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AGGIORNAMENTO AL 25.02.2014 |
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NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: avvio utilizzo piattaforma FERAU per la
presentazione e la gestione amministrativa e tecnica
dell’Autorizzazione Unica per impianti di produzione di
energia elettrica da fonti rinnovabili (Provincia di
Bergamo,
nota 19.02.2014 n. 17409 di prot.).
---------------
Dal 20 febbraio è online la modulistica FERAU.
Dal 20.02.2014 anche l'Autorizzazione Unica per
l'installazione di impianti a Fonti Energetiche Rinnovabili,
di competenza provinciale, è online.
Si conclude così, con la sezione FERAU, il processo di
informatizzazione di tutte le procedure per le
autorizzazioni all'installazione di impianti FER, avviato
l'anno scorso per le procedure di competenza comunale (FERCEL
e FERPAS).
Il servizio è attivato all'interno della piattaforma MUTA (www.muta.servizirl.it),
nella sezione dedicata alle FER.
Le domande presentate in cartaceo o in altra forma non
saranno più accettate.
Per informazioni è possibile contattare i tecnici di Regione
al seguente indirizzo e-mail:
rinnovabili@regione.lombardia.it (21.02.2014 -
link a www.regione.lombardia.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, art. 167,
comma 4 - Quesito (MIBAC Veneto,
circolare 18.02.2014 n. 12/2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 - Articoli
138, 141, 141-bis e 157, comma 2. - Procedimenti di
dichiarazione di notevole interesse pubblico privi di
formale provvedimento ministeriale (MIBACT Veneto,
circolare 18.02.2014 n. 11/2014). |
TRIBUTI:
Oggetto: regime tariffario per rifiuti assimilati che il
produttore dimostri di aver avviato al recupero
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare,
circolare 13.02.2014 n. 1/2014). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Chiarimenti sull'uso della modulistica di prevenzione
incendi in materia di resistenza al fuoco
(Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco,
del Soccorso Pubblico e la Sicurezza Tecnica,
lettera-circolare 11.02.2014 n. 1681
di prot.).
---------------
SCIA antincendio, chiarimenti dei Vigili
del Fuoco e tabella di sintesi con i modelli da usare.
Il Dipartimento dei Vigili del Fuoco ha diramato la Lettera
Circolare 1681 dell’11.02.2014 contenente indicazioni sulla
corretta procedura da seguire per la presentazione della
SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) ai fini
della sicurezza antincendio.
Nel documento vengono forniti i chiarimenti circa la nuova
modulistica da utilizzare per la certificazione della
resistenza al fuoco degli elementi costruttivi o dei
prodotti da costruzione.
In particolare, il modello CERT.REI, attestante la
prestazione di resistenza al fuoco di prodotti ed elementi
costruttivi, viene sostituito dal nuovo modello DICH.PROD
nei casi in cui è sufficiente la corretta posa in opera del
prodotto per garantirne la prestazione di resistenza al
fuoco.
E’ presente, infine, un’utile tabella riassuntiva che
riporta i modelli da usare in funzione delle diverse
tipologie di prodotto o elemento costruttivo (commento
tratto da www.acca.it). |
TRIBUTI:
Oggetto: Tasi – Nota operativa e schema regolamento (ANCI
Emilia Romagna,
nota 11.02.2014 n. 36 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Opere sotterranee e opere interrate realizzate
in corrispondenza di aree sottoposte a tutela ai sensi della
Pane Terza del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Risposta al quesito proposto dalla Soprintendenza per i beni
architettonici, paesaggistici, storici, artistici ed
etnoantropologici per le province di Firenze, Pistoia e
Prato (MIBAC, Segretariato Generale,
circolare 30.05.2013 n. 27). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Decreto legislativo n. 42 del 22.01.2004 recante
"Codice dei beni culturali e del paesaggio". Artt. 138, 141,
141-bis, 157, comma 2. Proposte di dichiarazione di notevole
interesse pubblico prive di formale provvedimento
ministeriale (MIBAC, Ufficio Legislativo,
nota 03.11.2009 n. 21909 di prot.). |
UTILITA' |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
FAQ in
materia di trasparenza (sull’applicazione del d.lgs. n.
33/2013) (link a www.anticorruzione.it). |
SICUREZZA LAVORO: Il
rischio chimico nei cantieri edili, "se lo conosci, lo
eviti!"
Il rischio chimico in edilizia è legato all’impiego di
materie prime (sostanze o preparati chimici) e alla
possibilità di esposizione di polveri inorganiche, durante
specifiche lavorazioni.
L’utilizzo di prodotti chimici risulta pericoloso sia per la
salute del lavoratore ma anche per la sicurezza in generale,
in quanto possono verificarsi incendi, esplosioni, ustioni
chimiche.
L’Inail ha pubblicato una
guida pratica dedicata al rischio chimico, utile per la
formazione dei lavoratori impiegati nei cantieri edili. La
guida, infatti, è realizzata tenendo conto delle nuove
esigenze di informazione e formazione dei lavoratori
introdotte dalle recenti normative (Regolamento CE n.
1272/2008 e l’Accordo Stato Regioni del 21/12/2011).
I temi affrontati vengono esposti facendo ricorso a numerose
illustrazioni, al fine di renderne maggiormente
comprensibili i contenuti, tenendo conto anche dell’ambiente
multietnico che contraddistingue il settore edile.
Gli argomenti trattati dalla guida sono i seguenti:
●
rischio chimico nel settore edile
●
nuova etichettatura dei prodotti e le schede di sicurezza
●
mansioni che espongono al rischio chimico in edilizia
●
cosa fare per evitare il rischio chimico
●
prodotti specifici
●
approfondimenti
(20.02.2014 - link a www.acca.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI
PUBBLICI: G.U.
21.02.2014 n. 43 "Testo
del decreto-legge 23.12.2013, n. 145, coordinato con la
legge di conversione 21.02.2014, n. 9, recante:
«Interventi urgenti di avvio del piano “Destinazione
Italia”, per il contenimento delle tariffe elettriche e del
gas, per l’internazionalizzazione, lo sviluppo e la
digitalizzazione delle imprese, nonché misure per la
realizzazione di opere pubbliche ed EXPO 2015»". |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 21.02.2014, "Primo
aggiornamento 2014 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 19.02.2014 n. 1306). |
ENTI LOCALI - VARI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 8 del 20.02.2014, "Impresa
Lombardia: per la libertà di impresa, il lavoro e la
competitività" (L.R.
19.02.2014 n. 11). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 19.02.2014, "Determinazioni
in ordine ai criteri di gestione obbligatoria e delle buone
condizioni agronomiche e ambientali ai sensi del reg. CE
73/2009 così come modificato dal reg. UE 1310/2013 -
Modifiche ed integrazioni alla d.g.r. 4196/2007" (deliberazione
G.R. 14.02.2014 n. 1366). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
URBANISTICA:
M. Grisanti,
Il processo lottizzatorio, la prescrizione del reato e il
recupero degli effetti mediante le varianti agli strumenti
urbanistici (nota a Consiglio di Stato, n. 616 depositata il
10/02/2014) (20.02.2014 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
M. Rinaldi,
Limiti all’utilizzo del cellulare aziendale: rassegna
giurisprudenziale (19.02.2014
- link a www.diritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
G. Fasano,
Legge di Stabilità per il 2014: meno privilegi ai dipendenti
pubblici (19.02.2014
- link a www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
La disciplina dell'immobile scolpita dal titolo abilitativo
edilizio. Analisi degli effetti della c.d. super-DIA.
Repetita iuvant (commento a TAR Liguria, n. 1581/2013) (18.02.2014
-
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
A. Giardetti,
Principali interventi normativi in materia di centrali di
committenza (17.02.2014 - link a www.diritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
P. Pupo,
Gli accordi organizzativi fra pubbliche amministrazioni, tra
applicazione dei principi codicistici e configurabilità di
un potere (amministrativo) di recesso unilaterale (17.02.2014
- link a www.diritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - SEGRETARI COMUNALI:
P. Russo,
Il conflitto d’interessi nella funzione di responsabile
della prevenzione della corruzione e della direzione dei
controlli interni negli enti locali (14.02.2014
- link a www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Greco,
La controversa ammissibilità a sanatoria edilizia degli
immobili abusivi in aree vincolate in territorio siciliano (05.02.2014
- link a www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Guerra,
Abuso edilizio e reintegrazione in forma specifica per il
danneggiato (nota a sent. Cass. Pen. n. 37224/2013) (05.02.2014
- link a www.diritto.it). |
APPALTI:
D. Benedet,
Da Palazzo Spada ancora incertezza sulla legittimità della
partecipazione alle gare pubbliche in attesa di concordato
preventivo con continuità aziendale (05.02.2014
- link a www.diritto.it). |
APPALTI:
A. Mancini,
Riepilogo delle soglie di rilevanza comunitaria degli
appalti pubblici nei settori ordinari e speciali (Bollettino
di Legislazione Tecnica n. 1/2014). |
INCARICHI PROGETTUALI:
A. Mancini,
Determinazione degli importi a base d’asta nell’affidamento
dei servizi tecnici: il D.M. 143/2013 (Bollettino di
Legislazione Tecnica n. 1/2014). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Dimissioni assessore comunale.
Domanda
Le dimissioni da assessore comunale sono immediatamente
efficaci ed irrevocabili?
Risposta
Si richiede se le dimissioni presentate da un assessore
comunale siano immediatamente efficaci ed irrevocabili.
INQUADRAMENTO NORMATIVO
Preliminarmente si osserva che la fattispecie delle
dimissioni di un assessore, a differenza di quella dei
consiglieri, non viene direttamente disciplinata dalla legge
ed è pertanto rimessa all'autonomia statutaria degli enti
locali. Il singolo Statuto comunale infatti può disciplinare
in modo specifico tale particolare circostanza, non prevista
dal T.U.E.L., anche al fine di evitare possibili contrasti
come quello in esame. A fronte dell'assenza di una normativa
anche sul piano statutario sembra necessario, onde poter
dare una risposta concreta al quesito dato, prendere in
considerazione tutti gli elementi posti alla base delle
dimissioni stesse che, per vero, non sono stati palesati nel
quesito.
In merito, sembra utile richiamare l'orientamento espresso
con il parere del servizio per gli affari istituzionali
delle autonomie locali della regione del Friuli Venezia
Giulia il quale, pronunciandosi su di un quesito analogo, ha
affermato che in mancanza di una diversa disposizione
legislativa o statutaria, le dimissioni di un assessore sono
immediatamente efficaci a decorrere dalla data di
presentazione delle stesse (Cfr. Regione Autonoma Fiuli
Venezia Giulia - Dir. Centrale funzione pubblica, autonomie
locali e coordinamento delle riforme - Servizio affari
istituzionali delle autonomie locali, 20.09.2011, prot. n.
32948).
Nel caso oggetto del parere appena richiamato però, a tale
conclusione si era giunti anche in merito alle particolari
condizioni con cui erano state rassegnate le dimissioni,
ovvero le considerazioni espresse dall'assessore
dimissionario nella nota indirizzata al Sindaco, con cui
dichiarava che la propria decisione era "sofferta e non
trattabile".
CONCLUSIONI
Dai soli elementi dati, e stante l'ampia genericità degli
stessi, non è possibile fornire una risposta compiuta al
quesito dato ma si ritiene, in via generale, che le
dimissioni dell'assessore de quo possano essere considerate
immediatamente efficaci ma non anche irrevocabili, qualora
sussista una volontà comune tra l'assessore dimissionario ed
il Sindaco in tal senso (21.02.2014 - tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Nel
formulario di identificazione dei rifiuti devono essere
riportati gli orari di inizio e fine trasporto?
Ai sensi dell’art. 193 TUA, durante il trasporto effettuato
da enti o imprese i rifiuti sono accompagnati dal formulario
di identificazione. E, al comma 6 dello stesso si dice “relativamente
alla definizione del modello e dei contenuti del formulario
di identificazione si applica il decreto del Ministro
dell’ambiente 01.04.1998, n. 145”.
Nel D.M. n. 145/1998 si precisa che nella quarta sezione del
formulario il produttore/detentore e il trasportatore nella
casella 10 devono trascrivere la data e l’ora di partenza.
Nella sezione quinta, casella 11, il destinatario dei
rifiuti dovrà indicare se il carico è stato accettato o
respinto e la data di arrivo, cioè di fine del trasporto.
Anche la giurisprudenza ha confermato la necessità della
indicazione nel formulario degli orari di inizio e fine
trasporto, in quanto prescritti dal D.M. n. 145/1998.
Oltretutto, la responsabilità per omissione degli orari di
trasporto grava non solo sul trasportatore, ma anche sul
produttore dei rifiuti, tenuto alla redazione e
sottoscrizione del formulario stesso.
Quindi, il formulario, tipico documento di accompagnamento
dei rifiuti durante il trasporto, deve contenere tutti i
dati richiesti all’atto della partenza del rifiuto, ad
eccezione di quelli da compilare all’arrivo del carico, in
modo da garantire la possibilità per gli organi di controllo
di verificare su strada la rispondenza tra quanto in esso
dichiarato e il dato reale.
Per tale ragione, qualunque incompletezza che non permetta
di compiere tale accertamento è suscettibile della sanzione
di cui all’art.. 258 del TUA che dispone che “chiunque
effettua il trasporto di rifiuti senza il formulario di cui
all’art. 193 ovvero indica nel formulario stesso dati
incompleti o inesatti è punito con la sanzione
amministrativa pecuniaria da milleseicento euro a
novemilatrecento euro“ (17.02.2014 - link a
www.ambientelegale.it). |
INCARICHI PROGETTUALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Progettazione interna. Oneri per l'iscrizione del dipendente
all'albo/collegio e per l'aggiornamento professionale.
Ai sensi dell'art. 90, c. 4, del D.Lgs.
163/2006, per provvedere alla progettazione di opere e
lavori pubblici, i dipendenti delle pubbliche
amministrazioni devono essere 'abilitati all'esercizio della
professione' (fatta salva l'ipotesi disciplinata dall'art.
253, comma 16, dello stesso decreto), senza che sia
necessaria l'iscrizione all'albo o al collegio
professionale.
Il Comune, atteso che l'art. 90 del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163 [1],
prevede che le prestazioni concernenti la redazione dei
progetti per la realizzazione di opere e di lavori pubblici
sono espletate, in via prioritaria, dagli uffici tecnici
delle stazioni appaltanti (comma 1, lett. a)
[2]) e
che, in tale ipotesi [3],
i progetti medesimi sono firmati da dipendenti delle
amministrazioni «abilitati all'esercizio della
professione» (comma 4, primo periodo
[4])
[5],
afferma che parrebbe potersi dedurre che, per svolgere il
predetto incarico, il dipendente pubblico 'debba essere
annualmente in regola con il pagamento dell'iscrizione
all'albo/collegio di appartenenza'.
Anzitutto, appare necessario rilevare che la richiamata
previsione del Codice dei contratti pubblici, ai sensi della
quale i progetti redatti all'interno delle pubbliche
amministrazioni sono firmati da dipendenti 'abilitati
all'esercizio della professione', ripropone la norma già
contenuta nell'art. 17, comma 2, primo periodo
[6], della
legge 11.02.1994, n. 109, come sostituito dall'art. 6, comma
2, della legge 18.11.1998, n. 415.
La Corte dei conti -Sezione del controllo per la Regione
Sardegna [7],
chiamata ad esprimersi sulla legittimità dell'assunzione, a
carico del bilancio comunale, della tassa annuale di
iscrizione all'albo professionale di un dipendente a tempo
indeterminato, osserva che occorre, preliminarmente,
stabilire se la predetta iscrizione costituisca requisito
per lo svolgimento dell'attività lavorativa.
Il Giudice contabile afferma che «Così non è più nella
materia dei lavori pubblici, in quanto la disciplina di cui
all'articolo 17 della legge 109 del 1994 è stata modificata
dalla legge n. 415 del 1998 nel senso che non è richiesta
l'iscrizione all'albo professionale per i dipendenti
pubblici che firmino i progetti, ma è sufficiente il
possesso dell'abilitazione professionale».
Su analoga questione, la Corte dei conti -Sezione regionale
di controllo per le Marche [8],
precisa che «occorre tener conto che l'abilitazione
-intesa quale accertamento dei requisiti
tecnico-professionali- si distingue dall'iscrizione all'albo
professionale e risulta esserne presupposto».
«La vigente disciplina» -prosegue il Collegio- «accoglie
pienamente questo principio, distinguendo la redazione di
progetti da parte dei dipendenti abilitati all'esercizio
della professione (senza necessità di iscrizione all'albo:
art. 90 quarto comma d.lgs. 163/2006) dalla redazione di
progetti da parte di professionisti esterni iscritti negli
appositi albi (art. 90 settimo comma d.lgs. 163/2006)».
[9]
Anche l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture (Avcp) [10]
rileva che l'art. 90 del Codice dei contratti pubblici,
nell'individuare i soggetti deputati ad espletare le
prestazioni relative alla progettazione preliminare,
definitiva ed esecutiva, nonché alla direzione dei lavori e
agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo, distingue
tra progettazione interna ed esterna, prevedendo che i
progetti redatti dai soggetti interni all'amministrazione
sono firmati da dipendenti abilitati all'esercizio della
professione.
L'Avcp ricorda che la disposizione ricalca quella
introdotta, nella normativa previgente, con un intervento
normativo del 1998, epoca alla quale risale la scelta del
legislatore di distinguere i requisiti richiesti ai soggetti
cui affidare la progettazione interna ed esterna, «esonerando
i dipendenti delle amministrazioni dall'obbligo di
iscrizione all'albo professionale».
L'Avcp richiama, poi, la rilevante osservazione svolta
dall'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici
[11],
secondo la quale «La circostanza che le prestazioni
relative alla progettazione attengono ad un'attività umana
prettamente intellettiva e di contenuto corrispondente a
quello proprio di una professione liberale, individualmente
esercitata, non è idonea a far ritenere che, nel nostro
ordinamento, i tecnici appartenenti ad ufficio pubblico
svolgano un'attività di libera professione in quanto autori
delle medesime elaborazioni intellettive proprie delle
professioni liberali. Quel che, invece, è vero, è che
l'attività di progettazione svolta da funzionari pubblici è
attività professionalmente qualificata, ma non di libera
professione».
Si ritiene utile segnalare che -nel medesimo atto- la
predetta Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici
chiarisce, inoltre, che «Questa qualificazione
professionale è garantita dalla legge quadro col prevedere
che gli addetti ai competenti uffici (art. 17, comma 2),
oltre alla garanzia data dalla selezione per l'accesso
all'impiego, debbano possedere per poter firmare il progetto
l'abilitazione all'esercizio della professione, ovvero, per
i tecnici diplomati, il pregresso esercizio di analoghi
incarichi, ritenuto equipollente. È significativo che in
tali sensi si sia modificato il testo originario della
norma, come introdotta dalla legge n. 216/1995 [...] e che
prevedeva anche la necessità di iscrizione al competente
albo professionale, in quanto tale modifica sta a comprovare
il carattere non decisivo, ai fini dell'oggettiva
affidabilità della prestazione, di detta iscrizione».
---------------
[1] «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE
e 2004/18/CE».
[2] «1. Le prestazioni relative alla progettazione
preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla
direzione dei lavori e agli incarichi di supporto
tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del
procedimento e del dirigente competente alla formazione del
programma triennale dei lavori pubblici sono espletate:
a) dagli uffici tecnici delle stazioni appaltanti;
[...]».
[3] Nonché quando le prestazioni di cui trattasi sono
espletate:
- dagli uffici consortili di progettazione e di direzione
dei lavori costituiti dai comuni, dai rispettivi consorzi ed
unioni, dalle comunità montane, dalle aziende per i servizi
sanitari, dai consorzi, dagli enti di industrializzazione e
dagli enti di bonifica [lett. b)];
- dagli organismi di altre pubbliche amministrazioni, di cui
le singole stazioni appaltanti possono avvalersi per legge
(lett. c)).
[4] «4. I progetti redatti dai soggetti di cui al comma 1,
lettere a), b) e c), sono firmati da dipendenti delle
amministrazioni abilitati all'esercizio della professione.
[...]».
[5] Disposizioni analoghe sono contenute nell'art. 9, commi
1 e 2, della legge regionale 31.05.2002, n. 14, i quali
prevedono che: «1. Le prestazioni finalizzate alla
realizzazione di lavori pubblici e in particolare quelle
relative alla progettazione preliminare, definitiva ed
esecutiva, nonché alla direzione dei lavori sono espletate:
a) dagli uffici tecnici delle stazioni appaltanti;
[...].
2. I progetti redatti dai soggetti di cui al comma 1,
lettere a), b) e c), sono firmati da dipendenti in possesso
del titolo di abilitazione o equipollente ai sensi della
normativa vigente in materia.».
[6] «2. I progetti redatti dai soggetti di cui al comma 1,
lettere a), b) e c), sono firmati da dipendenti delle
amministrazioni abilitati all'esercizio della professione.
[...]».
[7] Parere n. 1/2007 del 19.01.2007.
[8] Deliberazione n. 9/2008/Par. del 03.06.2008, che
richiama il già citato parere della Sezione regionale di
controllo per la Sardegna n. 1/2007 e quello della Sezione
regionale di controllo per la Toscana, reso con
deliberazione n. 11P/2008 del 22.04.2008.
[9] La Corte dei conti rammenta, per completezza, che l'art.
253, comma 16, del D.Lgs. 163/2006 (il cui contenuto è
sostanzialmente identico a quello recato dall'art. 17, comma
2, secondo periodo, della L. 109/1994, come sostituito
dall'art. 6, comma 2, della L. 415/1998 ed integrato dalla
previsione introdotta dal comma 9 dello stesso art. 6)
consente, a certe condizioni, lo svolgimento di attività
tecnico-professionale a personale dipendente munito di
titolo di studio, ma non abilitato.
Il testo della disposizione è il seguente: «16. I tecnici
diplomati che siano in servizio presso l'amministrazione
aggiudicatrice alla data di entrata in vigore della legge 18.11.1998, n. 415, in assenza dell'abilitazione, possono
firmare i progetti, nei limiti previsti dagli ordinamenti
professionali, qualora siano in servizio presso
l'amministrazione aggiudicatrice ovvero abbiano ricoperto
analogo incarico presso un'altra amministrazione
aggiudicatrice, da almeno cinque anni e risultino inquadrati
in un profilo professionale tecnico e abbiano svolto o
collaborato ad attività di progettazione.».
[10] Parere AG 6/2012 del 12.06.2012.
[11] Atto di regolazione 04.11.1999, n. 6 (17.02.2014
-
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Incompatibilità tra la carica di assessore e quella di
membro del consiglio di amministrazione di ente pubblico.
Con riferimento all'esimente alle cause
di ineleggibilità o incompatibilità, di cui all'articolo 67
del d.lgs. 267/2000, secondo il Consiglio di Stato alla
potestà statutaria o regolamentare degli enti locali non è
attribuita la facoltà di introdurre deroghe ulteriori alle
cause di ineleggibilità o incompatibilità previste dalla
legge, ma ad essi residua soltanto il compito di attuare o,
tutt'al più, di adeguare allo specifico assetto
organizzativo dell'ente locale le disposizioni adottate dal
legislatore.
Il Comune chiede di conoscere se sussistano ipotesi di
incompatibilità relativamente ad un assessore comunale
nominato membro del consiglio di amministrazione di un
Consorzio tra enti locali e, in caso affermativo, se possa
trovare applicazione l'esimente di cui all'articolo 67 del
d.lgs. 267/2000.
Ciò premesso, esaminato il quadro normativo di riferimento e
sentito il Servizio elettorale, si formulano le seguenti
considerazioni.
Le norme che rilevano, ai fini dell'individuazione di
eventuali cause di incompatibilità relativamente al caso
prospettato dal Comune, sono l'articolo 11 del d.lgs.
39/2013 e l'articolo 63 del d.lgs. 267/2000.
Si rappresenta che le osservazioni che seguono sono espresse
in via collaborativa, non competendo allo scrivente Ufficio
esprimersi in ordine ai contenuti di norme statali,
l'interpretazione delle quali resta attribuita agli uffici
ministeriali a ciò deputati e, come nel caso delle norme di
cui al d.lgs. 39/2013, all'Autorità nazionale anticorruzione
(CIVIT, ora ANAC) la quale, ai sensi dell'articolo 16, comma
3 del d.lgs. 39/2013 è l'organo deputato ad esprimere 'pareri
obbligatori sulle direttive e le circolari ministeriali
concernenti l'interpretazione delle disposizioni del
presente decreto e la loro applicazione alle diverse
fattispecie di inconferibilità degli incarichi e di
incompatibilità.'.
Ciò premesso, quanto ai casi di incompatibilità di cui
all'articolo 11 del d.lgs. 39/2013, le disposizioni che
interessano l'odierno quesito sono quelle di cui al comma 3
del citato articolo [1].
Si osserva che, in questo caso, presupposto per il sorgere
della causa di incompatibilità è che il conferimento
dell'incarico sia di competenza di taluna delle
amministrazioni locali contemplate dalla norma. Atteso che
lo statuto del Consorzio attribuisce il potere di nomina dei
componenti del consiglio di amministrazione all'Assemblea
consortile, sembra che non ricorrano, nel caso di specie, le
situazioni di incompatibilità disciplinate dalla norma in
commento.
Relativamente alla fattispecie prospettata nel quesito, si
richiama altresì l'attenzione del Comune sull'opportunità di
valutare se ricorra taluno dei casi di incompatibilità
disciplinati dall'articolo 63 del d.lgs. 267/2000 (comma 1,
n. 2) il quale dispone che non possa ricoprire la carica di
consigliere comunale o di assessore '2) colui che, come
titolare, amministratore, dipendente con poteri di
rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o
indirettamente, in servizi, esazioni di diritti,
somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune o
della provincia'. La predetta norma è finalizzata ad
evitare che la medesima persona fisica rivesta
contestualmente la carica di amministratore di un comune e
la qualità di amministratore (dipendente con poteri di
rappresentanza o di coordinamento) di un soggetto che si
trovi in rapporti giuridici economicamente rilevanti con
l'ente locale, caratterizzati da una prestazione da
effettuare all'ente o nel suo interesse.
Quanto alla connotazione di detta prestazione, nel termine 'servizi',
può essere ricompreso qualsiasi rapporto intercorrente con
l'ente locale che, a causa della sua durata e della costanza
delle prestazioni effettuate, sia in grado di determinare
conflitto di interessi. Il contenuto dei servizi è quindi
una prestazione di fare, senza elaborazione della materia,
diretta a produrre una utilità, sia essa ad esecuzione
prolungata, continuativa o periodica [2].
La Giurisprudenza ha inoltre precisato che per servizio
nell'interesse del comune si intendono 'tutte quelle
attività che l'ente locale, nell'ambito dei propri compiti
istituzionali e mediante l'esercizio dei propri poteri
normativi ed amministrativi attribuitigli, fa e considera
proprie' [3] [4].
Quanto all'esimente alle cause di ineleggibilità o
incompatibilità di cui all'articolo 67 del d.lgs. 267/2000,
il quale stabilisce che 'Non costituiscono cause di
ineleggibilità e incompatibilità gli incarichi e le funzioni
conferite ad amministratori del comune, della provincia e
della circoscrizione previsti da norme di legge, statuto o
regolamento in ragione del mandato elettivo', che
costituisce un'eccezione al più generale principio della non
cumulabilità di incarichi, si rappresenta che la causa
ostativa non opera se il consigliere ha assunto la
titolarità della carica 'societaria' in base a una
norma di legge ovvero di statuto o di regolamento dell'ente
territoriale in cui svolge il proprio mandato elettivo, ma
sussiste se ha assunto tale carica in base a una norma dello
statuto dell'altro ente/società (Corte di Cassazione Sez. I,
04.05.1993, n. 5179).
Si segnala, inoltre, l'interpretazione ancora più
restrittiva formulata dal Consiglio di Stato (parere della I
Sezione, 10.11.2004, n. 10166) il quale, riscontrando un
quesito del Ministero dell'interno relativamente ad
iniziative di numerosi enti locali 'rivolte ad
introdurre, con richiamo all'articolo 67 del d.lgs.
18.08.2000, n. 267 [...], deroghe alle cause di
ineleggibilità e di incompatibilità previste dagli artt. 60
e 63 dello stesso decreto' ha interpretato la norma nel
senso che alla potestà statutaria o regolamentare degli enti
locali non è attribuita la facoltà di introdurre deroghe
ulteriori alle cause di ineleggibilità o incompatibilità
previste dalla legge, ma ad essi residua soltanto il compito
di attuare o, tutt'al più, di adeguare allo specifico
assetto organizzativo dell'ente locale le disposizioni
adottate dal legislatore. Un tanto nel rispetto
dell'articolo 51 Cost. che 'assoggettando alla riserva di
legge la definizione dei requisiti per accedere e mantenere
le cariche elettive, non consente alle fonti secondarie di
intervenire nella materia elettorale in modo autonomo e
diretto'.
---------------
[1] Il comma 3, recita: '3. Gli incarichi amministrativi
di vertice nelle amministrazioni di una provincia, di un
comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una
forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione
nonché gli incarichi di amministratore di ente pubblico di
livello provinciale o comunale sono incompatibili:
a) con la carica di componente della giunta o del consiglio
della provincia, del comune o della forma associativa tra
comuni che ha conferito l'incarico;
b) con la carica di componente della giunta o del consiglio
della provincia, del comune con popolazione superiore ai
15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente
la medesima popolazione, ricompresi nella stessa regione
dell'amministrazione locale che ha conferito l'incarico;
c) con la carica di componente di organi di indirizzo negli
enti di diritto privato in controllo pubblico da parte della
regione, nonché di province, comuni con popolazione
superiore ai 15.000 abitanti o di forme associative tra
comuni aventi la medesima popolazione abitanti della stessa
regione.'.
[2] Cfr. Enrico Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità,
incandidabilità nell'ente locale, 2000, pag. 146 e segg.
[3] Cfr. Cass. Civ. Sez. I, 16.01.2004, n. 550.
[4] Cfr. anche Cass. Civ. Sez. I, 04.12.2003, n. 18513 in
cui, nel caso di un consigliere comunale che ricopriva la
carica di consigliere di amministrazione di un'azienda
consortile costituita in forma di spa da più Comuni
consorziati per la gestione del servizio di
approvvigionamento idrico, la Corte ha ritenuto sussistente
la causa di incompatibilità (14.02.2014 -
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PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Mobilità interna.
Il datore di lavoro pubblico,
nell'ambito dei poteri assimilati a quelli del datore di
lavoro privato, può valutare e disporre la mobilità interna
del personale, in un'ottica di migliore utilizzazione delle
prestazioni del lavoratore, con diretti vantaggi per la
qualità del servizio reso agli utenti.
In relazione alla nota di cui in oggetto, con cui la S.V. ha
chiesto un parere in ordine alla fattibilità di una
rotazione del personale di categoria C all'interno dell'Area
Tecnica, in particolare dal Settore dell'Edilizia pubblica a
quello dell'Edilizia privata, si rappresenta quanto segue.
Preliminarmente si osserva che, in assenza di specifiche
disposizioni contenute nella contrattazione collettiva di
comparto, come chiarito dall'ARAN [1],
ai fini del trasferimento interno di un dipendente,
l'amministrazione è soggetta in generale:
- alla previsione dell'art. 13 della l. 300/1970 che, a tal
fine, richiede che il trasferimento sia richiesto da
esigenze tecniche, organizzative e produttive;
- alle eventuali disposizioni in materia di mobilità interna
autonomamente assunte dall'Ente;
- al rispetto del vincolo della equivalenza delle mansioni
di cui all'art. 52 del d.lgs. 165/2001, ove il trasferimento
'geografico' sia accompagnato anche da un mutamento di
mansioni.
La disciplina della mobilità interna del personale rientra
nell'ambito delle 'determinazioni per la organizzazione
degli uffici e delle misure inerenti alla gestione del
rapporto di lavoro', che sono assunte dagli organi di
gestione dell'Ente con la capacità e i poteri del privato
datore di lavoro, ai sensi dell'art. 5, comma 2, del d.lgs.
165/2001.
Nel caso rappresentato, il provvedimento di mobilità
interna, concretizzandosi nella rotazione degli interessati,
non sembra comportare una modifica del profilo professionale
dei dipendenti, implicandone in concreto l'utilizzo in
mansioni sostanzialmente equivalenti [2],
in relazione al profilo professionale di appartenenza e
riconducibili, comunque, alla categoria C di inquadramento.
Si procederebbe, infatti, al collocamento a rotazione dei
dipendenti in strutture diverse, ma comunque rientranti
nella medesima area di attività (quella tecnica).
Il datore di lavoro pubblico, nell'ambito dei poteri
assimilati a quelli del datore di lavoro privato, può ben
valutare la convenienza di una siffatta determinazione, in
un'ottica di migliore utilizzazione delle prestazioni del
lavoratore, con diretti vantaggi per la qualità del servizio
reso agli utenti [3].
L'istituto della mobilità interna del personale si
caratterizza, infatti, come uno degli strumenti ottimali per
un razionale utilizzo delle risorse umane a disposizione del
datore di lavoro [4].
-----------------
[1] Cfr. parere RAL442, consultabile sul sito:
www.aranagenzia.it.
[2] Per potersi parlare di mansioni sostanzialmente
equivalenti, insieme al dato dell'equivalenza formale delle
mansioni riferibili alla stessa area occorre valutare
responsabilmente se le nuove mansioni consentano di
salvaguardare la professionalità del dipendente e di
garantirne lo svolgimento e l'accrescimento (Cass. Civ. sez.
lav. n. 7351/2005).
[3] Cfr. parere ANCI del 07.06.2012.
[4] Cfr. parere ANCI del 16.11.2012 (12.02.2014 -
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CONSIGLIERI COMUNALI:
Indirizzi per la nomina dei rappresentanti del Comune presso
enti, società partecipate ed istituzioni.
Lo scopo delle disposizioni di cui
all'articolo 50 del d.lgs. 267/2000, ai sensi del quale la
nomina e revoca dei rappresentanti dell'ente locale da parte
del Sindaco debbono avvenire sulla base degli indirizzi
stabiliti dal consiglio, è quello di limitare la
discrezionalità molto ampia di cui altrimenti
l'amministrazione sarebbe titolare.
Il Consigliere espone che con delibera consiliare dello
scorso giugno sono state dettate le linee di indirizzo
disciplinanti, fra l'altro, i nuovi criteri e requisiti cui
fare riferimento per l'individuazione dei rappresentanti del
Comune presso enti, società partecipate ed istituzioni.
A tal proposito, il Consigliere chiede di conoscere se,
nell'individuazione dei suddetti rappresentanti, per gli
organi del Comune sussista l'obbligo di attenersi alle
suindicate linee di indirizzo e se vi siano conseguenze in
caso di mancanza, originaria o sopravvenuta, in capo ai
soggetti eventualmente nominati/designati, dei requisiti
come introdotti dalla delibera in argomento.
Sentito il Servizio elettorale, si formulano le seguenti
considerazioni.
Con riferimento alla valutazione del rilievo degli indirizzi
del consiglio in ordine alle nomine dei rappresentanti, si
ritiene che il provvedimento del Sindaco per la
formalizzazione dei nuovi incarichi dovrebbe richiamare gli
specifici indirizzi consiliari, quali presupposti per le
nomine effettuate.
Il senso della formula legislativa, di cui all'articolo 50
del d.lgs. 267/2000, per cui nomina e revoca debbono
avvenire sulla base degli indirizzi stabiliti dal consiglio,
è quello di limitare la discrezionalità molto ampia di cui
altrimenti l'amministrazione sarebbe titolare; il potere in
questione, dunque, non può essere esercitato ad libitum, ma
deve tener conto degli indirizzi consiliari che
costituiscono una conditio sine qua non al successivo
esercizio del potere di nomina/designazione attribuito dalla
legge al sindaco [1].
La delibera contenente gli indirizzi del consiglio per le
nomine riveste, dunque, la natura sostanziale di un
regolamento, concernente l'esercizio di una delle
prerogative dell'ente [2].
Gli indirizzi consiliari costituiscono, quindi, un parametro
di riferimento vincolante, ma, come osservato da certa
dottrina [3],
non é possibile escludere un margine di apprezzamento
discrezionale e politico al Sindaco stesso. A conferma di un
tanto si segnala la sentenza del Consiglio di Stato, Sezione
V, n. 4033/2009 che, annullando la sentenza TAR Veneto n.
2035/2007, ha statuito che 'la regola generale fissata
dalle norme [4]
non ha un valore assoluto, in quanto va adattata alla natura
delle funzioni che il designato deve svolgere, sulla base
degli statuti e dei regolamenti dell'ente cui è destinato.'.
Quanto alla conseguenze derivanti dall'insussistenza o dal
venir meno dei requisiti necessari ai fini della regolarità
della nomina o della designazione (puntualmente individuati
nell'atto deliberativo di indirizzo), si osserva che la
delibera contenente gli indirizzi in argomento prevede
espressamente la decadenza del soggetto nominato o
designato.
Quanto alla eventualità che gli indirizzi consiliari di cui
alla delibera in commento vengano disattesi nell'adozione
degli atti di nomina/designazione, fermo restando che gli
stessi potranno essere valutati quale parametro di
legittimità dell'atto di nomina da parte del Giudice
amministrativo nell'eventualità di presentazione di un
ricorso, si richiama quanto affermato dall'ANCI nel parere
dd. 13.07.2011, laddove la possibilità di intervento dei
consiglieri risulta garantita dagli istituti
dell'interrogazione, dell'interpellanza e della mozione.
---------------
[1] Cfr. parere ANCI dd. 13.07.2011
[2] Cfr. 'Rassegna dell'autotutela amministrativa' in
http://www.autotutela-pa.it/s21.htm
[3] Cfr. Aurora Nardelli: 'Il potere di indirizzo del
Consiglio per la nomina e la designazione dei rappresentanti
del Comune presso enti, aziende e istituzioni:confronto tra
la normativa di legge e le scelte statutarie (con
riferimento al Comune di Bologna) in
www.diritto.it/materiali/enti locali/nardelli.html
[4] Nella specie l'art. 50 del d.lgs. 267/2000 e la
deliberazione del consiglio comunale contenente gli
indirizzi per le nomine dei rappresentanti del Comune (10.02.2014
-
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AMBIENTE-ECOLOGIA: La
scheda di trasporto è obbligatoria nel trasporto di rifiuti
o può essere sostituita dal formulario di identificazione?
Il Dm 30.06.2009 ha introdotto l’obbligo di compilazione
della scheda di trasporto, di cui all’articolo 7-bis, D.lgs
286/2005.
La scheda di trasporto rappresenta documento teoricamente
capace di assicurare la tracciabilità di tutti i soggetti
coinvolti nelle filiera del trasporto merci conto terzi.
Restano, quindi, esclusi dall’applicazione della norma i
trasporti in conto proprio.
In passato l’introduzione di tale obbligo ha sollevato
dispute dottrinali quanto all’applicazione di tale
incombenza al settore della gestione rifiuti e quindi al
trasporto del materiale di scarto.
La circolare n. 140/2009 del Ministero dei Trasporti ha
sottolineato che l’art. 3 D.M. 554/2009 considera
equipollente alla scheda di trasporto “ogni altro
documento che deve obbligatoriamente accompagnare il
trasporto stradale delle merci, ai sensi della normativa
comunitaria, degli accordi e delle convenzioni
internazionali o di altra norma nazionale vigente o emanate
successivamente”. E dal dato normativo ne desume che il
formulario di trasporto, che deve obbligatoriamente
accompagnare il trasporto dei rifiuti a norma della
disciplina di settore, “possa essere considerato
documentazione equipollente”.
Si ammette, quindi, l’equipollenza del formulario alla
scheda di trasporto e, conseguentemente, la possibilità di
esonero dall’obbligo della scheda a bordo del veicolo che
trasporta i rifiuti.
Ma l’equipollenza conosce dei limiti. Limiti imposti dalla
stessa configurazione del formulario ai sensi della
normativa sui rifiuti, a meno che si facciano degli
aggiustamenti.
Nel formulario è indicato il produttore/detentore del
rifiuto e cioè, precisa il Ministero, “il soggetto che
dispone il trasporto, ne cura il carico sui veicoli e, in
genere, è il proprietario del rifiuto fino al conferimento
dello stesso al destinatario”. E ciò è avallato dalla
circostanza che -di norma- il “produttore/detentore”
è il soggetto che richiede ed organizza il trasporto,
curandone anche il carico sul veicolo. Nel caso di assenza
della scheda, si assume, sulla base dell’equipollenza del
formulario, che tali figure corrispondano al “produttore/detentore”
del rifiuto indicato –per l’appunto- nel formulario. Se le
cose stanno diversamente -se cioè non si abbia coincidenza
delle figure che dovrebbero essere indicate nella scheda con
quella del produttore/detentore- allora il formulario non
conterrà di per sé tutti i dati previsti dalla scheda.
Quindi, non vi sarà equipollenza.
La scelta che si presenta è tra l’integrazione dei dati del
formulario con le indicazioni del proprietario della merce e
caricatore oppure la coesistenza di formulario e scheda di
trasporto. Pertanto, qualora occorra accertare la
responsabilità concorrente dei soggetti coinvolti nelle
operazioni di trasporto, il produttore/detentore coincide
con il committente, caricatore e proprietario della merce,
salvo sia diversamente indicato nella scheda di trasporto o
specificato nel formulario. Altrimenti, a fronte del solo
formulario, gli organi di controllo non potranno che dare
per scontata la coincidenza tra la figura del proprietario
del rifiuto, del committente del trasporto e del caricatore
del rifiuto con quella del produttore/detentore indicato nel
formulario stesso.
La scheda di trasporto, pertanto, non è obbligatoria ma solo
eventuale nell’ambito del trasporto rifiuti
(10.02.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Può
essere disposto un veto regionale all’istallazione di
depositi di materiali radioattivi?
Più volte si è tentato a livello regionale di disporre un
tale veto.
La Corte Costituzionale, tuttavia, si è pronunciata
contrariamente alla previsione di un tale divieto a livello
regionale, in più occasioni.
Si rammenta, a tal riguardo, la pronuncia nei confronti
della L.R. Puglia 04.12.2009, n. 30, L.R. Basilicata
19.01.2010, n. 1, L.R. Campania 21.01.2010, n. 2 che
vietavano l'installazione sul territorio regionale, oltre
che di impianti di produzione di energia nucleare, anche di
depositi di materiali e di rifiuti radioattivi.
Da ultimo, si è dichiarata l'illegittimità costituzionale
dell'articolo 1, comma 3, della L.R. Molise del 21.04.2011,
n. 7 nella parte in cui prevedeva il divieto di
installazione sul proprio territorio di depositi di
materiali e rifiuti radioattivi.
La Consulta ha, infatti, ribadito il principio secondo cui “nessuna
Regione –a fronte di determinazioni di carattere
ultraregionale, assunte per un efficace sviluppo della
produzione di energia elettrica nucleare– può sottrarsi in
modo unilaterale ai conseguenti inderogabili oneri di
solidarietà economica e sociale”.
Le disposizioni relative al settore dei materiali e rifiuti
radioattivi vanno ascritte –sostiene la Consulta- alla
materia, di esclusiva competenza statale, tutela
dell'ambiente e dell'ecosistema, negando che la Regione
possa disporre di poteri in campo ambientale.
I poteri regionali non consentirebbero, infatti, sia pure in
nome di una protezione più rigorosa della salute degli
abitanti della Regione medesima, interventi preclusivi
suscettibili di pregiudicare il medesimo interesse della
salute in un ambito territoriale più ampio, come avverrebbe
in caso di impossibilità o difficoltà a provvedere
correttamente allo smaltimento di rifiuti radioattivi.
Tuttavia, si tempera il rigore di tale divieto, specificando
che occorre tener conto, per lo meno, della necessità di
trovare siti particolarmente idonei per conformazione del
terreno e possibilità di collocamento in sicurezza. La
stessa Consulta, infatti, ammonisce che l'incidenza della
potenziale installazione dei depositi sul territorio
regionale determina il coinvolgimento, attraverso opportune
forme di collaborazione, della Regione interessata.
Le idonee modalità di collaborazione dovranno essere
individuate e disciplinate dal legislatore statale, il cui
operato, ove si riveli lesivo dell'autonomia regionale,
potrà soltanto essere sottoposto dalla Regione interessata
al vaglio di costituzionalità della Corte
(03.02.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Una
istanza di rilascio dell’AIA, incompatibile con il Piano
Provinciale per la Gestione rifiuti, può essere dichiarata
improcedibile?
La giurisprudenza amministrativa, pronunciatasi in tema di
Autorizzazione Integrata Ambientale, ha ritenuto legittima
la determinazione dirigenziale con cui la Provincia ha
dichiarato improcedibile la domanda di rilascio
dell’Autorizzazione Integrata Ambientale per incompatibilità
con il Piano Provinciale per la Gestione dei Rifiuti (PPGR),
che stabilisce il divieto di apertura di nuovi siti per
discariche in alcune località del territorio provinciale e
non ha quindi proceduto all’apertura della procedura di
V.I.A.
L’arresto della procedura di VIA e di AIA, una volta
riscontrata l’irrealizzabilità del progetto in forza della
disciplina pianificatoria, sarebbe, infatti, coerente con il
precetto costituzionale di buona amministrazione, con i suoi
precipitati in tema di economicità ed efficacia dell’azione
amministrativa.
La stessa giurisprudenza rammenta che l’art. 208, comma 6,
del D.Lgs. n. 152/2006, che attribuisce valenza di variante
urbanistica agli atti di approvazione dei progetti di
realizzazione/ampliamento di discariche, viene in rilievo
solo quando l’ente competente approva il progetto ma non può
essere interpretato nel senso che un progetto va approvato
necessariamente. La norma, peraltro, si riferirebbe alla
variante allo strumento urbanistico e non anche alle
varianti agli atti di pianificazione di settore (03.02.2014
- link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Quale
è la regolamentazione dei materiali da riporto dopo il
Decreto fare?
La problematicità dei materiali da riporto si individua
nella carenza dell’esatta ricognizione dei presupposti
affinché la terra contaminata possa, a seguito
dell’espletamento di operazioni di recupero del terreno,
perdere la qualifica di rifiuto e divenire un prodotto.
Sorge, inoltre, il dilemma se i riporti siano rifiuti o
piuttosto materiali riutilizzabili, assimilabili al terreno
naturale.
Il decreto Ambiente, coordinato con la legge di conversione
n. 28/2012, ha tentato di fornire una prima soluzione
mediante una interpretazione autentica dell’art. 185 del
D.Lgs n. 152/2006. Ai sensi di tale norma, viene stabilito
che i riferimenti al "suolo", di cui all'articolo
185, comma 1, lettere b) e c), e 4, si interpretino come
riferiti anche ai materiali di riporto, al fine di
escluderli, alle condizioni indicate nella norma,
dall'applicazione della normativa sui rifiuti. In
particolare, quali materiali di riporto vengono considerati
i “materiali eterogenei, utilizzati per la realizzazione
di riempimenti e rilevati, non assimilabili per
caratteristiche geologiche e stratigrafiche al terreno in
situ, all’interno dei quali possono trovarsi materiali
estranei”.
Il legislatore ha voluto equiparare, quindi, il suolo non
contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato
nel corso di attività di costruzione ai materiali di riporto
estranei e eterogenei e non naturali, senza fornire,
tuttavia, una precisa definizione di tali materiali.
Tale attesa definizione viene giuridicamente enunciata nel
D.M. n. 161 del 10.08.2012, in vigore a decorrere dal
06.10.2012.
I materiali di riporto sono definiti “miscela eterogenea
di materiali di origine antropica e suolo/sottosuolo come
definito nell'allegato 9”.
Ai sensi dell’ allegato 9 in parola, i riporti si
configurano come “orizzonti stratigrafici costituiti da
materiali di origine antropica, ossia derivanti da attività
di scavo, di demolizione edilizia, ecc, che si possono
presentare variamente frammisti al suolo e al sottosuolo”.
Il D.L. n. 69/2013 (cd. Decreto fare), coordinato con la
legge n. 98/2013, interviene nuovamente sull’argomento
modificando l’art. 3 del citato.
L’attuale stesura dell’art. 3 citato dispone che “1.
Ferma restando la disciplina in materia di bonifica dei
suoli contaminati, i riferimenti al “suolo” contenuti
all’art. 185, commi 1, lett. b) e c), e 4, del D.Lgs.
03.04.2006, n. 152, si interpretano come riferiti anche alle
matrici materiali di riporto di cui all’Allegato 2 alla
Parte IV del medesimo decreto legislativo, costituite da una
miscela eterogenea di materiale di origine antropica, quali
residui e scarti di produzione e di consumo, e di terreno,
che compone un orizzonte stratigrafico specifico rispetto
alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche naturali
del terreno in un determinato sito e utilizzati per la
realizzazione di riempimenti, di rilevati e di reinterri.
2. Fatti salvi gli accordi di programma per la bonifica
sottoscritti prima della data di entrata in vigore della
presente disposizione che rispettano le norme in materia di
bonifica vigenti al tempo della sottoscrizione, Ai fini
dell'applicazione dell'articolo 185, comma 1, lettere b) e
c), del decreto legislativo n. 152 del 2006, le matrici
materiali di riporto devono essere sottoposte a test di
cessione effettuato sui materiali granulari ai sensi
dell'articolo 9 del decreto del Ministro dell'ambiente
05.02.1998, pubblicato nel supplemento ordinario alla
Gazzetta ufficiale 16.04.1998, n. 88, ai fini delle
metodiche da utilizzare per escludere rischi di
contaminazione delle acque sotterranee e, ove conformi ai
limiti del test di cessione, devono rispettare quanto
previsto dalla legislazione vigente in materia di bonifica
dei siti contaminati.
3 Le matrici materiali di riporto che non siano risultate
conformi ai limiti del test di cessione sono fonti di
contaminazione e come tali devono essere rimosse o devono
essere rese conformi ai limiti del test di cessione tramite
operazioni di trattamento che rimuovano i contaminanti o
devono essere sottoposte a messa in sicurezza permanente
utilizzando le migliori tecniche disponibili e a costi
sostenibili che consentano di utilizzare l'area secondo la
destinazione urbanistica senza rischi per la salute.
3-bis. Gli oneri derivanti dai commi 2 e 3 sono posti
integralmente a carico dei soggetti richiedenti le verifiche
ivi previste."
(25.01.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L’autore dell’inquinamento ha una responsabilità oggettiva
per gli obblighi di bonifica? E il proprietario incolpevole
è coinvolto?
È stato affermato in giurisprudenza che la responsabilità
dell'autore dell'inquinamento, in posizione differente da
quella del proprietario non inquinatore, costituisca una
vera e propria forma di responsabilità oggettiva per gli
obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino
ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree
inquinate. Dalla natura oggettiva della responsabilità in
questione è desumibile che l'obbligo di effettuare gli
interventi di legge sorga in connessione con una condotta "anche
accidentale", ossia a prescindere dall'esistenza di
qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo
all'autore dell'inquinamento.
La stessa giurisprudenza, comunque, ammonisce che ai fini
della responsabilità in questione è pur sempre necessario il
rapporto di causalità tra l'azione (o l'omissione)
dell'autore dell'inquinamento e la contaminazione e/ o il
suo aggravamento in coerenza con il principio comunitario "chi
inquina paga" .
L'imputabilità dell'inquinamento può avvenire per condotte
attive, ma anche per condotte omissive e la prova può essere
data anche in via indiretta, tramite presunzioni ex art.
2727, e 2729 c.c. o prendendo in considerazione elementi di
fatto dai quali possono trarsi indizi gravi, precisi e
concordanti che inducano a ritenere verosimile, secondo l'id
quod plerumque accidit, che si sia verificato un
inquinamento e che questo sia attribuibile a determinati
autori.
Quanto al proprietario non responsabile, invece, la
giurisprudenza ha enunciato il principio di diritto in base
al quale gli interventi di riparazione, messa in sicurezza,
bonifica e ripristino gravano esclusivamente sul
responsabile della contaminazione oppure, nel caso questi
non sia individuabile o non provveda, alla P.a. (con diritto
di rivalsa sul proprietario nei limiti del valore di mercato
del sito).
Il D.lgs n. 152/2006 stabilisce, infatti, una chiara e netta
distinzione tra la figura del responsabile dell'inquinamento
e quella del proprietario del sito che non abbia causato o
concorso a causare la contaminazione
(25.01.2014 - link a www.ambientelegale.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Quesiti inerenti le possibilità di intervento in
aree con destinazione agricola di cui agli artt. 59-62 della
L.R. n. 12/2005. Richiesta parere circa la corretta
interpretazione applicativa della norma (Regione
Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica,
Programmazione e Pianificazione Territoriale,
nota 30.03.2011 n. 9064 di prot.). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esercizio del potere
repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di
attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i
relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l’invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell’atto.
Inoltre, costituendo l'esercizio del potere repressivo
dell'abuso edilizio un atto dovuto, per il quale è in re
ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione, l'ordinanza di
demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente
motivata con riferimento all'oggettivo riscontro
dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità
di queste al regime del permesso di costruire, non essendo
necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo
motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di
interesse pubblico.
---------------
Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la
costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare
l'applicazione a suo favore della disposizione oggi
contenuta nell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se
non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio
stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene
residuo, essendo proprio la parte privata, autrice
dell'opera e del progetto, ad essere a conoscenza di come
esso è stato eseguito e di quali danni potrebbero prodursi,
a seguito di demolizione, in pregiudizio della parte
conforme.
Per il resto, l’esercizio del potere
repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di
attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i
relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione,
costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è
necessario l’invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell’atto (cfr., ex ceteris, C.d.S., sez.
VI, 05.08.2013, n. 4075; 31.05.2013, n. 3010 cit.;
C.d.S., sez, IV, 18.09.2012; 10.08.2011, n. 4764;
20.07.2011, n. 4403); inoltre, costituendo l'esercizio
del potere repressivo dell'abuso edilizio un atto dovuto,
per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua
rimozione, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie
abusive è sufficientemente motivata con riferimento
all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla
sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di
costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun
ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad
eventuali ragioni di interesse pubblico (cfr., fra le tante,
TAR Campania, Napoli, sez. II, 12.07.2013, n. 3647).
Infine, il privato sanzionato con l'ordine di demolizione
per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può
invocare l'applicazione a suo favore della disposizione oggi
contenuta nell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se non
fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio
stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo
(ex ceteris, cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II,
22.11.2013, n. 5317; C.d.S., sez. V, 05.09.2011, n. 4982),
essendo proprio la parte privata, autrice dell'opera e del
progetto, ad essere a conoscenza di come esso è stato
eseguito e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito di
demolizione, in pregiudizio della parte conforme
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 21.02.2014 n. 1143 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non esiste alcun termine
di “prescrizione” del potere di repressione degli abusi
edilizi.
---------------
Costituendo l'esercizio del potere repressivo dell'abuso
edilizio un atto dovuto, l'interesse pubblico alla sua
rimozione è in re ipsa e, pertanto, l'ordinanza di
demolizione è sufficientemente motivata con riferimento
all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla
sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di
costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun
ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad
eventuali ragioni di interesse pubblico.
---------------
L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale costituisce
una misura di carattere sanzionatorio che consegue
automaticamente all’inottemperanza dell’ordine di
demolizione, sicché non osta alla stessa né il tempo
trascorso dalla realizzazione dell’abuso, né l’affidamento
eventualmente riposto dall’interessato sulla legittimità
delle opere realizzate, né l’assenza di motivazione
specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite
attraverso l’acquisizione.
Il primo motivo di ricorso, con cui
parte ricorrente lamenta che il Comune di Villaricca, non
precisando la data della costruzione, avrebbe omesso di
considerare l’eventuale intervenuta prescrizione, è
manifestamente infondato, atteso che non esiste alcun
termine di “prescrizione” del potere di repressione degli
abusi edilizi.
Infondato è anche il secondo motivo, col quale il ricorrente
lamenta il difetto di motivazione sulle ragioni di pubblico
interesse che hanno giustificato l’intervento sanzionatorio
dell’amministrazione.
Infatti, costituendo l'esercizio del potere repressivo
dell'abuso edilizio un atto dovuto, l'interesse pubblico
alla sua rimozione è in re ipsa e, pertanto, l'ordinanza di
demolizione è sufficientemente motivata con riferimento
all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla
sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di
costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun
ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad
eventuali ragioni di interesse pubblico (cfr., fra le tante,
TAR Campania, Napoli, sez. II, 12.07.2013, n. 3647).
Col terzo
motivo di ricorso è censurata l’avvertenza, contenuta nel
provvedimento impugnato, che, decorso inutilmente il termine
assegnato per la demolizione, il bene, l’area di sedime e
l’area necessaria alla realizzazione di opere analoghe
sarebbero state acquisite gratuitamente al patrimonio
comunale: in particolare, il ricorrente lamenta al riguardo
il difetto di motivazione e sostiene la necessità, ai fini
dell’acquisizione, dell’accertamento della volontarietà
dell’inottemperanza, di un apposito interesse pubblico e
dell’identificazione del suolo.
Il motivo è inammissibile, poiché le censure sono
indirizzate contro un semplice ammonimento sulle conseguenze
derivanti ex lege dall’inottemperanza all’ordine di
demolizione: l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale,
infatti, costituisce una misura di carattere sanzionatorio
che consegue automaticamente all’inottemperanza dell’ordine
di demolizione, sicché non osta alla stessa né il tempo
trascorso dalla realizzazione dell’abuso, né l’affidamento
eventualmente riposto dall’interessato sulla legittimità
delle opere realizzate, né l’assenza di motivazione
specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite
attraverso l’acquisizione (cfr., ex ceteris, C.d.S., sez. VI,
08.02.2013, n. 718)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 21.02.2014 n. 1141 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deve trovare applicazione, al caso di specie, il
condivisibile indirizzo giurisprudenziale che riconosce a
carico dell’amministrazione un onere di motivazione
rafforzata sulla prevalenza dell’interesse pubblico al
ripristino dello stato dei luoghi nelle ipotesi connotate da
una evidente eccezionalità per l’abnormità del lasso di
tempo trascorso (svariati decenni) e per la specificità
delle circostanze del caso concreto, alle quali ipotesi può
senz’altro ricondursi, per le circostanze predette, quella
ora in esame, nella quale, però, una motivazione del genere
manca del tutto.
... per l'annullamento, previa sospensione cautelare
dell’ordinanza di demolizione n. 10/08 del 22.02.2008
del responsabile del Settore Urbanistica del Comune di Arzano e di tutti gli altri atti preordinati, connessi e
conseguenti, tra i quali il verbale P.M. 13.02.2008 e la
relazione tecnica del 13.02.2008 prot. n. 3163.
...
Il ricorso è fondato in relazione all’assorbente profilo di
illegittimità del provvedimento impugnato, denunciato con
riferimento al tempo trascorso dalla commissione dell’abuso
ed alla conseguente necessità di una specifica motivazione
sulla perdurante attualità dell’interesse pubblico alla sua
repressione.
Al riguardo, deve infatti preliminarmente disattendersi
l’eccezione dell’amministrazione resistente, secondo cui gli
stessi ricorrenti avrebbero ammesso di aver realizzato parte
del manufatto abusivo, e ciò in quanto non si può attribuire
alcun valore confessorio all’affermazione, contenuta a
pagina 4 del ricorso introduttivo, secondo cui “i ricorrenti
… hanno realizzato solo una irrilevante chiusura smontabile
di un balcone”, e giacché la tesi principale propugnata dai
ricorrenti è, in maniera chiara ed inequivoca, quella della
loro estraneità alla realizzazione della veranda, laddove la
suddetta frase, estrapolata dal contesto, in realtà si
inserisce pianamente in un motivo subordinato di ricorso
(quello della sanzionabilità solo pecuniaria), che
presuppone il rigetto di quella tesi ed il convincimento che
la realizzazione dell’abuso sia, per l’appunto, loro
imputabile.
Ciò detto, dalla aerofotogrammetria del 1985, della quale
non è contestata la riferibilità ai luoghi di causa, è dato
in effetti evincere la presenza di una veranda e tanto
concorda con l’accertamento contenuto nella sentenza del
Giudice penale sulla vetustà delle opere (rilevata anche in
sede di sopralluogo) da almeno oltre dieci anni e con la
dichiarazione del dante causa degli odierni ricorrenti,
secondo cui la veranda sarebbe stata realizzata dalla
propria genitrice, deceduta nel 1989.
