratto di appalto, rinvengano sopravvenute ragioni di
inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non
possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca
dell’aggiudicazione ma devono esercitare il diritto
potestativo regolato dall’art. 134 del d.lgs. n. 163 del
2006.
3. L’Adunanza plenaria ritiene, per le ragioni che seguono, che,
intervenuta la stipulazione del contratto per l’affidamento
dell’appalto di lavori pubblici, l’amministrazione non può
esercitare il potere di revoca dovendo operare con
l’esercizio del diritto di recesso.
3.1. Ai sensi del codice dei contratti pubblici di cui al
d.lgs. n. 163 del 2006 (in seguito anche “codice”), la fase
della scelta del contraente, conclusa con l’aggiudicazione
definitiva, risulta distinta da quella, successiva, della
stipulazione e conseguente esecuzione del contratto, pur
costituendone il necessario presupposto funzionale,
considerato che l’aggiudicazione definitiva non equivale ad
accettazione dell’offerta (art. 11, comma 7, primo periodo,
del codice) e che, pur divenuta efficace l’aggiudicazione
definitiva, prima della stipulazione resta comunque salvo
“L’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti
dalle norme vigenti” (art. 11, comma 9). Il vincolo
sinallagmatico nasce perciò soltanto con il separato e
distinto atto della stipulazione del contratto quando,
essendo stata fino a quel momento irrevocabile soltanto
l’offerta dell’aggiudicatario (art. 11, comma 7, secondo
periodo), l’amministrazione a sua volta si impegna
definitivamente.
3.2. Ciò considerato la giurisprudenza ha affermato che la
fase conclusa con l’aggiudicazione ha carattere
pubblicistico, in quanto retta da poteri amministrativi
attribuiti alla stazione appaltante per la scelta del
miglior contraente nella tutela della concorrenza, mentre
quella che ha inizio con la stipulazione del contratto e
prosegue con l’attuazione del rapporto negoziale ha
carattere privatistico ed è quindi retta dalle norme
civilistiche (Corte costituzionale, sentenze n. 53 e n. 43
del 2011; Cassazione, Sez. un. civ. n. 391 del 2011;
Consiglio di Stato, Sez. III, n. 450 del 2009).
3.3. Nella fase privatistica l’amministrazione si pone
quindi con la controparte in posizione di parità che però, è
stato anche precisato, è “tendenziale” (Corte Cost. n. 53 e
n. 43 del 2011 citate), con ciò sintetizzando l’effetto
delle disposizioni per cui, pur nel contesto di un rapporto
paritetico, sono apprestate per l’amministrazione norme
speciali, derogatorie del diritto comune, definite di
autotutela privatistica (Ad. Plen. n. 6 del 2014); ciò,
evidentemente, perché l’attività dell’amministrazione, pur
se esercitata secondo moduli privatistici, è sempre volta al
fine primario dell’interesse pubblico, con la conseguente
previsione, su tale presupposto, di regole specifiche e
distinte.
3.4. Nel codice dei contratti pubblici sono previste norme
con tratti di specialità riguardo specificamente alla fase
dell’esecuzione del contratto per la realizzazione di lavori
pubblici, cui attiene la questione all’esame.
Ci si riferisce a norme collocate nella Parte II, Titolo III
del codice (Disposizioni ulteriori per i contratti relativi
ai lavori pubblici) relative alla disciplina del recesso dal
contratto e della sua risoluzione, ai sensi,
rispettivamente, degli articoli 134-136 del codice
(collocate nel Capo II del Titolo III e perciò riferite agli
appalti di lavori pubblici ex art. 126 del codice), della
risoluzione per inadempimento e, specificamente, della
revoca delle concessioni di lavori pubblici in finanza di
progetto ai sensi dell’art. 158 del medesimo codice, ovvero
della sospensione dei lavori ai sensi dell’art. 158 e
seguenti del regolamento di attuazione (d.P.R. 05.10.2010, n. 207).
In questo contesto la specialità della disciplina del
recesso emerge non soltanto perché, a fronte della generale
previsione civilistica (art. 1373 c.c.), il legislatore ne
ha ritenuto necessaria una specifica nella legge sul
procedimento (art. 21-sexies) ma in particolare perché
l’art. 134, nel concretare il caso applicativo di tale
previsione, lo regola in modo diverso rispetto all’art. 1671
c.c., prevedendo il preavviso all’appaltatore e, quanto agli
oneri, la forfetizzazione del lucro cessante nel dieci per
cento delle opere non eseguite e la commisurazione del danno
emergente, fermo il pagamento dei lavori eseguiti, al
“valore dei materiali utili esistenti in cantiere” mentre,
per il citato art. 1671 c.c., il lucro cessante è dovuto per
intero (“il mancato guadagno”) e per il danno emergente
vanno rimborsate tutte le spese sostenute.
3.5. Su questa base si ritiene di poter affermare quanto
segue.
3.5.1. La posizione dell’amministrazione nella fase del
procedimento di affidamento di lavori pubblici aperta con la
stipulazione del contratto è definita dall’insieme delle
norme comuni, civilistiche, e di quelle speciali,
individuate dal codice dei contratti pubblici, operando
l’amministrazione, in forza di quest’ultime, in via non
integralmente paritetica rispetto al contraente privato,
fermo restando che le sue posizioni di specialità, essendo
l’amministrazione comunque parte di un rapporto che rimane
privatistico, restano limitate alle singole norme che le
prevedono.
Ciò rilevato ne consegue che deve ritenersi insussistente,
in tale fase, il potere di revoca, poiché: presupposto di
questo potere è la diversa valutazione dell’interesse
pubblico a causa di sopravvenienze; il medesimo presupposto
è alla base del recesso in quanto potere contrattuale basato
su sopravvenuti motivi di opportunità (Cass. n. 391 del 2011
cit.; Cons. Stato, Sez. V, 18.09.2008, n. 4455); la
specialità della previsione del recesso di cui al citato
art. 134 del codice preclude, di conseguenza, l’esercizio
della revoca.
Se infatti, come correttamente indicato dal giudice
rimettente, nell’ambito della normativa che regola
l’attività dell’amministrazione nella fase del rapporto
negoziale di esecuzione del contratto di lavori pubblici, è
stata in particolare prevista per gli appalti di lavori
pubblici una norma che attribuisce il diritto di recesso,
non si può ritenere che sul medesimo rapporto negoziale si
possa incidere con la revoca, basata su presupposti comuni a
quelli del recesso (la rinnovata valutazione dell’interesse
pubblico per sopravvenienze) e avente effetto analogo sul
piano giuridico (la cessazione ex nunc del rapporto
negoziale); richiamato anche che, quando il legislatore ha
ritenuto di consentire la revoca “per motivi di pubblico
interesse” a contratto stipulato, lo ha fatto espressamente,
in riferimento, come visto, alla concessione in finanza di
progetto per la realizzazione di lavori pubblici (o la
gestione di servizi pubblici; art. 158 del codice).
In caso contrario la norma sul recesso sarebbe
sostanzialmente inutile, risultando nell’ordinamento, che
per definizione reca un sistema di regole destinate a
operare, una normativa priva di portata pratica, dal momento
che l’amministrazione potrebbe sempre ricorrere alla meno
costosa revoca ovvero decidere di esercitare il diritto di
recesso secondo il proprio esclusivo giudizio, conservando
in tale modo nel rapporto una posizione comunque
privilegiata; fermo restando, come anche richiamato dalla V
Sezione, che per l’amministrazione la maggiore onerosità del
recesso è bilanciata dalla mancanza dell’obbligo di
motivazione e del contraddittorio procedimentale.
3.5.2. Quanto sopra vale in riferimento alla possibilità
della revoca nella fase aperta con la stipulazione del
contratto nel procedimento per l’affidamento dell’appalto di
lavori pubblici, che è l’oggetto specifico del quesito
all’esame.
Resta perciò impregiudicata, nell’inerenza all’azione della
pubblica amministrazione dei poteri di autotutela previsti
dalla legge, la possibilità: a) della revoca nella fase
procedimentale della scelta del contraente fino alla
stipulazione del contratto; b) dell’annullamento d’ufficio
dell’aggiudicazione definitiva anche dopo la stipulazione
del contratto, ai sensi dell’art. 1, comma 136, della legge
n. 311 del 2004, nonché concordemente riconosciuta in
giurisprudenza, con la caducazione automatica degli effetti
negoziali del contratto per la stretta consequenzialità
funzionale tra l’aggiudicazione della gara e la stipulazione
dello stesso (Cass. sezioni unite, 08.08.2012, n. 14260;
Cons. Stato: sez III, 23.05.2013, n. 2802; sez. V: 07.09.2011, n. 5032;
04.01.2011, n. 11, 09.04.2010, n. 1998).
Così come, pure nel caso di contratto stipulato, sussiste la
speciale previsione in ordine al recesso della stazione
appaltante quando si verifichino i presupposti previsti
dalla normativa antimafia che la giurisprudenza (Cass. n. n.
391 del 2011 cit.) ha riferito alla nozione dell’autotutela
autoritativa, poiché potere “del tutto alternativo a quello
generale di cui alla L. n. 2248 del 1865, art. 345, all. F”
(oggi art. 134 del codice dei contratti pubblici);
qualificazione questa che può ritenersi tuttora valida
poiché le stazioni appaltanti, pur nel quadro della
normativa oggi vigente in materia, devono comunque valutare
l’esistenza delle eccezionali condizioni non comportanti
l’altrimenti vincolato esercizio del diritto di recesso
(art. 94, commi 2 e 3 del d.lgs. n. 159 del 2011).
3.5.3. In questo quadro si coordina e delimita, ad avviso
del Collegio, la previsione della revoca di cui al comma
1-bis dell’art. 21-quinquies della legge n. 241 del 1990,
poiché dall’ambito di applicazione della norma risulta
esclusa la possibilità di revoca incidente sul rapporto
negoziale fondato sul contratto di appalto di lavori
pubblici, in forza della speciale e assorbente previsione
dell’art. 134 del codice (così, come, per la medesima
logica, né è esclusa la revoca di cui all’art. 158 del
codice), restando per converso e di conseguenza consentita
la revoca di atti amministrativi incidenti sui rapporti
negoziali originati dagli ulteriori e diversi contratti
stipulati dall’amministrazione, di appalto di servizi e
forniture, relativi alle concessioni contratto (sia per le
convenzioni accessive alle concessioni amministrative che
per le concessioni di servizi e di lavori pubblici), nonché
in riferimento ai contratti attivi.
4. Sulla base di quanto esposto l’Adunanza plenaria afferma
il seguente principio di diritto: <<Nel procedimento di
affidamento di lavori pubblici le pubbliche amministrazioni
se, stipulato il contratto di appalto, rinvengano
sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del
rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento
pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione ma devono
esercitare il diritto potestativo regolato dall’art. 134 del
d.lgs. n. 163 del 2006.>> (Consiglio di Stato, Adunanza
Plenaria,
sentenza 20.06.2014 n. 14 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 06.06.2001 n.
380 (Testo unico edilizia), l’intervento di ristrutturazione
è quello comportante la “trasformazione” dell’organismo
edilizio mediante “un insieme sistematico” di opere, che
possono portare ad un organismo in tutto o “in parte”
diverso dal precedente.
Inoltre, ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), testo
unico citato, sono subordinati al permesso di costruire gli
interventi di ristrutturazione edilizia “che portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente e che comportino …modifiche dei…prospetti o delle
superfici…”.
In base a tali norme, carattere distintivo della
ristrutturazione edilizia è la trasformazione anche parziale
dell’organismo edilizio, con un “insieme sistematico di
opere”, potendo questo “insieme” consistere in un solo
complessivo progetto di intervento o in più interventi
puntuali e separati, ma correlati e convergenti al medesimo
risultato di trasformazione.
Da qui la conclusione secondo cui “Legittimamente vengono
applicate le norme in materia di ristrutturazione edilizia
nel caso di opere che, anche se realizzate singolarmente,
sono tali da correlarsi in un palese effetto di pur parziale
trasformazione dell’organismo edilizio esistente”.
---------------
Nel vagliare un intervento edilizio consistente in una
pluralità di opere deve effettuarsene una valutazione
globale, avendo presente anche quelle previste
nell'eventuale e risalente altro provvedimento edilizio,
atteso che “la considerazione atomistica dei singoli
interventi non consente di comprendere l'effettiva portata
dell'operazione”, ovvero di “scomporla in distinte fasi,
cosicché possano individuarsi interventi soggetti ad
autorizzazione ed altri soggetti a concessione, ma va
valutata nella sua unitarietà e risulta soggetta al regime
concessorio”.
---------------
Le opere edilizie abusive “realizzate in zona sottoposta a
vincolo paesistico, si considerano eseguite in totale
difformità dalla concessione (artt. 7 e 20 della legge n. 47
del 1985) e, se costituenti pertinenze, non sono
suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione”.
---------------
Anche ove, quanto al titolo edilizio, gli interventi fossero
realizzabili a mezzo denuncia di inizio attività (dia), la
sanzione demolitoria comminata resiste comunque alle censure
di parte ove, come ancora qui accade, irrogata espressamente
in ragione, distintamente, dell’assenza della (anche qui
dovuta) autorizzazione paesaggistica, oltre che del permesso
di costruire, posto che l’art. 27 del d.P.R 380 del 2001 la
medesima sanzione prevede in presenza di esecuzione senza
titolo di opere in territorio assoggettato al vincolo, anche
ove eseguibili a mezzo di dia (o di scia) e posto che, ex
combinato disposto fra artt. 22 e 23 T.U. ripetuto, in
assenza del previo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, il titolo abilitativo edilizio non si forma,
ovvero l’attività non può essere intrapresa.
---------------
La possibilità di non procedere alla rimozione delle parti
abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime
costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva,
subordinata alla circostanza oggettiva e da comprovarsi
dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi.
7b- Ciò chiarito, come già concluso nella sede cautelare, i
dati contenuti nella relazione tecnica del 15.03.2010 non
sono idonei a comprovare di essersi in presenza di un
intervento qualificabile nel suo complesso come meramente
manutentivo, limitandosi sostanzialmente gli stessi a
sottolineare la riduttiva portata dei singoli interventi
contestati e/o la loro irrilevanza (cambio della
destinazione di uso, ritenuto ammissibile stante l’uso
promiscuo fra studio professionale ed abitazione) e, quanto
alla scala esterna, a sostenere che la stessa non era stata
riportata nella Dia “sol perché non erano previste opere
su di essa”, fermo che la sua preesistenza sarebbe
“riscontrabile analizzando la conformazione dello stato dei
luoghi…”.
Ne consegue che regge alle denunce attoree la conclusione
dei tecnici comunali (cfr. relazione n. 12685 del
26.11.2009, costituente dichiarato presupposto del
provvedimento impugnato e sottoscritti da tecnici diversi
dall’arch. Barbieri) secondo cui “l’intero fabbricato è
stato interessato da un intervento di ristrutturazione con
incremento di superficie utile e cambio di destinazione di
uso” e che “tale intervento non poteva essere
eseguito con semplice dia, in quanto, secondo il P.T.P., è
vietata la ristrutturazione edilizia su fabbricati
realizzati in epoca antecedente al 1945”.
Ed invero, già quanto solo alle previsioni primarie, ai
sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 06.06.2001 n.
380 (Testo unico edilizia), l’intervento di ristrutturazione
è quello comportante la “trasformazione”
dell’organismo edilizio mediante “un insieme sistematico”
di opere, che possono portare ad un organismo in tutto o “in
parte” diverso dal precedente; inoltre, ai sensi
dell’art. 10, comma 1, lett. c), testo unico citato, sono
subordinati al permesso di costruire gli interventi di
ristrutturazione edilizia “che portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che
comportino …modifiche dei…prospetti o delle superfici…”;
in base a tali norme, carattere distintivo della
ristrutturazione edilizia è la trasformazione anche parziale
dell’organismo edilizio, con un “insieme sistematico di
opere”, potendo questo “insieme” consistere in un
solo complessivo progetto di intervento o in più interventi
puntuali e separati, ma correlati e convergenti al medesimo
risultato di trasformazione.
Da qui la conclusione secondo cui “Legittimamente vengono
applicate le norme in materia di ristrutturazione edilizia
nel caso di opere che, anche se realizzate singolarmente,
sono tali da correlarsi in un palese effetto di pur parziale
trasformazione dell’organismo edilizio esistente” (Cons.
Stato, sezione sesta, 10.03.2014, n. 1084).
7c- A ciò aggiungendosi il costante orientamento della
Sezione, dal quale il Collegio non ha ragioni di
discostarsi, secondo cui:
- nel vagliare un intervento edilizio consistente in una
pluralità di opere, come qui accade, deve effettuarsene una
valutazione globale, qui avendo presente anche quelle
previste nella risalente dia, atteso che “la
considerazione atomistica dei singoli interventi non
consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione”
(cfr. in tali sensi, Tar Campania, Napoli, questa sezione
sesta, sentenze n. 5835 del 18.12.2013, n. 1114 del
05.03.2012; n. 26787 del 03.12.2010; 16.04.2010, n. 1993;
25.02.2010, n. 1155; 09.11.2009, n. 7053; Tar Lombardia,
Milano, sezione seconda, 11.03.2010, n. 584), ovvero di “scomporla
in distinte fasi, cosicché possano individuarsi interventi
soggetti ad autorizzazione ed altri soggetti a concessione,
ma va valutata nella sua unitarietà e risulta soggetta al
regime concessorio” (così la giurisprudenza sopra
riportata e così già Tar Puglia, Bari, sezione seconda, 16
luglio 2001, n. 2955);
- le opere edilizie abusive “realizzate in zona
sottoposta a vincolo paesistico, si considerano eseguite in
totale difformità dalla concessione (artt. 7 e 20 della
legge n. 47 del 1985) e, se costituenti pertinenze, non sono
suscettibili di autorizzazione in luogo della concessione”
(Tar Campania, questa sesta sezione, ancora n. 5835 del
18.12.2013 e n. 2245 del 30.04.2013, nel cui seno è
richiamata Cass. Penale, sezione terza, pronuncia n. 2733
del 31.01.1994);
- anche ove, quanto al titolo edilizio, gli interventi
fossero realizzabili a mezzo denuncia di inizio attività
(dia), la sanzione demolitoria comminata resiste comunque
alle censure di parte ove, come ancora qui accade, irrogata
espressamente in ragione, distintamente, dell’assenza della
(anche qui dovuta) autorizzazione paesaggistica, oltre che
del permesso di costruire, posto che l’art. 27 del d.P.R 380
del 2001 la medesima sanzione prevede in presenza di
esecuzione senza titolo di opere in territorio assoggettato
al vincolo, anche ove eseguibili a mezzo di dia (o di scia)
e posto che, ex combinato disposto fra artt. 22 e 23 T.U.
ripetuto, in assenza del previo rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, il titolo abilitativo edilizio non si forma,
ovvero l’attività non può essere intrapresa (Tar Campania,
questa sesta sezione, ex multis, sentenze n. 1107 del
05.03.2012, n. 5805 del 14.12.2011 e n. 16995 del
27.07.2010).
7d- Ed a ciò aggiungendosi ancora (pur ferma la visione di
insieme da aversi) che (comunque):
- la legittima preesistenza della scala esterna non appare
adeguatamente comprovata;
- il cambio di destinazione di uso, abbisognevole in ogni
caso di autorizzazione, per quanto qui più rileva appare
correlato all’intervento effettuato, sì da non poterne
esserne enucleato;
7e- Ne deriva la preannunciata reiezione dei mezzi di
impugnazione esaminati.
8- Non può poi trovare ingresso il secondo mezzo di
impugnazione, volto a denunciare violazione dell’art. 33 del
d.P.R. 380 del 2001, in ragione del pregiudizio che la
demolizione arrecherebbe all’intero edificio.
Come ricordato in memoria dal Comune “la possibilità di
non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò
sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo
un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla
circostanza oggettiva e da comprovarsi dell'impossibilità
del ripristino dello stato dei luoghi” (cfr., ex
multis, Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n.
1122 del 20.02.2014, 07.11.2013, n. 4489 e 05.06.2013, n.
2903, 09.10.2013, n. 4821, 24.07.2012, n. 3538, 18.05.2012,
n. 2291, 02.05.2012, n. 2006, 08.04.2011, n. 2039,
15.07.2010, n. 16807 e 14.04.2010, n. 1973; Salerno, sezione
seconda, 13.04.2011, n. 702): in tutto o in parte, può qui
aggiungersi
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 18.06.2014 n. 3403 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Variante al P.R.G.: il promissario acquirente non è
legittimato ad impugnare.
Con
sentenza 18.06.2014 n. 1592 il TAR Lombardia-Milano,
Sez. II, dichiara inammissibile per carenza
di legittimazione il ricorso di una società, promissaria
acquirente di immobili da costruire in attuazione di un
P.I.I., proposto, in via principale, avverso la delibera
comunale modificativa del Programma di intervento, e, con
motivi aggiunti, avverso i titoli edilizi rilasciati dall'A.C.
a seguito della modifica.
Sulla scorta della diversità tra i beni oggetto del
preliminare e quelli che sarebbero venuti ad esistenza a
seguito della modifica (la differenza, nello specifico,
consiste nell'agibilità dei sottotetti degli erigendi
immobili, in origine non prevista), la ricorrente propone
l'impugnazione e chiede il risarcimento del danno.
Il TAR elabora una sentenza in rito e dichiara
l'inammissibilità del ricorso in quanto la società
ricorrente, nella sua qualità di promissaria acquirente, è
priva della legittimazione necessaria per la sua
proposizione.
In linea generale, il Collegio osserva che la legittimazione
all'impugnazione di atti costituenti esercizio del potere di
pianificazione urbanistica può essere riconosciuta al
promissario acquirente solo entro ristretti limiti, in
quanto la sua particolare situazione giuridica, titolare di
un rapporto meramente obbligatorio, non gli conferisce una
posizione di stabile collegamento con la zona coinvolta
dalle prescrizioni del piano.
Secondo i Giudici milanesi l'interesse oppositivo al
mutamento della disciplina urbanistica dell'area, data la
particolarità del ricorrente, è un interesse di fatto
meramente eventuale e certamente non attuale, che può venir
meno anche sulla base della semplice rinuncia all'acquisto
con la stipula del contratto definitivo.
A corroborare l'assunto, la considerazione che anche gli
orientamenti meno restrittivi ammettono la legittimazione in
casi limitati, e precisamente (a) qualora il promissario
acquirente abbia la materiale disponibilità del bene a
seguito di preliminare ad effetti anticipati (TAR Campania
Napoli, Sez. IV, 12.01.2000, n. 45), (b) nel caso in cui il
preliminare contenga una clausola espressa che attribuisca
al promissario acquirente la possibilità di richiedere
titoli edilizi, (c) nel caso in cui l'atto impugnato sia
lesivo degli interessi del proprietario e, di riflesso,
anche degli interessi del promissario acquirente.
Nel caso di specie, osserva il TAR, non ricorre alcuna di
tali ipotesi, anzi, il proprietario ed il promissario
acquirente si trovano in conflitto di interessi, giacché la
modifica al P.I.I. oggetto dell'impugnazione era stata
richiesta dalla stessa proprietà dell'area.
Da ciò la declaratoria di inammissibilità per carenza di
legittimazione ad agire.
L'orientamento restrittivo nel quale si incardina la
decisione in commento si fonda su considerazioni di ordine
generale in materia di impugnazione di un atto
amministrativo.
Com'è noto, il presupposto sostanziale di un ricorso è la
lesione attuale di un interesse sostanziale e il suo scopo è
quello di ottenere un provvedimento giudiziario idoneo, se
favorevole, a rimuovere quella lesione.
Le condizioni soggettive per agire in giudizio sono,
infatti, la legittimazione processuale, spettante a coloro
che affermano di essere titolari della situazione giuridica
sostanziale di cui si lamenta l'ingiusta lesione per effetto
dell'atto gravato, e l'interesse a ricorrere, consistente
nel vantaggio pratico e concreto che il ricorrente può
ottenere dall'accoglimento dell'impugnativa, postulando che
l'atto censurato abbia prodotto in via diretta una lesione
attuale della posizione giuridica sostanziale dedotta in
giudizio.
Ecco allora che nell'ipotesi in cui il ricorrente rivesta il
ruolo "decentrato" di promissario acquirente, a
ragione sorgono dei dubbi sulla titolarità delle condizioni
per agire avverso quel provvedimento.
Nell'alveo dell'orientamento restrittivo si pone una recente
pronuncia del Consiglio di Stato, secondo la quale la figura
del promissario acquirente non implica l'esistenza di una
posizione di interesse legittimo tale da ammettere
l'impugnazione di un provvedimento di diniego di concessione
edilizia riguardante il terreno oggetto di preliminare,
tuttavia, può radicare una posizione dipendente da quella
del ricorrente principale, "ad adiuvandum" del quale
può dispiegare intervento in giudizio, purché non miri ad
eludere i termini di impugnazione da parte di chi risulti
titolare di una posizione tutelabile con una propria
autonoma impugnativa (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.04.2011 n. 2275) (commento tratto da e link
a http://studiospallino.blogspot.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
In linea generale, la legittimazione del
promissario acquirente all'impugnazione di atti costituenti
esercizio del potere di pianificazione urbanistica, come dei
provvedimenti adottati in materia edilizia, può essere
riconosciuta solo entro ristretti limiti, in quanto la sua
situazione giuridica di titolare di un rapporto obbligatorio
non gli conferisce una posizione di stabile collegamento con
la zona coinvolta dalle prescrizioni del piano. Il suo
interesse oppositivo al mutamento della disciplina
urbanistica dell'area è quindi un interesse di fatto
meramente eventuale e certamente non attuale potendo venire
meno anche sulla base della semplice rinuncia ad effettuare
l’acquisto con la stipula del contratto definitivo.
Pertanto, anche gli orientamenti meno restrittivi ammettono
la legittimazione esclusivamente nei seguenti casi:
a) nell’ipotesi in cui il promissario acquirente abbia già
la materiale disponibilità del bene; il che avviene quando
il contratto preliminare prevede la consegna anticipata;
b) nel caso in cui il preliminare di compravendita contenga
una clausola espressa che attribuisca al promissario
acquirente la possibilità di richiedere il rilascio di
titoli edilizi;
c) nel caso in cui l’atto impugnato sia lesivo degli
interessi del proprietario e, di riflesso, anche degli
interessi del promissario acquirente (in quest’ultima
ipotesi parte della giurisprudenza ammette quindi la
possibilità per il promissario acquirente di agire
direttamente in giudizio per la tutela di un interesse
connesso ad un diritto di proprietà non ancora acquisito).
La giurisprudenza non ha un orientamento univoco in materia
di legittimazione del promissario acquirente di beni
immobili in ordine all’impugnazione degli atti
amministrativi di natura urbanistica ed edilizia che li
riguardano.
Si osserva comunque, in linea generale, che la
legittimazione del promissario acquirente all'impugnazione
di atti costituenti esercizio del potere di pianificazione
urbanistica, come dei provvedimenti adottati in materia
edilizia, può essere riconosciuta solo entro ristretti
limiti, in quanto la sua situazione giuridica di titolare di
un rapporto obbligatorio non gli conferisce una posizione di
stabile collegamento con la zona coinvolta dalle
prescrizioni del piano. Il suo interesse oppositivo al
mutamento della disciplina urbanistica dell'area è quindi un
interesse di fatto meramente eventuale e certamente non
attuale potendo venire meno anche sulla base della semplice
rinuncia ad effettuare l’acquisto con la stipula del
contratto definitivo (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VIII
07.03.2013 n. 1285).
Pertanto, anche gli orientamenti meno restrittivi ammettono
la legittimazione esclusivamente nei seguenti casi:
a) nell’ipotesi in cui il promissario acquirente abbia già
la materiale disponibilità del bene; il che avviene quando
il contratto preliminare prevede la consegna anticipata
(cfr. TAR Campania Napoli, sez. IV, 12.01.2000 n. 45);
b) nel caso in cui il preliminare di compravendita contenga
una clausola espressa che attribuisca al promissario
acquirente la possibilità di richiedere il rilascio di
titoli edilizi;
c) nel caso in cui l’atto impugnato sia lesivo degli
interessi del proprietario e, di riflesso, anche degli
interessi del promissario acquirente (in quest’ultima
ipotesi parte della giurisprudenza ammette quindi la
possibilità per il promissario acquirente di agire
direttamente in giudizio per la tutela di un interesse
connesso ad un diritto di proprietà non ancora acquisito)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.06.2014 n. 1592 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Graduatoria esterna con vincoli.
No all'utilizzo di elenchi da altre Pa se l'ente dispone di
proprie liste.
Personale. Quando i profili richiesti sono scoperti occorre
una convenzione per ricorrere a concorsi diversi.
Gli enti
locali possono utilizzare graduatorie formate da altre
pubbliche amministrazioni stipulando una convenzione anche
dopo la conclusione delle prove concorsuali, cioè a
graduatoria già formata.
Non possono invece utilizzare graduatorie di altre
amministrazioni se hanno ancora, per gli stessi profili,
delle proprie graduatorie valide.
Sono questi gli importanti
principi fissati dalla
sentenza
31.03.2014 n. 884 e
sentenza 13.06.2014 n. 1482 della II Sez. del
TAR Puglia-Lecce.
Le due pronunce fanno chiarezza sull'applicazione della
possibilità di utilizzazione di graduatorie di altre
amministrazioni prevista dalle leggi 3 e 350, ambedue del
2003, e rilanciata dal Dl 101/2013.
La ratio della scelta legislativa è spiegata con la volontà
di conseguire risparmi di risorse finanziarie e di impegno
del personale, nonché di esaurire le graduatorie ancora
valide e, perché no, di ridurre i contenziosi.
Il principio di carattere generale posto dal nostro
ordinamento è il «generale favore per l'utilizzazione delle
graduatorie degli idonei, in quanto strumento che consente
agli enti pubblici un notevole risparmio di risorse
finanziarie e umane, in conformità agli articoli 81 e 97
della Costituzione».
Sulla scorta di questo principio si può
dare risposta al dubbio, che il legislatore «non ha
espressamente risolto, relativo al momento in cui deve
intervenire il previo accordo fra le amministrazioni
interessate cui è subordinato l'utilizzo di graduatorie
esterne, discutendosi se esso debba necessariamente
precedere l'indizione della procedura concorsuale (prima
tesi) o l'approvazione della graduatoria (seconda tesi)
oppure se esso possa intervenire anche in un momento
successivo (terza tesi)».
Se la volontà del legislatore è quella di privilegiare lo
scorrimento delle graduatorie occorre sposare la tesi più
estensiva, per cui «la normativa, nel disporre la proroga di
graduatorie approvate prima della sua entrata in vigore,
logicamente presuppone che l'accordo possa intervenire anche
dopo l'approvazione delle suddette graduatorie: diversamente
opinando l'utilizzo delle graduatorie esterne già esistenti
non potrebbe mai trovare concreta applicazione, restando
un'inutile affermazione di principio».
Appare comunque opportuna una postilla: nel caso in cui le
amministrazioni decidano di utilizzare graduatorie di altre
Pa dopo la conclusione delle procedure concorsuali, quindi
sapendo chi è il soggetto da assumere, devono motivare la
scelta dell'ente con cui stipulano la relativa convenzione.
Ed in ogni caso si deve seguire l'ordine della graduatoria.
Invece le amministrazioni pubbliche non possono utilizzare
la graduatoria di un altro ente, se dispongono di una
propria graduatoria ancora valida per lo stesso profilo
professionale. Questa scelta non contraddice il principio
prima affermato perché «il favor ordinamentale per lo
scorrimento della graduatoria deve essere inteso,
innanzitutto, come preferenza per l'utilizzo delle
graduatorie interne (graduatorie approvate dall'ente che ha
bandito il concorso) rispetto a quelle esterne formatesi
presso altri enti, ancorché similari, da utilizzare solo in
via residuale»
(articolo Il Sole 24 Ore del
30.06.2014). |
ENTI LOCALI:
Società in house: poteri del CdA limitati
rispetto al diritto societario.
I giudici del Tar di Torino affrontano, nella sentenza in
rassegna, la questione delle società in house
detenute congiuntamente da più enti pubblici.
I precedenti della Corte di Giustizia dell'UE hanno più
volte chiarito che nel caso in cui venga fatto ricorso ad
un'entità posseduta in comune da più autorità pubbliche, il
"controllo analogo" può essere esercitato
congiuntamente da tali autorità, senza che sia
indispensabile che detto controllo venga esercitato
individualmente da ciascuna di esse.
Il concetto è stato ribadito dalla giurisprudenza nazionale,
nel senso che il requisito del controllo analogo deve essere
verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico,
sicché è sufficiente che la signoria della mano pubblica
sull'ente affidatario, purché effettiva e reale, sia
esercitata dagli enti partecipanti nella loro totalità,
senza che necessiti una verifica della posizione dominante
di ogni singolo ente.
Peraltro, pur non richiedendosi che ciascun partecipante
detenga da solo un potere di controllo individuale,
nondimeno si esige che il controllo esercitato sull'entità
partecipata non si fondi soltanto sulla posizione dominante
dell'autorità pubblica che detiene una partecipazione di
maggioranza del capitale sociale. È necessario, infatti, che
anche il singolo socio possa vantare una posizione più che
simbolica, idonea, per quanto minoritaria, a garantirgli una
possibilità effettiva di partecipazione alla gestione
dell'organismo del quale è parte; sicché, una presenza
puramente formale nella compagine partecipata o in un organo
comune incaricato della direzione della stessa, non
risulterebbe sufficiente.
La giurisprudenza comunitaria sottolinea inoltre la
necessità che detto controllo analogo si esplichi sotto
forma di partecipazione sia al capitale, sia agli organi
direttivi dell'organismo controllato. La giurisprudenza
comunitaria non specifica attraverso quali sistemi operativi
debba estrinsecarsi la presenza di ciascun socio negli
organi direttivi e con quale modalità concreta quest'ultimo
debba concorrere al controllo analogo. La prassi conosce
svariate meccanismi, fondati ora sulla nomina diretta e
concorrente di singoli rappresentanti (uno per ogni socio)
in seno al consiglio di amministrazione della società; ora
sulla partecipazione mediata agli organi direttivi
attraverso la nomina da parte dell'assemblea di consiglieri
riservati ai soci di minoranza.
Valida alternativa è offerta dagli strumenti di carattere
parasociale, che operano attraverso la predisposizione di
organismi di controllo, costituiti dai rappresentanti di
ciascun ente locale, muniti di penetranti poteri di verifica
preventiva sulla gestione dell'attività ordinaria e
straordinaria del soggetto in house, tali da rendere
l'organo amministrativo privo di apprezzabile autonomia
rispetto alle direttive delle amministrazioni partecipanti.
E' dato pacifico in giurisprudenza, infine, che il controllo
debba essere esercitato non solo in forma propulsiva ma
anche attraverso l'esercizio -in chiave preventiva- di
poteri inibitori, volti a disinnescare iniziative o
decisioni contrastanti con gli interessi dell'ente locale
direttamente interessato al servizio.
In materia di società in house detenute
congiuntamente da più enti pubblici, la giurisprudenza non
manca di sottolineare la necessità che il relativo consiglio
di amministrazione non abbia rilevanti poteri gestionali di
carattere autonomo, e che l'ente pubblico affidante (la
totalità dei soci pubblici) eserciti, pur se con moduli
fondati su base statutaria, poteri di ingerenza e di
condizionamento superiori a quelli tipici del diritto
societario e caratterizzati da un margine di rilevante
autonomia della governance rispetto alla maggioranza
azionaria.
Risulta a ciò indispensabile che le decisioni strategiche e
più importanti siano sottoposte al vaglio preventivo
dell'ente affidante o, in caso di in house frazionato
-come nella fattispecie in esame- all'approvazione della
totalità degli enti pubblici soci (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 13.06.2014 n. 1069 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Irragionevole il divieto di accesso in spiaggia degli
animali. Il ATR Calabria smonta pezzo per pezzo la decisione assunta
da un comune.
È illegittima un'ordinanza con la quale il sindaco ordina al
fine di tutelare il decoro e l'igiene pubblici nonché la
sicurezza dei bagnanti il divieto di condurre in spiaggia
animali durante la stagione balneare.
Lo ha affermato il TAR Calabria-Reggio Calabria con la
sentenza
28.05.2014 n. 225.
Le ricorrenti deducevano che l'ordinanza balneare gravata
imponeva irragionevolmente ai conduttori di animali il
divieto (salvo il caso dei cani di salvataggio e dei cani
guida di portatori di handicap) di accesso alle spiagge
libere, in assenza di una motivazione che giustificasse tale
scelta e senza specificare quali cautele comportamentali
fossero necessarie per la tutela dell'igiene delle spiagge,
ovvero della incolumità dei bagnanti.
Esse deducevano altresì il difetto di motivazione, la
manifesta irragionevolezza e la violazione del principio di
proporzionalità circa il rapporto tra le esigenze pubbliche
da soddisfare e l'incidenza sulle sfere giuridiche dei
privati: la totale assenza di motivazione, infatti, non
consentiva di apprezzare se esso fosse riferibile a ragioni
riconducibili all'igiene dei luoghi ovvero alla sicurezza di
chi frequenta le spiagge.
In ogni caso, le ricorrenti sottolineavano che la
motivazione del provvedimento avrebbe dovuto contenere una
specifica giustificazione delle misure adottate, che
consentisse di verificare il rispetto del principio di
proporzionalità, poiché l'Autorità comunale avrebbe dovuto
individuare le misure comportamentali ritenute più adeguate
piuttosto che porre un divieto assoluto di accesso alle
spiagge.
I giudici calabresi hanno ritenuto che dette censure
meritassero accoglimento.
Innanzitutto, il Collegio ha rilevato un difetto di
motivazione anche se l'atto impugnato aveva le
caratteristiche di atto generale: in pratica un'ordinanza
che vieta delle condotte deve avere un supporto
motivazionale, evidenziando quali specifiche esigenze vadano
soddisfatte, in correlazione alle limitazioni delle libertà
che ne conseguono.
«In sostanza», prosegue la sentenza, «negli atti che
rientrano nella categoria in esame la disciplina
dell'obbligo di motivazione attiene alla dimostrabilità
della ragionevolezza delle scelte operate dalla p.a., che,
nella odierna fattispecie, per le ragioni di censura su cui
la difesa delle ricorrenti ampiamente si sofferma, e che
trovano la condivisione del Collegio, non è ravvisabile».
Altresì, il Tar ha ravvisato un'illegittimità del
provvedimento impugnato sotto il profilo della violazione
del principio di proporzionalità.
«Il principio di proporzionalità di matrice comunitaria,
immanente nel nostro ordinamento», aggiunge il Collegio, «in
virtù del richiamo operato dall'art. 1 della legge n.
241/1990, impone alla pubblica amministrazione di optare,
tra più possibili scelte ugualmente idonee al raggiungimento
del pubblico interesse, per quella meno gravosa per i
destinatari incisi del provvedimento, onde evitare agli
stessi «inutili sacrifici; nel caso in esame, la mancata
esternazione nel provvedimento gravato anche di quale sia
l'interesse pubblico concretamente perseguito attraverso
l'imposizione del divieto contestato non impedisce la
formulazione di un giudizio di sproporzione tra l'atto
adottato e il fine con esso perseguito».
«La scelta di vietare l'ingresso agli animali e,
conseguentemente, ai loro padroni o detentori, sulle spiagge
destinate alla libera balneazione», ha concluso la
sentenza, «risulta irragionevole e illogica, oltre che
irrazionale e sproporzionata: l'amministrazione avrebbe
dovuto valutare se sia possibile perseguire le finalità
pubbliche del decoro, dell'igiene e della sicurezza mediante
regole alternative al divieto assoluto di frequentazione
delle spiagge, ad esempio valutando se limitare l'accesso in
determinati orari, o individuare aree adibite anche
all'accesso degli animali, con l'individuazione delle aree
viceversa interdette al loro accesso» (articolo ItaliaOggi
Sette del 30.06.2014). |
CONDOMINIO:
Edilizia, placet revocato a sentenza non definitiva.
Se la giustizia civile impiega troppo tempo, può ben essere
quella amministrativa a far vincere al condominio la sua
guerra contro l'asilo nido aperto contro il regolamento
dell'edificio: il Comune, infatti, ha la facoltà di revocare
l'autorizzazione alla struttura privata, anche se non è
ancora definitiva la relativa sentenza emessa dal Tribunale:
basta che la pronuncia stabilisca che il proprietario
dell'immobile ha affittato l'immobile alla società che
gestisce l'attività per la prima infanzia non curandosi
delle norme che disciplinano la vita del condominio.
È
quanto emerge dalla
sentenza
27.05.2014 n. 2726, pubblicata dalla V Sez. del Consiglio di
Stato.
Locali inidonei - Troppo frettolosa l'archiviazione da parte
degli uffici comunali dopo che il condominio nella zona-bene
della Capitale chiede la revoca dell'autorizzazione a
gestire l'attività in favore dei bambini piccoli: i
residenti dell'immobile di pregio proprio non gradiscono
l'andirivieni di mamme, papà, mocciosi e passeggini. Il
regolamento parla chiaro: non si possono affittare i locali
di proprietà esclusiva a chi gestisce attività che aumenta
la «pressione» sull'edificio, in termini di fastidio, rumore
e scarsità di parcheggi.
Intendiamoci: il contratto di
locazione stipulato fra il proprietario dei locali e la
società resta valido. Il punto è che l'incompatibilità
dell'asilo con le regole del condominio si riflette anche
sul rapporto di autorizzazione all'esercizio dell'attività,
dal momento che i locali «incriminati» non risultano idonei
all'utilizzo, che non è libero ma deve essere assentito dal
Comune: vista la sua particolare natura, infatti, richiede
severe prescrizioni ad esempio dal punto di vista igienico.
Tutela anticipata - Non conta, infine, che la sentenza
civile che dà ragione al condominio non sia ancora passata
in giudicato. Il giudice amministrativo deve guardare solo
ai profili pubblici e qui non si tratta di applicare la
decisione adottata in sede civile: conta unicamente
l'accertamento del fatto storico che risulta avvenuto, vale
a dire che nell'immobile di pregio aprire l'asilo è vietato
dal regolamento.
L'amministrazione, in tal caso, può dare
luogo anche a una tutela anticipata, ritenendo verosimile
che la decisione sarà confermata anche in secondo grado (articolo ItaliaOggi Sette
del 30.06.2014). |
APPALTI:
Verbale di gara incompleto: il comune può
annullare l’aggiudicazione.
La terza sezione del Consiglio di Stato ha stabilito, nella
sentenza in commento, che è legittimo da parte di un comune
l'esercizio del potere di annullamento dell'aggiudicazione
definitiva ex art. 11, c. 9, del d.lgs. n. 163/2006, per
l'incompletezza delle minute a suo tempo redatte in ordine
ai lavori della commissione giudicatrice. In assenza di
specifica prescrizione nel codice dei contratti pubblici
(d.lgs. n. 163 del 2006) la redazione del verbale non si
impone con carattere di contestualità rispetto a ciascuna
seduta della commissione di gara.
Tuttavia, quando ciò non avvenga, occorre che i momenti
essenziali in cui si sono articolate le operazioni di gara
e, segnatamente, l'espressione in termini numerici dei
giudizi di merito di ciascuna offerta, siano annotati con
carattere di compiutezza in documenti che, anche se non
accompagnati da tutti gli elementi formali in cui si
sostanzia il verbale, si presentino idonei a ricostruire ex
post con adeguato grado di certezza lo svolgimento del
procedimento di gara. Ciò è tanto più necessario nei casi in
cui le operazioni di gara si siano protratte per un lungo
periodo (nel caso in controversia per cinque mesi) ed il
decorso del tempo possa influire sull'esatta ricostruzione
delle operazioni espletate in ogni singola adunanza della
commissione.
Nel caso di specie, l'incompletezza delle minute a suo tempo
redatte in ordine ai lavori della commissione giudicatrice,
la contraddizione dei contenuti di esse con lo schema
riassuntivo dei giudizi valutativi rassegnato a conclusione
dei lavori dal presidente della commissione, l'estromissione
del segretario dalla verbalizzante delle sedute -malgrado
detta funzione fosse stata ad esso assegnata con apposito
provvedimento- introducono evidenti anomalie nel
procedimento di gare, in evidente contrasto con i principi
di correttezza, trasparenza, efficacia, parità di
trattamento e garanzia del confronto concorrenziale
enunciati dall'art. 2 del d.lgs. n. 163 del 2006. Pertanto,
correttamente il Comune ha esercitato il potere di
annullamento dell'aggiudicazione definitiva secondo quanto
consentito dall'art. 11, c. 9, del d.lgs. n. 163 del 2006
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 26.05.2014 n. 2692 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Infrastrutture di telecomunicazioni: sono tenute al rispetto
delle distanze previste dai regolamenti locali.
Pur essendo le infrastrutture di
comunicazione elettronica per impianti radioelettrici
soggette ad una disciplina unitaria del procedimento
autorizzatorio, restano, in ogni caso, nuova costruzione che
introducono trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio.
Come tali sono soggette al rispetto dei regolamenti edilizi
in materia di distanza delle costruzioni, dal confine e da
altri fabbricati, non potendo questo elemento essere inteso
come un indebito limite all’espansione della rete di
telecomunicazione.
La recente e significativa pronuncia dei giudici di Palazzo
Spada, prende spunto da due provvedimenti emessi da parte di
una PA locale nei confronti di un Operatore. In particolare
da una prima ingiunzione di immediata sospensione dei
lavori, relativi alla realizzazione di una stazione radio
base sul rilievo della mancata osservanza della distanza
minima dai confini da osservare tra il manufatto shelter
ed i confini interni del lotto e dalle strade, e da un
successivo provvedimento di annullamento, in autotutela,
dell’idonea autorizzazione, già rilasciata al medesimo
Operatore ai sensi dell'art. 87 del d.lgs. 259 del 2003, per
la realizzazione di una stazione radio.
Il giudice di prime cure -TAR Puglia-sez. staccata di Lecce,
sez. II, sent. n. 1136 del 2012–, che aveva già respinto le
domande di annullamento dei provvedimenti formulate
dall’Operatore, aveva altresì precisato che l’impianto di
telecomunicazione, ancorché oggetto della disciplina
speciale dettata dagli artt. 86 e 87 del d.lgs. n. 259 del
2003 relativa al rilascio dell’autorizzazione per
l’installazione delle infrastrutture di t.l.c., non restava
sottratto, in relazione al non contenuto impatto sul
territorio del manufatto accessorio (shelter), alla
disciplina sulle regole dell’edificazione; oltre al fatto
che non venivano in rilievo prescrizioni del Comune che
potevano qualificarsi impeditive della capillare espansione
sul territorio della rete di telecomunicazione.
A tale proposito il Consiglio di Stato, con la recente
sentenza in commento, ha in primo luogo posto l’accento sul
dato testuale dell’art. 3, comma 1, lett. e), punto e.4),
del d.lgs. n. 380 del 2001, il quale include nella categoria
degli interventi di “nuova costruzione” -che introducono “trasformazione
edilizia e urbanistica territorio” e, quindi, sono
soggetti a controllo ai sensi del successivo art. 10- “l’installazione
di torri e tralicci per impianti radio-trasmittenti e di
ripetitori per servizi di telecomunicazione”.
Questo principio non trova eccezione per effetto della
disciplina dettata dall’art. 87 del codice della
comunicazioni elettroniche approvato con d.lgs. n. 259 del
2003. In tal senso, come già ampiamente sottolineato, il
citato Codice delle comunicazioni elettroniche reca una
disciplina unitaria del procedimento autorizzatorio delle
infrastrutture di comunicazione elettronica per impianti
radioelettrici, abbinando all’interno di un unico
procedimento -a fini di semplificazione ed accelerazione del
rilascio dell’atto conclusivo- la verifica dell’osservanza
dei limiti di esposizione alle emissioni radio-elettriche e
di ogni altro interesse di rilievo pubblico che si colleghi
alla porzione di territorio su cui interviene
l’installazione dell’impianto, ma non reca alcuna
prescrizione volta a derogare al disciplina
urbanistico/edilizia del sito interessato.
La sottrazione al regime autorizzatorio non trova, inoltre,
sostegno nell’assimilazione, ai sensi dell’art. 86, terzo
comma, del d.lgs. n. 259 del 2003, delle infrastrutture di
comunicazione elettronica alle “opere di urbanizzazione
primaria”. Anche tali ultimi interventi -come
espressamente previsto dall’art. 3, comma 1, lett. e), punto
e.2) del d.lgs. n. 380 del 2001- per l’effetto modificativo
dell’assetto del territorio ad essi peculiare si qualificano
come “nuova costruzione” e non sono sottratti al controllo
comunale previsto dall’art. 10 del d.lgs. citato.
In quest’ottica, l’applicazione della regole sulla distanza
delle costruzioni dal confine e da altri fabbricati,
previste dal regolamento edilizio comunale, non può neppure
essere intesa come un indebito limite all’espansione della
rete di telecomunicazione, che necessariamente deve
estendersi al servizio di tutto il territorio comunale.
Ne deriva che la richiesta unicamente diretta all’osservanza
dei limiti di distanza, comuni ad ogni altra nuova
costruzione, in relazione alla collocazione del manufatto
sul lotto asservito all’edificazione, non riporta ad una
radicale preclusione della capillare espansione della rete
di telefonia mobile, che si verifica in presenza di
prescrizioni restrittive che indirizzino l’installazione
degli impianti solo in talune delle zone indicate dallo
strumento urbanistico o in siti all’uopo individuati dal
Comune.
Con la recente pronuncia in commento il Consiglio di Stato
mette, pertanto, in evidenza un importante principio secondo
il quale il corretto sviluppo del tessuto edilizio, che non
può essere pregiudicato da una disordinata ed estemporanea
ubicazione degli impianti di t.l.c., che integrano una nuova
costruzione, in elusione di ogni regola sull’esercizio dello
jus aedificandi. Nel caso in esame la non limitata
consistenza strutturale dell'opera determina un impatto non
contenuto introducendo una trasformazione edilizia ed
urbanistica del territorio, che si configura come un
intervento di nuova costruzione, pertanto non sottraibile al
controllo del Comune, e di conseguenza soggetta alle norme
in materia di edilizia e urbanistica.
La pronuncia in commento rappresenta tuttavia un indirizzo
contrario rispetto a quanto già sancito dal medesimo
Consiglio di Stato, sez. VI, con la sentenza n. 3536 del
25/06/2007, dove si precisava come non si possano imporre,
mediante regolamento comunale edilizio, l’osservanza di
determinate distanze dagli edifici esistenti, ugualmente, ed
anzi a maggior ragione, non si poteva pretendere di
localizzare gli impianti ad una determinata distanza dal
confine di proprietà, trattandosi di previsione che
apparivano priva di giustificazione alcuna e rappresentativa
solo un indebito impedimento nella realizzazione di una rete
completa di telecomunicazioni.
Orientamento, questo, che si colloca nel solco
dell'indirizzo secondo il quale gli impianti di telefonia
mobile non possono essere assimilati alle normali
costruzioni edilizie in quanto normalmente non sviluppano
volumetria o cubatura, non determinano ingombro visivo
paragonabile a quello delle costruzioni e non hanno un
impatto sul territorio paragonabile a quello degli edifici
in cemento armato o muratura (cfr., tra le tante si ricorda:
Consiglio Stato, VI, 26/08/2003, n. 4847; 24/11/2003,
n.7725; TAR Campania Napoli, sez. I, 04/03/2005, n. 16110;
TAR Sicilia Catania, sez. IV, 03/05/2008, n. 711; TAR
Sicilia-Palermo, sez. II, 11/11/2011, n. 2100) (commento
tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 19.05.2014 n. 2521 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
GARAGE, NECESSITÀ DEL PERMESSO DI COSTRUIRE E
INSUSCETTIBILITA' DI UNA DIA IN SANATORIA.
La realizzazione di una rampa di accesso
ad un garage con relativa pavimentazione costituisce
intervento ricadente nel D.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 3,
lett. c), perché definibile di nuova costruzione e, dunque,
necessita del permesso di costruire; ne consegue che,
trattandosi di intervento edilizio soggetto al permesso di
costruire, lo stesso non è sanabile mediante la
presentazione di una DIA in sanatoria.
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
in esame attiene all’esatta individuazione del titolo
abilitativo
edilizio richiesto per la realizzazione di un intervento
edilizio,
invero assai frequente, costituito dalla realizzazione
della rampa di accesso ad un garage.
La vicenda processuale
trae origine dalla condanna inflitta al proprietario e
committente che, in difformità da un precedente concessione
edilizia rilasciatagli dal comune per la costruzione di
un garage con accesso sulla via (omissis), aveva eseguito
la rampa di accesso al garage. Nel pervenire a tale
conclusione,
il Tribunale aveva osservato come, essendo del tutto
incontroverso il fatto contestato, la tesi difensiva,
secondo
la quale la presentazione di una DIA in sanatoria potesse
determinare effetti estintivi del reato, non fosse
condivisibile
e tanto sul rilievo che il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 45
stabilisce che solo "il rilascio in sanatoria del permesso
di
costruire estingue i reati contravvenzionali previsti dalle
norme urbanistiche vigenti".
Peraltro, secondo il Tribunale,
doveva escludersi che il fatto non costituisse reato perché,
diversamente da quanto sostenuto dal tecnico comunale
nel corso dell'esame dibattimentale secondo il quale per la
realizzazione della rampa di accesso al garage sarebbe stata
sufficiente la presentazione della DIA, l'opera, cosi come
progettata e realizzata (garage con relativa rampa di
accesso),
non era assentibile mediante semplice DIA, tanto che,
per la sua realizzazione, era stato chiesto ed ottenuto
regolare
permesso di costruire, sicché non appariva possibile, a
posteriori, prendere in considerazione la sola (difforme)
realizzazione
della rampa al fine di sostenere la sufficienza della
DIA quale titolo edilizio abilitativo.
Diversamente
argomentando,
si sarebbe venuto, di fatto, ad obliterare, secondo
il Tribunale, la valenza del precetto di cui al D.P.R. n.
380 del 2001, art. 44, lett. a) che, nel prendere in
considerazione
le "parziali" difformità dal titolo abilitativo, sanziona
anche quelle cosiddette "innocue", cioè non suscettibili
neppure di sanzioni amministrative. Contro la sentenza di
condanna proponeva ricorso per cassazione l’interessato,
sostenendo la sanabilità dell’intervento sulla base della
presentazione
di una DIA in sanatoria, non essendo necessario
per eseguire tale intervento, il preventivo rilascio del
titolo
abilitativo costituito dal permesso di costruire.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha affermato
l’importante
principio di cui in massima, precisando che in totale
mancanza di un permesso di costruire per lavori che
non potevano essere assentiti tramite una mera dichiarazione
di inizio di attività, il fatto accertato risultava
penalmente
rilevante ex art. 44, lett. b), D.P.R. n. 380 del 2001 a
nulla rilevando la illegittima concessione di una DIA in
sanatoria
(in precedenza, nel senso che gli interventi edilizi
soggetti al permesso di costruire non sono sanabili, nemmeno
se realizzati dall'interessato con una denuncia di inizio
attività alternativa al permesso di costruire ex art. 22,
comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001, mediante la presentazione
di una DIA in sanatoria, ma richiedono la procedura di
accertamento di conformità prevista per la sanatoria
edilizia
dall'art. 36 del citato decreto: Cass. pen., sez. III, 14.11.2011, n. 41425, in CED Cass., n. 251327, principio
affermato con riferimento ad una fattispecie relativa alla
realizzazione di un muro di contenimento) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.04.2014 n. 14945 - tratto da
Urbanistica e appalti n. 6/2014). |
SICUREZZA
LAVORO:
La posizione di garanzia del direttore dei
lavori.
Sempre più di frequente la figura del direttore
dei lavori compare non senza oscillazioni nella
giurisprudenza della Corte di Cassazione (v., da
ultimo, Cass. 06.03.2014, P.M. in c. Fialà e
altri, in ISL, 2014, 5, 251, alla cui nota si rinvia
per un quadro dei più recenti insegnamenti).
Questa volta, la Sez. IV afferma che «l’obbligo
di apprestare nei cantieri di lavoro i prescritti
mezzi protettivi, anche ai fini delle norme
antinfortunistiche,
incombe non solo sugli imprenditori,
ma anche sui direttori di lavoro (nella
specie, architetto avente la funzione di direttore
dei lavori in un cantiere edile)» (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 31.03.2014 n. 14787
- tratto da Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 6/2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
INTERVENTI IN ZONA VINCOLATA ESEGUITI IN DIFFORMITÀ E LORO
QUALIFICAZIONE COME VARIAZIONI ESSENZIALI.
L'art. 32, comma 3, D.P.R. 06.06.2001,
n. 380, prevede espressamente che tutti gli interventi
realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico
eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi
quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come
variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sul
tema della qualificazione giuridica degli interventi edilizi
eseguiti in zona vincolata, in particolare al fine di
accertare se gli stessi possano essere distinti a seconda
della natura della difformità (totale o parziale) e,
conseguentemente, quale ne sia la sorte sotto il profilo
sanzionatorio.
La vicenda processuale trae origine dal sequestro preventivo
di un fabbricato a trullo e del terreno ad esso annesso,
sequestro disposto dal giudice nei confronti del
proprietario del terreno per avere realizzato, in zona
sottoposta a vincolo, in difetto di titolo abilitativo
edificatorio e di autorizzazione paesaggistica, e, comunque,
in violazione degli strumenti urbanistici vigenti o in
difformità ai titoli abilitativi conseguiti, detto immobile,
delle dimensioni, allo stato grezzo di superficie coperta
pari a mq. 230,14 ed una volumetria impegnata di mc. 629,47.
Contro il sequestro, confermato dal tribunale del riesame,
proponeva ricorso per cassazione l’interessata, sostenendo
che nel caso in esame non sussistevano le condizioni per
l'applicabilità del vincolo reale, posto che le opere erano
da tempo terminate, in ottemperanza al titolo abilitativo in
sanatoria rilasciato nel 2009; peraltro, secondo la difesa,
l'ente territoriale aveva rilasciato all’interessata
un’autorizzazione paesaggistica nel corpo della quale si
dava atto della inesistenza di vincoli paesaggistici
nell'area in questione.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio di cui in massima, osservando che, successivamente
al rilascio del permesso a costruire e della autorizzazione
paesaggistica postuma, l’interessata aveva realizzato
ulteriori opere edilizie in difformità a quelle assentite,
che, eseguite in zona vincolata, vanno considerate come
variazioni essenziali e, quindi, difformità totali (in
termini, sull’argomento: Cass. pen., sez. III, 27.04.2010,
n. 16392, in CED Cass., n. 246960) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.03.2014 n.
14459 - tratto
da Urbanistica e appalti n. 6/2014). |
EDILIZIA
PRIVATA:
INTERVENTI DI RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA SECONDO IL “DECRETO
DEL FARE” E CONSEGUENZE DELL’ELIMINAZIONE DELLA PAROLA
“SAGOMA”.
Dalla definizione recata nell’art. 3,
comma 1, lett. d) ed u.c. del Testo Unico dell’edilizia,
come modificata dal D.L. n. 69 del 2013, art. 30 (cd.
decreto del fare), è stata espunta la parola "sagoma", per
cui secondo la definizione riformulata, nell'ambito degli
interventi di ristrutturazione edilizia vanno ricompresi
anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione a
condizione che venga mantenuta, però, nel novum la stessa
volumetria del pregresso manufatto, anche nel mancato
rispetto della sagoma.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sulle conseguenze derivanti dall’intervenuta modifica, ad
opera del cd. decreto del fare (D.L. n. 69/2013), della
nozione
di interventi di ristrutturazione edilizia che ha visto
espungere la parola “sagoma” dalla relativa definizione.
La
vicenda processuale trae origine dal rigetto da parte del
tribunale
del riesame dell’istanza di sequestro di un immobile
in relazione al procedimento che vedeva indagati i
comproprietari
di detto bene e committenti dei lavori, il tecnico
professionista e direttore dei lavori, ed il titolare della
società
di costruzioni, impresa esecutrice delle opere, perché
nelle rispettive qualità, realizzavano, per quanto di
interesse
agli effetti urbanistico-edilizi, in assenza di permesso di
costruire
e in totale difformità alla DIA, inerente opere di
ristrutturazione
di un preesistente magazzino, due appartamenti
per civile abitazione, in zona agricola "E", a seguito
della totale demolizione del preesistente manufatto, con
ampliamenti volumetrici e modifiche alla sagoma
dell'originario
immobile.
Contro l’ordinanza del tribunale, proponeva
ricorso per cassazione il PM, denunciando violazione ed
erronea
applicazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett.
b), e dell'art. 321 c.p.p. in materia di fumus, in quanto
dalle
indagini era emersa non solo la falsità delle dichiarazioni
rese dagli indagati in tutti gli atti presentati al Comune,
ma
anche la realizzazione del manufatto in questione in difetto
di titolo abilitativo.
La Cassazione ha accolto l’impugnazione della pubblica
accusa,
in particolare ritenendo che la violazione dovesse
considerarsi evidente anche in relazione alle innovazioni
normative di cui al D.L. n. 69 del 2013, art. 30,
disposizione,
questa, che ha introdotto una modifica al D.P.R. n. 380
del 2001, art. 3, comma 1, lett. d) ed u.c., in punto di
definizione
della nozione di interventi di ristrutturazione edilizia:
tali devono intendersi quegli interventi rivolti a
trasformare
gli immobili preesistenti mediante un insieme sistematico
di opere, che possono determinare un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso da quello preesistente.
Dalla
definizione
recata nel testo unico, precisano gli Ermellini, è ora
espunta la parola "sagoma", per cui secondo la definizione
riformulata, nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione
edilizia vanno ricompresi anche quelli consistenti nella
demolizione
e ricostruzione a condizione che venga mantenuta,
però, nel novum la stessa volumetria del pregresso
manufatto,
anche nel mancato rispetto della sagoma.