Deve trovare perciò applicazione, al caso di specie, il
condivisibile indirizzo giurisprudenziale che riconosce a
carico dell’amministrazione un onere di motivazione
rafforzata sulla prevalenza dell’interesse pubblico al
ripristino dello stato dei luoghi nelle ipotesi connotate da
una evidente eccezionalità per l’abnormità del lasso di
tempo trascorso (svariati decenni) e per la specificità
delle circostanze del caso concreto (cfr. C.d.S., sez. V, 24.10.2013, n. 5158; TAR Campania, Salerno, sez. I, 27.09.2013, n. 1987), alle quali ipotesi può senz’altro
ricondursi, per le circostanze predette, quella ora in
esame, nella quale, però, una motivazione del genere manca
del tutto.
Per tali ragioni, assorbito quant’altro, il ricorso deve
essere accolto e, per l’effetto, annullata l’ordinanza di
demolizione n. 10 del 22.02.2008 emessa dal
responsabile del Settore Urbanistica del Comune di Arzano (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 21.02.2014 n. 1140 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordinanza di
demolizione di opere abusive emessa in pendenza del termine
e, a maggior ragione, della presentazione dell’istanza di
condono si pone in contrasto con l’art. 44, ultimo comma,
della l. 28.02.1985 n. 47 (richiamato dalla legislazione
successiva), il quale prevede che, in pendenza del termine
per la presentazione di siffatte domande, tutti i
procedimenti sanzionatori in materia edilizia sono sospesi.
Ebbene, costituisce principio
consolidato che l’ordinanza di demolizione di opere abusive
emessa in pendenza del termine e, a maggior ragione, della
presentazione dell’istanza di condono si pone in contrasto
con l’art. 44, ultimo comma, della l. 28.02.1985 n. 47
(richiamato dalla legislazione successiva), il quale prevede
che, in pendenza del termine per la presentazione di
siffatte domande, tutti i procedimenti sanzionatori in
materia edilizia sono sospesi (in tal senso si veda C.d.S.,
sez. sez. IV, 25.08.2006, n. 4996; cfr. anche, da
ultimo, C.d.S., sez. IV, 26.03.2013, n. 1714)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 21.02.2014 n. 1139 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di opere abusive,
non può incidere sulla legittimità del provvedimento di
demolizione il mancato esame di un'istanza di accertamento
di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 presentata
successivamente i cui effetti l'amministrazione dovrà
autonomamente valutare.
La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione
non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di
un'istanza ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel
sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa
desumersi un tale effetto, sicché, se da un lato la
presentazione dell'istanza ex art. 36 determina
inevitabilmente un arresto provvisorio dell'efficacia
dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in
caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di
un'opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal
permesso di costruire, è conforme alla strumentazione
urbanistica vigente, dall'altro, occorre ritenere che
l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa,
cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea
quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di
accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà
privo di effetti in ragione dell'accertata conformità
dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia
al momento della presentazione della domanda, con
conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo
dell'opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di
demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola
precisazione che il termine concesso per l'esecuzione
spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in
cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza
dell'interessato, che non può rimanere pregiudicato
dall'avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di
chiedere l'accertamento di conformità urbanistica, e deve
pertanto poter fruire dell'intero termine a lui assegnato
per adeguarsi all'ordine, evitando così le conseguenze
negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso.
La proposizione di un'istanza di accertamento di conformità,
ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, in tempo
successivo all'emissione dell'ordinanza di demolizione,
incide, in definitiva, unicamente sulla possibilità
dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione,
ma non si riverbera sulla legittimità del precedente
provvedimento di demolizione.
--------------
Il silenzio dell’Amministrazione sulla richiesta di
concessione in sanatoria (ora sulla richiesta di permesso di
costruire in sanatoria) ha un valore legale tipico di
rigetto, vale a dire costituisce un’ipotesi di silenzio
significativo al quale vengono collegati gli effetti di un
provvedimento esplicito di diniego.
Anzitutto, mette conto evidenziare che «in tema
di opere abusive, non può incidere sulla legittimità del
provvedimento di demolizione il mancato esame di un'istanza
di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380 del
2001 presentata successivamente i cui effetti
l'amministrazione dovrà autonomamente valutare» (così,
C.d.S., Sez. IV, 19.02.2008, n. 849).
La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione
non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di
un'istanza ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel
sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa
desumersi un tale effetto, sicché, se da un lato la
presentazione dell'istanza ex art. 36 determina
inevitabilmente un arresto provvisorio dell'efficacia
dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in
caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di
un'opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal
permesso di costruire, è conforme alla strumentazione
urbanistica vigente, dall'altro, occorre ritenere che
l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa,
cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea
quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso
di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione
rimarrà privo di effetti in ragione dell'accertata
conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello
stesso sia al momento della presentazione della domanda, con
conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo
dell'opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto
dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua
efficacia, con la sola precisazione che il termine concesso
per l'esecuzione spontanea della demolizione deve decorrere
dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a
conoscenza dell'interessato, che non può rimanere
pregiudicato dall'avere esercitato una facoltà di legge,
quale quella di chiedere l'accertamento di conformità
urbanistica, e deve pertanto poter fruire dell'intero
termine a lui assegnato per adeguarsi all'ordine, evitando
così le conseguenze negative connesse alla mancata
esecuzione dello stesso.
La proposizione di un'istanza di accertamento di conformità,
ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, in tempo
successivo all'emissione dell'ordinanza di demolizione,
incide, in definitiva, unicamente sulla possibilità
dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione,
ma non si riverbera sulla legittimità del precedente
provvedimento di demolizione (cfr. TAR Napoli Campania
sez. VI, n. 5515 del 04.12.2013; TAR Campania, VI
Sezione, 24.09.2009 n. 5071).
---------------
Ed, invero,
mette conto evidenziare, in aderenza ad un diffuso
orientamento giurisprudenziale, più volte fatto proprio da
questo Tribunale, che il silenzio dell’Amministrazione sulla
richiesta di concessione in sanatoria (ora sulla richiesta
di permesso di costruire in sanatoria) ha un valore legale
tipico di rigetto, vale a dire costituisce un’ipotesi di
silenzio significativo al quale vengono collegati gli
effetti di un provvedimento esplicito di diniego (cfr., ex multis, Cons. Stato, sezione quarta,
06.06.2008, n. 2691,
03.04.2006, n. 1710 e 14.02.2006 n. 598; sezione
quinta, 11.02.2003, n. 706; Tar Campania-Napoli,
questa sesta sezione, sentenze 06.09.2010, n. 17306,
15.07.2010, n. 16805, 25.05.2010, n. 8779, 17.03.2008, n. 1364 e
07.09.2007, n. 7958; sezione settima,
24.06.2008, n. 6118 e 07.05.2008, n. 3501; sezione
ottava, 15.04.2010, n. 1981; Sezione staccata di
Salerno, sezione seconda, 04.04.2008, n. 478; Tar
Liguria, sezione prima, 24.06.2007, n. 1114; Tar
Lombardia, Milano, sezione seconda, 21.03.2006, n. 642;
Tar Piemonte-Torino, sezione prima, 08.03.2006, n. 1173;
Tar Sicilia-Catania, sezione prima, 17.10.2005, n.
1723).
Natura provvedimentale che non è smentita dalla
qualificazione operata dall'art. 43 della legge regionale
della Campania n. 16 del 2004 in ordine al silenzio serbato
dalle amministrazioni comunali (sulle ripetute domande di
accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n.
380/2001) che "non può riverberare sulla disciplina
processuale, di esclusiva competenza statale, posta per la
tutela giurisdizionale contro il silenzio della pubblica
amministrazione", fermo che "la previsione di cui
alla norma regionale si limita, di fatto, a prevedere e
disciplinare un rimedio alternativo, meramente
amministrativo (attivabile d'ufficio o a cura di parte),
avverso la mancata pronuncia delle amministrazioni comunali
sulle richieste di accertamento di conformità, senza con ciò
interferire sulla qualificazione giuridica del silenzio
impugnabile in sede giurisdizionale e sul relativo rito
azionabile" (cfr., in tali espliciti sensi, sempre
questa Sezione n. 8779 del 25.05.2010 e, per implicito,
Cons. Stato n. 598 del 2006 cit.) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 21.02.2014 n. 1134 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il parere dell’organo preposto alla tutela del
vincolo di cui alla Legge n. 47/1985, per le opere edilizie
abusive ricadenti su aree sottoposte a vincolo, è
obbligatorio e di natura “endoprocedimentale”, con effetti
sulla determinazione conclusiva del procedimento, di
spettanza dell’autorità adita.
E’ per questo che si ritiene necessario il successivo atto
che incide sulla sfera giuridica del richiedente, ossia “il
provvedimento concessorio o negatorio della sanatoria
richiesta”.
Ai sensi dell’art. 32 della Legge n.
47 del 28.02.1985, infatti, costituiscono atti
necessari non solo il parere dell’organo preposto alla
tutela del vincolo, ma anche i provvedimento conclusivo del
procedimento.
Sul punto consolidata è la giurisprudenza nel ritenere che
il parere dell’organo preposto alla tutela del vincolo di
cui alla Legge n. 47/1985, per le opere edilizie abusive
ricadenti su aree sottoposte a vincolo, sia obbligatorio e
di natura “endoprocedimentale”, con effetti sulla
determinazione conclusiva del procedimento, di spettanza
dell’autorità adita. E’ per questo che si ritiene necessario
il successivo atto che incide sulla sfera giuridica del
richiedente, ossia “il provvedimento concessorio o negatorio
della sanatoria richiesta” (Cfr. C. Stato, Sezione VI, n.
1248 del 24.09.1996; TAR Veneto, Sez. II, n. 933 del
08.07.2013; C. Stato, Sez. V, n. 794 del 16.02.2012)
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 19.02.2014 n. 272 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ciò che rileva ai fini
della qualificazione della roulotte come costruzione è la
destinazione impressale: qualora come nel caso in esame
–circostanza non affatto contestata dai ricorrenti con
riguardo agli allacci abusivi alle utenze di luce, gas e
acqua– funga da abitazione, occorre conseguire il permesso
di costruire per essere installata e mantenuta nell’area di
sedime.
Che, è bene sottolineare, è gravata altresì da vincolo
paesaggistico, con la conseguenza che alla violazione
edilizia s’aggiunge quella paesaggistica, la cui tutela
impone, ai sensi dell’art. 167 d.lgs. 42 del 2004, la
sanzione ripristinatoria della demolizione.
... per l'annullamento ordinanza n. 20/2012 di rimozione
roulotte utilizzata a fini abitativi.
...
È impugnata l’ordinanza di demolizione avente ad oggetto la
roulotte stabilmente istallata dai ricorrenti nel terreno di
proprietà adibita ad abitazione permanente.
Le censure di natura sostanziale ripropongono le medesime
questioni già affrontate e risolte dalla giurisprudenza
amministrativa in tema di consistenza edilizia delle
roulotte, adibite ad abitazione, e della loro conseguente
ascrizione alla costruzione, quale intervento edilizio
assoggettato al permesso di costruire.
Questione che, come più volte rilevato da questo Tribunale
con orientamento univoco cui va data continuità, è stata
espressamente risolta dal testo unico dell’edilizia laddove
all’art. 3, comma 1, lett. e), n. 5, ha qualificato come nuova
costruzione “l’installazione di manufatti leggeri, anche
prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, cose mobili, imbarcazioni, che siano
utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini o simili, e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee”.
La legge regionale ha fatto propria la disciplina statale
prevedendo, all’art. 45, comma 1, l.r. 16/2008, in caso di
assenza del titolo legittimante l’intervento edilizio, la
demolizione del manufatto.
In definitiva ciò che rileva ai fini della qualificazione
della roulotte come costruzione è la destinazione impressale
(cfr., fra le tante, Cons. St., sez. V, 27.04.2012 n.
2450): qualora come nel caso in esame –circostanza non
affatto contestata dai ricorrenti con riguardo agli allacci
abusivi alle utenze di luce, gas e acqua– funga da
abitazione, occorre conseguire il permesso di costruire per
essere installata e mantenuta nell’area di sedime.
Che, è bene sottolineare, è gravata altresì da vincolo
paesaggistico, con la conseguenza che alla violazione
edilizia s’aggiunge quella paesaggistica, la cui tutela
impone, ai sensi dell’art. 167 d.lgs. 42 del 2004, la
sanzione ripristinatoria della demolizione.
Sicché anche le censure che deducono il difetto di
motivazione, in considerazione della natura vincolata
dell’atto impugnato, sono infondate.
Conclusivamente il ricorso deve essere respinto
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 18.02.2014 n. 281 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla scelta del criterio più idoneo per
l'aggiudicazione di un appalto.
La scelta del criterio più idoneo per l'aggiudicazione di un
appalto costituisce espressione tipica della discrezionalità
amministrativa e, in quanto tale, è sottratta al sindacato
del giudice amministrativo, tranne che, in relazione alla
natura ed all'oggetto del contratto, non sia manifestamente
illogica o basata su travisamento di fatti.
Le stazioni appaltanti, in sostanza, scelgono tra i due
criteri (criterio del prezzo più basso o il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa) quello più
adeguato in relazione alle caratteristiche dell'oggetto del
contratto in quanto la specificazione del tipo di
prestazione richiesta e delle sue caratteristiche peculiari
consente di determinare correttamente ed efficacemente il
criterio più idoneo all'individuazione della migliore
offerta.
Va da sé che il criterio del prezzo più basso, in cui assume
rilievo la sola componente prezzo, può presentarsi adeguato
esclusivamente quando l'oggetto del contratto abbia
connotati di ordinarietà e sia caratterizzato da elevata
standardizzazione in relazione alla diffusa presenza sul
mercato di operatori in grado di offrire in condizioni
analoghe il prodotto richiesto, mentre nelle altre
fattispecie è arduo ipotizzare che un sia pur minimo rilievo
agli aspetti qualitativi della prestazione offerta sia
indifferente per la scelta del contraente (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-ter,
sentenza 17.02.2014 n. 1871 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L'annullamento
in sede giurisdizionale di un atto amministrativo, per vizi
formali, non impedisce all'Amministrazione di procedere alla
rinnovazione del provvedimento giudicato illegittimo.
La facoltà di rinnovazione il procedimento annullato
emendato dal vizio riscontrato concerne le sole fasi
viziate, in quanto si deve conciliare da un lato l'esigenza
di ripristinare la legalità amministrativa e dall’altro il
rispetto dei principi di conservazione degli atti giuridici,
di economicità e di divieto di aggravamento del
procedimento.
La Sezione ha più volte modo di annotare che,
sul piano procedimentale, l'annullamento in sede
giurisdizionale di un atto amministrativo, per vizi formali,
non impedisce all'Amministrazione di procedere alla
rinnovazione del provvedimento giudicato illegittimo.
La
facoltà di rinnovazione il procedimento annullato emendato
dal vizio riscontrato concerne le sole fasi viziate, in
quanto si deve conciliare da un lato l'esigenza di
ripristinare la legalità amministrativa e dall’altro il
rispetto dei principi di conservazione degli atti giuridici,
di economicità e di divieto di aggravamento del procedimento
(cfr. infra multa; Consiglio di Stato sez. IV 01/07/2013 n.
3542; Consiglio di Stato sez. IV 15/02/2013 n. 915)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.02.2014 n. 748 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sull'inesistenza dell'obbligo di dichiarare, ai
sensi dell'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, le pronunce di
condanna per cui è intervenuta la riabilitazione o
l'estinzione del reato.
Ai sensi dell'art. 38, c. 1, lett. c), del d.lgs. n.
163/2006, non sussiste l'obbligo di dichiarare le pronunce
di condanna per cui è intervenuta la riabilitazione o
l'estinzione del reato. Pertanto, nel caso di specie, deve
essere esclusa la legittimità della previsione della "lex
specialis" di dichiarare anche le sentenze di condanna
per le quali sia intervenuta la riabilitazione, in quanto
ingiustificatamente gravatoria (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.02.2014 n. 736 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nella
fattispecie, trattasi di un residuo di manufatto,
completamente diruto,
fondamentalmente costituito da segmenti del muro perimetrale
nemmeno idonei al riconoscimento dell’originaria area di
sedime.
Orbene, stante l’inesistenza di un fabbricato su cui
intervenire, appaiono del tutto non condivisibili le
affermazioni del primo giudice sulla possibilità della
ristrutturazione, in quanto tale intervento è espressamente
consentito, anche nella forma della ricostruzione previa
demolizione, in presenza di un edificio esistente,
circostanza qui non assodata, anzi esclusa dalle prove.
Non solo, l’inesistenza di un edificio su cui intervenire
esclude parimenti la possibilità di una realizzazione di
parcheggi ex legge 122 del 1990, visto che la legge
ricollega tale facoltà ai soli manufatti esistenti, anzi
impone uno stretto vincolo di pertinenzialità, non
concepibile in assenza dell’opera principale (da ultimo,
Consiglio di Stato, n. 3672/2013, che rimarca come l'art. 9
della legge 24.03.1989 n. 122, nella parte in cui assoggetta
la realizzazione di parcheggi ad autorizzazione gratuita e
non a concessione, costituisce norma eccezionale che,
derogando agli strumenti urbanistici e ai regolamenti
edilizi vigenti, deve intendersi riferita al parcheggio
realizzato nello stesso fabbricato ove sono situate le unità
immobiliari di cui il parcheggio costituisce pertinenza).
L’aspetto centrale della vicenda, come d’altronde avviene
spesso in tutte le questioni riguardanti l’edilizia, attiene
all’esatta individuazione della categoria di opera, in
relazione alla fondamentale distinzione tra interventi di
nuova costruzione e interventi sul patrimonio esistente.
Peraltro, tale dato di fatto è tutt’altro che pacifico tra
le parti, atteso che per gli appellati si tratta di un
fabbricato storico oggetto di dichiarazione di interesse
particolarmente importante, specificamente riconoscibile
nella sua sussistenza storica, mentre l’amministrazione lo
qualifica come rudere. Si tratta quindi di un accertamento
in fatto, peraltro di natura estremamente semplice, che non
può sfuggire alla cognizione del giudice.
Orbene, nella disamina degli atti, emerge come la difesa del
Comune de L’aquila abbia depositato un fascicolo
fotografico, da cui si ritrae una rappresentazione visiva,
immediata e lineare dell’aspetto dell’immobile. Si tratta di
un residuo di manufatto, completamente diruto,
fondamentalmente costituito da segmenti del muro perimetrale
nemmeno idonei al riconoscimento dell’originaria area di
sedime.
La prova fotografica fornita, lampante tanto da essere
ovvia, impone alla Sezione di ritenere del tutto infondata
la ricostruzione proposta dagli appellati, aderendo
pienamente alla qualificazione data dal Comune all’edificio.
Chiarite le coordinate fattuali, la disciplina
giuridica è immediatamente conseguente.
In primo luogo, stante l’inesistenza di un fabbricato su cui
intervenire, appaiono del tutto non condivisibili le
affermazioni del primo giudice (che peraltro si è basato
sulle argomentazioni degli originari ricorrenti “da
intendersi qui per riportate e trascritte”) sulla
possibilità della ristrutturazione, in quanto tale
intervento è espressamente consentito, anche nella forma
della ricostruzione previa demolizione, in presenza di un
edificio esistente, circostanza qui non assodata, anzi
esclusa dalle prove. Pertanto, va confermata la presenza dei
presupposti legittimanti l’atto di annullamento adottato dal
Comune di L’Aquila in ordine alla D.I.A. (prot. 984 in data
11.08.2005) relativa ai lavori di ristrutturazione
dell’immobile in questione.
In secondo luogo, l’inesistenza di un edificio su cui
intervenire esclude parimenti la possibilità di una
realizzazione di parcheggi ex lege 122 del 1990, visto che
la legge ricollega tale facoltà ai soli manufatti esistenti,
anzi impone uno stretto vincolo di pertinenzialità, non
concepibile in assenza dell’opera principale (da ultimo,
Consiglio di Stato, sez. IV, 10.07.2013 n. 3672, che
rimarca come l'art. 9 della legge 24.03.1989 n. 122, nella
parte in cui assoggetta la realizzazione di parcheggi ad
autorizzazione gratuita e non a concessione, costituisce
norma eccezionale che, derogando agli strumenti urbanistici
e ai regolamenti edilizi vigenti, deve intendersi riferita
al parcheggio realizzato nello stesso fabbricato ove sono
situate le unità immobiliari di cui il parcheggio
costituisce pertinenza) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.02.2014 n. 735 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'annullamento
d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto
dell'interessato (come nel caso in esame, dove è palese
l’erronea allegazione dell’effettiva natura dell’immobile
oggetto dei lavori) non necessita di un'espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo
nell'interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica e in considerazione che le
affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso
del tempo sono tutte imperniate sulla tutela
dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non
sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti
proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato.
In relazione,
poi, all’esistenza di un obbligo di particolare motivazione,
derivante dalla circostanza che fossero trascorsi oltre due
anni dal momento della presentazione della D.I.A., occorre
ricordare come sia del tutto pacifico nella giurisprudenza
di questo Consiglio l’affermazione che l'annullamento
d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto
dell'interessato (come nel caso in esame, dove è palese
l’erronea allegazione dell’effettiva natura dell’immobile
oggetto dei lavori) non necessita di un'espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo
nell'interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, sez.
V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le affermazioni
miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono
tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato
(si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una situazione qui non sussistente,
stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al
Comune, dovuto proprio a fatto del privato (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.02.2014 n. 735 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento,
prevista dall’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241, non
conduce all’annullabilità del provvedimento, trattandosi di
un inadempimento meramente formale rispetto a un atto di
natura vincolata, il cui contenuto non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
A tale riguardo, il Collegio non può qui non ribadire quanto
più volte precisato da questo Consiglio di Stato e cioè che
nei procedimenti preordinati all'emanazione di ordinanze di
demolizione di opere edili abusive non trova applicazione
l'obbligo di comunicare l'avvio dell'iter procedimentale in
ragione della natura vincolata del potere repressivo
esercitato, che rende di per sé inconfigurabile un qualunque
apporto partecipativo del privato.
In questo senso va così intesa la ricorrente affermazione
del medesimo Consiglio di Stato, secondo cui le norme sulla
partecipazione del privato al procedimento amministrativo
non vanno applicate meccanicamente e formalmente.
---------------
E' principio consolidato che la demolizione degli abusi
edilizi non richieda nessuna specifica motivazione,
necessaria invece in casi di contrarie determinazioni.
L'ordine di demolizione di opera edilizia abusiva è
sufficientemente motivato, cioè, con l'affermazione
dell’accertata abusività del manufatto.
Resta soltanto salva -per taluni orientamenti
giurisprudenziali, comunque di frequente contestati-
l'ipotesi in cui, per il lungo intervallo di tempo trascorso
dalla commissione dell'abuso e il protrarsi della inerzia
dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia
ingenerata una posizione di affidamento nel privato. E’
questa la sola vicenda in cui potrebbe essere lecito
ravvisare un onere di congrua motivazione che, avuto
riguardo anche alla entità e alla tipologia dell'abuso,
indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso e
ulteriore rispetto a quello al ripristino della legalità,
idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato.
Sennonché, premesso che l’orientamento da ultimo richiamato
non convince il Collegio, che preferisce l’indirizzo
dominante sull’inesistenza di un obbligo di motivazione
“ulteriore”, nella specie, la circostanza –messa bene in
rilievo dal TAR– che l’opera incida su un’area geografica
notoriamente di pregio paesaggistico-ambientale e come tale
vincolata fa ritenere che sia l'entità e la tipologia
dell'abuso, sia l’intervallo di tempo fra l’accertamento e
l’irrogazione della sanzione non siano in alcun modo idonei
a sovvertire il richiamato principio della prevalenza del
pubblico interesse alla rimozione dell’illecito.
Pertanto, se la tardività dell’ordine di demolizione
rispetto all’accertamento dell’illecito va apprezzata
negativamente sotto l’indice della buona amministrazione
(come già ha rilevato il Tribunale regionale, del tutto a
ragione), essa non incide affatto sulla piena legittimità
del provvedimento impugnato.
La mancata comunicazione dell’avviso
di avvio del procedimento, prevista dall’art. 7 della legge
07.08.1990, n. 241, non conduce all’annullabilità del
provvedimento, trattandosi di un inadempimento meramente
formale rispetto a un atto di natura vincolata, il cui
contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato (cfr. art. 21-octies, comma 2, della
citata legge n. 241 del 1990, che -sebbene inserito
dall'articolo 14, comma 1, della legge 11.02.2005, n.
15- il Collegio ritiene comunque applicabile alla vicenda,
per trattarsi di una disposizione ricognitiva di una regola
già esistente e non innovativa).
A tale riguardo, il Collegio non può qui non ribadire quanto
più volte precisato da questo Consiglio di Stato (cfr., per
tutte, Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2008, n. 4659;
Id., sez. IV, 04.02.2013, n. 666; Id., sez. IV, 25.06.2013, n. 3471) e cioè che nei procedimenti
preordinati all'emanazione di ordinanze di demolizione di
opere edili abusive non trova applicazione l'obbligo di
comunicare l'avvio dell'iter procedimentale in ragione della
natura vincolata del potere repressivo esercitato, che rende
di per sé inconfigurabile un qualunque apporto partecipativo
del privato. In questo senso va così intesa la ricorrente
affermazione del medesimo Consiglio di Stato, secondo cui le
norme sulla partecipazione del privato al procedimento
amministrativo non vanno applicate meccanicamente e
formalmente (così testualmente da ultimo, anche sez. IV, 17.09.2012, n. 4925; sez. IV,
04.06.2013, n. 3072,
proprio con riguardo all’ipotesi del provvedimento
vincolato).
---------------
Non è
destinato a miglior sorte, infine, il punto relativo al
preteso difetto di motivazione, che deriverebbe dall’essere
l’ordine di demolizione intervenuto, senza adeguata
considerazione dell’interesse pubblico, per un manufatto che
si assume provvisorio e contestato dall’Amministrazione ben
sei anni prima dell’adozione del provvedimento impugnato.
Al contrario, è principio consolidato che la demolizione
degli abusi edilizi non richieda nessuna specifica
motivazione, necessaria invece in casi di contrarie
determinazioni. L'ordine di demolizione di opera edilizia
abusiva è sufficientemente motivato, cioè, con
l'affermazione dell’accertata abusività del manufatto.
Resta soltanto salva -per taluni orientamenti
giurisprudenziali, comunque di frequente contestati-
l'ipotesi in cui, per il lungo intervallo di tempo trascorso
dalla commissione dell'abuso e il protrarsi della inerzia
dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia
ingenerata una posizione di affidamento nel privato. E’
questa la sola vicenda in cui potrebbe essere lecito
ravvisare un onere di congrua motivazione che, avuto
riguardo anche alla entità e alla tipologia dell'abuso,
indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso e
ulteriore rispetto a quello al ripristino della legalità,
idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato (per tutti, Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2705).
Sennonché, premesso che l’orientamento da ultimo richiamato
non convince il Collegio, che preferisce l’indirizzo
dominante sull’inesistenza di un obbligo di motivazione
“ulteriore”, nella specie, la circostanza –messa bene in
rilievo dal TAR– che l’opera incida su un’area
geografica notoriamente di pregio paesaggistico-ambientale
e come tale vincolata fa ritenere che sia l'entità e la
tipologia dell'abuso, sia l’intervallo di tempo fra
l’accertamento e l’irrogazione della sanzione non siano in
alcun modo idonei a sovvertire il richiamato principio della
prevalenza del pubblico interesse alla rimozione
dell’illecito (cfr., in termini, Cons. Stato, sez. IV, 12.04.2011, n. 2266; Id., sez. IV, n. 3471 del 2013, cit.).
Pertanto, se la tardività dell’ordine di demolizione
rispetto all’accertamento dell’illecito va apprezzata
negativamente sotto l’indice della buona amministrazione
(come già ha rilevato il Tribunale regionale, del tutto a
ragione), essa non incide affatto sulla piena legittimità
del provvedimento impugnato.
In definitiva, come anticipato, l’appello non ha pregio e va
dunque respinto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.02.2014 n. 734 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'applicazione
della sanzione pecuniaria di cui all'art. 3, comma 2, lett.
a), L. n. 47/1985, nel caso di ritardato pagamento degli
oneri di urbanizzazione, non deve essere preceduta dalla
comunicazione di avvio del relativo procedimento,
trattandosi dell'applicazione ex lege di una sanzione
pecuniaria connessa al ritardato pagamento del contributo
dovuto per il rilascio di una concessione edilizia.
--------------
Ai fini dell’insorgenza dell’obbligo di pagamento di una
sanzione pecuniaria (e, più in generale, di una somma di
denaro della quale si è debitori nei confronti della P.A.,
quali i contributi concessori dovuti), non è necessaria la
previa notificazione della sentenza che conclude il giudizio
in cui si controverte della legittimità degli atti relativi
alla determinazione delle obbligazioni del privato.
Infatti, in tale giudizio è l’atto amministrativo, assistito
da presunzione di legittimità, ad essere oggetto di
impugnazione, con la conseguenza che il giudizio che si
conclude con la reiezione del ricorso proposto avverso tale
atto (la cui efficacia è stata eventualmente sospesa in
corso di causa con l’adozione di misure cautelari),
costituisce presupposto per la piena riespansione
dell’efficacia dell’atto, oltre che di esclusione (nei
limiti dei motivi di impugnazione proposti e rigettati) di
profili di illegittimità del medesimo.
In definitiva, l’obbligo di pagamento previsto ex lege,
consegue alla emanazione e notificazione dell’atto di
determinazione del contributo (e la somma dovuta a titolo di
sanzione pecuniaria all’inutile decorso del termine previsto
per detto pagamento), non già alla conclusione del giudizio
di impugnazione di detto atto. Ciò rende, dunque, del tutto
irrilevante la intervenuta (o meno) conoscenza della
sentenza (peraltro passata in giudicato per decorso del
termine annuale, al momento di emanazione dell’atto di
irrogazione della sanzione), né tali aspetti determinano un
particolare obbligo di invio di comunicazione di avvio del
procedimento sanzionatorio.
---------------
In materia di obbligazioni pecuniarie, il creditore è
soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità
del fideiussore, senza che possa invece ritenersi tenuto ad
escutere il coobbligato piuttosto che attendere il
pagamento, ancorché tardivo (salva l'esistenza di apposita
clausola in tal senso).
Ne consegue che legittimamente l’amministrazione,
nell'applicare la sanzione prevista dall'art. 3, comma 2,
lett. a), L. n. 47/1985, per ritardato pagamento degli oneri
di urbanizzazione, non ha proceduto, prima dell'applicazione
delle sanzioni, alla preventiva richiesta alla banca
garante, obbligatasi a pagare quanto dovuto dietro semplice
richiesta scritta.
... per la riforma della sentenza del TAR LOMBARDIA-MILANO: SEZIONE II n. 1006/2005, resa tra le parti,
concernente sanzione amministrativa per tardivo versamento
oneri concess. per opere edilizie
...
L’appello del Comune di Milano è fondato e deve essere,
pertanto, accolto, con conseguente riforma della sentenza
impugnata.
Come riportato nella esposizione in fatto, il primo giudice
ha accolto il ricorso proposto avverso l’atto di irrogazione
di sanzione amministrativa pecuniaria per un triplice ordine
di ragioni:
- in primo luogo, perché il Comune, emettendo due atti nei
confronti del medesimo destinatario, avrebbe indotto
comunque quest’ultimo in errore, palesando una evidente
contraddittorietà dell’agire amministrativo;
- in secondo luogo, perché il Comune avrebbe dovuto rendere
partecipe il privato dell’avvio del procedimento di
determinazione ed irrogazione della sanzione ex art. 3 l. n.
47/1985, e ciò a maggior ragione perché ciò avveniva
all’esito di un annoso giudizio e il Comune non aveva
provveduto alla notifica della sentenza di definizione del
medesimo;
- in terzo luogo, perché il Comune avrebbe dovuto attivarsi
per tempo a richiedere al garante il pagamento delle somme
dovute per effetto della garanzia prestata con polizza
fideiussoria.
Questo Consiglio di Stato, sia pure nei limiti di
delibazione propri della fase cautelare, ha già avuto modo
di esaminare, in senso sostanzialmente negativo quanto alla
loro fondatezza, i motivi di ricorso proposti in I grado,
con ordinanza 29.07.2003 n. 3179.
L’art. 3 l. n. 47/1985 (successivamente abrogato
dall’art. 136 d.lgs. n. 376/2001), prevede, con riguardo al
“ritardato od omesso versamento del contributo afferente
alla concessione”:
“Le regioni determinano le sanzioni per il ritardato o
mancato versamento del contributo di concessione in misura
non inferiore a quanto previsto nel presente articolo e non
superiore al doppio.
Il mancato versamento, nei termini di legge, del contributo
di concessione di cui agli articoli 3, 5, 6 e 10, L. 28.01.1977, n. 10, comporta:
a) l'aumento del contributo in misura pari al 20 per cento
qualora il versamento del contributo sia effettuato nei
successivi centoventi giorni;
b) l'aumento del contributo in misura pari al 50 per cento
quando, superato il termine di cui alla lettera a), il
ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni;
c) l'aumento del contributo in misura pari al 100 per cento
quando, superato il termine di cui alla lettera b), il
ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni.
Le misure di cui alle lettere precedenti non si cumulano.
Nel caso di pagamento rateizzato le norme di cui al secondo
comma si applicano ai ritardi nei pagamenti delle singole
rate.
Decorso inutilmente il termine di cui alla lettera c) del
secondo comma il comune provvede alla riscossione coattiva
del complessivo credito nei modi previsti dall'art. 16 della
presente legge.
Fino all'entrata in vigore delle leggi regionali che
determineranno la misura delle sanzioni di cui al presente
articolo, queste saranno applicate nelle misure indicate nel
secondo comma”.
L’ipotesi di cui al secondo comma, lett. c) è quella che
ricorre, alla luce dell’atto impugnato, nel caso di specie.
La giurisprudenza amministrativa, che questo Collegio
ritiene di condividere –peraltro richiamata anche nella
sentenza impugnata– afferma che l'applicazione della
sanzione pecuniaria di cui all'art. 3, comma 2, lett. a), L.
n. 47/1985, nel caso di ritardato pagamento degli oneri di
urbanizzazione, non deve essere preceduta dalla
comunicazione di avvio del relativo procedimento,
trattandosi dell'applicazione ex lege di una sanzione
pecuniaria connessa al ritardato pagamento del contributo
dovuto per il rilascio di una concessione edilizia (Cons.
Stato, sez. V, 16.07.2007 n. 4025).
Nel caso di specie, non rileva, al fine di giungere a
conclusioni contrarie, né che la applicazione della sanzione
pecuniaria intervenga all’esito di un annoso giudizio, né
che il Comune non abbia provveduto a notificare la sentenza
di definizione del citato giudizio.
Ed infatti, per un verso –come osservato dal Comune di
Milano– “l’obbligo di pagamento degli oneri concessori
entro i termini di legge era noto alla società ricorrente
fin dal 1993”, posto che proprio gli atti con i quali era
stato ingiunto il pagamento avevano formato oggetto di
impugnazione; per altro verso, la società appellata era
costituita nel giudizio conclusosi con la sentenza non
notificata dal Comune di Milano.
Per altro verso ancora, e conclusivamente, occorre affermare
che, ai fini dell’insorgenza dell’obbligo di pagamento di
una sanzione pecuniaria (e, più in generale, di una somma di
denaro della quale si è debitori nei confronti della P.A.,
quali i contributi concessori dovuti), non è necessaria la
previa notificazione della sentenza che conclude il giudizio
in cui si controverte della legittimità degli atti relativi
alla determinazione delle obbligazioni del privato.
Infatti, in tale giudizio è l’atto amministrativo, assistito
da presunzione di legittimità, ad essere oggetto di
impugnazione, con la conseguenza che il giudizio che si
conclude con la reiezione del ricorso proposto avverso tale
atto (la cui efficacia è stata eventualmente sospesa in
corso di causa con l’adozione di misure cautelari),
costituisce presupposto per la piena riespansione
dell’efficacia dell’atto, oltre che di esclusione (nei
limiti dei motivi di impugnazione proposti e rigettati) di
profili di illegittimità del medesimo.
In definitiva, l’obbligo di pagamento previsto ex lege,
consegue alla emanazione e notificazione dell’atto di
determinazione del contributo (e la somma dovuta a titolo di
sanzione pecuniaria all’inutile decorso del termine previsto
per detto pagamento), non già alla conclusione del giudizio
di impugnazione di detto atto. Ciò rende, dunque, del tutto
irrilevante la intervenuta (o meno) conoscenza della
sentenza (peraltro passata in giudicato per decorso del
termine annuale, al momento di emanazione dell’atto di
irrogazione della sanzione), né tali aspetti determinano un
particolare obbligo di invio di comunicazione di avvio del
procedimento sanzionatorio.
Da quanto esposto, consegue l’accoglimento del secondo
motivo di appello (sub b) dell’esposizione in fatto).
---------------
Altrettanto fondato è il terzo motivo di appello (sub c)
dell’esposizione in fatto), con il quale si censura la
statuizione secondo la quale il Comune avrebbe dovuto
attivarsi per tempo a richiedere al garante il pagamento
delle somme dovute per effetto della garanzia prestata con
polizza fideiussoria.
La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato –cui il
Collegio ritiene di aderire– ha già avuto modo di affermare
che, in materia di obbligazioni pecuniarie, il creditore è
soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità
del fideiussore, senza che possa invece ritenersi tenuto ad
escutere il coobbligato piuttosto che attendere il
pagamento, ancorché tardivo (salva l'esistenza di apposita
clausola in tal senso). Ne consegue che legittimamente
l’amministrazione, nell'applicare la sanzione prevista
dall'art. 3, comma 2, lett. a), L. n. 47/1985, per ritardato
pagamento degli oneri di urbanizzazione, non ha proceduto,
prima dell'applicazione delle sanzioni, alla preventiva
richiesta alla banca garante, obbligatasi a pagare quanto
dovuto dietro semplice richiesta scritta (Cons. Stato, sez. V,
16.07.2007 n. 4025; sez. IV, 10.08.2007 n. 4419).
D’altra parte, nel caso di specie si tratta di garanzia
fideiussoria prestata in corso di giudizio a seguito di
provvedimento cautelare del giudice, non già di fideiussione
prestata ante causam a garanzia dell’adempimento della
propria obbligazione pecuniaria.
Per tutte le ragioni sin qui esposte –escludendosi la
necessità/opportunità di disporre la richiesta rimessione
della causa all’Adunanza Plenaria– l’appello deve essere
accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata e
rigetto del ricorso instaurativo del giudizio di I grado
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.02.2014 n. 731 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'onere di immediata impugnazione del bando di
concorso è circoscritto al caso della contestazione di
clausole escludenti, riguardanti requisiti di partecipazione
che siano ex se ostative all'ammissione dell'interessato
ovvero, al più, impositive, ai fini della partecipazione, di
oneri manifestamente incomprensibili o del tutto
sproporzionati per eccesso, rispetto ai contenuti della
procedura concorsuale o che comportino l'impossibilità, per
l'interessato, di accedere alla procedura e il conseguente
arresto procedimentale.
Infatti, i bandi di gara, di concorso e le lettere di invito
vanno di regola impugnati unitamente agli atti che di essi
fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi ad
identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento
e a rendere attuale e concreta la lesione della situazione
soggettiva dell'interessato. Ogni diversa questione
riguardante l'illegittimità della procedura di gara può e
deve essere proposta unitamente agli atti che facciano
diretta applicazione delle clausole dimostratesi lesive
(provvedimento di esclusione o dell'aggiudicazione del
contratto o di altro provvedimento che segni comunque, per
l'interessato, un arresto procedimentale), rendendo attuale
e concreta la lesione della situazione soggettiva
dell'interessato.
L’eccezione non merita accoglimento.
La giurisprudenza amministrativa ha da tempo chiarito (Cfr.
Cons. stato, Ad. Plen., 29.01.2003, n. 1) che l'onere
di immediata impugnazione del bando di concorso è
circoscritto al caso della contestazione di clausole
escludenti, riguardanti requisiti di partecipazione che
siano ex se ostative all'ammissione dell'interessato ovvero,
al più, impositive, ai fini della partecipazione, di oneri
manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati
per eccesso, rispetto ai contenuti della procedura
concorsuale o che comportino l'impossibilità, per
l'interessato, di accedere alla procedura e il conseguente
arresto procedimentale (ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 21.11.2011, n. 6135).
Infatti, i bandi di gara, di concorso e le lettere di invito
vanno di regola impugnati unitamente agli atti che di essi
fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi ad
identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento
e a rendere attuale e concreta la lesione della situazione
soggettiva dell'interessato. Ogni diversa questione
riguardante l'illegittimità della procedura di gara può e
deve essere proposta unitamente agli atti che facciano
diretta applicazione delle clausole dimostratesi lesive
(provvedimento di esclusione o dell'aggiudicazione del
contratto o di altro provvedimento che segni comunque, per
l'interessato, un arresto procedimentale), rendendo attuale
e concreta la lesione della situazione soggettiva
dell'interessato (cfr. TAR Molise, 05.02.2013, n. 36).
Nel caso di specie, la clausola di cui all’art. I.10, comma
3.b dell’avviso non rientrava tra quelle dettate in materia
di requisiti di partecipazione, né imponeva obblighi
sproporzionati o incomprensibili, limitandosi a dettare una
regola di natura meramente operativa relativa alle modalità
concrete di presentazione della domanda di ammissione.
Tale clausola ha assunto efficacia lesiva dell’interesse
della ricorrente solo allorquando è stata concretamente
applicata all’offerta della ricorrente, determinandone
l’esclusione per violazione dell’adempimento contestato.
Ne deriva che la clausola doveva essere impugnata unitamente
al provvedimento attuativo, come puntualmente ed
espressamente fatto dalla ricorrente
(TAR Molise,
sentenza 17.02.2014 n. 119 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittima l'ordinanza di demolizione
di un modesto box, realizzato da oltre 20 anni, in
considerazione delle modestissime dimensioni del manufatto
(circa 12 mq), realizzato nel giardino posteriore in
estensione dell’antistante bar pizzeria di appena 35 mq.,
del lungo lasso di tempo intercorso dalla sua realizzazione,
dell’inerzia serbata dal Comune in questo lungo arco di
tempo, della conseguente necessità di valutare l’affidamento
in tal modo ingeneratosi in conseguenza di tale situazione
di fatto protrattasi nel tempo e, quindi, di motivare in
ordine alla sussistenza di ragioni di interesse pubblico
prevalenti.
Invero, il comune avrebbe dovuto farsi carico di mettere in
comparazione la necessità di tutela dell’affidamento privato
con la necessità di sanzionare l’abuso, motivando
congruamente l’esito del giudizio e ciò anche con specifico
riferimento alla necessità di rispettare il principio di
proporzionalità, tenuto conto che, come emerso in sede di
sopralluogo, il box in questione è destinato a laboratorio
cucina sicché la sua demolizione avrebbe l’effetto di
impedire la prosecuzione della stessa attività di bar
pizzeria, in una condizione in cui la modestissima entità
del manufatto non appare idonea a pregiudicare l’interesse
pubblico all’ordinato assetto del territorio, in area
peraltro classificata “C-Completamento”, tanto più che lo
stesso è stato realizzato su giardino privato, nella parte
posteriore ed in aderenza al fabbricato dove ha sede
l’attività di ristorazione, con un modestissimo impatto
visivo.
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 167 prot. n. 2473
del 3.10.08 con la quale il Dirigente dell'Area n. 4 -
Urbanistica del Comune di Campobasso ha ordinato alla
ricorrente la rimozione di una presunta opera abusiva ed il
ripristino dello stato dei luoghi entro 90 gg.; della
comunicazione di avvio del procedimento prot. n. 20770 del
05.08.2008; della relazione tecnica prot. n. 20024 del 25.07.2008
e relativi allegati; di ogni ulteriore atto prodromico o
consequenziale;
...
Il ricorso è fondato.
Merita, in particolare, di essere condiviso il secondo
motivo di censura con il quale la ricorrente si duole della
mancata considerazione delle modestissime dimensioni del
manufatto (circa 12 mq), realizzato nel giardino posteriore
in estensione dell’antistante bar pizzeria di appena 35 mq,
del lungo lasso di tempo intercorso dalla sua realizzazione,
dell’inerzia serbata dal Comune in questo lungo arco di
tempo, della conseguente necessità di valutare l’affidamento
in tal modo ingeneratosi in conseguenza di tale situazione
di fatto protrattasi nel tempo e, quindi, di motivare in
ordine alla sussistenza di ragioni di interesse pubblico
prevalenti.
Sebbene in via generale le sanzioni in materia edilizia
siano configurate dal legislatore come atti vincolati e
sebbene nel caso di specie, la pacifica realizzazione di un
incremento di volume, seppur modesto (36,75, mc), avrebbe
reso necessario il preventivo rilascio del permesso di
costruire, il collegio reputa di dover valorizzare le
peculiarità della fattispecie concreta, come evidenziate nel
secondo motivo di ricorso, con particolare riferimento alla
necessità di tutelare il legittimo affidamento ingeneratosi
nella ricorrente in conseguenza del lungo lasso di tempo
intercorso dalla realizzazione del box senza che il Comune
di Campobasso abbia ritenuto di intervenire.
La circostanza per cui l’abuso sarebbe stato realizzato sin
dal 1984-1985 non ha infatti trovato smentita nella memoria
di costituzione del Comune di Campobasso sicché appare
plausibile che in sede di sopralluogo vi sia stato un
travisamento di quanto riferito dall’interessata in ordine
alla data di costruzione del box, erroneamente indicata nel
1994-1995.
Ne discende che, in presenza di un modesto box, realizzato
da oltre 20 anni, il Comune di Campobasso avrebbe dovuto
farsi carico di mettere in comparazione la necessità di
tutela dell’affidamento privato con la necessità di
sanzionare l’abuso, motivando congruamente l’esito del
giudizio e ciò anche con specifico riferimento alla
necessità di rispettare il principio di proporzionalità,
tenuto conto che, come emerso in sede di sopralluogo, il box
in questione è destinato a laboratorio cucina sicché la sua
demolizione avrebbe l’effetto di impedire la prosecuzione
della stessa attività di bar pizzeria (come argomentato
dalla ricorrente in sede di richiesta della misura
cautelare), in una condizione in cui la modestissima entità
del manufatto non appare idonea a pregiudicare l’interesse
pubblico all’ordinato assetto del territorio, in area
peraltro classificata “C-Completamento”, tanto più che lo
stesso è stato realizzato su giardino privato, nella parte
posteriore ed in aderenza al fabbricato dove ha sede
l’attività di ristorazione, con un modestissimo impatto
visivo (cfr. doc. fotografica allegata al verbale del
29.04.2008).
Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso
deve, pertanto, essere accolto con conseguente annullamento
dell’ordinanza di demolizione impugnata
(TAR Molise,
sentenza 17.02.2014 n. 114 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Ai sensi degli artt. 13 e 18 della L. 08.07.1986,
n. 349, che attribuiscono alle associazioni ambientalistiche
riconosciute, in via generale, la legittimazione processuale
per la tutela degli interessi di cui le stesse risultano
portatrici, sussiste sempre la legittimazione ad agire in
capo a un organismo associativo con finalità
ambientalistiche avverso provvedimento lesivi degli
interessi diffusi o collettivi, perseguiti e protetti, tra i
quali rientra quello a un corretto rapporto con gli animali
in genere e con gli addomesticati in particolare.
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 19 datata 09.07.2012
emessa dal Sindaco del Comune di Cerro al Volturno (Is) e
pubblicata all’albo pretorio dal 09.07.2012 all’08.08.2012,
nella parte in cui vieta <<l’ingresso dei cani, anche
condotti al guinzaglio e con museruola, nei parchi e nei
giardini pubblici comunali>>;
...
Il ricorso è ammissibile e fondato.
La ricorrente è la presidente di un’associazione
ambientalista nazionale per la difesa della biosfera, con
sede in Roma.
Ai sensi degli artt. 13 e 18 della L. 08.07.1986, n. 349,
che attribuiscono alle associazioni ambientalistiche
riconosciute, in via generale, la legittimazione processuale
per la tutela degli interessi di cui le stesse risultano
portatrici, sussiste sempre la legittimazione ad agire in
capo a un organismo associativo con finalità
ambientalistiche avverso provvedimento lesivi degli
interessi diffusi o collettivi, perseguiti e protetti, tra i
quali rientra quello a un corretto rapporto con gli animali
in genere e con gli addomesticati in particolare (cfr.: Tar
Calabria Catanzaro I, 24.05.2011 n. 778). Sotto tale profilo
il ricorso è senz’altro ammissibile
(TAR Molise,
sentenza 17.02.2014 n. 104 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Sull'illegittimità di un'ordinanza sindacale di vietare
l'ingresso ai cani -e, conseguentemente, ai padroni o
detentori degli stessi– nei giardini e parchi comunali.
Le ordinanze contingibili e urgenti
sono provvedimenti assunti, sulla base di una norma di
legge, per fare fronte a situazioni di urgente necessità,
che non potrebbero essere affrontate e risolte in maniera
efficace con gli ordinari strumenti a disposizione della
stessa Amministrazione.
Tali provvedimenti costituiscono strumenti atipici per
quanto attiene al contenuto, fissando la legge unicamente i
presupposti per l'esercizio del potere di ordinanza, ma non
il contenuto della stessa. L'atipicità, infatti, è
conseguenza della funzione dell'istituto, considerato che le
situazioni di urgenza concretamente verificabili non sono
prevedibili a priori e, quindi, non è possibile prevedere il
contenuto che l'ordinanza dovrà avere per fronteggiare la
situazione di urgenza.
---------------
L'ordinanza sindacale impugnata è stato assunta per fare
fronte all’eventuale pericolo di morsicature, ovvero
all'abbandono sul suolo pubblico di deiezioni canine e
liquidi fisiologici, in conseguenza dell'evidente violazione
del dovere civico a provvedere alla raccolta degli
escrementi con mezzi adatti, che potrebbe comportare i
rischi per la salute della popolazione, già segnalati dalla
letteratura scientifica, specie per i bambini. Sulla base
del presupposto, quindi, è stato disposto il divieto di
accesso ai cani nei parchi e giardini comunali, anche se al
guinzaglio e con museruola.
Invero, risulta fondata, sotto un primo profilo, la censura
mossa dall'associazione ricorrente, laddove con l'adozione
di uno strumento extra ordinem si è inteso fare fronte a una
problematica che può essere affrontata e risolta con gli
ordinari strumenti a disposizione dell'Amministrazione.
Difatti, la problematica dell'abbandono degli escrementi può
essere correttamente affrontata e risolta, garantendo
un’attenta e severa vigilanza degli obblighi di legge,
nonché a quelli che la stessa ordinanza impugnata richiama
nella lett. c), imponendo ai proprietari di cani di
raccogliere con strumenti idonei, di cui gli stessi devono
essere muniti, le eventuali deiezioni degli animali, da
conferire negli appositi cassonetti per la raccolta dei
rifiuti, posizionati nel centro cittadino. Idoneo strumento
per affrontare la problematica è costituito, altresì, dalla
previsione di una congrua sanzione da comminare ai
trasgressori dei divieti.
Stessa cosa dicasi per il pericolo di morsicature,
facilmente ovviabile con la prescrizione del guinzaglio e
della museruola, di guisa che non ha senso vietare –come fa
l’ordinanza impugnata– l’accesso ai giardini e parchi a
tutti i cani, compresi quelli dotati di museruola e
guinzaglio.
L'impugnata ordinanza è, pertanto, illegittima, anche sotto
tale aspetto.
---------------
Con l'istituto dell'ordinanza contingibile e urgente, è
consentito fronteggiare situazioni di emergenza, al prezzo
del sacrificio temporaneo di posizioni individuali
costituzionalmente tutelate, talché esso non può essere
impiegato per conferire un assetto stabile e definitivo agli
interessi coinvolti.
Le misure non definite nel loro limite temporale possono
essere reputate legittime, ma solo quando siano
razionalmente collegate alla concreta situazione di pericolo
accertata e rapportata alla situazione di fatto, e non è
questo il caso in esame, poiché qui il pericolo al quale si
vorrebbe ovviare è solo eventuale o ipotetico.
---------------
La scelta di vietare l'ingresso ai cani -e,
conseguentemente, ai padroni o detentori degli stessi– nei
giardini e parchi comunali, risulta del tutto irragionevole
e illogica, oltre che sproporzionata, rispetto al fine
perseguito, rappresentato, a ben vedere, dalla necessità di
vigilare sul rispetto di regole di civiltà imposte ai
cittadini.
Inoltre, proprio il provvedimento impugnato afferma che la
problematica cui si è inteso ovviare consegue a
comportamenti scorretti da parte dei proprietari o detentori
di cani, per l'evidente assenza di rispetto del dovere
civico di provvedere alla raccolta degli escrementi con
mezzi adatti allo smaltimento, dovere che rientra nei
compiti e obiettivi che un'Amministrazione comunale dovrebbe
perseguire e incentivare, anche attraverso l'irrogazione di
sanzioni nei confronti di chi dimostra insensibilità verso
di esso.
Oltre tutto, la stessa ordinanza ricorda che già con
provvedimento di data 03.03.2009 del Ministero del lavoro,
della salute e delle politiche sociali, è stato previsto
l'obbligo a chiunque conduca il cane in ambito urbano di
raccoglierne le feci e avere con se strumenti idonei alla
raccolta delle stesse, con la conseguenza, quindi, che tale
comportamento, espressione del dovere civico e di direttive
igienico-sanitarie, deve essere fatto rispettare anche
dall'Amministrazione comunale.
Anche per tali distinte ragioni, il provvedimento impugnato
è illegittimo.
---------------
Premesso che il provvedimento impugnato fa diretta
applicazione dell’art. 50, comma 5, considerato che nella
motivazione dello stesso è operato un -del tutto lacunoso e
insufficiente- riferimento a possibili rischi per la salute
della popolazione, si rileva come il presupposto richiesto
dalla disposizione in esame sia del tutto insussistente.
La norma in questione, infatti, consente il ricorso allo
strumento dell'ordinanza contingibile e urgente in caso "di
emergenze sanitarie o di igiene pubblica" a carattere
locale, situazioni che, evidentemente, devono essere
accertate tramite apposita attività istruttoria e devono
essere rappresentate nel provvedimento medesimo attraverso
un’idonea e puntuale motivazione.
E' del tutto evidente, al contrario, il totale deficit
motivazionale e istruttorio che inficia l'ordinanza
impugnata, atteso che il dedotto "rischio per la salute
della popolazione", di per sé solo, non può costituire
sufficiente giustificazione per la misura interdittiva
disposta con l'ordinanza. Tale locuzione, infatti, si
risolve in una sterile "formula di stile", in mancanza di
una pregressa attività istruttoria, che consenta una
puntuale indicazione dei pericoli gravi e concreti che
costituirebbero una imminente minaccia per la popolazione,
tali da giustificare l'assunzione della misura “extra
ordinem”.
Il provvedimento in questione, quindi, risulta del tutto
sprovvisto di idonea motivazione che sia in grado di
sorreggerlo. Anche sotto tale distinto profilo, pertanto, il
provvedimento impugnato, nella parte in cui dispone il
divieto di accesso ai cani nei giardini e parchi comunali, è
illegittimo.
Passando al
merito della vicenda, l'Associazione ricorrente censura il
provvedimento impugnato -con riferimento alla parte in cui
vieta l’ingresso ai cani in parchi e giardini pubblici
comunali, anche se condotti al guinzaglio e con museruola-
per violazione ed erronea applicazione degli artt. 50, comma
5, del D.Lgs. 267/2000, non sussistendo i presupposti
richiesti da detta normativa per esercitare il potere “extra ordinem”. Mancherebbe, infatti, sia la situazione di
pericolo effettivo -che, oltre tutto, necessiterebbe di
congrua motivazione- sia una situazione eccezionale e
imprevedibile, che non potrebbe essere affrontata con i
mezzi previsti in via ordinaria dall'ordinamento giuridico.
Inoltre, la ricorrente eccepisce l'omessa idonea
istruttoria, volta a suffragare la decisione di adottare
l'ordinanza impugnata, mancando qualunque accertamento
sanitario teso a determinare l'effettiva pericolosità per la
pubblica igiene. Infine, sarebbe violato il principio di
motivazione.
In via generale, giova ricordare che le ordinanze
contingibili e urgenti sono provvedimenti assunti, sulla
base di una norma di legge, per fare fronte a situazioni di
urgente necessità, che non potrebbero essere affrontate e
risolte in maniera efficace con gli ordinari strumenti a
disposizione della stessa Amministrazione. Tali
provvedimenti costituiscono strumenti atipici per quanto
attiene al contenuto, fissando la legge unicamente i
presupposti per l'esercizio del potere di ordinanza, ma non
il contenuto della stessa. L'atipicità, infatti, è
conseguenza della funzione dell'istituto, considerato che le
situazioni di urgenza concretamente verificabili non sono
prevedibili a priori e, quindi, non è possibile prevedere il
contenuto che l'ordinanza dovrà avere per fronteggiare la
situazione di urgenza.
Nel caso in esame, il Sindaco del
Comune resistente ha assunto il provvedimento impugnato ai
sensi degli artt. 50, comma 5 e 54, comma 4 del D.Lgs. n.
267/2000, i quali, rispettivamente, prevedono che, in caso
di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere
esclusivamente locale, il Sindaco, quale rappresentante
della comunità locale, adotti le ordinanze contingibili e
urgenti e che la stessa autorità locale, nella qualità di
ufficiale del Governo, adotti -con atto motivato- i
provvedimenti, anche contingibili e urgenti, nel rispetto
dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire
ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità
pubblica e la sicurezza urbana.
Tali disposizioni di legge, pertanto, oltre a fondare
l'esercitato potere, stabiliscono i presupposti in base ai
quali è possibile adottare le predette ordinanze. Dalla
motivazione del provvedimento impugnato emerge che lo stesso
è stato assunto per fare fronte all’eventuale pericolo di
morsicature, ovvero all'abbandono sul suolo pubblico di
deiezioni canine e liquidi fisiologici, in conseguenza
dell'evidente violazione del dovere civico a provvedere alla
raccolta degli escrementi con mezzi adatti, che potrebbe
comportare i rischi per la salute della popolazione, già
segnalati dalla letteratura scientifica, specie per i
bambini. Sulla base del presupposto, quindi, è stato
disposto il divieto di accesso ai cani nei parchi e giardini
comunali, anche se al guinzaglio e con museruola.
Da quanto esposto, risulta fondata, sotto un primo profilo,
la censura mossa dall'associazione ricorrente, laddove con
l'adozione di uno strumento extra ordinem si è inteso fare
fronte a una problematica che può essere affrontata e
risolta con gli ordinari strumenti a disposizione
dell'Amministrazione (cfr.: Consiglio di Stato IV, 24.03.2006, n. 1537; TAR Abruzzo L’Aquila I, 15.03.2011, n.134;
TAR Campania Napoli V, 29.12.2010, n. 28169).
Invero,
la problematica dell'abbandono degli escrementi può essere
correttamente affrontata e risolta, garantendo un’attenta e
severa vigilanza degli obblighi di legge, nonché a quelli
che la stessa ordinanza impugnata richiama nella lett. c),
imponendo ai proprietari di cani di raccogliere con
strumenti idonei, di cui gli stessi devono essere muniti, le
eventuali deiezioni degli animali, da conferire negli
appositi cassonetti per la raccolta dei rifiuti, posizionati
nel centro cittadino. Idoneo strumento per affrontare la
problematica è costituito, altresì, dalla previsione di una
congrua sanzione da comminare ai trasgressori dei divieti.
Stessa cosa dicasi per il pericolo di morsicature,
facilmente ovviabile con la prescrizione del guinzaglio e
della museruola, di guisa che non ha senso vietare –come fa
l’ordinanza impugnata– l’accesso ai giardini e parchi a
tutti i cani, compresi quelli dotati di museruola e
guinzaglio.
L'impugnata ordinanza è, pertanto, illegittima, anche sotto
tale aspetto.
Peraltro, il provvedimento impugnato è censurabile sotto il
connesso profilo della carenza di un limite temporale di
efficacia. Con l'istituto dell'ordinanza contingibile e
urgente, è consentito fronteggiare situazioni di emergenza,
al prezzo del sacrificio temporaneo di posizioni individuali
costituzionalmente tutelate, talché esso non può essere
impiegato per conferire un assetto stabile e definitivo agli
interessi coinvolti. Le misure non definite nel loro limite
temporale possono essere reputate legittime, ma solo quando
siano razionalmente collegate alla concreta situazione di
pericolo accertata e rapportata alla situazione di fatto, e
non è questo il caso in esame, poiché qui il pericolo al
quale si vorrebbe ovviare è solo eventuale o ipotetico
(cfr.: Cons. Stato V, 06.03.2013 n. 1372; Tar Lombardia-Brescia, I, n. 1276/2011).