Orbene,
nel caso di specie, era stato demolito un fabbricato
insistente
in zona classificata "area con esclusiva o prevalente
funzione agricola", con conseguente realizzazione di un
nuovo edificio, composto da due unità immobiliari autonome,
destinate a civile abitazione, con ampliamenti volumetrici,
rispetto al magazzino preesistente; opere, quindi, eccedenti
l'ambito della mera ristrutturazione edilizia, eseguibili
solo in forza di permesso di costruire e non di DIA, non
rientranti nelle fattispecie regolate dal citato art. 30,
D.L. citato
(in precedenza, con riferimento alla nuova disciplina
introdotta sul punto dal c.d. “decreto del fare”, la
Cassazione
ha affermato che l’art. 30 della L. n. 98 del 2013 per
qualificare come ristrutturazione edilizia anche gli
interventi
modificativi della sagoma dell’edificio esistente o che
comportino
la ricostruzione o il “ripristino” di edifici “eventualmente
crollati o demoliti”, richiede l’accertamento della
preesistente consistenza dell’immobile: Cass. pen., sez. III,
07.02.2014, n. 5912 non massimata) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.03.2014 n. 14457 - tratto da
Urbanistica e appalti n. 6/2014). |
VARI:
Dipendenti sotto la lente.
L'azienda può incaricare investigatori privati.
La Corte d'appello Milano sui riscontri sulla lealtà
dell'impiegato.
L'azienda può utilizzare un investigatore privato per
controllare la fedeltà del dipendente. Basta anche solo il
sospetto di un illecito. Ma le verifiche esterne non
potranno mai riguardare la qualità delle attività lavorative
vere e proprie.
È quanto affermato dalla Sez. lavoro
della Corte di Appello di Milano con la sentenza 26.03.2014.
La vicenda riguardava un'azienda farmaceutica, che nel 2010
aveva licenziato per giusta causa un proprio informatore
scientifico. Quest'ultimo aveva ottenuto dall'Inps di godere
dei permessi della legge n. 104/1992 e poi un congedo
straordinario per poter assistere l'anziana madre. A seguito
di richiesta da parte dell'azienda di disponibilità
lavorativa per un periodo di 15 giorni, l'informatore
farmaceutico aveva risposto negativamente. La ragione del
rifiuto era il peggioramento delle condizioni di salute del
genitore.
L'azienda decideva così di rivolgersi a una
società investigativa per valutare la veridicità di tali
affermazioni. Dai controlli emergeva che il soggetto nei 10
giorni di osservazione non aveva assistito la madre (apparsa
comunque in condizioni di provvedere a se stessa nelle
attività quotidiane), dedicandosi ad altro. Inoltre, in
un'occasione il lavoratore aveva affidato al figlio l'auto
aziendale senza chiedere preventiva autorizzazione. Da qui
il procedimento disciplinare culminato con il licenziamento.
Il comportamento dell'azienda è stato validato dal Tribunale
di Milano con la sentenza n. 3398/2011, poi impugnata dal
lavoratore, tra l'altro, per la presunta illegittimità
dell'attività investigativa esterna.
Una tesi che però non convince i giudici di appello.
«L'articolo 2 dello statuto dei lavoratori», si legge nella
sentenza, «nel limitare la sfera di intervento di persone
preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio
aziendale non preclude a quest'ultimo di ricorrere ad
agenzie investigative».
Tale circostanza è quindi ammessa «purché non sconfini nella
vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria», prosegue
il collegio, «riservata dall'articolo 3 dello statuto
direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori».
Per poter dare luogo a simili controlli, non è necessario
che l'illecito o la frode siano stati già perpetrati, ma è
sufficiente «il solo sospetto o la mera ipotesi che gli
illeciti siano in corso di esecuzione». Orientamento
peraltro conforme con quanto già affermato dalla Cassazione
(sentenze nn. 16196/2009 e 3590/2011). Da qui il rigetto
dell'appello e la condanna del lavoratore licenziato anche
alle spese di lite.
«La sentenza è molto equilibrata soprattutto in merito al
bilanciamento fra il diritto alla riservatezza del
dipendente e quello dell'azienda alla tutela del proprio
patrimonio», commenta l'avvocato Massimo Lupi, partner
dello studio milanese Lupi&Associati, «comunemente si
ritiene che il Codice della privacy e lo statuto del
lavoratori vietino qualsiasi tipo di controllo a distanza
dei dipendenti e che, conseguentemente, le fotografie e le
relazioni elaborate delle agenzie investigative siano
inutilizzabili in giudizio contro il lavoratore. Ma è una
convinzione errata» (articolo
ItaliaOggi Sette del 30.06.2014). |
SICUREZZA LAVORO:
Impresa affidataria,
impresa subappaltante
e coordinatore
per l’esecuzione dei lavori.
Nell’ambito di un cantiere avente per oggetto la
realizzazione di un opificio, l’impresa appaltatrice
aveva affidato specifici lavori a vari artigiani.
Per l’infortunio subito da un artigiano incaricato
della impermeabilizzazione della parte
esterna superiore di un tunnel in cemento armato
destinato a collegare due punti dell’opificio
in costruzione, furono condannati, oltre al direttore
tecnico di cantiere, il rappresentante legale
dell’impresa appaltatrice subappaltante e il
coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
A) Nel confermare la condanna, la sentenza
Moretti fornisce utili chiarimenti in ordine alla
posizione di garanzia dell’appaltatore subappaltante
e del coordinatore per l’esecuzione dei lavori.
Al primo riguardo, prende in considerazione
gli obblighi di sicurezza ricadenti in capo
ai soggetti responsabili dell’impresa affidataria
di lavori che sì sia fatta a sua volta (sub)appaltante
dei lavori commissionati.
Afferma che «anche il subappaltante rientra tra
i titolari degli obblighi di sicurezza, in definitiva
sulla scorta del principio secondo il quale il
coinvolgimento nella complessiva attività impone
a ciascun soggetto, titolare di poteri organizzativi,
correlativi obblighi di protezione della
sicurezza dei lavoratori.»
Rileva in termini inediti che, «come dimostra
anche la specifica considerazione che l’art. 89
D.Lgs. n. 81/2008 dedica oggi alla figura dell’impresa
affidataria, cioè all’impresa titolare
del contratto di appalto con il committente
che, nell’esecuzione dell’opera appaltata, può
avvalersi di imprese subappaltatrici o di lavoratori
autonomi, distinguendola dall’impresa esecutrice,
la posizione della ditta subappaltante
presenta aspetti peculiari», in quanto «essa si
interpone tra il datore di lavoro che ha la disponibilità
dei luoghi ovvero poteri di governo del
processo produttivo e l’impresa esecutrice, realizzando
un ulteriore fattore di rischio per la sicurezza
del lavoro, in ragione dell’allungamento
della catena di comando, della frammentazione
delle sequenze operative, della ulteriore
articolazione dell’organizzazione.»
Ne trae che «il suo ruolo non può essere scisso
dall’obbligo di concorrere nell’apprestamento
delle misure necessarie a fronteggiare i rischi
derivanti dall’esistenza del subappalto, a meno
che non se ne spogli totalmente, lasciando al
subappaltatore ogni autonomia organizzativa»,
e che, «quando però egli contribuisca in qualche
misura alla organizzazione delle attività
da eseguirsi in ragione del subappalto, sarà tenuto
sia a far fronte agli obblighi che oggi il
D.Lgs. n. 81/2008, art. 26, pone in capo al datore
di lavoro-appaltante, sia a quelli che l’art.
26, comma 2, pone in capo a tutti i datori di lavoro
coinvolti nell’appalto.»
Considera «decisivo, per l’esclusione della
responsabilità
del subappaltante, la sua non ingerenza», nel senso che «il subappaltante
è esonerato
dagli obblighi di protezione solo nel caso
in cui i lavori subappaltati rivestano una completa
autonomia, sicché non possa verificarsi alcuna
sua ingerenza rispetto ai compiti del subappaltatore.»
Ritiene «evidente che, ai fini di una tale valutazione,
non può assumere alcun rilievo la semplice
circostanza secondo cui vi era sempre
uno scarto spaziale e temporale tra le attività affidate
in subappalto all’artigiano e quelle invece
di pertinenza della subappaltante», e ciò perché
«comunque una tale modalità operativa presuppone
pur sempre un’organizzazione del lavoro
convergente al medesimo fine e facente capo
inevitabilmente anche alla ditta subappaltante,
ed è cosa pertanto ben diversa dalla integrale
autonomia richiesta dal summenzionato principio,
presupponendo questa che si tratti di lavori
subappaltati per intero, cosicché non possa più
esservi alcuna ingerenza da parte dello stesso
nei confronti del subappaltatore.»
Precisa che «un’esclusione della responsabilità
dell’appaltatore è configurabile solo qualora al
subappaltatore sia affidato lo svolgimento di lavori,
ancorché determinati e circoscritti, che
svolga in piena ed assoluta autonomia organizzativa
e dirigenziale rispetto all’appaltatore, e
non nel caso in cui la stessa interdipendenza
dei lavori svolti dai due soggetti escluda ogni
estromissione dell’appaltatore dall’organizzazione
del cantiere», e che, «nella ricorrenza delle
anzidette condizioni, trattandosi di norme di
diritto pubblico che non possono essere derogate
da determinazioni pattizie, non potrebbero
avere rilevanza operativa, per escludere la responsabilità
dell’appaltatore, neppure eventuali
clausole di trasferimento del rischio e della
responsabilità
intercorse tra questi ed il subappaltatore.»
Mette in luce che, «per la natura e le caratteristiche
dell’attività commissionata, questa non
si poteva svolgere in una zona o in un settore
separato, coinvolgente solo il subappaltatore,
derivandone dunque che il committente (cui è
equiparabile anche il subappaltante), il quale è
ex lege il coordinatore della cooperazione, deve
essere in grado di rendersi conto dell’insufficiente
contributo tecnico dell’appaltatore medesimo
e cooperare perché, di fatto, le condizioni
di lavoro siano sicure con la conseguenza che,
verificatosi un sinistro, l’eventualmente inadeguato
apprestamento delle misure precauzionali
non può non essere ascritto ad entrambi perché
garanti, destinatari dell’obbligo di predisporre
sicure condizioni di lavoro.» (Sulla posizione
di garanzia dell’appaltatore-subappaltante v.,
supra, la sentenza Del Rossi; circa la posizione
di garanzia del sub-committente v. Cass. 18.12.2013, Gerna, in ISL, 2014, 2, 97).
B) Di grande spessore
è pure l’analisi dedicata
alla figura del coordinatore per l’esecuzione dei
lavori.
A sua discolpa, l’imputato ricorre all’abituale
argomento difensivo della «vigilanza alta.»
Sostiene, infatti, che «dai compiti a lui attribuiti
quale coordinatore per la sicurezza in fase di
esecuzione, indicati nel punto 4.6 della norma
UNI 10942, derivava a suo carico solo una funzione
di vigilanza ‘‘alta’’, non confondibile con
quella operativa demandata al datore di lavoro,
e pertanto solo qualora l’infortunio fosse riconducibile
a carenze organizzative generali poteva
essere configurata una responsabilità a suo carico:
situazione non riscontrabile nella fattispecie
dal momento che le stesse circostanze riferite
dal danneggiato escludono l’esistenza di un’insidia
nel luogo ove egli si trovava a lavorare,
ma evidenziano piuttosto la distrazione e l’imprudenza
del medesimo che, consapevole dello
stato dei luoghi e custode degli stessi in prima
persona (come tale anche obbligato a predisporre
un piano operativo di sicurezza, invece
omesso) era inciampato per fatto proprio nell’apertura
del lucernaio, camminando all’indietro.»
E rimarca che «fra gli obblighi del coordinatore
per l’esecuzione non è compreso il controllo e
la manutenzione degli impianti e dei dispositivi
di sicurezza, compiti questi ultimi di competenza
delle imprese esecutrici», ed ancora che «il
coordinatore non ha un obbligo di frequenza
continua nel cantiere, specie in occasione delle
fasi di lavoro che non presentano particolari criticità
per la sicurezza dei lavoratori.»
Ancora una volta, la Sez. IV replica efficacemente
che «il coordinatore per l’esecuzione
dei lavori non ha esclusivamente il compito di
organizzare il lavoro tra le diverse imprese operanti
nello stesso cantiere, bensì anche quello di
vigilare sulla corretta osservanza da parte delle
stesse delle prescrizioni del piano di sicurezza e
sulla scrupolosa applicazione delle procedure di
lavoro a garanzia dell’incolumità dei lavoratori,
ed è, pertanto, titolare di un’autonoma posizione
di garanzia che, nei limiti degli obblighi specificamente
individuati dalla legge, si affianca a
quelle degli altri soggetti destinatari delle norme
antinfortunistiche, comprendendo, non solo
l’istruzione dei lavoratori sui rischi connessi alle
attività lavorative svolte e la necessità di
adottare tutte le opportune misure di sicurezza,
ma anche la loro effettiva predisposizione, nonché il controllo continuo ed effettivo sulla concreta
osservanza delle misure predisposte al fine
di evitare che esse siano trascurate o disapplicate,
nonché, infine, il controllo sul corretto
utilizzo, in termini di sicurezza, degli strumenti
di lavoro e sul processo stesso di lavorazione,
sicché, in particolare, è tenuto a verificare, attraverso
un’attenta e costante opera di vigilanza,
l’eventuale sussistenza di obiettive situazioni
di pericolo nel cantiere, e tanto, in relazione a
ciascuna fase dello sviluppo dei lavori in corso
di esecuzione.»
Chiarisce che, nel caso di specie, «gli obblighi
di garanzia, come sopra delineati, posti a carico
del coordinatore per la sicurezza dell’esecuzione
dei lavori, non possono considerarsi adempiuti», stante in particolare «l’inadeguatezza
della protezione rappresentata dal foglio di rete
elettro-saldata all’apertura del lucernaio (resa
palese dal fatto che la stessa veniva agevolmente
tolta dagli operai che lavoravano nel sottostante
tunnel per passare da sotto a sopra e viceversa)
e, con essa, anche l’omissione dei doverosi
e costanti controlli da parte del predetto.»
Non ravvisa alcuna «contraddizione con la pure
affermata responsabilità del direttore tecnico
del cantiere.»
E spiega che «la normativa dettata in materia di
sicurezza sul lavoro attribuisce al coordinatore
per la fase di esecuzione dei lavori una specifica
posizione di garanzia, che non si sovrappone,
bensì si aggiunge a quella assegnata ad altri
soggetti destinatari delle norme antinfortunistiche,
e ne individua gli obblighi nei termini sopra
delineati, trattandosi peraltro di posizione di
garanzia diretta, essendo per essa prevista una
diretta responsabilità penale per il caso di inosservanza
dei relativi obblighi (art. 158 D.Lgs. n.
81/2008).»
(Circa gli obblighi del coordinatore per l’esecuzione
dei lavori v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza
sul Lavoro commentato con la giurisprudenza,
cit., 550 ss., cui aggiungi Cass.
16.05.2013, Catale e altri, e Cass. 26.04.2013, Mongelli, in ISL, 2013, 8-9,
456; nonché, in ISL, 2014, 2, 94, Cass. 10.12.2013, Tuozzo; Cass.
04.12.2013,
Del Prete; Cass. 04.12.2013, Celentano e
altri).
II.
Del coordinatore per l’esecuzione dei lavori si
occupa anche la sentenza Babusci.
Il caso riguarda lavori eseguiti nel tunnel ferroviario
del Frejus e consistenti in opere dirette
all’abbassamento della massicciata ed alla ricostruzione
dei binari.
Un lavoratore, «utilizzando
la chiave di accesso lasciata appesa ad una catenella
posta in un quadro elettrico, era entrato
nella cabina contenente il trasformatore di corrente
elettrica che alimentava una fresatrice, rimanendo
folgorato a seguito di contatto del corpo
con uno dei conduttori di tensione presenti
all’interno della cabina.»
Per omicidio colposo furono condannati, oltre
che l’operaio elettricista al quale era stata affidata
la custodia delle chiavi della cabina, il datore
di lavoro dell’infortunato e il coordinatore
in materia di sicurezza in fase di esecuzione
dell’opera.
Per cominciare, la Sez. IV sottolinea i profili di
colpa del datore di lavoro: «non erano state previste
nel piano operativo di sicurezza le specifiche
misure di prevenzione e protezione da adottarsi
per garantire la sicurezza dei lavoratori nel
corso di operazioni che prevedevano l’accesso
alla cella trasformatore»; «mancata adeguata
formazione degli elettricisti circa le misure di
sicurezza da adottare per prevenire i rischi di
folgorazione e, in generale, nell’omessa informazione circa
i rischi connessi con l’accesso
nella cabina con le parti in tensione»; «quanto
alle decantate formazione, professionalità ed
esperienza del personale, degli elettricisti in
particolare, ed alla oculatezza nell’individuare
il consegnatario delle chiavi della cabina, sembra
evidente che lo stesso infortunio ne ha attestato
la grave insufficienza e l’approssimazione»; «solo la cattiva informazione e l’inadeguata
formazione ha indotto la vittima ad accedere,
senza precauzione alcuna, dentro la cabina»;
«solo chi non possedeva un idoneo livello di
formazione ed aveva ricevuto ben scarse informazioni
circa le esigenze di sicurezza cui rispondeva
l’inanellamento delle chiavi del complesso
macchinario, le avrebbe disanellate»;
«solo chi era privo di adeguate formazione ed
informazione circa la necessità, ancora per evidenti
motivi di sicurezza, di custodire con attenzione
e scrupolo la chiave della cabina, l’avrebbe
lasciata incustodita e a disposizione di
chiunque»; «proprio la delicatezza di tale incarico,
per i riflessi che lo esso avrebbe avuto in
punto di sicurezza del cantiere, richiedeva che
lo stesso fosse assegnato dopo che della persona
prescelta si fosse adeguatamente verificato il
livello di formazione e di affidabilità, e dopo
che la stessa fosse stata adeguatamente informata
e resa consapevole della delicatezza del
compito affidatogli.»
Quanto al coordinatore, la Sez. IV osserva che
egli «era titolare di un’autonoma posizione di
garanzia, che si affiancava a quelle degli altri
soggetti destinatari delle norme antinfortunistiche»,
e che «tale posizione imponeva all’imputato,
anzitutto, di verificare l’idoneità del piano
operativo di sicurezza predisposto dalla ditta
esecutrice dei lavori con riferimento, in particolare,
alla regolamentazione delle modalità di accesso
alla cella trasformatore ed alla individuazione
delle misure da adottare perché tale accesso
avvenisse solo in condizioni di sicurezza
e solo da parte del personale qualificato, adeguatamente
formato e specificamente autorizzato.»
Prende atto che «a tale verifica non aveva provveduto
l’imputato che, delle evidenti carenze
del piano, avrebbe dovuto prendere atto e pretendere
che ad esse si ponesse immediatamente
rimedio; ciò ancor prima che fosse messo in
funzione il macchinario.»
Inoltre, «in relazione al dovere di vigilanza, attribuito
allo stesso coordinatore, sulla corretta
osservanza, da parte dei lavoratori, delle misure
di prevenzione e sicurezza», precisa che «a
tale figura professionale è demandato tale specifico
compito che, seppur non deve implicare
una continua presenza in cantiere, deve tuttavia
esercitarsi in maniera attenta, e scrupolosa
e deve riguardare tutte le lavorazioni in atto,
specie quelle che pongono maggiormente a rischio
l’incolumità dei lavoratori; esso deve essere
costantemente esercitato per consentire, in
caso di mancato rispetto delle norme di sicurezza
e prevenzione, di intervenire ed adottare
le misure necessarie ad eliminare prontamente
l’eventuale sussistenza di obiettive situazioni
di pericolo.»
Spiega che «la presenza in cantiere, peraltro all’interno
di una galleria, del macchinario in
questione, che già avrebbe dovuto costituire oggetto
di particolare attenzione per chiunque ricopriva
posizioni di garanzia, e dunque anche
per il coordinatore, avrebbe dovuto indurre a
porre maggior attenzione»: «non si trattava solo
di accorgersi della mancata custodia delle chiavi,
che pure, in vista dell’uso a cui erano destinate,
avrebbero dovuto esser oggetto di specifica
attenzione, bensì di rendersi conto almeno
del fatto, particolarmente grave e facilmente verificabile,
che il sistema di garanzia degli interblocchi
tra interruttore e accesso al trasformatore
era stato disatteso, con gravissimo rischio per
chiunque, sia pure imprudentemente e senza essere
autorizzato, avesse deciso di accedere alla
cabina; ed ancora, della mancata apposizione
(e prima ancora della mancata previsione nel
POS) di cartelli di avvertimento e di pericolo
capaci di attirare l’attenzione anche delle persone
meno attente per indurle alla massima prudenza.»
La conclusione è che, «ove in maniera completa
e dettagliata fosse stato elaborato il piano
operativo di sicurezza sui punti in contestazione,
ove l’imputato avesse adeguatamente verificato
la rispondenza dello stesso alle esigenze di
prevenzione e di sicurezza connesse con la presenza
e l’utilizzazione della cabina elettrica e
fosse intervenuto per porre rimedio alle carenze
sopra evidenziate, eventualmente anche interrompendo
le lavorazioni, l’infortunio non si sarebbe verificato.»
(Corte di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 10.03.2014 n. 11522
- Corte di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 06.03.2014 n. 10898
- tratto da Igiene
& Sicurezza del Lavoro n. 5/2014). |
SICUREZZA LAVORO: La posizione di garanzia
del direttore dei lavori.
Continua a destare l’interesse della giurisprudenza
la figura del direttore dei lavori (v. al riguardo
Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la
giurisprudenza, cit., Milano, 2013, 581 ss.).
Ultimamente, Cass. 28.01.2014, Quadraro,
in ISL, 2014, 4, 198, osservò che la figura
del direttore dei lavori, «sebbene non definita
dalla normativa dettata dal D.Lgs n. 81/2008,
ha compiti in materia di sicurezza ben individuati
normativamente:
a) anzitutto, in tema di disarmo delle armature
provvisorie di cui al comma 2 dell’articolo
142, stabilendo la norma (art. 145 D.Lgs n.
81/2008) che tale disarmo deve essere effettuato
con cautela dai lavoratori che hanno ricevuto
una formazione adeguata e mirata alle operazioni
previste sotto la diretta sorveglianza del capo
cantiere e sempre dopo che il direttore dei lavori
ne abbia data l’autorizzazione;
b) in secondo luogo, quello di liquidare l’importo
relativo ai costi della sicurezza previsti
in base allo stato di avanzamento lavori, previa
approvazione da parte del coordinatore per l’esecuzione
dei lavori quando previsto (Allegato
XV al D.Lgs n. 81/2008, punto 4.1.6)».
Aggiunse che il direttore dei lavori, «per giurisprudenza
costante, è responsabile dell’infortunio
sul lavoro quando gli viene affidato il compito
di sovrintendere all’esecuzione dei lavori,
con la possibilità di impartire ordini alle maestranze
sia per convenzione, cioè per una particolare
clausola introdotta nel contratto di appalto,
sia quando per fatti concludenti risulti che
egli si sia in concreto ingerito nell’organizzazione
del lavoro», ma che «nulla autorizza l’estensione
analogica della fattispecie astratta e di
quella sanzionatoria contestata all’attuale imputato,
atteso che si tratta di previsione attinente
ad un soggetto dotato di qualifica ben determinata,
ossia il coordinatore per la progettazione;
diversamente, trattandosi di reato proprio, si
violerebbe il divieto di analogia in materia penale
(nel caso in esame, peraltro, in malam partem),
salvi i casi di concorso dell’extraneus,
questione non rilevante nel caso di specie.»
Pochi mesi prima, Cass. 10.10.2013, Redaelli
e altri, ibid., 2014, 1, 32, fu meno conciliante
in un’ipotesi in cui la colpa ascritta al direttore
dei lavori per conto del committente era
stata quella «di aver omesso l’attività di controllo
e di vigilanza consistita nell’informare
la committente della mancata installazione delle
opere provvisionali -al fine di consentire il
coordinamento fra le attività di prevenzione-
nonché di aver mancato di segnalare il rischio
di incidenti, derivante dalla simultanea presenza
di più imprese operanti in particolare nell’esecuzione
dell’attività di collaudo degli ascensori
nonostante non fosse stata adeguatamente
allestita e completata l’attività di messa in sicurezza
dei vani ascensori.»
La Sez. IV prese atto che «la committente s.p.a.
ebbe ad affidare all’architetto, con apposito
contratto, oltre alla progettazione architettonica,
la direzione dei lavori, l’assistenza al collaudo
delle opere ed il coordinamento delle attività
demandate nel cantiere ad altri professionisti.»
Ritenne che l’imputato fosse «investito di specifica
posizione di garanzia in materia antinfortunistica,
la cui fonte risiedeva nel richiamato
contratto d’opera professionale in forza del quale
il professionista risultava collaboratore della
committente con l’incarico specifico di direttore
dei lavori da eseguirsi nel cantiere, per conto
della stessa.»
Concluse che anche il direttore dei lavori, «quale
destinatario in tale veste delle norme antinfortunistiche,
fosse tenuto a garantirne l’osservanza,
avuto riguardo al carattere ‘‘estensivo’’
della conseguente responsabilità alla stregua
della disciplina dettata in materia.»
Rilevò, altresì, che l’imputato, grazie alla presenza
quotidiana in cantiere per almeno due
ore (onde esser in grado di espletare l’incarico
affidatigli dalla committente) alla data dell’evento,
era perfettamente a conoscenza che si
stavano effettuando lavori di montaggio e collaudo
degli ascensori al pari della propria assistente,
anche alla stregua delle dichiarazioni da costei rese.
E insegnò che «l’imputato, titolare di un ben
precisa posizione di garanzia che lo abilitava
ad impartire direttive ed ordini per conto della
committente e ad esigerne l’osservanza, ebbe
invece ad omettere qualsiasi attività di controllo,
di vigilanza e di informazione circa l’inadeguatezza
delle misure antinfortunistiche apprestate
nella zona ove erano in corso l’installazione
ed il collaudo degli ascensori al fine di consentire
il coordinamento tra le attività prevenzionistiche.»
Questa volta, la Sez. IV rileva, anzitutto, che, in
primo grado, il tribunale, nel condannare il direttore
dei lavori per un infortunio mortale occorso
a due dipendenti dell’impresa esecutrice
in un cantiere per il crollo di un fronte di scavo,
«pur in assenza di una espressa accettazione,
aveva attribuito la qualità di direttore dei lavori
all’imputato in ragione della nomina da parte
della committenza, sulla scorta della ritenuta
accettazione di fatto dell’incarico desunta dalla
presenza del predetto sul cantiere e dalla redazione
da parte sua dei preventivi, con quietanza
degli anticipi ricevuti anche in relazione alle
opere di sbancamento»; «aveva tratto, altresì,
dalla circostanza relativa al blocco dei lavori -prospettato dall’imputato al proprietario del terreno
presente sul posto, ove gli stessi fossero
proseguiti senza il deposito del progetto corredato
da relazione geologica presso il Genio Civile- la consapevolezza in capo allo stesso imputato
della qualità assunta e delle correlate responsabilità,
nonché della pericolosità della situazione
creatasi, desumibile dalla stessa relazione
geologica effettuata prima dello sbancamento
e dalla constatazione da parte del direttore
dei lavori, presente sul cantiere il giorno del
fatto, della pericolosità dello sbancamento stesso,
effettuato in difformità rispetto ai progetti e
senza l’adozione di alcuna cautela nell’esecuzione
dei lavori, nonché in ragione del rilievo
limitato al solo profilo dell’incompletezza della
procedura»; e «aveva desunto, altresì, dai fatti
richiamati, l’omessa prospettazione da parte
del direttore dei lavori di rischi per l’incolumità
degli operai, così ravvisando la responsabilità
dello stesso, quale tecnico, in solido con il responsabile
della sicurezza, collegata all’attività
conoscitiva peculiare correlata alle sue specifiche
competenze tecniche e di settore.»
A questo punto, la Sez. IV prende atto che, nell’assolvere
il direttore dei lavori, la corte d’appello
«non ha dato conto in maniera adeguata
delle ragioni per le quali è stato disatteso il
ragionamento
dei giudici di primo grado, e, in
particolare, delle ragioni per le quali fosse da
escludere qualsiasi responsabilità del direttore
dei lavori per mancanza di prova circa la sua ingerenza
nell’organizzazione di cantiere, non
potendo essere ritenuta decisiva in funzione di
esonero dalla responsabilità la mancata presenza
quotidiana di costui sul cantiere né la rilevata
assenza al momento della gettata in calcestruzzo
e del crollo, pur risultando la presenza dello
stesso nella mattinata e la prospettazione da
parte sua di una possibile diffida a non proseguire
le opere in mancanza dei necessari adempimenti
amministrativi, non accompagnata dalla
segnalazione dei gravi rischi connessi alla
gettata del calcestruzzo e dalla proibizione della
prosecuzione dei lavori in cemento armato.»
E nel ricordare che «il direttore dei lavori è responsabile
anche nell’ipotesi di sua assenza dal
cantiere, dovendo egli esercitare un’oculata attività
di vigilanza sulla regolare esecuzione delle
opere edilizie ed in caso di necessità adottare le
necessarie precauzioni d’ordine tecnico, ovvero
scindere immediatamente la propria posizione
di garanzia da quella dell’assuntore dei lavori,
rinunciando all’incarico ricevuto», annulla la
sentenza di assoluzione pronunciata dalla corte
d’appello (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 06.03.2014 n. 10905
- tratto da Igiene
& Sicurezza del Lavoro n. 5/2014). |
SICUREZZA LAVORO: Obbligo di vigilanza
del datore di lavoro
committente.
Tra i profili più innovativi della giurisprudenza
della Corte Suprema a proposito degli obblighi
del datore di lavoro committente nel quadro
dell’art. 26 D.Lgs. n. 81/2008, fa spicco quello
attinente alla vigilanza sulla sicurezza dei lavori
appaltati (sul tema v. i precedenti richiamati in
Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato
con la giurisprudenza, cit., 315 ss.).
Nel tornare sul punto, la presente sentenza insegna
che, «in tema di infortuni sul lavoro, il contratto
di appalto non solleva da precise e dirette
responsabilità il committente allorché lo stesso
assuma una partecipazione attiva nella conduzione
e realizzazione dell’opera, in quanto, in
tal caso, rimane destinatario degli obblighi assunti
dall’appaltatore, compreso quello di controllare
direttamente le condizioni di sicurezza
del cantiere.»
Aggiunge che «la responsabilità del committente
sussiste comunque nelle ipotesi di ingerenza
del committente stesso nell’esecuzione dei lavori
oggetto dell’appalto o del contratto di prestazione
d’opera o nelle ipotesi di percepibilità
agevole e immediata da parte del committente
di eventuali situazioni di pericolo.»
E prende atto che, nel caso di specie, il committente
«si ingerì pesantemente nei lavori affidati, e
che -al contempo- non controllò le condizioni di
sicurezza del cantiere, tanto che permise alla persona
offesa di utilizzare un attrezzo del tutto inidoneo
sotto il profilo della sicurezza del lavoro.» (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 26.02.2014 n. 9330
- tratto da Igiene
& Sicurezza del Lavoro n. 5/2014). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Anche i committenti pagano.
L'ordine impartito alla ditta fa scattare la responsabilità.
La Cassazione evidenzia anche l'affidamento a soggetti privi
di capacità tecniche.