La scelta di vietare l'ingresso ai cani -e,
conseguentemente, ai padroni o detentori degli stessi– nei
giardini e parchi comunali, risulta del tutto irragionevole
e illogica, oltre che sproporzionata, rispetto al fine
perseguito, rappresentato, a ben vedere, dalla necessità di
vigilare sul rispetto di regole di civiltà imposte ai
cittadini. Inoltre, proprio il provvedimento impugnato
afferma che la problematica cui si è inteso ovviare consegue
a comportamenti scorretti da parte dei proprietari o
detentori di cani, per l'evidente assenza di rispetto del
dovere civico di provvedere alla raccolta degli escrementi
con mezzi adatti allo smaltimento, dovere che rientra nei
compiti e obiettivi che un'Amministrazione comunale dovrebbe
perseguire e incentivare, anche attraverso l'irrogazione di
sanzioni nei confronti di chi dimostra insensibilità verso
di esso. Oltre tutto, la stessa ordinanza ricorda che già
con provvedimento di data 03.03.2009 del Ministero del
lavoro, della salute e delle politiche sociali, è stato
previsto l'obbligo a chiunque conduca il cane in ambito
urbano di raccoglierne le feci e avere con se strumenti
idonei alla raccolta delle stesse, con la conseguenza,
quindi, che tale comportamento, espressione del dovere
civico e di direttive igienico-sanitarie, deve essere fatto
rispettare anche dall'Amministrazione comunale. Anche per
tali distinte ragioni, il provvedimento impugnato è
illegittimo.
Risulta, altresì, fondata la dedotta violazione dell’art. 50
del D.Lgs. 267/2000. Premesso che il provvedimento impugnato
fa diretta applicazione dell’art. 50, comma 5, considerato
che nella motivazione dello stesso è operato un -del tutto
lacunoso e insufficiente- riferimento a possibili rischi
per la salute della popolazione, si rileva come il
presupposto richiesto dalla disposizione in esame sia del
tutto insussistente.
La norma in questione, infatti,
consente il ricorso allo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente in caso "di emergenze sanitarie o di
igiene pubblica" a carattere locale, situazioni che,
evidentemente, devono essere accertate tramite apposita
attività istruttoria e devono essere rappresentate nel
provvedimento medesimo attraverso un’idonea e puntuale
motivazione.
E' del tutto evidente, al contrario, il totale
deficit motivazionale e istruttorio che inficia l'ordinanza
impugnata, atteso che il dedotto "rischio per la salute
della popolazione", di per sé solo, non può costituire
sufficiente giustificazione per la misura interdittiva
disposta con l'ordinanza. Tale locuzione, infatti, si
risolve in una sterile "formula di stile", in mancanza di
una pregressa attività istruttoria, che consenta una
puntuale indicazione dei pericoli gravi e concreti che
costituirebbero una imminente minaccia per la popolazione,
tali da giustificare l'assunzione della misura “extra ordinem”.
Il provvedimento in questione, quindi, risulta del tutto
sprovvisto di idonea motivazione che sia in grado di
sorreggerlo. Anche sotto tale distinto profilo, pertanto, il
provvedimento impugnato, nella parte in cui dispone il
divieto di accesso ai cani nei giardini e parchi comunali, è
illegittimo.
In conclusione, il ricorso è fondato e, pertanto,
l'ordinanza comunale impugnata è illegittima e deve essere
annullata nella parte in cui dispone il divieto di accesso
ai cani, anche se tenuti al guinzaglio nei giardini e parchi
comunali
(TAR Molise,
sentenza 17.02.2014 n. 104 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell’ipotesi di annullamento di un permesso di
costruire va riconosciuta piena operatività ai principi
generali che condizionano il legittimo esercizio del potere
di autotutela; detto potere è espressione della
discrezionalità amministrativa, di guisa che costituisce
adempimento indefettibile l'adozione di un provvedimento
espresso che richiede la valutazione di elementi ulteriori
rispetto alla mera illegittimità dell'atto da eliminare.
Il provvedimento di annullamento di ufficio di un atto di
assenso edilizio, in quanto scelta discrezionale, deve
essere adeguatamente motivato in ordine all'esistenza
dell'interesse pubblico, specifico e concreto, che
giustifichi il ricorso all'autotutela anche in ordine alla
prevalenza del predetto interesse pubblico su quello
antagonista del privato.
Nel caso di specie, tale motivazione sul pubblico interesse
è mancata, non potendo ritenersi che, in un’area urbana e in
un edificio privato immune da vincoli architettonici o
diversamente qualificati d’interesse culturale, possa
rilevare e assurgere a interesse pubblico l’estetica
architettonica del prospetto di edificio privato
condominiale.
Il Comune, nella specie, si è interposto in una contesa
privata tra condomini e l’ha risolta in via di autorità,
senza che vi fosse l’interesse pubblico all’autotutela
amministrativa, ovvero senza motivare affatto sulla
sussistenza di detto interesse.
---------------
Quando –anche per il decorso del tempo- la posizione del
destinatario del provvedimento ampliativo si consolida e può
dirsi generato un affidamento sulla legittimità del titolo
stesso, l'esercizio del potere di autotutela è senz’altro
condizionato alla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale, diverso da quello al mero ripristino
della legalità violata e prevalente sull'interesse del
privato alla conservazione del titolo illegittimo.
Viceversa, la motivazione in relazione all'interesse
pubblico all'annullamento può essere tralasciata in quei
casi in cui, per il brevissimo lasso di tempo trascorso dal
rilascio del provvedimento favorevole, possa ritenersi
assente l'affidamento del destinatario nella legittimità
dell'atto.
E’ evidente che i tre anni dal permesso di costruire non
consentano di ritenere giustificato l’annullamento d’ufficio
sul semplice presupposto dell’illegittimità del permesso di
costruire.
---------------
Dal combinato disposto delle norme di cui all'art. 21-nonies
della legge n. 241/1990 ed all'art. 38 del T.U. n. 380/2001,
emerge che, a seguito della riscontrata illegittimità del
titolo edilizio, l’Amministrazione procedente deve operare
due distinte e progressive ponderazioni comparate dei
contrapposti interessi in gioco: una, di primo livello
afferente alla normativa generale sul procedimento, in
ordine alla caducazione dell'atto illegittimo; nel caso di
scelta affermativa, una seconda e definitiva fase di
valutazione, riguardante le concrete modulazioni di ricaduta
del deliberato annullamento sulla sfera giuridica del
destinatario, in attuazione del citato articolo 38 del T.U.
sull'edilizia.
In buona sostanza, l'annullamento del permesso di costruire
non postula di per sé in via automatica il ripristino di
quanto medio tempore costruito, visto che una volta
determinatasi a ravvisare gli estremi dell'autotutela
decisoria, l'Amministrazione sarebbe poi chiamata a modulare
(con lo stesso o con altro distinto provvedimento) le misure
operative che ne conseguono, senza un sistematico ricorso
all'integrale autotutela esecutiva.
Il ricorso è fondato.
Il Comune di Termoli (Cb), su segnalazione-esposto del
controinteressato condominio Crema di viale XXIV Maggio n.
6, avvia nel 2011 un procedimento di annullamento d’ufficio
di un permesso di costruire rilasciato tre anni prima, per
trasformare una finestra in un accesso carrabile (n.
132/2008), sul presupposto della scarsa esteticità del
prospetto dell’edificio e del mancato assenso del condominio
a modifiche che avrebbero dovuto essere concordate con esso.
Il procedimento mette capo all’impugnato provvedimento prot.
n. 1744 datato 20.01.2011, con il quale il Comune annulla in
autotutela il permesso di costruire n. 132 del 20.10.2008,
rilasciato in favore della ricorrente.
Si tratta di un annullamento che giunge alquanto in ritardo
ed è vistosamente difettoso nella motivazione.
Nell’ipotesi di annullamento di un permesso di costruire va
riconosciuta piena operatività ai principi generali che
condizionano il legittimo esercizio del potere di
autotutela; detto potere è espressione della discrezionalità
amministrativa, di guisa che costituisce adempimento
indefettibile l'adozione di un provvedimento espresso che
richiede la valutazione di elementi ulteriori rispetto alla
mera illegittimità dell'atto da eliminare (cfr.: Tar
Campania Napoli VIII 30.07.2008 n. 9586).
Il provvedimento di
annullamento di ufficio di un atto di assenso edilizio, in
quanto scelta discrezionale, deve essere adeguatamente
motivato in ordine all'esistenza dell'interesse pubblico,
specifico e concreto, che giustifichi il ricorso
all'autotutela anche in ordine alla prevalenza del predetto
interesse pubblico su quello antagonista del privato (cfr.: Tar Campania Napoli VIII 23.05.2013 n. 2724).
Nel caso di
specie, tale motivazione sul pubblico interesse è mancata,
non potendo ritenersi che, in un’area urbana e in un
edificio privato immune da vincoli architettonici o
diversamente qualificati d’interesse culturale, possa
rilevare e assurgere a interesse pubblico l’estetica
architettonica del prospetto di edificio privato
condominiale. Il Comune, nella specie, si è interposto in
una contesa privata tra condomini e l’ha risolta in via di
autorità, senza che vi fosse l’interesse pubblico
all’autotutela amministrativa, ovvero senza motivare affatto
sulla sussistenza di detto interesse.
Quanto alla dedotta possibile difformità tra stato di fatto
e progetto assentito –menzionata nel penultimo accapo della
motivazione del provvedimento impugnato– si tratta non già
di un vizio di legittimità del permesso di costruire ma,
semmai, di un rilievo utile ai fini del procedimento di
contestazione di abuso edilizio che, allo stato, non
risulterebbe avviato.
Occorre poi considerare che, quando –anche per il decorso
del tempo- la posizione del destinatario del provvedimento ampliativo si consolida e può dirsi generato un affidamento
sulla legittimità del titolo stesso, l'esercizio del potere
di autotutela è senz’altro condizionato alla sussistenza di
un interesse pubblico concreto e attuale, diverso da quello
al mero ripristino della legalità violata e prevalente
sull'interesse del privato alla conservazione del titolo
illegittimo. Viceversa, la motivazione in relazione
all'interesse pubblico all'annullamento può essere
tralasciata in quei casi in cui, per il brevissimo lasso di
tempo trascorso dal rilascio del provvedimento favorevole,
possa ritenersi assente l'affidamento del destinatario nella
legittimità dell'atto (cfr.: Tar Puglia Bari II,
17.04.2009 n. 894; Tar Campania Napoli VII, 07.05.2008, n. 3511; idem IV, 27.03.2006, n. 3197). E’ evidente
che i tre anni dal permesso di costruire non consentano di
ritenere giustificato l’annullamento d’ufficio sul semplice
presupposto dell’illegittimità del permesso di costruire.
Vi è di più. L’annullamento d’ufficio non potrebbe
modificare la situazione di fatto (vale a dire, l’avvenuta
trasformazione della finestra in accesso carrabile), senza
l’ulteriore provvedimento di ripristino dello stato dei
luoghi che, allo stato, risulta non adottato, né tampoco
adottabile, trattandosi di opera che non ha comportato
alcuna trasformazione edilizia e urbanistica.
Dal combinato
disposto delle norme di cui all'art. 21-nonies della legge
n. 241/1990 ed all'art. 38 del T.U. n. 380/2001, emerge che, a
seguito della riscontrata illegittimità del titolo edilizio,
l’Amministrazione procedente deve operare due distinte e
progressive ponderazioni comparate dei contrapposti
interessi in gioco: una, di primo livello afferente alla
normativa generale sul procedimento, in ordine alla caducazione dell'atto illegittimo; nel caso di scelta
affermativa, una seconda e definitiva fase di valutazione,
riguardante le concrete modulazioni di ricaduta del
deliberato annullamento sulla sfera giuridica del
destinatario, in attuazione del citato articolo 38 del T.U.
sull'edilizia.
In buona sostanza, l'annullamento del
permesso di costruire non postula di per sé in via
automatica il ripristino di quanto medio tempore costruito,
visto che una volta determinatasi a ravvisare gli estremi
dell'autotutela decisoria, l'Amministrazione sarebbe poi
chiamata a modulare (con lo stesso o con altro distinto
provvedimento) le misure operative che ne conseguono, senza
un sistematico ricorso all'integrale autotutela esecutiva
(cfr.: Tar Abruzzo L’Aquila I, 18.01.2011 n. 21).
Tale
considerazione pone in evidenza un profilo di inutilità del
provvedimento impugnato, che non soltanto rende –se
possibile- meno valida e plausibile la motivazione riferita
al mero ripristino della legalità, ma –in aggiunta, sul
piano processuale– priva il condominio controinteressato
dell’interesse a resistere
(TAR Molise,
sentenza 17.02.2014 n. 100 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
valutare un'istanza di autorizzazione paesaggistica non è
censurabile l'operato della Commissione Paesaggio che non
aveva indicato le modifiche necessarie per rendere il
progetto paesaggisticamente compatibile: ciò poiché
non si rinviene nell’ordinamento alcuna
norma che, in tale materia, imponga all’Amministrazione un
siffatto obbligo di facere.
La valutazione dell’art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 che
presiede all’autorizzazione paesaggistica non può che
basarsi sulle allegazioni del solo interessato, e solo su di
esse va effettuata la sua valutazione di compatibilità con i
valori paesaggistici tutelati.
... per la riforma della sentenza del Tribunale
amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata
di Reggio Calabria, n. 255/2012, resa tra le parti,
concernente autorizzazione paesaggistica per la demolizione
e ricostruzione di un fabbricato.
...
Il ricorso in appello, ritiene qui il Collegio, è fondato.
La sentenza impugnata ha accolto il ricorso perché
l’Amministrazione non aveva indicato le modifiche necessarie
per rendere il progetto paesaggisticamente compatibile.
La censura formulata dall’amministrazione, in relazione a
tale capo della sentenza, è fondata poiché non si rinviene
nell’ordinamento alcuna norma che, in tale materia, imponga
all’Amministrazione un siffatto obbligo di facere. La
valutazione dell’art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 che presiede
all’autorizzazione paesaggistica non può che basarsi sulle
allegazioni del solo interessato, e solo su di esse va
effettuata la sua valutazione di compatibilità con i valori
paesaggistici tutelati.
Quanto poi all’asserita compatibilità dell’intervento con
gli strumenti urbanistici, che il primo giudice ha ritenuto
dovesse condizionare la valutazione che presiede
all’autorizzazione paesaggistica (per ridurre quest’ultima
all’apprezzamento di soli particolari estetici), si tratta
di affermazione del tutto erronea in diritto, che confonde –contro la legge e la giurisprudenza costituzionale (per
tutte: Corte cost., 21.12.1985, n. 359; 27.06.1986, n. 151, 152 e 153; 22.07.1987, n. 183; 23.11.2011, n.
309;) e amministrativa (per tutte: Cons. Stato. Ad. plen. 14.12.2001, n. 9)– i due ordinamenti, addirittura
arrivando a invertirne la chiara gerarchia che vuole la
tutela del paesaggio –corrispondente al principio
fondamentale dell’art. 9 Cost.– sovraordinata
all’urbanistica.
Del resto, non solo (art. 146, comma 4)
“l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e
presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri
titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”, e la
stessa delegabilità della relativa funzione agli enti locali
è subordinata alla dotazione di strutture in grado di
garantire la “differenziazione tra attività di tutela
paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in
materia urbanistico-edilizia”; in questa stessa gerarchia,
la pianificazione paesaggistica è espressamente
sovraordinata a quella urbanistica (cfr. art. 145).
Sicché l’assunto relativo della sentenza è senza fondamento:
in realtà, l’autorizzazione paesaggistica deve avere ad
oggetto l’intero manufatto e non solo suoi particolari, come
invece afferma la gravata decisione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 12.02.2014 n. 692 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
parere della C.E.I., riportato nell’atto di diniego di
autorizzazione paesaggistica impugnato nonché nella
successiva nota soprintendentizia del pari gravata,
costituendo espressione tipica di una valutazione
tecnico-discrezionale, risulta sindacabile e dunque
censurabile solo in ipotesi di evidenti e macroscopici vizi
di incongruenza, contraddittorietà, illogicità,
irragionevolezza, che nel caso di specie difettano.
---------------
In ordine alla presentata richiesta di compatibilità
paesaggistica, l’asserita presenza di terrazzi negli edifici
circostanti, con tipologia a villa, non giustifica -in ogni
caso- la tolleranza su ulteriori abusi in contrasto con il
paesaggio.
---------------
Il Soggetto pubblico -che deve pronunciarsi su di un'istanza
di compatibilità paesaggistica- non risulta vincolato da
alcuna disposizione a rendere indicazioni per ricondurre le
opere in sanatoria ambientale alla conformità paesaggistica.
Il primo ricorso (RG. 4798/1996) è destituito di
fondamento e va pertanto respinto.
Invero, premesso:
● che trattasi di vincolo paesaggistico di inedificabilità relativa, risultando l’assentibilità
ex post
dell’intervento edilizio subordinata alla previa valutazione
di compatibilità paesaggistica dello stesso da parte della
C.E.I., occorre evidenziare che il parere della predetta
C.E.I., riportato nell’atto di diniego di autorizzazione
paesaggistica impugnato nonché nella successiva nota soprintendentizia del pari gravata, costituendo espressione
tipica di una valutazione tecnico-discrezionale, risulta
sindacabile e dunque censurabile solo in ipotesi di evidenti
e macroscopici vizi di incongruenza, contraddittorietà,
illogicità, irragionevolezza, che nel caso di specie
difettano (cfr., tra le altre, TAR Toscana, III, n. 450 e
n.1330 del 2012, n. 1095 del 2013);
● che anzi, con sintetica,
ma allo stesso tempo adeguata motivazione, in base agli atti
acquisiti e a quelli già in possesso, esaminate le
caratteristiche del fabbricato e del contesto ambientale,
messe a raffronto le prime con le seconde, la C.E.I. ne ha
rilevato i profili di contrasto, mal integrandosi l’abuso
(terrazzo al piano primo) con la tipologia della villa (cfr.
all. 1, 2 al ricorso);
● che inoltre non risulta utile il
richiamo al terrazzo presente al piano rialzato, trattandosi
comunque di differente collocazione rispetto all’abuso in
esame;
● che poi l’asserita presenza di terrazzi negli edifici
circostanti, con tipologia a villa, non giustificherebbe in
ogni caso la tolleranza su ulteriori abusi in contrasto con
il paesaggio (cfr. TAR Toscana, III, n. 450 e n.1096 del
2012);
● che altresì il Soggetto pubblico non risultava
vincolato da alcuna disposizione a rendere indicazioni per
ricondurre le opere in esame, peraltro già realizzate, alla
conformità paesaggistica (cfr. art. 16 R.D. n. 1357 del 1940 e
Cons. Stato, VI, n. 4238 del 2009);
● che in ultimo, quanto
alle censure di ordine procedimentale, le stesse non
conducono, ex art. 21-octies, comma 2 della Legge n. 241 del
1990, all’annullamento degli atti impugnati, atteso che, per
quanto dianzi emerso, gli stessi non potevano avere un
contenuto diverso da quello in concreto assunto (cfr., in
ultimo, tra le altre, TAR Toscana, III, n. 809 del 2013)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 11.02.2014 n. 292 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
“contributo per il rilascio del permesso di costruire”,
disciplinato dall’art. 16 del DPR n. 380 del 2001, è inteso
dalla giurisprudenza, anche di questa Sezione, come
“corrispettivo di diritto pubblico”, che rappresenta una
“forma di partecipazione alle spese pubbliche con caratteri
atipici, ma sempre collegata all’attività di trasformazione
del territorio”; proprio questa sua funzione giustifica la
ripetizione del contributo nel caso di mancato utilizzo del
permesso di costruire, giacché in questa ipotesi non vi è
stata alcuna attività di trasformazione del territorio e
quindi non è dovuta alcuna partecipazione alla spesa
pubblica correlata.
Può tuttavia accadere, come nella specie, che pur non
essendo state realizzate le opere di cui al permesso di
costruire, siano stati tuttavia posti in essere
significativi interventi modificativi del territorio, come
sbancamenti e ingenti movimenti terra, propedeutici alle
edificazioni poi non realizzate. In ipotesi siffatte,
venendo meno attraverso la rinuncia e/o la decadenza del
titolo edilizio, la ragione giustificativa che da un punto
di vista giuridico sorreggeva la trasformazione
territoriale, l’Amministrazione comunale può ben vantare una
pretesa alla rimessione in pristino, cioè alla eliminazione
delle trasformazioni territoriali realizzate e non più
sorrette dal permesso di costruire.
Si tratta di effetti giuridici che conseguono congiuntamente
dalla perdita di efficacia del permesso di costruire: da un
lato il diritto alla ripetizione degli oneri concessori
correlati ad opere che non si edificheranno più, dall’altro
l’obbligo di ripristino della situazione di fatto anteriore
rispetto all’avvio delle opere attuative del titolo
edilizio.
Proprio la congiunta scaturigine giustifica il collegamento
tra le due fattispecie, a garanzia del congiunto
adempimento, e cioè giustifica che il Comune trattenga gli
oneri riscossi fino alla rimessione in pristino stato o
comunque alla determinazione degli oneri conseguenti alla
rimessione in pristino medesima. Così che solo una volta
azzerata l’incidenza sul territorio delle trasformazioni
conseguenti all’esecuzione del titolo edilizio sarà
possibile procedere alla ripetizione degli oneri versati.
Con il sesto mezzo di cui ai motivi
aggiunti parte ricorrente rileva che il condizionamento,
effettuato dall’Amministrazione, della restituzione degli
oneri concessori di cui al permesso di costruire n. 7567
alla rimessione in pristino, con eliminazione delle
trasformazioni effettuate in attuazione dello stesso
permesso n. 7567, sarebbe illegittimo perché privo di
fondamento normativo e comunque sproporzionato.
La censura è infondata.
Il “contributo per il rilascio del permesso di costruire”,
disciplinato dall’art. 16 del DPR n. 380 del 2001, è inteso
dalla giurisprudenza, anche di questa Sezione, come “corrispettivo
di diritto pubblico”, che rappresenta una “forma di
partecipazione alle spese pubbliche con caratteri atipici,
ma sempre collegata all’attività di trasformazione del
territorio” (TAR Toscana, sez. 3^, 11.08.2004, n. 3181);
proprio questa sua funzione giustifica la ripetizione del
contributo nel caso di mancato utilizzo del permesso di
costruire, giacché in questa ipotesi non vi è stata alcuna
attività di trasformazione del territorio e quindi non è
dovuta alcuna partecipazione alla spesa pubblica correlata.
Può tuttavia accadere, come nella specie, che pur non
essendo state realizzate le opere di cui al permesso di
costruire, siano stati tuttavia posti in essere
significativi interventi modificativi del territorio, come
sbancamenti e ingenti movimenti terra, propedeutici alle
edificazioni poi non realizzate. In ipotesi siffatte,
venendo meno attraverso la rinuncia e/o la decadenza del
titolo edilizio, la ragione giustificativa che da un punto
di vista giuridico sorreggeva la trasformazione
territoriale, l’Amministrazione comunale può ben vantare una
pretesa alla rimessione in pristino, cioè alla eliminazione
delle trasformazioni territoriali realizzate e non più
sorrette dal permesso di costruire.
Si tratta di effetti giuridici che conseguono congiuntamente
dalla perdita di efficacia del permesso di costruire: da un
lato il diritto alla ripetizione degli oneri concessori
correlati ad opere che non si edificheranno più, dall’altro
l’obbligo di ripristino della situazione di fatto anteriore
rispetto all’avvio delle opere attuative del titolo
edilizio. Proprio la congiunta scaturigine giustifica il
collegamento tra le due fattispecie, a garanzia del
congiunto adempimento, e cioè giustifica che il Comune
trattenga gli oneri riscossi fino alla rimessione in
pristino stato o comunque alla determinazione degli oneri
conseguenti alla rimessione in pristino medesima. Così che
solo una volta azzerata l’incidenza sul territorio delle
trasformazioni conseguenti all’esecuzione del titolo
edilizio sarà possibile procedere alla ripetizione degli
oneri versati.
Nella specie non risulta che parte ricorrente abbia inteso
farsi carico della rimessione in pristino e neppure che
abbia avviato con l’Amministrazione un dialogo per stabilire
l’ammontare dei costi dell’attività di ripristino, dialogo
necessario proprio per determinare in misura corretta gli
oneri ripristinatori e scongiurare le sproporzioni che parte
ricorrente paventa
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 11.02.2014 n. 288 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gli
atti concernenti il diniego e l’assentimento ad altri di
concessioni demaniali relative al demanio idrico, aventi in
particolare ad oggetto pontili e specchi d’acqua ubicati
sulla sponda sinistra del fiume, incidono sul regime delle
acque pubbliche, nel senso che concorrono a disciplinare le
modalità di utilizzazione di una porzione del fiume e della
relativa sponda e che sono, quindi, attratti alla
giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche,
ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a), del r.d. n. 1775
del 1933, che appunto rimette a tale giudice “i ricorsi per
incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di
legge avverso i provvedimenti definitivi presi
dall’amministrazione in materia di acque pubbliche”.
L’eccezione è fondata.
Gli atti impugnati concernono il diniego e l’assentimento ad
altri di concessioni demaniali relative al demanio idrico,
aventi in particolare ad oggetto pontili e specchi d’acqua
ubicati sulla sponda sinistra del fiume Arno.
Si tratta quindi di provvedimenti che incidono sul regime
delle acque pubbliche, nel senso che concorrono a
disciplinare le modalità di utilizzazione di una porzione
del fiume Arno e della relativa sponda (in termini TAR
Toscana, sez. 3^, sentenza n. 662 del 2010) e che sono
quindi attratti alla giurisdizione del Tribunale superiore
delle acque pubbliche, ai sensi dell’art. 143, comma 1,
lett. a), del r.d. n. 1775 del 1933, che appunto rimette a
tale giudice “i ricorsi per incompetenza, per eccesso di
potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti
definitivi presi dall’amministrazione in materia di acque
pubbliche” (Cass., SU, 21/06/2005, n. 13293; idem
12/05/2009, n. 10845)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 11.02.2014 n. 287 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di opere interne
abusive con cambio di destinazione d’uso, ciò che rileva ai
fini del rilascio del condono edilizio di cui all’art. 32,
comma 25, d.l. 30.09.2003 n. 269, conv. nella l. 24.11.2003
n. 326, è che sia intervenuto il completamento funzionale
entro i termini di legge, intendendosi con tale espressione
una situazione per cui le opere, pur non perfette nelle
finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi
strutturali e con caratteristiche necessarie e sufficienti
ad assolvere la funzione cui sono destinate.
Al riguardo, il Tribunale deve rilevare
che sono del tutto condivisibili le argomentazioni svolte
dall’amministrazione comunale, nonché le conclusioni
giuridiche alle quali la stessa è pervenuta.
La domanda di condono risulta effettivamente carente di
idonea documentazione atta a comprovare che il mutamento di
destinazione d’uso del fabbricato sia avvenuto entro il 31.03.2003 previsto
ex lege per la sanabilità degli abusi
edilizi, risultando ad essa allegata solo documentazione
fotografica dell’esterno dell’immobile, nemmeno risultando
idonea, a tale fine (trattasi, infatti, di sanare un diverso
utilizzo del manufatto), la dichiarazione di asseverazione
da parte del professionista (sul punto, del tutto generica)
allegata alla domanda.
Oltre a ciò, sia dal verbale di
sopralluogo sia soprattutto dalla documentazione fotografica
realizzata dagli Agenti della Polizia Municipale
nell’occasione (v. doc. n. 5 della ricorrente) emerge
chiaramente che in data di molto successiva a quella di cui
sopra, vale a dire il 18/03/2004, i lavori all’interno del
fabbricato erano ancora in corso e che mancavano ancora
elementi essenziali, quali intonaci, pavimenti, infissi,
rivestimenti, allacci agli impianti per ritenere completato
funzionalmente il mutamento di destinazione d’uso
dell’immobile da “attrezzaia” a “civile abitazione” che il
ricorrente intendeva sanare.
Il Collegio condivide, sulla questione, quanto affermato dalla
giurisprudenza amministrativa secondo la quale “…nel caso di
opere interne abusive con cambio di destinazione d’uso, ciò
che rileva ai fini del rilascio del condono edilizio di cui
all’art. 32, comma 25, d.l. 30.09.2003 n. 269, conv.
nella l. 24.11.2003 n. 326, è che sia intervenuto il
completamento funzionale entro i termini di legge,
intendendosi con tale espressione una situazione per cui le
opere, pur non perfette nelle finiture, possano dirsi
individuabili nei loro elementi strutturali e con
caratteristiche necessarie e sufficienti ad assolvere la
funzione cui sono destinate;…” (v. Cons. Stato, sez. IV,
26/1/2009 n. 393; TAR Campania –NA- sez. III, 07/09/2012 n.
3804; 01/06/2012 n. 2612).
Dalle considerazioni che precedono discende che, non avendo
il responsabile dell’abuso dimostrato di avere realizzato il
mutamento di destinazione d’uso dell’immobile da sanare
entro la suddetta data prefissata ex lege, risultano
infondate tutte le censure rassegnate in ricorso e discende,
quale ulteriore conseguenza, la reiezione dello stesso
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 11.02.2014 n. 177 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il concetto di “utente” di strada vicinale
soggetta a pubblico transito, come emergente dall’art. 1 del
D.L.Lgt. n. 1446 del 1918, deve necessariamente essere
considerato e interpretato in senso maggiormente estensivo
rispetto alla definizione (oltremodo restrittiva) datane in
ricorso; ciò in coerenza e nel rispetto della ratio della
norma stessa.
L’art. 1, al primo comma, stabilisce infatti che: “Gli
utenti delle strade vicinali, anche se non soggette a
pubblico transito, possono costituirsi in Consorzio per la
manutenzione e la sistemazione o ricostruzione di esse”.
La norma intende individuare detta utenza mediante un
criterio del tutto oggettivo, che pone a confronto la
situazione dei luoghi e delle proprietà e/o dei soggetti
utilizzatori dei terreni, con il percorso della strada
vicinale, in modo da includere nell’elenco dei soggetti
utenti della strada tutti coloro i cui terreni siano
oggettivamente, direttamente raggiungibili percorrendo la
strada vicinale e ciò evidentemente a prescindere da quale
sia l’effettivo concreto utilizzo di quel percorso da parte
dei soggetti interessati e, ulteriormente, a prescindere
dall’esistenza, in zona, di altri tragitti che consentono di
accedere ai loro fondi.
In buona sostanza, il concetto di utente della strada voluto
dalla citata disposizione, individua il soggetto i cui fondi
possono essere direttamente raggiunti percorrendo la stessa.
Nella fattispecie in esame, pertanto, ove non è contestato
che i terreni di proprietà della ricorrente siano
raggiungibili direttamente percorrendo la strada vicinale di
cui è causa, anche attraverso il tratto di essa non soggetto
all’uso pubblico, il Collegio ritiene che del tutto
legittimamente, sulla base delle motivate argomentazioni
svolte nella deliberazione consiliare impugnata, il Comune
abbia incluso la ricorrente tra gli utenti della strada
vicinale obbligati a consorziarsi.
... per l'annullamento della deliberazione del Consiglio
comunale di Monzuno avente ad oggetto l’approvazione della
costituzione del consorzio obbligatorio della strada
vicinale di uso pubblico “Montorio – Pieve di Montorio –
Molinelli” tra gli utenti della strada, nella parte in cui
si respinge il reclamo della ricorrente diretto ad essere
esclusa dall’elenco degli utenti consorziati.
...
Il Collegio osserva che il ricorso non merita accoglimento.
Le argomentazioni della ricorrente sono dirette a
contrastare l’inclusione della stessa nell’elenco dei
soggetti partecipanti al Consorzio obbligatorio per la
gestione della strada vicinale di uso pubblico “Montorio –
Pieve di Montorio – Molinelli”, conferendo rilevanza a
considerazioni circa l’effettivo mancato utilizzo della
strada vicinale sia da parte della ricorrente –proprietaria
dei fondi– sia da parte del soggetto affittuario dei fondi
stessi. La ricorrente ritiene, in definitiva, di non essere
e di non potere essere in alcun modo considerata “utente”
della strada vicinale, mancando il necessario presupposto,
indicato nel D.L.lgt. n. 1446 del 1918, di essere soggetto
che per accedere alla sua proprietà deve necessariamente
utilizzare, ed in concreto, utilizza, la strada.
Secondo la prospettazione della ricorrente, anche lo Statuto
del Consorzio avallerebbe detta oltre modo restrittiva
interpretazione della normativa statale, ove, all’art. 3 si
dispone che “…fanno parte del Consorzio tutti i proprietari
di terreni e fabbricati, attività agricole, artigianali ed
industriali, che per accedere alle proprietà di pertinenza
debbano servirsi totalmente o anche solo parzialmente della
strada”. Pertanto, a dire della ricorrente, per essere
considerato quale utente della strada vicinale e, quindi,
obbligato al Consorzio, occorre che lo stato dei luoghi
imponga la necessità di servirsi proprio di quel percorso;
nella specie, invece, tale situazione non si verificherebbe,
dato che i fondi di cui è proprietaria non fronteggiano la
strada vicinale e dato che sia essa stessa sia il
coltivatore affittuario non si servano di quel tragitto per
accedere ai propri fondi.
Il Collegio ritiene che le predette considerazioni non
possano essere condivise, stante che il concetto di “utente”
di strada vicinale soggetta a pubblico transito, come
emergente dall’art. 1 del D.L.Lgt. n. 1446 del 1918, debba
necessariamente essere considerato e interpretato in senso
maggiormente estensivo rispetto alla definizione (oltremodo
restrittiva) datane in ricorso; ciò in coerenza e nel
rispetto della ratio della norma stessa.
L’art. 1, al primo comma, stabilisce infatti che: “Gli
utenti delle strade vicinali, anche se non soggette a
pubblico transito, possono costituirsi in Consorzio per la
manutenzione e la sistemazione o ricostruzione di esse”. La
norma intende individuare detta utenza mediante un criterio
del tutto oggettivo, che pone a confronto la situazione dei
luoghi e delle proprietà e/o dei soggetti utilizzatori dei
terreni, con il percorso della strada vicinale, in modo da
includere nell’elenco dei soggetti utenti della strada tutti
coloro i cui terreni siano oggettivamente, direttamente
raggiungibili percorrendo la strada vicinale e ciò
evidentemente a prescindere da quale sia l’effettivo
concreto utilizzo di quel percorso da parte dei soggetti
interessati e, ulteriormente, a prescindere dall’esistenza,
in zona, di altri tragitti che consentono di accedere ai
loro fondi.
In buona sostanza, il concetto di utente della
strada voluto dalla citata disposizione, individua il
soggetto i cui fondi possono essere direttamente raggiunti
percorrendo la stessa.
Nella fattispecie in esame, pertanto,
ove non è contestato che i terreni di proprietà della
ricorrente siano raggiungibili direttamente percorrendo la
strada vicinale di cui è causa, anche attraverso il tratto
di essa non soggetto all’uso pubblico (v. doc. n. 1 del
Comune), il Collegio ritiene che del tutto legittimamente,
sulla base delle motivate argomentazioni svolte nella
deliberazione consiliare impugnata, il Comune abbia incluso
la ricorrente tra gli utenti della strada vicinale obbligati
a consorziarsi.
Per le suesposte ragioni, il ricorso è respinto
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 11.02.2014 n. 174 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Sulla
illegittimità della deliberazione consiliare che ha
rigettato l’istanza di proroga della scadenza dei termini
per l’inizio dei lavori di un Piano di lottizzazione.
L'amministrazione non può in maniera
immotivata e repentina porre nel nulla procedimenti ed
attività avviati di concerto con soggetti privati (ma il
discorso vale anche quando il procedimento sia stato
attivato unilateralmente dalla P.A. e nella misura in cui
gli atti adottati sino ad un certo momento abbiano
ingenerato un legittimo affidamento in capo ai privati)
soprattutto quando a questi ultimi è stato chiesto di porre
in essere attività di studio, ricerca, progettazione.
In un’ipotesi di annullamento del titolo abilitativo dopo un
lungo lasso di tempo, è stato ravvisato “Un chiaro difetto
di motivazione …. nel provvedimento …. siccome adottato
dall'Amministrazione nell'esercizio del potere di
annullamento, laddove la frustrazione dell'affidamento
ingenerato in capo al destinatario non risulta in alcun modo
presa in considerazione dall'Amministrazione, nemmeno per
affermare in ipotesi che nessuna situazione di affidamento
fosse da ponderarsi ai fini della necessaria comparazione
dell'incisione delle posizioni in rilievo".
Sotto un profilo generale, la leale collaborazione, intesa
correttamente, preclude all’Ente pubblico di emettere un
atto sfavorevole quando può acquisire le informazioni
mancanti e tuttavia il privato, ove interpellato in tal
senso, ha l’onere di fornire l’assistenza documentale
necessaria per una decisione ponderata e adeguata che
presupponga la chiarezza del quadro fattuale: l’affidamento
tutelabile deve accompagnarsi ad un comportamento diligente
e gli obblighi di collaborazione tra privato ed Ente
pubblico vanno intesi in senso “bidirezionale”, nel senso
che come l’amministrazione è obbligata a cooperare con il
privato, così quest’ultimo è tenuto ad informare prontamente
l’amministrazione delle circostanze che possono influire
sulle determinazioni che lo riguardano.
... per l'annullamento:
- DELLA DELIBERAZIONE CONSILIARE IN DATA 01/06/2005 N. 18,
DI ESAME –CON ESITO SFAVOREVOLE– DELLA RICHIESTA DI PROROGA
DEI TERMINI PER L’ATTUAZIONE DEL P.L. DI INIZIATIVA PRIVATA
COMPARTO B4/4;
- DEL PARERE ESPRESSO DALLA COMMISSIONE CONSILIARE IL
30/5/2005;
- DELLA DELIBERAZIONE CONSILIARE IN DATA 29/03/2005 N. 13.
...
Il thema decidendum del presente gravame verte sulla
legittimità della deliberazione consiliare che ha rigettato
l’istanza di proroga della scadenza dei termini per l’inizio
dei lavori di un Piano di lottizzazione.
Il gravame è fondato sotto il profilo del difetto di
motivazione.
1. Parte ricorrente ha in particolare dedotto che l’organo
consiliare ha avvertito il dovere di pronunciarsi al punto
da istituire una Commissione per l’esame della richiesta
proroga e le problematiche tecnico-giuridiche dell’intera
pratica (suscitando così affidamento in capo al privato) e
che sussisteva l’interesse pubblico a eliminare l’attività
produttiva giudicata incompatibile col particolare contesto.
Ha puntualizzato che in ogni caso l’istanza doveva essere
valutata sulla base delle ordinarie regole di correttezza,
diligenza e collaborazione (oltre all’obbligo sancito
dall’art. 2 della L. 241/1990) e che l’obbligo di
motivazione non può dirsi soddisfatto col pedissequo
richiamo della previsione urbanistica e del termine
decadenziale. Tra le due alternative –la proroga a mezzo di
atto deliberativo (trattandosi di disposizione specifica per
un immobile individuato, con regole puntuali), ovvero una
variante procedura semplificata ex art. 2 della L.r. 23/1997
(prospettate con istanza 16/2/2005 integrata dalla lettera
07/03/2005)– i pareri resi dagli uffici avevano privilegiato
la seconda opzione della variante (cfr. note segretario
generale e responsabile dell’area tecnica).
La prospettazione merita condivisione.
1.1 I principi di buona fede e di tutela dell’affidamento
del privato impongono all’amministrazione, sul versante
procedimentale, un comportamento lineare e non
contraddittorio, dovendo la stessa esporre tempestivamente e
chiaramente ai privati coinvolti tutti i dubbi e le riserve
circa gli atti posti in essere. Come ha messo in evidenza la
giurisprudenza (cfr. TAR Marche – 09/01/2013 n. 4) <<…
l'amministrazione non può in maniera immotivata e repentina
porre nel nulla procedimenti ed attività avviati di concerto
con soggetti privati (ma il discorso vale anche quando il
procedimento sia stato attivato unilateralmente dalla P.A. e
nella misura in cui gli atti adottati sino ad un certo
momento abbiano ingenerato un legittimo affidamento in capo
ai privati) soprattutto quando a questi ultimi è stato
chiesto di porre in essere attività di studio, ricerca,
progettazione ….>>. In un’ipotesi di annullamento del
titolo abilitativo dopo un lungo lasso di tempo, è stato
ravvisato “Un chiaro difetto di motivazione …. nel
provvedimento …. siccome adottato dall'Amministrazione
nell'esercizio del potere di annullamento, laddove la
frustrazione dell'affidamento ingenerato in capo al
destinatario non risulta in alcun modo presa in
considerazione dall'Amministrazione, nemmeno per affermare
in ipotesi che nessuna situazione di affidamento fosse da
ponderarsi ai fini della necessaria comparazione
dell'incisione delle posizioni in rilievo” (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV – 21/12/2009 n. 8529).
1.2 Sotto un profilo generale, la leale collaborazione,
intesa correttamente, preclude all’Ente pubblico di emettere
un atto sfavorevole quando può acquisire le informazioni
mancanti e tuttavia il privato, ove interpellato in tal
senso, ha l’onere di fornire l’assistenza documentale
necessaria per una decisione ponderata e adeguata che
presupponga la chiarezza del quadro fattuale (cfr. sentenza
Sezione 10/12/2012 n. 1928): l’affidamento tutelabile deve
accompagnarsi ad un comportamento diligente e gli obblighi
di collaborazione tra privato ed Ente pubblico vanno intesi
in senso “bidirezionale”, nel senso che come
l’amministrazione è obbligata a cooperare con il privato,
così quest’ultimo è tenuto ad informare prontamente
l’amministrazione delle circostanze che possono influire
sulle determinazioni che lo riguardano.
1.3 Nel caso in esame la condotta della Società è sempre
stata improntata a coerenza e linearità, avendo intrapreso
il percorso tracciato dalla norma urbanistica transitoria.
Come si evince dalla cronologia degli adempimenti esposta in
fatto, la ricorrente ha dato impulso al procedimento
amministrativo e di seguito ha sempre ottemperato alle
richieste dell’amministrazione e si è adattata agli aggravi
istruttori imposti dal Comune, dalla Provincia e dalla
Regione (quest’ultima attivatasi anche per le decisioni
assunte a livello comunitario). In prossimità della scadenza
del termine sono stati acquisiti i numerosi pareri necessari
e tutti sono risultati favorevoli, seppur con prescrizioni,
e lo scenario prevedibile era nel senso di una
determinazione conclusiva positiva, prodromica all’inizio
dei lavori.
1.4 Ad avviso del Collegio traspare la buona fede del
soggetto proponente, che ha sempre condotto l’iniziativa e
mantenuto vivo il suo interesse all’attuazione del Piano, ha
prodotto tutti gli atti necessari e ha ottemperato alle
molteplici richieste istruttorie. In questa cornice
fattuale, di comportamento attivo e cooperazione prestata
dalla Società Ninfea –ormai giunta in prossimità alla
conclusione dell’articolato iter di approvazione–
l’amministrazione non poteva limitarsi a prendere atto della
formale scadenza del termine quadriennale. Il Consiglio
comunale è certo l’organo che può compiere valutazioni di
tipo politico-amministrativo, ma le stesse non possono
considerarsi avulse da un contesto nel quale la Società ha
elaborato un Piano attuativo, ha adempiuto alle plurime
istanze di aggiornamento e integrazione, ed è giunta a
raccogliere gli assensi di tutte le amministrazioni
coinvolte. La stessa nomina della Commissione, tra l’altro,
non poteva che sottendere la logica necessità di
approfondimenti e valutazioni, comprendenti il bilanciamento
dell’interesse pubblico con la posizione del soggetto
privato alla luce del naturale affidamento insorto per la
conclusione di un iter laborioso e travagliato, che tuttavia
aveva superato tutti i passaggi istituzionali e persino
acquisito i pareri degli uffici circa il corretto percorso
giuridico per accordare la richiesta proroga.
In conclusione il ricorso è fondato e merita accoglimento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 11.02.2014 n. 153 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Impianti mobili che eseguono la sola riduzione
volumetrica e la separazione delle frazioni estranee.
La deroga al regime ordinario in materia
di rifiuti prevista, dall'art. 208, comma 15 d.lgs.
152/2006, per gli impianti mobili che eseguono la sola
riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni
estranee, opera esclusivamente con riferimento a tali
attività, restando conseguentemente esclusa ogni operazione
diversa, antecedente o successiva, che rimane invece
soggetta alla disciplina generale ed incombe su chi invoca
l'applicazione di detta deroga l'onere di dimostrare la
sussistenza dei presupposti di legge per la sua operatività (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.02.2014 n. 6107 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Confisca obbligatoria del mezzo di trasporto per il
reato di traffico illecito di rifiuti.
In tema di gestione dei rifiuti, al fine di evitare la
confisca obbligatoria del mezzo di trasporto prevista per il
reato di traffico illecito di rifiuti (art. 259, comma
secondo, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152), incombe sul terzo
estraneo al reato, individuabile in colui che non ha
partecipato alla commissione dell'illecito ovvero ai
profitti che ne sono derivati, l'onere di provare la sua
buona fede, ovvero che l'uso illecito della "res" gli
era ignoto e non collegabile ad un suo comportamento
negligente (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.02.2014 n. 5776 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione mediante demolizione e
costruzione ed accertamento della preesistente consistenza
del manufatto.
La previsione contenuta nell'art.30 legge 98/2013 consente
di procedere a ristrutturazione di edificio crollato o
demolito a condizione che "sia possibile accertarne la
preesistente consistenza".
La norma non chiarisce attraverso
quali strumenti detto accertamento possa o debba essere
compiuto, ma la Corte considera indubitabile che il sistema
in vigore escluda si possa ricorrere a fonti non documentali
o comunque prive dei caratteri di certezza e verificabilità.
Depone per questa conclusione tutta la disciplina che regola
il procedimento che conduce al permesso di costruire
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 07.02.2014 n. 5912 - tratto da
www.lexambiente.it). |
APPALTI:
Sull'applicabilità della teoria c.d. falso
innocuo alle procedure d'evidenza pubblica.
La teoria del c.d. "falso innocuo" nelle gare ad
evidenza pubblica presuppone che la lex specialis non
preveda una sanzione espulsiva espressa per la mancata
osservanza di puntuali prescrizioni sulle modalità e
sull'oggetto delle dichiarazioni da fornire.
L'art. 45, § 2, lett. g), della dir. n. 2004/18/CE, che fa
conseguire l'esclusione dalla gara alle sole ipotesi di
grave colpevolezza e di false dichiarazioni (e non anche
incomplete) nel fornire informazioni s'appalesa d'immediata
applicazione nell'ordinamento nazionale e, quindi, nelle
procedure di gara solo qualora l'esclusione da esse non sia
sancita, in base all'art. 38, c. 1, del Dlgs 163/2006, in
modo espresso nella legge di gara. Infatti, per un verso,
non si può predicare l'applicabilità mera del c.d. "falso
innocuo" alle procedure d'evidenza pubblica, perché la
completezza delle dichiarazioni consente, anche in ossequio
al principio di buon andamento dell'azione amministrazione e
di proporzionalità, la celere decisione sull'ammissione
dell'operatore economico alla gara. Per altro verso, la
dimostrazione dell'assenza di elementi ostativi alla
partecipazione ad una gara di appalto in capo ad uno degli
amministratori della società (nella specie, il
vicepresidente del CDA), costituisce elemento essenziale
dell'offerta (o comunque è dovuta ai sensi dell'art. 38, c.
2, del Dlgs 163/2006), sì che la sua mancanza produce
l'esclusione automatica ai sensi del successivo art. 46, c.
1-bis, quand'anche in assenza di espressa comminatoria da
parte della legge di gara (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 06.02.2014 n. 583 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Domanda di condono edilizio e delitto di cui
all'art. 483 cod. pen.
Nel caso in cui nella "Domanda relativa alla definizione
degli illeciti edilizi" colui che l'ha sottoscritta, abbia
dichiarato nella casella "Data di ultimazione" una data non
rispondente al vero, si configura il reato di cui all'art.
483 cod. pen. poiché la domanda così presentata comporta il
collegamento di specifici effetti a quanto dichiarato nella
domanda stessa; dunque, si deve, a mezzo della dichiarazione
del vero, dar luogo a tali effetti, tramite quella che può
ben definirsi pubblica asseverazione, pervenendosi così alla
qualificazione della dichiarazione come atto pubblico ai
fini del reato suddetto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.02.2014 n. 5683 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Natura oggettiva del concetto di ultimazione dei
lavori.
Il reato urbanistico ha natura di reato permanente la cui
consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione
e perdura fino alla cessazione dell'attività edificatoria
abusiva.
La cessazione dell'attività si ha con
l'ultimazione dei lavori per completamento dell'opera, con
la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio
mediante sequestro penale), con la sentenza di primo grado,
se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato e sino
alla data del giudizio.
Inoltre, l'ultimazione dei lavori
coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni
ed esterni quali gli intonaci e gli infissi.
Entro tale
preciso ambito deve dunque individuarsi il concetto di
"ultimazione" che ha natura oggettiva e non può, pertanto,
dipendere da valutazioni soggettive (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.02.2014 n. 5480 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Terre e rocce da scavo e materiali di risulta edile.
Nel caso in cui, oltre terre e rocce da scavo propriamente
definibili come tali, in un impianto vengano trattati
materiali di risulta edile, la questione della
qualificabilità come sottoprodotti e non rifiuti dei
materiali non si pone (né, quindi, la nuova disciplina
derivante dall'art. 41-bis della legge 09.08.2013, n. 98, di
conversione del c.d. decreto "del Fare", D.L. n. 69/2013,
che introduce nell'ordinamento alcune disposizioni tese a
disciplinare l'utilizzo, come sottoprodotti, dei materiali
da scavo prodotti nel corso di attività e interventi
autorizzati in base alle norme vigenti, in deroga a quanto
previsto dal D.M. 10.08.2012, n. 161, recante il regolamento
per la disciplina dell'utilizzazione delle terre e rocce da
scavo) ed è conseguentemente necessaria l'autorizzazione
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 04.02.2014 n. 5470 -
tratto da www.lexambiente.it). |
APPALTI:
Sulla scusabilità dell'errore riconducibile a
formulazioni degli atti di gara che possono indurre dubbi
interpretativi.
In materia di
cause di esclusione dalle gare per reati incidenti sulla
moralità professionale, la verifica dell'incidenza dei reati
commessi dal legale rappresentante dell'impresa sulla
moralità professionale della stessa attiene all'esercizio
del potere discrezionale della P.A. e deve essere valutata
attraverso la disamina in concreto delle caratteristiche
dell'appalto, del tipo di condanna, della natura e delle
concrete modalità di commissione del reato, non potendo la
stessa concorrente valutare da sé quali reati siano
rilevanti ai fini della dichiarazione da rendere, ciò
implicando un giudizio inevitabilmente soggettivo,
inconciliabile con la finalità della norma.
Tuttavia, allorché la dichiarazione sia resa sulla scorta di
modelli predisposti dalla stazione appaltante ed il
concorrente incorre in errore indotto dalla formulazione
ambigua o equivoca del modello, non può determinarsi
l'esclusione dalla gara per l'incompletezza della
dichiarazione resa. Il rigore formalistico, dunque, cede in
presenza di una scusabilità dell'errore riconducibile a
formulazioni degli atti di gara che possono indurre dubbi
interpretativi, tanto più che vige oggi la regola della
tassatività delle cause di esclusione, di cui all'art. 46,
c. 1-bis, Codice dei contratti, che s'ispira ad un criterio
sostanzialistico e riafferma il favor partecipationis
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 04.02.2014 n. 507 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Allorquando una
concessione sia stata ottenuta dall'interessato in base ad
una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà,
l’autotutela può essere esercitata senza necessità di
esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse,
che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente "in re ipsa".
... per l'annullamento:
- dell'ordinanza del Sindaco del Comune di Sant'Orsola Terme
n. 14/2012 dd. 06.06.2012 prot. n. 2860 ad oggetto "annullamento
in autotutela delle concessioni di edificare n. 1448 di data
08.03.2000 e n. 1456 di data 04.05.2000", rilasciate ai
signori P.L. e R.S. per i lavori di costruzione
dell’edificio sulla p.f. 203/02 in c.c. S. Orsola località “Palaori";
...
Quanto all’altra censura, secondo cui l’autotutela sarebbe
stata esercitata, a distanza di anni dal rilascio della
concessione edilizia, senza alcuna specifica motivazione
sull’attualità del pubblico interesse, il Collegio si
richiama, condividendola, alla giurisprudenza secondo cui,
allorquando una concessione sia stata ottenuta
dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea
rappresentazione della realtà, l’autotutela può essere
esercitata senza necessità di esternare alcuna particolare
ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve
ritenersi sussistente "in re ipsa" (cfr., ad es.:
Consiglio di Stato, sez. IV, 08/01/2013, n. 39).
In ogni caso, la situazione derivante dal rilascio della
concessione edilizia nel lontano 2000 non si era affatto
consolidata, se si considera che i relativi lavori sono
stati ultimati (peraltro solo “al grezzo”, senza le
necessarie finiture atte a rendere l’edificio abitabile)
soltanto in data 29.10.2010 e, quindi, anche l’onere di
motivazione in punto di pubblico interesse all’esercizio
dell’autotutela si configurava come meno pregnante (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 30.01.2014 n. 24 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
termine massimo di validità del piano di lottizzazione,
stabilito dall’art. 16, comma 5, della legge 17.08.1942 n.
1150 per i piani particolareggiati ma valevole anche per i
piani di lottizzazione, è di dieci anni.
Alla scadenza di tale termine massimo (o nel minor termine
espressamente previsto per la sua attuazione) il piano di
lottizzazione perde efficacia.
La scadenza del piano di lottizzazione legittima
l'Amministrazione a dettare una diversa regolamentazione
urbanistica ed edilizia per le aree nel medesimo ricomprese
che non siano state oggetto di sfruttamento edificatorio nel
termine di efficacia della relativa convenzione.
La perdita di efficacia della lottizzazione convenzionata
per scadenza del termine decennale, infatti, determina il
venir meno, sul piano pretensivo, dell'affidamento circa
l'intangibilità della destinazione urbanistica, per cui un
nuovo strumento urbanistico non deve necessariamente tenerne
conto.
Ma fino a tale momento di modifica della disciplina
urbanistica dettata per quell’area, nei casi in cui le opere
di urbanizzazione previste dalla lottizzazione siano state
interamente realizzate e sia stato completato, con ingente
impegno anche finanziario, il tessuto urbano della stessa,
sarebbe illogico e contrario ai principi di corretto
svolgimento dell’azione amministrativa ritenere che la zona
debba restare senz’altro inedificata rendendo vano
quell’impegno.
---------------
La scadenza del termine decennale di efficacia non preclude
di per sé la realizzazione delle volumetrie previste dal
piano, purché siano state tempestivamente realizzate le
opere di urbanizzazione da esso programmate.
Occorre adesso esaminare la censura secondo la quale le
opere per cui è causa non sarebbero legittime in quanto
realizzate dopo che la convenzione di lottizzazione era già
scaduta.
Con sentenza n. 118 del 31.01.2009, pronunciata nel ricorso
n. 118/2009, questo Tribunale aveva annullato la concessione
n. 9/1999, ritenendo decorso il termine decennale di
efficacia della convenzione di lottizzazione in esecuzione
della quale era stato rilasciato il titolo edilizio, e tale
decisione è stata confermata in appello dal Consiglio di
Stato con sentenza n. 2045 del 06.04.2012.
La prima censura proposta dai ricorrenti lamenta proprio la
violazione delle statuizioni di cui ai predetti giudicati.
Tali precedenti, tuttavia, non vincolanti per il caso in
esame in quanto resi in un giudizio tra altre parti e in
relazione all’impugnazione di altro titolo edilizio, non
sono tuttavia condivisi dal Collegio alla luce del
prevalente orientamento giurisprudenziale affermatosi più
recentemente in materia.
Il termine massimo di validità del piano di lottizzazione,
stabilito dall’art. 16, comma 5, della legge 17.08.1942 n.
1150 per i piani particolareggiati ma valevole anche per i
piani di lottizzazione, è di dieci anni.
Alla scadenza di tale termine massimo (o nel minor termine
espressamente previsto per la sua attuazione) il piano di
lottizzazione perde efficacia.
La scadenza del piano di lottizzazione legittima
l'Amministrazione a dettare una diversa regolamentazione
urbanistica ed edilizia per le aree nel medesimo ricomprese
che non siano state oggetto di sfruttamento edificatorio nel
termine di efficacia della relativa convenzione.
La perdita di efficacia della lottizzazione convenzionata
per scadenza del termine decennale, infatti, determina il
venir meno, sul piano pretensivo, dell'affidamento circa
l'intangibilità della destinazione urbanistica, per cui un
nuovo strumento urbanistico non deve necessariamente tenerne
conto.
Ma fino a tale momento di modifica della disciplina
urbanistica dettata per quell’area, nei casi in cui le opere
di urbanizzazione previste dalla lottizzazione siano state
interamente realizzate e sia stato completato, con ingente
impegno anche finanziario, il tessuto urbano della stessa,
sarebbe illogico e contrario ai principi di corretto
svolgimento dell’azione amministrativa ritenere che la zona
debba restare senz’altro inedificata rendendo vano
quell’impegno (TAR Sardegna, Sez. II 19.02.2010 n. 191;
Cons. Stato, Sez. V, 30.04.2009 n. 2768).
Nella specie, al contrario, come risulta dalle difese delle
parti resistenti, con la variante al piano di fabbricazione
adottata dal Comune di Stintino con delibera del Consiglio
comunale n. 8 dell’08.03.2006, per il ridimensionamento
delle volumetrie già assegnate alle zone “F”,
successivamente e definitivamente approvata con
deliberazione consiliare n. 25 del 31.07.2006, il Comune ha
riconfermato, quale piano attuativo del proprio strumento
urbanistico generale, riconfermandone le cubature, la
lottizzazione in questione.
E non può nemmeno ritenersi che, decorso il decennio di
efficacia di un piano di lottizzazione, occorresse
necessariamente procedere ad un nuovo convenzionamento
oppure ad una nuova formale approvazione di uno strumento
attuativo, giacché tali atti sarebbero stati privi di
oggetto in quanto destinati a consentire l’urbanizzazione di
una zona già dotata di tutte le infrastrutture necessarie
nella quale, quindi, i bisogni che impongono di procedere al
convenzionamento erano ormai soddisfatti (cfr. TAR Sardegna,
n. 1250 del 10.11.2001).
La scadenza del termine decennale di efficacia, in altre
parole, non preclude di per sé la realizzazione delle
volumetrie previste dal piano, purché siano state
tempestivamente realizzate le opere di urbanizzazione da
esso programmate (cfr: Tar Sardegna, Sez. II, n. 554 del
31.05.2012)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 15.01.2014 n. 38 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Difetti di progettazione: si può chiedere il
risarcimento entro 10 anni.
La Corte di cassazione è intervenuta, con la pronuncia che
si annota, sul dibattuto tema dell'applicazione della
decadenza di cui all'art. 2226 c.c., secondo comma,
all'ipotesi in cui l'oggetto della prestazione del
professionista sia consistita in una prestazione di opera
intellettuale.
Nel caso di specie era avvenuto che un architetto aveva
richiesto l'emanazione di un decreto ingiuntivo nei
confronti del proprio cliente, il quale, tuttavia, si era
opposto deducendo l'inadempimento del professionista ai
propri obblighi contrattuali.
Il professionista, da parte sua, aveva però dedotto la
decadenza del diritto di denunciare vizi da parte del
cliente ai sensi del secondo comma dell'art. 2226 c.c., il
quale così prevede: “Il committente deve, a pena di
decadenza denunziare le difformità e i vizi occulti al
prestatore d'opera entro otto giorni dalla scoperta.
L'azione si prescrive entro un anno dalla consegna”.
Il giudice di primo grado aveva rigettato tale eccezione del
convenuto opposto; eccezione però successivamente accolta
nel grado di appello.
Il cliente aveva dunque proposto ricorso per cassazione al
fine di censurare la pronuncia della Corte d'appello sotto
il profilo della falsa applicazione dell'art. 2226 c.c. al
caso di specie.
La Corte, nell'esaminare la questione, ha ricordato come il
tema dell'applicazione della predetta disposizione
all'ipotesi del contratto d'opera intellettuale sia stato
oggetto di una pronuncia delle Sezioni Unite, riferita, in
particolare, alla fattispecie del professionista che abbia
assunto l'obbligo di redigere un progetto o di svolgere
l'attività di direzione di lavori.