In tema di appalto è, di regola, l'appaltatore a dover
rispondere dei danni cagionati a terzi durante l'esecuzione
del contratto, attesa l'autonomia con cui egli svolge la sua
attività nell'esecuzione dell'opera o del servizio
appaltato. La responsabilità in solido del committente,
invece, sussiste nei soli casi in cui il fatto lesivo sia
stato commesso dall'appaltatore in esecuzione di un ordine
impartitogli o per aver affidato i lavori a un soggetto
privo delle necessarie capacità tecniche.
Lo ha stabilito la III Sez. civile della Corte di
Cassazione con la
sentenza 19.02.2014 n. 3967.
Nel caso concreto un quattordicenne, recatosi in parrocchia
per qualche ora di gioco, si è seduto su una catena che
univa alcuni pilastri. Uno di questi, in seguito alla
pressione esercitata sulla catena, è ceduto rovinando contro
il giovane, così cagionandogli significativi danni
permanenti. Il padre ha, dunque, proposto azione
risarcitoria innanzi al giudice civile, convenendo in
giudizio la parrocchia, il Comune e la ditta responsabile
della realizzazione dei pilastro.
All'esito del giudizio di primo grado il Tribunale ha
condannato in solido tutte le parti convenute, senza
distinzione alcuna, salvo attribuire il 20% della
responsabilità dell'incidente alla condotta del minore.
La sentenza è stata appellata da tutte le parti in causa
innanzi alla Corte d'appello. I giudici di secondo grado,
nell'apprezzare lo scrutinio del giudice di prime cure,
hanno vieppiù confermato la decisione gravata riformandola
solamente sotto il profilo del quantum risarcitorio. A nulla
sono valse le difese del Comune tese a rimarcare la propria
estraneità alla vicenda, quale semplice committente
dell'appalto, realizzato in totale autonomia, dalla ditta di
costruzioni.
Invero secondo la Corte territoriale la
responsabilità dell'Ente pubblico sarebbe discesa dalla
negligente verifica in ordine alla conformità e alla
sicurezza dell'opera appaltata: più precisamente, si è
osservato come, sebbene non vi fossero dubbi tanto sulla
cattiva fattura dell'opera quanto sull'assenza di errori di
progettazione, permanevano ciò nonostante profili di rimproverabilità nei confronti del Comune per via del
mancato assolvimento, da parte sua, dell'onere di appurare,
in corso d'opera e a lavoro concluso, il grado di sicurezza
dell'opera realizzata.
La lite non poteva che finire all'attenzione dei giudici di
legittimità. Tra vari ricorsi e motivi di censura, la
questione che più rileva è senz'altro quella relativa ai
profili di responsabilità dell'Ente pubblico per i danni
occasionati a terzi dall'opera appaltata riconducibili alla
cattiva esecuzione dei lavori da parte della ditta
aggiudicataria.
Ebbene, nell'affrontare la delicata vicenda, i giudici
capitolini hanno osservato come, in tema di appalto, sia
l'appaltatore, in genere, colui che risponde dei danni
provocati a terzi (ed eventualmente anche dell'inosservanza
della legge penale durante l'esecuzione del contratto), e
tanto in virtù dell'autonomia con cui egli svolge la sua
attività nell'esecuzione dell'opera o del servizio
appaltato. L'appaltatore, con propria organizzandone dei
mezzi necessari, cura le modalità esecutive, e si obbliga a
fornire al committente, in modo esatto, l'opera o il
servizio pattuito in sede negoziale.
Di contro sul
committente grava l'obbligo di porre in essere il dovuto
controllo sull'opera che, tuttavia, è da relegarsi
all'accertamento e alla verifica della corrispondenza
dell'opera o del servizio affidato all'appaltatore rispetto
a quanto costituisce oggetto del contratto. Ne deriva sotto
il profilo patologico di interesse, che una responsabilità
del committente nei riguardi dei terzi può dirsi sussistente
nei soli limiti in cui appaia dimostrato che il fatto lesivo
sia stato commesso dall'appaltatore in esecuzione di un
ordine impartitogli dal direttore dei lavori o da altro
rappresentante del committente stesso ovvero quando sia
configurabile, in capo al committente, una culpa in eligendo,
cioè per aver affidato il lavoro a un'impresa priva delle
capacità tecniche necessarie.
La Corte mostra, ancora una volta, di aderire
all'orientamento giurisprudenziale che, nel perimetrare i
confini delle responsabilità tra committente e appaltatore
si affida al criterio discretivo fondato sulla presenza o
meno di direttive chiare e precise del committente in
esecuzione delle quali è derivato il danno, pervenendo
all'esito assolutorio del committente ogni qualvolta
quest'ultimo abbia assunto il ruolo di nudus minister a
fronte della totale autonomia organizzativa ed esecutiva
dell'appaltatore.
Ebbene, riversando le coordinate interpretative come sopra
ricapitolate al caso concreto, e tenuto conto che il
sinistro si era verificato nella vigenza della normativa
che, per appalti di importo inferiore ai 150 milioni di
lire, ammetteva la semplice produzione del certificato di
corretta esecuzione dell'opera anziché la verifica di
collaudo, la Corte di cassazione ha mandato indenne dalla
condanna il Comune, conseguentemente attribuendo l'intera
responsabilità dell'incidente alla ditta di costruzioni,
avendo agito quest'ultima in totale autonomia e non essendo
stati riscontrati errori progettuali commessi dai tecnici
dell'Ente (articolo ItaliaOggi Sette
del 30.06.2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
IMPIANTI MOBILI.
Rifiuti - Gestione di impianti mobili - Riduzione
volumetrica e la separazione delle frazioni estranee -
Deroga- Attività diverse soggette al regime ordinario
Art. 208, D.Lgs. n. 152/2006
La deroga al regime ordinario in materia
di rifiuti prevista, dall’art. 208, comma 15, D.Lgs. n.
152/2006, per gli impianti mobili che eseguono la sola
riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni
estranee, opera esclusivamente con riferimento a tali
attività, restando conseguentemente esclusa ogni
operazione diversa, antecedente o successiva, che rimane
invece soggetta alla disciplina generale.
Nella specie, il legale rappresentante della «R.S. s.p.a.»,
è
stato condannato per il reato di cui all’art. 256, comma 1,
lett. a), D.Lgs. n. 152/2006, in relazione all’art. 208,
comma
15 dello stesso decreto, per aver esercitato un impianto
mobile
di recupero di rifiuti speciali non pericolosi, consistenti
in
materiali da demolizione, in assenza della prescritta
comunicazione
da presentare all’ente competente almeno 60 giorni
prima della campagna di lavoro.
Nel proposto ricorso per cassazione, l’imputato asseriva che
la
sentenza impugnata aveva erroneamente letto l’art. 208,
comma
15, essendo egli in possesso di regolare iscrizione nel
«Registro
provinciale delle imprese che esercitano attività di
recupero
di rifiuti non pericolosi» ed avendo effettuato, nella
fattispecie, attività di mera riduzione volumetrica di
rifiuti non
pericolosi mediante impianto mobile, come tale esclusa
espressamente
dagli obblighi autorizzativi di cui all’art. 208, comma
15. In tal modo, secondo il ricorrente, il giudice del
merito
aveva considerato, in sostanza, che la deroga prevista dal
citato
articolo opererebbe soltanto nel caso in cui l’impianto
mobile sia stato autorizzato anche nelle forme ordinarie,
così
travisando il senso della disposizione applicata.
Il ricorso è stato accolto è fondato e la sentenza è
stata annullata
con rinvio per nuovo esame alla luce del principio di
diritto affermato.
La Cassazione è partita dall’assunto che risultava
accertato in
fatto che la società dell’imputato stesse svolgendo,
all’atto del
controllo, attività di recupero di rifiuti speciali non
pericolosi,
costituiti da «residui di attività di demolizione e
costruzione»,
consistita nella «riduzione volumetrica e separazione dei
suddetti
residui», effettuata utilizzando un «apposito macchinario
mobile» presso un cantiere ubicato in località diversa da
quella
indicata nell’atto autorizzatorio presente in atti.
Dando conto della circostanza che l’attività di gestione
era stata effettuata «al di fuori della sede autorizzata», il
Giudice
aveva ritenuto tale condotta assimilabile a quella di
gestione
in assenza di titolo abilitativo e, confutando una specifica
deduzione difensiva, aveva osservato che il richiamo
all’art.
208, comma 15, doveva ritenersi inconferente non risultando,
dall’autorizzazione presente in atti, che l’impianto cui
essa si
riferisce fosse qualificato come impianto mobile.
La Corte ha poi rilevato che il ricorrente non contestava i
dati
fattuali, concernenti l’attività in concreto svolta
(recupero
mediante riduzione volumetrica e separazione), l’oggetto di
tale attività (rifiuti derivanti da attività di
demolizione e costruzione)
ed il mezzo (impianto mobile) con il quale detta
attività veniva effettuata. Inoltre era pacifico che la società
dell’imputato operasse in regime di procedura semplificata.
Tale complessivo stato di cose, ad avviso del Collegio,
avrebbe
però richiesto, da parte del giudice del merito, una
lettura
diversa delle disposizioni applicate.
Infatti, la disciplina generale in tema di rifiuti prevede
che le
attività di gestione siano soggette al possesso di
determinati
titoli abilitativi che richiedono, nei casi in cui è
maggiore il
rischio di conseguenze negative per l’ambiente, il rilascio
di un
atto formale di autorizzazione all’esito di un complesso
procedimento
amministrativo, mentre, negli altri casi, è richiesta la
semplice iscrizione all’Albo nazionale dei gestori
ambientali
sino a prevedere, per determinate attività, il ricorso alle
procedure
semplificate.
L’art. 208, in particolare, prevede attualmente
un’autorizzazione
unica, rilasciata dalla Regione, per la realizzazione e
gestione
di nuovi impianti di smaltimento o di recupero di rifiuti,
anche pericolosi, i contenuti essenziali della quale sono
indicati
nel comma 11.
Detta disposizione stabilisce anche alcune eccezioni alla
procedura
ordinaria, che riguardano il controllo e l’autorizzazione
delle operazioni di carico, scarico, trasbordo, deposito e
maneggio
di rifiuti in aree portuali, i quali sono disciplinati dalle
specifiche disposizioni, il deposito temporaneo effettuato
nel
rispetto delle condizioni stabilite dalla legge e, ciò che
qui
rileva, gli impianti mobili di smaltimento o di recupero.
Per tale tipologia di impianti è infatti disposto, dal
comma 15,
che essi sono autorizzati, in via definitiva, dalla Regione
ove
l’interessato ha la sede legale o la società straniera
proprietaria
dell’impianto ha la sede di rappresentanza. E' inoltre
previsto,
sempre nello stesso comma, che, per lo svolgimento delle
singole campagne di attività sul territorio nazionale,
l’interessato,
almeno sessanta giorni prima dell’installazione
dell’impianto,
comunichi alla Regione nel cui territorio si trova il sito
prescelto le specifiche dettagliate relative alla campagna
di
attività, allegando l’autorizzazione di cui al comma 1
dell’art.
208 e l’iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali,
nonché l’ulteriore documentazione richiesta.
La Regione può anche adottare prescrizioni integrative,
oppure
può vietare l’attività con provvedimento motivato qualora
lo svolgimento della stessa nello specifico sito non sia
compatibile
con la tutela dell’ambiente o della salute pubblica.
Dunque, in linea generale, per tale tipologia di impianti è
previsto un atto autorizzatorio preventivo, avente efficacia
generale, in quanto abilita all’espletamento dell’attività
nel
complesso ed in ambito nazionale. La preventiva verifica
delle
condizioni di legge per l’esercizio dell’attività comporta,
poi,
un ulteriore controllo, successivo ed attenuato, in quanto
soggetto
a mera comunicazione, in occasione delle singole campagne
di attività.
Lo stesso comma 15 -nel testo vigente alla data
dell’accertamento
dei fatti per cui si procede- prevede un’ulteriore deroga
alla speciale disciplina appena ricordata, stabilendo
espressamente
che essa non si applica agli impianti mobili che effettuano
la disidratazione dei fanghi generati da impianti di
depurazione
e reimmettono l’acqua in testa al processo depurativo
presso il quale operano ed a quelli in cui si provveda alla
sola riduzione volumetrica e separazione delle frazioni
estranee.
La modifica apportata alla disposizione nel 2010
(«...esclusi gli
impianti mobili che effettuano la disidratazione dei fanghi
generati da impianti di depurazione e reimmettono l’acqua
in testa al processo depurativo presso il quale operano, ed
esclusi i casi in cui si provveda alla sola riduzione
volumetrica
e separazione delle frazioni estranee...»), secondo la
sentenza
in epigrafe, chiarisce meglio il senso della deroga al
regime
ordinario.
Ciò posto, il Collegio ha ricordato che sullo stesso tema
la
Cassazione si era già pronunciata con conclusioni
pienamente
condivise anche in questa occasione perché era evidente che
la deroga di cui si tratta, riguardando attività
potenzialmente
dannose per l’integrità dell’ambiente, non poteva che
operare
limitatamente alle operazioni specificamente indicate dal
legislatore.
Sicché, a giudizio della Cassazione, operando la deroga
limitatamente
alle attività indicate e, segnatamente, per ciò che
qui interessa, la riduzione volumetrica e la separazione
delle
frazioni estranee, doveva escludersi che la sua applicabilità
potesse estendersi ad attività diverse o ulteriori rispetto
a quelle
previste dalla norma, che restano pertanto soggette al
regime
ordinario (si pensi, ad esempio, al trasporto effettuato
dopo
il compimento delle operazioni suddette).
In conclusione, è stato affermato il principio secondo il
quale
la deroga al regime ordinario in materia di rifiuti
prevista,
dall’art. 208, comma 15, D.Lgs. n. 152/2006, per gli
impianti
mobili che eseguono la sola riduzione volumetrica e la
separazione
delle frazioni estranee, opera esclusivamente con
riferimento
a tali attività, restando conseguentemente esclusa
ogni operazione diversa, antecedente o successiva, che
rimane
invece soggetta alla disciplina generale, incombe ovviamente
su chi invoca l’applicazione di detta deroga, l’onere di
dimostrare
la sussistenza dei presupposti di legge per la sua
operatività.
Per quel che concerne la fattispecie in esame, la Corte ha
quindi rilevato che il giudice del merito aveva concentrato
la sua attenzione sulla circostanza che il titolo
abilitativo del
quale disponeva l’imputato riguardasse un impianto fisso
ubicato
altrove e che dal titolo suddetto non risultasse che
l’impianto
utilizzato fosse mobile, giungendo così alla conclusione
che l’attività fosse stata effettuata al di fuori della
sede autorizzata
e con impianto la cui tipologia non giustificava alcun
richiamo alla speciale disciplina di cui all’art. 208, comma
15.
Sennonché, tale assunto era errato, poiché una corretta
lettura
della disposizione ora richiamata avrebbe dovuto indurre il
Tribunale alla verifica, in concreto, delle operazioni
effettivamente
svolte con l’impianto mobile, ritenendo quindi lecita
l’attività se perfettamente corrispondente con la
previsione
normativa e, dunque, se limitata alla sola riduzione
volumetrica
e separazione di eventuali frazioni estranee, stante la
piena operatività, in tal caso, del regime derogatorio
ovvero,
in difetto, di verificare se le diverse attività di
gestione venissero
effettuate in assenza di titolo abilitativo o senza
osservarne
le prescrizioni, con conseguente applicabilità delle
sanzioni
previste, in un caso, dal comma 1 e, nell’altro, dal comma 4
dell’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006 (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.02.2014 n. 6107 - tratto da
Ambiente & Sviluppo n. 5/2014). |
SICUREZZA LAVORO: Committente-responsabile
dei lavori e garante di fatto.
Per un infortunio occorso in un cantiere a un lavoratore
minorenne furono condannati il committente responsabile dei
lavori e i titolari di
due imprese individuali appaltatrici ed esecutrici
dei lavori, in quanto l’infortunato, «mentre
tinteggiava in quota (a circa 8 metri al di sopra
del piano stabile), precipitava a terra da un ponteggio
instabile e pericoloso allestito non a regola
d’arte, con cattivo materiale.»
Nel confermare la condanna, la Sez. IV fornisce
alcuni utili chiarimenti.
Osserva, anzitutto, che il committente responsabile
dei lavori «affidò l’esecuzione delle opere
di tinteggiatura ad imprese individuali del tutto
inadeguate (i titolari di tali imprese erano infatti
i coimputati che facevano i giostrai), e non si
premurò di informare il coordinatore per la sicurezza
dell’ingresso non previsto di altre ditte
all’interno del capannone.»
Ne desume che «i lavori di tinteggiatura non
erano previsti nel PSC, in quanto il committente
pensava di non esservi tenuto, e non avrebbe pagato
tali opere perché le stesse venivano effettuate
gratuitamente per ricompensare l’imputato
che consentiva ai giostrai di ricoverare le giostre
in altro capannone di sua proprietà.» (quanto alla
responsabilità del committente o responsabile
dei lavori per omessa verifica dell’idoneità tecnico-
professionale dell’impresa appaltatrice o
del lavoratore autonomo v. Guariniello, Guariniello,
Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato
con la giurisprudenza. Integrato con i commenti
al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582,
589, 590), V edizione, Milano, 2013, 536 ss.).
Per altro verso, con riguardo ai titolari delle imprese
esecutrici, la Sez. IV sottolinea che «l’accettazione
di un lavoro in appalto in assenza
delle necessarie capacità tecniche, l’omessa
predisposizione del piano operativo di sicurezza,
l’allestimento di un ponteggio rudimentale,
rimovibile e pericolosissimo (senza alcuni parapetti,privo di un sottoponte di sicurezza, del
tutto instabile perché non saldamente ancorato)
sono tutti profili di colpa ascrivibili a entrambi
gli imputati, a prescindere dal loro ruolo formale,
in chiaro nesso causale con l’evento.»
Insegna che, «al fine dell’attribuzione della veste
di datore di lavoro di fatto, è invero assolutamente
irrilevante la circostanza che le imprese
dei due imputati non fossero iscritte nel registro
delle imprese e il lavoratore infortunato lavorasse
‘‘in nero’’, nonché la presenza di un rapporto
gerarchico tra il garante di fatto e il soggetto
garantito.»
Ricorda al riguardo che «l’assunzione di fatto
di una posizione di garanzia può prescindere
dalla presenza di un rapporto gerarchico tra il
garante di fatto e il soggetto garantito.» (Circa
il datore di lavoro di fatto v. Guariniello, op.
cit., 16 ss.) (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 31.01.2014 n. 4993
- tratto da Igiene
& Sicurezza del Lavoro n. 4/2014). |
SICUREZZA LAVORO: La differenza
tra responsabile dei lavori,
direttore dei lavori,
coordinatore.
La sentenza qui segnalata sviluppa una analisi
puntuale circa i rapporti tra due figure centrali
della sicurezza nei cantieri temporanei o mobili
quali il responsabile dei lavori e il coordinatore,
e, per di più, dedica la sua attenzione a una terza
figura di grande interesse come il direttore
dei lavori (in merito a queste tre figure v. Guariniello,
Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro
commentato con la giurisprudenza. Integrato
con i commenti al Codice penale (artt. 434,
437, 449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano,
2013, 518 ss., 542 ss., 550 ss., 581 ss.).
Lo spunto è offerto dalla condanna di un responsabile
dei lavori per aver omesso durante
la progettazione dell’opera di redigere il piano
di sicurezza e coordinamento.
Nell’annullare la condanna, la Sez. III rileva
che, in forza dell’art. 91, comma 1, lettera a),
D.Lgs. n. 81/2008, «durante la progettazione
dell’opera e comunque prima della richiesta di
presentazione delle offerte, il coordinatore per
la progettazione redige il piano di sicurezza e
di coordinamento di cui all’articolo 100, comma
1, i cui contenuti sono dettagliatamente specificati
nell’allegato XV», e che, «tra questi, a
conferma della esclusività del compito, si segnala
quanto previsto dall’Allegato XV, punto
2.1.3., che attribuisce inequivocabilmente al
coordinatore per la progettazione il compito di
indicare nel PSC, ove la particolarità delle lavorazioni
lo richieda, il tipo di procedure complementari
e di dettaglio al PSC stesso e connesse
alle scelte autonome dell’impresa esecutrice, da
esplicitare nel POS.»
Nota che «questa regola soffre solo due eccezioni»: «in primo luogo, l’art. 90, comma 11,
D.Lgs n. 81/2008, prevede che in caso di lavori
privati non soggetti a permesso di costruire e
comunque di importo inferiore ad euro
100.000 non si applica quanto previsto al comma
3 del medesimo articolo; pertanto, un committente
che si trovasse in questa situazione non
dovrà nominare il coordinatore per la progettazione
ma, anche in tal caso non vengono meno
gli obblighi di redazione del PSC e del Fascicolo
dell’Opera che dovranno essere assolti dal
coordinatore per l’esecuzione dei lavori»; «in
secondo luogo, nel caso di cui all’art. 90, comma
5 (ossia, nel caso in cui, dopo l’affidamento
dei lavori a un’unica impresa, l’esecuzione dei
lavori o di parte di essi sia affidata a una o
più imprese), il compito di redigere il PSC grava
sul coordinatore per l’esecuzione (art. 92,
comma 2, D.Lgs. n. 81/2008).»
Da questa analisi, ricava «la natura di reato proprio
della contravvenzione, atteso che la norma
sanzionatoria prevista nell’attuale D.Lgs. n. 81/2008 (art. 158, rubricato ‘‘Sanzioni per i coordinatori’’,
così sostituito dall’art. 87 del D.Lgs.
n. 106/2009) individua, al comma 1, quale soggetto
attivo del reato, il ‘‘coordinatore per la
progettazione’’, assoggettandolo, in particolare,
alla pena dell’arresto da tre a sei mesi o dell’ammenda
da 2.500 a 6.400 euro (aumentata
nella misura del 9,6% a decorrere dal primo luglio
2013, per effetto del D.L. n. 69/2013, c.d.
‘‘Decreto del fare’’), per la violazione dell’art.
91, comma 1, ciò, si osservi, fatta eccezione
per la richiamata ipotesi di cui all’art. 92, comma
2, D.Lgs n. 81/2008.»
A questo punto, la Sez. III sposta l’attenzione
sul ‘‘responsabile dei lavori’’, «figura individuata
dall’art. 89, comma 1, lettera c), D.Lgs
n. 81/2008 come soggetto che può essere incaricato
dal committente per svolgere i compiti ad
esso attribuiti dal presente decreto (definizione,
oggi, più ampia e generica rispetto a quella contemplata
dall’abrogato D.Lgs. n. 494/1996, che
invece lo indicava come il ‘‘soggetto che può
essere incaricato dal committente ai fini della
progettazione o della esecuzione o del controllo
dell’esecuzione dell’opera’’).»
Nell’intento,
poi, di «rimarcare la differenza esistente tra le
due figure soggettive, anche in termini di differenti
posizioni di garanzia, rammenta che la
legge (art. 90, comma 3, D.Lgs n. 81/2008)
non solo prevede che ‘‘nei cantieri in cui è prevista
la presenza di più imprese esecutrici, anche
non contemporanea, il committente, anche
nei casi di coincidenza con l’impresa esecutrice,
o il responsabile dei lavori, contestualmente
all’affidamento dell’incarico di progettazione,
designa il coordinatore per la progettazione’’,
ma anche che, solo se il committente o il responsabile
dei lavori è in possesso dei requisiti
professionali richiesti dall’art. 98 ha facoltà di
svolgere le funzioni sia di coordinatore per la
progettazione sia di coordinatore per l’esecuzione
dei lavori; diversamente, le due figure devono
restare separate e, quindi, per quanto qui
di interesse, il responsabile dei lavori deve procedere
alla designazione nomina del coordinatore
per la progettazione.»
La Sez. III nota ancora che «la soluzione non
muta nemmeno nel caso in cui l’imputato avesse
rivestito la qualifica di ‘‘direttore dei lavori’’
(e non responsabile dei lavori), in quanto tale
figura, sebbene non definita dalla normativa
dettata dal D.Lgs n. 81/2008, ha compiti in materia
di sicurezza ben individuati normativamente:
a) anzitutto, in tema di disarmo delle armature
provvisorie di cui al comma 2 dell’art. 142, stabilendo
la norma (art. 145, D.Lgs n. 81/2008)
che tale disarmo deve essere effettuato con cautela
dai lavoratori che hanno ricevuto una formazione
adeguata e mirata alle operazioni previste
sotto la diretta sorveglianza del capo cantiere
e sempre dopo che il direttore dei lavori ne
abbia data l’autorizzazione;
b) in secondo luogo, quello di liquidare l’importo
relativo ai costi della sicurezza previsti
in base allo stato di avanzamento lavori, previa
approvazione da parte del coordinatore per l’esecuzione
dei lavori quando previsto (Allegato
XV al D.Lgs n. 81/2008, punto 4.1.6).
Aggiunge che il direttore dei lavori, «per giurisprudenza
costante, è responsabile dell’infortunio
sul lavoro quando gli viene affidato il compito
di sovrintendere all’esecuzione dei lavori,
con la possibilità di impartire ordini alle maestranze
sia per convenzione, cioè per una particolare
clausola introdotta nel contratto di appalto,
sia quando per fatti concludenti risulti che
egli si sia in concreto ingerito nell’organizzazione
del lavoro», ma che «nulla autorizza l’estensione
analogica della fattispecie astratta e di
quella sanzionatoria contestata all’attuale imputato,
atteso che si tratta di previsione attinente
ad un soggetto dotato di qualifica ben determinata,
ossia il coordinatore per la progettazione;
diversamente, trattandosi di reato proprio, si
violerebbe il divieto di analogia in materia penale
(nel caso in esame, peraltro, in malam partem),
salvi i casi di concorso dell’extraneus,
questione non rilevante nel caso di specie.» (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2014 n. 3717
- tratto da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 4/2014). |
SICUREZZA LAVORO: Il registro dei controlli
antincendio.
Il gestore di una discoteca fu condannato, in
particolare, per aver omesso di istituire il registro
dei controlli antincendio.
Nell’annullare la condanna, la Sez. III osserva,
anzitutto, che l’art. 64 D.Lgs. n. 81/2008, erede
dell’art. 32 D.Lgs. n. 626/1994, «non prevede
l’obbligo di tenuta del registro dei controlli antincendio,
ma detta una diversa serie di obblighi
a carico del datore di lavoro.»
Soggiunge che «in ogni caso, il registro, già
previsto dall’art. 5, comma 2, D.P.R. n.
37/1998 [«I controlli, le verifiche, gli interventi
di manutenzione, l’informazione e la formazione
del personale, che vengono effettuati, devono
essere annotati in un apposito registro a cura dei
responsabili dell’attività. Tale registro deve
essere mantenuto aggiornato e reso disponibile
ai fini dei controlli di competenza del comando»] è stato eliminato, perché l’art. 12, comma
1, lettera b), D.P.R. n. 151/2011 ha abrogato il
D.P.R. n. 37/1998.»
(in passato, Cass. 07.08.2007, Grifagni, in
Guariniello, Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul
Lavoro commentato con la giurisprudenza. Integrato
con i commenti al Codice penale (artt.
434, 437, 449, 575, 582, 589, 590), V edizione,
Milano, 2013, 422, esaminò il caso del titolare
di un’azienda - dichiarato colpevole del reato di
cui agli artt. 12, comma 1, lettera d), e 89, comma
2, lettera a), D.Lgs. 19.09.1994 n.
626 «per non avere attivato e compilato in apposito
registro, relativo alla programmazione
degli interventi di verifica e manutenzione dei
mezzi di estinzione, dei sistemi e/o dispositivi
di sicurezza antincendio presenti nell’attività,
necessari affinché i lavoratori, in caso di pericolo
grave e immediato, si mettessero al sicuro
abbandonando il luogo di lavoro», e affermò
che «la violazione riscontrata non è consistita
nella mancanza del piano di emergenza o di
un certificato di prevenzione incendi, ma la
mancanza di un registro, ovvero di un altro supporto,
che documentasse il rispetto delle disposizione
dell’art. 12 D.Lgs. n. 626/1994, cioè
l’avere programmato gli interventi necessari in
caso di pericolo per i dipendenti e l’avere istruito
gli stessi sul comportamento da tenere al presentarsi
di un simile pericolo, in particolare (ma
non esclusivamente) sull’ubicazione e l’utilizzo
dei mezzi antincendio e delle vie di fuga).» (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2014 n. 3684
- tratto da Igiene
& Sicurezza del Lavoro n. 4/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUE METEORICHE.
Acque - Disciplina delle acque meteoriche di dilavamento
Artt. 74, 101, 124, 137, D.Lgs. n. 152/2006
La nuova formulazione dell’art. 74,
lett. g), D.Lgs. n. 152/2006 esclude ogni riferimento
qualitativo alla tipologia delle acque, dal momento che è
stato eliminato dal dato normativo sia il riferimento alla
differenza qualitativa dalle acque reflue domestiche e da
quelle meteoriche di dilavamento, sia l’inciso «intendendosi
per tali (acque meteoriche di dilavamento) anche quelle
venute in contatto con sostanze o materiali, anche
inquinanti, non connesse con le attività esercitate nello
stabilimento», di talché non è più possibile oggi
assimilare, sotto un profilo qualitativo, le due tipologie
di acque (reflui industriali e acque meteoriche di
dilavamento) né è possibile ritenere che le acque
meteoriche di dilavamento (una volta venute a contatto con
materiali o sostanze anche inquinanti connesse con l’attività
esercitata nello stabilimento) possano essere assimilate ai
reflui industriali.
Il Tribunale di Lucca, dichiarando l’imputato colpevole del
reato di cui agli artt. 124, 101 e 137, D.Lgs. n. 152/2006
(per
aver realizzato un nuovo scarico di acque meteoriche
contaminate
che, senza alcun trattamento ed unite alle acque non
contaminate proveniente dai tetti, defluivano dal piazzale
dello
stabilimento verso i tombini di raccolta), aveva osservato
che le acque piovane, impregnate delle sostanze che
trascinavano
nel loro passaggio, dovevano ritenersi contaminate e
come tali equiparate dal D.Lgs. n. 152/2006 alle acque
industriali,
con la conseguenza che lo scarico necessitava di
autorizzazione;
che effettivamente l’attività dell’impresa non rientrava
tra quelle della tabella 5 dell’Allegato 5 alla L.R. n. 20/
2006 (tabella che prevede appunto quali siano le attività
che
producono acque meteoriche contaminate), ma che ciò non
esimeva, qualora fosse risultato un inquinamento delle
acque,
dal presentare un piano di gestione o, in ogni caso, dal
richiedere
l’autorizzazione; che nel piazzale di stoccaggio delle
bobine
in prossimità del tombino e nell’area adiacente al sistema
di
depurazione erano presenti poltiglia, fanghiglia e frammenti
di
carta, che tracimavano, unitamente alle acque, fuori del
recinto
dell’azienda, con evidente imbrattamento del terreno;
che nella specie non era applicabile il regime transitorio
previsto
dalla delibera regionale n. 46/R, che non era ancora in
vigore al momento dei fatti.
La Cassazione -investita del ricorso avverso la condanna-
ha
colto l’occasione per esaminare a fondo la questione delle
acque meteoriche di dilavamento e di prima pioggia.
La tesi della Corte è che non sia ravvisabile il reato di
cui
all’art. 137, D.Lgs. n. 152/2006, bensì un illecito
amministrativo,
e ciò per due diverse ragioni, riconducibili all’erronea
applicazione nella specie della normativa statale in materia
di reflui industriali anziché della normativa regionale
locale
(L.R. Toscana n. 20/2006 e reg. attuazione di cui al D.P.G.R.