Le Sezioni Unite, con pronuncia n. 15871/2005 avevano
infatti chiarito che “Le disposizioni dell'art. 2226
c.c., in tema di decadenza e prescrizione dell'azione di
garanzia per vizi dell'opera, sono inapplicabili alla
prestazione d'opera intellettuale, ed in particolare alla
prestazione del professionista che abbia assunto
l'obbligazione della redazione di un progetto di ingegneria
o della direzione dei lavori, ovvero l'uno e l'altro
compito, attesa l'eterogeneità della prestazione rispetto a
quella manuale, cui si riferisce l'art. 2226 c.c., norma che
perciò non è da considerare tra quelle richiamate dall'art.
2230 c.c.”.
Nella pronuncia di cui odiernamente si dà conto, la Corte ha
dunque ribadito tale principio giurisprudenziale, in
considerazione del fatto che le obbligazioni svolte, nel
caso di specie, dal professionista, risultavano esattamente
analoghe a quelle oggetto della pronuncia delle Sezioni
Unite (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 20.12.2013 n. 28575 - link a www.altalex.com). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
La natura riservata degli atti non limita il
diritto d’accesso del Consigliere.
Al riguardo, chiariscono i giudici del Consiglio di Stato
nella pronuncia in commento, occorre premettere che
l’interesse del consigliere comunale ad ottenere determinate
informazioni o copia di specifici atti detenuti
dall’amministrazione civica, non si presta ad alcun
scrutinio di merito da parte degli uffici interpellati in
quanto, sul piano oggettivo, esso ha la medesima latitudine
dei compiti di indirizzo e controllo riservati al consiglio
comunale (al cui svolgimento è funzionale).
Anche il diritto all’informazione del consigliere comunale
è, tuttavia, soggetto al rispetto di alcune forme e
modalità. In effetti, oltre alla necessità che l’interessato
alleghi la sua qualità, permane l’esigenza che le istanze
siano comunque formulate in maniera specifica e dettagliata,
recando l’esatta indicazione degli estremi identificativi
degli atti e dei documenti o, qualora siano ignoti tali
estremi, almeno degli elementi che consentano
l’individuazione dell’oggetto dell’accesso (tra le molte
Cons. Stato, sez. V, 13.11.2002, n. 6293).
Tali cautele derivano dall’esigenza che il consigliere
comunale non abusi, infatti del diritto all’informazione
riconosciutogli dall’ordinamento, piegandone le alte
finalità a scopi meramente emulativi od aggravando
eccessivamente, con richieste non contenute entro immanenti
limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la
corretta funzionalità amministrativa dell’ente civico. Tra
l’accesso ai documenti dei soggetti interessati, di cui agli
art. 22 e seguenti della legge 07.08.1990 n. 241, e quello
del consigliere comunale, di cui all’art. 43 D.lgs.
18.08.2000 n. 267, sussiste un evidente rapporto, poiché il
primo è un istituto che consente ai singoli soggetti di
conoscere atti e documenti, al fine di poter predisporre la
tutela delle proprie posizioni soggettive eventualmente
lese, mentre il secondo è un istituto giuridico rivolto a
consentire al consigliere comunale di poter esercitare il
proprio mandato, verificando e controllando il comportamento
degli organi istituzionali e decisionali del comune.
Pertanto, al consigliere comunale non può essere opposto un
diniego che non sia motivato puntualmente e adeguatamente.
In questa circostanza, con riguardo alle istanze di accesso
dei consiglieri comunali in causa, i giudici d’appello hanno
valutato non controvertibile che esse, come correttamente
ritenuto dal TAR, avessero i caratteri della ragionevolezza
e fossero funzionali all’esercizio del mandato ed indichino
specificamente gli atti richiesti. Nel primo caso si tratta,
infatti, di una richiesta rivolta ad ottenere notizie in
ordine al personale assunto dal Comune in un ben determinato
lasso di tempo e ad ottenere informazioni circa gli
automezzi e mezzi in dotazione al Comune; nel secondo caso,
invece, si tratta di due richieste, entrambe di rilascio di
copia delle determinazioni del solo ufficio affari generali.
Di esse non è stata concessa copia, né, alternativamente, è
stata proposta ai richiedenti, come essi affermano senza che
ciò sia smentito dal Comune, la possibilità di prendere
visione degli atti, per circoscrivere eventualmente le
richieste “a quelle che più interessavano per l’esercizio
del mandato”.
Un’ulteriore richiesta riguarda, invece, l’accesso a due
delibere di giunta, denegato solo perché riguarderebbero
dati personali, asseritamente non divulgabili. Per
giustificare il diniego all’accesso, il Comune appellante
sosteneva che le istanze contrastassero, per la loro
genericità, con il regolamento comunale per il diritto di
accesso agli atti amministrativi, emanato ai sensi
dell’articolo 43 comma due del D.lgs. numero 267/2000. Ma i
giudici di Palazzo Spada, su questo argomento, sottolineano
che un regolamento sull’accesso, immotivamente impeditivo
del diritto dei consiglieri di ottenere dall’amministrazione
gli atti e le informazioni utili all’esercizio del mandato
elettivo ricoperto, contrasterebbe con le leggi statali
poste a salvaguardia del diritto di accesso agli atti,
riconosciuto ai consiglieri comunali per le finalità
suddette e ai cittadini in genere a tutela dei propri
interessi, con i soli limiti previsti dalla legge stessa a
tutela della privacy e dei diritti dei terzi.
Quanto alla esigenza di assicurare la riservatezza degli
atti oggetto di accesso e il diritto alla privacy dei terzi,
in sede di esercizio del diritto di accesso di cui
dispongono i consiglieri comunali e provinciali, si osserva
che tale necessità è salvaguardata dall’art. 43, comma 2,
del D.lgs. 18.08.2000 n. 267, laddove viene previsto che i
consiglieri stessi sono tenuti al segreto nel caso accedano
ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di
terzi (così Consiglio di Stato, sez. V, 04.05.2004, n.
2716).
Il diritto del consigliere comunale o provinciale ad avere
dall’ente tutte le informazioni che siano utili
all’espletamento del mandato non incontra, conseguentemente,
alcuna limitazione derivante dalla loro natura riservata, in
quanto il consigliere è vincolato all’osservanza del segreto
(commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 11.12.2013 n. 5931 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Le procedure di valutazione sono sottratte
all’”accesso civico”.
Al riguardo, nella pronuncia in commento, i giudici del
Consiglio di Stato sottolineano, in primo luogo, che le
nuove disposizioni, dettate con d.lgs. 14.03.2013, n. 33 in
materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di
informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni
disciplinano situazioni, non ampliative né sovrapponibili a
quelle che consentono l’accesso ai documenti amministrativi,
ai sensi degli articoli 22 e seguenti della legge 7.8.1990,
n. 241, come successivamente modificata ed integrata.
Col citato d.lgs. n. 33/2013, infatti, si intende procedere
al riordino della disciplina, intesa ad assicurare a tutti i
cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni,
concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche
amministrazioni, al fine di attuare “il principio
democratico e i principi costituzionali di eguaglianza,
imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed
efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche”, quale
integrazione del diritto “ad una buona amministrazione”,
nonché per la “realizzazione di un’amministrazione
aperta, al servizio del cittadino”.
Detta normativa –avente finalità dichiarate di contrasto
della corruzione e della cattiva amministrazione– intende
anche attuare la funzione di “coordinamento informativo,
statistico e informatico dei dati dell’amministrazione
statale, regionale e locale, di cui all’art. 117, secondo
comma, lettera r), della Costituzione”: quanto sopra,
tramite pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti
(specificati nei capi II, III, IV e V del medesimo d.lgs. e
concernenti l’organizzazione, nonché diversi specifici campi
di attività delle predette amministrazioni) nei siti
istituzionali delle medesime, con diritto di chiunque di
accedere a tali siti “direttamente ed immediatamente,
senza autenticazione ed identificazione”; solo in caso
di omessa pubblicazione può essere esercitato, ai sensi
dell’art. 5 del citato d.lgs., il cosiddetto “accesso
civico”, consistente in una richiesta –che non deve
essere motivata– di effettuare tale adempimento, con
possibilità, in caso di conclusiva inadempienza all’obbligo
in questione, di ricorrere al giudice amministrativo,
secondo le disposizioni contenute nel relativo codice sul
processo (d.lgs. 02.07.2010, n. 104).
L’accesso ai documenti amministrativi, disciplinato dagli
articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241 è
riferito, invece, al “diritto degli interessati di
prendere visione ed estrarre copia di documenti
amministrativi”, intendendosi per “interessati….tutti
i soggetti….che abbiano un interesse diretto, concreto ed
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l’accesso”; in funzione di tale interesse la domanda di
accesso deve essere opportunamente motivata. Benché
sommarie, le indicazioni sopra fornite appaiono sufficienti
per evidenziare la diversificazione di finalità e di
disciplina dell’accesso agli atti, rispetto al cosiddetto
accesso civico, pur nella comune ispirazione al principio di
trasparenza, che si vuole affermare con sempre maggiore
ampiezza nell’ambito dell’amministrazione pubblica.
Per quanto riguarda la documentazione richiesta nel nella
vicenda in commento –concernente “tutti gli atti delle
procedure di valutazione di tutti i dottorandi di ricerca…il
cui relativo titolo è stato o non è stato rilasciato dal
giorno 01.01.2005…”– deve ritenersi evidente, secondo i
giudici di Palazzo Spada, che la procedura attivata sia da
ricondurre in via esclusiva alla citata legge n. 241/1990,
come del resto formalmente enunciato nell’istanza: una così
ampia diffusione degli atti interni di qualsiasi procedura
valutativa non appare imposta, infatti, dal ricordato d.lgs.
n. 33/2013, né –se pure lo fosse– potrebbe intendersi
riferita anche a procedure antecedenti all’emanazione del
medesimo d.lgs., entrato in vigore il 20.04.2013 (commento
tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.11.2013 n. 5515 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumori nei rapporti tra privati: parametri normativi valgono
come limite minimo.
I criteri previsti dal D.P.C.M.
01.03.1991 per la determinazione dei limiti massimi di
esposizione al rumore, ancorché dettati per la tutela
generale del territorio, possono essere utilizzati come
parametro di riferimento per stabilire l’intensità e, di
riflesso, la soglia di tollerabilità delle immissioni
rumorose nei rapporti tra privati purché, però, considerati
come solo limite minimo.
E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. II
civile, con la
sentenza 06.11.2013 n. 25019.
Il concetto di “immissione” e la sua soglia di
tollerabilità
Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che l'art.
844 c.c. deve essere letto tenendo conto del limite della
tutela della salute, limite da ritenersi pacificamente
intrinseco nell’attività di produzione oltreché nei rapporti
di vicinato e, ciò, alla luce di un’interpretazione
costituzionalmente orientata per cui essenziale e prevalente
deve essere il soddisfacimento di una normale qualità di
vita.
Alla genericità della previsione de qua, soccorrono
–in ogni caso– i criteri stabiliti dal D.P.C.M. 01.03.1991
in tema di quantificazione della soglia massima di
esposizione al rumore che, benché dettati per la tutela
generale del territorio, possono essere utilizzati anche
come parametro di riferimento per stabilire il limite di
tollerabilità delle immissioni rumorose nei rapporti tra
privati.
La posizione della giurisprudenza sui criteri di
tollerabilità
E' stato, tuttavia, chiarito dalla giurisprudenza che i
parametri fissati dalle norme speciali a tutela
dell’ambiente, pur potendo essere reputati criteri minimali
di partenza (al fine di stabilire -appunto-
l’intollerabilità delle immissioni che li eccedono) non sono
–però– necessariamente vincolanti per il giudice civile che,
nel fissare la tollerabilità, o meno, dei relativi effetti
in ambito privatistico, può anche discostarsene pervenendo
al giudizio di intollerabilità sulla scorta di un prudente
apprezzamento che consideri la particolarità della
situazione concreta e dei criteri contemplati dall'art. 844
c.c., [1]
la valutazione dei quali, ove adeguatamente motivata (come
nel caso di specie), costituisce accertamento di merito
insindacabile in sede di legittimità. [2]
---------------
[1] Norma posta preminentemente a protezione di
situazioni soggettive privatistiche e, segnatamente, della
proprietà.
[2] In proposito, v. Cass. civ., 27.01.2003, n. 1151, in
“Giust. civ.”, 2003, I, 2770; Cass. civ., 25.08.2005, n.
17281, in “Mass. giust. civ.”, 2005, 10 (link a
www.altalex.com). |
URBANISTICA:
L'art. 2, comma 1, l. 19.11.1968 n. 1187, che
prevede la durata quinquennale dei vincoli che comportano l'inedificabilità
dei suoli, si riferisce a tutti i vincoli discendenti dal
p.r.g., senza possibilità di distinzione tra vincoli di
natura sostanziale e vincoli di natura solo strumentale, tra
i secondi dei quali rientra la subordinazione
dell'edificabilità di un'area alla previa formazione di un
piano esecutivo.
Tuttavia, la giurisprudenza ha uniformemente escluso che la
decadenza ex L. n. 1187/1968 dei vincoli strumentali
previsti dallo strumento urbanistico possa applicarsi nei
casi in cui, in alternativa al piano particolareggiato, sia
prevista dal piano regolatore la possibilità di ricorso ad
un piano di lottizzazione ad iniziativa privata. In questo
ultimo caso, infatti, la possibilità di una pianificazione
di livello derivato ad iniziativa privata, consentendo di
porre rimedio ad eventuali inerzie o ritardi della P.A.,
esclude la configurabilità dello schema ablatorio, e quindi,
conseguentemente, la decadenza quinquennale del relativo
vincolo.
---------------
Secondo l’insegnamento giurisprudenziale, una concessione
edilizia può essere rilasciata anche in assenza del piano
attuativo pur richiesto dalle norme di piano regolatore
quando in sede istruttoria l'Amministrazione abbia accertato
che il lotto del richiedente è l'unico a non essere stato
ancora edificato, vi è già stata, cioè, una pressoché
completa edificazione dell'area (come nell'ipotesi del lotto
residuale ed intercluso), e si trova in una zona che, oltre
che integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata
delle opere di urbanizzazione.
Pertanto, si può prescindere dalla lottizzazione
convenzionata prescritta dalle norme di piano solo, in
pratica, nei casi eccezionali in cui nel comprensorio
interessato sussista una situazione di fatto corrispondente
a quella che deriverebbe dall'attuazione della lottizzazione
stessa, ovvero in presenza di opere di urbanizzazione
primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi
prescritti.
Tanto premesso, la prima doglianza riproposta dall’attuale
appellante attiene all’intervenuta decadenza del vincolo
c.d. strumentale di inedificabilità opposto dal Comune per
scadenza del quinquennio previsto dalla legge.
Il mezzo non è suscettibile di valutazione positiva.
La società si richiama al tradizionale orientamento secondo
il quale l'art. 2, comma 1, l. 19.11.1968 n. 1187, che
prevede la durata quinquennale dei vincoli che comportano l'inedificabilità
dei suoli, si riferisce a tutti i vincoli discendenti dal
p.r.g., senza possibilità di distinzione tra vincoli di
natura sostanziale e vincoli di natura solo strumentale, tra
i secondi dei quali rientra la subordinazione
dell'edificabilità di un'area alla previa formazione di un
piano esecutivo (cfr. ad es. C.d.S., V, 14.04.2000, n. 2238;
06.03.1991, n. 223).
La Sezione deve però osservare che, pur rimanendosi sul
terreno dell’orientamento tradizionale appena detto, la
censura risulta comunque infondata.
La giurisprudenza ha infatti uniformemente escluso che la
decadenza ex L. n. 1187/1968 dei vincoli strumentali
previsti dallo strumento urbanistico possa applicarsi nei
casi in cui, in alternativa al piano particolareggiato, sia
prevista dal piano regolatore la possibilità di ricorso ad
un piano di lottizzazione ad iniziativa privata. In questo
ultimo caso, infatti, la possibilità di una pianificazione
di livello derivato ad iniziativa privata, consentendo di
porre rimedio ad eventuali inerzie o ritardi della P.A.,
esclude la configurabilità dello schema ablatorio, e quindi,
conseguentemente, la decadenza quinquennale del relativo
vincolo (C.d.S., IV, 24.03.2009, n. 1765; V, 03.04.2000, n.
1908).
E nella fattispecie concreta si profila proprio una
condizione siffatta, atteso che l’art. 7 delle N.T.A.
subordinava l’attività edificatoria nelle aree libere della
zona D all’adozione non solo di piani particolareggiati, ma
anche, in alternativa e senza limitazioni, di “altri
strumenti attuativi”.
Senza dire che l’indirizzo giurisprudenziale posto a base
della doglianza comporterebbe che l'area in precedenza
sottoposta a vincoli, anche strumentali, dopo la loro
decadenza quinquennale risulterebbe priva di
regolamentazione urbanistica (e quindi “bianca”), in
quanto, mentre la disciplina preesistente era stata ormai
abrogata, quella successiva sarebbe diventata inefficace,
con il risultato che all'area in questione si applicherebbe
la disciplina di cui all'art. 4, ultimo comma, della L.
28.01.1977 n. 10 (C.d.S., V, 23.11.1996, n. 1413;
30.10.1997, n. 1225). Donde l’onere della ricorrente,
rimasto inadempiuto, di giustificare il proprio interesse a
base della censura, dimostrando l’utilità effettiva
dell’accoglimento della medesima ai fini del positivo corso
del proprio progetto edificatorio.
Una volta confermata la permanente vigenza del suddetto
vincolo strumentale all’epoca del pronunciamento
dell’Amministrazione sul progetto di parte, occorre peraltro
ricordare che, secondo una consolidata giurisprudenza,
previsioni urbanistiche del genere possono, in casi
particolari, risultare superate dai fatti e non più
vincolanti in concreto, ove sia stato raggiunto il risultato
-l’adeguata dotazione di infrastrutture, primarie e
secondarie- cui tali previsioni di “attesa” erano
finalizzate.
Secondo l’insegnamento giurisprudenziale, infatti, una
concessione edilizia può essere rilasciata anche in assenza
del piano attuativo pur richiesto dalle norme di piano
regolatore quando in sede istruttoria l'Amministrazione
abbia accertato che il lotto del richiedente è l'unico a non
essere stato ancora edificato, vi è già stata, cioè, una
pressoché completa edificazione dell'area (come nell'ipotesi
del lotto residuale ed intercluso), e si trova in una zona
che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è
anche dotata delle opere di urbanizzazione; pertanto, si può
prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta
dalle norme di piano solo, in pratica, nei casi eccezionali
in cui nel comprensorio interessato sussista una situazione
di fatto corrispondente a quella che deriverebbe
dall'attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in
presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria
pari agli standard urbanistici minimi prescritti (C.d.S., V,
05.12.2012, n. 6229; 05.10.2011, n. 5450; IV, 01.08.2007, n.
4276; 21.12.2006, n. 7769) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 31.10.2013 n. 5251 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
presentazione di un’istanza di sanatoria rende inefficace il
precedente provvedimento ripristinatorio e quindi
improcedibile la relativa impugnazione per sopravvenuta
carenza di interesse.
Invero, l’obbligo per l’Amministrazione di pronunciarsi
previamente sulla domanda di sanatoria e la conseguente
paralizzazione degli effetti dell’atto repressivo insorgono
se ed in quanto è ravvisabile la ordinaria ipotesi di un
onere di verifica dell’eventuale sanabilità di ciò che si è
costruito sine titulo.
Procedendo nell’ordine, quanto alla questione sub a) il
Collegio non intende decampare dall’orientamento più volte
espresso da questo stesso Collegio secondo il quale la
presentazione di un’istanza di sanatoria rende inefficace il
precedente provvedimento ripristinatorio e quindi
improcedibile la relativa impugnazione per sopravvenuta
carenza di interesse (Cons. Stato Sez. IV 16.09.2011 n.
5228; idem 16.04.2012 n. 2185); ma tale principio non è
nella specie applicabile.
Invero, l’obbligo per l’Amministrazione di pronunciarsi
previamente sulla domanda di sanatoria e la conseguente
paralizzazione degli effetti dell’atto repressivo insorgono
se ed in quanto è ravvisabile la ordinaria ipotesi di un
onere di verifica dell’eventuale sanabilità di ciò che si è
costruito sine titulo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.10.2013 n. 5115 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
38 del DPR 06.06.2001 n. 3890 disciplina il regime
sanzionatorio applicabile nelle ipotesi in cui l’intervento
edilizio sia stato realizzato sulla base di un titolo poi
annullato, con la espressa previsione dell’irrogazione di
una sanzione pecuniaria … “ove non sia possibile, in base a
motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure
amministrative o la restituzione in pristino…” .
La norma è finalizzata ad introdurre un regime sanzionatorio
più mite per le opere edilizie realizzate conformemente ad
un titolo abilitativo successivamente rimosso rispetto ad
altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in
assenza di titolo, con il chiaro intento di tutelare un
certo affidamento del privato, regime che consente la
conservazione del bene.
Invero, anche tenuto conto della stessa formulazione
letterale della disposizione (“qualora non sia possibile ..
la rimozione dei vizi delle procedure amministrative …”),
l’effetto, per così dire, sanante della stessa è
circoscritto alle sole ipotesi in cui il titolo ad
aedificandum sia stato annullato per vizi di carattere
formale e procedurale, non essendoci, così, spazio per
l’applicazione della sanzione pecuniaria, allorché sia stata
acclarata la sussistenza di un vizio di natura sostanziale.
L’art. 38 del DPR
06.06.2001 n. 3890 (Testo unico dell’edilizia) disciplina il
regime sanzionatorio applicabile nelle ipotesi in cui
l’intervento edilizio sia stato realizzato sulla base di un
titolo poi annullato, con la espressa previsione
dell’irrogazione di una sanzione pecuniaria … “ove non
sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione
dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in
pristino…” .
La norma è finalizzata ad introdurre un regime sanzionatorio
più mite per le opere edilizie realizzate conformemente ad
un titolo abilitativo successivamente rimosso rispetto ad
altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in
assenza di titolo, con il chiaro intento di tutelare un
certo affidamento del privato, regime che consente la
conservazione del bene (Cons. Stato Sez. IV 10/08/2011 n.
4770).
Ora nella specie non si può escludere in capo agli
interessati una situazione di buona fede, ma il fatto è che
nel caso de quo siamo al di fuori del campo operativo
della norma sopra illustrata, recante sostanzialmente una
forma di sanatoria a formazione progressiva (con la sanzione
pecuniaria in luogo della rimozione).
Invero, anche tenuto conto della stessa formulazione
letterale della disposizione (“qualora non sia possibile
.. la rimozione dei vizi delle procedure amministrative …”),
l’effetto, per così dire, sanante della stessa è
circoscritto alle sole ipotesi in cui il titolo ad
aedificandum sia stato annullato per vizi di carattere
formale e procedurale, non essendoci, così, spazio per
l’applicazione della sanzione pecuniaria, allorché sia stata
acclarata la sussistenza di un vizio di natura sostanziale
(Cons. Stato Sez. V 12.05.2006 n. 2960)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 21.10.2013 n. 5115 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Lo
jus aedificandi del privato, nei casi previsti dall’art. 22,
t.u. dell’edilizia, non è subordinato ad un atto di assenso
della pubblica amministrazione ma è legittimato direttamente
dalla legge e condizionato all’attivazione di un «contatto
necessario» con l’amministrazione che si realizza mediante
la presentazione della d.i.a..
Segue da ciò che il decorso del termine previsto dalla legge
a seguito della presentazione della d.i.a. non determina la
formazione di un silenzio-assenso (o, comunque, di un
consenso tacito) alla realizzazione dell’opera, ma vale
sostanzialmente come termine utile per la verifica della
regolarità dell’intervento edilizio che il denunciante
intende intraprendere.
La caratteristica fondamentale della procedura abbreviata
prevista per la d.i.a., infatti, è proprio quella di
escludere la necessità di un titolo provvedimentale di
legittimazione (anche implicito), residuando in capo
all’amministrazione solamente un potere di verifica da
esercitarsi nel termine massimo decadenziale previsto dalla
legge, ma che non esclude i poteri generali di controllo
sull’attività edilizia, una volta realizzata.
Il ricorso è infondato e va respinto.
In particolare :
a) il ricorrente ha abusivamente trasformato i locali ad uso
residenziale da locale lavatoio creando nuova volumetria
residenziale;
b) solo in data 17.05.2011 veniva presentata DIA per
mutamento di destinazione d’uso a fini residenziali per le
stesse opere già adibite a fini residenziali in epoca
anteriore alla presentazione della DIA;
c) sulla presunta formazione del silenzio assenso il
Collegio ritiene di aderire a quell’orientamento
giurisprudenziale per cui lo jus aedificandi del
privato, nei casi previsti dall’art. 22, t.u. dell’edilizia,
non è subordinato ad un atto di assenso della pubblica
amministrazione ma è legittimato direttamente dalla legge e
condizionato all’attivazione di un «contatto necessario»
con l’amministrazione che si realizza mediante la
presentazione della d.i.a. (Cons. St., sez. V, 19.06.2006,
n. 3586; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 29.11.2007, n.
6519; id. 15.11.2007, n. 6461; Tar Liguria 22.01.2003, n.
113).
Segue da ciò che il decorso del termine previsto dalla legge
a seguito della presentazione della d.i.a. non determina la
formazione di un silenzio-assenso (o, comunque, di un
consenso tacito) alla realizzazione dell’opera, ma vale
sostanzialmente come termine utile per la verifica della
regolarità dell’intervento edilizio che il denunciante
intende intraprendere.
La caratteristica fondamentale della procedura abbreviata
prevista per la d.i.a., infatti, è proprio quella di
escludere la necessità di un titolo provvedimentale di
legittimazione (anche implicito), residuando in capo
all’amministrazione solamente un potere di verifica da
esercitarsi nel termine massimo decadenziale previsto dalla
legge (Tar Piemonte, sez. I, 04.05.2005, n. 1359), ma che
non esclude i poteri generali di controllo sull’attività
edilizia, una volta realizzata
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 14.10.2013
n. 8822 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - COMPETENZE PROGETTUALI: Gli
ordini professionali hanno la legittimazione ad agire
davanti al giudice amministrativo per difendere gli
interessi dei soggetti di cui hanno la rappresentanza
istituzionale, sia ai fini della tutela della professione
stessa o di attribuzioni proprie, sia ai fini del
perseguimento di vantaggi strumentali giuridicamente
riferibili alla sfera categoriale.
Gli ordini professionali hanno la legittimazione ad agire
davanti al giudice amministrativo per difendere gli
interessi dei soggetti di cui hanno la rappresentanza
istituzionale, sia ai fini della tutela della professione
stessa o di attribuzioni proprie, sia ai fini del
perseguimento di vantaggi strumentali giuridicamente
riferibili alla sfera categoriale (ex plurimis: TAR
Lazio, Sez. III-quater, 18.11.2005 n. 11607; TAR Lazio-Roma
Sez. I, 02.11.1995 n. 1896; Cons. Stato, Sez. V 30.01.2002
n. 505; TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I 18.12.2001 n.
1282)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 01.10.2013 n. 936 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Da
una interpretazione letterale e sistematica della legge
07.01.1976 n. 3, emerge che soltanto ai dottori agronomi
viene riconosciuta una competenza esclusiva in materia
forestale, come chiaramente indicato dal precitato art. 2,
lett. c), che riserva agli stessi l’esercizio dell’attività
di progettazione di opere di imboschimento.
Invero, per quanto concerne le competenze dei dottori
agronomi, occorre fare riferimento alle attività di
valorizzazione e gestione dei processi produttivi agricoli,
zootecnici e forestali con la tutela dell'ambiente e del
mondo rurale, mentre, per quanto concerne la competenza dei
periti, occorre fare riferimento alla direzione e gestione
di aziende agrarie e zootecniche piccole e medie e di
progettazione, direzione e collaudo di opere di
miglioramento fondiario, fino al limite della media azienda,
nella cui nozione può anche rientrare la coltivazione di un
bosco ceduo, di un castagneto, di limitati accorpamenti di
alberi da frutta fra loro associati.
Sussiste, dunque, la competenza concorrente dei periti
agrari e dei dottori agronomi e forestali soltanto nelle
ipotesi inerenti le attività di progettazione di opere di
trasformazione e di miglioramento fondiario in “medie
aziende”, che potrebbero comprendere, sia in quanto già
insediati sia in progetto di impianto, anche boschi non
irrilevanti, purché concepiti in funzione della produzione
agraria.
In tale ottica, è stato affermato che, dal raffronto fra le
due leggi professionali, non emerge che possa essere
“potenzialmente esclusa l'affidabilità ad entrambe le
categorie della cura dei boschi, allorché contenuti in
aziende agrarie fino alla soglia di quelle medie. Infatti,
se per i dottori si tratta delle attività di valorizzazione
e gestione dei processi produttivi agricoli zootecnici e
forestali con la tutela dell'ambiente e del mondo rurale,
per i periti si parla di direzione e gestione di aziende
agrarie e zootecniche piccole e medie e di progettazione,
direzione e collaudo di opere di miglioramento fondiario, di
nuovo fino al limite della media azienda”.
Invero, va riconosciuta, in capo ai periti agrari, una
competenza residuale nella materia quando si tratti di
boschi pertinenti ad aziende agrarie, purché in funzione
solo produttiva e non ambientale, e sempre nei limiti in cui
la coltivazione del bosco non presenti difficoltà
insostenibili per la cultura astrattamente riconoscibile ai
periti medesimi, in base alle cognizioni apprese in ambiente
scolastico.
L’art. 2, comma 1,
lettera b), della legge 28.03.1968 n. 434, nel testo
sostituito dall'art. 2 della legge 21.02.1991 n. 54,
attribuisce ai periti agrari “la progettazione, la
direzione ed il collaudo di opere di miglioramento fondiario
e di trasformazione di prodotti agrari e relative
costruzioni, limitatamente alle medie aziende, il tutto in
struttura ordinaria, secondo la tecnologia del momento,
anche se ubicate fuori dai fondi”.
L’art. 2 della legge 07.01.1976 n. 3, al comma 1, lettere b)
e c), nel testo sostituito dall'art. 2, della legge
10.02.1992 n. 152, riserva ai dottori agronomi “lo
studio, la progettazione, la direzione, la sorveglianza, la
liquidazione, la misura, la stima, la contabilità e il
collaudo delle opere di trasformazione e di miglioramento
fondiario, nonché delle opere di bonifica e delle opere di
sistemazione idraulica e forestale, di utilizzazione e
regimazione delle acque e di difesa e conservazione del
suolo agrario, sempreché queste ultime, per la loro natura
prevalentemente extraagricola o per le diverse implicazioni
professionali non richiedano anche la specifica competenza
di professionisti di altra estrazione” nonché “c) lo studio,
la progettazione, la direzione, la sorveglianza, la
liquidazione, la misura, la stima, la contabilità e il
collaudo di opere inerenti ai rimboschimenti, alle
utilizzazioni forestali, alle piste da sci ed attrezzature
connesse, alla conservazione della natura, alla tutela del
paesaggio ed all'assestamento forestale”.
Il medesimo art. 2, comma 1, della legge 07.01.1976 n. 3
prevede la competenza dei dottori agronomi e forestali anche
con riferimento alle seguenti ipotesi: "q) gli studi di
assetto territoriale ed i piani zonali, urbanistici e
paesaggistici; la programmazione, per quanto attiene alle
componenti agricolo - forestali ed ai rapporti
città-campagna; i piani di sviluppo di settore e la
redazione nei piani regolatori di specifici studi per la
classificazione del territorio rurale, agricolo e forestale;
r) lo studio, la progettazione, la direzione, la
sorveglianza, la misura, la stima, la contabilità ed il
collaudo di lavori inerenti alla pianificazione territoriale
ed ai piani ecologici per la tutela dell'ambiente; la
valutazione di impatto ambientale ed il successivo
monitoraggio per quanto attiene agli effetti sulla flora e
la fauna; i piani paesaggistici e ambientali per lo sviluppo
degli ambiti naturali, urbani ed extraurbani; i piani
ecologici e i rilevamenti del patrimonio agricolo e
forestale".
Da una interpretazione letterale e sistematica della legge
07.01.1976 n. 3, emerge che soltanto ai dottori agronomi
viene riconosciuta una competenza esclusiva in materia
forestale, come chiaramente indicato dal precitato art. 2,
lett. c), che riserva agli stessi l’esercizio dell’attività
di progettazione di opere di imboschimento.
Invero, per quanto concerne le competenze dei dottori
agronomi, occorre fare riferimento alle attività di
valorizzazione e gestione dei processi produttivi agricoli,
zootecnici e forestali con la tutela dell'ambiente e del
mondo rurale, mentre, per quanto concerne la competenza dei
periti, occorre fare riferimento alla direzione e gestione
di aziende agrarie e zootecniche piccole e medie e di
progettazione, direzione e collaudo di opere di
miglioramento fondiario, fino al limite della media azienda,
nella cui nozione può anche rientrare la coltivazione di un
bosco ceduo, di un castagneto, di limitati accorpamenti di
alberi da frutta fra loro associati.
Sussiste, dunque, la competenza concorrente dei periti
agrari e dei dottori agronomi e forestali soltanto nelle
ipotesi inerenti le attività di progettazione di opere di
trasformazione e di miglioramento fondiario in “medie
aziende”, che potrebbero comprendere, sia in quanto già
insediati sia in progetto di impianto, anche boschi non
irrilevanti, purché concepiti in funzione della produzione
agraria.
In tale ottica, è stato affermato che, dal raffronto fra le
due leggi professionali, non emerge che possa essere “potenzialmente
esclusa l'affidabilità ad entrambe le categorie della cura
dei boschi, allorché contenuti in aziende agrarie fino alla
soglia di quelle medie. Infatti, se per i dottori si tratta
delle attività di valorizzazione e gestione dei processi
produttivi agricoli zootecnici e forestali con la tutela
dell'ambiente e del mondo rurale, per i periti si parla di
direzione e gestione di aziende agrarie e zootecniche
piccole e medie e di progettazione, direzione e collaudo di
opere di miglioramento fondiario, di nuovo fino al limite
della media azienda” (cfr.: Cons. St., Sez. IV,
30.07.1996, n. 915).
Invero, va riconosciuta, in capo ai periti agrari, una
competenza residuale nella materia quando si tratti di
boschi pertinenti ad aziende agrarie, purché in funzione
solo produttiva e non ambientale, e sempre nei limiti in cui
la coltivazione del bosco non presenti difficoltà
insostenibili per la cultura astrattamente riconoscibile ai
periti medesimi, in base alle cognizioni apprese in ambiente
scolastico (conf.: Tar Sardegna 08.07.1999 n. 901)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 01.10.2013 n. 936 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Perché sia legittimamente
accolta una domanda di sanatoria di abusi edilizi
perpetrati, occorra sia riscontrata la sussistenza delle
condizioni previste dalla legge per ottenere il condono,
attraverso un controllo in ordine alla veridicità delle
dichiarazioni sottese alla domanda presentata
dall’interessato.
Detto controllo avviene in sede amministrativa, in prima
battuta, e successivamente ed eventualmente in sede
giurisdizionale: in carenza di esito positivo di tale
riscontro la domanda è legittimamente respinta.
E’ agevole riscontrare che la data di commissione
dell’illecito edilizio rientri certamente nel fulcro della
attività accertativa, sia amministrativa che giudiziale (“è
da escludere la formazione del c.d. silenzio-assenso
sull'istanza di condono edilizio, di cui all'art. 31 l.
28.02.1985 n. 47, qualora il fabbricato abusivo sia stato
ultimato dopo il 31.10.1983 e l'istanza di sanatoria sia
stata prodotta senza la prescritta documentazione, di talché
…… ne è superfluo l'annullamento in autotutela”) e che, in
subiecta materia, l’esigenza che le dichiarazioni sottese
alla domanda siano effettivamente veridiche (trattandosi di
legalizzare in via eccezionale una condotta che
l’ordinamento giuridico considerava illegittimo al momento
della commissione) consente, in ipotesi contraria, il
ricorso ai poteri di autotutela in termini assai più ampi
che laddove si trattasse di “ritirare” un atto
amministrativo in virtù di un rinnovato apprezzamento
dell’interesse pubblico ovvero dell’incolpevole emergere di
circostanze prima ignorate.
Di converso, la giurisprudenza penalistica ha costantemente
affermato che, laddove il privato, in una dichiarazione
allegata alla domanda di sanatoria di un abuso edilizio,
riferisca falsamente di avere completato l’abuso in una
epoca antecedente a quella reale, ricorre la fattispecie
criminosa di cui all’art. 483 del codice penale.
---------------
Allorché sia accertata la falsità della dichiarazione
attestante l’epoca di realizzazione dell’abuso, la
conseguenza unica di tale circostanza riposa
nell’illegittimità del provvedimento di sanatoria (”il
decreto penale di condanna per dichiarazione falsa circa la
data di ultimazione di un manufatto ai fini dell'ottenimento
della concessione edilizia in sanatoria è circostanza che
provoca l'illegittimità sopravvenuta della concessione per
difetto di un atto presupposto essenziale”).
E’ stato in particolare evidenziato, da parte della
giurisprudenza di merito, che “l'inesatta volontaria
rappresentazione della realtà contenuta nell'istanza di
concessione in sanatoria su un presupposto essenziale (nella
specie data di realizzazione dell'abuso) integra gli estremi
della domanda dolosamente infedele, che, ai sensi dell'art.
40 L. 28.02.1985, n. 47, impedisce il formarsi del c.d.
silenzio-assenso previsto dall'art. 35, comma 18, della
stessa L. 28.02.1985, n. 47, e comporta altresì il non
accoglimento della domanda medesima”.
In via preliminare è incontroverso sia in dottrina che in
giurisprudenza che, perché sia legittimamente accolta una
domanda di sanatoria di abusi edilizi perpetrati, occorra
sia riscontrata la sussistenza delle condizioni previste
dalla legge per ottenere il condono, attraverso un controllo
in ordine alla veridicità delle dichiarazioni sottese alla
domanda presentata dall’interessato.
Detto controllo avviene in sede amministrativa, in prima
battuta, e successivamente ed eventualmente in sede
giurisdizionale: in carenza di esito positivo di tale
riscontro la domanda è legittimamente respinta (ex multis:
“in tema di condono edilizio, il giudice -prima di
sospendere il processo a norma dell'art. 44 della L.
28.02.1985, n. 47- ha il potere-dovere di controllare la
sussistenza delle condizioni di applicabilità del condono in
quanto si tratta di un potere di controllo strettamente
connesso all'esercizio della giurisdizione, il cui mancato
esercizio determina inevitabilmente ed inutilmente la
dilatazione dei tempi del processo. Ciò che deve costituire
oggetto del controllo giudiziale è: a) la data di esecuzione
delle opere; b) il rispetto dei limiti volumetrici; c) le
eventuali esclusioni oggettive della tipologia d'intervento
della sanatoria; d) la tempestività della presentazione, da
parte di soggetti legittimati, di una domanda di sanatoria
riferita alle opere abusive contestate nel capo di
imputazione” TAR Lombardia Milano Sez. II, 23.03.2012,
n. 910).
E’ agevole riscontrare che la data di commissione
dell’illecito edilizio rientri certamente nel fulcro della
attività accertativa, sia amministrativa che giudiziale (“è
da escludere la formazione del c.d. silenzio-assenso
sull'istanza di condono edilizio, di cui all'art. 31 l.
28.02.1985 n. 47, qualora il fabbricato abusivo sia stato
ultimato dopo il 31.10.1983 e l'istanza di sanatoria sia
stata prodotta senza la prescritta documentazione, di talché
…… ne è superfluo l'annullamento in autotutela”- Cons.
Stato Sez. V, 06.05.1995, n. 721) e che, in subiecta
materia, l’esigenza che le dichiarazioni sottese alla
domanda siano effettivamente veridiche (trattandosi di
legalizzare in via eccezionale una condotta che
l’ordinamento giuridico considerava illegittimo al momento
della commissione) consente, in ipotesi contraria, il
ricorso ai poteri di autotutela in termini assai più ampi
che laddove si trattasse di “ritirare” un atto
amministrativo in virtù di un rinnovato apprezzamento
dell’interesse pubblico ovvero dell’incolpevole emergere di
circostanze prima ignorate (ex multis: “le domande
di condono "dolosamente infedeli" non sono atte a
determinare il sorgere di fattispecie di silenzio-assenso e,
di conseguenza, non essendosi formato alcun –silenzioso -
provvedimento di accoglimento, neppure vi è necessità per il
Comune di ricorrere alla c.d. autotutela prima di emanare il
provvedimento di diniego, mancando qualsivoglia atto da
annullare” TAR Liguria Genova Sez. I, 01.07.2005, n.
998).
Di converso, la giurisprudenza penalistica ha costantemente
affermato che, laddove il privato, in una dichiarazione
allegata alla domanda di sanatoria di un abuso edilizio,
riferisca falsamente di avere completato l’abuso in una
epoca antecedente a quella reale, ricorre la fattispecie
criminosa di cui all’art. 483 del codice penale (ex
multis: L'art. 483 cod. pen. -falsità ideologica
commessa dal privato in atto pubblico- postula, di norma,
l'esistenza di disposizioni extrapenali integratrici che
concorrono a determinare il contenuto delle dichiarazioni
del privato e attribuiscono al pubblico ufficiale il
potere-dovere di documentarle in atti aventi, "ex lege",
una determinata funzione probatoria. In tale ambito rientra
la legge 04.01.1968 n. 15 che agli artt. 2 e 4 facultizza il
privato alla dichiarazione sostitutiva di certificato o di
atto di notorietà, la quale diventa atto pubblico per il
solo fatto della sottoscrizione autenticata dal "funzionario
competente a ricevere l'atto, o da un notaio, cancelliere,
segretario comunale o altro funzionario incaricato dal
Sindaco" e che all'art. 26, commi 1 e 2, stabilisce che tali
dichiarazioni "sono considerate come fatte a pubblico
ufficiale". Di conseguenza, è dichiarazione sostitutiva
dell'atto di notorietà, rientrante nella previsione
dell'art. 483 cod. pen., anche quella allegata alla domanda
di concessione edilizia in sanatoria, diretta al Sindaco, ma
ricevuta dal funzionario competente o da altro pubblico
ufficiale appositamente incaricato” -Fattispecie
relativa alla falsa attestazione che la costruzione era
stata eseguita in un determinato anno- Cassazione penale
Sezione V, sent. n. 11186 del 26.10.998; “integra il
delitto di falsità ideologica del privato in atto pubblico
la condotta di chi, in una dichiarazione sostitutiva di atto
notorio allegata a una domanda di sanatoria , indica una
falsa data di ultimazione della costruzione, sussistendo il
requisito dell'attestazione in atto pubblico.” Cass. pen.
Sez. V, 26.11.2009, n. 2978).
Sotto altro profilo, costituirebbe inspiegabile aporia
dell’ordinamento quella che permettesse di godere dei frutti
di una propria condotta affermata quale illecita
dall’ordinamento: è questa la ragione per cui, nel caso di
specie, ritiene il Collegio che la decisione del Tar gravata
con l’odierno appello sia in realtà ineccepibile, e non
potesse essere diversa.
Allorché, infatti, sia accertata la falsità della
dichiarazione attestante l’epoca di realizzazione
dell’abuso, la conseguenza unica di tale circostanza riposa
nell’illegittimità del provvedimento di sanatoria (”il
decreto penale di condanna per dichiarazione falsa circa la
data di ultimazione di un manufatto ai fini dell'ottenimento
della concessione edilizia in sanatoria è circostanza che
provoca l'illegittimità sopravvenuta della concessione per
difetto di un atto presupposto essenziale” Cons. Stato
Sez. V, 18.12.2006, n. 7581).
E’ stato in particolare evidenziato, da parte della
giurisprudenza di merito, che “l'inesatta volontaria
rappresentazione della realtà contenuta nell'istanza di
concessione in sanatoria su un presupposto essenziale (nella
specie data di realizzazione dell'abuso) integra gli estremi
della domanda dolosamente infedele, che, ai sensi dell'art.
40 L. 28.02.1985, n. 47, impedisce il formarsi del c.d.
silenzio-assenso previsto dall'art. 35, comma 18, della
stessa L. 28.02.1985, n. 47, e comporta altresì il non
accoglimento della domanda medesima” (TAR Sardegna, Sez.
II, 28.05.2010 n. 1386).
L’affermazione per cui, se anche fosse stata comprovata la
circostanza che l’immobile venne realizzato successivamente
rispetto a quanto dichiarato, ugualmente la sanatoria
sarebbe stata legittima è pertanto da contestare recisamente
nei suoi presupposti teorici
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.01.2013 n. 39 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per univoca giurisprudenza ”l'onere della prova
dell'ultimazione dei lavori edilizi entro la data utile per
ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria; ciò
perché mentre l'amministrazione comunale non è normalmente
in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il
proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul
condono, colui che richiede la sanatoria può fornire qualche
documentazione da cui si desuma che l'abuso sia stato
effettivamente realizzato entro la data predetta, come ad
es. fatture, ricevute, bolle di consegna, relative
all'esecuzione dei lavori e/o all'acquisto dei materiali
ecc.”.
La giurisprudenza di merito si è peraltro spinta ad
affermare, sul solco di tale orientamento, che “anche in
presenza di dichiarazione sostitutiva di atto notorio
presentata dall'interessato, l'Amministrazione può
legittimamente respingere la domanda di condono edilizio ove
non riscontri elementi dai quali risulti univocamente
l'ultimazione dell'edificio entro la data prescritta dalla
legge, atteso che la semplice produzione della dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà non può in alcun modo
assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull' epoca
dell' abuso”.
Rammenta il Collegio
in proposito che, per univoca giurisprudenza ”l'onere
della prova dell'ultimazione dei lavori edilizi entro la
data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la
sanatoria; ciò perché mentre l'amministrazione comunale non
è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia
di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla
normativa sul condono, colui che richiede la sanatoria può
fornire qualche documentazione da cui si desuma che l'abuso
sia stato effettivamente realizzato entro la data predetta,
come ad es. fatture, ricevute, bolle di consegna, relative
all'esecuzione dei lavori e/o all'acquisto dei materiali
ecc.” (Cons. Stato Sez. IV, 02.02.2011, n. 752).
La giurisprudenza di merito si è peraltro spinta ad
affermare, sul solco di tale orientamento, che “anche in
presenza di dichiarazione sostitutiva di atto notorio
presentata dall'interessato, l'Amministrazione può
legittimamente respingere la domanda di condono edilizio ove
non riscontri elementi dai quali risulti univocamente
l'ultimazione dell'edificio entro la data prescritta dalla
legge, atteso che la semplice produzione della dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà non può in alcun modo
assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull' epoca
dell' abuso” (TAR Campania Napoli Sez. II, 08.01.2010,
n. 27).
Nel caso di specie, a fronte dell’autodichiarazione
dell’appellante, v’è una assoluta assenza di elementi
probatori indiretti di rilievo assoluto che ne comprovino la
veridicità (tali non possono essere considerate le tardive
dichiarazioni testimoniali asseritamente supportanti detta
tesi, siccome sostenuto negli scritti difensivi e nella
relazione comunale).
Al contempo (oltre alle contrarie asserzioni dell’originario
ricorrente), si rinviene in atti un argomento assai
pregnante e di valenza assoluta (appunto, l’atto notarile di
donazione nel quale l’incremento volumetrico per cui è causa
non era punto menzionato), che ne smentisce la rispondenza
al vero (si rammenta sul punto il consolidato orientamento
della Cassazione Civile secondo il quale: “nell'interpretazione
dei contratti di compravendita immobiliare, ai fini della
determinazione della comune intenzione delle parti circa
l'estensione dell'immobile compravenduto, i dati catastali,
emergenti dal tipo di frazionamento approvato dai contraenti
ed allegato nell'atto notarile trascritto, e l'indicazione
dei confini risultante dal rogito assurgono al rango di
risultanze di pari grado” Cass. civ. Sez. II,
14.12.1994, n. 10698) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.01.2013 n. 39 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio condivide l’orientamento della
giurisprudenza di merito secondo il quale, specie allorché
il provvedimento ampliativo illegittimamente ottenuto leda
gli interessi di terzi, l’autotutela non necessita di
particolare motivazione (“allorquando un provvedimento
amministrativo ampliativo sia stato ottenuto
dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea
rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla
p.a. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando
l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna
particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale
ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa”).
Ciò perché, in punto di diritto, la giurisprudenza ha
giustamente affermato che in ipotesi di ritiro in autotutela
di un'autorizzazione precedentemente rilasciata, nessun
affidamento può essere invocato laddove sia stata posta a
base dell'istanza che abbia condotto al rilascio
dell'autorizzazione stessa una falsa dichiarazione.
Per altro verso, il
Collegio condivide l’orientamento della giurisprudenza di
merito secondo il quale, specie allorché il provvedimento
ampliativo illegittimamente ottenuto leda gli interessi di
terzi, l’autotutela non necessita di particolare motivazione
(“allorquando un provvedimento amministrativo ampliativo
sia stato ottenuto dall'interessato in base ad una falsa o
comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è
consentito alla p.a. esercitare il proprio potere di
autotutela ritirando l'atto stesso, senza necessità di
esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse,
che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa”
TAR Lombardia Milano Sez. II, 04.04.2012, n. 1002).
Ciò perché, in punto di diritto, la giurisprudenza ha
giustamente affermato che in ipotesi di ritiro in autotutela
di un'autorizzazione precedentemente rilasciata, nessun
affidamento può essere invocato laddove sia stata posta a
base dell'istanza che abbia condotto al rilascio
dell'autorizzazione stessa una falsa dichiarazione (cfr.
Consiglio Stato, sez. VI, 20.04.2009, n. 2373, ma anche TAR
Sicilia Catania Sez. III, 26.01.2010, n. 92)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.01.2013 n. 39 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La specialità del
procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario
procedimento di rilascio della concessione ad edificare e
l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua
necessità rendono, per il rilascio della concessione in
sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il parere della
Commissione edilizia non obbligatorio ma, tutt'al più,
facoltativo, al fine di acquisire eventuali informazioni e
valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi
incerti e complessi, in assenza dei quali il rilascio della
concessione in sanatoria è subordinato alla semplice
verifica dei numerosi presupposti e condizioni espressamente
e chiaramente fissati dal legislatore.
La specialità del procedimento di condono edilizio rispetto
all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad
edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine
alla sua necessità rendono, per il rilascio della
concessione in sanatoria, il parere della Commissione
edilizia non obbligatorio, ma al più facoltativo.
In caso di domanda di condono non è sempre necessario il
previo parere della commissione edilizia comunale: nei casi
di violazione di vincoli assoluti di inedificabilità,
infatti, il mero accertamento tecnico degli appositi uffici
è da solo sufficiente a legittimare il diniego del
provvedimento richiesto.
Ad abundantiam, in caso di domanda di condono non è sempre
necessario il previo parere della commissione edilizia
comunale: nei casi di violazione di vincoli assoluti di
inedificabilità, come nella specie, infatti, il mero
accertamento tecnico degli appositi uffici sarebbe da solo
sufficiente a legittimare il diniego del provvedimento
richiesto.
---------------
La demolizione è nella specie provvedimento assolutamente
necessitato e non suscettibile di diversa discrezionale
valutazione, giacché, neppure ex post, è possibile
addivenire a diversa determinazione sulla compatibilità
paesistica del realizzato.
L’interesse pubblico è in re ipsa ove si consideri
l’insanabilità dell’opera realizzata in zona vincolata,
neppure comparabile, per la prevalenza dei valori
paesaggistici, con l’interesse privato eventualmente
confliggente con esso.
Ai sensi degli artt. 32, comma 27, lett. d), d.l. 30.09.2003
n. 269, convertito in l. 24.11.2003 n. 326, la sanabilità
delle opere edilizie realizzate in zona vincolata è
radicalmente esclusa, ove si tratti di un vincolo di
inedificabilità assoluta o di difformità dalle prescritte
previsioni.
In tema di diniego di sanatoria edilizia ai sensi della l.
28.02.1985 n. 47, è sufficientemente e chiaramente motivato
il provvedimento comunale che nega la sanatoria sulla base
del puntuale richiamo della normativa regionale che si
oppone al condono e della descrizione della situazione di
fatto ostativa, sulla base di detta normativa, senza che sia
anche necessaria l'indicazione, nel contesto dell'atto,
dell'art. 33 della suddetta legge statale che, nel definire
quali siano le opere non suscettibili di sanatoria, fa
espresso rinvio, fra l'altro, ai vincoli derivanti dalle
leggi regionali e dagli strumenti urbanistici.
---------------
I provvedimenti di diniego del condono edilizio non devono
essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del
procedimento, perché i procedimenti finalizzati alla
sanatoria degli abusi edilizi sono avviati su istanza di
parte.
D’altronde, come chiarito da consolidata
giurisprudenza, la specialità del procedimento di condono
edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio
della concessione ad edificare e l'assenza di una specifica
previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il
rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria
(o condono), il parere della Commissione edilizia non
obbligatorio ma, tutt'al più, facoltativo, al fine di
acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo
a particolari e sporadici casi incerti e complessi, in
assenza dei quali il rilascio della concessione in sanatoria
è subordinato alla semplice verifica dei numerosi
presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati
dal legislatore (così tra tante, Consiglio Stato, sez. IV,
03.08.2010, n. 5156).
La specialità del procedimento di condono edilizio rispetto
all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad
edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine
alla sua necessità rendono, per il rilascio della
concessione in sanatoria, il parere della Commissione
edilizia non obbligatorio, ma al più facoltativo (così,
Consiglio Stato, sez. IV, 12.02.2010, n. 772).
Si è anche ritenuto che, in caso di domanda di condono non è
sempre necessario il previo parere della commissione
edilizia comunale: nei casi di violazione di vincoli
assoluti di inedificabilità, infatti, il mero accertamento
tecnico degli appositi uffici è da solo sufficiente a
legittimare il diniego del provvedimento richiesto (così,
Consiglio Stato, sez. V, 02.10.2006, n. 5725).
Ad abundantiam, si osserva che è stato affermato anche il
principio per cui in caso di domanda di condono non è sempre
necessario il previo parere della commissione edilizia
comunale: nei casi di violazione di vincoli assoluti di
inedificabilità, come nella specie, infatti, il mero
accertamento tecnico degli appositi uffici sarebbe da solo
sufficiente a legittimare il diniego del provvedimento
richiesto (Consiglio Stato, sez. V, 02.10.2006, n.
5725).
---------------
Con altro
motivo viene dedotto eccesso di potere, in quanto
l’abbattimento non corrisponde all’interesse pubblico e
comporterebbe pregiudizi alla parte della struttura non
interessata all’abuso (oggetto della domanda del figlio).
Come si è sopra detto, il condono (presentato dal figlio) è
tuttora in itinere, per cui la sorte del manufatto in esame
non può essere collegata a quella (del tutto incerta) di
altro manufatto, allo stato non ancora accertato come
sanabile.
Né ha pregio il rilievo dell’appello, secondo cui si
tratterebbe soltanto di opere di manutenzione straordinaria
ed adeguamento strutturale eseguite sul manufatto
preesistente, che, se demolite, comporterebbero pregiudizi
irreversibili alla struttura dello stesso, in quanto la
intimata demolizione è conseguenza in ogni caso, per quanto
sopra detto, dell’accertata insanabilità dell’opera, in
quanto contrastante con gli strumenti urbanistici e le
direttive di piano paesistico in zona vincolata.
In definitiva, la demolizione è nella specie provvedimento
assolutamente necessitato e non suscettibile di diversa
discrezionale valutazione, giacché, neppure ex post, è
possibile addivenire a diversa determinazione sulla
compatibilità paesistica del realizzato.
L’interesse pubblico è in re ipsa ove si consideri
l’insanabilità dell’opera realizzata in zona vincolata,
neppure comparabile, per la prevalenza dei valori
paesaggistici, con l’interesse privato eventualmente
confliggente con esso.
Ai sensi degli artt. 32, comma 27, lett. d), d.l. 30.09.2003 n. 269, convertito in l. 24.11.2003 n. 326, la
sanabilità delle opere edilizie realizzate in zona vincolata
è radicalmente esclusa, ove si tratti di un vincolo di inedificabilità assoluta o di difformità dalle prescritte
previsioni (Consiglio Stato, sez. IV, 19.05.2010, n.
3174).
In tema di diniego di sanatoria edilizia ai sensi della l.
28.02.1985 n. 47, è sufficientemente e chiaramente
motivato il provvedimento comunale che nega la sanatoria
sulla base del puntuale richiamo della normativa regionale
che si oppone al condono e della descrizione della
situazione di fatto ostativa, sulla base di detta normativa,
senza che sia anche necessaria l'indicazione, nel contesto
dell'atto, dell'art. 33 della suddetta legge statale che,
nel definire quali siano le opere non suscettibili di
sanatoria, fa espresso rinvio, fra l'altro, ai vincoli
derivanti dalle leggi regionali e dagli strumenti
urbanistici (Consiglio Stato, sez. V, 02.10.2006, n.
5725).
---------------
E’ infondato
anche ogni motivo con cui si deduce difetto di adeguata
partecipazione e di comunicazione dell’avvio del
procedimento.
Sul punto, giova richiamare la giurisprudenza assolutamente
maggioritaria che ritiene l’omissione denunciata, anche
laddove esistente, non inficiante la legittimità dell’atto.
D’altro canto, i provvedimenti di diniego del condono
edilizio non devono essere preceduti dalla comunicazione
dell'avvio del procedimento, perché i procedimenti
finalizzati alla sanatoria degli abusi edilizi sono avviati
su istanza di parte (tra tante, Consiglio di Stato, IV, 22.01.2010, n. 209; TAR Campania Napoli, sez. VII,
10.12.2009, n. 8608) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.07.2012 n. 3969 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Venuti
meni i requisiti soggettivi per l'edificazione gratuita in
zona gratuita appena due anni dopo l'edificazione.
Il primo motivo di ricorso, in
base al quale avendo l’immobile comunque una destinazione
residenziale non vi sarebbe il presupposto per
l’applicazione dell’art. 19, comma 3, del DPR 380/2001 e
dell’art. 52, comma 3, della LR 12/2005, non appare
condivisibile.
Le suddette norme prendono in considerazione l’uso
qualificato che deriva dalla presenza di un’azienda
agricola, e quindi presuppongono il collegamento tra
l’edificio residenziale e la coltivazione del fondo.
Se viene meno l’attività agricola a titolo principale
l’abitazione fuoriesce dalla fattispecie particolare che
giustificava la deroga al divieto di edificazione e al
principio di onerosità e acquista una destinazione
residenziale semplice, come tale sottoposta alle normali
regole previste dagli strumenti urbanistici per gli
interventi edificatori.
Solo se la perdita del collegamento con l’attività agricola
professionale avviene oltre il termine previsto dalla legge
(10 anni dall’ultimazione dei lavori) scatta una presunzione
assoluta circa il consolidamento della situazione sotto il
profilo urbanistico.
---------------
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 19, comma 3, del DPR 380/2001 e
dell’art. 52, comma 3, della LR 12/2005, in quanto il
trasferimento di proprietà avvenuto per via ereditaria
dovrebbe essere considerato irrilevante ai fini del cambio
di destinazione. Neppure questa tesi può essere condivisa.
Il regime di favore collegato alla posizione di imprenditore
agricolo a titolo principale è strettamente personale e non
si trasmette agli eredi se questi ultimi non siano a loro
volta imprenditori agricoli allo stesso titolo.
L’esenzione dagli oneri di concessione ha il proprio
fondamento nella presenza di un’azienda agricola per una
durata minima di 10 anni. Entro questo limite temporale la
normativa sopra richiamata impone che l’uso residenziale
dell’edificio sia strumentale allo svolgimento di attività
agricola professionale, e dunque i soggetti che a qualunque
titolo si succedono nella proprietà del bene devono
garantire questa condizione.
Se il nuovo proprietario non è in grado di assicurare la
continuità del suddetto collegamento tra l’edificio e
l’attività agricola professionale si riespandono le esigenze
di natura urbanistica che richiedono un bilanciamento in
termini economici tra l’utilità derivante dall’edificazione
e il peso che il nuovo edificio aggiunge al territorio.
... per l'annullamento del provvedimento del responsabile
dell’Area Tecnica prot. n. 14113 del 09.04.2004, con il
quale è stato ingiunto al ricorrente il pagamento degli
oneri di urbanizzazione primaria e secondaria e del
contributo sul costo di costruzione;
...
Il Comune di Castiglione delle Stiviere aveva rilasciato al
signor S.D.S. la concessione edilizia n. 619/2000 del
24.05.2001 per la realizzazione di una casa rurale in via
Casino Pernestano sul mappale n. 406. L’area è situata in
zona agricola. La concessione edilizia è stata rilasciata in
quanto il richiedente era imprenditore agricolo a titolo
principale. Per lo stesso motivo vi è stato esonero dal
contributo di costruzione in base alla deroga prevista
dall’art. 9, comma 1, lett. a), della legge 28.01.1977 n. 10
e dall’art. 3, comma 1, lett. a), della LR 07.06.1980 n. 93.
Il medesimo trattamento è ora previsto dall’art. 17, comma
3, del DPR 06.06.2001 n. 380 e dall’art. 60, comma 1, lett.
a), della LR 11.03.2005 n. 12.
Dopo il decesso del signor S.D.S., avvenuto il 13.03.2002,
nel titolo edilizio è subentrato il figlio M.D.S..
Quest’ultimo ha presentato una DIA in data 20.03.2002 per
realizzare una variante in corso d’opera consistente
nell’ampliamento della cantina e nella modifica di aperture,
scala e recinzione. La costruzione dell’edificio è stata
ultimata il 16.06.2002 (come risulta dalla dichiarazione di
fine lavori depositata in Comune il 10.03.2003).
Poiché il signor M.D.S. non possiede i requisiti soggettivi
per edificare in zona agricola il Comune con provvedimento
del responsabile dell’Area Tecnica prot. n. 14113 del
09.04.2004 ha ingiunto il pagamento degli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria e del contributo sul
costo di costruzione (complessivamente € 9.418,13). Questa
decisione si basa sul presupposto che il subentro di un
diverso soggetto nel titolo edilizio avrebbe modificato la
destinazione d’uso dell’immobile realizzando una fattispecie
assimilabile a quella dell’art. 10, comma 3, della legge
10/1977 (v. ora l’art. 19, comma 3, del DPR 380/2001 e
l’art. 52, comma 3, della LR 12/2005).
Contro il suddetto provvedimento il signor M.D.S. ha
presentato ricorso con atto notificato il 07.05.2004 e
depositato il 14.05.2004. Le censure possono essere
sintetizzate nei punti seguenti: a) travisamento dei fatti,
in quanto la destinazione dell’immobile è comunque
residenziale; b) violazione dell’art. 19, comma 3, del DPR
380/2001, in quanto il trasferimento di proprietà rilevante
sarebbe solo quello determinato dalla cessione inter
vivos. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo
la reiezione della domanda del ricorrente.
Il primo motivo di ricorso, in base al quale avendo
l’immobile comunque una destinazione residenziale non vi
sarebbe il presupposto per l’applicazione dell’art. 19,
comma 3, del DPR 380/2001 e dell’art. 52, comma 3, della LR
12/2005, non appare condivisibile. Le suddette norme
prendono in considerazione l’uso qualificato che deriva
dalla presenza di un’azienda agricola, e quindi
presuppongono il collegamento tra l’edificio residenziale e
la coltivazione del fondo. Se viene meno l’attività agricola
a titolo principale l’abitazione fuoriesce dalla fattispecie
particolare che giustificava la deroga al divieto di
edificazione e al principio di onerosità e acquista una
destinazione residenziale semplice, come tale sottoposta
alle normali regole previste dagli strumenti urbanistici per
gli interventi edificatori. Solo se la perdita del
collegamento con l’attività agricola professionale avviene
oltre il termine previsto dalla legge (10 anni
dall’ultimazione dei lavori) scatta una presunzione assoluta
circa il consolidamento della situazione sotto il profilo
urbanistico.
Il fatto che il ricorrente abbia acquisito l’iscrizione nel
registro delle imprese come imprenditore agricolo a
decorrere dal 10.05.2002 non è sufficiente a garantire la
continuità dell’originario titolo di esenzione dagli oneri
di concessione, in quanto non è dimostrato che l’attività
agricola sia svolta a titolo principale secondo i parametri
individuati dalla Regione (DGR 02.07.2001 n. 7/5326 e
successive modifiche).
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 19, comma 3, del DPR 380/2001 e
dell’art. 52, comma 3, della LR 12/2005, in quanto il
trasferimento di proprietà avvenuto per via ereditaria
dovrebbe essere considerato irrilevante ai fini del cambio
di destinazione. Neppure questa tesi può essere condivisa.
Il regime di favore collegato alla posizione di imprenditore
agricolo a titolo principale è strettamente personale e non
si trasmette agli eredi se questi ultimi non siano a loro
volta imprenditori agricoli allo stesso titolo. L’esenzione
dagli oneri di concessione ha il proprio fondamento nella
presenza di un’azienda agricola per una durata minima di 10
anni. Entro questo limite temporale la normativa sopra
richiamata impone che l’uso residenziale dell’edificio sia
strumentale allo svolgimento di attività agricola
professionale, e dunque i soggetti che a qualunque titolo si
succedono nella proprietà del bene devono garantire questa
condizione. Se il nuovo proprietario non è in grado di
assicurare la continuità del suddetto collegamento tra
l’edificio e l’attività agricola professionale si
riespandono le esigenze di natura urbanistica che richiedono
un bilanciamento in termini economici tra l’utilità
derivante dall’edificazione e il peso che il nuovo edificio
aggiunge al territorio.
Il ricorso deve quindi essere respinto (TAR
Lombardia-Brescia,
sentenza 03.06.2008 n. 595
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Per
quanto riguarda il piano attuativo, dopo la scadenza del
termine previsto per la sua esecuzione, rileva il principio
generale contenuto nell’art. 17, primo comma, della legge n.
1150 del 1942, per il quale, “decorso il termine stabilito
per l’esecuzione del piano particolareggiato, questo diventa
inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione,
rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di
osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella
modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le
prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”.
Da tale comma, emergono i seguenti principi (di per sé
applicabili anche al piano di lottizzazione, equiparato al
piano particolareggiato di iniziativa pubblica):
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la
concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata
(con specificazione delle regole di conformazione disposte
dal piano regolatore generale, ai sensi dell’art. 869 del
codice civile);
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono
efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono
le regole determinative del contenuto della proprietà delle
aree incluse nel piano attuativo);
c) col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di
lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto
concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la
sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori
costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano
regolatore generale e con le prescrizioni del piano
attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa parte
ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si
ispira al principio secondo cui le previsioni del piano
regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della
utilizzazione dei suoli (e determinano ciò che è consentito
e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il profilo
urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano
attuativo delle determinazioni sulle specifiche
conformazioni delle proprietà), mentre le previsioni dello
strumento attuativo rientrano in una prospettiva di
stabilità (perché specificano in dettaglio le consentite
modifiche del territorio, in una prospettiva in cui
l’attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della
pianificazione, determina l’assetto definitivo della parte
del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in
un contesto compiutamente definito).
In considerazione della stabilità delle previsioni del piano
attuativo, va affermato dunque il principio per il quale le
prescrizioni urbanistiche di un piano attuativo rilevano a
tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza.
---------------
Dall'art. 17, primo comma, della legge n. 1150 del 1942, si
evince un ulteriore principio riguardante il caso in cui le
previsioni di un sopravvenuto piano regolatore generale
vadano a ‘sovrapporsi’ su quelle del precedente piano
attuativo.
L’Autorità urbanistica può modificare le specifiche
prescrizioni dello strumento attuativo, in base a una
motivata valutazione dello stato dei luoghi e delle
posizioni venutesi a consolidare e su cui si va ad incidere.
Se tale modifica è effettuata con una variante speciale,
nulla quaestio: prevalgono le prescrizioni disposte con la
variante al piano regolatore, approvata proprio per incidere
su quelle desumibili dallo strumento attuativo.
Nel caso di approvazione di una variante generale al piano
regolatore generale, o vi è un espresso e specifico richiamo
alle prescrizioni del precedente strumento attuativo su cui
si intenda incidere, oppure –in assenza di tale richiamo–
tale approvazione è irrilevante per la perdurante efficacia
delle prescrizioni del piano attuativo.
Sotto tale aspetto, va rimarcato che il piano regolatore
generale –nel riferirsi in senso dinamico alle parti del
territorio da pianificare in dettaglio– di per sé non incide
sulle previsioni del precedente strumento attuativo (anche
se non più eseguibile per il decorso del tempo), poiché
quest’ultimo ha stabilmente determinato l’assetto definitivo
e di dettaglio della parte del territorio in considerazione.
Pertanto, anche per la localizzazione degli edifici, le
prescrizioni del piano esecutivo (malgrado la scadenza del
termine decennale) continuano ad essere rilevanti per coloro
che –non avendo ancora realizzato le costruzioni- intendano
tardivamente chiedere il titolo abilitativo (nel vigore
dello strumento urbanistico sopravvenuto, ove questo
ugualmente consenta la nuova costruzione).
Per quanto riguarda il rilievo del piano attuativo, dopo la
scadenza del termine previsto per la sua esecuzione, rileva
il principio generale contenuto nell’art. 17, primo comma,
della legge n. 1150 del 1942, per il quale, “decorso il
termine stabilito per l’esecuzione del piano
particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in
cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a
tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella
costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli
esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso”.
Da tale comma, emergono i seguenti principi (di per sé
applicabili anche al piano di lottizzazione, equiparato al
piano particolareggiato di iniziativa pubblica):
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la
concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata
(con specificazione delle regole di conformazione disposte
dal piano regolatore generale, ai sensi dell’art. 869 del
codice civile);
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono
efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono
le regole determinative del contenuto della proprietà delle
aree incluse nel piano attuativo);
c) col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di
lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto
concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la
sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori
costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano
regolatore generale e con le prescrizioni del piano
attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa parte
ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si
ispira al principio secondo cui le previsioni del piano
regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della
utilizzazione dei suoli (e determinano ciò che è consentito
e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il profilo
urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano
attuativo delle determinazioni sulle specifiche
conformazioni delle proprietà), mentre le previsioni dello
strumento attuativo rientrano in una prospettiva di
stabilità (perché specificano in dettaglio le consentite
modifiche del territorio, in una prospettiva in cui
l’attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della
pianificazione, determina l’assetto definitivo della parte
del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in
un contesto compiutamente definito).
In considerazione della stabilità delle previsioni del piano
attuativo, va affermato dunque il principio per il quale le
prescrizioni urbanistiche di un piano attuativo rilevano a
tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza.
Dal sopra riportato art. 17, primo comma, della legge n.
1150 del 1942, si evince un ulteriore principio riguardante
il caso in cui le previsioni di un sopravvenuto piano
regolatore generale vadano a ‘sovrapporsi’ su quelle
del precedente piano attuativo.
L’Autorità urbanistica può modificare le specifiche
prescrizioni dello strumento attuativo, in base a una
motivata valutazione dello stato dei luoghi e delle
posizioni venutesi a consolidare e su cui si va ad incidere.
Se tale modifica è effettuata con una variante speciale,
nulla quaestio: prevalgono le prescrizioni disposte con
la variante al piano regolatore, approvata proprio per
incidere su quelle desumibili dallo strumento attuativo.
Nel caso di approvazione di una variante generale al piano
regolatore generale, o vi è un espresso e specifico richiamo
alle prescrizioni del precedente strumento attuativo su cui
si intenda incidere, oppure –in assenza di tale richiamo–
tale approvazione è irrilevante per la perdurante efficacia
delle prescrizioni del piano attuativo.
Sotto tale aspetto, va rimarcato che il piano regolatore
generale –nel riferirsi in senso dinamico alle parti del
territorio da pianificare in dettaglio– di per sé non incide
sulle previsioni del precedente strumento attuativo (anche
se non più eseguibile per il decorso del tempo), poiché
quest’ultimo ha stabilmente determinato l’assetto definitivo
e di dettaglio della parte del territorio in considerazione.
Pertanto, anche per la localizzazione degli edifici, le
prescrizioni del piano esecutivo (malgrado la scadenza del
termine decennale) continuano ad essere rilevanti per coloro
che –non avendo ancora realizzato le costruzioni- intendano
tardivamente chiedere il titolo abilitativo (nel vigore
dello strumento urbanistico sopravvenuto, ove questo
ugualmente consenta la nuova costruzione)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.12.2007 n. 6170 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Gli
articoli 16, 17 e 28 della legge c.d. urbanistica prevedono
che l’efficacia dei piani particolareggiati, ai quali si
assimilano analogicamente le lottizzazioni convenzionate,
hanno un termine entro il quale le opere debbano essere
eseguite, che non può essere superiore a 10 anni.
Le attività dirette alla realizzazione dello strumento
urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono
essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine,
scaduto il quale l’autorità competente in materia
urbanistica riacquista il potere-dovere di dare un nuovo
assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in
ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Al contrario, dall’art. 28 L. 1150/1942 (il quale prevede
che il termine entro il quale deve essere ultimata la
esecuzione dell’opera contenuto nella convenzione, non può
essere superiore ai dieci anni), si evince che non è
possibile, a lottizzazione scaduta, prorogarla una volta
venuta meno la efficacia della stessa.
E’ altresì da condividere la deduzione dell’appellante sulla
presenza del divieto legislativo di proroga a tempo
indefinito dei piani di lottizzazione convenzionati ai sensi
della L. 1150/1942.
Gli articoli 16, 17 e 28 della legge c.d. urbanistica
prevedono che l’efficacia dei piani particolareggiati, ai
quali si assimilano analogicamente le lottizzazioni
convenzionate, hanno un termine entro il quale le opere
debbano essere eseguite, che non può essere superiore a 10
anni.
Le attività dirette alla realizzazione dello strumento
urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono
essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine,
scaduto il quale l’autorità competente in materia
urbanistica riacquista il potere-dovere di dare un nuovo
assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in
ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Al contrario, dall’art. 28 L. 1150/1942 (il quale prevede
che il termine entro il quale deve essere ultimata la
esecuzione dell’opera contenuto nella convenzione, non può
essere superiore ai dieci anni), si evince che non è
possibile, a lottizzazione scaduta, prorogarla una volta
venuta meno la efficacia della stessa
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.02.2007 n. 851 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Allorquando
un provvedimento amministrativo ampliativo sia stato
ottenuto dall’interessato in base ad una falsa
rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla
Pubblica Amministrazione di esercitare il proprio potere di
autotutela ritirando l’atto stesso, senza necessità di
esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse,
che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente “in re ipsa”.
Ove si consideri, poi, che –al fine precipuo di conseguire
l’autorizzazione commerciale n. 786 del 1987– il legale
rappresentante della S.r.l. .... ha falsamente dichiarato e
documentato che il predetto locale disponeva, invece, di una
superficie di vendita di 500 mq., si rivela manifestamente
priva di pregio giuridico la principale censura prospettata
in ricorso incentrata sulla dedotta carente individuazione,
nella motivazione del provvedimento di annullamento,
dell’esistenza di un interesse pubblico specifico e concreto
(diverso da quello al mero ripristino della legalità
violata) idoneo a giustificare l’esercizio della potestà di
autotutela.
E’ noto, infatti, che –secondo l’insegnamento
giurisprudenziale prevalente e condiviso dal Tribunale–
allorquando (come nella fattispecie concreta de qua)
un provvedimento amministrativo ampliativo sia stato
ottenuto dall’interessato in base ad una falsa
rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla
Pubblica Amministrazione di esercitare il proprio potere di
autotutela ritirando l’atto stesso, senza necessità di
esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse,
che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente “in re
ipsa” (ex multis: TAR Emilia Romagna, Bologna, II
Sezione, 10.06.2002 n. 854)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 04.04.2006 n. 1831 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
norma dell’art. 31, comma 9, della legge 17.08.1942, n.
1150, come novellato dalla legge 06.08.1967, n. 765, secondo
cui la possibilità di ricorrere contro le concessioni
edilizie è riconosciuta a “chiunque”, deve essere
interpretata nel senso che ai fini della legittimazione al
ricorso occorre sempre un criterio di stabile collegamento
tra il ricorrente e la zona interessata all’attività
edilizia assentita con la concessione che si impugna
(collegamento che può derivare dal residenza nella zona
interessata, dalla proprietà e dal possesso o dalla
detenzione di immobili in detta zona o da altro titolo di
frequentazione di quest’ultima).
Ed infatti -premesso che la norma dell’art. 31, comma 9,
della legge 17.08.1942, n. 1150, come novellato dalla legge
06.08.1967, n. 765, secondo cui la possibilità di ricorrere
contro le concessioni edilizie è riconosciuta a “chiunque”,
deve essere interpretata nel senso che ai fini della
legittimazione al ricorso occorre sempre un criterio di
stabile collegamento tra il ricorrente e la zona interessata
all’attività edilizia assentita con la concessione che si
impugna (collegamento che può derivare dal residenza nella
zona interessata, dalla proprietà e dal possesso o dalla
detenzione di immobili in detta zona o da altro titolo di
frequentazione di quest’ultima)- il Collegio deve ritenere
che nel caso in esame ciò si verifichi in quanto il sig. B.
risulta essere proprietario del lotto n. 14 nell’ambito
della lottizzazione in questione e, in quanto tale, viene
certamente a subire un pregiudizio concreto e attuale nella
propria posizione giuridica soggettiva dalla realizzazione
delle costruzioni in questione su lotti vicini a quello di
sua proprietà.
E ciò, in particolare, perché le impugnate concessioni
consentono la realizzazione, nella immediate vicinanze del
lotto del ricorrente di un progetto modificativo degli
allineamenti di zona e del dosaggio degli standards edilizi
e caratterizzato da una notevolmente maggiore volumetria
(per mc. 5184, rispetto ai mc. 4200 originariamente
previsti) con conseguente sostanziale alterazione
dell’assetto residenziale originario e diminuzione della
zona destinata a verde privato.
Deve respingersi, pertanto, l’eccezione preliminare
anzidetta, dovendo, al contrario, riconoscersi in capo al
sig. Boccanera (in quanto proprietario di immobile sito
nella zona interessata e, quindi, posto in situazione di
stabile collegamento con la zona stessa) la sussistenza di
un interesse qualificato a proporre ricorso per la tutela
della posizione giuridica da lui ritenuta lesa.
Il suo ricorso è, di conseguenza ammissibile, anche a
prescindere dalla concreta dimostrazione, da parte
dell’istante, della sussistenza nella specie di un suo più
specifico interesse alla tutela giurisdizionale (Cons. St.,
Sez. V, 26.02.1992, n. 143; 11.04.1995, n. 587; 30.10.1995,
n.1495; Sez. IV 15.09.1998, n. 1155; 08.07.2002, n. 3805)
(Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.01.2003 n. 200 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
lottizzazioni approvate vanno considerate inefficaci dopo il
decorso decennale previsto per la loro attuazione, sicché
per produrre ulteriori effetti esse debbono essere
nuovamente adottate dall’Amministrazione comunale attraverso
uno strumento attuativo, previa eventuale valutazione, se
necessaria, della situazione dei terzi interessati al
rispetto degli obblighi derivanti dalla preesistente
convenzione.
Infatti, l’art. 28 della legge n. 1150/1942, così come
modificato dall’art. 8 L. 06.08.1967, n. 765, avendo dato un
particolare rilievo al ruolo dei piani di lottizzazione (che
costituiscono ormai strumenti urbanistici specifici
preordinati e normalmente alternativi rispetto ai piani
particolareggiati), deve essere applicato in via analogica
ai piani di lottizzazione medesimi, con la conseguenza che
va riconosciuta anche ad essi l’applicabilità del termine
massimo di validità decennale entro il quale devono essere
attuati (art. 16, comma 5, L. n. 1150/1942) e decorso il
quale divengono inefficaci per la parte inattuata (art. 17,
comma 1, della stessa legge), salvi gli allineamenti e le
prescrizioni di zona nel rispetto sia dell’interesse
pubblico per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione (cui
si riferisce l’art. 28 cit.) che per quello volto alla
edificazione dei lotti.
Quanto alla prima
censura, con cui viene dedotta l’illegittimità dei
provvedimenti impugnati per violazione e falsa applicazione
degli artt. 16 e 17 della legge 17.8.1942, n. 1150, atteso
che le concessioni edilizie in questione non potevano essere
rilasciate per sopravvenuta inefficacia della lottizzazione
originaria “primo stralcio”, il Collegio deve
osservare che, per effetto delle citate norme, le
lottizzazioni approvate vanno considerate inefficaci dopo il
decorso decennale previsto per la loro attuazione, sicché
per produrre ulteriori effetti esse debbono essere
nuovamente adottate dall’Amministrazione comunale attraverso
uno strumento attuativo, previa eventuale valutazione, se
necessaria, della situazione dei terzi interessati al
rispetto degli obblighi derivanti dalla preesistente
convenzione.
Infatti, l’art. 28 della predetta legge n. 1150/1942, così
come modificato dall’art. 8 L. 06.08.1967, n. 765, avendo
dato un particolare rilievo al ruolo dei piani di
lottizzazione (che costituiscono ormai strumenti urbanistici
specifici preordinati e normalmente alternativi rispetto ai
piani particolareggiati), deve essere applicato in via
analogica ai piani di lottizzazione medesimi, con la
conseguenza che va riconosciuta anche ad essi
l’applicabilità del termine massimo di validità decennale
entro il quale devono essere attuati (art. 16, comma 5, L.
n. 1150/1942) e decorso il quale divengono inefficaci per la
parte inattuata (art. 17, comma 1, della stessa legge),
salvi gli allineamenti e le prescrizioni di zona nel
rispetto sia dell’interesse pubblico per l’esecuzione delle
opere di urbanizzazione (cui si riferisce l’art. 28 cit.)
che per quello volto alla edificazione dei lotti (cfr. Cons.
St., Sez. IV, 03.11.1998, n. 1412; 25.07.2001, n. 4073)
(Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.01.2003 n. 200 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 17.02.2014 |
ã |
L'INTERROGATIVO DELLA SETTIMANA: il rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica (ex art. 146
d.lgs. n. 42/2004) presuppone, sempre e comunque,
l'acquisizione agli atti del preventivo parere della
Soprintendenza?? |
La questione posta potrebbe avere una certa
similitudine con quella afferente alla verifica
della compatibilità paesaggistica ex art. 167 del
d.lgs. n. 42/2004, laddove per anni s'era detto (e
subìto) che la Soprintendenza poteva anche non
esprimersi (entro il termine perentorio a
disposizione di 180 gg.) e poi, finalmente, la
questione è stata chiarita dalla giurisprudenza: si
legga quanto scritto con l'AGGIORNAMENTO
AL 02.02.2012.
Oltre all'ivi citato pronunciamento del TAR Brescia ci
sono state altre sentenze, anche del Consiglio di
Stato, e ad oggi non vi sono più dubbi:
il
comune non può legittimamente concludere
(favorevolmente o negativamente che sia) il
procedimento di verifica di compatibilità
paesaggistica senza aver acquisito agli atti il
parere vincolante della Soprintendenza.
Alcuni esempi: |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi della previsione dell’art. 167,
5° comma, del d.lgs. 42 del 2004, il parere della
Soprintendenza è vincolante e non può essere
surrogato da meccanismi di silenzio-assenso o
devolutivo; del resto, anche l’eventuale
applicazione alla fattispecie della previsione
dell’art. 146 del Codice dei beni culturali e del
paesaggio non cambierebbe certo i termini del
problema, dovendo trovare comunque applicazione la
previsione dell’ottavo comma della disposizione
citata che attribuisce comunque valore vincolante al
parere della Soprintendenza fino all’<<approvazione
del piano paesaggistico ai sensi dell'articolo 143,
comma 3, e all'avvenuto adeguamento ad esso degli
strumenti urbanistici comunali>>.
... per l'annullamento della nota 12.12.2007 prot. n.
11669 della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per
il Paesaggio e il Patrimonio Artistico e Storico per le
Province di Lecce, Brindisi e Taranto con la quale viene
espresso parere negativo sulla compatibilità paesaggistica
degli interventi realizzati dal ricorrente in difformità dal
permesso di costruire n. 80 del 2003; nonché di ogni atto
presupposto, connesso o comunque collegato.
...
Il ricorso è infondato e deve pertanto essere respinto.
In primo luogo, la Sezione deve rilevare come,
contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, la
fattispecie non possa essere assolutamente riportata alla
previsione dell’art. 146 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42
(Codice dei beni culturali e del paesaggio); l’esame
complessivo della disposizione evidenzia, infatti,
chiaramente come la stessa sia destinata a trovare
applicazione nelle ipotesi “fisiologiche” in cui
l’autorizzazione paesaggistica sia richiesta prima di
procedere alla trasformazione del territorio.
Al contrario, per le ipotesi in cui l’autorizzazione sia
richiesta dopo l’esecuzione dei lavori (e, quindi, a
sanatoria, come nel caso di specie), l’art. art. 146, 12°
comma, del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (come, da ultimo,
modificato dall’art. 16 del d.lgs. 24.03.2006 n. 157),
prevede un generale divieto di rilasciare autorizzazioni
paesaggistiche in sanatoria, se non nei casi e con le
modalità previste dall’art. 167, 4° e 5° comma del Codice;
il rilascio dell’autorizzazione sanatoria è quindi possibile
solo nelle ipotesi (lavori che non abbiano determinato
creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di
quelli legittimamente realizzati; impiego di materiali in
difformità dall'autorizzazione paesaggistica; lavori
comunque configurabili quali interventi di manutenzione
ordinaria o straordinaria ai sensi dell'art. 3 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380) previste dal quarto comma e con le
modalità (il proprietario, possessore o detentore a
qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli
interventi presenta apposita domanda all'autorità preposta
alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della
compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi;
l’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il
termine perentorio di centottanta giorni, previo parere
vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine
perentorio di novanta giorni; qualora venga accertata la
compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al
pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra
il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la
trasgressione) previste dal quinto comma dell’articolo 167
del Codice dei beni culturali e del paesaggio).
Ai sensi della previsione dell’art. 167, 5° comma, del d.lgs.
42 del 2004, il parere della Soprintendenza è quindi
vincolante e non può essere surrogato da meccanismi di
silenzio-assenso o devolutivo, come sostenuto da parte
ricorrente; del resto, anche l’eventuale applicazione alla
fattispecie della previsione dell’art. 146 del Codice dei
beni culturali e del paesaggio non cambierebbe certo i
termini del problema, dovendo trovare comunque applicazione
la previsione dell’ottavo comma della disposizione citata
che attribuisce comunque valore vincolante al parere della
Soprintendenza fino all’<<approvazione del piano
paesaggistico ai sensi dell'articolo 143, comma 3, e
all'avvenuto adeguamento ad esso degli strumenti urbanistici
comunali>> (evenienze che sono ancora ben lungi dal
verificarsi).
Nella fattispecie concreta non può poi trovare applicazione
neanche la previsione dell’art. 159 del d.lgs. 42 del 2004
che prevede un regime transitorio destinato a trovare
applicazione fino al 01.05.2008 (o all’eventuale
anteriore approvazione dei piani paesaggistici adeguati al
nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio) e
costituito dalla riproposizione della ormai tradizionale
strutturazione che attribuisce alla Soprintendenza il potere
di annullare per motivi di legittimità (ed entro un termine
perentorio di sessanta giorni) le autorizzazioni
paesaggistiche rilasciate dagli organi competenti (per
l’applicabilità del regime transitorio, si veda la recente
sentenza 17.04.2008 n. 1141 della Sezione).
L’autorizzazione paesaggistica, in un primo momento,
concessa dal Comune di Racale (provvedimento 16.06.2005
n. 49 del Sindaco) è stata successivamente revocata
(provvedimento 22.11.2006 prot. n. 16591 del Dirigente
del Servizio Edilizia Privata) e non è stata più trasmessa
alla Soprintendenza (la nota 28.02.2007 prot. n. 2627
che ha dato vita all’intervento della Soprintenda si è,
infatti, limitata a trasmettere solo il progetto in
sanatoria e non eventuali autorizzazioni rilasciate
dall’Amministrazione); mancando un provvedimento di
autorizzazione paesaggistica da sottoporre alla
Soprintendenza non poteva pertanto trovare applicazione il
meccanismo previsto dall’art. 159, 3° comma, che ruota
intorno al potere di annullamento di un’autorizzazione
evidentemente già rilasciata (e che, allo stato, non
sussiste più, in considerazione del provvedimento di autoannullamento dell’autorizzazione paesaggistica in
sanatoria in precedenza emessa dal Sindaco di Racale).
Il parere negativo emesso dalla Soprintendenza è poi
congruamente motivato ed è in linea con la previsione
dell’art. 167, 4° comma, del d.lgs. 42 del 2004; la lettura
della relazione allegata al progetto di sanatoria evidenzia,
infatti, chiaramente come siano state realizzate opere
(ampliamento del garage interrato e di una centrale termica)
che vengono ad integrare quell’aumento <<di superfici utili
o volumi>> che impedisce, ai sensi dell’art. 167, 4° comma
del Codice dei beni culturali e del paesaggio, il rilascio
dell’autorizzazione in sanatoria.
Del resto, nessuna rilevanza può assumere il richiamo
dell’orientamento giurisprudenziale (Cons. Stato, sez. V, 01.07.2002, n. 3589; TAR Puglia Lecce, sez. I, 12.09.2005, n. 4238) che esclude rilevanza alle opere
interrate; come già rilevato in giurisprudenza (TAR
Puglia Lecce, sez. III, 22.01.2008 n. 162),
l’orientamento in discorso è stato, infatti, affermato con
riferimento alla valutazione del parametro volumetria della
costruzioni (ed in tale prospettiva, è stata affermata
l’irrilevanza delle costruzioni interrate che, non essendo
utilizzabili al pari di quelle costruite al di sopra del
piano di campagna, non aumentano il carico urbanistico) e
non può essere applicato alle ipotesi in cui è, al
contrario, contestata la stessa possibilità di procedere
all’edificazione (come nel caso di specie, in cui si discute
della mancanza dell’autorizzazione paesaggistica e non della
considerazione della volumetria realizzata).
Conclusivamente, deve poi rilevarsi come l’impossibilità di
applicare alla fattispecie la previsione dell’art. 159
d.lgs. 42 del 2004 (che, al primo comma, richiama la
necessità di comunicare agli interessati l’invio alla
Soprintendenza dell’autorizzazione paesaggistica) e la
natura di procedimento ad iniziativa di parte della
sanatoria escludano la necessità di inviare all’interessato
la comunicazione di inizio procedimento; la previsione
dell’art. 10-bis della l. 07.08.1990 n. 241 (articolo
inserito dall'art. 6 della legge 11.02.2005, n. 15) è
poi dettata con riferimento ai provvedimenti di diniego
delle istanze presentate dai privati e non agli apporti
consultivi (anche vincolanti, come nel caso di specie)
acquisiti al procedimento.
In definitiva, il ricorso deve pertanto essere rigettato; la
particolare complessità della materia trattata permette di
disporre l’integrale compensazione delle spese di giudizio
nei confronti del Ministero dei Beni e delle Attività
Culturali e della Soprintendenza per i Beni Architettonici e
per il Paesaggio e il Patrimonio Artistico e Storico per le
Province di Lecce, Brindisi e Taranto
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 21.05.2008 n. 1459 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
la cui sentenza è stata
confermata dal Consiglio di Stato: |
EDILIZIA PRIVATA:
Conferma la sentenza n. 1459/2008 del TAR Lecce.
Ai sensi della previsione dell’art. 167,
comma 5, d.lgs. n. 42/2004, il parere della
Soprintendenza è vincolante (e dev’essere espresso
in senso negativo quando risultino realizzati volumi
di qualsiasi tipo) e non può essere surrogato da
meccanismi di silenzio-assenso o inerzia devolutiva
ed anche l’eventuale applicazione alla fattispecie
dell’art. 146 del codice dei beni culturali e del
paesaggio non cambierebbe certo i termini del
problema, dovendo trovare comunque applicazione la
previsione dell’ottavo comma della disposizione
citata, assegnante comunque valore vincolante al
parere della Soprintendenza fino all’“approvazione
del piano paesaggistico ai sensi dell'articolo 143,
comma 3, e all'avvenuto adeguamento ad esso degli
strumenti urbanistici comunali”.
... per la riforma della sentenza del Tar Puglia, Lecce,
sezione I, n. 1459/2008, resa tra le parti e concernente il
rilascio di un permesso di costruire ed il diniego di
riconoscimento di compatibilità paesaggistica.
...
L’appello è infondato e va respinto, dovendosi condividere quanto
ritenuto dai primi giudici (dalle cui conclusioni il
collegio non ha motivo di discostarsi), per le ipotesi in
cui l’autorizzazione sia richiesta dopo l’esecuzione dei
lavori (e, quindi, a sanatoria, come nel caso di specie):
l’art. 146, comma 12, d.lgs. 22.01.2004 n. 42
(modificato dall’art. 16, d.lgs. 24.03.2006 n. 157),
prevede un generale divieto di rilasciare autorizzazioni
paesistiche a sanatoria, salvi i casi e con le modalità di
cui all’art. 167, commi 4 e 5, citato codice.
Il rilascio dell’autorizzazione a sanatoria è, quindi,
possibile solo nelle ipotesi (lavori che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzabili; impiego di
materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica;
lavori comunque configurabili quali interventi di
manutenzione ordinaria o straordinaria, ai sensi dell'art.
3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380) previste dal quarto comma e
con le modalità previste dal quinto comma dell’articolo 167
del codice dei beni culturali e del paesaggio (il
proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo
dell'immobile o dell'area presenta apposita domanda
all'autorità preposta alla gestione del vincolo, ai fini
dell'accertamento della compatibilità paesistica degli
interventi medesimi; l’autorità competente si pronuncia
sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta
giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza, da
rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni;
qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il
trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente
al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto
conseguito mediante la trasgressione).
Quanto all’ambito di applicazione del richiamato art. 167,
commi 4 e 5, la Sezione ritiene di dover ribadire quanto già
affermato con la propria sentenza 20.06.2012 n. 3578, la
quale ha osservato che:
- l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata
in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del
2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti
dall’art. 167, commi 4 e 5;
- con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare
ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni
paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di
compatibilità paesistica possa essere postergato
all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal
titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa
riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di
legittimazione giuridica;
- in altri termini, il richiamato art. 167 del codice n. 42
del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi
applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e
sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri
discrezionali delle autorità preposte alla tutela del
vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente
i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice
ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere
abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso
art. 167);
- ove le opere risultino diverse da quelle sanabili ed
indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono
che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè
esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di
sanatoria;
- l’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il
caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o
difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati;
- tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167, nella
prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la
classificazione dei volumi edilizi che si suole fare al fine
di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico
urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti
sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo,
quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo
paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva
di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia
quando comunque si tratti di modificare un terreno o un
edificio o il relativo sottosuolo.
II) Ai sensi della previsione dell’art. 167, comma 5, d.lgs.
n. 42/2004, il parere della Soprintendenza è, quindi,
vincolante (e dev’essere espresso in senso negativo quando
risultino realizzati volumi di qualsiasi tipo) e non può
essere surrogato da meccanismi di silenzio-assenso o inerzia
devolutiva ed anche l’eventuale applicazione alla
fattispecie dell’art. 146 del codice dei beni culturali e
del paesaggio non cambierebbe certo i termini del problema,
dovendo trovare comunque applicazione la previsione
dell’ottavo comma della disposizione citata, assegnante
comunque valore vincolante al parere della Soprintendenza
fino all’“approvazione del piano paesaggistico ai sensi
dell'articolo 143, comma 3, e all'avvenuto adeguamento ad
esso degli strumenti urbanistici comunali” (evenienze ben
lungi dal verificarsi).
Nella fattispecie concreta non si sarebbe potuta poi
applicare neanche la previsione dell’art. 159, d.lgs. n.
42/2004, contemplante un regime transitorio destinato a
trovare applicazione fino al 01.05.2008 (o all’eventuale
anteriore approvazione dei piani paesaggistici adeguati al
nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio) e
costituito dalla riproposizione dell’ormai tradizionale
strutturazione attribuente alla Soprintendenza il potere di
annullare per motivi di legittimità (ed entro un termine
perentorio di sessanta giorni) le autorizzazioni
paesaggistiche rilasciate dagli organi competenti.
III) L’autorizzazione paesistica, in un primo momento
rilasciata dal Comune di Racale (con provvedimento sindacale
n. 49 del 16.06.2005) è stata successivamente revocata
(con provvedimento 22.11.2006 prot. n. 16591 del
dirigente del servizio edilizia privata) e non è stata più
trasmessa alla Soprintendenza (la nota 28.02.2007 prot.
n. 2627, che aveva attivato i poteri della Soprintendenza si
era, infatti, limitata a trasmettere solo il progetto di
sanatoria e non eventuali autorizzazioni rilasciate
dall’amministrazione); mancando un provvedimento di
autorizzazione paesaggistica da sottoporre alla
Soprintendenza, non avrebbe potuto pertanto applicarsi il
meccanismo previsto dall’art. 159, comma 3, ruotante intorno
al potere di annullamento di un’autorizzazione evidentemente
già rilasciata (ed allo stato non più sussistente, in
considerazione del provvedimento di autoannullamento
dell’autorizzazione paesistica a sanatoria, in precedenza
emessa dal Sindaco di Racale).
IV) Il parere negativo emesso dalla Soprintendenza risulta,
poi, congruamente motivato ed in linea con l’art. 167, comma
4, d.lgs. n. 42/2004; la lettura della relazione allegata al
progetto di sanatoria evidenzia, infatti, chiaramente come
fossero state realizzate opere (ampliamento del garage
interrato e di una centrale termica) integranti
quell’aumento “di superfici utili o volumi” ostativo, ai
sensi dell’art. 167, comma 4, codice dei beni culturali e
del paesaggio, al rilascio della licenza a sanatoria,
nessuna rilevanza potendo assumere -come si evince da
quanto sopra esposto sui c.d. volumi tecnici- il richiamo
all’orientamento giurisprudenziale (cfr. C.S., sez. V, sent.
01.07.2002 n. 3589) escludente rilevanza alle opere
interrate: orientamento affermatosi in rapporto alla
valutazione del parametro concernente la volumetria della
costruzione (onde l’irrilevanza delle costruzioni interrate
che, in quanto non utilizzabili al pari di quelle costruite
al di sopra del piano di campagna, non aumentino il carico
urbanistico) e non applicabile alle ipotesi in cui, al
contrario, sia contestata la stessa possibilità di procedere
all’edificazione (come nel caso di specie, per la mancanza
dell’autorizzazione paesaggistica e non in considerazione
della volumetria realizzata).
V) L’impossibilità di applicare alla fattispecie l’art. 159,
comma 1, d.lgs. n. 42/2004 (richiamante la necessità di
comunicare agli interessati l’invio alla Soprintendenza
dell’autorizzazione paesaggistica) e la natura di
procedimento avviato ad iniziativa di parte (evidenziata
dalla decisione della Adunanza plenaria n. 9 del 2001, le
cui argomentazioni sono condivise dalla sezione)
escludevano, d’altro canto, la necessità di alcun preavviso
procedimentale.
Conclusivamente, l’appello va respinto, con conferma
dell’impugnata sentenza, mentre le spese e gli onorari del
secondo grado di giudizio si liquidano come in dispositivo,
secondo il consueto criterio della soccombenza (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.09.2012 n. 5066
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
Ed
ancora: |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
167 d.lgs. 42/2004 prevede espressamente che la
soprintendenza debba rendere il proprio parere sulla domanda
di autorizzazione paesaggistica entro il termine perentorio
di novanta giorni: qualora questo termine non venga
rispettato sussiste un illegittimo silenzio-inadempimento
dell’amministrazione.
Nonostante l’art. 167, comma 5, D.Lgs. 42/2004, qualifichi
come perentori i termini assegnati alla Soprintendenza ed
alla Regione rispettivamente per rendere il parere e per
concludere il procedimento di autorizzazione paesaggistica
in sanatoria, l’inutile decorso non comporta la perdita, in
capo all’amministrazione, del potere di provvedere
sull’istanza ad essa rivolta; conseguentemente l’inerzia
dell’una e dell’altra è qualificabile come
silenzio-inadempimento, lasciando inalterato il loro
potere-dovere di provvedere, ancorché tardivamente.
Pertanto, sussiste l’obbligo della Soprintendenza di
pronunciarsi con un provvedimento espresso sulla domanda dei
ricorrenti in relazione all’autorità paesaggistica.
È invece fondato il
ricorso nella parte in cui chiede l’accertamento
dell’illegittimità del silenzio serbato dalla
Soprintendenza.
L’art. 167 d.lgs. 42/2004 prevede espressamente che la
soprintendenza debba rendere il proprio parere sulla domanda
di autorizzazione paesaggistica entro il termine perentorio
di novanta giorni: qualora questo termine non venga
rispettato sussiste un illegittimo silenzio-inadempimento
dell’amministrazione.
Nonostante l’art. 167, comma 5, D.Lgs. 42/2004, qualifichi
come perentori i termini assegnati alla Soprintendenza ed
alla Regione rispettivamente per rendere il parere e per
concludere il procedimento di autorizzazione paesaggistica
in sanatoria, l’inutile decorso non comporta la perdita, in
capo all’amministrazione, del potere di provvedere
sull’istanza ad essa rivolta; conseguentemente l’inerzia
dell’una e dell’altra è qualificabile come
silenzio-inadempimento, lasciando inalterato il loro
potere-dovere di provvedere, ancorché tardivamente (Tar
Catanzaro, sez. I, 16.04.2012, n. 382).
Pertanto, sussiste l’obbligo della Soprintendenza di
pronunciarsi con un provvedimento espresso sulla domanda dei
ricorrenti in relazione all’autorità paesaggistica
(TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 24.01.2013 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
la cui sentenza è stata
ugualmente confermata dal Consiglio di Stato: |
EDILIZIA PRIVATA: Qualora
non sia rispettato il termine di novanta giorni stabilito
dall’art. 167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il
potere dell’Amministrazione continua a sussistere (tanto che
un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dal
medesimo comma 5), ma l’interessato può proporre ricorso al
giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo
silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà
del termine riguarda non la sussistenza del potere, ma
l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo
che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato
sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle
spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e
così come avviene nel caso di superamento del termine di
centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5,
per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di
superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato
dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la
perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di
silenzio-qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di
novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto
dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così
come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo
grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del
procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure
emesso dopo il superamento del termine fissato dal
richiamato art. 167, comma 5.
Ritiene altresì il Collegio che il termine fissato dal comma
5, però, come risulta pacifico in giurisprudenza, decorre
esclusivamente a partire dalla ricezione, da parte della
Soprintendenza, della documentazione completa e necessaria
ai fini dell’emanazione degli atti di sua competenza, con la
conseguenza che, in mancanza di detta documentazione, non
sorge, in capo all’Amministrazione statale, l’obbligo di
provvedere in merito all’istanza di autorizzazione
paesaggistica.
... per la riforma della sentenza 24.01.2013 n. 141 del TAR
PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE - SEZIONE I, resa tra le
parti;
...
L’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, al comma 5, dispone
che “il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi
titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli
interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda
all’autorità preposta alla gestione del vicolo ai fini
dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli
interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia
sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta
giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza da
rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni […]”.
Ritiene innanzitutto il Collegio che, qualora non sia
rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art.
167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere
dell’Amministrazione continua a sussistere (tanto che un suo
parere tardivo resta comunque disciplinato dal medesimo
comma 5), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice
amministrativo, per contestare l’illegittimo
silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà
del termine riguarda non la sussistenza del potere, ma
l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo
che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato
sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle
spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e
così come avviene nel caso di superamento del termine di
centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5,
per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di
superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato
dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la
perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di
silenzio-qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di
novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto
dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così
come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo
grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del
procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure
emesso dopo il superamento del termine fissato dal
richiamato art. 167, comma 5.
Ritiene altresì il Collegio che il termine fissato dal comma
5, però, come risulta pacifico in giurisprudenza, decorre
esclusivamente a partire dalla ricezione, da parte della
Soprintendenza, della documentazione completa e necessaria
ai fini dell’emanazione degli atti di sua competenza (ex
multis: Cons. di Stato, Sez. VI, 11.02.2013, n. 753),
con la conseguenza che, in mancanza di detta documentazione,
non sorge, in capo all’Amministrazione statale, l’obbligo di
provvedere in merito all’istanza di autorizzazione
paesaggistica.
Orbene, nel caso di specie, dagli atti di causa risulta che
il Comune di Ostuni non ha inviato alla Soprintendenza la
documentazione relativa alla domanda d’accertamento della
compatibilità paesaggistica presentata dal signor Massacri:
ne deriva, dunque, che -contrariamente a quanto rilevato dal
giudice di primo grado- non vi è stata alcun inadempimento
da parte della Soprintendenza che, in assenza della
documentazione relativa all’istanza de qua, non è stata
posta nelle condizioni di esercitare il potere
legislativamente attribuitole, provvedendo sulla domanda
presentata dall’appellato
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.09.2013 n. 4656 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
Ciò premesso, passiamo all'interrogativo
qui posto
rileggendo -dapprima- quanto dispone l'art. 146,
commi 7, 8 e 9: |
7.
L'amministrazione competente al rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, ricevuta
l'istanza dell'interessato, verifica se ricorrono i
presupposti per l'applicazione dell'articolo 149,
comma 1, alla stregua dei criteri fissati ai sensi
degli articoli 140, comma 2, 141, comma 1, 141-bis e
143, comma 1 lettere b), c) e d). Qualora detti
presupposti non ricorrano, l'amministrazione
verifica se l'istanza stessa sia corredata della
documentazione di cui al comma 3, provvedendo, ove
necessario, a richiedere le opportune integrazioni e
a svolgere gli accertamenti del caso. Entro quaranta
giorni dalla ricezione dell'istanza,
l'amministrazione effettua gli accertamenti circa la
conformità dell'intervento proposto con le
prescrizioni contenute nei provvedimenti di
dichiarazione di interesse pubblico e nei piani
paesaggistici e trasmette al soprintendente la
documentazione presentata dall'interessato,
accompagnandola con una relazione tecnica
illustrativa nonché con una proposta di
provvedimento, e dà comunicazione all’interessato
dell’inizio del procedimento e dell’avvenuta
trasmissione degli atti al soprintendente, ai sensi
delle vigenti disposizioni di legge in materia di
procedimento amministrativo.
8. Il soprintendente rende il parere di cui al comma 5,
limitatamente alla compatibilità paesaggistica del
progettato intervento nel suo complesso ed alla
conformità dello stesso alle disposizioni contenute
nel piano paesaggistico ovvero alla specifica
disciplina di cui all'articolo 140, comma 2,
entro il termine di quarantacinque giorni dalla
ricezione degli atti. Il soprintendente, in caso
di parere negativo, comunica agli interessati il
preavviso di provvedimento negativo ai sensi
dell’articolo 10-bis della legge 7 agosto 1990, n.
241. Entro venti giorni dalla ricezione del parere,
l’amministrazione provvede in conformità.
9. Decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma
8 senza che il soprintendente abbia reso il
prescritto parere, l'amministrazione competente può
indire una conferenza di servizi, alla quale il
soprintendente partecipa o fa pervenire il parere
scritto. La conferenza si pronuncia entro il
termine perentorio di quindici giorni.
In ogni caso, decorsi
sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte
del soprintendente, l'amministrazione competente
provvede sulla domanda di autorizzazione.
Con regolamento da emanarsi ai sensi dell'articolo
17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400,
entro il 31 dicembre 2008, su proposta del Ministro
d'intesa con la Conferenza unificata, salvo quanto
previsto dall'articolo 3 del decreto legislativo 28
agosto 1997, n. 281, sono stabilite procedure
semplificate per il rilascio dell'autorizzazione in
relazione ad interventi di lieve entità in base a
criteri di snellimento e concentrazione dei
procedimenti, ferme, comunque, le esclusioni di cui
agli articoli 19, comma 1 e 20, comma 4 della legge
7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni. |
Invero,
questa (rara) volta potremmo dire che la norma è
chiara e senza necessità di interpretazioni
giurisprudenziali: scaduti i 45 gg. a disposizione della
Soprintendenza, senza che la stessa si esprima, e
scaduti i successivi 15 gg., senza che il comune
abbia convocato la conferenza dei servizi, il comune
legittimamente conclude il procedimento (rilascia o
denega la richiesta autorizzazione paesaggistica) a
decorrere dal 61° giorno.
Al riguardo, la conferma (autorevole) l'abbiamo con la
circolare n. 27/2011 del MIBAC qui sotto riportata: |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.Lgs. n. 42/2004 - art. 146 - parere
tardivo della Soprintendenza e autorizzazione
paesaggistica (Mibac, Direzione Generale per il
Paesaggio, le Belle Arti, l'Architettura e l'Arte
Contemporanea,
circolare 07.12.2011 n. 27). |
Purtroppo, pare che così non sia nel senso che anche
per quanto riguarda il parere del Soprintendente ex
art. 146 del dlgs 42/2004, per il rilascio ovvero
diniego dell'istanza di autorizzazione
paesaggistica, questo occorra acquisirlo agli atti
sempre e comunque altrimenti il comune (quale ente
sub-delegato dalla Regione) non può legittimamente
concludere il procedimento.
Invero, sono intervenute alcune sentenze che hanno
rimarcato tale necessità inderogabile, le quali sono
riproposte a seguire: |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittimo il parere (contrario) della
Soprintendenza protocollato oltre il
termine (di 45 giorni) di cui all’art. 146, 8° comma d.lgs.
n. 42/2004.
... per l'annullamento provvedimento della soprintendenza
bb.aa.pp. sa-av n. 22620/2012 con il quale si è espresso
parere contrario sulla richiesta di autorizzazione
paesaggistica per opere di sistemazione esterna e
riqualificazione di una parte del giardino di pertinenza del
fabbricato in località palazzone in san giovanni a piro.
...
CONSIDERATO che la controversia può essere decisa in forma
semplificata, avuto decisivo ed assorbente riguardo alla
evidenziata tardività del contestato parere, in quanto
protocollato oltre il termine (di quarantacinque giorni) di
cui all’art. 146, 8° comma d.lgs. n. 42/2004
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 07.12.2012 n. 2263 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ma la sentenza del TAR è stata
annullata dal Consiglio di Stato: |
EDILIZIA PRIVATA:
Il CdS annulla la sentenza n. 2263/2012 del TAR
Salerno.
L’art.
88 cod. proc. amm. prevede che la sentenza deve contenere,
tra l’altro, «la concisa esposizione dei motivi in fatto e
in diritto della decisione, anche con rinvio a precedenti
cui intende conformarsi».
L’art. 60 consente, ricorrendo determinati presupposti, che
la decisione venga assunta in forma semplificata all’esito
della camera di consiglio fissata per la trattazione della
domanda cautelare.
Nel caso in esame, la sentenza si è limitata ad affermare,
senza alcuna descrizione della fattispecie, che il parere
della Soprintendenza è tardivo.
Tale motivazione viola la norma sopra riportata, ispirata,
pur nel rispetto del principio generale della sinteticità,
all’esigenza di assicurare l’“autosufficienza” della
motivazione.
---------------
Nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall’art.
146, comma 5, così come del termine fissato dall’art. 167,
comma 5, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, il potere della
Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo
parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati
commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma
l’interessato può proporre ricorso al giudice
amministrativo, per contestare l’illegittimo
silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà
del termine riguarda non la sussistenza del potere o la
legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase
del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può
essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative
conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia
del funzionario).
Poiché nel caso di superamento del termine in questione il
Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere,
né alcuna ipotesi di silenzio-qualificato o significativo,
va riformata la sentenza con cui il TAR ha rilevato la
tardività del parere, senza nemmeno occuparsi delle
conseguenze della constatata tardività.
Con la sentenza impugnata, il Tribunale
amministrativo regionale della Campania, Sezione di
Salerno, all’esito della camera di consiglio fissata
per la trattazione della domanda cautelare, ha
adottato, sentite le parti, una sentenza in forma
semplificata, con la quale ha accolto il ricorso
proposto dalla signora Giovanna Cutugno avverso il
provvedimento della Soprintendenza, con il quale, si
legge nell’intestazione della sentenza, «si è
espresso parere contrario sulla richiesta di
autorizzazione paesaggistica per opere di
sistemazione esterna e riqualificazione di una parte
del giardino di pertinenza del fabbricato in
località Palazzone in San Giovani a Piro».
Nella parte motiva si afferma quanto segue:
«Considerato che la controversia può essere decisa
in forma semplificata, avuto decisivo ed assorbente
riguardo alla evidenziata tardività del contestato
parere, in quanto protocollato oltre il termine
(quarantacinque giorni) di cui all’art. 146, comma
8, del d.gs. n. 42 del 2004».
La Soprintendenza ed il Ministero per i beni e le
attività culturali, per il tramite dell’Avvocatura
generale dello Stato, ha proposto appello,
rilevando: a) la nullità della sentenza perché
completamente priva delle regioni di fatto e di
diritto; b) la mancata impugnazione del
provvedimento del 05.11.2012, n. 9584, con cui
il Comune, prima della proposizione del ricorso, ha
concluso il procedimento con un proprio atto autoritativo ed ha adottato un diniego espresso in
ordine all’autorizzazione paesaggistica (sul punto
si fa presente che, con provvedimento del 05.03.2013, lo stesso Comune, a seguito della sentenza
impugnata, ha rilasciato l’autorizzazione
paesaggistica).
Si è costituita in giudizio la ricorrente in primo
grado, rilevando che: a) la sentenza è adeguatamente
motivata; b) il provvedimento negativo del Comune,
rappresentando l’unico atto conseguente al parere, è
automaticamente caducato senza necessità di autonoma
impugnazione. L’appellata ha riproposto i motivi non
esaminati dal primo giudice.
...
Nel caso in esame, la sentenza si è limitata ad affermare,
senza alcuna descrizione della fattispecie, che il parere
della Soprintendenza è tardivo.
Tale motivazione viola la norma sopra riportata, ispirata,
pur nel rispetto del principio generale della sinteticità,
all’esigenza di assicurare l’“autosufficienza” della
motivazione.
In primo luogo, non è, infatti, possibile ricostruire
la vicenda amministrativa e le ragioni della decisione
mediante l’analisi degli atti del processo, con violazione
del diritto di difesa della controparte, impedendole di
articolare adeguate ragioni sostanziali di critica avverso
la sentenza impugnata.
In secondo luogo, la sentenza ha rilevato la mera
tardività del parere reso dalla Soprintendenza, senza
esaminare il quadro normativo di riferimento, dal quale si
evince che –nel caso di mancato rispetto del termine fissato
dall’art. 146, comma 5, così come del termine fissato
dall’art. 167, comma 5, del decreto legislativo 22.01.2004,
n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi
dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137)– il potere
della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo
parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati
commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma
l’interessato può proporre ricorso al giudice
amministrativo, per contestare l’illegittimo
silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà
del termine riguarda non la sussistenza del potere o la
legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase
del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può
essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative
conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia
del funzionario).
Poiché nel caso di superamento del termine in questione il
Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere,
né alcuna ipotesi di silenzio-qualificato o significativo,
va riformata la sentenza con cui il TAR ha rilevato la
tardività del parere, senza nemmeno occuparsi delle
conseguenze della constatata tardività
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 04.10.2013 n. 4914 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
Ed
ancora: |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
procedimento previsto dall’art. 146 Codice dei beni
culturali, il parere della soprintendenza, autorità
preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, ha
natura obbligatoria e vincolante (vincolo superabile
solo a seguito di una ulteriore fase procedimentale
conseguente al preavviso di diniego di cui all’art.
10-bis della legge n. 2431 del 1990) e, quindi,
assume una connotazione non solamente consultiva ma
tale da possedere un'autonoma capacità lesiva della
sfera giuridica del destinatario, lesività non
superabile e perciò attuale quando l’interessato non
abbia prodotto alcuna osservazione.
L’indicato parere è autonomamente ed immediatamente
lesivo e di conseguenza ex se impugnabile in sede
giurisdizionale.
In via preliminare è da rilevare che, nel
procedimento previsto dall’art. 146 Codice dei beni
culturali, il parere della soprintendenza, autorità
preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, ha
natura obbligatoria e vincolante (vincolo superabile
solo a seguito di una ulteriore fase procedimentale
conseguente al preavviso di diniego di cui all’art.
10-bis della legge n. 2431 del 1990) e, quindi,
assume una connotazione non solamente consultiva ma
tale da possedere un'autonoma capacità lesiva della
sfera giuridica del destinatario, lesività non
superabile e perciò attuale quando l’interessato non
abbia prodotto (come nella specie) alcuna
osservazione (secondo le dichiarazioni rese dal
difensore all’udienza del 17.11.2010 e risultanti
dal verbale della stessa udienza). L’indicato parere
è autonomamente ed immediatamente lesivo e di
conseguenza ex se impugnabile in sede
giurisdizionale.
Nel caso in cui (come nella specie)
l’amministrazione competente abbia indetto una
conferenza di servizi e il motivato dissenso di
un’amministrazione preposta alla tutela ambientale
(nella specie la Soprintendenza per i Beni
Architettonici e Paesaggistici) possa essere
superato a seguito della rimessione della vicenda al
giudizio del Consiglio dei Ministri, ex art.
14-quater, terzo comma, della legge n. 241 del 1990,
non si può negare che il parere negativo espresso
dalla citata amministrazione determina una
situazione di stallo di per sé lesiva, sicché l’atto
che tale situazione determina è impugnabile ex se
in sede giurisdizionale.
Ciò tanto più, quando, come nel caso in esame, è
intervenuto un provvedimento che, pur qualificandosi
quale preavviso di diniego, dichiara che, stante il
parere negativo della Soprintendenza, “il
procedimento di autorizzazione … si è concluso
negativamente”.
Infatti, in questo caso è evidente l’autonoma
portata lesiva del parere impugnato, che è stato
posto alla base del provvedimento del 24.06.2010
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 03.12.2010 n. 2784 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
parere ex art. 146 dlgs 42/2004 è stato assimilato a
un'autorizzazione o ad un nulla osta con funzione di
strumento dato all'autorità preposta alla tutela
delle bellezze naturali per salvaguardare gli
interessi da essa rappresentati.
Deve perciò ritenersi autonomamente impugnabile per
l’effetto preclusivo all’ulteriore prosieguo
procedimentale che esso produce.
Nella giurisprudenza amministrativa, il parere della
Soprintendenza previsto dall'art. 146, D.Lgs. n.
42/2004, ha natura obbligatoria e vincolante e,
quindi, assume una connotazione non solamente
consultiva, ma tale da possedere un'autonoma
capacità lesiva della sfera giuridica del
destinatario: il parere, pertanto, è autonomamente
ed immediatamente lesivo e di conseguenza ex se
impugnabile in sede giurisdizionale.
Preliminarmente il Collegio osserva di essersi
ripetutamente pronunziato sull’ammissibilità del
ricorso, benché diretto nei confronti del parere che
la Soprintendenza rende ai sensi dell’art. 146,
D.Lgs. n. 42/2004: nella giurisprudenza del
Tribunale il parere è stato assimilato a
un'autorizzazione o ad un nulla osta con funzione di
strumento dato all'autorità preposta alla tutela
delle bellezze naturali per salvaguardare gli
interessi da essa rappresentati (TAR Umbria Perugia,
06.03.1998, n. 182).
Deve perciò ritenersi autonomamente impugnabile per
l’effetto preclusivo all’ulteriore prosieguo
procedimentale che esso produce (arg. TAR Umbria
Perugia, 31.03.2011 n. 97).
Nella giurisprudenza amministrativa, il parere della
Soprintendenza previsto dall'art. 146, D.Lgs. n.
42/2004, ha natura obbligatoria e vincolante e,
quindi, assume una connotazione non solamente
consultiva, ma tale da possedere un'autonoma
capacità lesiva della sfera giuridica del
destinatario: il parere, pertanto, è autonomamente
ed immediatamente lesivo e di conseguenza ex se
impugnabile in sede giurisdizionale (TAR Campania
Salerno, sez. II, 07.12.2011, n. 1955)
(TAR Umbria,
sentenza 16.01.2013 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
modulo della conferenza di servizi c.d. decisoria,
applicato alle vicende di autorizzazione
paesaggistica, per quanto possa essere utile a un
esame contestuale e sollecito dell’istanza e possa
comportare il raccordo con gli altri procedimenti,
non è ex se idoneo a legittimare dal punto di vista
paesaggistico l’intervento, se non è seguito da un
autonomo, espresso e puntuale provvedimento
autorizzatorio da parte dell’Ente competente e se la
Soprintendenza non ha poi esercitato in senso
favorevole all’istanza stessa la sua conseguente
funzione di co-gestione del vincolo.
Infondato è anche l’ulteriore motivo col quale si
denuncia l’erroneità della sentenza impugnata nella
parte in cui ha ritenuto sussistente il vizio di
mancata acquisizione dell’autorizzazione
paesaggistica, tornando parte appellante a insistere
nella propria tesi secondo cui tale assenso sarebbe
implicito nella mancata partecipazione della
competente Soprintendenza alla conferenza di servizi
che ha istruito il permesso di costruire de quo.