Toscana n. 46 dell’08.09.2008) secondo quanto disposto
dall’art. 113 che demanda alle regioni la disciplina locale
in
materia di acque meteoriche di dilavamento e di prima
pioggia.
In primo luogo, la Cassazione ha rilevato che, come
ricordato
anche dal ricorrente, nel D.Lgs. n. 152/2006 si fa cenno
alle
«acque meteoriche di dilavamento» nella Sezione II, Parte
III,
che è dedicata alla «Tutela delle acque dall’inquinamento»,
ma non si fornisce una specifica definizione delle stesse
che
indirettamente, e in negativo, viene data nell’art. 74.
In tale disposizione, «le acque meteoriche di dilavamento»
non sono definite in modo diretto nel loro contenuto, ma
citate nella definizione di un’altra tipologia di acque, e
cioè
dei reflui industriali (lett. h), allo scopo di delimitarne
in
negativo il significato. L’art. 74 cit., infatti dispone,
alla lett.
g), che si intendono per acque reflue domestiche, le «acque
reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da
servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano
e da attività domestiche», ed alla lett. h) che si
intendono per
acque reflue industriali «qualsiasi tipo di acque reflue
scaricate
da edifici od impianti in cui si svolgono attività
commerciali o
di produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche
e
dalle acque meteoriche di dilavamento».
L’art. 74 cit., pertanto, pur non fornendo una diretta
definizione
delle acque meteoriche di dilavamento, le considera
diverse e distinte dalle acque reflue industriali e, quindi,
non
assimilabili a quest’ultime.
La Corte ha opportunamente ricordato che la suddetta
formulazione
dell’art. 74 cit. è quella risultante dalla modifica
operata
dall’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 4/2008, modifica con la
quale è stato escluso il riferimento qualitativo alla
tipologia
delle due acque. E difatti il previgente testo dell’art. 74,
lett.
h), stabiliva che si intendevano per «acque reflue
industriali:
qualsiasi tipo di acque reflue provenienti da edifici od
installazioni
in cui si svolgono attività commerciali o di produzione
di beni, differenti qualitativamente dalle acque reflue
domestiche
e da quelle meteoriche di dilavamento, intendendosi
per tali anche quelle venute in contatto con sostanze o
materiali,
anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate
nello stabilimento».
I giudici romani hanno poi notato che nella specie il Tribunale
aveva applicato le norme antecedenti alla modifica
legislativa
omettendo di verificare se le conclusioni cui era giunta
Cass. 11.10.2007, n. 40191, Schembri (richiamata in
motivazione), fondate sul precedente testo dell’art. 74,
lett.
g), potessero ritenersi ancora valide dopo la ricordata
modifica
normativa.
E difatti la nuova formulazione dell’art. 74, lett. g),
esclude
ogni riferimento qualitativo alla tipologia delle acque, dal
momento che è stato eliminato dal dato normativo sia il
riferimento
alla differenza qualitativa dalle acque reflue domestiche
e da quelle meteoriche di dilavamento, sia l’inciso
«intendendosi
per tali (acque meteoriche di dilavamento) anche
quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche
inquinanti, non connesse con le attività esercitate nello
stabilimento», di talché sembrerebbe non più possibile oggi
assimilare,
sotto un profilo qualitativo, le due tipologie di acque
(reflui industriali e acque meteoriche di dilavamento) né
sembrerebbe
possibile ritenere che le acque meteoriche di dilavamento
(una volta venute a contatto con materiali o sostanze
anche inquinanti connesse con l’attività esercitata nello
stabilimento)
possano essere assimilate ai reflui industriali.
Sembrerebbe,
cioè, che data la ricordata modifica legislativa, non
sarebbe più possibile accomunare le acque meteoriche di
dilavamento
e le acque reflue industriali.
In ogni caso, anche volendo prescindere dalla modifica
legislativa,
il giudice di primo grado non aveva considerato che
l’art. 113, rubricato appunto «Acque meteoriche di
dilavamento
e acque di prima pioggia», prevede che le Regioni,
«ai fini della prevenzione di rischi idraulici ed
ambientali»,
emanino una disciplina delle acque meteoriche che dilavano
le superfici e si riversano in differenti corpi recettori.
L’art. 133, comma 9, sanziona in via amministrativa chiunque
non ottemperi alla disciplina dettata dalle regioni ai sensi
dell’art. 113, comma 1, lett. b), ossia la violazione delle
prescrizioni
o delle autorizzazioni disposte in sede regionale.
La previsione della punizione mediante sanzione
amministrativa è tassativa, sia perché non possono essere estese in via
analogica le norme che prevedono una sanzione penale, sia
perché il legislatore non ha inserito al comma 9 dell’art.
133 la
clausola di stile «salvo che il fatto costituisca reato».
L’art. 137, comma 9, poi, sanziona penalmente, con le pene
di
cui al comma 1 «chiunque non ottempera alla disciplina
dettata
dalle Regioni ai sensi dell’art. 113, comma 3». Poiché
quest’ultima disposizione fa riferimento a «particolari
condizioni
nelle quali, in relazione alle attività svolte, vi sia il
rischio di dilavamento da superfici impermeabili scoperte di
sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per
il
raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi
idrici», la
condotta illecita oggetto di sanzione penale, deve
estrinsecarsi
in un pericolo concreto e non presunto.
Tenuto dunque conto che il D.Lgs. n. 152/2006 demanda alla
normativa regionale la disciplina delle acque meteoriche di
dilavamento, con riguardo al caso di specie venivano in
rilievo
la legge reg. toscana 20/2006 nonché il regolamento di
attuazione
di cui al D.P.G.R. Toscana n. 46/R/2008.
In particolare, la L.R. n. 20/2006, all’art. 2
(«Definizioni»),
definisce al comma 1, lett. d), le acque meteoriche
dilavanti
(AMD) suddividendole in acque meteoriche dilavanti non
contaminate (ADNC) e acque meteoriche dilavanti contaminate
(AMC). Alla successiva lett. e) definisce acque meteoriche
dilavanti contaminate (AMC) le acque meteoriche dilavanti
diverse dalle acque meteoriche dilavanti non contaminate
ivi incluse le acque meteoriche di prima pioggia, derivanti
dalle attività che comportino oggettivo rischio di
trascinamento,
nelle acque meteoriche, di sostanze pericolose o di
sostanze in grado di determinare effettivi pregiudizi
ambientali,
individuate (le attività) dal regolamento di cui all’art.
13.
Alla lettera f) dell’art. 2 vengono definite acque
meteoriche
dilavanti non contaminate (AMDNC) le acque meteoriche
dilavanti derivanti da superfici impermeabili anche di aree
industriali dove non vengono svolte attività che possano
oggettivamente
comportare il rischio oggettivo di trascinamento
di sostanze pericolose o di sostanze in grado di determinare
effettivi pregiudizi ambientali.
L’art. 8 della medesima L.R. n. 20/2006, disciplina poi lo
scarico di acque di prima pioggia e di acque meteoriche
dilavanti
contaminate, regolando ai commi 1-2 lo scarico in pubblica
fognatura e fuori dalla pubblica fognatura di acque di
prima pioggia provenienti da aree pubbliche; ed ai commi 3-
4 lo scarico delle acque di prima pioggia e le acque
meteoriche
dilavanti contaminate diverse da quelle indicate ai numeri
1-2
prevedendo un meccanismo di autorizzazione e un sistema di
depurazione.
Il successivo art. 13, comma 2, demanda alla Giunta
regionale
di disciplinare con regolamento, entro 180 giorni dalla
entrata
in vigore della legge regionale, l’elenco delle attività di
cui
all’art. 2, comma 1, lett. e), che comportano oggettivo
rischio
di trascinamento nelle acque meteoriche dilavanti di
sostanze
pericolose o di sostanze in grado di determinare effettivi
pregiudizi
ambientali.
Nel regolamento emanato dalla Giunta regionale toscana il
giorno 8 settembre 2008 (D.P.G.R n. 46/R/2008) all’art. 39
intitolato acque meteoriche contaminate si indicano (con
apposito
allegato 5) le attività di cui all’art. 2, comma 1, lett.
e),
della L.R. n. 20/2006 che presentano oggettivo rischio di
trascinamento nelle acque meteoriche di sostanze pericolose
o di sostanze in grado di determinare effetti
pregiudizievoli
ambientali. Il comma 7 di detto articolo prevede che per le
imprese autorizzate allo scarico di acque reflue industriali
il
piano di cui al comma 6 (il piano di gestione delle acque
meteoriche) e` presentato contestualmente alla domanda di
nuova autorizzazione o di rinnovo.
L’art. 43 del regolamento citato al comma 1 prevede che il
titolare delle attività di cui all’art. 39 comma 1 (quelle
di cui
all’Allegato 5, Tabella 5) comunque entro tre anni dalla
entrata
in vigore del regolamento stesso presenta il piano di
gestione delle AMD.
A conclusione dell’excursus, la Cassazione ha ritenuto che,
nel
caso in esame, la normativa applicabile, contrariamente a
quanto ritenuto dal giudice del merito, fosse quella di cui
alla
legge reg. toscana n. 20/2006 e al suo regolamento di
attuazione,
mentre non era applicabile la normativa di cui agli artt.
101-124 D.Lgs. n. 152/2006, non solo perché esclusa
dall’art.
113 del medesimo decreto, ma anche perché essa riguarda gli
scarichi di reflui industriali e non già gli scarichi o
immissioni
di acque meteoriche di dilavamento, tipologie di acque
diverse
tra loro.
Nella specie, all’imputato era stato contestato la scarico
delle
acque meteoriche di dilavamento senza autorizzazione, ossia
era stata contestata la violazione della disciplina dettata
dalla
regione ai sensi dell’art. 113, comma 1, lett. b), D.Lgs. n.
152/2006, e cioè la violazione delle prescrizioni, ivi compresa
l’eventuale
autorizzazione, dettate dalla normativa regionale per
la immissione di acque meteoriche di dilavamento effettuata
tramite condotta separata dalla rete fognaria.
Siffatta violazione non è punita penalmente, ma integra
solo
un illecito amministrativo.
La Cassazione ha infine osservato che, anche a voler
ipotizzare
la contaminazione dell’acqua meteorica di dilavamento, lo
stabilimento, che era fornito di autorizzazione allo scarico
di
reflui industriali, aveva comunque tempo tre anni
dall’entrata
in vigore (08.09.2008) del regolamento di attuazione
della legge regionale n. 20/2006 per presentare, ai sensi
degli
artt. 39 e 43 di detto regolamento, un piano di adeguamento (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.01.2014 n. 2867
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 5/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
SICUREZZA LAVORO: Bonifica dell’amianto
in comune: soggetti
obbligati e idoneità
dell’appaltatore.
La fattispecie appare di notevole rilievo: un dirigente
comunale venne condannato per la violazione
dell’art. 26, comma 1, D.Lgs. n.
81/2008, «perché, in relazione alla gestione di
un’isola ecologica, non provvedeva, nell’affidamento
di lavori di bonifica e smaltimento di
materiali contenenti amianto, a verificare i requisiti
tecnico-professionali delle ditte affidatarie.»
A sua discolpa, l’imputato sostiene che egli
«era dirigente dell’ufficio tecnico comunale e
tale ufficio era estraneo rispetto alla gestione
della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della bonifica
delle aree e delle determinazione di spesa
e liquidazione dei compensi alle ditte affidatarie,
che erano state invece curate dall’ufficio patrimonio
del comune, del quale era dirigente un
soggetto diverso dall’imputato e nel quale vi
era un funzionario non dotato di qualifica dirigenziale,
responsabile del servizio ecologia.»
Nel respingere il ricorso proposto dall’imputato,
la Sez. III prende atto che «le ditte affidatarie
dei lavori di raccolta, trasporto smaltimento
dei materiali contenenti amianto erano prive
dell’autorizzazione
ad effettuare i lavori di bonifica
per detti materiali, in quanto non iscritte alla categoria
10 dell’albo nazionale smaltitori.»
Precisa che, «nell’ambito dell’affidamento di
appalti pubblici, la qualifica di datore di lavoro
ai fini della sicurezza sul lavoro può ben essere
attribuita ad un dirigente o funzionario
dell’amministrazione
competente diverso da quello che
ha provveduto all’affidamento dell’incarico e
che si occupa del pagamento dei relativi corrispettivi.»
Osserva che «questo è quanto è avvenuto nel
caso di specie, in cui pacificamente l’incarico
era stato conferito e i pagamenti dei compensi
erano stati effettuati da un dirigente e da un funzionario
appartenenti ad un ufficio diverso da
quello diretto dall’imputato», e che «nondimeno,
con deliberazione della giunta municipale,
l’imputato, nella sua veste di responsabile dell’ufficio
tecnico comunale, è stato individuato
come datore di lavoro ai sensi e per gli effetti
delle disposizioni di cui al decreto legislativo
n. 626 del 1994, poi sostituito dal decreto legislativo
n. 81 del 2008.»
Aggiunge che «ciò che conta, poi, ai fini dell’applicazione
dell’art. 26, comma 1, dello stesso
decreto legislativo è che il datore di lavoro,
in caso di affidamento di lavori, servizi e di forniture
all’impresa appaltatrice, è tenuto a verificare
l’idoneità tecnico professionale dell’impresa
appaltatrice stessa, attraverso l’acquisizione
della necessaria documentazione, sempre che
l’amministrazione abbia la disponibilità giuridica
di luoghi in cui si svolge l’appalto o la prestazione
di lavoro autonomo.» (sugli obblighi
previsti dall’art. 26 D.Lgs. n. 81/2008 v., anche
sotto il profilo attinente alla verifica dell’idoneità
tecnico professionale delle imprese appaltatrici
e dei lavoratori autonomi, Guariniello, Il
T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la
giurisprudenza. Integrato con i commenti al
Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582,
589, 590), V edizione, Milano, 2013, in ispecie
315 ss.) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.01.2014 n. 2862
- tratto da Igiene
& Sicurezza del Lavoro n. 4/2014). |
SICUREZZA LAVORO: Dal datore di lavoro
all’organizzazione
committente: gli obblighi
dei coordinatori.
E'
con particolare lucidità che la sentenza qui
presentata mette in luce il senso profondo dell’evoluzione
segnata dalla normativa in tema
di sicurezza del lavoro nei cantieri temporanei
o mobili.
Invero, la Sez. IV nota che «normalmente è il
datore di lavoro il personaggio che riveste una
posizione di vertice nel sistema della sicurezza,
in quanto titolare del rapporto di lavoro e al
contempo titolare dell’impresa esecutrice dei lavori,
con compiti quindi organizzativi ed economici
inerenti l’attività dell’impresa che lo vedono
direttamente coinvolto anche nella predisposizione
ed osservanza delle misure antinfortunistiche», e che, tuttavia, il legislatore, «nell’ottica
di una pluralità di soggetti che concorrono
alla sicurezza del lavoro, introduce, affiancandola
al datore di lavoro con i suoi collaboratori,
la figura del committente.»
Considera «ragionevole che anche il committente,
che assume l’iniziativa della realizzazione
dell’opera, provvedendo a programmarla e
a finanziarla anche se l’esecuzione venga affidata
a terzi, assuma una quota di responsabilità
in materia di prevenzione antinfortunistica collocandosi
accanto al datore di lavoro nella titolarità
degli obblighi di protezione, con la possibilità
di demandarli ad altra figura, questa ausiliaria,
del responsabile dei lavori, anziché occuparsene
direttamente.»
Aggiunge che, «per gli aspetti tecnici delle
competenze facenti capo al committente in materia
antinfortunistica, lo stesso, o per lui il responsabile
dei lavori, si avvale di figure specializzate
distinte per la fase della progettazione e
della realizzazione, che sono appunto il coordinatore
per la salute e sicurezza in fase di progettazione
e il coordinatore per la salute e sicurezza
in fase di realizzazione.»
In questo quadro, la Sez. IV trae spunto dal caso
di specie per sviluppare utili chiarimenti in
merito agli obblighi del coordinatore per la progettazione
e per l’esecuzione dei lavori. Prende
atto che, nel caso di specie, «non era previsto
nel PSC (piano di sicurezza e coordinamento)
da lui redatto una specifica prescrizione relativa
all’adozione di misure volte ad evitare, durante la
lavorazione, la caduta di elementi instabili
dall’edificio fatiscente in aderenza al quale doveva
essere eretto il pilastro», che «la difesa invoca
la previsione di trabattelli e ponteggi contenuta
nella scheda n. 78 allegata al PSC», ma
che «trattasi di prescrizione generica, valevole
per tutti i cantieri che comportano lavori in quota,
e che non prende in considerazione gli specifici
rischi posti dal cantiere in questione.»
A
questo punto, efficacemente insegna che «gli
obblighi posti dalle legge di redigere i vari piani
di sicurezza non devono essere intesi in senso
burocratico come adempimento puramente formale
da adempiere, ma possono ritenersi adempiuti
solo a condizione che il soggetto prenda in
considerazione gli specifici rischi del lavoro
predisponendo le opportune misure di prevenzione.»
Del pari significativa è l’analisi dedicata all’imputato
nella qualità di coordinatore per l’esecuzione
dei lavori.
La Sez. IV sottolinea «il mancato controllo sull’uso
dei ponteggi e/o tra battelli.»
Constata che «nel cantiere non vi era traccia di
tali attrezzature e l’operaio è caduto da una scala
a pioli, trovata al momento dell’infortunio,
essendo prassi consolidata adoperare tale strumento
anziché le idonee attrezzature di sicurezza
per i lavori in altezza.»
Mette in luce che l’imputato «avrebbe dovuto
vigilare sul corretto uso delle misure di sicurezza
da parte dei lavoratori attraverso una presenza
costante sul cantiere che evidentemente è
mancata se è vero che l’infortunato stava utilizzando
una semplice scala anziché un tra battello», e che «l’impiego di tale attrezzatura lo
avrebbe posto al riparo dalla caduta in quanto
la stabilità della pedana su cui lavorava gli
avrebbe consentito di non perdere l’equilibrio
in conseguenza della caduta di calcinacci dal
tetto del vecchio edificio in aderenza al quale
il pilastro veniva eretto.»
Questo l’insegnamento conclusivo: «non è certo
sufficiente prevedere nel piano di sicurezza e
coordinamento l’uso di ponteggi e trabattelli se
a questa previsione astratta non si accompagna
la verifica da parte del responsabile della sicurezza
dell’uso che in concreto viene fatto, considerato
che era una consueta modalità operativa
utilizzare per le lavorazioni in altezza la scala
dalla quale è caduto l’operaio, anziché i presidi
di protezione previsti, e ciò formava oggetto
di un preciso obbligo dell’imputato nella sua
qualità.»
(circa gli obblighi dei coordinatori v. Guariniello,
Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato
con la giurisprudenza. Integrato con i commenti
al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575,
582, 589, 590), V edizione, Milano, 2013,
542 ss. e 550 ss., cui aggiungi Cass. 16.05.2013, Catale e altri, e Cass. 26.04.2013,
Mongelli, in ISL, 2013, 8-9, 456; nonché, in
ISL, 2014, 2, 94, Cass. 10.12.2013,
Tuozzo; Cass. 04.12.2013, Del Prete;
Cass. 04.12.2013, Celentano e altri) (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 17.01.2014 n. 1870
- tratto da Igiene
& Sicurezza del Lavoro n. 3/2014). |
PUBBLICO
IMPIEGO - VARI:
Pausa pranzo al lavoro senza permesso: è reato.
Sentenza della corte di cassazione penale.
Commette il reato di violazione di domicilio il dipendente
che, in assenza di espressa autorizzazione da parte del
proprio datore, trascorra la propria pausa pranzo sul posto
di lavoro in compagnia di terzi e per scopi estranei
all'attività lavorativa.
Lo ha stabilito la V Sez. penale della Corte di Cassazione
con la
sentenza 09.01.2014 n. 581
(tratto da www.regione.abruzzo.it).
Nel caso concreto una dipendente di uno studio legale si è
intrattenuta durante la pausa pranzo all'interno delle mura
lavorative in compagnia di un terzo, e per fini estranei
all'attività di impiego. Il datore di lavoro, venuto a
conoscenza dell'episodio, ha denunciato la dipendente nei
confronti della quale è stato promosso un procedimento per
il reato di invasione abusiva di edifici. All'esito del
giudizio di prime cure, l'imputata è stata condannata per il
reato lei ascritto, il tribunale ritenendo arbitraria la sua
presenza sul luogo di lavoro durante la pausa pranzo in
assenza di una specifica concessione in termini da parte del
titolare.
La Corte d'appello, adita in sede di gravame, ha ritoccato
in parte qua il verdetto di primo grado, riqualificando la
condotta in esame nel reato di violazione di domicilio, ai
sensi dell'art. 614, c.p. A nulla è valsa l'argomentazione
difensiva prospettata dai difensori dell'imputata, secondo
cui il rapporto di impiego unito al possesso delle chiavi
per fare accesso alla struttura rappresentavano elementi
ostativi alla caratterizzazione illecita del comportamento
incriminato.
La vicenda è stata, da ultimo, sottoposta al prudente vaglio
dei giudici di legittimità, cui è stato chiesto di annullare
la sentenza della Corte territoriale, con conseguente
declaratoria di assoluzione dell'imputata. Oltre a sollevare
l'intervenuta prescrizione del reato, la ricorrente ha
insistito nell'evidenziare, per i motivi già espressi,
l'assenza dei requisiti strutturali dell'ipotesi delittuosa
per cui vi era stata condanna.
La sentenza della Suprema corte, sebbene nell'accertare
l'avvenuta estinzione del reato per decorso dei termini di
prescrizione, merita attenzione per la peculiarità della
vicenda concreta ma, soprattutto, per le precisazioni che
gli Ermellini, a onta dell'annullamento, offrono quanto ai
capisaldi della fattispecie delittuosa di cui si discute.
La Corte ha avuto cura di soffermarsi sull'ambito di
applicazione del reato di violazione di domicilio osservando
come questi debba, anzitutto, ritenersi integrato, giusto il
disposto del primo comma dell'art. 614, c.p., allorché le
intenzioni di chi si introduce nell'altrui domicilio siano
accertate come illecite: l'illiceità del finalismo che muove
il soggetto agente, invero, rende implicita la contraria
volontà del titolare di esercitare lo ius exciudendi, con la
conseguenza che nessun rilievo svolge la mancanza di
clandestinità da parte dell'agente, il quale frequenti o si
ritenga autorizzato a frequentare l'abitazione del soggetto
passivo.
Nondimeno la norma codicistica, al comma secondo, prende in
considerazione l'eventualità in cui detta intenzionalità
illecita, ancorché in origine assente, sopravvenga in un
secondo momento, quando ormai il soggetto agente sia già
presente all'interno dell'altrui domicilio: sotto questo
profilo, dunque, la norma sanziona colui che si trattenga
nel domicilio altrui contro l'espressa volontà del titolare
che intenda escluderlo, che pure ne ha ammesso in precedenza
la presenza.
Ebbene, sulla base di tali premesse, e con riferimento al
caso di specie, gli Ermellini hanno confermato la rilevanza
penale della condotta dell'imputata, a nulla rilevando
l'opposta erronea convinzione in ordine al tacito assenso
datoriale ad ammettere la presenza in studio durante le ore
di chiusura. Ne consegue che il possesso delle chiavi e,
dunque, la libertà di accedere al luogo di lavoro da parte
del dipendente, non esime quest'ultimo dal chiedere una
espressa autorizzazione affinché possa restare sul posto di
lavoro quando i relativi locali rimangano chiusi e inattivi,
e tanto fermo restando il sindacato sulla natura illecita
dei motivi che spingono il lavoratore a determinarsi in tal
senso
(articolo ItaliaOggi Sette del 07.07.2014). |
SICUREZZA LAVORO:
Nomina del RSPP e delega.
Una nuova sentenza sul distinguo tra due atti
del datore di lavoro: la delega di funzioni
antinfortunistiche
e la nomina del RSPP (sul tema v.
Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato
con la giurisprudenza. Integrato con
i commenti al Codice penale (artt. 434, 437,
449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano,
2013, 375 ss.).
In proposito, la Sez. IV osserva che l’atto compiuto
dal datore di lavoro nel caso di specie «è
finalizzato alla nomina di RSPP e non alla delega della
posizione datoriale e non contiene alcuna
attribuzione di poteri finanziari né di alcun
altro potere proprio del datore di lavoro e tali da
consentire al delegato di far fronte, in via diretta,
alle esigenze in materia di prevenzione degli
infortuni», e che «il datore di lavoro non può
andare esente da responsabilità, sostenendo esservi
stata una delega di funzioni a tal fine utile,
per il solo fatto che abbia provveduto a designare
il responsabile del servizio di prevenzione e
protezione.»
Spiega che «la presenza di un RSPP è obbligatoria,
ma tale figura non coincide con quella,
peraltro facoltativa, del dirigente delegato all’osservanza
delle norme antinfortunistiche ed
alla sicurezza dei lavoratori» e che «in particolare
il RSPP non può incidere in via diretta sulla
struttura aziendale ma ha solo una funzione di
ausilio finalizzata a supportare (e non a sostituire)
il datore di lavoro nell’individuazione dei
fattori di rischio nella lavorazione, nella scelta
delle procedure di sicurezza e nelle pratiche di
informazione e di formazione dei dipendenti.»
Ne desume che, «nonostante si proceda alla nomina
di un RSPP, il datore di lavoro conserva
l’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi
e di elaborare il documento relativo alle misure
di prevenzione e protezione.»
Aggiunge che «il delegato per la sicurezza -figura
del tutto eventuale- è invece destinatario
di poteri e responsabilità originariamente ed
istituzionalmente gravanti sul datore di lavoro
e, perciò, deve essere formalmente individuato
ed investito del suo ruolo con modalità rigorose» (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 16.12.2013 n. 50605
- tratto da Igiene
& Sicurezza del Lavoro n. 2/2014). |
SICUREZZA LAVORO: Gli obblighi
del coordinatore
per l’esecuzione dei lavori.
L’analisi svolta dalla Corte Suprema in tema di
obblighi e responsabilità dei coordinatori nell’ambito
dei cantieri temporanei o mobili appare
sempre più approfondita e incalzante (per un
resoconto della giurisprudenza in materia v.
Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato
con la giurisprudenza. Integrato con
i commenti al Codice penale (artt. 434, 437,
449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano,
2013, 542 ss. e 550 ss., cui aggiungi Cass. 16.05.2013, Catale e altri, e Cass. 26.04.2013, Mongelli, in ISL, 2013, 8-9, 456).
A) Per cominciare, la sentenza Tuozzo afferma
che «i coordinatori per la progettazione e per
l’esecuzione dei lavori sono figure le cui posizioni
di garanzia non si sovrappongono a quelle
degli altri soggetti responsabili nel campo della
sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano
per realizzare, attraverso la valorizzazione di
una figura unitaria con compiti di coordinamento
e controllo, la massima garanzia dell’incolumità
dei lavoratori», e che, «in applicazione del
principio, nel caso in cui l’imputato rivesta entrambe
le qualifiche, le giustificabili lacune del
piano di sicurezza redatto in qualità di coordinatore
per la progettazione debbono essere colmate
attraverso una concreta e puntuale azione
di controllo, che compete allo stesso imputato
in qualità di coordinatore per esecuzione, e la
cui omissione comporta la sua responsabilità
in ordine al sinistro verificatosi.»
B) A sua volta, la sentenza Del Prete esamina
un’ipotesi in cui il committente responsabile
dei lavori e il coordinatore per l’esecuzione
dei lavori -condannati in primo grado- furono
in appello, il primo, ancora ritenuto colpevole,
e, il secondo, assolto dal delitto di omicidio colposo
in danno del dipendente di un’impresa
esecutrice caduto dall’alto in un cantiere, e
ciò perché il coordinatore «aveva più volte
chiesto al committente e all’esecutore di sospendere
i lavori e chiudere il cantiere.»
Nell’annullare con rinvio la sentenza di condanna,
la Sez. IV osserva che «un tale asserto, nella
sua assolutezza, non è condivisibile, stante che
nel caso in cui il coordinatore per la sicurezza
constati l’obiettiva necessità di sospendere i lavori
e ciò non ottenga, per esonerarsi da responsabilità
non ha strada diversa da quella di dimettersi
dall’incarico, il cui mantenimento risulterebbe
del tutto incompatibile con una situazione
fattuale, a lui ben presente, che ponga a rischio
l’incolumità dei lavoratori addetti al cantiere.»
Prende atto che, ad avviso dei giudici di appello,
il coordinatore «ha fornito documentazione
attestante la custodia esclusiva del cantiere da
parte dell’esecutore» e che «in tale documento
l’esecutore si impegnava a non proseguire i lavori
fino a una certa data e dopo avere fornito al
coordinatore tutta la documentazione necessaria
ad attestare la messa in sicurezza del cantiere
edile», sicché «appare verosimile che i lavori
fossero proseguiti all’insaputa del coordinatore.»
Sottolinea che «tale considerazione, certamente
confacente alla posizione del coordinatore, non è logicamente
estranea a quella del committente.»
E conclude che, «se il subappaltatore si era affermato
custode esclusivo del cantiere, obbligandosi
a mantenerne sospesa ogni attività in
attesa della piena messa in sicurezza dello stesso,
restano da chiarire le ragioni per le quali il
rappresentante legale dell’impresa committente
debba considerarsi colpevolmente venuto meno
ai propri doveri di garante a differenza del coordinatore
per la sicurezza.»
C) Infine, la sentenza Celentano considera un
caso in cui un coordinatore per l’esecuzione
dei lavori, condannato per un duplice infortunio,
rileva a sua discolpa che, «oltre ad aver regolarmente
redatto il piano di sicurezza e di
coordinamento previsto dall’art. 91 D.Lgs. n.
81/2008, prescrivendo in esso l’obbligo di
montare il ponteggio secondo lo schema riportato
nella relativa autorizzazione ministeriale,
aveva anche verbalizzato, in occasione di un
sopralluogo, la prescrizione rivolta all’impresa
esecutrice dei lavori di verificare gli ancoraggi,
il cui corretto serraggio, assicurando la stabilità
dell’impalcatura, avrebbe evitato il ribaltamento», che «l’art. 92 D.Lgs. n. 81/2008 impone
al coordinatore per l’esecuzione di verificare,
con idonee azioni di coordinamento e di controllo,
l’applicazione da parte dell’impresa appaltatrice
delle disposizioni contenute nel piano
di sicurezza, disposizione che egli ha osservato
allorché, in sede di controllo, disponeva, appena
due giorni prima dell’infortunio, che fossero
verificati gli ancoraggi», e che «la norma in
esame non impone l’obbligo a carico del coordinatore
per la sicurezza di verificare materialmente
l’esecuzione delle operazioni che aveva
prescritto, né tantomeno di eseguirle personalmente»: «pretendere che, dopo aver dato la disposizione,
impartita, nel caso in esame, per
iscritto, in un verbale di sopralluogo, lo stesso
dovesse verificare anche l’esecuzione, significa
sostituire al precetto imposto dalla normativa in
esame al coordinatore per la sicurezza, altro obbligo
imposto dalla legge all’impresa esecutrice
dei lavori, non esigibile da parte del coordinatore
per la sicurezza.»
La Sez. IV ribatte che «la responsabilità del
coordinatore è stata correttamente ritenuta per
aver omesso le necessarie concrete verifiche
circa il corretto montaggio del ponteggio, pur avendo egli
prescritto nel piano operativo di sicurezza
redatto, i criteri di installazione dell’impalcatura.»
Insegna che «il coordinatore per l’esecuzione
dei lavori è titolare di una autonoma posizione
di garanzia che, nei limiti degli obblighi specificamente
individuati, si affianca a quelle degli
altri soggetti destinatari delle norme antinfortunistiche,
senza sovrapporsi, nell’ottica di un rafforzamento
della tutela dell’incolumità dei lavoratori,
attraverso la previsione di una figura
con compiti di coordinamento e controllo», e
che «in tale veste, il coordinatore per l’esecuzione
dei lavori ha non soltanto compiti organizzativi
e di raccordo tra le imprese che collaborano
alla realizzazione dell’opera, ma deve
anche vigilare sulla corretta osservanza da parte
delle imprese delle prescrizioni del piano di sicurezza
e della scrupolosa attuazione delle procedure
di lavoro a garanzia dell’incolumità dei
lavoratori.»
Chiarisce che, «pur non richiedendo un obbligo
di presenza continuativa in cantiere, il coordinatore
per l’esecuzione dei lavori, nel corso
dei periodici accessi, deve informarsi scrupolosamente
sullo sviluppo delle opere, verificando
specificamente, per ciascuna fase, l’effettiva
realizzazione delle programmate misure di sicurezza
e svolgendo una concreta e puntuale azione
di controllo sulla loro osservanza, la cui
omissione comporta la sua responsabilità in ordine
ai sinistri dipendenti dalla mancata predisposizione
delle misure provvisionali.»
Spiega che, «facendo applicazione di tali principi
al caso in esame, si deve ritenere inidonea
ad escludere la responsabilità del coordinatore
la circostanza che egli avesse indicato nel verbale
di sopralluogo le prescrizioni circa il corretto
montaggio dell’impalcatura, date all’impresa
appaltatrice, in quanto era obbligo dell’imputato
nella sua qualità di verificare che
tali prescrizioni impartite fossero state effettivamente
attuate», e ciò perché «egli, quale responsabile
per la sicurezza, avrebbe dovuto vigilare
sulla corretta adozione delle misure di
sicurezza attraverso una presenza assidua, se
non quotidiana, sul cantiere, quantomeno nelle
fasi più complesse della lavorazione tali da
esporre i lavoratori a rischi per la loro incolumità.»
Nota che «questa è evidentemente mancata se è
vero che il ponteggio non è stato montato in
conformità delle prescrizioni e che la pesante
macchina taglia mattoni è stata appoggiata su
una mensola inidonea a reggerne il peso anche
in rapporto alla fragilità strutturale di
quell’impalcatura,
per come montata.»
E conclude che «non è certo sufficiente prevedere
nel piano di sicurezza le corrette modalità
di montaggio del ponteggio se a questa previsione
non si accompagna la verifica in concreto
da parte del responsabile della sicurezza dell’osservanza
delle prescrizioni, non semplicemente
affidata ad un verbale di prescrizioni in
sede di sopralluogo» (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 10.12.2013 n. 49743
- Corte di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 04.12.2013 n. 48522
- Corte di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 04.12.2013 n. 48511
- tratto da Igiene
& Sicurezza del Lavoro n. 2/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
POSIZIONE DI GARANZIA DEL PROPRIETARIO
DEL TERRENO.
Rifiuti - Scarico di rifiuti - Posizione di garanzia del
proprietario del terreno - Esclusione
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 42, Cost.
La funzione sociale della proprietà di
cui all’art. 42, comma 2, Cost., può costituire il
proprietario in una posizione di garanzia a tutela di beni
socialmente rilevanti, e quindi può fondare una sua
responsabilità omissiva per i fatti di reato lesivi di quei
beni, solo se essa si articola in obblighi giuridici
positivi e determinati, diretti a impedire l’evento
costitutivo del reato medesimo (nella fattispecie, è stato
escluso che il proprietario di un terreno adiacente ad un
torrente avesse l’obbligo di recintarlo per impedire lo
scarico di rifiuti da parte di terzi).
Nel caso in esame, il Tribunale aveva condannato il titolare
di
una ditta individuale per aver scaricato in un torrente i
fanghi
formatisi in seguito al deposito di residui derivanti dalla
produzione
di calcestruzzo nonché vari sacchi di materiale rizzato
per produrre miscele bituminose.
L’imputato, nel rivolgersi alla Cassazione, contestava tale
decisione
osservando che lo scarico non poteva essergli attribuito
in quanto era da attribuirsi alla condotta illecita di
terzi: il
giudice di merito aveva ritenuto irrilevante questa
circostanza
sostenendo che «l’omessa predisposizione di un’adeguata
recinzione
a fronte di ripetuti sversamenti abusivi di rifiuti è
sicuramente rimproverabile, a titolo di colpa, a colui che
ha
la disponibilità dell’area».
La Cassazione ha ritenuto l’erroneità di questa motivazione
perché, così opinando, il giudice aveva inammissibilmente
creato una posizione di garanzia, che non trova fondamento
alcuno nel nostro ordinamento giuridico, in forza della
quale
chi è proprietario di un terreno adiacente ad un torrente
deve
cintarlo affinché nessuno possa scaricare rifiuti nello
stesso,
altrimenti è responsabile del comportamento illecito dei
terzi.
In pratica, secondo il giudice di merito, ai sensi dell’art.
40 cpv
c.p., l’imputato sarebbe stato tenuto ad impedire che terzi
scaricassero rifiuti nel torrente passando per il suo
terreno.
La Corte ha ricordato la consolidata giurisprudenza secondo
cui il principio di tassatività delle fattispecie penali
impone di
considerare come presupposto di applicabilità dell’art. 40
cod.
pen. sia non tanto un obbligo generico di attivarsi
derivante
da fonte giuridica (legale o contrattuale), quanto piuttosto
un
obbligo giuridico specifico di compiere proprio quella
azione
che avrebbe impedito l’evento di reato. In particolare,
nessun obbligo giuridico di controllo può ravvisarsi a
carico del proprietario
in relazione a rifiuti gestiti e smaltiti da altri, tale non
essendo, evidentemente, l’obbligo di ripristino che ha
carattere
riparatorio e non preventivo.
Per la Cassazione, la responsabilità omissiva sancita
nell’art.
40 cpv. trova fondamento nel principio solidaristico di cui
all’art. 2, all’art. 41, comma 2, e all’art. 42, comma 2,
Cost.,
ma contemporaneamente essa trova un limite in altri principi
costituzionali e segnatamente nel principio di legalità
della
pena consacrato nell’art. 25, comma 2, il quale si articola
nella
riserva di legge statale e nella tassatività e
determinatezza delle
fattispecie incriminatrici.
E' proprio in ragione di questo
limite
che la responsabilità omissiva non può fondarsi su un
dovere
indeterminato o generico, anche se di rango costituzionale
come quelli solidaristici o sociali di cui alle norme
citate;
ma presuppone necessariamente l’esistenza di obblighi
giuridici
specifici, posti a tutela del bene penalmente protetto,
della
cui osservanza il destinatario possa essere ragionevolmente
chiamato a rispondere.
In conclusione, è stato ribadito che la funzione sociale
della
proprietà di cui all’art. 42, comma 2, Cost., può
costituire il
proprietario in una posizione di garanzia a tutela di beni
socialmente
rilevanti, e quindi può fondare una sua responsabilità
omissiva per i fatti di reato lesivi di quei beni, solo se
essa
si articola in obblighi giuridici positivi e determinati,
diretti a
impedire l’evento costitutivo del reato medesimo (Corte
di
Cassazione, Se. III penale, sentenza 09.12.2013 n. 49327
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 5/2014). |
ENTI LOCALI:
Responsabilità del capo
della protezione civile
per infortunio
a un volontario.
La sicurezza sul lavoro dei volontari costituisce
oggetto di una disciplina dettata dal D.Lgs. n.
81/2008 e già modificata, prima, dal D.Lgs. n.
106/2009, e, ultimamente, dalla legge n. 98/2013 (per un precedente v. Guariniello, Il
T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la
giurisprudenza. Integrato con i commenti al
Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582,
589, 590), V edizione, Milano, 2013, 93).
Per un infortunio mortale subito da un volontario,
fu incriminato, oltre al coordinatore dei volontari
giudicato a parte, il comandante della
polizia municipale capo della protezione civile
di un comune in qualità di datore di lavoro, in
particolare «per la violazione degli articoli:
– 71, commi 1 e 2, lett. c), D.Lgs. n. 81/2008,
non avendo posto a disposizione dei volontari
della protezione civile, che si accingevano ad
effettuare i lavori di manutenzione della facciata,
attrezzature conformi ai requisiti di sicurezza
prescritti dalla legge;
– 71, comma 7, D.Lgs. n. 81/2008, per aver
consentito l’utilizzo di una gru oleodinamica
priva di comando elettromagnetico in maniera
errata ad operatori non incaricati, non informati
e non adeguatamente addestrati;
– 71, comma 8, D.Lgs. n. 81/2008, per non
aver provveduto a che le attrezzature di cui sopra
fossero sottoposte ad interventi di controllo
periodici;
– 36 e 37 D.Lgs. n. 81/2008, per non aver fornito
al volontario adeguata informazione sui rischi
specifici dell’attività che andava a svolgere
né adeguata formazione con particolare riferimento
ai rischi specifici dell’attività che gli si
richiedeva di svolgere né adeguato addestramento;
– 28 D.Lgs. n. 81/2008, per non aver predisposto
per il fabbricato in questione, di proprietà
del comune il documento di valutazione dei rischi,
all’interno del quale sarebbe stato necessario
evidenziare il rischio di caduta dall’alto costituito
dalla copertura non calpestabile e non pedonabile,
specificando altresì le procedure di
sicurezza, i dispositivi di protezione e la formazione
necessari per lo svolgimento dell’attività
lavorativa, non rientrante nell’ambito di competenza
della protezione civile;
– 115, comma 1 e 3, D.Lgs. n. 81/2008, per
non aver predisposto né presidio né vigilanza
da parte di preposti, designati e formati ai sensi
dell’art. 37 D.Lgs. n. 81/2008, per non aver informato
il personale adibito a lavori in quota,
che avrebbe dovuto utilizzare idonei dispositivi
anticaduta in presenza di un parapetto di altezza
inferiore ad un metro e a fronte della necessità
di muoversi sul tetto per posizionare provvisoriamente
l’insegna che l’infortunato aveva
sganciato dal muro ove era infissa;
– 18, comma 1, lett. c), d), e), D.Lgs. n. 81/2008, per aver omesso di tenere conto della capacità
e delle condizioni dei volontari della protezione
civile ed in particolare del volontario in
rapporto in particolare alla sicurezza e per aver
omesso di fornire i lavoratori dei necessari ed
idonei dispositivi di protezione individuale,
prendendo altresì appropriate misure affinché
solamente lavoratori adeguatamente formati
avessero accesso alle zone che li esponevano
al rischio grave e specifico sopra descritto.»
Peraltro, il GUP dichiarò non luogo a procedere
nei confronti del capo della protezione civile
per non aver commesso il fatto. Osservò , infatti,
che «l’intervento eseguito dai volontari era un
intervento di manutenzione straordinaria e non
un intervento proprio e specifico di protezione
civile, ne´ un’esercitazione istituzionale», e che
non si era chiarito se l’imputato «avesse inciso
in qualche misura sull’intervento previamente
concordato nel corso di una riunione svoltasi
tra i volontari e il coordinatore degli stessi o
se ne sia stato in concreto informato.» Sicché ritenne
«incontestabili all’imputato i diversi profili
di colpa specifica indicati nel capo d’imputazione,
presupponenti la preventiva conoscenza
dell’intervento.»
Nell’annullare la sentenza di proscioglimento,
la Sez. IV ne trae spunto per sottolineare che
«il giudice ha fatto buon governo dei principi
per cui, in tema di reato omissivo improprio,
il rapporto di causalità tra condotta ed evento
presuppone l’affermazione di un obbligo di garanzia
in capo al soggetto di cui si assume la responsabilità;
nel rispetto del principio di tassatività,
oltre agli obblighi di garanzia previsti
dalla legge, vengono individuati obblighi di garanzia
derivati, ossia trasferiti dall’originario
garante ad altro soggetto; l’obbligo di garanzia,
in virtù della delimitazione prevista dall’art. 40,
comma 2, cod. pen. alle sole fonti di doveri giuridici,
deve essere previsto dalla legge, dal contratto
o può derivare dalla volontaria assunzione
dell’obbligo (negotiorum gestio art. 2028
cod. civ.); in tema di infortuni sul lavoro, la
previsione di cui all’art. 299 D.Lgs. n. 81/2008 (rubricata esercizio di fatto di poteri direttivi)
-per la quale le posizioni di garanzia gravano altresì su colui che, pur sprovvisto di regolare
investitura, eserciti in concreto i poteri
giuridici riferiti al datore di lavoro e ad altri garanti
ivi indicati- ha natura meramente ricognitiva
del principio di diritto affermato dalle Sezioni
Unite e consolidato, per il quale l’individuazione
dei destinatari degli obblighi posti
dalle norme sulla prevenzione degli infortuni
sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica
rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate,
che prevalgono, quindi, rispetto alla carica
attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione
formale» (conforme Cass. 19.03.2012, Corsi,
in Guariniello, op. cit., 713).
Prende atto che, ad avviso del GUP, la posizione
di garanzia dell’imputato non sarebbe stata
«configurabile in relazione ad un intervento di
manutenzione edile estraneo ai compiti istituzionali
della protezione civile», e che, «per sostenere
l’accusa in giudizio, sarebbe stata necessaria
l’acquisizione di elementi probatori atti
a dimostrare che l’indagato avesse volontariamente
assunto tale obbligo di garanzia.»
A questo punto, in accoglimento del ricorso
proposto dal Pubblico Ministero, la Sez. IV
rimprovera al GUP di non aver preso in esplicita
considerazione le testimonianze rese da altri
volontari della protezione civile, atte a dimostrare
secondo il Pubblico Ministero che «i volontari
della protezione civile si fossero improvvisati
operai edili, con il benestare e comunque
condividendo le loro attività certamente con il
coordinatore e con il datore di lavoro» e che
«i volontari della protezione civile svolgessero
quasi per abitudine attività di manutenzione di
edifici» (Corte
di Cassazione, Sez. IV
penale, sentenza 22.11.2013 n. 46782 - tratto da
Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 1/2014). |
COMPETENZE
PROGETTUALI:
I geometri possono progettare opere in cemento armato.
I geometri possono progettare strutture
di “modesta entità” anche in cemento armato fino a 1.500
metri cubi che non richiedono calcoli complessi.
Lo ha affermato il TAR Veneto ribadendo quanto già espresso
dal TAR della Lombardia con la sent. n. 361 del 18.04.2013.
Il Tribunale amministrativo, respingendo un ricorso
presentato dall’Ordine degli ingegneri di Verona, ricorda
che il D.Lgs. 212 del 13.12.2010 abroga il R.D. 2229/1939
(che riserva il calcolo del cemento armato a ingegneri e
architetti) e precisa che gli uffici devono comunque sempre
accertare la semplicità delle strutture e le modalità di
costruzione.
... per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia,
della delibera di giunta comunale del Comune di Torri del
Benaco in data 09.07.2012, n. 96, recante indirizzi in tema
di competenze professionali dei geometri; nonché di ogni
atto annesso, connesso o presupposto.
...
Con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente ha asserito
la nullità dell’impugnata deliberazione per il difetto
assoluto di attribuzione, deducendo che la giunta comunale
avrebbe esercitato de facto funzioni a carattere normativo
in tema di competenze professionali, in assenza di una norma
attributiva di tale potere.
Il motivo è infondato e, pertanto, deve essere rigettato.
Infatti, ad avviso del Collegio, l’impugnata deliberazione
comunale deve farsi rientrare nell’ambito degli atti
d’indirizzo politico-amministrativo con i quali gli organi
politici degli enti comunali (sindaco, consiglio e giunta)
fissano le linee generali cui gli uffici devono attenersi
nell’esercizio delle loro funzioni istituzionali (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V,
07.04.2011, n. 2154).
Trattandosi, dunque, di atto d’indirizzo occorre altresì
evidenziare che, contrariamente a quanto dedotto da parte
ricorrente, la deliberazione in esame non assume carattere
vincolante per gli uffici amministrativi cui essa è rivolta,
atteso che questi dovranno pur sempre verificare, in base
alla normativa di riferimento, se i progetti sottoposti al
loro esame rientrino nella competenza professionale dei
geometri, sulla scorta delle caratteristiche dell’opera da
realizzare.
Sotto altro profilo, deve nondimeno essere rilevato che, nel
caso di specie, la misura di mc. 1500, che la delibera
impugnata assume quale criterio d’indirizzo ai fini della
determinazione della competenza professionale dei geometri
in materia di progettazione edilizia, non rappresenta un
limite quantitativo entro il quale una costruzione in
conglomerato cementizio possa essere progettata e firmata da
un geometra, posto che a tenore della citata delibera, la
progettazione dell’opera da realizzare da parte dei geometri
rimane comunque subordinata all’applicazione del
fondamentale parametro tecnico-qualitativo, in virtù del
quale il progetto non deve implicare la soluzione di
problemi particolari (devoluti esclusivamente ai
professionisti di rango superiore) con riguardo alla
struttura dell’edificio ed alle modalità costruttive (cfr.,
ex multis, Cass. Civ., sez. II, 27.01.1988, n. 736;
Cons. St., sez. V, 03.10.2002, n. 5208).
Deve, altresì, essere respinto il secondo motivo di ricorso
con cui parte ricorrente deduce che la normativa di specie
escluderebbe in toto la competenza del geometra in ordine
alla progettazione di costruzioni civili in cemento armato,
posto che il d.lgs. 13.12.2010, n. 212, ha abrogato il
r.d. 16.11.1939, n. 2229, ai sensi del quale “Ogni
opera di conglomerato cementizio semplice od armato, la cui
stabilità possa comunque interessare l’incolumità delle
persone, deve essere costruita in base ad un progetto
esecutivo firmato da un ingegnere, ovvero da un architetto
iscritto all’albo”.
Va, infine, rigettata la censura con la quale l’ordine
professionale ricorrente ha rilevato il difetto di
motivazione della delibera in esame, avendo invero la giunta
comunale accuratamente specificato le ragioni sottese
all’adozione di tale atto (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 20.11.2013 n. 1312 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ABBANDONO E DEPOSITO INCONTROLLATO DI RIFIUTI.
Rifiuti - Abbandono incontrollato di rifiuti - Reato
permanente - Cessazione del reato.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Il reato di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti ha natura permanente e la
permanenza è interrotta quando avvenga la rimozione totale
dei rifiuti.
Anche nella fattispecie, come in quella che precede, la
Cassazione
si è occupata della questione del momento consumativo
del reato di abbandono e deposito di rifiuti.
All’imputato, infatti, era stato contestato il reato di cui
all’art.
51, comma 1, lett. a) e 2, D.Lgs. n. 22/1997 perché in
qualità
di titolare dell’omonima ditta edile aveva effettuato un
deposito
incontrollato di rifiuti costituiti da materiale edile di
risulta
provenienti da pregressi lavori di demolizione [reato
commesso il 17.02.2006].
Dopo l’accertamento ad opera
del Corpo Forestale dello Stato, il Sindaco del Comune
interessato
aveva ordinato all’imputato la rimozione dei rifiuti
stazionanti sul terreno, nonché il ripristino dello stato
dei
luoghi. L’imputato ottemperava a tali ordini, non in unica
soluzione, ma in tempi diversi, iniziando l’opera di
smaltimento
il 5 aprile e, dopo un’ulteriore operazione del 22.04.2006, ultimandolo il 24 aprile successivo come constatato
dai verbalizzanti. Da qui l’affermazione del Giudice secondo
la quale, in considerazione della natura permanente del
reato,
il momento consumativo andava individuato non già nel
giorno
dell’accertamento, ma in quello di definitiva rimozione dei
rifiuti considerato quale momento di cessazione della
permanenza.
Nel proposto ricorso, l’imputato tra i vari motivi di
censura
sosteneva la tesi della natura istantanea -e non permanente-
del reato, con conseguente individuazione della data di
consumazione
del reato al 17.02.2006 (data dell’accertamento)
e non al 24 aprile successivo.
In ordine a questa doglianza, la Cassazione ha osservato in
primo luogo che la questione non era nuova essendosi già
affermato che il reato di deposito incontrollato di rifiuti
integra
una ipotesi di reato commissivo eventualmente permanente,
la cui antigiuridicità cessa o con il sequestro del bene o
con
l’ultimo abusivo conferimento di rifiuti o con la sentenza
di
primo grado (così Cass. 21.10.2010, n. 48050, Gramegna,
Foro it., 2011, II, 222; in senso analogo, Cass. 26.05.2011,
Caggiano, cit.).
Pertanto, era corretta la decisione del Tribunale secondo
cui
alla data della pronuncia della sentenza la prescrizione non
era
ancora maturata in quanto si versava in un’ipotesi di reato
permanente e la permanenza era cessata soltanto alla data
del 24.04.2006 (1).
(1) In senso contrario, si veda Cass. 28.02.2013,
Lazzi, in questa Rivista,
2014, 1, p. 35, con osservazioni di Paone, Quando si consuma
il reato di deposito
incontrollato? (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.10.2013 n. 40593
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 3/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO SENZA FORMULARIO.
Artt. 256 e 258, D.Lgs. n. 152/2006
Rifiuti - Trasporto senza formulario - Reato di gestione
abusiva - Esclusione
Non è configurabile il reato di cui
all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, che punisce la
gestione abusiva di rifiuti, nel caso di trasporto di
rifiuti accompagnati da FIR incompleti.
Nella specie, il Tribunale aveva ritenuto sussistente il
reato di
cui all’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006 in
un
caso in cui un soggetto aveva trasportato rifiuti speciali
non
pericolosi (vetro proveniente dalla raccolta differenziata e
da
attività di demolizione di autovetture), successivamente
lavorati
e/o trattati e commercializzati con fonderie e vetrerie in
assenza dei certificati analitici del prodotto in ingresso.
Il Tribunale aveva accertato che i rifiuti erano stati
ceduti
accompagnati da FIR privi di rapporto analitico e che in
uscita
il materiale era accompagnato da DDT, senza che ad esso
fosse
allegata e/o si facesse riferimento ad alcuna certificazione
analitica
attestante l’idoneità del materiale.
Nel proposto ricorso, l’imputata sosteneva che i decreti
ministeriali
del 1998 e del 2006 prescrivono esclusivamente che i
rifiuti siano accompagnati dal FIR, che contiene già i dati
analitici del rifiuto, senza prevedere alcun certificato di
analisi
aggiuntivo.
La sentenza impugnata è stata annullata senza rinvio perché il
fatto ascritto non sussiste.
La Cassazione ha, infatti, osservato che l’art. 256, comma
1,
che punisce la gestione di rifiuti in assenza di
autorizzazione o
iscrizione, ovviamente non può essere applicata
analogicamente
a fattispecie diverse, quale quella accertata dal giudice
di merito (ricezione di rifiuti di vetro accompagnati da FIR
incompleti).
La carenza dei formulari di identificazione dei rifiuti o la
loro
incompletezza è, invece, prevista dall’art. 258 che puniva
e
tuttora punisce con sanzione amministrativa l’assenza o
incompletezza
dei FIR (comma 4) allorché si tratti di rifiuti
non pericolosi.
La Corte ha ricordato che in materia è intervenuta,
successivamente
alla commissione dei fatti di cui alla contestazione, la
normativa sul sistema di controllo della tracciabilità dei
rifiuti
(Sistri), che ha ulteriormente esteso la punibilità con
sanzione
amministrativa delle attività di trasporto di rifiuti in
assenza o
insufficienza dei formulari (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.10.2013 n. 42465
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 4/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ABBANDONO DI RIFIUTI.
Rifiuti - Abbandono di rifiuti - Reato istantaneo
eventualmente con effetti permanenti - Effetti sulla
prescrizione
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
La fattispecie dell’abbandono e deposito
di rifiuti integra un reato istantaneo, eventualmente con
effetti permanenti, e perciò il termine di prescrizione
comincia a decorrere dal momento in cui viene effettuato
l’abbandono.
La sentenza in epigrafe, sia pure con motivazione stringata,
interviene su un tema sul quale si registra ormai un certo
contrasto nella giurisprudenza della Cassazione.
Discutiamo della condanna inflitta ad una persona per il
reato
di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006, per avere
abbandonato e depositato in modo incontrollato materiale
vario, fra cui alcune auto.
La difesa, nel ricorso per cassazione, aveva, tra l’altro,
eccepito
l’intervenuta prescrizione del reato.
La Corte ha accolto questo motivo rilevando che dagli atti
risultava che l’imputato avesse abbandonato e depositato i
rifiuti «già nel 2006». Era perciò erronea e fuorviante la
data
di commissione del reato riportata nel capo di imputazione
«sino al 09.08.2008», la quale faceva invece riferimento
alla data di emissione dell’ordinanza sindacale di rimozione
e
smaltimento dei rifiuti abbandonati e depositati,
trattandosi di
dato temporale eventualmente rilevante ai fini della
sussistenza
della diversa ipotesi di reato di cui all’art. 255, comma 3,
non contestata nella fattispecie.
La Corte ha poi notato che il reato contestato all’imputato
era
stato consumato [al più] sino al mese di settembre 2006 e
non
risultavano ulteriori atti di abbandono o di deposito
successivi
a quella data.
Poiché secondo la Corte quello contestato è un reato
istantaneo,
eventualmente con effetti permanenti, e non un reato
permanente, lo stesso -anche in applicazione del principio
del favor rei- era ampiamente estinto per intervenuta
decorrenza
del termine prescrizionale già nel settembre 2011 (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.10.2013 n. 42343
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 4/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
DEPOSITO INCONTROLLATO.
Rifiuti - Deposito incontrollato - Reato permanente.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Il reato di deposito incontrollato di
rifiuti è permanente.
Nella specie, la Corte d’appello di Trento, in parziale
riforma
della sentenza del Tribunale, assolveva F. dalla violazione
dell’art. 181, D.Lgs. n. 42/2004, e confermava la condanna
per il reato di cui all’art. 256, comma 1, lettera a), D.Lgs. n.
152/2006 (per aver smaltito senza autorizzazione rifiuti
speciali
non pericolosi depositandoli in modo incontrollato in un
terreno
del Comune di Bleggio Superiore) e 256, comma 2,
D.Lgs. n. 152/2006 (per aver abbandonato su tale terreno
rifiuti pericolosi).
Tra i motivi di ricorso, l’imputato chiedeva che venisse
riconosciuta
l’intervenuta prescrizione perché le condotte incriminate
sarebbero cessate quantomeno dal 2000. Si trattava della
riproposizione di un motivo d’appello vagliato con cura
dalla
corte territoriale la quale aveva evidenziato come,
trattandosi
di reato permanente, il dies a quo della prescrizione era
identificabile
all’epoca del sequestro penale del fondo, avvenuto nel
giugno 2008.
Invero, secondo la Corte il reato di deposito incontrollato
di
rifiuti è permanente nel senso che dà luogo ad una forma
di
gestione dei rifiuti preventiva rispetto al loro recupero e
smaltimento;
tale strumentalità prodromica commisura la consumazione
del reato, nel senso che questa perdura proprio fino al
recupero e allo smaltimento dei rifiuti stessi (nello stesso
senso,
Cass. 26.05.2011, Caggiano, n. 25216, in questa Rivista,
2011,971); rispetto a tale esito il sequestro penale si
configura
come fungibile essendo atto a porre termine ad ogni
effetto illecito (1).
(1) In senso contrario, si veda Cass. 28.02.2013,
Lazzi, in questa Rivista,
2014, 1, p. 35, con osservazioni di Paone, Quando si consuma
il reato di
deposito incontrollato?
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.10.2013 n. 42340
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 3/2014). |
SICUREZZA LAVORO:
Le responsabilità
del coordinatore responsabile
dei lavori
e del direttore dei lavori
nominati dal committente.
Nell’ambito dei lavori di costruzione di un edificio
appaltati da una s.p.a. esercente una casa
di moda, la s.p.a. appaltatrice contrattualmente
obbligata verso la committente dell’installazione
degli ascensori incaricò una s.r.l. della posa
di cristalli sulle pareti di ascensori panoramici.
Un dipendente della s.r.l. fu colpito al capo dalla
piattaforma di un ascensore in movimento
proveniente dal piano superiore in fase di collaudo,
subendo lo schiacciamento del capo tra
la piattaforma e una sottostante putrella in acciaio.
Tra gli imputati del delitto di lesione personale
colposa, sia il responsabile dei lavori coordinatore
per la progettazione e per l’esecuzione dei
lavori, sia il direttore dei lavori, nominati dal
committente.
A) Quanto al coordinatore-responsabile dei lavori,
l’addebito era quello di «aver redatto un piano
di sicurezza e di coordinamento carente in ordine
alla valutazione dei rischi di cesoiamento e di
schiacciamento di persone nelle fasi di montaggio
e di collaudo degli ascensori e in ordine alla
individuazione delle relative misure di prevenzione,
oltreché di non aver garantito e verificato
la predisposizione, a cura della ditta installatrice,
di misure idonee a prevenire detti rischi.»
Al riguardo, la Sez. IV condivide «l’affermazione
di responsabilità dell’imputato, investito
di una ben precisa posizione di garanzia in qualità
di coordinatore per la sicurezza in fase di
progettazione e di esecuzione dei lavori nonché
di responsabile dei lavori, giusta specifica nomina
della società committente.»
Precisa che «l’imputato non aveva in particolare
ottemperato al preminente obbligo specificamente
demandatogli di adeguare il piano di sicurezza
al fine di eliminare i rischi ‘‘aggiuntivi’’
ed ‘‘interferenziali’’ ingenerati dall’operare
nel cantiere di più imprese esecutrici, circostanza
pacificamente prevista nel caso concreto e di
fatto verificatasi in occasione dell’incidente per
cui è processo tanto da rendere obbligatoria per
la committenza proprio la figura del coordinatore
per la sicurezza appositamente nominato dalla
committente.»
Addebita in particolare all’imputato una «colpevole
inerzia sia nell’aver omesso di accertare in
termini chiari e specifici quale tipo di operazioni
i dipendenti della s.p.a. appaltatrice dell’installazione
degli ascensori si accingessero ad eseguire,
sia per non aver provveduto, attraverso l’aggiornamento
e la modifica del piano di sicurezza,
a scongiurare i rischi connessi all’intersecarsi
dell’operare di più imprese nel cantiere sia ancora
per non aver verificato l’omessa predisposizione
delle apposite misure antinfortunistiche
atte ad impedire l’accesso alle zone dello stabile
interessate dalle prove di collaudo delle cabine degli
ascensori nonché la caduta nel vuoto di
chicchessia si trovasse ai piani sui quali si affacciavano
le trombe degli ascensori ed il rischio di
cesoia mento/stritolamento.»