Al riguardo, in disparte i rilievi svolti dal primo
giudice in ordine alla non significatività di tale
mancata partecipazione anche per le circostanze di
tempo e di luogo in cui si è verificata, la Sezione
non ritiene di doversi discostare dal consolidato
indirizzo secondo cui il modulo della conferenza di
servizi c.d. decisoria, applicato alle vicende di
autorizzazione paesaggistica, per quanto possa
essere utile a un esame contestuale e sollecito
dell’istanza e possa comportare il raccordo con gli
altri procedimenti, non è ex se idoneo a
legittimare dal punto di vista paesaggistico
l’intervento, se non è seguito da un autonomo,
espresso e puntuale provvedimento autorizzatorio da
parte dell’Ente competente e se la Soprintendenza
non ha poi esercitato in senso favorevole
all’istanza stessa la sua conseguente funzione di
co-gestione del vincolo (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
18.04.2011, nr. 2378; id., 11.12.2008, nr. 5620)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.07.2013 n. 3755 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Va
confermata la natura obbligatoria e vincolante del
parere di cui all’art. 146 d.lgs. 42/2004, e ciò in
ossequio ad un costante orientamento
giurisprudenziale che ha sancito che “il parere
della Soprintendenza per i Beni Architettonici e
Paesaggistici previsto dall'art. 146 D.Lgs. n.
42/2004 (Codice dei beni culturali) ha natura
obbligatoria e vincolante e, quindi, assume una
connotazione non solamente consultiva, ma tale da
possedere un'autonoma capacità lesiva della sfera
giuridica del destinatario...”.
---------------
E' legittimo un provvedimento di diniego, a
conclusione del procedimento amministrativo, laddove
l’assenza della motivazione è da ricondurre dal
carattere “per relationem” della motivazione di cui
si tratta, contenuta nel parere della
Sopraintendenza e, ciò, in considerazione del
carattere obbligatorio e vincolante di detto
provvedimento.
---------------
Va ricordato, per un costante orientamento
giurisprudenziale, come l’Amministrazione non possa
limitare la sua valutazione al mero riferimento ad
un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni
vaghe o formule stereotipate, ma tale motivazione
deve contenere una sufficiente esternazione delle
specifiche ragioni per le quali si ritiene che
un'opera non sia idonea ad inserirsi nell'ambiente,
attraverso l'individuazione degli elementi di
contrasto; pertanto, occorre un concreto ed
analitico accertamento del disvalore delle valenze
paesaggistiche.
L’esame della motivazione contenuta nei
provvedimenti impugnati consente di rilevare che ..
”l’intervento proposto …in un’area di eccezionale
bellezza e di grande visibilità, qualora realizzato
comporterebbe un’alterazione sostanziale
dell’ambiente e inciderebbe negativamente
sull’equilibrio del contesto sottoposto a tutela
paesaggistica...”.
Nel parere negativo si è ancora affermato che…
”negli ultimi anni si è avuta una trasformazione
intensiva dei terreni rimboschiti della Valpolicella
in vigneti portando ad un impoverimento del
paesaggio locale e privandolo viepiù di quella
variegazione evidenziata dal decreto di tutela:
risulta pertanto essenziale la salvaguardia e il
recupero di tali aspetti peculiari...”.
E’, pertanto, del tutto evidente che la lettura
della motivazione contenuta nei due atti sopra
citati, lungi dal costituire l’applicazione di
formule apodittiche, ha a riferimento l’area di cui
si tratta, esprimendo una valutazione che, seppur
sintetica, consente di ripercorrere l’iter logico
seguito e a fondamento dei provvedimenti impugnati.
Il ricorso è infondato e va respinto per i motivi di
seguito precisati.
E’ infondato il primo motivo mediante il quale si
asserisce la violazione dell’art. 146 del D.Lgs.
42/2004 in quanto non sarebbero rispettati i termini
della norma sia in quanto riferiti ai 45 giorni
(comma 8°) che per quanto attiene i 90 giorni (comma
5°).
Si rileva, altresì, che il parere in quanto
pervenuto oltre detti termini doveva considerarsi
reso in senso favorevole, essendo trascorsi 90
giorni senza che la Soprintendenza si fosse
pronunciata.
Con riferimento a dette eccezioni in primo luogo va
confermata la natura obbligatoria e vincolante del
parere di cui all’art. 146 sopra citato e, ciò, in
ossequio ad un costante orientamento
giurisprudenziale (TAR Umbria Perugia Sez. I,
16.01.2013, n. 11) che ha sancito che “il parere
della Soprintendenza per i Beni Architettonici e
Paesaggistici previsto dall'art. 146 D.Lgs. n.
42/2004 (Codice dei beni culturali) ha natura
obbligatoria e vincolante e, quindi, assume una
connotazione non solamente consultiva, ma tale da
possedere un'autonoma capacità lesiva della sfera
giuridica del destinatario...”
Va, inoltre, rilevato come nel concreto siano
rispettati anche i termini entro i quali il parere
doveva essere emanato e, ciò, considerando che i
termini sia di cui al comma 5 che al comma 8
decorrono dalla data di ricezione degli atti e non
dalla data di deposito dell’istanza presso l’ufficio
regionale competente come sostenuto dalla parte
ricorrente.
Ne consegue come non risulti nemmeno condivisibile
l’applicazione di un presunto silenzio assenso di
cui al comma 5 della disposizione sopra citata e,
ciò, in considerazione del fatto che il parere
sfavorevole era stato emesso nei termini sopra
citati.
--------------
Sono,
altresì, infondati il secondo e il terzo motivo alla
base del ricorso mediante il quale si sostiene il
venire in essere di un difetto di motivazione dei
provvedimenti impugnati.
Per quanto attiene il difetto di motivazione del
provvedimento del Servizio Forestale del 14.05.2012
va rilevato che l’assenza della motivazione è da
ricondurre dal carattere “per relationem”
della motivazione di cui si tratta, contenuta nel
parere della Sopraintendenza e, ciò, in
considerazione del carattere obbligatorio e
vincolante di detto provvedimento.
Con riferimento al presunto difetto di motivazione
del parere della Soprintendenza va ricordato che per
un costante orientamento giurisprudenziale (TAR
Campania Salerno Sez. II, 01.08.2012, n. 1591 e
Cons. Stato Sez. VI Sent., 25.02.2008, n. 653) come
l’Amministrazione non possa limitare la sua
valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio
ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule
stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una
sufficiente esternazione delle specifiche ragioni
per le quali si ritiene che un'opera non sia idonea
ad inserirsi nell'ambiente, attraverso
l'individuazione degli elementi di contrasto;
pertanto, occorre un concreto ed analitico
accertamento del disvalore delle valenze
paesaggistiche.
L’esame della motivazione contenuta nei
provvedimenti impugnati consente di rilevare che ..
”l’intervento proposto …in un’area di eccezionale
bellezza e di grande visibilità, qualora realizzato
comporterebbe un’alterazione sostanziale
dell’ambiente e inciderebbe negativamente
sull’equilibrio del contesto sottoposto a tutela
paesaggistica...”.
Nel parere negativo si è ancora affermato che… ”negli
ultimi anni si è avuta una trasformazione intensiva
dei terreni rimboschiti della Valpolicella in
vigneti portando ad un impoverimento del paesaggio
locale e privandolo viepiù di quella variegazione
evidenziata dal decreto di tutela: risulta pertanto
essenziale la salvaguardia e il recupero di tali
aspetti peculiari...”.
E’, pertanto, del tutto evidente che la lettura
della motivazione contenuta nei due atti sopra
citati, lungi dal costituire l’applicazione di
formule apodittiche, ha a riferimento l’area di cui
si tratta, esprimendo una valutazione che, seppur
sintetica, consente di ripercorrere l’iter logico
seguito e a fondamento dei provvedimenti impugnati
(TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 21.08.2013 n. 1081 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
Sussistono, tuttavia, anche alcune voci fuori dal
coro del tipo: |
EDILIZIA PRIVATA:
E' illegittimo il parere (negativo) espresso
dalla Soprintendenza non rispettando la
tempistica dettata dai commi 8 e 9 dell’art. 146, in
quanto il parere reso risulta comunque espresso risultando
ormai superato il termine perentorio di 45 giorni, così come
previsto dal comma 8, del dlgs 42/2004, per l’espressione
del richiesto parere. Tale circostanza rende quindi nullo e
privo di ogni effetto il parere successivamente reso, in
alcun modo in grado di condizionare l’azione
dell’amministrazione procedente.
Al contempo, scatta l’obbligo per il Comune di concludere il
procedimento, così come previsto in termini generali una
volta decorsi 60 giorni dal ricevimento degli atti da parte
della Soprintendenza, indipendentemente dalla manifestazione
del parere Soprintendizio.
Ribadita l’inesistenza del parere tardivamente emesso, in
quanto manifestato da un autorità che, per inosservanza del
termine perentorio dettato dalla legge, non poteva più
esercitare il relativo potere attribuitole, sussiste
l’obbligo per il Comune di concludere il procedimento,
stante il chiaro disposto di cui alla seconda parte del
comma 9, che testualmente recita: “In ogni caso, decorsi
sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del
soprintendente, l’amministrazione competente provvede sulla
domanda di autorizzazione”: illegittima è quindi la mera
comunicazione del parere negativo, senza concludere il
procedimento, da parte dell’amministrazione comunale.
... per l'annullamento del provvedimento della
Soprintendenza 28/06/2013 prot. n. 17179 con il quale sono
stati confermati i "motivi ostativi" al rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica ex art. 146, comma 8,
D.Lgs. n. 42/2004 relativamente alla costruzione di tre
fabbricati in Comune di Sappada, con invito al Comune a
concludere il procedimento adottando il provvedimento di
diniego in tempo utile, nonché della comunicazione dei "motivi
ostativi" del 18/04/2013 prot. n. 10348; del
provvedimento del Comune di Sappada 29/07/2013 prot. n. 4973
con il quale il Comune ha trasmesso alle istanti società G &
B Investimenti e VICAMMDUE S.r.l. la nota della
Soprintendenza del 28/06/2013 prot. n. 17179 senza adottare
il provvedimento conclusivo nonché per l'accertamento
dell'obbligo del Comune di Sappada di provvedere in ordine
all'autorizzazione paesaggistica.
...
- Premesso che –ai sensi dell’allora vigente regime
transitorio di cui all’art. 159 D.lgs. 42/2004– è stata
rilasciata (per silentium) l’autorizzazione
paesaggistica in ordine al progetto di PUA, nel quale era
stata prevista la realizzazione di cinque edifici da
destinare a residenza;
- che per l’effetto le ricorrenti hanno già eseguito le
opere di urbanizzazione, debitamente collaudate;
- che con i provvedimenti ora impugnati, vigente il regime
ordinario ex art. 146 D.lgs. 42/2004, è stata respinta con
provvedimento del 28.06.2013 della Soprintendenza la
richiesta di autorizzazione paesaggistica relativamente
all’istanza di rilascio dei titoli edilizi per la
costruzione di tre dei suddetti edifici e che, per effetto
del suddetto parere sfavorevole, il Comune ha provveduto al
mero invio di una comunicazione nella quale ha dato atto del
parere, peraltro tardivamente emesso dalla Soprintendenza,
senza tuttavia pronunciarsi sull’istanza degli interessati;
- visti i motivi di ricorso e ritenuta, in via del tutto
assorbente ogni ulteriore considerazione, la sussistenza
della denunciata violazione delle disposizioni introdotte
con l’art. 146 del D.lgs. 42/2004;
- che invero il procedimento non risulta rispettoso della
tempistica dettata dai commi 8 e 9 dell’art. 146, in quanto
il parere della Soprintendenza, formulato in termini
negativi, anche tenendo conto della tesi più favorevole e,
quindi, conteggiando il tempo concesso ai richiedenti per
controdedurre al preavviso di diniego loro inviato, risulta
comunque espresso quanto risultava ormai superato il termine
perentorio di 45 giorni, così come previsto dal comma 8, per
l’espressione del richiesto parere;
- che tale circostanza rende quindi nullo e privo di ogni
effetto il parere successivamente reso, in alcun modo in
grado di condizionare l’azione dell’amministrazione
procedente;
- che, al contempo, scatta l’obbligo per il Comune di
concludere il procedimento, così come previsto in termini
generali una volta decorsi 60 giorni dal ricevimento degli
atti da parte della Soprintendenza (avvenuto il 05.04.2013),
indipendentemente dalla manifestazione del parere;
- ciò detto e ribadita l’inesistenza del parere tardivamente
emesso, in quanto manifestato da un autorità che, per
inosservanza del termine perentorio dettato dalla legge, non
poteva più esercitare il relativo potere attribuitole,
sussisteva l’obbligo per il Comune di concludere il
procedimento, stante il chiaro disposto di cui alla seconda
parte del comma 9, che testualmente recita: “In ogni
caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da
parte del soprintendente, l’amministrazione competente
provvede sulla domanda di autorizzazione”: illegittima è
quindi la mera comunicazione del parere negativo, senza
concludere il procedimento, da parte dell’amministrazione
comunale;
- di conseguenza, in accoglimento del presente ricorso
annullati gli atti impugnati e ritenuta in particolare
l’illegittimità dell’inerzia manifestata
dall’amministrazione comunale, si dispone che il Comune
provveda in ordine alla richiesta dei ricorrenti, così
concludendo il procedimento, tenuto conto delle
considerazioni già espresse in occasione della presentazione
della proposta di autorizzazione paesaggistica e tenendo
conto altresì delle considerazioni già svolte in occasione
dell’approvazione del PUA
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza
14.11.2013 n. 1295 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Soprintendenza deve
rendere il proprio parere vincolante (ex art. 146 dlgs
42/2004) entro 45 giorni dalla ricezione degli atti; qualora
il parere sia reso dopo questo termine il parere non può
essere più considerato vincolante.
Militano in tal senso due fattori:
a) la formulazione delle norme che vengono in rilievo:
l’ottavo comma dell’art. 146 si riferisce al “parere
[vincolante] di cui al comma 5”, che va reso entro 45
giorni, soggiungendo all’ultimo periodo che
“l’amministrazione provvede in conformità” (e, cioè, non
potendosene discostare esclusivamente in tal caso);
b) la previsione della conferenza di servizi, nell’ipotesi
in cui il termine non sia rispettato (nono comma), alla cui
base v’è l’esigenza di concentrazione e celerità nella
definizione del procedimento; il ricorso a detto modulo
procedimentale è inconciliabile con la possibilità che possa
ancora essere assegnato carattere vincolante al parere della
Soprintendenza, attesa la specifica disciplina dettata
dall’art. 14-quater, terzo comma, della legge n. 241 del
1990 (né è ipotizzabile la conservazione della natura
vincolante del parere, qualora la conferenza di servizi non
sia stata indetta, che creerebbe un’evidente distonia nel
sistema, poiché il modulo procedimentale suddetto segue alla
mancata espressione del parere/preavviso di rigetto nel
termine perentorio fissato).
È assorbente il primo profilo della
censura.
Risulta che, con nota prot. n. 1749 del 28/12/2011 (doc. 5
della produzione di parte ricorrente), l’Unione dei Comuni
“Terra di Leuca” ha inviato la pratica, con allegati gli
elaborati grafici e la relazione, per il parere di
competenza alla Soprintendenza, che l’ha ricevuta il 02.01.2012 (v. il timbro di arrivo).
Il termine assegnato alla Soprintendenza decorre da questa
data, coincidente con la “ricezione degli atti” a cui ha
riguardo l’ottavo comma dell’art. 146 cit. (pertanto, non
può rilevare il protocollo interno del 09/01/2012).
A decorrere dal 02/01/2012 la Soprintendenza doveva dunque
esprimere il proprio parere, ovvero adottare il preavviso di
rigetto, dovendosi interpretare l’art. 146, quinto comma,
nel senso di ritenere doveroso tale atto, posto come
obbligatorio, e in quanto tale idoneo a produrre l’effetto
interruttivo del termine finale, secondo quanto stabilito
dall’art. 10-bis della legge n. 241/1990.
Nel termine di quarantacinque giorni da tale data (scadente
il 16.02.2012, osservandosi nel computo la regola di
cui all’art. 155 c.p.c.) la Soprintendenza non ha formulato
il preavviso di rigetto, che è stato adottato il 17.02.2012, al quarantaseiesimo giorno.
Al proposito, il Collegio intende ribadire il proprio
consolidato indirizzo, con il quale è stato ritenuto che la
vincolatività del parere della Soprintendenza sussiste
solamente allorquando esso (ovvero, il preavviso di rigetto)
sia reso entro i quarantacinque giorni a cui ha riguardo il
quinto comma dell’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 (cfr., da
ultimo, la sentenza della Sezione del 25.10.2013 n.
2191: <<È, anzitutto, da confermare l’orientamento di questo
Tribunale, per il quale la Soprintendenza deve rendere il
proprio parere vincolante entro 45 giorni dalla ricezione
degli atti; qualora il parere sia reso dopo questo termine
il parere non può essere più considerato vincolante (sent.
1049/2013 e 1739/2013; nello stesso senso Cons. St., sez. VI,
15.03.2013, n. 1561)>>).
Militano in tal senso due fattori:
a) la formulazione delle norme che vengono in rilievo:
l’ottavo comma dell’art. 146 si riferisce al “parere
[vincolante] di cui al comma 5”, che va reso entro 45
giorni, soggiungendo all’ultimo periodo che
“l’amministrazione provvede in conformità” (e, cioè, non
potendosene discostare esclusivamente in tal caso);
b) la previsione della conferenza di servizi, nell’ipotesi
in cui il termine non sia rispettato (nono comma), alla cui
base v’è l’esigenza di concentrazione e celerità nella
definizione del procedimento; il ricorso a detto modulo
procedimentale è inconciliabile con la possibilità che possa
ancora essere assegnato carattere vincolante al parere della
Soprintendenza, attesa la specifica disciplina dettata
dall’art. 14-quater, terzo comma, della legge n. 241 del
1990 (né è ipotizzabile la conservazione della natura
vincolante del parere, qualora la conferenza di servizi non
sia stata indetta, che creerebbe un’evidente distonia nel
sistema, poiché il modulo procedimentale suddetto segue alla
mancata espressione del parere/preavviso di rigetto nel
termine perentorio fissato).
In sintesi, il parere del Soprintendente è vincolante se
espresso nei quarantacinque giorni dal ricevimento degli
atti; se l’avviso è negativo, deve essere comunicato il
preavviso e il procedimento si articola nei tempi di cui
all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990. Trascorso il
lasso di tempo di 45 giorni o quello più ampio determinato
dall’applicazione del citato art. 10-bis (al massimo 45 + 10
+ 45), l’Amministrazione può indire una conferenza di
servizi. Dalla previsione relativa al dovere
dell’Amministrazione di pronunciarsi trascorsi sessanta
giorni dal ricevimento degli atti da parte della
Soprintendenza si desume che l’Amministrazione ha quindici
giorni di tempo per indire la conferenza di servizi.
In questo lasso di tempo l’Amministrazione può indire la
conferenza di servizi o provvedere sull’istanza.
Se indetta, la conferenza di servizi si svolge secondo
l’iter delineato dagli artt. 14-ter e 14-quater della legge
n. 241 del 1990; la conclusione della medesima non è
vincolata dal parere della Soprintendenza.
Se in questo lasso interviene il parere della Soprintendenza
(positivo o negativo che sia), l’Amministrazione deve
tenerne conto, senza però che dallo stesso sia vincolata.
Nella specie, si è detto, l’Unione dei Comuni ha negato
l’autorizzazione paesaggistica non in base ad una propria
valutazione, raggiunta anche aderendo al parere della
Soprintendenza, ma semplicemente perché ha ritenuto
vincolante il parere espresso dalla stessa; per questa
ragione va accolto il ricorso e, per l’effetto, va annullato
l’impugnato diniego dell’autorizzazione paesaggistica prot.
n. 1050 del 04/07/2012
(TAR Puglia-Lecce, I,
sentenza 06.02.2014 n. 321 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
Sulla
questione qui posta, poi, sono consultabili alcuni
contributi reperibili nel web e di seguito
riportati: |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Il parere vincolante del soprintendente nel
procedimento di autorizzazione paesaggistica (29.07.2013
- link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Il parere vincolante del Soprintendente nel
procedimento di autorizzazione paesaggistica è
indefettibile. Sono finite le larghe intese sul
paesaggio? (11.10.2013 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: S.
Deliperi,
Il parere del Soprintendente nel procedimento di
autorizzazione paesaggistica è vincolante e
indefettibile
(19.10.2013 - link a http://gruppodinterventogiuridicoweb.wordpress.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Il parere vincolante del Soprintendente e la
conferenza dei servizi nel procedimento di
autorizzazione paesaggistica (all’indomani della
sentenza n. 4914/2013 del Consiglio di Stato) (22.10.2013
- link a www.lexambiente.it). |
E sull'argomento c'è pure un parere legale che va
nel senso dell'imprescindibilità del parere della
Soprintendenza per concludere legittimamente
(favorevolmente o negativamente che sia) un'istanza
di autorizzazione paesaggistica: |
EDILIZIA PRIVATA:
V. Stefutti,
Un quesito sull'autorizzazione paesaggistica e il
parere del Soprintendente - Commento a sentenza
04.10.2013 n. 4914 del Consiglio di Stato.
Domanda: Nel caso in cui, in sede di
Conferenza dei Servizi, il Soprintendente non si esprima, e
poi il parere di cui agli artt. 146, comma 5, e 167, comma
5, del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 venga reso successivamente,
vale adire dopo la scadenza dei termini fissati dalle
predette norme, è possibile per l'autorità competente
pronunciarsi definitivamente sull'istanza proposta
dall'interessato, considerando tamquam non esset il
parere sopravvenuto oltre il termine fissato dal comma 8
dell'art. 146?
(02.02.2014 - tratto da www.dirittoambiente.net). |
QUINDI ?? |
Una volta tanto che la norma è chiara arriva la
giurisprudenza a sparigliare le carte ed ingenerare
confusione ed incertezza negli operatori: tra
l'altro, con due posizioni forti ed autorevoli,
laddove da una parte c'è il MIBAC e dall'altra la
Giustizia Amministrativa. E allora, per sapere con
certezza come correttamente comportarsi, non resta
che attendere che l'Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato -presto o tardi che sia- si pronunci in
merito ...
Nel frattempo, se qualcuno vuol dire la propria può
partecipare alla
discussione di questo interessante forum.
17.02.2014 - LA SEGRETERIA PTPL |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA: APE,
obbligo di allegazione, nullità e sanzioni. Lo Speciale di
BibLus-net con tavole sinottiche e normative.
La disciplina relativa alla Certificazione Energetica degli
Edifici contenuta nel D.Lgs. 192/2005 ha subito di recente
diverse modifiche, anche a distanza di breve tempo l’una
dall’altra.
In particolare sono intervenuti sul tema:
►
Decreto Ecobonus (D.L. 63/2013, convertito con Legge
90/2013)
►
Decreto Destinazione Italia (D.L. 145/2013)
►
Legge di Stabilità (Legge 147/2013)
►
Decreto Milleproroghe (D.L. 151/2013)
Le modifiche apportate dai vari interventi normativi hanno,
tuttavia, generato gran confusione su un tema così
rilevante, visto che riguarda la compravendita e l’affitto
degli immobili.
Basti pensare che la Legge di Stabilità 2014 ha rinviato
l'operatività della norma sulla nullità del contratto in
caso di mancata allegazione dell'APE, ma non ha tenuto conto
che la norma stessa era stata già abrogata dal Decreto
Destinazione Italia.
Di recente anche il Governo (Ministro Cancellieri) si è
espresso in risposta ad un’interrogazione sull’APE in caso
di trasferimento o locazione di immobili.
In questo articolo proponiamo uno Speciale di
approfondimento a cura di BibLus-net che cerca di riassumere
e fare chiarezza su tutti gli interventi normativi e sul
regime giuridico applicabile all’APE in tema di allegazione
ai contratti immobiliari.
Sono presenti, inoltre, utili tabelle sinottiche con
obblighi e sanzioni previste nei vari casi possibili
(13.02.2014 - link a www.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO: Sicurezza
nei cantieri e nei luoghi di lavoro, le risposte alle
domande più frequenti.
Al fine di fornire indicazioni in materia di salute e
sicurezza sui luoghi di lavoro, la Regione Piemonte ha
selezionato e raccolto i requisiti più interessanti sul
proprio sito, che viene periodicamente aggiornato.
Il contenuto della
pubblicazione (aggiornata al 15.05.2013), pur avendo
carattere esclusivamente informativo, è un utile strumento
per datori di lavoro, responsabili e addetti dei servizi di
prevenzione e protezione, preposti, professionisti,
lavoratori per essere sempre informati sulla normativa a
tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
In allegato la raccolta delle FAQ della Regione Piemonte
sulla sicurezza, raggruppate in maniera omogenea in base ai
seguenti argomenti:
●
applicazione generale del Decreto Legislativo 81/2008 e
s.m.i.
●
luoghi di lavoro, macchine e DPI
●
sicurezza nei cantieri
●
segnaletica di sicurezza, movimentazione manuale dei
carichi, videoterminali
●
agenti fisici, sostanze pericolose, agenti biologici,
protezione da atmosfere esplosive (13.02.2014 - link a www.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO: Sicurezza
sui cantieri, ecco una utile guida con definizioni,
procedure e liste di controllo.
La valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei
lavoratori è finalizzata ad individuare le necessarie misure
di prevenzione e protezione e a predisporre il programma
delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei
livelli di sicurezza.
Gli obblighi in materia di sicurezza in capo ad un’impresa
edile sono vari, come ad esempio l’elaborazione del
Documento di valutazione dei rischi (DVR) e la redazione del
Piano Operativo di Sicurezza (POS) in osservanza
dell’eventuale Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC)
predisposto dal Coordinatore per la sicurezza.
In questi documenti devono essere individuate tutte le
misure di sicurezza, preventive e protettive, da applicare
nei luoghi di lavoro.
In questo articolo proponiamo una guida per la sicurezza in
edilizia elaborate dal CPT di Taranto che ha lo scopo di
fornire agli operatori del settore edile uno strumento utile
per il controllo dell’applicazione delle misure di
sicurezza, della congruenza dei documenti e
dell’organizzazione aziendale in materia di prevenzione e
protezione dai rischi.
In dettaglio, il documento analizza i seguenti argomenti:
●
figure della sicurezza
●
documentazione attestante l’attuazione di adempimenti a
carico del datore di lavoro
●
adempimenti e documenti a cura del committente
●
dispositivo di protezione individuale
●
segnaletica di sicurezza
●
dotazione della tessera di riconoscimento ai lavoratori
●
comunicazione telematica d’infortunio all’INAIL
(06.02.2014 - link a www.acca.it). |
PATRIMONIO: Messa
in sicurezza di edifici scolastici e interventi senza
permesso di costruire. Ecco le deroghe ammesse.
Il D.M. 906/2013 ha predisposto lo stanziamento di 150
milioni per il finanziamento di lavori di riqualificazione e
messa in sicurezza delle scuole, con l’obbligo da parte
degli enti locali di affidamento mediante una procedura più
snella ed immediata entro il 28.02.2014, pena la revoca
delle risorse disponibili.
Il Decreto del Fare ha dato facoltà a sindaci e presidenti
delle Province interessate di operare in qualità di
commissari governativi per gli interventi riguardanti la
messa in sicurezza delle scuole.
Al fine di rispettare i tempi di affidamento dei lavori, il
Presidente del Consiglio dei Ministri ha firmato il Decreto
attuativo del 22.01.2014, che definisce le possibili deroghe
a norme e leggi di seguito riportate:
►
Codice Appalti (D.Lgs. 163/2006):
►
art. 11 (Fasi delle procedure di affidamento)
►
art. 12 (Controlli sugli atti delle procedure di
affidamento)
►
art. 48 (Controlli sul possesso dei requisiti)
►
art. 70 (Termini di ricezione delle domande di
partecipazione e di ricezione delle offerte)
►
art. 71 (Termini di invio ai richiedenti dei capitolati
d'oneri, documenti e informazioni complementari nelle
procedure aperte)
►
art. 122 (Disciplina specifica per i contratti, di lavori
pubblici sotto soglia)
►
art. 123 (Procedura ristretta semplificata per gli appalti
di lavori)
►
art. 125 (Lavori, servizi e forniture in economia)
►
Decreto 207/2010, tutte le disposizioni strettamente
connesse agli articoli derogabili del Codice Appalti
►
Legge 241/1990: art. 10-bis (Comunicazione dei motivi
ostativi all'accoglimento dell'istanza)
►
D.P.R. 380/2001 (Testo Unico in Edilizia): art. 10
(Interventi subordinati a permesso di costruire)
(06.02.2014 - link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE
AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate,
gennaio 2014). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Art. 2, comma 4, d.l. n. 101 del 2013,
convertito in l. n. 125 del 2013 - applicazione del regime
pensionistico previgente ai dipendenti che hanno maturato un
qualsiasi diritto alla pensione entro il 31.12.2011
(nota
31.01.2014 n. 6295 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Pierobon,
SISTRI: SUL SUO AGGIORNAMENTO E SUL SUO “NULLA” (12.02.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Case mobili e permesso di costruire (commento critico a
Cass. penale, Sez. III, n. 3572/2014) (12.02.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Verderosa,
Requisiti di validità del permesso di costruire e rapporto
con lo Sportello Unico dell’Edilizia (11.02.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Greco,
La controversa ammissibilità a sanatoria edilizia degli
immobili abusivi in aree vincolate in territorio siciliano (06.02.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
M. Sanna,
La gestione dei rottami metallici. Il regolamento del
Consiglio (UE) n. 333/2011 (27.01.2014 - link a
www.industrieambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
V. Paone,
Bruciare i rifiuti è reato, ma sulla carta! (16.01.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
S. Deliperi,
I progetti non possono essere “spezzettati” per
eludere le procedure di valutazione di impatto ambientale (16.01.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
F. Mauri,
Il potere ministeriale di annullamento dell'autorizzazione
paesaggistica comunale nella nuova interpretazione data dal
Consiglio di Stato (15.01.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Di Tullio D'Elisiis,
Il delitto di combustione illecita di rifiuti (10.01.2014
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
L'istanza di permesso a sanatoria non sospende l'efficacia
dell'ordinanza di demolizione (commento a TAR Campania, NA,
sentenza 23.12.2013 n. 6024) (09.01.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
E' un diritto ottenere il permesso di costruire per iniziare
la realizzazione delle opere assoggettate a DIA o SCIA
obbligatoria dalle leggi regionali (commento alla sentenza
21.11.2013 n. 1406 del TAR Liguria) (07.01.2014 - link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
V. Paone,
Quando si consuma il reato di deposito incontrollato? (nota
a Cass. pen. n. 16183/2013) (Ambiente & Sviluppo n.
1/2014 - link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. L. Vergine,
Tanto tuonò ....che piovve! A proposito dell’art. 3, D.L.
136/2013 (Ambiente & Sicurezza n. 1/2014 - link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L. Castagnola,
SISTRI, sanzioni e “doppio binario” (20.12.2013 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Acque pubbliche e demanio necessario (commento critico a
sentenza 11.11.2013 n. 2289 del TAR Puglia-Lecce) (17.12.2013
- link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
F. Albanese,
Aree Naturale Protette, nulla osta e silenzio-assenso:
l’altalena del Consiglio di Stato (16.12.2013 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Strade private di uso pubblico e diritti soggettivi
(commento critico a Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza
25.11.2013 n. 5596) (12.12.2013 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Verderosa,
Autorizzazione Paesaggistica in sanatoria: limiti e
possibilità residuali secondo le nozioni di superfici utili
e volumi (10.12.2013 - link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Amendola,
Abbandono di rifiuti e responsabilità penale di “titolari di
imprese o responsabili di enti” nella giurisprudenza della
cassazione (06.12.2013 - link a
www.industrieambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Aiello,
Bruciare Rifiuti diventa reato con il Decreto “Terra dei
Fuochi” (04.12.2013 - tratto da e link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
Sui limiti delle deroghe al vincolo cimiteriale (04.12.2013
- link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
D. Roettgen,
Fresato d’asfalto: sottoprodotto o rifiuto? (nota CdS n.
4151/2013) (Ambiente & Sviluppo n. 12/2013 - link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
V. Paone,
Il recupero delle traversine ferroviarie e la sentenza Corte
Ue 07.03.2013, C-358/11 (Ambiente & Sviluppo n.
11/2013 - link a
www.lexambiente.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 14.02.2014,
"Circolare in materia di dimensionamento di medie e
grandi strutture di vendita e di commercio al dettaglio su
area pubblica" (circolare
regionale 10.02.2014 n. 3). |
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 14.02.2014, "Incentivi
per la riqualificazione degli ostelli della gioventù di
proprietà di enti pubblici attraverso l’adeguamento al
regolamento regionale n. 2/2011 recante “Definizione degli
standard obbligatori minimi e dei requisiti funzionali delle
case per ferie e degli ostelli per la gioventù, in
attuazione dell’articolo 36, comma 1, della legge regionale
16.07.2007, n. 15 (Testo unico delle leggi regionali in
materia di turismo)”" (deliberazione
G.R. 07.02.2014 n. 1339). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 12.02.2013, "Criteri
per la predisposizione dei piani territoriali di
coordinamento dei parchi regionali e per la definizione
della documentazione minima a corredo delle proposte
finalizzata alla semplificazione" (deliberazione
G.R. 07.02.2014 n. 1343). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 10.02.2014, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in
acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia
alla data del 31 gennaio 2014, in attuazione dell’articolo
2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della
deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 03.02.2014 n. 10). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
10.02.2014 n. 33 "Modifiche alla parte I dell’allegato IV,
alla parte quinta del decreto legislativo 03.04.2006, n.
152, recante: «Norme in materia ambientale»"
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del
Mare,
decreto 15.01.2014). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie avvisi e concorsi n. 6 del
05.02.2014, "Disposizioni per l’iscrizione all’albo dei
commissari ad acta di cui all’art. 31 della legge regionale
11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»,
disciplinato con d.g.r. n. 6/41493 del 19.02.1999
«Attuazione dell’art. 14, secondo comma, della legge
regionale 23.06.1997, n. 23. Definizione di criteri e
modalità per la formazione, la gestione e l’articolazione
dell’albo dei commissari ad acta ai fini dell’esercizio dei
poteri sostitutivi regionali in materia edilizio-urbanistica
e paesistico-ambientale»" (deliberazione
G.R. 24.01.2014 n. 1273). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 6 del 05.02.2014, "Approvazione
delle linee guida per la componente salute pubblica degli
studi di impatto ambientale ai sensi dell’art. 12, comma 2,
del regolamento regionale 21.11.2011, n. 5" (deliberazione
G.R. 24.01.2014 n. 1266). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
08.02.2014 n. 32 "Testo
del decreto-legge 10.12.2013, n. 136, coordinato con la
legge di conversione 06.02.2014, n. 6, recante:
«Disposizioni urgenti dirette a fronteggiare emergenze
ambientali e industriali ed a favorire lo sviluppo delle
aree interessate»". |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: SISTRI: confermata la partenza del 3 marzo per i
produttori di rifiuti pericolosi. Corsi gratuiti per
l’utilizzo del sistema (ANCE Bergamo,
circolare 14.02.2014 n. 46). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Durc in presenza di certificazione dei crediti
ai sensi dell’art. 13-bis, comma 5, d.l. 52/2012 e d.m.
13.03.2013. Verifica capienza per l’emissione del Durc
(INAIL,
nota 13.02.2014 n. 1123 di
prot.).
---------------
Si legga, al riguardo anche:
GUIDA AL
RILASCIO DEL DURC IN PRESENZA DI CERTIFICAZIONE DEL CREDITO
(D.M. 13.03.2013) -
PIATTAFORMA PER LA CERTIFICAZIONE DEI
CREDITI (versione 1.0 del 09.01.2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Aggiornamento della disciplina regionale per
l’efficienza e la certificazione energetica degli edifici e
criteri per il riconoscimento della funzione bioclimatica
delle serre e delle logge, al fine di equipararle a volumi
tecnici (ANCE Bergamo,
circolare 07.02.2014 n. 43). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: D.Lgs 28/2011: Decreto fonti rinnovabili –
Prossima proroga al 01.01.2015 dell’obbligo di incremento
della copertura da fonti rinnovabili (ANCE Bergamo,
circolare 07.02.2014 n. 42). |
EDILIZIA PRIVATA:
MAPEL: 01.02.2014 la trasmissione dei provvedimenti
paesaggistici è on-line.
Con la sottoscrizione del Protocollo d’Intesa tra Regione
Lombardia, Ministero dei beni e delle attività culturali e
del turismo e Soprintendenze per i beni architettonici e
paesaggistici di Brescia e Milano si stabilisce che dal
01.02.2014 l'invio dei provvedimenti paesaggistici
rilasciati dagli Enti locali lombardi, avverrà tramite
l’utilizzo di MAPEL (Monitoraggio Autorizzazioni
Paesaggistiche Enti Locali), un applicativo informatico che
Regione Lombardia ha sviluppato e sperimentato nel 2013 con
i coinvolgimento degli Enti locali.
Con la sottoscrizione di tale Protocollo, ha dichiarato
l’Assessore Claudia Maria Terzi, la “dematerializzazione”
della trasmissione dei provvedimenti paesaggistici
rilasciati dagli Enti locali diviene un fatto concreto.
Si consegue, ha continuato l’Assessore, la eliminazione
della trasmissione, oggi prevalentemente cartacea, di circa
25.000 provvedimenti rilasciati dagli Enti locali, si
risparmia carta e spazi per gli archivi e si potrà disporre
di uno strumento in grado di monitorare, anche tramite
funzioni statistiche e reportistiche, l’attività
paesaggistica sul territorio lombardo
Tutti i provvedimenti paesaggistici (autorizzazioni,
autorizzazioni con prescrizioni e dinieghi in procedura
ordinaria e semplificata, nonché i provvedimenti di
accertamento di compatibilità paesaggistica) dovranno essere
inseriti in MAPEL a seguito di accreditamento da parte degli
Enti locali e seguendo i passi indicati nella guida
dell’applicativo.
Confido, ha concluso l’Assessore, che la sottoscrizione del
Protocollo con la Direzione regionale del MIBACT possa
contribuire ad una sempre maggiore collaborazione sui temi
della salvaguardia e valorizzazione del paesaggio, con
particolare attenzione alle politiche ed azioni per la
pianificazione paesaggistica (05.02.2014 - link a
www.regione.lombardia.it). |
QUESITI & PARERI |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Mobilità per compensazione.
Secondo la Corte dei conti, la mobilità,
anche intercompartimentale, è ammessa in via di principio,
ai sensi dell'art. 1, comma 47, della l. 311/2004, 'tra
amministrazioni sottoposte a discipline limitative anche
differenziate, in quanto modalità di trasferimento di
personale che non dovrebbe generare alcuna variazione nella
spesa sia a livello del singolo ente che del complessivo
sistema della finanza pubblica locale'.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad una richiesta di
trasferimento per mobilità, con la procedura della
compensazione di cui all'art. 7 del D.P.C.M. 05.08.1988, n.
325. Nello specifico, un dipendente dell'Ente transiterebbe
presso un'Azienda Ospedaliera, mentre un dipendente di
quest'ultima si trasferirebbe presso l'Amministrazione
istante.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione e relazioni
sindacali comparto, si espone quanto segue.
Preliminarmente appare corretto esaminare il contesto
normativo in cui è inserito il richiamato art. 7 del
D.P.C.M. n. 325/1988.
La disposizione citata stabilisce che è consentita in ogni
momento, nell'ambito delle dotazioni organiche di cui
all'art. 3, la mobilità dei singoli dipendenti presso la
stessa od altre amministrazioni, anche di diverso comparto,
nei casi di domanda congiunta di compensazione con altri
dipendenti di corrispondente profilo professionale, previo
nulla osta dell'amministrazione di provenienza e di quella
di destinazione.
Si osserva che l'art. 3 del medesimo decreto, cui rinvia il
richiamato art. 7, dispone in merito agli adempimenti
preliminari da effettuare per l'attuazione della procedura
speciale di mobilità, approvata all'epoca nell'ambito delle
pubbliche amministrazioni.
Detta norma prevede, infatti, che entro tre mesi dalla data
di entrata in vigore del medesimo decreto, le pubbliche
amministrazioni definiscano, nel rispetto delle norme
vigenti, con provvedimento formale previsto dai rispettivi
ordinamenti, le dotazioni organiche provvisorie anche
territoriali d'ufficio.
Si ritiene che tale normativa debba intendersi superata,
allo stato attuale, essendo riferita a procedura
'sperimentale' di mobilità generale all'interno dell'ambito
delle pubbliche amministrazioni, coordinata dal Dipartimento
della funzione pubblica e attuata in un'ottica di
riorganizzazione dei vari enti interessati.
Come evidenziato dalla Corte dei conti [1],
un riferimento normativo più attuale è da rinvenirsi
all'art. 6, comma 1, ultimo periodo, del d.lgs. 165/2001,
che prevede che le amministrazioni pubbliche curino
l'ottimale distribuzione delle risorse umane attraverso la
coordinata attuazione dei processi di mobilità e di
reclutamento del personale. L'istituto della mobilità tra
enti assume pertanto un ruolo primario, al fine di
consentire una ottimale distribuzione del personale, una
riduzione della spesa corrente, nonché a garantire la
sostenibilità dei livelli occupazionali del pubblico
impiego.
Inoltre la magistratura contabile ha evidenziato che,
nell'ambito delle previsioni dell'articolo 30 del d.lgs.
165/2001, può farsi rientrare anche la mobilità per
interscambio di due dipendenti (trasferimento bilaterale
comunemente denominato mobilità bilaterale o reciproca)
[2]:
quella cioè attuata per passaggio diretto tra diverse
amministrazioni nella quale gli enti si scambiano i
dipendenti (su iniziativa o con il consenso degli stessi)
realizzando una scelta organizzativa a somma zero, che non
lascia margini alle aspettative di altri soggetti
[3].
La magistratura contabile, nell'esprimersi in ordine ad una
procedura di mobilità per interscambio (per compensazione)
tra enti locali dello stesso comparto, ha rilevato che, pur
essendo intervenuta l'abrogazione delle disposizioni
contrattuali che disponevano in ordine alla mobilità in
compensazione [4],
ciò non preclude 'alle amministrazioni locali di poter
attivare comunque una mobilità reciproca o bilaterale con
altre amministrazioni locali', in applicazione del
principio generale contenuto ai richiamati art. 6 e 30 del
d.lgs. 165/2001.
Si è richiamata, in tale contesto, la disposizione, tuttora
vigente, di cui all'art. 1, comma 47, della l. 311/2004, ove
è previsto che: 'in vigenza di disposizioni che
stabiliscono un regime di limitazione delle assunzioni di
personale a tempo indeterminato, sono consentiti
trasferimenti per mobilità, anche intercompartimentale, tra
amministrazioni sottoposte al regime di limitazione, nel
rispetto delle disposizioni sulle dotazioni organiche e, per
gli enti locali, purché abbiano rispettato il patto di
stabilità interno per l'anno precedente'.
Le Sezioni riunite in sede di controllo della Corte dei
conti, dopo aver richiamato la norma in materia di mobilità
volontaria del personale, per gli enti sottoposti a regime
vincolistico delle assunzioni, contenuta nel citato art. 1,
comma 47, della legge n. 311/2004, hanno affermato che tale
disposizione configura, per detti enti 'la mobilità come
un'ulteriore e prodromica possibilità di reclutamento in
deroga ai limiti normativamente previsti'
[5].
La mobilità si configura dunque -secondo l'indirizzo
interpretativo delle Sezioni riunite- come strumento per una
più razionale distribuzione del personale tra le diverse
amministrazioni, preliminare alla decisione di bandire
procedure concorsuali in ossequio al principio che, prima di
procedere all'immissione, nei limiti consentiti
dall'ordinamento, di nuovo personale, appare opportuno
sperimentare iniziative volte ad una migliore e più
razionale collocazione dei dipendenti già in servizio presso
amministrazioni diverse.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la
Lombardia [6],
alla luce dell'esame coordinato della legislazione vigente e
delle pronunce di orientamento generale rese dalle Sezioni
riunite della Corte dei conti [7],
ha affermato che la mobilità, anche intercompartimentale, è
ammessa in via di principio, ai sensi dell'art. 1, comma 47,
della l. 311/2004, 'tra amministrazioni sottoposte a
discipline limitative anche differenziate, in quanto
modalità di trasferimento di personale che non dovrebbe
generare alcuna variazione nella spesa sia a livello del
singolo ente che del complessivo sistema della finanza
pubblica locale'.
La citata sezione Lombardia ha precisato che, perché possano
essere ritenute neutrali [8]
(e, quindi, non assimilabili ad assunzioni/dimissioni), le
operazioni di mobilità in uscita e in entrata, devono
intervenire tra enti entrambi sottoposti a vincoli di
assunzioni e di spesa ed in regola con le prescrizioni del
patto di stabilità interno e rispettare gli obiettivi
legislativi finalizzati alla riduzione della spesa e le
disposizioni sulle dotazioni organiche. Inoltre, 'qualora
si verifichino tutte le condizioni sopra richiamate, i
trasferimenti per mobilità possono derogare ai vincoli
normativamente previsti (quale, ad esempio, quello disposto
per gli enti 'virtuosi' nel limite del 20 % della spesa
corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente)'.
---------------
[1] Cfr. sez. reg. di controllo per il Veneto,
deliberazione n. 65/2013/PAR.
[2] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per il
Veneto, deliberazione n. 162/2013/PAR.
[3] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per il
Veneto, deliberazione n. 227/2010. Peraltro, la citata Corte
ritiene che gli adempimenti di cui al comma 1, dell'art. 30,
del d.lgs. 165/2001, vadano espletati qualora si voglia
procedere senza ricorrere alla c.d. mobilità reciproca.
Dello stesso tenore, nell'ambito della disciplina regionale
della mobilità reciproca tra amministrazioni del comparto
unico, appare l'art. 13, comma 19-bis, della l.r. 24/2009,
che dispensa le amministrazioni interessate
dall'approvazione di un avviso di mobilità ad evidenza
pubblica, nel caso in cui l'applicazione della procedura di
mobilità individuale avvenga, a richiesta dei lavoratori e
con contestuale trasferimento reciproco, tra due enti
facenti parte del comparto unico regionale, cedente e
accettante, previo consenso degli enti medesimi.
[4] Per gli enti locali, tale normativa era rappresentata
dall'art. 6, comma 20, del d.p.r. 268/1987, che consentiva
il trasferimento del personale tra enti diversi, a domanda
del dipendente motivata e documentata e previa intesa delle
due amministrazioni, anche in caso di contestuale richiesta
da parte di due dipendenti di corrispondente livello
professionale.
[5] Cfr. n. 59/CONTR/2010 del 06.12.2010.
[6] Cfr. n. 79/2011/PAR.
[7] Vedasi anche n. 53/2010/CONTR/PAR.
[8] In questo senso è dato argomentarsi anche dalle
affermazioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri
(cfr. parere n. 4/2010), secondo cui la mobilità non è
neutrale e va considerata come un'assunzione quando
l'amministrazione cedente non è sottoposta a vincoli
assunzionali ed invece lo è l'amministrazione ricevente.
Infatti, osserva la Presidenza, una tale situazione
produrrebbe la conseguenza per cui la p.a. non sottoposta ad
alcun regime limitativo delle assunzioni verrebbe a fungere
da serbatoio cui attingere nuovo personale da parte delle
p.a. soggette a limitazioni, con alterazione del livello
occupazionale e quindi della spesa pubblica (05.02.2014
-
link a
www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Congedi straordinari retribuiti
per assistenza handicap.
Con sentenza n. 203/2013 la Corte
costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 42,
comma 5, del d.lgs. 151/2001, nella parte in cui non include
nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi
previsto, e alle condizioni stabilite, il parente o l'affine
entro il terzo grado convivente, in caso di mancanza,
decesso o patologie invalidanti di parenti o affini più
prossimi.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità
che un affine convivente (es. cognata) possa fruire del
congedo retribuito per assistenza a disabile con handicap
grave, considerato che il fratello dell'assistito non è
mancante/deceduto/invalido, ma ha già utilizzato il periodo
massimo consentito dal legislatore per assistere altro
portatore di handicap.
Preliminarmente si osserva che il congedo in argomento è
disciplinato dall'art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001,
modificato da ultimo dal d.lgs. 119/2011
[1], che ha
recepito le intervenute pronunce della Corte costituzionale
in materia [2],
provvedendo ad adeguare il testo normativo de quo.
Alla luce dell'evoluzione normativa, i soggetti legittimati
alla fruizione del congedo di cui trattasi sono individuati
nel seguente ordine di priorità:
1) coniuge convivente della persona in situazione di
handicap grave;
2) padre o madre, anche adottivi o affidatari, della persona
in situazione di handicap grave, in caso di mancanza,
decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge
convivente;
3) uno dei figli conviventi della persona in situazione di
handicap grave, nel caso in cui il coniuge convivente ed
entrambi i genitori del disabile siano mancanti, deceduti o
affetti da patologie invalidanti. La possibilità di
concedere il beneficio ai figli conviventi si verifica nel
caso in cui tutti i soggetti menzionati (coniuge convivente
ed entrambi i genitori) si trovino in una delle descritte
situazioni (mancanza, decesso, patologie invalidanti);
4) uno dei fratelli o sorelle conviventi nel caso in cui il
coniuge convivente, entrambi i genitori ed i figli
conviventi della persona in situazione di handicap grave
siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti.
Anche in tale ipotesi, la possibilità di concedere il
beneficio ai fratelli conviventi si verifica solo nel caso
in cui tutti i soggetti menzionati (coniuge convivente,
entrambi i genitori e tutti i figli conviventi) si trovino
in una delle descritte situazioni (mancanza, decesso,
patologie invalidanti).
Recentemente è intervenuta sulla materia un'ulteriore
pronuncia della Corte costituzionale [3],
cui si è rivolto il TAR della Calabria, sezione staccata di
Reggio Calabria, che ha sollevato questione di legittimità
costituzionale in relazione al disposto dell'art. 42, comma
5, del d.lgs. 151/2001, 'nella parte in cui, in assenza
di altri soggetti idonei, non consente ad altro parente o
affine convivente di persona con handicap in situazione di
gravità, debitamente accertata, di poter fruire del congedo
straordinario', ovvero, solo in via subordinata, 'nella
parte in cui non include nel novero dei soggetti legittimati
a fruire del congedo ivi previsto l'affine di terzo grado
convivente, in assenza di altri soggetti idonei a prendersi
cura della persona' [4].
Esaminando la questione posta, la Corte costituzionale ha
evidenziato che il congedo straordinario in argomento,
benché fosse originariamente concepito come strumento di
tutela rafforzata della maternità in caso di figli portatori
di handicap grave e sia tuttora inserito in un testo
normativo dedicato alla tutela e al sostegno della maternità
e della paternità, ha assunto una portata più ampia. La
progressiva estensione del complesso dei soggetti aventi
titolo a richiedere il congedo, operata soprattutto dalla
Consulta medesima, ne ha dilatato l'ambito di applicazione
oltre i rapporti genitoriali, per ricomprendere anche le
relazioni tra figli e genitori disabili, e ancora, in altra
direzione, i rapporti tra coniugi o tra fratelli.
La Corte costituzionale ha evidenziato che la dichiarazione
di illegittimità costituzionale è volta a consentire che, in
caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie
invalidanti degli altri soggetti menzionati nella
disposizione censurata, e rispettando il rigoroso ordine di
priorità da essa stabilito, un parente o affine entro il
terzo grado, convivente con il disabile, possa sopperire
alle esigenze di cura dell'assistito, sospendendo l'attività
lavorativa per un tempo determinato. Peraltro, il
legislatore ha già riconosciuto il ruolo dei parenti e degli
affini entro il terzo grado proprio nell'assistenza ai
disabili in condizioni di gravità, attribuendo loro il
diritto a tre giorni di permessi retribuiti su base mensile,
ai sensi dell'art. 33, comma 3, della l. 104/1992.
E' da sottolineare come la Corte costituzionale, nel
dichiarare l'illegittimità dell'art. 42, comma 5, del d.lgs.
151/2001, nella parte in cui non include nel novero dei
soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto, e
alle condizioni ivi stabilite, il parente o l'affine entro
il terzo grado convivente, abbia comunque ribadito il
presupposto essenziale, che ciò possa avvenire
esclusivamente in caso di mancanza, decesso o patologie
invalidanti di parenti o affini più prossimi.
Pertanto, alla luce della riportata sentenza, il congedo di
cui trattasi può essere riconosciuto, in subordine, anche ai
parenti o affini entro il terzo grado, conviventi della
persona disabile in situazione di gravità, solo nel caso in
cui il coniuge convivente, entrambi i genitori, i figli
conviventi e i fratelli o sorelle conviventi siano mancanti,
deceduti o affetti da patologie invalidanti.
Si precisa infine che, per quanto concerne i concetti di 'mancanza'
e 'patologie invalidanti', il Dipartimento della
funzione pubblica [5]
ha fornito a suo tempo indicazioni interpretative. A tal
proposito si osserva che, nella locuzione 'mancanti',
non è considerata la situazione (ricorrente nel caso di
specie) in cui il soggetto (in ipotesi) legittimato a fruire
del congedo in argomento abbia esaurito il limite massimo
individuale dei due anni.
----------------
[1] Cfr. art. 4.
[2] Come, infatti, rappresentato dal Dipartimento della
funzione pubblica (cfr. circolare n. 1/2012), dopo l'entrata
in vigore della l. 388/2000, con cui è stato introdotto
l'istituto del congedo per l'assistenza alle persone in
situazione di handicap grave, la Corte costituzionale in più
occasioni ha avuto modo di pronunciarsi sulla disposizione
in argomento, estendendo la possibilità di fruire di detto
congedo anche in favore dei figli conviventi di persone con
handicap grave in caso di mancanza di altri soggetti idonei
(cfr. sentenza n. 19/2009).
[3] Cfr. sentenza n. 203 del 2013.
[4] La Consulta ha dichiarato inammissibile la prima
questione prospettata, mirante ad una declaratoria di
illegittimità della disposizione impugnata 'nella parte in
cui, in assenza di altri soggetti idonei, non consente ad
altro parente o affine convivente di persona con handicap in
situazione di gravità, debitamente accertata, di poter
fruire del congedo straordinario'. Tale questione non è
stata considerata ammissibile, in ragione del fatto che
esigerebbe dalla Corte una pronuncia volta ad introdurre
nella disposizione impugnata una previsione di chiusura, di
contenuto ampio e indeterminato, in quanto mirante ad
estendere la fruibilità del congedo straordinario ad una
platea indefinita di soggetti. Pertanto, tale questione,
oltre ad eccedere dai limiti della rilevanza nel caso di
specie -secondo la Corte costituzionale- avrebbe un petitum
indeterminato e chiederebbe alla Corte medesima un
intervento additivo, in assenza di una soluzione
costituzionalmente necessitata.
[5] Cfr. circolare n. 13/2010 (05.02.2014 -
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PUBBLICO IMPIEGO:
Personale degli enti locali. Permessi assistenza.
L'affinità, ai fini della fruizione dei
permessi ex art. 33, comma 3, della l. 104/1992, si
determina come previsto dall'art. 78 del codice civile, cioè
come vincolo esistente tra un coniuge e i parenti dell'altro
coniuge. Pertanto, solo il sussistere di un rapporto di
parentela può comportare, conseguentemente, la sussistenza
del vincolo di affinità.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di
concedere i permessi di cui all'art. 33, comma 3, della l.
104/1992 ad un dipendente, per assistere la seconda moglie
del suocero, padre del coniuge del dipendente medesimo. Tale
persona, sposata in seconde nozze dal suocero, non è quindi
la madre del coniuge del dipendente (deceduta).
La citata norma prevede che, a condizione che la persona
handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore
dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con
handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine
entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora
i genitori o il coniuge della persona con handicap in
situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni
di età oppure siano anche essi affetti da patologie
invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire
di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da
contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa.
Il legislatore ha pertanto individuato il presupposto per la
fruizione dei permessi in argomento, la sussistenza cioè di
un rapporto di coniugio, parentela o affinità tra il
beneficiario e la persona in condizione di handicap grave.
Premesso un tanto, la definizione della parentela e
dell'affinità si rinviene nelle disposizioni del codice
civile, in particolare, negli artt. 74-78.
L'art. 74 stabilisce che la parentela è il vincolo tra le
persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso
in cui la filiazione sia avvenuta all'interno del
matrimonio, sia nel caso in cui sia avvenuta al di fuori di
esso, sia nel caso in cui il figlio risulti adottivo.
L'art. 75 precisa che sono parenti in linea retta le persone
di cui l'una discende dall'altra; in linea collaterale
quelle che, pur avendo uno stipite comune, non discendono
l'una dall'altra.
L'art. 76 definisce inoltre le modalità per computare i
gradi di parentela, precisando che, nella linea retta, si
computano altrettanti gradi quante sono le generazioni,
escluso lo stipite.
Nella linea collaterale i gradi si computano dalle
generazioni, salendo da uno dei parenti fino allo stipite
comune e da questo discendendo all'altro parente, sempre
restando escluso lo stipite [1].
L'art. 78 definisce l'affinità quale vincolo tra un coniuge
e i parenti dell'altro coniuge, precisando che, nella linea
e nel grado in cui taluno è parente d'uno dei due coniugi,
egli è affine dell'altro coniuge [2].
Per quanto concerne quindi l'affinità, si osserva che la
medesima si concretizza, in ogni caso, in relazione ad un
sussistente rapporto di parentela. Ad esempio, l'affinità di
primo grado tra suocero e genero sussiste in quanto il
coniuge è parente di primo grado con il proprio padre.
Al contrario, non può esistere vincolo di affinità in
carenza del richiamato vincolo di parentela, come
prospettato nella fattispecie oggetto del quesito, in cui la
persona da assistere risulta essere la seconda moglie del
suocero, persona che non è pertanto legata da un vincolo di
parentela con il coniuge del dipendente (non ne è, infatti,
la madre).
---------------
[1] A titolo esemplificativo sono: parenti di primo
grado, figli e genitori (linea retta); parenti di secondo
grado, nonni e nipoti (figli dei figli) in linea retta e
fratelli e sorelle, in linea collaterale; parenti di terzo
grado, bisnonni e bisnipoti (figli dei nipoti da parte dei
figli), in linea retta, zii (fratelli e sorelle dei
genitori) e nipoti (figli di fratelli e sorelle) in linea
collaterale; parenti di quarto grado, cugini, pronipoti
(figli di nipoti da parte di fratelli e sorelle) e prozii
(fratelli e sorelle dei nonni), in linea collaterale.
[2] A titolo esemplificativo, sono affini di primo grado
suoceri, generi e nuore; affini di secondo grado i cognati (03.02.2014 -
link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito alla possibilità di sanare
urbanisticamente un manufatto utilizzando la volumetria di
un altro manufatto non più esistente - Comune di Tuscania
(Regione Lazio,
parere 27.01.2014 n.
155045 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parere in merito al ricalcolo del contributo di
costruzione nel caso di realizzazione di opere autorizzate
con precedente permesso di costruire e non eseguite. Art.
15, comma 3, DPR 380/2001 - Comune di Oriolo Romano
(Regione Lazio,
parere 21.01.2014 n.
33492 di prot.). |
AUTORITA' VIGILANZA
CONTRATTI PUBBLICI |
LAVORI PUBBLICI:
Certificati Esecuzione Lavori. Disponibile il formulario per
la presentazione delle istanze di parere per l’emissione dei
CEL.
Per poter raccogliere gli elementi indispensabili per la
predisposizione dei numerosi quesiti che giungono
all’Autorità in merito alla emissione dei Certificati
Esecuzione Lavori (CEL), l’Avcp ha predisposto un formulario
che i richiedenti dei pareri dovranno compilare. Il modello
è pubblicato nella sezione Servizi-Modulistica (12.02.2014
- link a www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Bandi-tipo per i lavori pubblici. Riaperta la consultazione
on-line. Invio delle osservazioni fino al 14.03.2014, ore 18.
Con avviso del 30.09.2013, l’Autorità ha deliberato di
sospendere la consultazione avente ad oggetto i bandi-tipo
per i lavori pubblici, in attesa di conoscere il quadro
normativo conseguente al parere n. 3014, reso dal Consiglio
di Stato in data 26.06.2013 in sede di ricorso straordinario
al Presidente della Repubblica, con il quale sono state
dichiarate illegittime alcune rilevanti norme in materia di
qualificazione degli esecutori di lavori pubblici.
In considerazione del regime transitorio disposto dall’art.