Spiega che «egli avrebbe dovuto, a norma di
legge, contestare dette inosservanze ai rispettivi
datori di lavoro, prospettando anche un intervento
sospensivo in caso di inottemperanze alle
specifiche prescrizioni di adeguamento.» (Circa
le responsabilità del coordinatore v. Guariniello,
Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato
con la giurisprudenza. Integrato con i commenti
al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575,
582, 589, 590), V edizione, Milano, 2013,
550 ss., cui adde Cass. 16.05.2013, Catale
e altri, e Cass. 26.04.2013, Mongelli, in ISL,
2013, 8-9, 456).
B) La colpa ascritta al direttore dei lavori per
conto del committente fu quella «di aver omesso l’attività
di controllo e di vigilanza consistita
nell’informare la committente della mancata installazione
delle opere provvisionali -al fine di
consentire il coordinamento fra le attività di
prevenzione- nonché di aver mancato di segnalare
il rischio di incidenti, derivante dalla simultanea
presenza di più imprese operanti in particolare
nell’esecuzione dell’attività di collaudo
degli ascensori nonostante non fosse stata adeguatamente
allestita e completata l’attività di
messa in sicurezza dei vani ascensori.»
La Sez. IV prende atto che «la committente
s.p.a. ebbe ad affidare all’architetto, con apposito
contratto, oltre alla progettazione architettonica,
la direzione dei lavori, l’assistenza al collaudo
delle opere ed il coordinamento delle attività
demandate nel cantiere ad altri professionisti.»
Ritiene che l’imputato fosse «investito di specifica
posizione di garanzia in materia antinfortunistica,
la cui fonte risiedeva nel richiamato
contratto d’opera professionale in forza del quale
il professionista risultava collaboratore della
committente con l’incarico specifico di direttore
dei lavori da eseguirsi nel cantiere, per conto
della stessa.»
Conclude che anche il direttore dei lavori,
«quale destinatario in tale veste delle norme
antinfortunistiche,
fosse tenuto a garantirne l’osservanza,
avuto riguardo al carattere ‘‘estensivo’’
della conseguente responsabilità alla stregua
della disciplina dettata in materia.»
Rileva, altresì, che l’imputato, grazie alla presenza
quotidiana in cantiere per almeno due ore (onde
esser in grado di espletare l’incarico affidatigli
dalla committente) alla data dell’evento, era
perfettamente a conoscenza che si stavano effettuando
lavori di montaggio e collaudo degli
ascensori al pari della propria assistente, anche alla
stregua delle dichiarazioni da costei rese.
E insegna che «l’imputato, titolare di un ben
precisa posizione di garanzia che lo abilitava
ad impartire direttive ed ordini per conto della
committente e ad esigerne l’osservanza, ebbe
invece ad omettere qualsiasi attività di controllo,
di vigilanza e di informazione circa l’inadeguatezza
delle misure antinfortunistiche apprestate
nella zona ove erano in corso l’installazione
ed il collaudo degli ascensori al fine di consentire
il coordinamento tra le attività prevenzionistiche.» (Sul delicato tema inerente alla
posizione di garanzia del direttore dei lavori
v. Guariniello, op. cit., 581 ss.; cfr., altresì,
Cass. 05.09.2013, Munciguerra e altra,
in ISL, 2013, 10, 533) (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 10.10.2013 n. 4183
- tratto da Igiene
& Sicurezza del Lavoro n. 1/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
VEICOLI FUORI USO.
Rifiuti - Veicoli fuori uso - Nozione - Deposito
preliminare.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Deve considerarsi fuori uso «tanto il
veicolo destinato alla demolizione, privo delle targhe di
immatricolazione, anche prima della materiale consegna a un
centro di raccolta, quanto quello che risulti in evidente
stato di abbandono, anche se giacente in area privata»
sicché il piazzale del concessionario, dove stazionano i
veicoli dismessi «fuori uso» destinati al successivo
smaltimento, integra un deposito preliminare di rifiuti.
Nella presente vicenda,
il Tribunale di Taranto condannava
la titolare della s.r.l. «D.» perché effettuava, in un’area
di sua
pertinenza, attività di deposito di rifiuti speciali in
mancanza
di autorizzazione.
Nel contestare la sentenza di condanna, l’imputata deduceva
che, a mente dell’art. 5, D.Lgs. n. 209/2003, i veicoli
fuori uso
che stazionavano nel piazzale antistante all’esercizio
commerciale
adibito a concessionaria per la vendita di autoveicoli,
erano stati lasciati, quanto meno in parte, da clienti che
avevano
proceduto all’acquisto di veicoli nuovi e in parte si
trattava
di veicoli già appartenuti agli acquirenti, ancora in grado
di marciare e dunque non fuori uso.
La ricorrente, sul presupposto che dovesse trovare
applicazione
il citato art. 5, riteneva perciò che nessuna violazione
penalmente
rilevante ricorresse nella specie, potendo, al più,
ritenersi
sussistente la violazione amministrativa di cui all’art. 13
stesso decreto.
Solo in via subordinata, sosteneva che, in caso di
inapplicabilità
della disciplina speciale per i veicoli fuori uso, era
comunque
ipotizzabile la violazione amministrativa di cui al
combinato disposto degli artt. 231 e 255, D.Lgs. n.
152/2006.
Per la Cassazione nessuna delle tesi riassunte è apparsa
persuasiva.
Anzitutto è stato confermato che la circostanza che un
veicolo
risulti ancora iscritto negli elenchi del P.R.A. (Pubblico
Registro
Automobilistico) non ne esclude la natura di rifiuto
speciale
nel caso in cui il suo stato di degrado lo renda inidoneo
alla circolazione.
Al fine di qualificare il veicolo «fuori uso» soccorre
infatti il
D.Lgs. n. 209/2003 che stabilisce, per quanto qui rileva,
che
un veicolo debba considerarsi fuori uso «con la consegna ad
un centro di raccolta, effettuata dal detentore direttamente
o
tramite soggetto autorizzato al trasporto di veicoli fuori
uso
oppure con la consegna al concessionario o gestore
dell’automercato
o della succursale della casa costruttrice che, accettando
di ritirare un veicolo destinato alla demolizione nel
rispetto delle disposizioni del presente decreto rilascia il
relativo
certificato di rottamazione al detentore».
Così delineato il quadro normativo di riferimento, la
sentenza
ha ribadito che deve considerarsi «fuori uso» non solo quel
veicolo di cui il proprietario si disfi o abbia deciso o
abbia
l’obbligo di disfarsi, ma anche tanto quello destinato alla
demolizione,
privo delle targhe di immatricolazione, anche prima
della materiale consegna a un centro di raccolta, quanto
quello che risulti in evidente stato di abbandono, anche se
giacente in area privata.
Correttamente, quindi, il Tribunale aveva ritenuto che si
fosse
in presenza di veicoli fuori uso, come del resto,
riconosciuto
dalla difesa della stessa ricorrente.
Inoltre, era corretta l’affermazione secondo la quale si era
in
presenza di un deposito «preliminare» e non di un deposito
«incontrollato» posto che il piazzale, all’interno del quale
stazionavano
i veicoli dismessi «fuori uso», costituiva un sito
destinato al successivo smaltimento e quindi integrava
un’ipotesi di deposito preliminare di rifiuti speciali
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.10.2013 n. 40747
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 3/2014). |
SICUREZZA LAVORO:
La vigilanza
del committente
o responsabile dei lavori.
La Corte di Cassazione prosegue la propria preziosa
opera di chiarimento in merito alla vigilanza
spettante al committente o al responsabile
dei lavori sull’adempimento degli obblighi previsti
a carico dei coordinatori per la progettazione
e per la esecuzione dei lavori, e, più in generale,
sulla sicurezza dei lavori affidati a imprese
appaltatrici o a lavoratori autonomi (in argomento
v., da ultimo, Cass. 16.05.2013, Catale
e altri, e Cass. 24.04.2013, Borrelli e altri,
in ISL, 2013, 8-9, 456).
Nella sentenza qui segnalata, la Sez. IV insegna
che «il committente ed il responsabile dei lavori
devono verificare l’adempimento da parte dei
coordinatori degli obblighi di assicurare e di verificare
il rispetto, da parte delle imprese esecutrici
e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni
contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento,
nonché la corretta applicazione delle procedure
di lavoro», e che «al committente e al responsabile
dei lavori non è attribuito dalla legge
il compito di verifiche meramente formali, ma
una posizione di garanzia particolarmente ampia,
comprendente l’esecuzione di controlli sostanziali
e incisivi su tutto quel che concerne i temi della
prevenzione, della sicurezza del luogo di lavoro e
della tutela della salute del lavoratore, accertando,
inoltre, che i coordinatori adempiano agli obblighi
sugli stessi incombenti in detta materia.»
Prende atto che, nel caso di specie, «a tali principi
si è uniformata la corte territoriale che, nel
ribadire la responsabilità dei due committenti
imputati, ha rilevato che la designazione del direttore
dei lavori e coordinatore per l’esecuzione
degli stessi non li esonerava dalle proprie responsabilità.»
Precisa che, «non avendo gli imputati nominato
un responsabile dei lavori, ad essi spettava di
verificare l’esatto adempimento, da parte del
coordinatore per l’esecuzione, dei compiti attribuiti
a costui (tra gli altri, la verifica dell’applicazione,
da parte delle imprese esecutrici e dei
lavoratori autonomi, delle disposizioni contenute
nel piano di sicurezza e di coordinamento e la
corretta applicazione delle relative procedure)»,
e che «ai committenti, in assenza di un responsabile
dei lavori, competeva di verificare che il
coordinatore per l’esecuzione dei lavori eseguisse
i controlli e le verifiche previste dalla legge.»
Rileva che «gli imputati hanno dedotto l’incolpevole
ignoranza circa l’esistenza di una situazione
che imponeva loro di attivarsi per eseguire
i necessari controlli e l’inesistenza di un obbligo
continuo e capillare di controllo sull’organizzazione
e sull’andamento dei lavori.»
Ma replica che «in ogni caso, i committenti erano
nelle condizioni di sapere come si svolgevano
i lavori e di intervenire, anche perché avevano
avuto occasione di recarsi sul cantiere e di
verificare direttamente l’andamento dello scavo
e le modalità di esecuzione dello stesso», e che
«il riferimento alla cognizione diretta del committente
ha, quindi, solo lo scopo di integrare
ulteriormente -e comunque legittimamente-
le precedenti considerazioni e di dimostrare come,
a di là del controllo e degli interventi del
coordinatore rispetto alle prescrizioni del piano
operativo di sicurezza e coordinamento, uno dei
committenti aveva avuto modo di notare lo scavo
e l’assenza di pareti e di protezioni; di rendersi
conto, quindi, di una situazione di pericolo
e di palese violazione delle norme di sicurezza,
direttamente constatati, che avrebbe dovuto
indurlo ad intervenire immediatamente.»
Sottolinea che «per nulla indeterminato è l’obbligo
di controllo che la legge impone al committente,
e palesemente infondato è il riferimento
alla responsabilità oggettiva, posto che la responsabilità
degli imputati è stata affermata,
non per la loro oggettiva posizione di committenti,
bensì per il mancato rispetto, da parte degli
stessi, degli obblighi loro imposti da specifiche
disposizioni di legge.»
«Quanto al tema della consapevolezza delle
modalità di esecuzione dello scavo», aggiunge,
«da un lato, che la responsabilità degli imputati è stata dai giudici del merito anzitutto individuata
nell’omessa verifica dell’esatto adempimento,
da parte del coordinatore per l’esecuzione
dei lavori, dei compiti che a costui assegna
la legge»; e, «dall’altro, che legittimamente
gli stessi giudici hanno richiamato una diretta
responsabilità dei committenti per essere, in
realtà, venuti personalmente a conoscenza delle
condizioni di pericolo nelle quali si svolgevano
i lavori di scavo.»
In proposito, segnala che, «a tale
conclusione, gli stessi giudici sono pervenuti
ricordando che uno dei committenti ha sostenuto
di avere avuto la possibilità di accedere
al cantiere nei tempi di pausa dei lavori e al termine
di ogni giornata lavorativa e che ciò aveva
fatto anche mentre erano in esecuzione i lavori
di scavo, e, in particolare, ha sostenuto di essersi
recato in cantiere il martedì (l’incidente è avvenuto
giovedì) e di avere notato che la prima
parte dello scavo, quella che aveva interessato
la pubblica via, era stata completata», sicché
«aveva avuto anche modo di visionare la parte
interna al cantiere e di notare il profondo scavo,
con terreno rimosso e collocato sul ciglio del
fosso, nonché l’assenza di un’armatura di sostegno
e di protezioni; e quindi anche di rendersi
conto dell’assenza di misure di sicurezza e delle
condizioni di evidente pericolo in cui si svolgevano
i lavori, da chiunque percepibili.»
Considera poco rilevante il fatto che «i committenti
non si trovavano sul cantiere al momento
dell’incidente, essendo la loro responsabilità legata
alla mancata verifica dell’esatto adempimento,
da parte del coordinatore per l’esecuzione
dei lavori, dei compiti allo stesso attribuiti, oltre
che alla consapevolezza del mancato rispetto,
nell’esecuzione dello scavo, delle prescrizioni di
sicurezza, che avrebbe imposto l’immediato e diretto
intervento dei committenti, eventualmente
anche disponendo la sospensione dei lavori.»
Nota ancora che, «se la committenza avesse
controllato la corretta applicazione del piano
di sicurezza da parte del coordinatore e dell’impresa,
si sarebbe provveduto alla sospensione
dello scavo ed all’attuazione delle opere di protezione
che avrebbero evitato l’incidente», «così
come l’incidente si sarebbe evitato se la committenza,
davanti alle evidenti violazioni delle
norme di sicurezza, facilmente rilevabili dalla
visita del martedì, fosse tempestivamente intervenuta
disponendo l’immediata messa in sicurezza
dello scavo e della zona circostante, ovvero
anche l’immediata sospensione dei lavori» (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 18.09.2013 n. 38421
- tratto da Igiene
& Sicurezza del Lavoro n. 2/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
INERTI DA DEMOLIZIONE.
Rifiuti - Inerti da demolizione - Utilizzo a scopo di
riempimento - Sottoprodotti - Esclusione.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Non è invocabile la disciplina sui
sottoprodotti nel caso di riutilizzo, per riempire le
fondamenta di un immobile in costruzione, di rifiuti
speciali «miscelati» (nella specie, si trattava di pietre
frammiste ad acconci di tufo, mattoni, manufatti in cemento
amianto, pezzi di tubo in cemento vibrato, frammenti di
asfalto, rottami di ferro, plastica, vetro, legno e,
persino, una batteria d’auto e due pneumatici).
La titolare di una ditta di lavori edili è stata condannata
per la
violazione degli artt. 256, comma 1, lett. a), comma 2 e
comma
5, D.Lgs. n. 152/2006 perché, all’interno dell’area di
cantiere
edilizio:
- smaltiva illecitamente rifiuti speciali costituiti da
sfabbricidi
frammisti a materiale da demolizione per riempire le
fondamenta
dell’immobile in costruzione;
- depositava in modo incontrollato circa 2000 mq. di rifiuti
speciali non pericolosi superando, in tal modo, il limite
quantitativo
del deposito temporaneo di cui all’art. 183;
- miscelava rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi
(inerti da
costruzione con batterie al piombo esauste e pneumatici
fuori
uso).
Avverso tale decisione, la prevenuta ha proposto ricorso
deducendo
la violazione della legge penale dovendosi ritenere
che i giudici avessero erroneamente ritenuto di ravvisare
nella
condotta dell’imputata la ricorrenza dei presupposti
dell’art.
256. Più precisamente, dopo un riepilogo delle vicende
subite
dall’art. 183, D.Lgs. n. 152/2006, la ricorrente aveva fatto
notare che l’ultima versione della disposizione considera le
terre e rocce da scavo esenti dal regime dei rifiuti a
condizione
che siano rispettate determinate condizioni.
A tale riguardo, dopo aver rammentato che la Regione
Siciliana
aveva emanato le proprie linee-guida circa l’utilizzo delle
rocce da scavo, la ricorrente censurava il fatto che la
Corte
non avesse minimamente tenuto in considerazione i dettami
normativi della Regione Siciliana: invece, ove ciò avesse
fatto,
avrebbe potuto constatare che, in base ad essi, il materiale
di
scavo è considerato sottoprodotto e che, quando si parla di
«riempimento» ci si riferisce ad un semplice riutilizzo di
un
materiale di scavo che non può definirsi rifiuto, ma
sottoprodotto.
Il ricorso è stato respinto.
Per la Corte il richiamo alla normativa sulle terre da scavo
era
del tutto inconferente per le caratteristiche fattuali della
vicenda
in esame. Nel caso di specie, era infatti emerso il
rinvenimento
di sfabbricidi misti a materiali del tutto eterogenei
(pietre frammiste ad acconci di tufo, mattoni, manufatti in
cemento amianto, pezzi di tubo in cemento vibrato, frammenti
di asfalto, rottami di ferro, plastica, vetro, legno e,
persino, una
batteria d’auto e due pneumatici).
Inoltre, il richiamo alla normativa regionale da parte della
ricorrente era stato fatto in modo estremamente generico.
Ed infatti, la circolare regionale ed il decreto
assessoriale risultano
limitarsi a disciplinare la competenza per l’approvazione
dei progetti per reinterri. In ogni caso -fermo restando
che
non si è al cospetto di rocce da scavo- non era stata
neppure
indicata dalla ricorrente la norma secondo cui esse possono
essere utilizzate ove provengano dallo stesso cantiere e non
superino i 6000 mc.
La Cassazione ha poi recisamente escluso l’ipotesi che si
trattasse
di un «sottoprodotto» sia per la natura stessa dei materiali
prima evidenziata sia perché i materiali di risulta da
demolizione
di edifici e scavi di cantiere possono essere qualificati
«sottoprodotti» alle condizioni richieste dalla legge, che
qui non ricorrevano. D’altronde, secondo la sentenza,
l’eventuale
assoggettamento di detti materiali a disposizioni più
favorevoli
che derogano alla disciplina ordinaria implicava la
dimostrazione, da parte di chi lo invoca, della sussistenza
di
tutti i presupposti previsti dalla legge, cosa che, nella
specie,
non risultava essere avvenuta visto che non trovava smentita
la contestata assenza di qualsivoglia progetto di cui
all’art. 186,
comma 1, D.Lgs. n. 152/2006.
La Cassazione ha perciò concluso che nella fattispecie si
fosse
«al cospetto di un maldestro tentativo di riutilizzo per
riempire
le fondamenta di un immobile in costruzione di materiali che
-per le caratteristiche prima evidenziate- sicuramente
costituivano
rifiuti speciali (pericolosi e non) «miscelati».
Quest’ultima,
infatti, è circostanza di fatto bene evidenziata dai
giudici
di merito che, nella loro elencazione delle varie specie di
materiali rinvenuti, enumerano, accanto ai materiali
derivanti
da scavo e da demolizione, la presenza di rifiuti speciali
pericolosi
come il cemento-amianto e la batteria per auto.
Essi, tra
l’altro, corroborano giustamente la contestazione attraverso
il
richiamo alla definizione, data da questa giurisprudenza di
legittimità alla nozione di miscelazione, vale a dire
quella
«mescolanza volontaria o involontaria, di due o più tipi di
rifiuti aventi codici identificativi diversi sì da dare
origine
ad una miscela per la quale non è previsto uno specifico
codice
identificativo». Alla stregua di ciò, è, quindi, del tutto
irrilevante
l’obiezione difensiva secondo cui non vi sarebbe stata
miscelazione vista la possibilità di identificare i diversi
rifiuti (Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.09.2013 n. 38331
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 3/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
SCARICHI CIVILI.
Art. 137, D.Lgs. n. 152/2006
Acque pubbliche -
Scarichi sul suolo provenienti da un’abitazione - Mancanza
di autorizzazione - Reato
Integra il reato di cui all’art. 137,
comma 11, D.Lgs. n. 152/2006 il fatto di scaricare
abusivamente su terreno acque grigie e liquami provenienti
da un fabbricato destinato ad abitazione.
Avverso la sentenza di condanna per il reato di cui all’art.
137,
comma 11, D.Lgs n. 152/2006, ascritto per avere scaricato
acque grigie e liquami provenienti da un fabbricato abusivo
nel giardino di pertinenza dello stesso, l’imputato
proponeva
ricorso sostenendo che nella sentenza impugnata
l’accertamento
circa la provenienza dello scarico era stato fondato sulle
affermazioni della parte offesa (che aveva dichiarato che
dall’area
circostante l’abitazione dell’imputato proveniva odore di
fogna nera) in contrasto, però, con le risultanze degli
accertamenti
effettuati dalla ASL, dai quali era emerso che gli scarichi
dei due bagni e della cucina confluivano in una tubazione
interrata il cui sbocco però non era stato possibile
accertare;
inoltre, il ricorrente aveva fatto notare che gli scarichi
della
cucina confluivano in un piccolo pozzetto antistante
l’abitazione
e che dal sopraluogo era emerso che non vi erano scarichi
nel giardino, né cattivi odori.
Il ricorso è stato respinto.
La Cassazione preliminarmente ha analizzato la fattispecie
di
cui all’art. 137, comma 11, per individuarne gli elementi
costitutivi
con riferimento alla condotta ascritta all’imputato.
L’art. 74, comma 1, lett. ff), come modificato dall’art. 2,
comma
5, D.Lgs. n. 4/2008, definisce «scarico» «qualsiasi
immissione
effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di
collettamento, che collega senza soluzione di continuità il
ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque
superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria,
indipendentemente
dalla loro natura inquinante anche se sottoposte
a preventivo trattamento di depurazione.»
Nella originaria formulazione della norma non era richiesta
l’esistenza di un sistema stabile di collettamento: tale
modifica
si era resa necessaria al fine di operare una netta
distinzione tra
le fattispecie in materia di scarichi di acque e le ipotesi
di
smaltimento di rifiuti liquidi.
Per quanto interessa nel caso in esame, l’art. 74, comma 1,
lett. g), definisce «acque reflue domestiche» le «acque
reflue
provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da
servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e
da attività
domestiche».
L’art. 103, comma 1, vieta lo scarico sul suolo o negli
strati
superficiali del sottosuolo, fatta eccezione: "a) per i casi
previsti
dall’art. 100, comma 3;.... c) per gli scarichi di acque
reflue
urbane ed industriali per i quali sia accertata
l’impossibilità
tecnica o l’eccessiva onerosità a fronte dei benefici
ambientali
conseguibili, a recapitare in corpi idrici superficiali, purché gli
stessi siano conformi ai criteri ed ai valori limite di
emissione
fissati a tal fine dalle regioni ai sensi dell’art. 101,
comma 2....».
L’art. 103, comma 2, stabilisce che «Al di fuori delle
ipotesi
previste dal comma 1, gli scarichi sul suolo esistenti
devono
essere convogliati in corpi idrici superficiali, in reti
fognarie
ovvero destinati al riutilizzo in conformità delle
prescrizioni
fissate con il decreto di cui all’art. 99 comma 1....».
L’art. 100, comma 3, stabilisce «Per insediamenti,
installazioni
o edifici isolati che producono acque reflue domestiche, le
regioni individuano sistemi individuali o altri sistemi
pubblici
o privati adeguati che raggiungano lo stesso livello di
protezione
ambientale, indicando i tempi di adeguamento degli
scarichi a detti sistemi.».
L’art. 137, comma 11, infine, configura come fattispecie
penale
l’inosservanza dei divieti di scarico previsti dagli art.
103
(scarichi sul suolo o negli strati superficiali del
sottosuolo) e
104 (scarichi nel sottosuolo e nelle acque sotterranee),
mentre
l’art. 133, comma 2, punisce con sanzione amministrativa
«Chiunque apra o comunque effettui scarichi di acque reflue
domestiche o di reti fognarie, servite, o meno da impianti
pubblici di depurazione, senza l’autorizzazione di cui
all’art.
124, oppure continui ad effettuare o mantenere detti
scarichi
dopo che l’autorizzazione sia stata sospesa o revocata....».
Da tale sistema normativo la Cassazione ha dedotto che la
fattispecie punita con sanzione amministrativa riguarda le
ipotesi
di immissione dello scarico di reflui domestici nella
pubblica
fognatura senza l’autorizzazione di cui all’art. 124 D.Lgs.
n. 152/2006 nonché, se si tratta di edifici isolati, lo
scarico
diretto nel suolo o nel sottosuolo senza autorizzazione, purché
lo scarico sia conforme ai sistemi individuali previsti
dalla
legislazione regionale. In ogni altro caso, l’immissione
diretta
sul suolo o nel sottosuolo di acque reflue domestiche
integra la
fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 137, comma 11.
Su questa base, la Corte ha osservato che, nella specie, non
si
era in presenza di uno scarico in pubblica fognatura senza
la
prescritta autorizzazione, né di uno scarico conforme alle
prescrizioni
dettate dalla regione in materia e quindi correttamente
era stata contestata la fattispecie penale.
In linea di fatto, la Corte ha preso atto che il giudice del
merito aveva motivato la condanna basandosi
sull’accertamento
dell’inesistenza di qualsiasi collegamento degli scarichi
delle acque reflue provenienti dall’immobile abusivo
realizzato
dall’imputato con la rete fognaria; sull’esistenza di una
tubazione
interrata senza sbocco; sulla fuoriuscita di liquami da un
pozzetto a cielo aperto accertata nel corso di un’ispezione;
sulle
dichiarazioni della persona offesa, ritenuta pienamente
attendibile,
in ordine alle esalazioni maleodoranti provenienti dal
giardino dell’imputato (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.09.2013 n. 38040
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 4/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI DA DEMOLIZIONE EDILE.
Rifiuti - Residui da demolizione edile - Gestione dei
rifiuti - Responsabilità esclusiva dell’appaltatore.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Risponde del reato di abusiva gestione
di rifiuti l’appaltatore di lavori edili, in quanto grava su
di lui l’obbligo di garanzia in relazione all’interesse
tutelato ed al corretto espletamento delle operazioni di
raccolta e smaltimento dei rifiuti connessi all’attività
edificatoria.
Sono invece esenti da responsabilità il
committente di lavori edili e il direttore dei lavori. C.,
C. e M. sono stati condannati per avere, in concorso tra
loro, il primo quale committente di lavori edili per la
realizzazione di un fabbricato, il secondo quale titolare
della ditta esecutrice dei lavori e il terzo quale direttore
dei lavori, abbandonato o depositato in modo incontrollato
sul suolo rifiuti speciali non pericolosi derivanti da opere
di demolizione e costruzione edile.
La Corte suprema ha accolto il ricorso in relazione alla
posizione
del committente, C., e del direttore dei lavori, M., dei
quali era stata affermata la responsabilità soltanto in
considerazione
delle rispettive qualità, senza quindi alcun coinvolgimento
diretto dei predetti e quindi senza un loro contributo
nelle operazioni di illecita gestione dei rifiuti derivanti
dal
cantiere.
Al riguardo, la Corte ha ricordato che, più volte, è stato
sostenuto che la qualità di committente e di direttore dei
lavori non determinano alcun obbligo di legge di intervenire
nella gestione dei rifiuti prodotti dalla ditta appaltatrice
o
subappaltatrice.
Diversa, invece, era la posizione del titolare della ditta
esecutrice
dei lavori. Costui, infatti, in relazione ai lavori
effettuati
sul cantiere, assumeva indiscutibilmente una posizione di
garanzia,
per cui aveva l’onere di accertare che il materiale
derivante
dalla demolizione venisse correttamente smaltito secondo
la normativa vigente. Ne´ poteva andare esente da responsabilità
per il solo fatto della sua assenza dal cantiere al
momento in cui altro soggetto (giudicato separatamente)
aveva
assunto l’iniziativa di trasportare il materiale sulla sua
proprietà.
Per escludere ogni responsabilità, l’imputato doveva,
infatti, provare di aver fatto quanto era possibile per
osservare
la legge in modo che nessun rimprovero potesse essergli
mosso,
neppure per negligenza o imprudenza. In quest’ottica,
l’imputato
avrebbe dovuto costantemente vigilare sulle operazioni di
demolizione e assicurarsi che il materiale di risulta
venisse
smaltito correttamente e, in sua assenza, avrebbe dovuto
delegare
altro soggetto (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2013 n. 37547
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 3/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
INERTI PROVENIENTI DA DEMOLIZIONE DI EDIFICI.
Rifiuti - Residui inerti da demolizione edile - Rifiuti
speciali - Smaltimento - Responsabilità dell’appaltatore -
Fattispecie
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Gli inerti provenienti da demolizioni di
edifici sono rifiuti speciali, trattandosi di materiale
espressamente qualificato come tale dal D.Lgs. n. 152/2006,
del quale il detentore ha l’obbligo di disfarsi avviandolo o
al recupero o allo smaltimento (nella specie, è stato
condannato l’appaltatore dei lavori edili che si era
impegnato a trasportare i materiali di risulta in discariche
autorizzate sicché, quale titolare di una posizione di
garanzia, aveva l’onere di accertare che il rifiuto venisse
correttamente smaltito; di conseguenza, la sua
responsabilità non poteva escludersi per il solo fatto di
aver incaricato altro soggetto del trasporto del materiale).
Nella sentenza che si riporta, la Corte suprema ha ribadito
due
principi ormai indiscussi in tema di materiali da
demolizione e
di responsabilità connesse al loro smaltimento.
Al termine del giudizio di merito, il Tribunale aveva
condannato
un autotrasportatore, il legale rappresentante della ditta
appaltatrice di un cantiere e l’esecutore materiale
dell’operazione
sostenendo che il materiale trasportato e scaricato non
provenisse solo dallo scavo delle fondazioni, ma anche dalla
demolizione, per cui non era assoggettato allo speciale
regime
delle terre e rocce da scavo. Inoltre, secondo il Tribunale
non
ricorrevano neppure le condizioni per qualificare il
materiale
in questione come sottoprodotto non essendo stato
riutilizzato
nello stesso cantiere.
La Cassazione ha confermato la sentenza osservando che il
Tribunale aveva accertato, sulla base del contratto di
appalto,
delle dichiarazioni degli imputati Paglialunga e Monteforte
e,
soprattutto, dei rilievi fotografici, che nel materiale
gestito vi
era «la presenza, insieme a terra, di mattoni e altro
materiale
risultante dalle demolizioni» per cui costituiva
indiscutibilmente
rifiuto non pericoloso.
A questa stregua, è stato ribadito l’orientamento
giurisprudenziale
per il quale il materiale derivante da demolizione
costituisce
rifiuto: infatti, l’art. 7, comma 3, lett. b), D.Lgs. n. 22/
1997 considerava speciali «i rifiuti derivanti dalle attività di
demolizione, costruzione, nonché i rifiuti pericolosi che
derivano
dalle attività di scavo» e la disposizione è stata
riprodotta
negli stessi termini nell’art. 184, comma 3, lett. b),
D.Lgs. n.
152/2006 che ha aggiunto espressamente l’inciso «fermo
restando
quanto disposto dall’art. 186» (vale a dire le terre e
rocce da scavo, anche di gallerie, ed i residui della
lavorazione
della pietra destinate all’effettivo utilizzo) non
costituiscono
rifiuti...».
Pertanto gli inerti provenienti da demolizioni di edifici
(come
nel caso di specie) erano e continuano ad essere considerati
rifiuti speciali anche in base al decreto n. 152 trattandosi
di
materiale espressamente qualificato come rifiuto dalla
legge,
del quale il detentore ha l’obbligo di disfarsi avviandolo o
al
recupero o allo smaltimento.