3, comma 9, del d.l. 30.12.2013, n. 151 (cd. “milleproroghe”)
a norma del quale, nelle more di adozione delle disposizioni
regolamentari sostitutive delle norme annullate, continuano
a trovare applicazione le regole previgenti, l’Autorità ha
deliberato di riaprire la consultazione on-line sospesa nel
mese di settembre 2013. La riapertura della consultazione è
finalizzata a dare l’opportunità a tutti gli operatori del
settore di formulare osservazioni sulla documentazione, con
particolare riguardo ai soggetti che non hanno ritenuto
utile inviare un contributo a seguito della sospensione
delle attività.
Il termine per l’invio delle osservazioni è fissato al
14.03.2014.
Si evidenzia che, al fine di garantire una celere
definizione dei bandi tipo, tenuto conto che gli stessi
saranno comunque aggiornati a seguito dell’adozione delle
citate disposizioni regolamentari, la documentazione posta
in consultazione non è stata modificata rispetto alla
precedente pubblicazione (07.02.2014 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Utilizzo dei lavori subappaltati ai fini della
qualificazione – annullamento dell’art. 85, comma 1, lett.
b), nn. 2 e 3, D.P.R. n. 207/2010.
Qualificazione SOA - Indicazioni interpretative alle Società
Organismo di Attestazione per garantire il loro corretto
esercizio dell’attività di qualificazione.
Con il Comunicato del Presidente n. 1, del 29.01.2014 ‘Utilizzo
dei lavori subappaltati ai fini della qualificazione –
annullamento dell’art. 85, comma 1, lett. b), nn. 2 e 3,
D.P.R. n. 207/2010’, l’Avcp fornisce indicazioni
interpretative alle SOA al fine di garantire il corretto
esercizio dell’attività di qualificazione da parte delle
stesse società.
In caso di subappalto eccedente le quote del 30 e del 40 per
cento –fermo restando quanto previsto dall’art. 37, comma
11, del Codice– l’impresa affidataria può utilizzare, ai
fini della qualificazione nella singola categoria
scorporabile, l’intero importo dei lavori dalla stessa
direttamente eseguiti in tale categoria, nonché una quota
dei lavori subappaltati (pari ad un massimo del 30 per cento
o del 40 per cento) avvalendosene in alternativa per la
qualificazione nella categoria prevalente, ovvero ripartita
tra categoria prevalente e categoria scorporabile
(comunicato
del Presidente 29.01.2014 n. 1 -
link a www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Linee guida per l'applicazione dell'art. 48 del d.lgs.
12.04.2006, n. 163.
Requisiti speciali per la partecipazione
alle gare. In una Determinazione nuove indicazioni operative
alle stazioni appaltanti ed agli operatori economici.
In seguito all’evoluzione normativa e giurisprudenziale,
relativa al procedimento di verifica dei requisiti speciali
per la partecipazione alle procedure di affidamento dei
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (art. 48
del D.LGS. 12.04.2006, n. 163), l’Autorità ha riesaminato la
materia -già affrontata con la Determinazione n. 5 del 2009-
con una nuova Determinazione al fine di fornire nuove
indicazioni operative alle stazioni appaltanti ed agli
operatori economici (determinazione
15.01.2014 n. 1 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
AVCPASS: obbligatorietà della PEC personale. Prorogato di 6
mesi il termine del regime transitorio relativo
all'obbligatorietà della PEC personale.
Si comunica che il Consiglio dell'Autorità, viste le
difficoltà segnalate dalle Stazioni Appaltanti, ha disposto
la proroga di 6 mesi del regime transitorio relativo
all'obbligatorietà della PEC personale di cui all'art. 9, co.
4, della Deliberazione n. 111 del 20/12/2012 e successive
modificazioni intervenute a seguito delle decisioni assunte
nelle adunanze dell’8 maggio e del 05.06.2013.
La Stazione Appaltante che nel periodo transitorio ricorra
all’utilizzo di caselle di posta elettronica ordinaria è
comunque tenuta a:
a. garantire che le caselle di posta elettronica ordinaria
utilizzate siano esclusivamente individuali, rilasciate
nell’ambito del dominio istituzionale dell’Amministrazione e
ad accesso esclusivo del soggetto intestatario;
b. fornire al personale operante in qualità di incaricato
del trattamento dei dati le necessarie istruzioni circa il
corretto utilizzo delle credenziali di accesso, fermo
restando quanto disposto dall’art. 8 della Deliberazione di
che trattasi nell’ambito delle misure di sicurezza
obbligatorie previste dal D.Lgs. n. 196/2003 (22.01.2014
- link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Adempimenti nei confronti dell’Avcp - art. 1 L. 190/2012.
Pubblicate le FAQ sugli adempimenti di cui all’art. 1, comma
32, della legge 06.11.2012, n. 190.
In seguito alle numerose richieste di chiarimenti
riguardanti l’applicazione delle disposizioni contenute
nell’art. 1, comma 32, della legge 06.11.2012, n.190
-Disposizioni per la prevenzione e la repressione della
corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione-
è stato pubblicato un
set di FAQ sugli aspetti di carattere generale,
informatico e di corretta modalità di compilazione della
tabella dati predisposta dall’AVCP (16.01.2014 - link
a
www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Proposte di direttive europee in materia di appalti e
concessioni. Audizione presso l’AVCP il 28.01.2014.
In vista del recepimento delle prossime direttive europee
che semplificheranno la normativa in materia di appalti
pubblici (settori ordinari e speciali) e concessioni, l’AVCP
è chiamata a contribuire nelle competenti sedi
istituzionali, mediante proposte o segnalazioni.
Per conoscere le osservazioni dei soggetti interessati
l’Autorità li ha invitati a partecipare all’audizione che si
terrà il 28.01.2014 presso la propria sede (14.01.2014
- link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti (AUSA). Avviato il
nuovo servizio AUSA rivolto alle Stazioni appaltanti.
Il servizio, ad accesso riservato, consente l’iscrizione
all’Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti (AUSA) e
l’aggiornamento, almeno annuale, dei rispettivi dati
identificativi, in attuazione di quanto disposto
dall’articolo 33-ter del Decreto Legge del 18.10.2012 n.
179, convertito con modificazioni, dalla Legge n. 221 del
17.12.2012.
Pubblicato anche il manuale utente che illustra il
funzionamento del sistema (10.01.2014 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Indicazioni interpretative concernenti le modifiche
apportate alla disciplina dell’arbitrato nei contratti
pubblici dalla legge 06.11.2012, n. 190, recante
disposizioni per la prevenzione e la repressione della
corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione
(determinazione
18.12.2013 n. 6 -
link a
www.autoritalavoripubblici.it).
---------------
Arbitrato - In una Determinazione le indicazioni sulle
modifiche apportate alla disciplina dell’arbitrato nei
contratti pubblici.
Pubblicata la Determinazione n. 6, del 18.12.2013 che
contiene le indicazioni interpretative concernenti le
modifiche apportate alla disciplina dell’arbitrato nei
contratti pubblici dalla legge 06.11.2012, n. 190, recante
disposizioni per la prevenzione e la repressione della
corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione. |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Ciò
che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al
compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito
all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto
specifico intimamente connesso alla realizzazione di
un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di
progettualità interna, rispetto ad un mero atto di
pianificazione generale (piano regolatore o variante
generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione
dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al
dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente
spettante.
---------------
Gli incentivi de quibus, secondo la consolidata
giurisprudenza di questa Corte, hanno la finalità di
incoraggiare i dipendenti delle amministrazioni pubbliche ad
eseguire attività di progettazione internamente agli uffici,
allo scopo di diminuire i costi delle attività collegate
alla progettazione delle opere pubbliche. La previsione pone
una deroga al principio generale della onnicomprensività del
trattamento economico dei dipendenti pubblici e, pertanto,
dev’essere interpretata restrittivamente.
Sulla questione
non si ravvisano motivi per discostarsi dall’orientamento in
materia, ormai consolidato, che emerge da pareri resi da
diverse Sezioni regionali di controllo di questa Corte, nel
senso che il riferimento ad un “atto di pianificazione”,
operato dal richiamato art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006, è
da intendersi come limitato ai soli atti che abbiano ad
oggetto la pianificazione collegata alla realizzazione di
opere pubbliche, e non anche ad atti di pianificazione
generale, quali possono essere la redazione del piano
regolatore o di una variante generale.
Gli atti di
pianificazione generale, infatti, costituiscono diretta
espressione dell’attività istituzionale dell’ente e non
giustificano la deroga al principio di onnicomprensività
della retribuzione.
---------------
L’art. 92, comma 6, non può costituire titolo per
l’erogazione di speciali compensi ai dipendenti che svolgono
attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla
redazione di atti di pianificazione affidata a
professionisti esterni. Ciò in quanto “tale disposizione,
infatti, abilita (nella misura autoritativamente fissata
dalla legge) a riconoscere uno speciale compenso, al di là
del trattamento economico ordinariamente spettante, solo in
presenza dei due seguenti elementi di fattispecie:
a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella
diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in
attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri
d’ufficio dei dipendenti, nel contesto dell’attività di
governo del territorio;
b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia
stata esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi
dell’art. 90, comma 6.
La ratio di tale norma eccezionale è quella di rendere
attraente per i professionisti ad alta qualificazione la
resa delle loro prestazioni nel contesto di un rapporto di
lavoro subordinato con la p.a.; infatti, «laddove le
amministrazioni pubbliche non disponessero di personale
interno qualificato, dovrebbero ricorrere al mercato
attraverso il ricorso a professionisti esterni con possibili
aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato».
---------------
Il sindaco del Comune di Olginate, con nota prot. n. 747 del
giorno 20.01.2014, ha posto alla Sezione un quesito in
merito alla possibilità di riconoscere ed erogare al
personale dipendente il compenso previsto dall'art. 92,
comma 6, del Codice dei contratti pubblici nel caso di
formazione del PGT, comprendente zone F destinate alla
realizzazione di opere pubbliche, redatto da professionista
esterno appositamente incaricato.
Più nello specifico il Comune evidenzia come la fattispecie
risulterebbe costituita dai seguenti elementi:
• “affidamento incarico a libero professionista per la
redazione dello strumento urbanistico con richiesta ed
ottenimento di una congrua riduzione del preventivo di spesa
per onorari;
• regolare espletamento dell'incarico e liquidazione del
compenso;
• richiesta da parte del personale dipendente dell'area
tecnica di riconoscimento del 30% della tariffa
professionale a compenso dell'attività svolta quale, ad
esempio:
a) Presentazione all' Amministrazione delle richieste dei
vari soggetti, elaborazione e svolgimento di attività di
supporto necessaria ai fini decisionali;
b) Incontri con vari soggetti per raccogliere le istanze da
sottoporre all'urbanista incaricato;
c) Verifica cartografica e aggiornamento aerofotogrammetrico
necessarie alla formazione del PGT;
d) Presentazione al pubblico e ad Enti delle attività
propedeutiche all'adozione PGT;
e) Incontri con funzionari Provincia per raccordo PGT con
PTCP;
f) Incontri con funzionari Arpa per raccordo PGT con
zonizzazione acustica dei Comuni limitrofi;
g) Controllo e verifica completezza documenti PGT e VAS;
h) Aggiornamento mappatura reti di scarico acque reflue e
supporto alla redazione del PUGSS;
i) attività di supporto nella fase di ricevimento delle
osservazioni e predisposizione delle osservazioni d'ufficio;
l) attività legate all'incarico di autorità competente per
la VAS;
m) partecipazione a consigli comunali, incontri e riunioni
per l'approvazione della VAS, VIC e PGT;
n) Predisposizione copie, inoltro ed adeguamento files ai
vari Enti;
o) verifica cartografica aree fabbricabili con comunicazione
ai proprietari”.
Il Comune rappresenta, altresì, che la “posizione di
questo Ente in ordine al riconoscimento degli incentivi per
le attività di pianificazione comunque denominate è in
linea con quella espressa, a rigor di logica, dalla sezione
controllo Veneto con parere 361/2013/PAR”.
Nello specifico si richiama l’attenzione, al fine di
corroborare la tesi della riconoscibilità del compenso in
analisi al personale dipendente dell’Ente, su uno dei
passaggi motivazionali della recente pronunzia della Sezione
di controllo per il Veneto, secondo cui “nell'ipotesi di
un particolare ulteriore impegno -il quale (pur
riconducibile nell'ambito del rapporto di lavoro) richieda,
continuativamente o per un determinato periodo di tempo,
un'abnegazione di particolare intensità e l'assunzione di
specifiche responsabilità- debba essere compensato mediante
un adeguamento della prefissata retribuzione ai sensi
dell'art. 36, primo comma, Cost., in quanto norma
applicabile ad ogni categoria di lavoratori (Cassazione
Sezione Lavoro sentenza 05.03.1987, n. 2350 nonché n. 28728
del 23.12.2011)”.
Alla luce di questi elementi, il Comune chiede di sapere
“se, in presenza di un incarico esterno per la redazione
di uno strumento di pianificazione, sia in tutto o in parte
precluso il riconoscimento dei compensi al personale
dipendente per lo svolgimento di attività quali quelle
esemplificate sopra.
Ove ciò fosse possibile si chiede se il calcolo del 30% sia
da commisurare sulle somme pagate al professionista e poi da
abbattere della percentuale prevista dal regolamento
comunale oppure è da calcolare sulle prestazioni non svolte
(peraltro di difficile misurazione) dal professionista
esterno”.
...
La richiesta del Comune di Olginate, come sopra ricordato,
concerne la possibilità di riconoscere ed erogare al
personale dipendente dell’Ente il compenso previsto
dall'art. 92, comma 6, del Codice dei contratti pubblici nel
caso di formazione del PGT, comprendente zone F destinate
alla realizzazione di opere pubbliche, redatto da
professionista esterno appositamente incaricato. Giova,
preliminarmente, evidenziare come, nella prospettazione del
Comune, il quesito interpretativo appaia investire il solo
profilo della possibilità di erogazione del suddetto
compenso ai dipendenti dell’Ente nel caso in cui il PGT sia
stato redatto da professionista esterno, dandosi, in vero,
per presupposta la riconoscibilità di tali incentivi al
personale per le attività di pianificazione comunque
denominate.
Sul punto nella richiesta di parere si precisa che “la
posizione di questo Ente in ordine al riconoscimento degli
incentivi per le attività di pianificazione comunque
denominate è in linea con quella espressa, a rigor di
logica, dalla Sezione controllo Veneto con
parere 22.11.2013 n. 361”. In tale pronuncia si è concluso per
l’applicabilità “dell'istituto premiale estesa a ogni
atto di pianificazione, anche di carattere mediato”.
Seppur incidentalmente, considerato l’oggetto specifico
della richiesta di parere, non può mancarsi di evidenziare
come questa Sezione abbia già in più occasioni, anche di
recente, perimetrato l’ambito di applicazione del compenso
previsto dall'art. 92, comma 6, del Codice dei contratti
pubblici (parere
15.10.2013 n. 442;
parere 06.03.2013 n. 72;
parere 23.10.2012 n. 440;
parere 30.05.2012 n. 259;
parere 06.03.2012 n. 57).
In tali pronunce, alle quali si rinvia per un necessario
approfondimento di questi profili, si è avuto modo di
chiarire che “ciò che rileva ai fini della
riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è
tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione,
quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla
realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid
pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di
pianificazione generale (piano regolatore o variante
generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione
dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al
dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente
spettante” (parere
06.03.2013 n. 72 di questa Sezione).
Quest’orientamento interpretativo appare, in vero,
consolidato nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., da
ultimo, Sezione regione di controllo per il Piemonte
deliberazione
parere 16.01.2014 n. 8): la Sezione di controllo
per l’Emilia Romagna, con una recente pronuncia (parere
25.06.2013 n. 243), ha avuto modo, in particolare, di precisare
come “gli incentivi de quibus, secondo la consolidata
giurisprudenza di questa Corte, hanno la finalità di
incoraggiare i dipendenti delle amministrazioni pubbliche ad
eseguire attività di progettazione internamente agli uffici,
allo scopo di diminuire i costi delle attività collegate
alla progettazione delle opere pubbliche. La previsione pone
una deroga al principio generale della onnicomprensività del
trattamento economico dei dipendenti pubblici e, pertanto,
dev’essere interpretata restrittivamente. Sulla questione
non si ravvisano motivi per discostarsi dall’orientamento in
materia, ormai consolidato, che emerge da pareri resi da
diverse Sezioni regionali di controllo di questa Corte, nel
senso che il riferimento ad un “atto di pianificazione”,
operato dal richiamato art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006, è
da intendersi come limitato ai soli atti che abbiano ad
oggetto la pianificazione collegata alla realizzazione di
opere pubbliche, e non anche ad atti di pianificazione
generale, quali possono essere la redazione del piano
regolatore o di una variante generale (ex multis,
Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la
Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213; Sezione regionale di controllo per il
Piemonte,
parere 30.08.2012 n. 290 e Sezione regionale di
controllo Campania,
parere 10.04.2013 n. 141).
Gli atti di
pianificazione generale, infatti, costituiscono diretta
espressione dell’attività istituzionale dell’ente e non
giustificano la deroga al principio di onnicomprensività
della retribuzione”.
Da ultimo su questo profilo si evidenzia come, con
parere 21.01.2014 n. 6, la Sezione
regionale di controllo per la Liguria, tenuto conto del
contrasto interpretativo sorto a seguito della più volte
richiamata pronuncia della Sezione regionale di controllo
per il Veneto (parere
22.11.2013 n. 361), abbia sottoposto alla
valutazione del Presidente della Corte dei conti, ai sensi
dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174,
convertito nella legge 07.12.2012, n. 213, l’opportunità di
rimettere alla Sezione delle Autonomie della Corte la
seguente questione di massima: “Se l’art. 92, comma 6,
del d.lgs. n. 163 del 2006 debba essere interpretato nel
senso che il diritto all’incentivo per la redazione di un
atto di pianificazione sussiste solo nel caso in cui l’atto
di pianificazione è collegato alla realizzazione di opere
pubbliche ovvero nel senso che il suddetto diritto sussiste
anche nel caso di redazione di atti di pianificazione
generale (quali la redazione di un piano urbanistico
generale o attuativo ovvero di una variante) ancorché non
puntualmente connessi ad un’opera pubblica”.
Tanto doverosamente premesso in via preliminare
sull’inquadramento dell’incentivazione ex art. 92, comma 6,
d.lgs. 163/2006, e rinviando alle deliberazioni citate per
una disamina più approfondita delle sottese argomentazioni
interpretative, può ora analizzarsi l’oggetto specifico
della richiesta di parere, ovvero “se, in presenza di un
incarico esterno per la redazione di uno strumento di
pianificazione, sia in tutto o in parte precluso il
riconoscimento dei compensi al personale dipendente per lo
svolgimento di attività quali quelle esemplificate sopra”.
Anche questo aspetto ha costituito oggetto di puntuale esame
da parte di questa Sezione.
Con il
parere 30.05.2012 n. 259 si è avuto modo di
precisare che l’art. 92, comma 6, non può costituire titolo
per l’erogazione di speciali compensi ai dipendenti che
svolgono attività sussidiarie, strumentali o di supporto
alla redazione di atti di pianificazione affidata a
professionisti esterni. Ciò in quanto “tale disposizione,
infatti, abilita (nella misura autoritativamente fissata
dalla legge) a riconoscere uno speciale compenso, al di là
del trattamento economico ordinariamente spettante, solo in
presenza dei due seguenti elementi di fattispecie:
a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella
diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in
attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri
d’ufficio dei dipendenti, nel contesto dell’attività di
governo del territorio
(cfr.
il
parere 27.01.2009 n. 9 di questa Sezione);
b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia
stata esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi
dell’art. 90, comma 6.
La ratio di tale norma eccezionale è quella di rendere
attraente per i professionisti ad alta qualificazione la
resa delle loro prestazioni nel contesto di un rapporto di
lavoro subordinato con la p.a.; infatti, «laddove le
amministrazioni pubbliche non disponessero di personale
interno qualificato, dovrebbero ricorrere al mercato
attraverso il ricorso a professionisti esterni con possibili
aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato»
(SS.RR., in sede nomofilattica di controllo,
deliberazione 04.10.2011 n. 51)”.
Alla luce di questi principi, risulta evidente come, nella
concreta fattispecie prospettata nella richiesta di parere
in esame non appaiano ricorrere entrambi gli elementi della
fattispecie ora richiamati.
Infatti, quanto all’elemento sub a), è evidente che
non si tratta della redazione dell’atto di panificazione, ma
di specifici compiti e funzioni assolti dal personale
dipendente dell'Ente, ovvero di compiti strumentali e
comunque svolti nell’ambito della specifica competenza
istituzionale dell’ente di governo del territorio, quindi
nei doveri d’ufficio. Quanto all’elemento sub b) è
incontroversa, come rappresentato dalla stessa
Amministrazione richiedente, la non ricorrenza del
presupposto implicito sopra evidenziato.
Né, alla luce della ratio della disposizione ora
ricordata, alcun elemento a favore dell’opposta soluzione
interpretativa può derivare dalla circostanza che la
disponibilità del personale dell’Ente avrebbe “tacitamente
consentito e reso possibile lo sconto offerto dal
professionista esterno incaricato”. L’attività che
sarebbe chiamata a svolgere il personale dell’Ente, sopra
dettagliatamente ricordata, appare, infatti, pienamente
riconducibile tra i doveri d’ufficio dei dipendenti, nel
contesto dell’attività di governo del territorio (Corte dei
Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 10.02.2014 n. 62). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: L'amministrazione
non può, in sede di regolamento, adottare disposizioni in
contrasto con quanto previsto dalla legge, sia, in
particolare, dall'art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 165/2006
che, in generale, dai principi posti in tema di pubblico
impiego dal D.lgs. n. 165/2001 e dall'ulteriore normativa di
rango primario.
Nello specifico non è legittima l'erogazione dell'intero
incentivo, suddiviso dal regolamento interno fra fase di
aggiudicazione e fase di esecuzione, nel caso in cui l'opera
non sia stata successivamente appaltata ed eseguita (e, di
conseguenza, l'attività del personale interno, in relazione
a tali ulteriori fasi, non sia stata espletata).
Nel caso in cui l'attività di progettazione sia stata
affidata a professionisti esterni, le rispettive quote del
fondo incentivante sono devolute in economia, costituendo un
risparmio per l'amministrazione. L'eventuale attività
prestata dal personale interno prima della fase di
aggiudicazione (RUP e "collaboratori" specificatamente
individuati ex art. 10 e 92, comma 5, d.lgs. 163/2006), ove
l'incentivazione sia prevista dal regolamento interno (e
quest'ultimo non richieda anche la successiva
aggiudicazione) deve essere limitata alla quota spettante
per la fase di gara (e non anche alle quote previste, sempre
per RUP e collaboratori, per la fase esecutiva non
realizzata). Nessun compenso è dovuto in questo caso (in
quanto non riferibile ad attività espletata) per la
direzione lavori, il coordinamento della sicurezza in fase
di esecuzione ed il collaudo.
Quanto esposto non esclude la valutazione dell'operato
dell'amministrazione sia ai fini dell'affidamento ed
esecuzione della singola opera o lavoro che del complessivo
programma di opere pubbliche attuato nel corso di un più
ampio arco temporale. Appare evidente, infatti, che la
redazione di un progetto o la pubblicazione di un bando di
gara senza la successiva aggiudicazione ed esecuzione
dell'opera costituiscono un sintomo di carente
programmazione amministrativa (mancata effettuazione di
espropri, assenza di titoli abilitativi o autorizzativi
urbanistici, etc.), finanziaria (sottostima del fabbisogno,
distorsione verso iniziative non preventivate, etc.) o
progettuale (emersione di lacune in sede di verifica,
incoerenza dei costi, etc.) da parte dell'Ente.
Nel caso tale carente programmazione sia dovuta a colpa
dell’amministrazione (o meglio di alcuni suoi organi) appare
evidente come non solo il costo per i progetti non
utilizzati ma anche l’incentivo attribuito ai dipendenti
interni può costituire, in presenza degli altri presupposti
previsti dalla legge, voce di danno risarcibile.
---------------
Il Comune di Orzivecchi (BS), con lettera n. 8555/185/2013
chiede quale interpretazione dare al comma 5 dell'art. 92
del D.Lgs. n. 163/2006.
Il quesito viene richiesto sulla base del presupposto che
una certa interpretazione dei commi 5 e 6 del citato art. 92
produrrebbe una grave disparità di trattamento tra i tecnici
dipendenti di una Pubblica Amministrazione: e ciò perché il
comma 5 prevede che l'incentivo ivi previsto opererebbe "solo
quando l'opera progettata sia posta a gara", mentre per
il comma 6 sarebbe "sufficiente per la liquidazione
dell'incentivo tra i dipendenti dell'Amministrazione solo
aver redatto l'atto dì pianificazione, a prescindere che
l'amministrazione l'abbia poi adottato".
...
Come ha fatto il comune, riportiamo qui il testo integrale delle due
norme in questione:
● Art. 92, comma 5: "Una somma non superiore al due per cento
dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un
lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere
direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93,
comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con
le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione
decentrata e assunti in un regolamento adottato
dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e
gli incaricati della redazione del progetto, del piano della
sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché
tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel
limite massimo del due per cento, è stabilita dal
regolamento in rapporto all'entità e alla complessità
dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle
responsabilità professionali connesse alle specifiche
prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è
disposta dal dirigente preposto alla struttura competente,
previo accertamento positivo delle specifiche attività
svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività
di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo,
dipendente non può superare l'importo del rispettivo
trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote
parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte
dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale
esterno all’organico dell'amministrazione medesima, ovvero
prive del predetto accertamento, costituiscono; economie . I
soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c),
possono adottare con proprio provvedimento analoghi
criteri".
● Art. 92, comma 6: "Il trenta per cento della tariffa
professionale relativa alla redazione di un atto di
pianificazione comunque denominato è ripartito, con le
modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al
comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice
che lo abbiano redatto".
In primis va rilevato che le due norme non provocano una
discriminazione in quanto volte a regolare due fattispecie
diverse.
Il comma 5 regolamenta una situazione in cui è implicata,
con il responsabile del procedimento, una attività
riguardante la progettazione, la sicurezza, la direzione
lavori, il collaudo.
Il comma 6, invece, non riguarda un'opera o un lavoro, ma "un atto di pianificazione", che attiene più direttamente al
potere operativo e decisionale dell'ente.
Detto questo, il quesito posto dal Comune di Orzivecchi è
già stato affrontato da questa Sezione, che ha reso un
parere organico ed esaustivo: trattasi del
parere 08.10.2012 n. 425 a cui si rimanda integralmente: del resto, il
Comune mostra di conoscere già tale delibera.
In particolare, si riporta qui la parte finale del parere
appena citato: "Alla luce del dettato normativo e dei
precedenti sopra richiamati, appare necessario ribadire, in
primo luogo, che l'amministrazione non può, in sede di
regolamento, adottare disposizioni in contrasto con quanto
previsto dalla legge, sia, in particolare, dall'art. 92,
comma 5, del d.lgs. n. 165/2006 che, in generale, dai
principi posti in tema di pubblico impiego dal D.lgs. n.
165/2001 e dall'ulteriore normativa di rango primario.
Nello specifico non è legittima l'erogazione dell'intero
incentivo, suddiviso dal regolamento interno fra fase di
aggiudicazione e fase di esecuzione, nel caso in cui l'opera
non sia stata successivamente appaltata ed eseguita (e, di
conseguenza, l'attività del personale interno, in relazione
a tali ulteriori fasi, non sia stata espletata).
Nel caso in cui l'attività di progettazione sia stata
affidata a professionisti esterni, le rispettive quote del
fondo incentivante sono devolute in economia, costituendo un
risparmio per l'amministrazione. L'eventuale attività
prestata dal personale interno prima della fase di
aggiudicazione (RUP e "collaboratori" specificatamente
individuati ex art. 10 e 92, comma 5, d.lgs. 163/2006), ove
l'incentivazione sia prevista dal regolamento interno (e
quest'ultimo non richieda anche la successiva
aggiudicazione) deve essere limitata alla quota spettante
per la fase di gara (e non anche alle quote previste, sempre
per RUP e collaboratori, per la fase esecutiva non
realizzata). Nessun compenso è dovuto in questo caso (in
quanto non riferibile ad attività espletata) per la
direzione lavori, il coordinamento della sicurezza in fase
di esecuzione ed il collaudo.
Quanto esposto non esclude la valutazione dell'operato
dell'amministrazione sia ai fini dell'affidamento ed
esecuzione della singola opera o lavoro che del complessivo
programma di opere pubbliche attuato nel corso di un più
ampio arco temporale. Appare evidente, infatti, che la
redazione di un progetto o la pubblicazione di un bando di
gara senza la successiva aggiudicazione ed esecuzione
dell'opera costituiscono un sintomo di carente
programmazione amministrativa (mancata effettuazione di
espropri, assenza di titoli abilitativi o autorizzativi
urbanistici, etc.), finanziaria (sottostima del fabbisogno,
distorsione verso iniziative non preventivate, etc.) o
progettuale (emersione di lacune in sede di verifica,
incoerenza dei costi, etc.) da parte dell'Ente.
Nel caso tale carente programmazione sia dovuta a colpa
dell’amministrazione (o meglio di alcuni suoi organi) appare
evidente come non solo il costo per i progetti non
utilizzati ma anche l’incentivo attribuito ai dipendenti
interni può costituire, in presenza degli altri presupposti
previsti dalla legge, voce di danno risarcibile.” (Corte dei
Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 05.02.2014 n. 45). |
APPALTI FORNITURE:
L’art. 1, comma 141, della l. 24.12.2012, n. 228, nel
disporre limiti puntuali alle spese per l’acquisto di mobili
e arredi, obbliga gli Enti locali al rispetto del tetto
complessivo di spesa risultante dall’applicazione
dell’insieme dei coefficienti di riduzione della spesa per
consumi intermedi previsti da norme in materia di
coordinamento della finanza pubblica, consentendo che lo
stanziamento in bilancio tra le diverse tipologie di spese
soggette a limitazione avvenga in base alle necessità
derivanti dalle attività istituzionali dell’Ente.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di
Cuneo, richiamate le disposizioni contenute nell’art. 5,
comma 2, del D.L. n. 95/2012, convertito nella L. n.
135/2012 (limite di spesa per autovetture), nell’art. 6,
commi 7, 8, 12, 13, del D.L. n. 78/2010, convertito nella L.
n. 122/2010 (limite di spesa per studi e consulenze; per
relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e
rappresentanza; per missioni; per attività di formazione),
nell’art. 1, comma 141, della L. n. 228/2012 (limite di
spesa per mobili ed arredi), e richiamata la sentenza della
Corte costituzionale n. 139/2012 in base alla quale le
disposizioni di cui all’art. 6 del D.L. n. 78/2010,
convertito nella L. n. 122/2010 “prevedono puntuali misure
di riduzione parziale o totale di singole voci di spesa, ma
ciò non esclude che da esse possa desumersi un limite
complessivo, nell’ambito del quale le Regioni (e gli Enti
locali) restano libere di allocare le risorse tra i diversi
ambiti e obiettivi di spesa”, ha formulato i seguenti
quesiti:
“1) E’ possibile esercitare l’autonomia finanziaria del
Comune distribuendo i “tagli”, nell’ambito delle tipologie
di spesa individuate dai citati provvedimenti legislativi,
in modo diverso rispetto a quanto puntualmente disposto dal
legislatore, a condizione che venga rispettato il limite
complessivo?
2) E’ possibile intendere che dal concetto di “mobili ed
arredi”, oggetto di limitazione di spesa all’art. 1, comma
141, della L. n. 228/2012, possano escludersi quelle
suppellettili (banchi e cattedre), qualificabili come
attrezzature indispensabili per la fruizione delle strutture
scolastiche?”
Con delibera n. 393/2013 questa Sezione, dopo aver ritenuto
ammissibile la richiesta di parere, ha espresso il proprio
avviso in ordine al quesito n. 2).
Con riferimento al quesito n. 1) questa Sezione ha sospeso
la pronuncia, avendo già la Sezione regionale di controllo
per la Lombardia, con delibera n. 296/2013, a seguito di
quesito posto dalla Provincia di Sondrio su analoga
fattispecie, sospeso la pronuncia e rimesso gli atti al
Presidente della Corte dei conti per le valutazioni di
competenza ai sensi dell’art. 6, comma 4, del D.L. n.
174/2012, convertito nella L. n. 213/2012.
Con deliberazione n. 26/2013 la Sezione delle Autonomie si è
pronunciata sulla questione posta dalla Sezione regionale di
controllo per la Lombardia.
...
La questione posta dalla Sezione regionale di controllo per
la Lombardia all’esame della Sezione Autonomie ha riguardato
la corretta interpretazione dell’art. 1, comma 141, della
Legge 24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità per il
2013), il quale, nel prevedere la riduzione puntuale della
spesa per mobili ed arredi, così dispone: “Ferme restando le
misure di contenimento della spesa già previste dalle
vigenti disposizioni, negli anni 2013 e 2014 le
amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico
consolidato della pubblica amministrazione, come individuate
dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi
dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n.
196, e successive modificazioni, nonché le autorità
indipendenti e la Commissione nazionale per le società e la
borsa (CONSOB) non possono effettuare spese di ammontare
superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media
negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi,
salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle
spese connesse alla conduzione degli immobili. In tal caso
il collegio dei revisori dei conti o l'ufficio centrale di
bilancio verifica preventivamente i risparmi realizzabili,
che devono essere superiori alla minore spesa derivante
dall'attuazione del presente comma. La violazione della
presente disposizione è valutabile ai fini della
responsabilità amministrativa e disciplinare dei dirigenti.”
La Sezione regionale di controllo per la Lombardia ha
altresì richiamato il disposto dell’art. 6, commi 7, 8, 12,
13, 14, del D.L. n. 78/2010, convertito nella L. n.
122/2010, nonché dell’art. 5, comma 2, del D.L. n. 95/2012,
convertito nella L. n. 135/2012, per prospettare la
possibilità di conseguire l’obiettivo di riduzione delle
spese per mobili e arredi mediante la gestione unitaria e
consolidata dei budget inerenti le varie tipologie di spese
di funzionamento oggetto di limitazione da parte di distinte
previsioni di legge.
Con deliberazione n. 26/2013 la Sezione delle Autonomie,
risolvendo la questione di massima che le è stata
sottoposta, ha enunciato il seguente principio di diritto:
“L’art. 1, comma 141, della l. 24.12.2012, n. 228, nel
disporre limiti puntuali alle spese per l’acquisto di mobili
e arredi, obbliga gli Enti locali al rispetto del tetto
complessivo di spesa risultante dall’applicazione
dell’insieme dei coefficienti di riduzione della spesa per
consumi intermedi previsti da norme in materia di
coordinamento della finanza pubblica, consentendo che lo
stanziamento in bilancio tra le diverse tipologie di spese
soggette a limitazione avvenga in base alle necessità
derivanti dalle attività istituzionali dell’Ente”.
L’art. 6, comma 4, del D.L. n. 174/2012, convertito nella L.
n. 213/2012 dispone che “In presenza di interpretazioni
discordanti delle norme rilevanti per l’attività di
controllo o consultiva o per la risoluzione di questioni di
massima di particolare rilevanza, la Sezione delle autonomie
emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni
regionali di controllo si conformano. Resta salva
l'applicazione dell'articolo 17, comma 31, del decreto-legge
01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla
legge 03.08.2009, n. 102, nei casi riconosciuti dal
Presidente della Corte dei conti di eccezionale rilevanza ai
fini del coordinamento della finanza pubblica ovvero qualora
si tratti di applicazione di norme che coinvolgono
l’attività delle Sezioni centrali di controllo”.
Conseguentemente questa Sezione rende il parere richiesto
dal Comune di Cuneo con la nota indicata in epigrafe
richiamando e conformandosi al suddetto principio di diritto
enunciato dalla Sezione Autonomie
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 03.02.2014 n. 26). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Danno erariale conseguente all'indebita percezione di
compensi per progettazione.
La Corte dei Conti,
Sez. giurisdiz. Calabria, con la
sentenza
03.02.2014 n. 22, condanna al risarcimento
del danno patrimoniale cagionato all'amministrazione, un
dirigente tecnico che si è liquidato somme per incentivi ex
art. 92, d.lgs. 163/2006 per la redazione del documento
preliminare alla progettazione nonché la quota spettante ai
collaboratori.
Lo stesso fu, infatti, autore del solo
documento preliminare alla progettazione e non anche del
progetto vero e proprio, per la cui redazione lo stesso
dirigente aveva stipulato convenzione d'incarico con una
società di ingegneria, riguardante tutte le fasi della
progettazione: preliminare, definitiva ed esecutiva
dell'opera pubblica in questione.
Né il Codice dei contratti (d.lgs. 163/2006) né il
regolamento attuativo (attualmente, d.p.r. 207/2010)
riconduce il "documento preliminare alla progettazione" alle
fasi proprie del progetto; infatti, come ricorda la Corte:
"Anzi, è ben vero il contrario, ove si consideri che in base
all'art. 8, lett. e), del D.P.R. n. 554/1999, anch'esso
abrogato dal D.P.R. 05.10.2010, n. 207, ma ratione
temporis applicabile ai fatti di causa, il documento
preliminare rientrava tra i compiti specifici del
responsabile del procedimento e aveva una funzione
programmatica e di pianificazione dell'intervento, ma non
per questo poteva essere considerato un componente
dell'elaborato progettuale, come, peraltro, bene evidenziato
dall'art. 4, comma 1, del regolamento interno approvato con
la deliberazione di Giunta n. ... del ...".
La magistratura contabile, in più occasioni e per gli
aspetti generali dell'istituto, ha rimarcato che:
"... l'incentivo non può, nel totale, superare il due per
cento della base di gara, per cui, in sede di regolamento
interno, ben si potrebbe stabilire una percentuale anche
inferiore; che la quantificazione del fondo sarebbe dovuta
avvenire sul valore a base di gara, con conseguente
esclusione di ogni diverso importo, ad esempio quello di
contratto o quello desumibile dallo stato finale; che
l'erogazione del compenso avrebbe potuto aver luogo soltanto
dopo che il progetto fosse stato posto a base di gara (cfr.
art. 2, comma 3, del D.M. n. 84/2008); che gli aventi
diritto potevano essere solo le figure tecnico-professionali
espressamente richiamate ai fini del riparto, ossia il
responsabile del procedimento, il progettista, il direttore
dei lavori, i collaudatori, nonché i loro collaboratori;
infine, che la parte del fondo non attribuibile, perché
riguardante prestazioni affidate a soggetti esterni
all'amministrazione, oppure attività che non fossero state
accertate, avrebbe dovuto essere destinata ad ‘economia' per
l'amministrazione".
Nella fattispecie, inoltre "il convenuto ha percepito il
fondo come collaboratore di sé medesimo in evidente
violazione dell'art. 92, comma 5, nella parte in cui,
invece, stabiliva la destinazione ad 'economia' non solo per
la quota d'incentivo riguardante le attività conferite a
soggetti esterni, ma anche per quelle prive del dovuto
'accertamento"'da parte del dirigente, e non vede il
Collegio come il ... abbia potuto sindacare, valutare e,
dunque, 'accertare' la propria auto-collaborazione".
Le uniche somme che il convenuto poteva legittimamente
percepire, dunque, erano solo quelle destinate all'attività
del responsabile del procedimento (commento tratto da www.publica.it).
---------------
Dalla documentazione in atti e dagli stessi argomenti usati dal convenuto,
si deve, anzi tutto, pacificamente desumere che la
progettazione dell’opera ha visto impegnata la sola società
d’ingegneria “Sistemi srl”, cui l’incarico era stato
conferito mediante la convenzione sottoscritta il 24.07.2008 (peraltro, dallo stesso M.) e alla quale furono
liquidate prestazioni per complessivi euro 725.269,59 (cfr.
le determinazioni dirigenziali n. 577/2008 e n. 22/2010).
Il convenuto non ha, dunque, partecipato ad alcuna delle
fasi di progettazione.
E’ appena il caso, infatti, di ricordare ciò che ormai
costituisce patrimonio di conoscenza tecnico-giuridica sin
dalla legge quadro nella materia dei lavori pubblici, la
n. 109 dell’11.02.1994.
Come ha correttamente osservato la Procura regionale, l’art.
16 di tale legge stabiliva, infatti, che l’attività di
progettazione si sarebbe dovuta articolare, secondo tre
successivi livelli di approfondimenti tecnici, in
preliminare, definitiva ed esecutiva.
Tale articolazione fu, ovviamente, mantenuta dai successivi
interventi normativi, primo tra tutti dal Regolamento di
attuazione della legge quadro, approvato con il D.P.R. 21.12.1999, n. 554, e dal Codice dei contratti pubblici
di cui al D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, quest’ultimo
operante, tra l’altro, anche la definitiva abrogazione della
menzionata legge n. 109/1994.
Ebbene, sia nel “Regolamento” che nel “Codice”, nessuna
disposizione riconduce il “documento preliminare alla
progettazione” alle fasi proprie del progetto.
Anzi, è ben vero il contrario, ove si consideri che in base
all’art. 8, lett. e), del D.P.R. n. 554/1999, anch’esso
abrogato dal D.P.R. 05.10.2010, n. 207, ma ratione
temporis applicabile ai fatti di causa, il documento
preliminare rientrava tra i compiti specifici del
responsabile del procedimento e aveva una funzione
programmatica e di pianificazione dell’intervento, ma non
per questo poteva essere considerato un componente
dell’elaborato progettuale, come, peraltro, bene evidenziato
dall’art. 4, comma 1, del regolamento interno approvato con
la deliberazione di Giunta n. 298 del 19.10.2004 e su
cui il Collegio avrà ancora modo di soffermarsi nel
prosieguo della trattazione.
Da quanto osservato si può, quindi, affermare che il
convenuto fu estraneo al progetto dei lavori di
riqualificazione urbana per l’area di via Asmara e che il
documento preliminare alla progettazione era un atto
esclusivamente propedeutico alle altre fasi dell’iter
procedimentale tecnico-amministrativo dell’opera.
Ciò nonostante, egli ha ritenuto che il diritto al compenso
aggiuntivo derivasse proprio dall’aver approntato detto
elaborato.
Il cosiddetto fondo d’incentivo alla progettazione ha
trovato disciplina nell’art. 92, comma 5, del D.Lgs. n.
163/2006, che ha, appunto, stabilito la ripartizione di “una
somma non superiore al due per cento dell'importo posto a
base di gara di un'opera o di un lavoro, (…), per ogni
singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti
in sede di contrattazione decentrata e assunti in un
regolamento adottato dall'amministrazione, tra il
responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo
del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto
all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La
ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali
connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La
corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente
preposto alla struttura competente, previo accertamento
positivo delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti (…); le quote parti dell'incentivo corrispondenti
a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto
affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto
accertamento, costituiscono economie”.
A tale disposizione ha, poi, fatto seguito il D.M. 17.03.2008, n. 84 – “Regolamento recante norme per la ripartizione
dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 5, del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163”.
Ebbene, la magistratura contabile ha avuto modo di
soffermarsi su tali normative (cfr. Sezione Autonomie
delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto
parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290, Sezione Lombardia
parere 06.03.2012 n. 57
e
parere 30.05.2012 n. 259 e
parere 06.03.2013 n. 72), evidenziandone la portata derogatoria rispetto
al generalissimo principio dell’onnicomprensività e della
previa determinazione contrattuale del trattamento economico
spettante al pubblico dipendente, e il rinvio, in essa
contenuto, a un regolamento dell’amministrazione per la
concreta disciplina del fondo.
Ancora, la giurisprudenza ha rimarcato:
- che l’incentivo non
può, nel totale, superare il due per cento della base di
gara, per cui, in sede di regolamento interno, ben si
potrebbe stabilire una percentuale anche inferiore;
- che la
quantificazione del fondo sarebbe dovuta avvenire sul valore
a base di gara, con conseguente esclusione di ogni diverso
importo, ad esempio quello di contratto o quello desumibile
dallo stato finale; che l’erogazione del compenso avrebbe
potuto aver luogo soltanto dopo che il progetto fosse stato
posto a base di gara (cfr. art. 2, comma 3, del D.M. n.
84/2008);
- che gli aventi diritto potevano essere solo le
figure tecnico-professionali espressamente richiamate ai
fini del riparto, ossia il responsabile del procedimento, il
progettista, il direttore dei lavori, i collaudatori, nonché
i loro collaboratori;
- infine, che la parte del fondo non
attribuibile, perché riguardante prestazioni affidate a
soggetti esterni all’amministrazione, oppure attività che
non fossero state accertate, avrebbe dovuto essere destinata
ad “economia” per l’amministrazione.
Come già fatto cenno, il Comune di Gioia Tauro si è dotato
di un proprio regolamento con la deliberazione di Giunta n.
298/2004, e l’ha fatto riportandosi ai criteri del
menzionato D.P.R. n. 554/1999, sia per le attività
ammissibili al riparto che per la quantificazione del fondo
e per l’individuazione delle figure professionali
beneficiarie, mentre con particolare riferimento al “quando”
della liquidazione, l’ha subordinata al “collaudo delle
opere” e alla emissione “degli atti di liquidazione finale”
(art. 12 del regolamento), con ciò privilegiando un
presupposto ben più stringente rispetto a quello che poi
sarebbe stato previsto dall’art. 2, comma 3, del D.M. n.
84/2008 (per tali norme, infatti, ai fini della
corresponsione dell’incentivo sarebbe stato sufficiente che
il progetto fosse posto “a base di gara”).
Tutto ciò chiarito, tornando alla condotta del M.,
dopo aver esaminato la documentazione in atti e la determina
dirigenziale n. 566 del 05.12.2008, non ritiene il
Collegio che la liquidazione del compenso oggetto di domanda
sia stata operata nel rispetto di detti criteri.
Il primo profilo che, infatti, risalta come evidentemente
censurabile, è che la liquidazione abbia riguardato anche la
parte dell’incentivo destinata alla progettazione.
E invero, determinato il fondo in euro 100.000,00 (il 2%
dell’intero valore dell’opera pari a 5.000.000,00 di euro),
il M. si è riconosciuto un importo di 10.000,00
euro, applicando con ciò la percentuale (10%) prevista
dall’art. 7 del regolamento interno per la progettazione al
“livello di progetto preliminare”, ma, come più volte
rimarcato, tale attività lo ha visto del tutto estraneo.
Altrettanto deve dirsi per la percentuale destinata al
compito di coordinatore per la sicurezza della
progettazione, 8.000,00 euro, e per quella riguardante la
fase di affidamento dei lavori ed espletamento della gara di
appalto, 2.200,00 euro.
In proposito è, infatti, sufficiente osservare come nella
menzionata determina n. 566/2008, il dirigente non faccia
alcun riferimento all’appalto dei lavori, ma solo
all’approvazione del progetto esecutivo avvenuta col
provvedimento dirigenziale n. 278 del 31.07.2008, il
che, nell’autorizzare a ritenere che dette fasi non fossero
ancora espletate, introduce un altro profilo d’illegittimità
per l’evidente contrasto della liquidazione così operata con
le disposizioni regolamentari interne, segnatamente con
l’art. 12 in precedenza commentato, che subordinava la
liquidazione del fondo addirittura al collaudo dell’opera.
L’altro profilo meritevole di particolare censura attiene al
fatto che i compensi furono liquidati anche per la parte del
fondo destinata ai “collaboratori”.
Così è stato per quelli del gruppo progettazione, euro
11.000,00, ma anche per i collaboratori della fase di
affidamento lavori ed espletamento della gara, euro 900,00,
e per le funzioni di responsabile del procedimento, euro
1.000,00.
Detto in altri termini, il convenuto ha percepito il fondo
come collaboratore di sé medesimo in evidente violazione
dell’art. 92, comma 5, nella parte in cui, invece, stabiliva
la destinazione ad “economia” non solo per la quota
d’incentivo riguardante le attività conferite a soggetti
esterni, ma anche per quelle prive del dovuto ”accertamento”
da parte del dirigente, e non vede il Collegio come il M. abbia potuto sindacare, valutare e, dunque,
“accertare” la propria auto-collaborazione.
L’unico incentivo legittimamente percepibile era quello di
4.000,00 euro destinato all’attività di responsabile del
procedimento.
Alla luce delle suesposte argomentazioni il Collegio deve,
quindi, pervenire alla conclusione che il M. ha
cagionato un danno patrimoniale con una condotta senza
dubbio connotata da colpa grave.
Sotto il profilo soggettivo, il suo comportamento è stato,
infatti, inescusabilmente riprovevole quanto più si
consideri, da un lato, l’oggettiva gravità delle violazioni
di norme, legislative e regolamentari, che disciplinavano la
ripartizione del fondo, e, dall’altro, il fatto che a
commetterle sia stato un dipendente pubblico che rivestiva
la qualifica di dirigente comunale, ossia un soggetto
chiamato a un ruolo apicale nella struttura organizzativa
del Comune con il compito di garantire e tutelare il
corretto esercizio di funzioni amministrative sottese al
perseguimento del pubblico interesse in ambito locale.
Il danno da porsi a carico del convenuto, tenuto conto del
compenso spettante al responsabile del procedimento, va,
dunque, quantificato in euro 33.100,00 e, stante la gravità
della condotta, non ritiene il Collegio di dover esercitare
il potere riduttivo ai sensi dell’art. 52 del R.D. 12.07.1934,
n. 1214. |
INCARICHI PROFESSIONALI:
No all’incarico senza una seria verifica dell’impossibilità
di utilizzo delle risorse disponibili all’interno.
Come stabilito dalla legislazione di settore e ampiamente
precisato dalla giurisprudenza, infatti, è insufficiente, ai
fini di giustificare l’affidamento di un incarico
all’esterno, una mera affermazione teorica di carenza di
personale idoneo necessitando, invece, una reale
ricognizione volta a dare la dimostrazione della carenza di
personale nei settori interessati e soprattutto
dell’insussistenza di adeguate professionalità interne con
le quali far fronte alle esigenze istituzionali.
La
giurisprudenza ha, altresì, precisato che soltanto in
situazioni del tutto eccezionali risulta possibile ricorrere
ad incarichi esterni di alta professionalità ed, in questo
caso, tale accertata ed eccezionale impossibilità deve
essere valutata in concreto e “caso per caso”, attraverso
l'esame della motivazione del provvedimento, che deve essere
congrua ed esauriente
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Veneto,
sentenza 21.01.2014 n. 26 - massima tratta da www.respamm.it).
---------------
Venendo al merito dell’azione promossa, la domanda di condanna azionata
dalla Procura appare fondata e deve, pertanto, essere
accolta, sia pure nei limiti della prescrizione di cui
sopra, posto che la fattispecie in esame configura un
illecito amministrativo, consistente nel conferimento contra legem di un incarico esterno, produttivo di danno erariale.
III.1. Ritiene, infatti, la Sezione che
in fattispecie siano
presenti tutti gli elementi tipici della responsabilità
amministrativa la quale, come noto, può sussistere ove sia
ravvisabile, oltre al danno erariale causalmente collegabile
con la condotta/e del/dei convenuto/i, pur se cagionato ad
amministrazioni o enti pubblici diversi da quello di
appartenenza, anche l’elemento psicologico del dolo o della
colpa grave
(art. 1, comma 1, della legge 14.01.1994 n.
20, nel testo sostituito dall’art. 3 del D.L. 23.10.1996 n. 543, convertito nella legge 20.12.1996 n. 639).
Si ricorda in proposito che il conferimento di incarichi e
di consulenze a professionisti esterni all'Amministrazione è
stato, ed è tuttora, oggetto di esame da parte della Corte
dei Conti in sede giurisdizionale e di controllo proprio con
la finalità di sanzionare la produzione di danno all'Erario
derivante da spese improduttive e non giustificate,
attribuite a soggetti estranei all'Amministrazione.
Al riguardo, questa Sezione non può che ribadire quelli che
costituiscono principi giurisprudenziali consolidati in
materia di conferimenti di incarichi e consulenze esterne
intesi a ritenere che,
per l’assolvimento dei compiti
istituzionali, l’amministrazione pubblica deve
prioritariamente avvalersi delle proprie strutture
organizzative e del personale che vi è preposto.
In tale ottica –ed in conformità a quanto stabilito
dall’art. 7, comma 6, del decreto legislativo 30.03.2001,
n. 165-
è stato ripetutamente affermato che la facoltà, per
le pubbliche amministrazioni, di affidare il perseguimento
di determinate finalità all’opera di soggetti ad essa
esterni, dotati di “particolare e comprovata
specializzazione” riveste natura di eccezionalità, può
avvenire solo in presenza di situazioni particolari e
contingenti, nel rispetto di tutti i presupposti imposti
dalla legge quali: la straordinarietà ed eccezionalità delle
esigenze da soddisfare, la carenza di strutture e/o di
personale interno idoneo, il carattere limitato nel tempo,
l’oggetto circoscritto della consulenza, ecc. e deve
conformarsi ai criteri di efficacia ed economicità
dell'azione amministrativa
(cfr., tra le ultime, Corte dei
conti, Sez. III Centrale d’Appello, sent. n. 306/10 del
24.02.2010; Sez. II Centrale d’Appello, sent. n. 263 del
26.08.2008; Sez. I Centrale d’Appello, sent. 220/2008 del
01.04.2008; Sez. Veneto, sent. n. 471/2010) ed ai principi
di imparzialità e buon andamento sanciti dall’art. 97 Cost..
In base a quanto sin qui detto, pertanto,
l'affidamento di
incarichi a soggetti esterni non consegue ad una libera ed
incondizionata scelta (nel senso di ricorrervi o meno), ma è
strettamente collegata alla effettiva sussistenza del
carattere di eccezionalità della contingente situazione,
quale sopra delineata.
Le esposte considerazioni, in definitiva, se da un lato
attestano che nell’ordinamento vigente, salvo i limiti posti
alla spesa pubblica, non sussiste alcun divieto, di
carattere generale per le Pubbliche Amministrazioni di
conferire a soggetti estranei incarichi professionali per
l’assolvimento di determinati compiti, dall’altro, tuttavia,
confermano che il ricorso a tale strumento convenzionale non
può concretizzarsi se non nel rispetto dei limiti e delle
condizioni sopra specificati.
In ragione di ciò
la giurisprudenza della Corte dei conti,
sia in sede di controllo (SS.RR delib. n. 6/CONTR/05 del 15.02.2005) sia in sede giurisdizionale
ha dettato
principi e criteri direttivi in grado di orientare utilmente
l'interprete e l'operatore, pur nella varietà e complessità
delle situazioni concrete, sulla base dei quali l’incarico
(o la consulenza) esterno può essere ritenuto legittimo
qualora ci sia:
a) rispondenza agli obiettivi
dell’amministrazione;
b) inesistenza, all’interno della
propria organizzazione, della figura professionale idonea
allo svolgimento dell’incarico, da accertare per mezzo di
una reale ricognizione;
c) indicazione specifica dei
contenuti e dei criteri per lo svolgimento dell’incarico;
d)
indicazione della durata dell’incarico;
e) proporzione fra
il compenso corrisposto all’incaricato e l’utilità
conseguita dall’amministrazione. La mancanza anche di una
sola delle riferite condizioni, rende il conferimento
dell'incarico illecito di talché il compenso ad esso
conseguente costituisce ingiusto depauperamento delle
finanze dell'Ente (cfr. Sezioni Riunite, 12.06.1998 n.
27).
A quanto sopra,
il dettato normativo di riferimento ha
aggiunto l’ulteriore requisito che l’incaricato esterno sia
un esperto nella materia, la cui competenza deve risultare
provata, ovvero emergente da dati oggettivi.
Dal predetto impianto normativo e giurisprudenziale si può
dunque ritenere che
il conferimento di consulenze esterne,
per poter rimanere ancorato a principi di legittimità e
liceità delle relative scelte, deve essere caratterizzato da
alto contenuto di professionalità ma soprattutto dalla
necessità di inserire temporaneamente nell'organizzazione
dell'Amministrazione, personale di provata competenza per
fronteggiare esigenze particolari, e non ordinarie, cui non
sia possibile adibire con risultati vantaggiosi, unità di
personale già in servizio presso l'Ente.
Più nello specifico, con riferimento alla disciplina
regolamentare dell’Amministrazione, al quadro normativo
sopra delineato si aggiungono: le disposizioni sulle
procedure gestionali in tema di collaborazioni coordinate e
continuative e consulenze, approvate con decreto del
Commissario Straordinario Arpav del 31.12.2002 n. 1062, le
successive disposizioni sulle procedure gestionali approvate
con decreto del Commissario Straordinario del 18.04.2006 n.
294 e le disposizioni contenute nel Regolamento Arpav,
approvato con DGR della Regione Veneto n. 450 del
28/12/2006.
Le predette disposizioni, infatti, ammettono il ricorso a
collaboratori esterni solo per la soluzione di problematiche
complesse che necessitino di specifiche competenze
professionali, a condizione che non sia possibile avvalersi,
con risultato ottimale, del personale in servizio mantenendo
gli stessi tempi e modi, ovvero quando sussista
l’impossibilità di rispondere ad esigenze derivanti da norme
cogenti con il personale in organico o l’esigenza di
utilizzare un profilo con professionalità non disponibile
all’interno dell’organico. Ad ogni modo l’affidamento deve
essere conseguente ad una verifica interna della
disponibilità delle figure professionali esistenti a cura
del Direttore/Dirigente della Struttura.
III.1.1. Alla luce delle richiamate norme nonché dei principi
della consolidata giurisprudenza contabile formatasi in
materia, che ha fornito un indubbio supporto ermeneutico,
arricchendo la fattispecie astratta di ulteriori requisiti e
contenuti,
il conferimento dell’incarico esterno non solo
doveva essere giustificato unicamente per far ricorso ad
alte professionalità, ma doveva seguire solo dopo un esame
approfondito della utilità effettiva della prestazione e
dopo il riscontro dell'assenza di risorse umane interne
capaci di dare il proprio contributo. L'amministrazione
doveva, altresì, accertare -anche attraverso un meccanismo
di selezione informale– l’idoneità allo scopo dell’extraneus,
le cui capacità dovevano essere formalizzate in atti.
Ciò considerato e premesso, nel caso all’esame, è ampiamente
provato dall’Organo requirente e dalla documentazione tutta
versata in atti che l’incarico di che trattasi è stato
conferito in violazione della prescrizione che imponeva la
preliminare verifica dell’impossibilità di utilizzo delle
risorse disponibili all’interno, non potendosi considerare
tale la mera affermazione di insufficienza d’organico, del
tutto generica, senza riferimento a dati concreti, contenuta
dalla nota della dott.ssa S. del 22.02.2007 in
riscontro a quella del 15.02.2007 del Direttore Generale,
dott. D.
Come stabilito dalla legislazione di settore e ampiamente
precisato dalla giurisprudenza (cfr. tra le tante: Corte dei
Conti, Sez. Calabria n. 62 del 28.01.2010; Sez. Friuli n.
106 del 12.05.2010; Sez. Veneto n. 284 del 20.05/2011; Sez.
Sicilia n. 1679 del 29.04.2011 e n. 4037 del 09.12.2011;
Sez. Campania n. 144 del 10.02.2012), infatti,
è
insufficiente, ai fini di giustificare l’affidamento
all’esterno, una mera affermazione teorica di carenza di
personale idoneo necessitando, invece, una reale
ricognizione volta a dare la dimostrazione della carenza di
personale nei settori interessati e soprattutto
dell’insussistenza di adeguate professionalità interne con
le quali far fronte alle esigenze istituzionali.
La
giurisprudenza ha, altresì, precisato che
soltanto in
situazioni del tutto eccezionali risulta possibile ricorrere
ad incarichi esterni di alta professionalità ed, in questo
caso, tale accertata ed eccezionale impossibilità deve
essere valutata in concreto e “caso per caso”, attraverso
l'esame della motivazione del provvedimento, che deve essere
congrua ed esauriente
(Corte dei conti, Sez. Contr. Toscana, Delib. 11.05.2005 n. 6).
Conseguentemente, il
provvedimento deliberativo dell’affidamento dell’incarico
(in specie la più volte richiamata deliberazione del
Direttore Generale n. 182 del 29.03.2007) avrebbe dovuto
precisare le effettive motivazioni del ricorso a risorse
esterne, indicare l’alta ed eccezionale professionalità
richiesta nel caso di specie, evidenziare i reali carichi di
lavoro del personale interno con professionalità analoghe a
quelle richieste e dare contezza della effettuata completa
ricognizione delle professionalità esistenti all'interno
dell'amministrazione e dei percorsi di formazione e
riqualificazione sviluppati, verificando la possibilità o la
convenienza di aggiornare il personale non utilizzato (cfr.
in termini: Delib. Sez. Contr. Toscana cit.).