La sentenza ha infine confermato che non potesse trovare
applicazione l’art. 186, D.Lgs. n. 152/2006 e tanto meno la
normativa regionale di attuazione perché non ricorreva la
condizione del riutilizzo nello stesso cantiere degli
inerti.
E'
stata infine esaminata la posizione di uno dei ricorrenti
(l’appaltatore di lavori edili) che sosteneva di non avere
alcuna
responsabilità in ordine al fatto ascritto: al riguardo, la
Corte ha osservato che, in forza del contratto di appalto,
quel
soggetto si era impegnato non solo a costruire il nuovo
edificio,
ma anche a demolire il vecchio rudere «con trasporto dei
materiali di risulta in discariche autorizzate».
Perciò, in relazione a dette operazioni, assumeva
indiscutibilmente
(come ribadito più volte dalla giurisprudenza di legittimità)
una posizione di garanzia e di conseguenza aveva l’onere
di accertare che il materiale derivante dalla demolizione
venisse correttamente smaltito secondo la normativa vigente,
non potendosi certamente esonerare da responsabilità per il
solo fatto di aver incaricato altro soggetto del trasporto
dei
rifiuti (Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2013 n. 37541
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 4/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI:
RUOLO DEL SINDACO.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 107, D.Lgs. n. 267/2000
Rifiuti - Gestione di un’area di stoccaggio - Ruolo del
Sindaco - Responsabilità - Condizioni.
Sebbene l’art. 107 Testo unico delle
leggi sull’ordinamento degli enti locali (D.Lgs. n.
267/2000) distingua tra i poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo, demandati agli organi di governo
degli enti locali e compiti di gestione amministrativa,
finanziaria e tecnica, attribuiti ai dirigenti, cui sono
conferiti autonomi poteri di organizzazione delle risorse,
strumentali e di controllo, è evidente che il sindaco, una
volta esercitati i poteri attribuitigli dalla legge, non può semplicemente disinteressarsi degli esiti di tale sua
attività, essendo necessario, da parte sua, anche il
successivo controllo sulla concreta attuazione delle scelte
programmatiche effettuate; egli ha, inoltre, il dovere di
attivarsi quando gli siano note situazioni, non derivanti da
contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative,
che pongano in pericolo la salute delle persone o l’integrità
dell’ambiente.
Con la sentenza che si
riporta, si chiude una vicenda in cui il
sindaco di San Lorenzo Maggiore, tratto a giudizio per una
serie di violazioni alla normativa ambientale, unitamente ad
altri soggetti, tra cui il responsabile dell’ufficio tecnico
comunale, è stato riconosciuto colpevole dei reati contestati.
La vicenda, come risulta dalla sentenza di merito, trae
origine
dalla situazione di emergenza per la gestione dei rifiuti
che
aveva interessato la Campania fin dal 2007 e che aveva
costretto
anche il ricorrente ad emanare, in data 02.01.2007,
un’ordinanza contingibile ed urgente con la quale si
autorizzava
lo stoccaggio provvisorio di rifiuti in un’area individuata
come
isola ecologica per un periodo di sei mesi, spirato il quale
il
conferimento dei rifiuti proseguiva, ma senza alcuna
precauzione,
come accertato da personale del Corpo Forestale dello Stato
che, a seguito di controllo, aveva verificato la presenza di
rifiuti
abbandonati alla rinfusa, l’assenza di idonea recinzione del
sito e
lo scarico diretto del percolato mediante condotta, previa
raccolta
in una vasca non a tenuta, direttamente in un torrente.
Con il ricorso per cassazione il sindaco deduceva che il
Tribunale
non avrebbe tenuto conto di quanto disposto dall’art.
107, D.Lgs. n. 267/2000 e, segnatamente, della ripartizione
delle funzioni tra dirigenti amministrativi e sindaco, che
libera
quest’ultimo dalle responsabilità conseguenti
all’inosservanza
di prescrizioni contenute nelle autorizzazioni o alle
soluzioni
operative adottate nel servizio di raccolta, dovendo
rispondere,
invece, soltanto per le scelte programmatiche e quelle
derivanti da situazioni contingibili ed urgenti.
Secondo il ricorrente mancavano specifici riferimenti a
condotte
commissive o omissive a lui addebitabili: infatti, una
volta emessa l’ordinanza con la quale era stata disposta la
«apertura della discarica», non aveva alcun motivo ulteriore
per occuparsi della vicenda, di esclusiva competenza del
funzionario
designato.
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso.
Il ricorrente non contestava la sussistenza dei fatti
addebitatigli,
ma sosteneva che andavano imputati esclusivamente ad
un funzionario amministrativo, che era stato invece assolto.
Viene a tale proposito invocato l’art. 107, D.Lgs. n.
267/2000
il quale stabilisce, al comma 1, che ai dirigenti degli enti
locali
spetta la direzione degli uffici e dei servizi secondo i
criteri e le
norme dettati dagli statuti e dai regolamenti, che devono
uniformarsi
al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo spettano agli organi di governo,
mentre
la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è
attribuita
ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di
organizzazione
delle risorse umane, strumentali e di controllo.
La Cassazione ha rilevato che, nella fattispecie in esame,
il
giudice del merito aveva accertato in fatto che il
ricorrente si
era attivato, in un primo tempo, per sopperire alla
situazione
di emergenza nello smaltimento dei rifiuti, mediante
l’esercizio
del potere di ordinanza, operando, quindi, in sintonia con
quanto disposto dall’art. 191, D.Lgs. n. 152/2006.
Successivamente alla individuazione di un’area destinata al
provvisorio stoccaggio dei rifiuti, dopo lo spirare del
termine
di efficacia dell’ordinanza il ricorrente si era però
completamente
disinteressato della questione ed, anzi, aveva di fatto
consentito
successivi conferimenti nel sito in precedenza individuato
senza alcuna cautela e ciò nonostante la competente Agenzia
Regionale per la protezione dell’ambiente, a seguito di un
controllo,
avesse prescritto alcuni interventi per una corretta
conduzione
dell’isola ecologica al fine di evitare anche pericoli di
incendio e la presenza di insetti o agenti patogeni.
Dunque, pur avendo la possibilità di reiterare l’ordinanza
entro i
limiti temporali stabiliti dall’art. 191, esercitando quindi
un potere
a lui riservato dalla legge, il sindaco è rimasto inerte e
non ha
comunque svolto alcuna attività di controllo o di mera
sollecitazione
dei settori tecnico-amministrativi dell’amministrazione
per
rimediare alla situazione segnalata dal personale dell’ARPAC.
Inoltre, il giudice del merito, esaminando la posizione dei
coimputati assolti, ha accennato ad una diretta ingerenza
del
sindaco nell’attività di gestione dei rifiuti, affermando
che il
responsabile dell’ufficio tecnico comunale si era limitato
ad
esprimere il proprio parere favorevole all’emissione
dell’ordinanza
contingibile ed urgente senza essere più coinvolto.
Ciò posto, la Corte suprema ha notato che il ricorso non
offriva alcun concreto sostegno alle censure formulate,
proponendo
invece una personale lettura delle risultanze processuali
e limitandosi a richiamare il contenuto dell’art. 107 D.Lgs.
n.
267/2000, senza però alcuno specifico riferimento alle
modalità
di concreto esercizio dei poteri di programmazione generale
spettanti al sindaco, alla ripartizione delle competenze
all’interno dell’amministrazione, alla sua organizzazione,
all’eventuale
delega di funzioni a specifici soggetti interni
all’amministrazione
medesima né, tanto meno, ad eventuali rimedi
adottati a fronte di una conclamata situazione antigiuridica
a
lui ben nota perché segnalata dall’ARPAC.
Orbene, la Cassazione, dopo aver ricordato la giurisprudenza
di
legittimità che, con specifico riferimento alla materia dei
rifiuti,
ha applicato la citata disposizione, ha affermato il
principio secondo
il quale, sebbene l’art. 107, D.Lgs. n. 267/2000 distingua
tra i poteri di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo,
demandati agli organi di governo degli enti locali e compiti
di
gestione amministrativa, finanziaria e tecnica, attribuiti
ai dirigenti,
cui sono conferiti autonomi poteri di organizzazione delle
risorse, strumentali e di controllo, il sindaco, una volta
esercitati i
poteri attribuitigli dalla legge, non può semplicemente
disinteressarsi
degli esiti di tale sua attività, essendo necessario, da
parte
sua, anche il successivo controllo sulla concreta attuazione
delle
scelte programmatiche effettuate.
Egli ha, inoltre, il
dovere di
attivarsi quando gli siano note situazioni, non derivanti da
contingenti
ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano
in pericolo la salute delle persone o l’integrità
dell’ambiente (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.09.2013 n. 37544
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 2/2014). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ABBANDONO DI RIFIUTI.
Rifiuti - Abbandono di rifiuti - Rilevanza penale - Qualità
dell’autore
del fatto
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
L’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006 prevede
due distinte ipotesi di reato: nel primo comma, non è
sufficiente il mero abbandono o deposito incontrollato di
rifiuti, che può essere anche occasionale, occorrendo
invece un’attività, necessariamente organizzata, di
raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio o
intermediazione di rifiuti; nel secondo comma, è invece
sufficiente l’abbandono o il deposito in modo incontrollato
di rifiuti.
Quest’ultima condotta implica che l’autore del
fatto sia titolare di un’impresa, mentre la condotta del
primo comma può essere posta in essere da chiunque.
La sentenza che si riporta affronta un caso alquanto
ricorrente
e cioè lo smaltimento illecito di rifiuti (pneumatici di
varie
forme e misure) mediante l’abbandono su terreno.
Il Tribunale aveva così ricostruito la vicenda: due giovani
avevano notato un camion che si dirigeva nei pressi di una
masseria abbandonata; i due giovani seguivano il camion,
insospettiti
della presenza del mezzo in ore notturne in quell’area,
e successivamente notavano che tre persone stavano
scaricando
dal cassone numerosi pneumatici usati nel cortile
esterno di una masseria; i due giovani erano riusciti a
prendere
il numero di targa del camion e a trasmetterlo alle forze
dell’ordine
che, successivamente, avevano accertato che l’autocarro,
dal quale erano stati scaricati i rifiuti, era intestato
all’imputato.
La Corte ha esaminato il ricorso del prevenuto ritenendolo
fondato.
I Giudici hanno premesso che l’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
prevede al primo ed al secondo comma due distinte ipotesi di
reato in relazione al fatto che le condotte incriminate sono
ben distinte: nel primo caso non e` sufficiente, ai fini
della
rilevanza penale, il mero abbandono o deposito incontrollato
di rifiuti, che può essere anche occasionale, occorrendo
invece
una attività, necessariamente organizzata, di raccolta,
trasporto,
recupero, smaltimento, commercio o intermediazione di
rifiuti; altrimenti si versa in un’ipotesi di illecito
amministrativo.
Nel secondo caso è sufficiente l’abbandono o il deposito
in modo incontrollato di rifiuti: quest’ultima condotta
implica
però un’attività di impresa, mentre la condotta del primo
comma può essere posta in essere da chiunque.
Nella specie, il reato contestato era quello di cui al primo
comma dell’art. 256 e quindi occorreva la prova di un’attività
(non autorizzata) di raccolta, trasporto, recupero,
smaltimento,
commercio ed intermediazione di rifiuti.
La Corte ha notato che il tribunale aveva invece operato una
commistione tra la fattispecie del primo comma e quella del
secondo comma: aveva, infatti, considerato che l’imputato
svolgeva l’attività di imbianchino, attività di tipo
imprenditoriale;
qualità questa che consentiva di ritenere penalmente
rilevante la condotta di abbandono di rifiuti. Questa
condotta
però è prevista dalla fattispecie del secondo comma
dell’art.
256, che non era stata contestata all’imputato, sicché il
tribunale,
invece di motivare in ordine alla sussistenza di un’attività
non occasionale di trasporto di rifiuti non pericolosi,
aveva ritenuto rilevante, al fine della prova dell’elemento
materiale del reato di cui al primo comma dell’art. 256, la
qualità di piccolo imprenditore artigiano in capo
all’imputato.
Ma tale circostanza, ha concluso la Corte suprema, non è
rilevante ai fini del primo comma dell’art. 256 (ossia del
reato
per il quale l’imputato era stato condannato), ma ai fini
del
secondo comma della stessa disposizione (ossia di un reato
non
contestato all’imputato).
Una brevissima osservazione per segnalare che pare di
cogliere
una certa contraddizione nel ragionamento della Corte di
Cassazione: infatti, da un lato si sostiene che il reato del
primo
comma l’art. 256 richieda «un’attività, necessariamente
organizzata,
di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio
o intermediazione di rifiuti», tanto che si è esclusa la
rilevanza di un abbandono occasionale, il che farebbe
pensare,
sul piano logico, che la condotta incriminata sia tipica di
chi
svolga un’attività con carattere imprenditoriale o comunque
continuativo, ma dall’altro lato si afferma che l’illecito
del
primo comma possa essere commesso da «chiunque» e quindi
anche da chi non rivesta la qualità di titolare di impresa
che,
anche se non indicata espressamente nella norma, è da
ritenersi
che sia dalla stessa presupposta in via implicita (Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.09.2013 n. 37357
- tratto da Ambiente & Sviluppo n. 4/2014). |
SICUREZZA LAVORO: Gli obblighi
del proprietario
d’immobile committente.
Nel corso di lavori edili appaltati a un’impresa
dai proprietari di un immobile, un dipendente
dell’impresa esecutrice precipitò al suolo a causa
della mancata protezione dei lati prospicienti
il vuoto delle rampe di scala e dei pianerottoli.
Per omicidio colposo furono condannati anche i
committenti, con l’addebito di «non aver provveduto
alla verifica della corretta applicazione
dei piani di sicurezza, consentendo che venisse
utilizzato un ponteggio non a norma perché privo
di tavola fermapiede e di idoneo parapetto e
con correnti intermedi non stabilmente fissati,
di non aver accertato la mancanza di un piano
di sicurezza adottato da un coordinatore nominato
dai due proprietari e committenti dell’opera,
di aver affidato i lavori in economia senza
avere preventivamente verificato la idoneità
della ditta nell’adempimento delle più elementari
norme di prevenzione e senza nominare
un direttore dei lavori e, dunque, assumendosi
interamente il maggior rischio di una così fatta
organizzazione.»
Nell’annullare con rinvio la sentenza di condanna,
la Sez. IV premette un’ampia analisi degli
sviluppi normativi in ordine alla figura del
committente dai D.P.R. degli anni Cinquanta
del secolo scorso ai D.Lgs. nn. 626/1994 e
494/1996 e infine al D.Lgs. n. 81/2008.
Rileva che, «a seguito del sintetizzato mutamento
normativo, nella giurisprudenza di legittimità la
responsabilità del committente è stata
derivata dalla violazione di alcuni obblighi specifici,
quali l’informazione sui rischi dell’ambiente
di lavoro e la cooperazione nell’apprestamento
delle misure di protezione e prevenzione,
ritenendosi che resti ferma la responsabilità
dell’appaltatore
per l’inosservanza degli obblighi
prevenzionali su di lui gravanti.»
«Ribadito il dovere di sicurezza, con riguardo
ai lavori svolti in esecuzione di un contratto
di appalto o di prestazione d’opera, tanto in capo
al datore di lavoro (di regola l’appaltatore,
destinatario delle disposizioni antinfortunistiche)
che del committente», richiama «la necessità
che tale principio non conosca un’applicazione
automatica, non potendo esigersi dal
committente un controllo pressante, continuo
e capillare sull’organizzazione e sull’andamento
dei lavori», e ne ricava che, «ai fini della configurazione
della responsabilità del committente,
occorre verificare in concreto quale sia stata
l’incidenza della sua condotta nell’eziologia
dell’evento, a fronte delle capacità organizzative
della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori,
avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire,
ai criteri seguiti dallo stesso committente
per la scelta dell’appaltatore o del prestatore
d’opera, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei
lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione
d’opera, nonché alla agevole ed immediata percepibilità da parte del committente di
situazioni di pericolo.»
Sottolinea che, «tra gli obblighi incombenti sul
committente vi è anche l’obbligo di cooperazione,
discendente dall’art. 7 D.Lgs. n. 626/1994
(e oggi dall’art. 26 D.Lgs. n. 81/2008), che si
concreta anche nella comunicazione al coordinatore
per la progettazione e al coordinatore
per l’esecuzione, seconde le evenienze, dei nominativi
delle imprese alle quali si appaltano i
lavori, onde permettere a questi di adempiere
ai compiti loro assegnati dalla legge (artt. 4 e
5 D.Lgs. n. 494/1996; 91 e 92 D.Lgs. n. 81/2008)», e che, peraltro, l’art. 6, comma 2,
D.Lgs. n. 494/1996 [e ora l’art. 93, comma 2,
D.Lgs. n. 81/2008] costituisce chiaramente il
committente quale garante dell’effettività dell’opera
di coordinamento posta in capo ai coordinatori
per la progettazione e per la esecuzione.» (Dello stesso estensore v. anche, in motivazione,
la sentenza Giorgi sopra annotata).
Ciò premesso, con riguardo al caso di specie, la
Sez. IV afferma che:
– «non sussiste alcun obbligo di nominare il
coordinatore dei lavori se non si danno le condizioni
previste dall’art. 3 D.Lgs. n. 494/1996
[e ora art. 90, commi 3 e 4, D.Lgs. n. 81/2008]»;
– «neppure esiste un obbligo di nominare il direttore
dei lavori per l’ipotesi che il committente
voglia sottrarsi agli obblighi che gli pone in
capo la legge», in quanto «in realtà è previsto
e possibile (e non è un obbligo) che il committente
nomini un ‘‘responsabile dei lavori’’, soggetto
che ove munito di reali poteri e autonomia
gestionale e` effettivamente in grado di schermare
da eventuali responsabilità il committente
(che si sia strettamente attenuto a tale ruolo)»,
là dove «il direttore dei lavori, per contro, è figura
sconosciuta alla disciplina prevenzionistica» e «trova collocazione nella materia delle
costruzioni, quale soggetto preposto nell’interesse
del committente al controllo della corretta
esecuzione dei lavori da parte della impresa
esecutrice», sicché «per una sua rilevanza sul
piano prevenzionistico occorrerà esaminare in
concreto se esso ha assunto poteri che lo qualificano
come dirigente o mansioni che lo riconducono
alla figura del preposto»;
– «se non ricorrono le condizioni per la nomina
del coordinatore, neppure può imputarsi al
committente di non aver, tramite questi, adottato
un piano di sicurezza, che altro non può essere
che il già menzionato piano di coordinamento»;
– «parimenti errata è l’affermazione di una colpa
derivante dalla mancata nomina del coordinatore
per la progettazione, posto che non si
da` conto dell’affidamento dei lavori a più imprese»;
– «sotto altro profilo, posto l’obbligo di prevedere
la durata dei lavori e le fasi del lavoro, non
si è esplicato quale rilevanza causale abbia avuto
tale inadempimento rispetto all’evento verificatosi»;
– «quanto all’omesso rispetto dei principi e
delle misure generali di tutela di cui all’art. 3
D.Lgs. n. 626/1994 [e ora art. 15 D.Lgs. n.
81/2008] nella fase di progettazione dell’opera,
la norma persegue l’obiettivo di far adottare
scelte progettuali più sicure, e non può confondersi
con l’adozione di misure ‘‘speciali’’, quali
la dotazione dei ponteggi di tavole fermapiede e
di parapetti».
Per contro, la Sez. IV non sembra trattare il profilo
attinente all’addebito «di aver affidato i lavori
in economia senza avere preventivamente
verificato la idoneità della ditta nell’adempimento
delle più elementari norme di prevenzione
e senza nominare un direttore dei lavori» (v.
artt. 26, comma 1, lett. a), e comma 9, D.Lgs. n. 81/2008)
(circa le responsabilità del committente v. Guariniello,
Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato
con la giurisprudenza. Integrato con i
commenti al Codice penale (artt. 434, 437,
449, 575, 582, 589, 590), V edizione, Milano,
2013, 276 ss., 522 ss. e 582 ss., cui adde Cass.
16.05.2013, Catale e altri, in ISL, 2013, 8-
9, 456; Cass. 06.05.2013, Politi e altro, in
Dir. prat. lav., 2013, 22, 1457; Cass. 24.04.2013, Borrelli e altri, in ISL, 2013, 8-9, 456.
Quanto alla posizione di garanzia del direttore
dei lavori cfr. Guariniello, op. cit., 581 ss.) (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 05.09.2013 n. 36398
- tratto da Igiene
& Sicurezza del Lavoro n. 10/2013). |
SICUREZZA LAVORO: La posizione del RLS.
Condannato per l’infortunio occorso a un dipendente
precipitato al suolo per la rottura di
una tettoia in eternit, un datore di lavoro lamenta,
in particolare, che il dipendente era «esperto
in prevenzione degli infortuni nella sua qualità
di rappresentante della sicurezza dei lavoratori»
e «avrebbe dovuto rifiutare il lavoro e pretendere
le opere provvisionali ritenute necessarie.»
Nel respingere la doglianza dell’imputato, la
Sez. IV nega che possa essere «invocata la responsabilità
del dipendente in fase di predisposizione
dei sistemi di sicurezza, per la sua supposta
qualifica di rappresentante dei lavoratori
per la sicurezza», anche perché l’infortunato
era stato nominato rappresentante dei laboratori
per la sicurezza per un periodo di tre anni, per
cui all’epoca dell’infortunio egli sicuramente
non lo era più (da notare che in motivazione
la presente sentenza richiama gli insegnamenti
della Suprema Corte in ordine alla posizione
di garanzia del RSPP).
(Per alcuni precedenti in tema di RLS v. Guariniello,
Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato
con la giurisprudenza. Integrato con i commenti
al Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575,
582, 589, 590), V edizione, Milano, 2013,
439 ss.) (Corte di
Cassazione, Sez. fer. penale, sentenza 22.08.2013 n.
35424 - tratto
da Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 10/2013). |
SICUREZZA LAVORO:
Il campo di applicazione delle norme sui cantieri.
Per comprendere l’estensione del campo di
applicabilità del Capo I Titolo IV del D.Lgs.
n. 81/2008, è basilare il concetto di cantiere
temporaneo o mobile di cui all’art. 89, comma
1, lett. a), D.Lgs. n. 81/2008 («qualunque luogo
in cui si effettuano lavori edili o di ingegneria
civile il cui elenco è riportato nell’Allegato
X»).
Di particolare rilievo sul punto, scanso di equivoci
favoriti da passate circolari del Ministero
del Lavoro contrastanti con il dato normativo,
fu Cass. 09.02.2010, Soldi, in Guariniello,
Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la
giurisprudenza. Integrato con i commenti al
Codice penale (artt. 434, 437, 449, 575, 582,
589, 590), V edizione, Milano, 2013, 513 ss.,
ove correttamente si sottolineò l’applicabilità
della normativa sui cantieri temporanei o mobili
a uno qualsiasi dei lavori indicati nell’ampio elenco
dettato dall’Allegato X del D.Lgs. n.
81/2008 [Allegato I del D.Lgs. n. 494/1996].
In effetti, l’Allegato X include nel campo di applicazione
del Titolo IV Capo I «i lavori di costruzione,
manutenzione, riparazione, demolizione,
conservazione, risanamento, ristrutturazione
o equipaggiamento, la trasformazione, il
rinnovamento o lo smantellamento di opere fisse,
permanenti o temporanee, in muratura, in
cemento armato, in metallo, in legno o in altri
materiali, comprese le parti strutturali delle linee
elettriche e le parti strutturali degli impianti
elettrici, le opere stradali, ferroviarie, idrauliche,
marittime, idroelettriche e, solo per la parte
che comporta lavori edili o di ingegneria civile,
le opere di bonifica, di sistemazione forestale e
di sterro», nonché «gli scavi, ed il montaggio e
lo smontaggio di elementi prefabbricati utilizzati
per la realizzazione di lavori edili o di ingegneria
civile».
Nel caso ora considerato dalla presente sentenza,
la Sez. IV osserva che «la fattispecie in esame
risulta disciplinata dalle norme che concernono
la materia dei cantieri temporanei e mobili,
posto che è pacifico che i lavori appaltati dalla
committente avevano ad oggetto la sostituzione
con lastre in alluminio delle lastre di eternit
che costituivano il tetto dell’edificio entro il
quale la ditta committente svolgeva le proprie attività»
E precisa che «il contratto di appalto presentava
un oggetto riconducibile ai ‘‘lavori di costruzione,
manutenzione, riparazione, demolizione,
conservazione, risanamento, ristrutturazione o
equipaggiamento, la trasformazione, il rinnovamento
o lo smantellamento di opere fisse, permanenti
o temporanee, in muratura, in cemento
armato, in metallo, in legno o in altri materiali...’’
di cui all’elenco dei lavori edili previsto
dall’Allegato I al D.Lgs. n. 494/1996 (che trova
oggi corrispondenza nell’Allegato X al D.Lgs.
n. 81/2008), valevole a definire l’ambito di applicazione
delle norme poste dal menzionato
D.Lgs. per i cantieri temporanei o mobili» (Corte
di
Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 22.07.2013 n. 31304
- tratto da Igiene
& Sicurezza del Lavoro n. 10/2013). |
EDILIZIA
PRIVATA - URBANISTICA: La
figura del promissario acquirente di terreni interessati da
una richiesta di concessione edilizia non implica
l'esistenza di una posizione di interesse legittimo utile a
rendere ammissibile l'impugnazione di un provvedimento di
diniego della concessione stessa; invece, può radicare
comunque una posizione dipendente da quella del ricorrente
principale, "ad adiuvandum" del quale può dunque essere
legittimamente dispiegato intervento in giudizio, se ed in
quanto non miri ad eludere i termini di impugnazione da
parte di chi risulti titolare di una posizione tutelabile
con una propria autonoma impugnativa.
La giurisprudenza ha sostenuto che anche il promissario
acquirente può avanzare domanda volta all'adozione di uno
strumento urbanistico convenzionato, sempre che abbia
l'effettiva disponibilità del bene, a nulla rilevando che
detta disponibilità possa essere acquisita, nella sua
pienezza, solo dopo la stipula del rogito notarile di
trasferimento della proprietà, dovendo il concetto di
disponibilità essere inteso nel senso della sussistenza di
requisiti oggettivi tali da far ritenere che il
trasferimento di proprietà sia destinato a verificarsi con
sufficienti margini di certezza.
---------------
Anche in relazione alla possibilità di richiedere titoli
abilitativi, si sostiene che legittimato a richiedere la
concessione edilizia è o il titolare del diritto reale di
proprietà sul fondo o chi, pur essendo titolare di altro
diritto, reale o di obbligazione, abbia, per effetto di
questo, obbligo o facoltà di eseguire i lavori per cui
chiede la concessione.
Tale legittimazione, invece, non compete a colui il quale,
in base ad un contratto preliminare, abbia avuto la promessa
di futura vendita del terreno sul quale dovrebbe sorgere la
costruzione (nel senso che la voltura della concessione
edilizia non può essere chiesta dal promissario acquirente
cfr. Cass. 10.10.1997 n. 9850).
Nel vigore dell'art. 4, l. 28.01.1977 n. 10 (sostanzialmente
corrispondente all'art. 11, t.u. 06.06.2001 n. 380), la
concessione edilizia, potendo essere rilasciata "al
proprietario dell'area o a chi abbia titolo per
richiederla", poteva essere chiesta anche dal promissario
acquirente dell'immobile, purché avesse a ciò consentito il
proprietario.
Ne consegue che, anche con riferimento alla impugnazione
dell’auto-annullamento di un piano di lottizzazione,
legittimato ad impugnare non può ritenersi il promissario
acquirente tout court, in assenza tra l’altro della
disponibilità materiale del bene, che si potrebbe
configurare in caso di preliminare cosiddetto ad effetti
anticipati, con il quale quantomeno si anticipa l’effetto
della consegna del bene.
Il motivo è infondato.
La figura del promissario acquirente di terreni interessati
da una richiesta di concessione edilizia non implica
l'esistenza di una posizione di interesse legittimo utile a
rendere ammissibile l'impugnazione di un provvedimento di
diniego della concessione stessa; invece, può radicare
comunque una posizione dipendente da quella del ricorrente
principale, "ad adiuvandum" del quale può dunque
essere legittimamente dispiegato intervento in giudizio, se
ed in quanto non miri ad eludere i termini di impugnazione
da parte di chi risulti titolare di una posizione tutelabile
con una propria autonoma impugnativa (Consiglio Stato sez.
IV, 30.06.2005 n. 3594).
La giurisprudenza ha sostenuto che anche il promissario
acquirente può avanzare domanda volta all'adozione di uno
strumento urbanistico convenzionato, sempre che abbia
l'effettiva disponibilità del bene, a nulla rilevando che
detta disponibilità possa essere acquisita, nella sua
pienezza, solo dopo la stipula del rogito notarile di
trasferimento della proprietà, dovendo il concetto di
disponibilità essere inteso nel senso della sussistenza di
requisiti oggettivi tali da far ritenere che il
trasferimento di proprietà sia destinato a verificarsi con
sufficienti margini di certezza (così, per esempio,
Consiglio Stato sez. V, 24.08.2007, n. 4485).
Tale disponibilità giuridica e materiale nella specie non
sussiste, né è stata mai dedotta.
Anche in relazione alla possibilità di richiedere titoli
abilitativi, si sostiene che legittimato a richiedere la
concessione edilizia è o il titolare del diritto reale di
proprietà sul fondo o chi, pur essendo titolare di altro
diritto, reale o di obbligazione, abbia, per effetto di
questo, obbligo o facoltà di eseguire i lavori per cui
chiede la concessione.
Tale legittimazione, invece, non compete a colui il quale,
in base ad un contratto preliminare, abbia avuto la promessa
di futura vendita del terreno sul quale dovrebbe sorgere la
costruzione (nel senso che la voltura della concessione
edilizia non può essere chiesta dal promissario acquirente
cfr. Cass. 10.10.1997 n. 9850).
Nel vigore dell'art. 4, l. 28.01.1977 n. 10 (sostanzialmente
corrispondente all'art. 11, t.u. 06.06.2001 n. 380), la
concessione edilizia, potendo essere rilasciata "al
proprietario dell'area o a chi abbia titolo per richiederla",
poteva essere chiesta anche dal promissario acquirente
dell'immobile, purché avesse a ciò consentito il
proprietario (Consiglio Stato, sez. V, 24.08.2007, n. 4485).
Ne consegue che, anche con riferimento alla impugnazione
dell’auto-annullamento di un piano di lottizzazione,
legittimato ad impugnare non può ritenersi il promissario
acquirente tout court, in assenza tra l’altro della
disponibilità materiale del bene, che si potrebbe
configurare in caso di preliminare cosiddetto ad effetti
anticipati, con il quale quantomeno si anticipa l’effetto
della consegna del bene.
Non è condivisibile il motivo che poggia su una asserita
esistenza di giudicato, in assenza di identità di cause, che
riguardi sia l’oggetto (gli atti impugnati) che i soggetti
(le parti in giudizio); in effetti, l’atto impugnato è del
tutto diverso, come ammette la medesima parte appellante (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.04.2011 n. 2275 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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