In luogo di tutto ciò, invece, la Deliberazione di che
trattasi si limita semplicemente ad affermare, in maniera
del tutto apodittica, senza elementi concreti di
valutazione, che: <Vista la corrispondenza intercorsa tra il
Direttore Generale e il Dirigente del Servizio Comunicazione
ed Educazione Ambientale per l’avvio del progetto sopra
indicato; Vista altresì la nota in data 13.03.2007…… con la
quale il signor B.S., in riscontro a conforme
richiesta del Direttore Generale…….. comunicava la propria
disponibilità a collaborare, in forma coordinata e
continuativa, per la redazione, sviluppo e svolgimento delle
attività inerenti il progetto di cui sopra che, data la
particolare specificità, richiede una competenza e
professionalità in dinamiche comunicative applicate ai temi
ambientali, non disponibile attualmente tra le risorse
interne; Considerato che il sunnominato sig. S. è
stato individuato sulla base della specifica professionalità
posseduta (è iscritto all’Ordine Nazionale dei giornalisti),
e della competenza dimostrata nello svolgimento di
precedenti collaborazioni intrattenute con Arpav per
incarichi analoghi, ed inoltre per il fatto che,
nell’immediato, è l’unico a poter organizzare e sviluppare
in breve il complesso incarico di cui trattasi, in quanto è
a conoscenza dei meccanismi di funzionamento dell’agenzia ed
ha già svolto incarichi di analoga complessità anche presso
altre Amministrazioni come l’Arpav Friuli Venezia Giulia>.
Come, del resto, giustamente evidenziato dall’Organo
Requirente,
il compito affidato all’incaricato esterno non
era certo di particolare complessità, e non vi è alcuna
prova del fatto che il predetto fosse l’unico in grado di
eseguirlo, non potendosi considerare idonea allo scopo la
circostanza che lo stesso avesse già in precedenza
collaborato con Arpav. Inoltre, le due precedenti
collaborazioni, espletate nel 2005 e 2006, non inerivano
all’oggetto del conferimento di che trattasi, riguardando
l’una, un generico programma di divulgazione ambientale in
ambito regionale e l’altra, una attività di informazione ad
enti e cittadini sul piano di monitoraggio ambientale
dell’autostrada A31 Valdastico sud.
Non provata e, quindi, insussistente anche la ragione
d’urgenza, non potendosi considerare tale la circostanza che
poiché: “per il progetto Agenda 21 Locale, la Regione
percepiva importanti contributi statali e, a sua volta,
alimentava il fondo di progetto dell’Arpav, vi era la
necessità di non perdere tali finanziamenti dando corretta e
tempestiva attuazione del progetto stesso" (pag. 11 memoria
di costituzione e difesa del convenuto Drago Andrea).
Inoltre,
l’incarico è stato conferito in violazione delle
disposizioni che impongono alle amministrazioni pubbliche di
disciplinare e rendere pubbliche, secondo i propri
ordinamenti, le procedure comparative per il conferimento
degli incarichi di collaborazione (art. 6-bis del D.Lgs
165/2001) posto che l’incarico è stato infatti conferito in
maniera diretta
(deliberazione del Direttore Generale n. 182
del 29.03.2007),
in violazione anche della norma
regolamentare interna contenuta al punto 5 delle
disposizioni sulle procedure gestionali approvate con
decreto del Commissario Straordinario 1062/2002, in virtù
della quale “Il conferimento di un incarico di
collaborazione è conseguente ad una procedura selettiva, per
soli titoli, per esami, o per titoli ed esami, da attuarsi
mediante avviso pubblico” nonché in violazione della
successiva disposizione contenuta al punto 5.1 delle
disposizioni sulle procedure gestionali approvate con
decreto del Commissario Straordinario 294/2006 in base alla
quale “Il conferimento di un incarico di co.co.co. è
conseguente, di norma, ad una procedura selettiva specifica,
per soli titoli, per esami, o per titoli ed esami, da
attuarsi mediante avviso pubblico”.
Giova, anche da ultimo, evidenziare che la stessa
considerazione svolta dalla difesa del convenuto F. (pag.
10 memoria di costituzione e difesa) in relazione al mancato
espletamento della gara: <D’altra parte, sin dal 2002 vige
in Arpav una deliberazione del Direttore Generale (D.G. 1062
del 31.12.2002) che, all’art. 6 (Consulenza professionale ed
occasionale), stabilisce espressamente: “Nel caso sussista
la necessità di ricorrere ad una consulenza
specialistico-professionale anche occasionale ….l’incarico
può essere conferito su base fiduciaria, dopo aver
effettuato una scelta tra più esperti di analoga competenza
in materia, se esistenti”> avvalora la fondatezza
dell’impianto accusatorio posto che, in specie, non vi è
stata alcuna scelta tra più esperti né tantomeno è stata
data la prova che lo S. fosse l’unico del settore. Tra
l’altro come evidenziato in narrativa, e più volte precisato
dall’Organo Requirente, l’incarico è stato conferito a
soggetto privo di laurea ed a fronte di un curriculum privo
della documentazione di supporto.
III.1.2. In specie risultano, poi, violate le disposizioni
sui requisiti soggettivi dell’affidatario e sui limiti di
compenso.
Infatti, come correttamente evidenziato dalla procura, le
disposizioni sulle procedure gestionali approvate con
decreto del Commissario Straordinario 1062/2002 e quelle
approvate con decreto 294/2006 stabiliscono, per il
conferimento di una collaborazione co.co, un compenso lordo
annuo fino ad euro 18.000,00, per laureato junior, e fino a
20.000, per laureato senior.
Nonostante l’incaricato esterno non fosse munito di laurea e
fosse, quindi, carente del requisito soggettivo per
l’affidamento in questione, con deliberazione n. 182 del
29.03.2007, si disponeva il formale affidamento al predetto
dell’incarico dietro corresponsione di un compenso lordo
omnicomprensivo di € 36.500,00 oltre ad un rimborso spese
fino ad un massimo di €. 2.000,00, superiore (raddoppiato)
ai limiti stabiliti con D.D.G. n. 1062/2002 <in
considerazione dell’elevato livello di professionalità
richiesto dall’incarico>.
III.1.3. Risulta, altresì, che il predetto compenso è stato
corrisposto per intero, nonostante la prestazione sia stata
parziale e, peraltro, ritenuta insufficiente.
L’incaricato avrebbe dovuto curare: lo sviluppo di un
progetto finalizzato all’implementazione delle pagine web
con l’obiettivo di fornire metodi e strumenti agli
operatori, l’aggiornamento dei processi di Agenda 21
attivati in Veneto, l’implementazione della banca dati
relativa ai progetti di Agenda 21, la valutazione di
risultati positivi e criticità dei progetti finanziati.
L’oggetto della prestazione veniva individuato dal
contratto, stipulato il 23.04.2007, e meglio specificato
dalla nota del 02.04.2007 della Dirigente del Servizio
Comunicazione e Servizio Ambientale.
Come risulta dagli atti di causa, premesso che l’incaricato
nell’ottobre del 2007 era transitava presso la Regione, lo
stesso nell’arco di tempo considerato aveva eseguito,
peraltro parzialmente, solo uno dei punti dell’oggetto
contrattuale (il primo punto), ossia “In parte il progetto
di implementazione delle pagine web, relative allo sviluppo
dei progetti di Agenda 21 locale” (cfr. verbale di audizione
del 05.09.2012 della convenuta S.). Ciò nonostante,
fino al marzo 2008, ossia fino alla scadenza contrattuale,
all’incaricato è stato corrisposto il corrispettivo
contrattuale.
Inoltre dalla corrispondenza intervenuta tra l’incaricato e
la Dirigente S. emerge con evidenza l’insufficienza
qualitativa della prestazione resa.
III.3. In considerazione di tutta quanto sopra addotto,
emerge con tutta evidenza la fondatezza dell’addebito di
responsabilità: sono state violate le norme sugli
affidamenti degli incarichi, sono state violate le
disposizioni sui requisiti soggettivi dell’affidatario e sui
limiti di compenso, è stata corrisposto l’intero compenso a
fronte sia di una prestazione contrattuale eseguita,
dall’incaricato, solo per una parte minima, ed in maniera
inadeguata, è stato attestato, sulle note mensili di
pagamento, l’avvenuto regolare svolgimento della
prestazione, anche dopo l’ottobre del 2007, nonostante il
collaboratore avesse smesso l’adempimento contrattuale,
transitando presso la Regione e, pertanto, si attestava ciò
di cui non si aveva contezza, ignorando che il corrispettivo
trova la sua esclusiva ragione nel contratto e nella
derivante prestazione da rendere nei modi e termini ivi
stabiliti.
La colpa grave dei convenuti è insita nei comportamenti
adottati, ampiamente descritti in narrativa, le cui
violazioni dei doveri di servizio in relazione a principi e
norme dell’agire amministrativo chiari ed inequivocabili,
che non era possibile ignorare, sono palesi.
In conseguenza, l’intero corrispettivo pagato
all’incaricato, fatti salvi gli effetti della prescrizione
di cui sopra, da assumere al lordo, dal momento che le somme
sono state erogate da Arpav per intero, è da ritenere causa
di ingiusto pregiudizio economico per l’ente pubblico e,
pertanto, deve essere risarcito.
Quanto all’apporto causale di ciascun convenuto alla
causazione del danno, la Sezione, tenuto conto delle
funzioni rivestite e dei comportamenti adottatiti, ritiene
congrua ed adeguatamente motivata la ripartizione effettuata
dalla Procura dalla quale, pertanto, ritiene di non doversi
discostare. |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Niente danno all’immagine se la stampa locale non ne parla.
Per aversi danno risarcibile come conseguenza di un fatto
criminoso deve realizzarsi una aggressione all’immagine
dell’Ente tale da superare la cd. “soglia minima” della
lesione del bene tutelato; in caso contrario si rischierebbe
di risarcire la mera violazione dei soli doveri di servizio,
non assistita da alcuna deminutio patrimonii in tal modo
trasformando, di fatto, il danno all’immagine in una pena
accessoria a quella principale.
La lesione dell’immagine,
quindi, deve rilevare come negativo riflesso del
comportamento antidoveroso (e doloso) del soggetto
incardinato nella struttura della P.A. che deteriora ed
offusca l’immagine dell’amministrazione pubblica la quale,
per definizione, deve possedere, diffondere e difendere
valori di onestà, correttezza, trasparenza e legalità ed
affidabilità.
Ciò premesso, secondo comune esperienza la
diffusione a mezzo stampa della notizia del comportamento
illecito, pur essendo solo uno degli elementi qualificanti
la fattispecie di danno, è elemento essenziale per il
perfezionamento di quel deterioramento del rapporto di
fiducia tra cittadini e istituzione pubblica atto a
realizzare, quale conseguenza immediata e diretta, la
lesione dell’immagine e del prestigio dell’ente pubblico di
cui si chiede il ristoro
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz Veneto,
sentenza 20.01.2014 n. 25 - massima tratta da
www.respamm.it).
---------------
Non sussistente, invece, il danno all’immagine dell’Amministrazione
Pubblica.
Giova, in proposito, ricordare come l’azionabilità, innanzi
al Giudice contabile, del danno “all’immagine” della
Pubblica Amministrazione rappresenti l’approdo di un
ultradecennale orientamento giurisprudenziale della Corte
dei conti, confortato dalle decisioni della Corte di
Cassazione (ex pluribus: Corte dei conti Sezioni Riunite n.
10/QM/2003; Corte di Cassazione SS.UU. n. 5668/1997, n.
3600/2003).
Va inoltre osservato come la materia de qua
abbia, recentemente, formato oggetto della peculiare
regolamentazione legislativa dettata dall’art. 17 comma 30-ter del decreto legge n. 78/2009 (convertito con
modificazioni nella legge 03.08.2009 n. 102, modificato
con il decreto legge 03.08.2009 n. 103, convertito con
modificazioni dalla legge 03.10. 2009 n. 141), che ne ha
delimitato l’ambito di perseguibilità, rispetto ai confini
delineati dall’arresto giurisprudenziale, stabilendo che:
“Le Procure della Corte dei conti esercitano l’azione per
il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei
modi previsti dall’art. 7 della legge 27.03.2001 n. 97. A
tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di
cui al comma 2 dell’artt. 1 della legge 14.01.1994 n.
20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento
penale”.
In conseguenza la norma ha circoscritto oggettivamente i
casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e
processuale, chiedere il risarcimento, innanzi al Giudice
Contabile, del danno in presenza di lesione dell’immagine
dell’Amministrazione imputabile ad un suo dipendente
(Cassazione, SS.UU., sentenze n. 14831/2011 e n. 9188/2012)
collegando la proposizione dell’azione risarcitoria del PM
contabile alle fattispecie di reato ascrivibili alla
categoria dei “delitti dei pubblici ufficiali contro la
Pubblica Amministrazione”.
Ciò precisato, deve osservarsi che,
per quanto attiene al
danno d'immagine anche le persone giuridiche, al pari delle
persone fisiche, sono titolari di diritti non patrimoniali,
tra i quali il diritto alla propria immagine, vale a dire
alla tutela della propria identità personale, del proprio
buon nome, della propria reputazione e credibilità in sé
considerate. Nel contesto delle persone giuridiche, la
tutela di quelle pubbliche e, quindi, delle pubbliche
amministrazioni discende, con particolare evidenza, dal
dettato costituzionale, in particolare dalla generale
previsione dell’art. 2, relativa alla tutela delle
formazioni sociali, e dell’art. 97, primo e secondo comma, a
cui vanno ad aggiungersi, gli articoli 7 e 10 c.c. relativi
alla tutela del nome e dell’immagine della persona, ritenuti
applicabili anche alle persone giuridiche.
Secondo il
consolidato orientamento della Corte dei conti
(SS.RR, sent.
n. 10/QM/2003),
ogniqualvolta tale immagine sia offuscata,
lesa da gravi comportamenti, si verifica la violazione del
diritto personalissimo dell'Ente pubblico “al conseguimento,
al mantenimento ed al riconoscimento della propria identità
come persona giuridica pubblica”.
La ricostruzione complessiva del danno all’immagine è stata
oggetto di rivisitazione da parte delle Sezioni Riunite di
questa Corte che, con decisione n. 1/QM/2011, sulla base dei
principi affermati dalle Sezioni di Appello, in particolare,
nella sentenza della Sezione Terza n. 143/2009, alla luce
anche della giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte
di Cassazione intervenuta dopo la sentenza delle Sezioni
Riunite della Corte dei conti n. 10/QM/2003 (cfr. SS.UU.
Cassazione n. 26972 e n. 26975 dell’11.11.2008 e Cass.
Civ., sez. III, 04.06.2007, n. 12929), hanno statuito che <…..
il danno all’immagine della Pubblica amministrazione (‘non
patrimoniale’), anche se inteso come ‘danno c.d.
conseguenza’, è costituito ‘dalla lesione’ all’immagine
dell’ente, ‘conseguente’ ai fatti lesivi produttivi della
lesione stessa (compimento di reati o altri specifici casi),
da non confondersi con ‘le spese necessarie al ripristino’,
che costituiscono solo uno dei possibili parametri della
quantificazione equitativa del risarcimento>.
Al fine della quantificazione del danno in esame soccorrono
i criteri indicati dalle Sezioni Riunite di questa Corte
nella sentenza n. 10/QM/2003 e ripresi dalla giurisprudenza
contabile successiva,
nonché quelli individuati dalla Corte
di Cassazione, Sezioni Unite Penali, nella recente sentenza
n. 15208/2010
ed in particolare:
1) la qualifica apicale nell’ente di appartenenza posseduta
dal convenuto al momento del commesso illecito;
2) il notevole disvalore sociale connesso alla gravità del
reato unitamente all’entità della pena inflitta;
3) la diffusione della notitia criminis da parte dei mass
media ed il rilievo e clamore destato nell’opinione pubblica
dalla vicenda.
Un danno siffatto, sul piano dell’elemento oggettivo della
condotta materiale dell’illecito amministrativo-contabile
che lo provoca, richiede che la condotta stessa sia
altamente lesiva del bene-valore che si riflette
sull’immagine pubblica così da ingenerare, sul piano
dell’elemento sociale del clamore -elemento necessario ai
fini della realizzazione della fattispecie dannosa-, una
corale disapprovazione ed un diffuso e persistente
sentimento di sfiducia della collettività
nell’Amministrazione, data la manifesta ed abnorme
contrarietà del suo operato in relazione alla violazione dei
doveri di servizio, ai fondamentali canoni della legalità,
del buon andamento e dell’imparzialità.
Chiaramente, per aversi danno risarcibile, il comportamento
illegittimo, deve realizzare una aggressione tale da
superare la cd. “soglia minima” della lesione del bene
tutelato; in caso contrario si rischierebbe di risarcire la
mera violazione dei soli doveri di servizio, non assistita
da alcuna deminutio patrimonii
(principio ribadito anche
dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione le sentenze
gemelle nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11.11.2008)
in tal modo trasformando, di fatto, il danno
all’immagine in una pena accessoria a quella principale.
La lesione dell’immagine, quindi, deve rilevare come
negativo riflesso del comportamento antidoveroso (e doloso)
del soggetto incardinato nella struttura della P.A. che
deteriora ed offusca l’immagine dell’amministrazione
pubblica la quale, per definizione, deve possedere,
diffondere e difendere valori di onestà, correttezza,
trasparenza e legalità ed affidabilità. Esso deve essere
capace di deteriorare il rapporto di fiducia tra la
cittadinanza e l’istituzione pubblica a tal punto da
realizzare un vero e proprio “danno sociale”.
La lesione dell’immagine e del prestigio dell’ente pubblico,
infatti, comporta un pregiudizio al patrimonio pubblico, che
è comprensivo anche del diritto dell’ente alla propria
identità ed onorabilità e va liquidata in via equitativa, ai
sensi dell’art. 1226 del codice civile, tenendo conto delle
conseguenze negative che, per dato di comune esperienza,
sono riferibili al comportamento lesivo dell’immagine. Di
qui la giuridica necessità di determinare l’entità del
risarcimento con esclusivo riferimento alla dimensione della
lesione
(recte: perdita)
dell’immagine, quale individuabile
in base ai criteri “oggettivi”, “soggettivi” e “sociali” da
tempo individuati dalla giurisprudenza di questa Corte
(Sez. III^ sent. n. 143/2009, che richiama in proposito Sez. Giur.
Reg. Umbria sent. n. 211/R/1995),
piuttosto che con
riferimento alle somme spese per tale ripristino
(Corte dei
conti, sez. III App. sent. 01.02.2012, n. 160).
Secondo il costante orientamento di questa Corte, infatti,
“il danno all’immagine, in base al principio di
immedesimazione organica, di rilievo sociologico ancora
prima che giuridico, porta sempre ad identificare
l’Amministrazione con il soggetto che per essa ha agito”,
così da ricondurre all’Amministrazione medesima tanto gli
sviluppi concreti di reale attuazione dei valori di
legalità, buon andamento ed imparzialità intrinsecamente
connessi all’agire pubblico (ex art. 97 Cost.), quanto i
corrispondenti, opposti, disvalori, legati alle forme più
gravi di illecito amministrativo contabile, con evidente
discredito delle istituzioni pubbliche
(Sez. 1^ centr.
n. 16/2002; Sez. 3^ centr. 143/2009).
Di particolare interesse la sentenza n. 355/2010 della Corte
Costituzionale che ha individuato l’esatto perimetro della
tutela risarcitoria accordata dal legislatore alla
reputazione delle amministrazioni pubbliche e la valenza
giuridica da dare alla norma che la prevede.
L’esposizione dogmatico–normativa-giurisprudenziale per
ragioni di completezza va integrata con il richiamo alla
novella introdotta dall’art. 1, comma 62, della legge 190,
del 06.11.2012 (recante Disposizioni per la
prevenzione e la repressione della corruzione e
dell’illegalità nella P.A.), in vigore dal 28.11.2012,
che ha inserito all’art. 1, della legge 14.01.1994, n.
20, il comma 1-sexies, avente il seguente contenuto: “Nel
giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine
della pubblica amministrazione derivante dalla commissione
di un reato contro la stessa pubblica amministrazione
accertato con sentenza passata in giudicato, si presume,
salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro
o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente
percepita dal dipendente”. Con tale norma, pertanto, il
Legislatore ha pertanto inteso colmare un vuoto normativo
prevedendo un parametro di riferimento specifico per la
determinazione del “quantum” del danno all’immagine, quale
criterio sostanziale di immediata applicazione.
Così delineato il quadro normativo e giurisprudenziale in
materia di danno all’immagine pubblica, ritiene il Collegio
che, nel caso di specie, non sussistano tutti i presupposti
per l’affermazione della responsabilità amministrativa del
convenuto per tale peculiare fattispecie di danno erariale.
Secondo comune esperienza, che il Collegio condivide,
la
diffusione a mezzo stampa della notizia del comportamento
illecito, pur essendo solo uno degli elementi qualificanti
la fattispecie di danno, è elemento essenziale per il
perfezionamento di quel deterioramento del rapporto di
fiducia tra cittadini e istituzione pubblica atto a
realizzare, quale conseguenza immediata e diretta, la
lesione dell’immagine e del prestigio dell’ente pubblico di
cui si chiede il ristoro.
In specie non solo non è stata fornita alcuna prova del
clamor fori ma è la stessa Amministrazione Pubblica ad
affermare espressamente che <…la vicenda non ha avuto alcuna
risonanza sulla stampa locale> (nota della Questura di
Verona, Ufficio del Personale, indirizzata alla Procura, del
27.06.2011 versata in atti). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Il termine di decadenza
per l’impugnazione della lex specialis di gara decorre dalla
pubblicazione della stessa solo nel caso in cui contenga
clausole immediatamente escludenti, ma mai nell’ipotesi in
cui, per la sua formulazione, dall’applicazione della stessa
non possa discendere l’immediata ed automatica esclusione
della domanda formulata dal partecipante alla procedura.
---------------
Sussiste l'onere dell'interessato all'immediata impugnazione
delle clausole del bando o della lettera di invito sia che
prescrivano il possesso di requisiti di ammissione o di
partecipazione alla gara la cui carenza determina
immediatamente l'effetto escludente, configurandosi il
successivo atto di esclusione come meramente dichiarativo e
ricognitivo di una lesione già prodotta, sia che impongano
oneri manifestamente incomprensibili o del tutto
sproporzionati rispetto ai contenuti della procedura
concorsuale, assimilabili al possesso dei requisiti
soggettivi al cui difetto consegue automaticamente
l'esclusione dalla gara.
Per contro il carattere dubbio, equivoco o ambiguo della
clausola, nel senso cioè di non rendere immediatamente
percepibile l'effetto preclusivo della partecipazione per
chi sia privo di un determinato requisito soggettivo
richiesto dal bando, ne esclude l'immediata lesività e ne
consente l'impugnazione unitamente all'atto di esclusione,
applicativo della clausola stessa suscettibile di diverse
interpretazioni.
Deve, in proposito, richiamarsi il costante
orientamento elaborato dalla giurisprudenza amministrativa
in tema di procedure concorsuali pubbliche, in base al quale
il termine di decadenza per l’impugnazione della lex
specialis di gara decorre dalla pubblicazione della stessa
solo nel caso in cui contenga clausole immediatamente
escludenti, ma mai nell’ipotesi in cui, per la sua
formulazione, dall’applicazione della stessa non possa
discendere l’immediata ed automatica esclusione della
domanda formulata dal partecipante alla procedura.
E’ stato, invero, affermato che “Sussiste l'onere
dell'interessato all'immediata impugnazione delle clausole
del bando o della lettera di invito sia che prescrivano il
possesso di requisiti di ammissione o di partecipazione alla
gara la cui carenza determina immediatamente l'effetto
escludente, configurandosi il successivo atto di esclusione
come meramente dichiarativo e ricognitivo di una lesione già
prodotta, sia che impongano oneri manifestamente
incomprensibili o del tutto sproporzionati rispetto ai
contenuti della procedura concorsuale, assimilabili al
possesso dei requisiti soggettivi al cui difetto consegue
automaticamente l'esclusione dalla gara; per contro il
carattere dubbio, equivoco o ambiguo della clausola, nel
senso cioè di non rendere immediatamente percepibile
l'effetto preclusivo della partecipazione per chi sia privo
di un determinato requisito soggettivo richiesto dal bando,
ne esclude l'immediata lesività e ne consente l'impugnazione
unitamente all'atto di esclusione, applicativo della
clausola stessa suscettibile di diverse interpretazioni”
(Cons. Stato, sez. V, 14.07.2011, n. 4274)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.02.2014 n. 423 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Consolidata giurisprudenza esclude il carattere
conformativo di vincoli a verde, servizi e simili, allorché
l’attuazione degli stessi può avvenire soltanto ad
iniziativa pubblica.
Non appare dubbio il carattere espropriativo del vincolo in
questione, attesa non solo l’ammissione fatta dal Comune nel
già citato doc. 2, ma anche la consolidata giurisprudenza,
che esclude il carattere conformativo di vincoli a verde,
servizi e simili, allorché l’attuazione degli stessi può
avvenire soltanto ad iniziativa pubblica (così TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 21.05.2013, n. 1334, con la
giurisprudenza, anche del Consiglio di Stato, ivi
richiamata) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.02.2014 n. 420 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio ritiene che il potere di applicare
misure repressive in materia urbanistica ed edilizia può
essere esercitato in ogni tempo, senza necessità, per i
relativi provvedimenti, di alcuna specifica motivazione in
ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre
una demolizione.
Il Collegio non ignora l’esistenza di un orientamento
difforme secondo il quale invece “il lungo lasso di tempo
trascorso dalla commissione dell'abuso” e “il protrarsi
dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza”
potrebbero ingenerare un affidamento del privato, rispetto
al quale sussisterebbe un “onere di congrua motivazione”
circa il “pubblico interesse, evidentemente diverso da
quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare
il sacrificio del contrapposto interesse privato”; ritiene
però che tale orientamento non vada condiviso.
In proposito, il Collegio condivide il rilievo fatto proprio
dalla citata decisione C.d.S. 5509/2009, ovvero che di
affidamento si può parlare solo ove il privato, il quale
abbia correttamente e in modo compiuto reso nota la propria
posizione alla p.a., venga indotto da un provvedimento della
stessa a ritenere la legittimità del proprio operato, non
già nel caso che rileva, in cui si commette un abuso a tutta
insaputa della p.a. medesima.
Inoltre, l’abuso edilizio integra un illecito permanente,
rappresentato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel
tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei
luoghi; di talché ogni provvedimento repressivo
dell’amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un
illecito ormai esaurito, ma interviene su una situazione
antigiuridica che perdura sino a quel momento.
Il primo motivo, incentrato sul presunto
carattere risalente dell’abuso, e sull’altrettanto presunta
carenza dell’interesse pubblico a perseguirlo, è infondato
per le ragioni già espresse dall’indirizzo giurisprudenziale
cui questo Collegio aderisce in merito, citandosi per tutte
TAR Brescia sez. I 22.02.2010 n. 860. In tal senso, il
Collegio ritiene che il potere di applicare misure
repressive in materia urbanistica ed edilizia può essere
esercitato in ogni tempo, senza necessità, per i relativi
provvedimenti, di alcuna specifica motivazione in ordine
alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre una
demolizione; in senso conforme si sono espresse anche
numerose decisioni del C.d.S., ad esempio sez. IV, 15.09.2009 n. 5509, che si cita per tutte.
Il Collegio non ignora l’esistenza di un orientamento
difforme, espresso ad esempio da C.d.S. sez. V 04.03.2008
n. 883, secondo il quale invece “il lungo lasso di tempo
trascorso dalla commissione dell'abuso” e “il protrarsi
dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza”
potrebbero ingenerare un affidamento del privato, rispetto
al quale sussisterebbe un “onere di congrua motivazione”
circa il “pubblico interesse, evidentemente diverso da
quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare
il sacrificio del contrapposto interesse privato”; ritiene
però che tale orientamento non vada condiviso.
In proposito, il Collegio condivide il rilievo fatto
proprio dalla citata decisione C.d.S. 5509/2009, ovvero che
di affidamento si può parlare solo ove il privato, il quale
abbia correttamente e in modo compiuto reso nota la propria
posizione alla p.a., venga indotto da un provvedimento della
stessa a ritenere la legittimità del proprio operato, non
già nel caso che rileva, in cui si commette un abuso a tutta
insaputa della p.a. medesima. Inoltre, come osservato dalla
Sezione nella pure citata sentenza 860/2010, l’abuso
edilizio integra un illecito permanente, rappresentato dalla
violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di
ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi; di talché
ogni provvedimento repressivo dell’amministrazione non è
emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito,
ma interviene su una situazione antigiuridica che perdura
sino a quel momento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 07.02.2014 n. 135 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se il comune reprime un abuso edilizio ed il
proprietario lo contesta limitandosi alla apodittica
asserzione che l'intervento è avvenuto ex ante 1967, e
quindi non soggetto ad alcuno titolo edilizio abilitativo,
ciò non è sufficiente poiché è sul ricorrente che incombe
l'onere di fornire un principio di prova.
Parimenti
infondato è il secondo motivo, per cui la costruzione
ritenuta abusiva sarebbe in realtà la mera ristrutturazione
di un manufatto preesistente al 1967, e quindi non soggetto
a titolo alcuno.
Di ciò infatti le ricorrenti –sulle quali
incombeva l’onere relativo, così come ritenuto da costante
giurisprudenza, per tutte C.d.S. sez. VI 05.08.2013
n. 4075- non hanno fornito neppure un principio di prova,
limitandosi alla relativa apodittica asserzione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 07.02.2014 n. 135 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La domanda di accesso
è infondata, siccome in contrasto con la previsione
dell’articolo 22, comma 4, della legge n. 241del 1990, come
sostituito dall’articolo 15 della legge n. 15 del 2005 (in
forza del quale “Non sono accessibili le informazioni in
possesso di una pubblica amministrazione che non abbiano
forma di documento amministrativo, salvo quanto previsto dal
decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, in materia di
accesso a dati personali da parte della persona cui i dati
si riferiscono”), ove abbia a riferimento non già documenti,
intesi come forma del contenuto di atti amministrativi già
formati (art. 22, comma 1, lettera d), l. n. 241/1990),
bensì l’acquisizione di informazioni che la stessa
amministrazione dovrebbe appositamente raccogliere,
compilare ed esporre in atti e documenti esclusivamente
formati allo scopo.
Ancora, è stato affermato che "l'azione per l'accesso agli
atti ha ad oggetto la visione ed estrazione di copia di
documenti in possesso dell'Amministrazione, mentre non
rientra nel suo ambito la pretesa alla formazione di nuovi
atti, anche meramente ricognitivi”.
---------------
La peculiarità
del rito dell’accesso, che “affida al giudice il potere di
ordinare l’esibizione dei documenti…….. dettando, ove
occorra, le relative modalità”, rende più stringente l’onere
di una indicazione puntuale dei documenti cui si chiede di
accedere -anche ove non se ne conoscano gli estremi, ma
quali, se di formazione pubblica e, nel caso, a natura
endoprocedimentale, avrebbero a dover essere stati formati
ai sensi di legge- a che prima l’amministrazione nella sede
amministrativa e quindi il giudice in quella processuale
siano posti in grado di effettuare le dovute valutazioni in
ordine ad ammissibilità e fondatezza della pretesa ed all’ostensibilità
(in tutto o in parte) degli atti, oltre che, previamente,
all’esistenza di eventuali soggetti controinteressati da
ammettere a partecipare al procedimento, ovvero a dover
esser stati intimati nel processo.
In ogni caso, ed al di là dei profili formali,
il Collegio non può che fare applicazione della risalente e
condivisa giurisprudenza secondo cui la “domanda di accesso
è infondata, siccome in contrasto con la previsione
dell’articolo 22, comma 4, della legge n. 241del 1990, come
sostituito dall’articolo 15 della legge n. 15 del 2005 (in
forza del quale “Non sono accessibili le informazioni in
possesso di una pubblica amministrazione che non abbiano
forma di documento amministrativo, salvo quanto previsto dal
decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, in materia di
accesso a dati personali da parte della persona cui i dati
si riferiscono”), ove abbia a riferimento non già documenti,
intesi come forma del contenuto di atti amministrativi già
formati (art. 22, comma 1, lettera d), l. n. 241/1990),
bensì l’acquisizione di informazioni che la stessa
amministrazione dovrebbe appositamente raccogliere,
compilare ed esporre in atti e documenti esclusivamente
formati allo scopo” (Tar Campania, sezione quinta, sentenza
n. 6801 del 2006), ossia, negli stessi sensi, secondo cui
“l'azione per l'accesso agli atti ha ad oggetto la visione
ed estrazione di copia di documenti in possesso
dell'Amministrazione, mentre non rientra nel suo ambito la
pretesa alla formazione di nuovi atti, anche meramente
ricognitivi” (Cons. Stato, sezione sesta, 17.01.2008,
n. 82, sezione quinta, sentenza 27.05.2011, n. 3190 e 27.09.2004, n. 6326; Tar Campania, questa sesta sezione,
n. 3137 del 03.07.2012).
Del resto, osserva ancora il Collegio, alcun dubbio sussiste
sulla natura dell’interesse: a che il procedimento si
concluda, ed alcun dubbio sussiste sul dato che il rimedio
specifico previsto per costringere l’amministrazione ad
addivenirvi ben consente, nell’ambito della dialettica
processuale, di esser portati a compiuta conoscenza sia
dello stato del procedimento che degli atti istruttori già
formati, ovvero di quanta documentazione contenuta “nella
pratica” e funzionale al soddisfacimento dell’interesse
sostanziale che si intende perseguire.
Tanto, nella definitiva precisazione che la peculiarità
del rito dell’accesso, che “affida al giudice il potere di
ordinare l’esibizione dei documenti…….. dettando, ove
occorra, le relative modalità” (cfr., ex multis, Tar
Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 3892 del 25.07.2013, n. 3505 del
04.07.2013, n. 5453 del 22.11.2011 e n. 26573 del 02.12.2010), rende più
stringente l’onere di una indicazione puntuale dei documenti
cui si chiede di accedere -anche ove non se ne conoscano gli
estremi, ma quali, se di formazione pubblica e, nel caso, a
natura endoprocedimentale, avrebbero a dover essere stati
formati ai sensi di legge- a che prima l’amministrazione
nella sede amministrativa e quindi il giudice in quella
processuale siano posti in grado di effettuare le dovute
valutazioni in ordine ad ammissibilità e fondatezza della
pretesa ed all’ostensibilità (in tutto o in parte) degli
atti, oltre che, previamente, all’esistenza di eventuali
soggetti controinteressati da ammettere a partecipare al
procedimento, ovvero a dover esser stati intimati nel
processo
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 833 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il giudizio sul diritto
di accesso non esime da una valutazione circa l'esistenza di
una posizione pur sempre differenziata in capo al
richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza
ed attualità, un interesse conoscitivo.
In altri termini, essere titolare di una situazione
giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché
l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto,
concreto e attuale", essendo anche necessario che la
documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a
quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il
soddisfacimento.
--------------
L'ordinamento prevede che l'esibizione dei documenti sia
strumentale alla tutela di un interesse concreto e
meritevole di tutela e la necessità di un collegamento
specifico e concreto con un interesse rilevante impedisce
che l'accesso possa essere utilizzato per conseguire
improprie finalità di controllo generalizzato sulla
legittimità degli atti della P.A.
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti
amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa
dimostrare che il provvedimento o gli atti
endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a
dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi
confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere
esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una
lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo
invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio
e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e
a partecipare alla formazione di quelli successivi.
Il rapporto di strumentalità sopra evidenziato deve, poi,
apparire dalla motivazione enunciata nella richiesta di
accesso, che non può quindi ridursi al richiamo a mere e
generiche esigenze difensive, ma deve fornire la prova
dell'esistenza di un puntuale interesse alla conoscenza
della documentazione stessa e della correlazione logico
funzionale intercorrente fra la cognizione degli atti e la
tutela della posizione giuridica del soggetto che esercita
il diritto, permettendo di capire la coerenza di tale
interesse con gli scopi alla cui realizzazione il diritto di
accesso è preordinato.
---------------
sussiste il diritto dell'organizzazione sindacale ad
esercitare il diritto di accesso per la cognizione di
documenti che possano coinvolgere sia le prerogative del
Sindacato quale istituzione esponenziale di una determinata
categoria di lavoratori, sia le posizioni di lavoro di
singoli iscritti nel cui interesse e rappresentanza opera
l'Associazione.
Rileva, infatti, un duplice profilo di legittimazione che
consente di azionare il diritto di accesso da parte delle
Organizzazioni Sindacali sia iure proprio, sia a tutela di
interessi giuridicamente rilevati della categoria
rappresentata, purché tale pretesa non si traduca in un
controllo generalizzato sull'attività della P.A., ovvero si
riferisca ad ambiti del tutto diversi dal rapporto di lavoro
o trovi innanzi a sé posizioni particolarmente tutelate per
ragioni di riservatezza.
Vale, anzitutto, richiamare la cornice giuridica
di riferimento che, in subiecta materia, consente di perimetrare l’ambito di possibile esplicazione del diritto
qui azionato, viepiù nei casi in cui ricorrente è una sigla
sindacale.
A tali fini, e secondo un indirizzo già espresso da questa
Sezione (cfr. n. 4690 del 21.11.2012), deve preliminarmente
evidenziarsi che il giudizio sul diritto di accesso non
esime da una valutazione circa l'esistenza di una posizione
pur sempre differenziata in capo al richiedente, cui deve
correlarsi, in termini di concretezza ed attualità, un
interesse conoscitivo (cfr. da ultimo Cons. St. Ad. Plen.
7/2012).
In altri termini, essere titolare di una situazione
giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché
l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto,
concreto e attuale", essendo anche necessario che la
documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a
quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il
soddisfacimento.
--------------
L'ordinamento prevede, infatti, che l'esibizione dei
documenti sia strumentale alla tutela di un interesse
concreto e meritevole di tutela e la necessità di un
collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante
impedisce che l'accesso possa essere utilizzato per
conseguire improprie finalità di controllo generalizzato
sulla legittimità degli atti della P.A.
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti
amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa
dimostrare che il provvedimento o gli atti
endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a
dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi
confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere
esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una
lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo
invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio
e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e
a partecipare alla formazione di quelli successivi (cfr.
TAR Roma Lazio sez. II, 01.12.2011, n. 9461).
Il rapporto di strumentalità sopra evidenziato deve, poi,
apparire dalla motivazione enunciata nella richiesta di
accesso, che non può quindi ridursi al richiamo a mere e
generiche esigenze difensive, ma deve fornire la prova
dell'esistenza di un puntuale interesse alla conoscenza
della documentazione stessa e della correlazione logico
funzionale intercorrente fra la cognizione degli atti e la
tutela della posizione giuridica del soggetto che esercita
il diritto, permettendo di capire la coerenza di tale
interesse con gli scopi alla cui realizzazione il diritto di
accesso è preordinato.
Orbene, ritiene il collegio che l’istanza di ostensione
azionata dalla ricorrente si dispieghi, nei limiti di
seguito evidenziati, in perfetta coerenza con i suddetti
postulati: ed, invero, è ius receptum in giurisprudenza (si
veda, ad esempio C.S. n. 1034/2012 e n. 1351/2009) il principio
secondo cui sussiste il diritto dell'organizzazione
sindacale ad esercitare il diritto di accesso per la
cognizione di documenti che possano coinvolgere sia le
prerogative del Sindacato quale istituzione esponenziale di
una determinata categoria di lavoratori, sia le posizioni di
lavoro di singoli iscritti nel cui interesse e
rappresentanza opera l'Associazione. Rileva, infatti, un
duplice profilo di legittimazione che consente di azionare
il diritto di accesso da parte delle Organizzazioni
Sindacali sia iure proprio, sia a tutela di interessi
giuridicamente rilevati della categoria rappresentata,
purché tale pretesa non si traduca in un controllo
generalizzato sull'attività della P.A., ovvero si riferisca
ad ambiti del tutto diversi dal rapporto di lavoro o trovi
innanzi a sé posizioni particolarmente tutelate per ragioni
di riservatezza (si veda, ad esempio: C.S. n. 24/2010 e TAR
Trentino - Alto Adige, Trento n. 249/2009)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 826 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di ordine di demolizione di un abuso
edilizio, non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato.
Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile
per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento
qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il
contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato.
---------------
L'art. 27 del d.p.r. 380/2001)
sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di
nuove opere in zone vincolate e siffatta misura, in ragione
dello stesso chiaro valore semantico delle proposizioni
letterali all’uopo utilizzate dal legislatore (..”quando
accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza
titolo su aree assoggettate”..), resta applicabile sia che
venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di
interventi abusivi.
Del pari, la disposizione di cui all’articolo 27 cit. non
vede la sua efficacia limitata alle sole zone di
inedificabilità assoluta non trovando la diversa
interpretazione accreditata dal ricorrente alcun riscontro
nella norma ed essendo contraria alla stessa "ratio legis".
Segnatamente, la diversa opzione ermeneutica, che muove
dalla previsione di un vincolo di inedificabilità assoluta,
comporta un ingiustificato restringimento dei poteri di
vigilanza attribuiti al Comune ponendosi in chiara distonia
con la finalità perseguita dal legislatore di attribuire,
laddove si tratti di aree meritevoli di una particolare e
rafforzata tutela, all'Amministrazione il potere-dovere di
ripristinare senza indugio la legalità violata, non operando
distinzioni in relazione alla natura assoluta o relativa del
vincolo.
D'altro canto, tale interpretazione è confermata anche dal
fatto che il comma 2, parte prima, dell'art. 27 cit. si
limita a menzionare senza distinzione di sorta il
presupposto del "vincolo di inedificabilità", mentre solo
nell'ultima parte contiene un espresso riferimento al
"vincolo di inedificabilità assoluta" a proposito dei poteri
del Soprintendente di procedere alla demolizione.
---------------
L’applicazione della sanzione demolitoria ai sensi dell’art.
27 D.P.R. 380/2001 sarebbe, comunque, doverosa, essendo,
peraltro, incontestato che gli interventi edilizi sanzionati
non risultano supportati neppure da una D.I.A., così come
del tutto sprovvisti della autorizzazione paesistica.
Si osserva, in proposito, in aderenza ad un indirizzo
giurisprudenziale più volte affermato da questa Sezione, che
l’articolo 27 cit. non distingue tra opere per cui è
necessario il permesso di costruire e quelle per cui sarebbe
necessaria la semplice D.I.A. in quanto impone di adottare
un provvedimento di demolizione per tutte le opere che
siano, comunque, costruite senza titolo in aree sottoposte a
vincolo paesistico.
---------------
La realizzazione dell’opera in contestazione, in mancanza
dei prescritti titoli abilitativi, di per sé stessa, fonda
la reazione repressiva dell’organo di vigilanza.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è
spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che
l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione
della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il
quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua
rimozione.
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è,
poi, ‘in re ipsa’ anche perché la straordinaria importanza
della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali
elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa
non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque
che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere
realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e
non essendo rilasciabile a posteriori l'autorizzazione
paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola
sanzione pecuniaria.
D’altro canto, è ius receptum in giurisprudenza il principio
secondo cui, una volta accertata l'esecuzione di opere in
assenza di concessione ovvero in difformità totale dal
titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune
verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza
sull'attività edilizia: l’atto può ritenersi
sufficientemente motivato per effetto della stessa
descrizione dell’abuso.
Il ricorso è infondato e, pertanto, va
respinto.
Giusta quanto anticipato nella premessa in fatto, il
presente giudizio verte sulla legittimità dell’ordine di
demolizione spedito dal Comune di Bacoli a fronte
dell’abusiva realizzazione sul piano di copertura di un
preesistente edificio di “un terrazzo di mq. 35,00, di
altezza di mt. 3,00, delimitato da parapetto alto mt. 1,00 e
completo di pavimentazione con copertura in telaio di
scatolari in ferro e tegole rosse. Sul lato est n. 2 vani, di
cui uno di mq. 15,00 ed alto mt. 3,00 adibito a wc e vano
lavanderia; l’altro vano è di mq. 10,00 alto mt 2,50.
Antistante detto vano è stato realizzato un massetto
calcestruzzo di mq. 10,00...”.
Nel procedimento delibativo che questo Tribunale è chiamato
a svolgere, assume priorità logica l’esame delle censure che
investono la legalità estrinseca dell’atto impugnato, vale a
dire l’osservanza degli obblighi procedurali, nonché la
ricorrenza di quei requisiti di affidabilità formale, la cui
esistenza condiziona, in via pregiudiziale, il corretto
approccio –in sede di sindacato giurisdizionale- ai
profili di contenuto delle determinazioni assunte
dall’Amministrazione.
Nella suddetta prospettiva, vanno disattese le doglianze con
cui la parte ricorrente lamenta la violazione delle garanzie
di partecipazione al procedimento, la cui cura è imposta
all’Autorità procedente dall’art. 7 della legge 241/1990
ovvero, nei procedimenti ad istanza di parte, anche
dall’art. 10-bis della medesima legge.
L’infondatezza delle censure in esame discende, invero, come
già ripetutamente affermato dalla Sezione (cfr., tra le
tante, sentenze n. 1847 del 30.03.2011 e n. 8776 del 25.05.2010) e dal giudice d’appello (cfr. Cons. Stato,
sezione quarta, 05.03.2010, n. 1277), dalla ineluttabilità
della sanzione repressiva comminata dal Comune di Bacoli,
anche a cagione dell’assenza –come di seguito meglio
evidenziato- di specifici e rilevanti profili di
contestazione in ordine ai presupposti di fatto e di diritto
che ne costituiscono il fondamento giustificativo, sicché
alcuna alternativa sul piano decisionale si poneva
all’Amministrazione procedente.
Dirimente in senso ostativo alle pretese attoree, peraltro,
appaiono le previsioni di cui all’art. 21-octies della legge
241/1990, secondo cui “non è annullabile il provvedimento
adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque
annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del
procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio
che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso da quello in concreto adottato”.
Alcun pregio hanno, poi, le ulteriori censure con cui parte
ricorrente deduce che non sussisterebbero i presupposti di
cui all’articolo 27 del d.p.r. 380/2001, in quanto il
provvedimento impugnato, ancorché emesso il 12.09.2006,
risulta notificato solo il 04.09.2009 ed, inoltre, le opere
non erano allo stadio iniziale, ma già da tempo ultimate.
La piana lettura della norma suindicata non evidenzia,
infatti, rigide scadenze temporali entro cui esercitare, a
pena di perenzione, l’esercizio del potere repressivo qui in
rilievo, da intendersi, pertanto, inesauribile siccome
connesso alla doverosa e permanente cura dell’interesse
pubblico presidiato.
Né può essere condivisa la lettura offerta nell’atto di
gravame secondo cui l’applicazione della misura
ripristinatoria in argomento potrebbe avere luogo nei soli
casi di opere abusive alla stadio iniziale.
Ed invero, la disciplina di settore in esame (id est art. 27
del d.p.r. 380/2001) sanziona con la demolizione la
realizzazione senza titolo di nuove opere in zone vincolate
e siffatta misura, in ragione dello stesso chiaro valore
semantico delle proposizioni letterali all’uopo utilizzate
dal legislatore (..”quando accerti l'inizio o l'esecuzione
di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate”..),
resta applicabile sia che venga accertato l'inizio che
l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi.
Del pari, la disposizione di cui all’articolo 27 cit. non
vede la sua efficacia limitata alle sole zone di
inedificabilità assoluta (Tar Campania, questa sesta
sezione, sentenze n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del 07.04.2010 e sezione terza, 11.03.2009, n. 1376) non
trovando la diversa interpretazione accreditata dal
ricorrente alcun riscontro nella norma ed essendo contraria
alla stessa "ratio legis".
Segnatamente, la diversa opzione ermeneutica, che muove
dalla previsione di un vincolo di inedificabilità assoluta,
comporta un ingiustificato restringimento dei poteri di
vigilanza attribuiti al Comune ponendosi in chiara distonia
con la finalità perseguita dal legislatore di attribuire,
laddove si tratti di aree meritevoli di una particolare e
rafforzata tutela, all'Amministrazione il potere-dovere di
ripristinare senza indugio la legalità violata, non operando
distinzioni in relazione alla natura assoluta o relativa del
vincolo (cfr. TAR Napoli Campania sez. II, 23.06.2010 n. 15729; TAR Campania Napoli, sez. IV, 12.04.2005, n. 3780).
D'altro canto, tale interpretazione è confermata anche dal
fatto che il comma 2, parte prima, dell'art. 27 cit. si
limita a menzionare senza distinzione di sorta il
presupposto del "vincolo di inedificabilità", mentre solo
nell'ultima parte contiene un espresso riferimento al
"vincolo di inedificabilità assoluta" a proposito dei poteri
del Soprintendente di procedere alla demolizione.
Analoga statuizione reiettiva s’impone rispetto alle
doglianze che impingono, mediante argomentazioni generiche,
nell’inadeguatezza dell’istruttoria condotta dal Comune di
Bacoli ovvero nell’insufficienza del corredo motivazionale
dell’atto impugnato.
Sul punto, è sufficiente osservare che alcun dubbio residua
sulla completezza delle risultanze istruttorie acquisite dal
mentovato Comune attraverso i propri organi, di cui vi è
indiretta conferma nella stessa mancanza di una
contestazione, in fatto, sulla natura degli abusi accertati.
La puntuale descrizione delle opere abusive sanzionate
riflette con assoluta evidenza la rilevanza edilizia dei
contestati abusi, fatta palese dalla chiara attitudine dei
suddetti interventi a dar vita a manufatti nuovi che, per
tipologia e consistenza, ed implicando incrementi di
superfici e volumi, generano un significativo impatto sul
territorio con conseguente alterazione (anche della
proiezione esterna) dell’originario stato dei luoghi.
Giova, infatti, ribadire che le risultanze istruttorie
lasciano emergere la realizzazione, da intendersi abusiva in
quanto non supportata dal prescritto titolo abilitativo, di
“un terrazzo di mq. 35,00, di altezza di mt. 3,00,
delimitato da parapetto alto mt. 1,00 e completo di
pavimentazione con copertura in telaio di scatolari in ferro
e tegole rosse. Sul lato est n. 2 vani, di cui uno di mq.
15,00 ed alto mt. 3,00 adibito a wc e vano lavanderia;
l’altro vano è di mq. 10,00 alto mt 2,50. Antistante detto
vano è stato realizzato un massetto calcestruzzo di mq.
10,00...”.
In siffatta evenienza, non può essere revocato in dubbio il
fatto che l'intervento ricada in zona assoggettata a vicolo
paesaggistico, in considerazione -giusta quanto si evince
dal preambolo dell’atto impugnato– della sua realizzazione
in un'area dichiarata di notevole interesse pubblico con d.m. 15.12.1959 e, pertanto, soggetta alle previsioni di cui
al d. l.vo 22.01.2004, n. 42.
In ragione di quanto detto, stante l'evidenziata alterazione
dell'aspetto esteriore dei luoghi, l’intervento in
questione, per il solo fatto di insistere in zona vincolata,
risultava soggetto alla previa acquisizione
dell'autorizzazione paesaggistica (titolo autonomo non
conseguibile a sanatoria ex combinato disposto fra art. 146
e successivo art. 167, commi 4 e 5 del medesimo decreto, che
esclude sanatorie per interventi non qualificabili come
manutentivi o che abbiano determinato la creazione di
superfici utili o volumi; Tar Campania, questa sesta
sezione, sentenza n. 1973 del 14.04.2010).
Sotto diverso profilo, e cioè dal punto di vista edilizio,
la consistenza delle opere realizzate, comportanti aumenti
di superfici e di volumi e mutamento della destinazione
d’uso, riflettono con assoluta evidenza la sussistenza del
contestato abuso che imponeva il previo rilascio (oltre che
dell’autorizzazione paesistica anche) del permesso di
costruire.
Peraltro, e per mera completezza espositiva, deve rilevarsi
che, contrariamente a quanto dedotto nel gravame, non rileva
se le opere potessero o meno essere assentite in virtù della
presentazione di una mera D.I.A.
Infatti, quand’anche si ritenessero tali le opere qui
sanzionate, quod non, va detto che l’applicazione della
sanzione demolitoria ai sensi dell’art. 27 D.P.R. 380/2001
sarebbe, comunque, doverosa, essendo, peraltro, incontestato
che gli interventi edilizi sanzionati non risultano
supportati neppure da una D.I.A., così come del tutto
sprovvisti della autorizzazione paesistica. Si osserva, in
proposito, in aderenza ad un indirizzo giurisprudenziale più
volte affermato da questa Sezione, che l’articolo 27 cit.
non distingue tra opere per cui è necessario il permesso di
costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la semplice
D.I.A. in quanto impone di adottare un provvedimento di
demolizione per tutte le opere che siano, comunque,
costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo
paesistico (cfr. Tar Campania, Sez. VI, n. 5516 del
04/12/2013; 5519 del 04.12.2013; Tar Campania, IV Sezione 05.06.2013 n. 2898).
---------------
Sulla scorta delle divisate risultanze istruttorie si rivela
immune dalle censure attoree l’ordito motivazionale in cui
impinge il provvedimento impugnato, manifestamente idoneo ad
evidenziare la consistenza degli abusi in contestazione.
La stessa realizzazione dell’opera in contestazione, in
mancanza dei prescritti titoli abilitativi, di per sé
stessa, fondava la reazione repressiva dell’organo di
vigilanza.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è
spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che
l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione
della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il
quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione
(cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n.
17240).
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è,
poi, ‘in re ipsa’ anche perché la straordinaria importanza
della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali
elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa
non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque
che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere
realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e
non essendo rilasciabile a posteriori l'autorizzazione
paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola
sanzione pecuniaria (Tar Campania Napoli, sempre questa
sesta sezione, 14.04.2010, n. 1975).
D’altro canto, è ius receptum in giurisprudenza il principio
secondo cui, una volta accertata l'esecuzione di opere in
assenza di concessione ovvero in difformità totale dal
titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune
verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza
sull'attività edilizia (TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5556; TAR Lazio, sez. II-ter, 21.06.1999, n. 1540): l’atto può ritenersi sufficientemente
motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso
accertato, presupposto giustificativo necessario e
sufficiente a fondare la spedizione della misura
sanzionatoria
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 825 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di pertinenza in ambito edilizio ha un
significato più circoscritto, e si fonda non solo sulla
mancanza di autonoma utilizzazione e di autonomo valore del
manufatto, ma anche sulle ridotte dimensioni dello stesso,
tali da non alterare in modo significativo l'assetto del
territorio o incidere sul carico urbanistico.
D’altra parte, l’affermata natura pertinenziale delle opere
in contestazione nemmeno può essere invocata, con la pretesa
automaticità, per elidere il potere repressivo
dell’Amministrazione intimata. I beni che hanno
civilisticamente natura pertinenziale, invero, non sono
necessariamente tali ai fini dell'applicazione delle regole
proprie dell'attività edilizia.
In altri termini, la nozione di pertinenza in ambito
edilizio ha un significato più circoscritto, e si fonda non
solo sulla mancanza di autonoma utilizzazione e di autonomo
valore del manufatto, ma anche sulle ridotte dimensioni
dello stesso, tali da non alterare in modo significativo
l'assetto del territorio o incidere sul carico urbanistico,
caratteristiche queste qui smentite –per le ragioni
suddette– dalle risultanze istruttorie e la cui sussistenza
deve essere peraltro dimostrata dall'interessato (cfr.
Consiglio di Stato sez. V, n. 4997 del 14.10.2013;
Cons. Stato, Sez. V, 11.06.2013 n. 3221)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 825 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel vagliare un intervento edilizio consistente
in una pluralità di opere deve effettuarsi una valutazione
globale delle stesse, atteso che "la considerazione
atomistica dei singoli interventi non consente di
comprendere l'effettiva portata dell'operazione".
Alcun pregio hanno, poi, le ulteriori
censure con cui parte ricorrente, mediante argomentazioni
generiche ovvero inconferenti, lamenta l’inadeguatezza
dell’istruttoria condotta dal Comune di Serrara Fontana e
l’insufficienza del corredo motivazionale dell’atto
impugnato.
La puntuale descrizione degli interventi abusivi eseguiti –che hanno portato alla realizzazione di un insieme
sistematico di opere- riflette con assoluta evidenza la
rilevanza edilizia dei contestati abusi, fatta palese dalla
chiara attitudine degli interventi sopra descritti a
determinare, nel loro insieme, l’alterazione dell’originario
stato dei luoghi, di talché la misura sanzionatoria
applicata, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente,
si rivela del tutto proporzionata alla natura ed alla
consistenza degli abusi accertati.
Sul punto deve, anzitutto, rilevarsi che il costrutto
giuridico attoreo prende abbrivio da un’erronea premessa
metodologica, caratterizzata dall’impropria atomizzazione
degli interventi eseguiti, ciascuno dei quali risulta
analizzato singolarmente, nonostante la chiara appartenenza
ad un medesimo programma edificatorio.
In tal modo, però, è rimasta completamente obliterata quella
necessaria visione di insieme che rappresenta una condizione
irrinunciabile per la corretta stima dell’impatto delle
opere edilizie sul territorio.
Nel vagliare un intervento edilizio consistente in una
pluralità di opere, come qui accaduto, deve piuttosto
effettuarsi una valutazione globale delle stesse, atteso che
"la considerazione atomistica dei singoli interventi non
consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione"
(cfr. in tali sensi, TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.12.2010, n. 26787; Tar Campania, Napoli, sezione
sesta, 16.04.2010, n. 1993; 25.02.2010, n. 1155; 09.11.2009, n. 7053; Tar Lombardia, Milano, sezione
seconda, 11.03.2010, n. 584)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’articolo 27 dpr 380/2001 non distingue tra
opere per cui è necessario il permesso di costruire e quelle
per cui sarebbe necessaria la semplice D.I.A. in quanto
impone di adottare un provvedimento di demolizione per tutte
le opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree
sottoposte a vincolo paesistico.
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Deve rilevarsi che l’epoca remota di realizzazione
dell’opera abusiva non può determinare, con la pretesa
automaticità, l’invalidazione dell’applicata misura
ripristinatoria.
L’aspetto temporale assume, invero, una valenza neutra ove
la parte interessata non dimostri che l’edificazione sia
avvenuta in epoca in cui non era prescritto il necessario
titolo abilitativo (come ad esempio per le opere realizzate
antecedente al 1967 al di fuori dei centri abitati, con
riferimento al profilo urbanistico,nonché anteriormente
all’imposizione del vincolo paesaggistica, in relazione
all’aspetto paesaggistico).
Vale, infatti, anche in subiecta materia il principio
dell'inesauribilità del potere, di talché il comportamento
illecito dei privati resta sempre sanzionabile.
Né il fattore tempo in sé può aggravare l’onere di
motivazione: l'ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato e non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e
l'interessato non può dolersi del fatto che
l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi.
Del pari,
sotto diverso profilo, l’attitudine delle opere eseguite a
determinare un’oggettiva alterazione del pregresso stato dei
luoghi è, di per se stessa, idonea a reggere la comminata
sanzione della demolizione.
Non rileva, infatti, se le opere potessero o meno essere
assentite in virtù della presentazione di una mera D.I.A.
Infatti, quand’anche si ritenessero tali le opere qui
sanzionate, va detto che l’applicazione della sanzione
demolitoria ai sensi dell’art. 27 D.P.R. 380/2001 sarebbe,
comunque, doverosa, essendo, peraltro, incontestato che gli
interventi edilizi sanzionati non risultano supportati
neppure da una D.I.A., così come del tutto sprovvisti della
autorizzazione paesistica. Si osserva, in proposito, in
aderenza ad un indirizzo giurisprudenziale più volte
affermato da questa Sezione, che l’articolo 27 cit. non
distingue tra opere per cui è necessario il permesso di
costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la semplice
D.I.A. in quanto impone di adottare un provvedimento di
demolizione per tutte le opere che siano, comunque,
costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo
paesistico (cfr. Tar Campania, Sez. VI, n. 5516 del
04/12/2013; 5519 del 04.12.2013; Tar Campania, IV Sezione 05.06.2013 n. 2898).
Né assumono rilievo le argomentazioni difensive secondo cui
alcune delle opere in contestazione sarebbero risalenti
(parapetti, balaustra, pavimentazione del lastrico solare)
ovvero risulterebbero realizzate (scala, parapetti) in
sostituzione di opere preesistenti e fatte successivamente
oggetto di manutenzione straordinaria.
Anche a voler accedere alla ricostruzione offerta dai
ricorrenti deve, però, rilevarsi che l’epoca remota di
realizzazione dell’opera abusiva non può determinare, con la
pretesa automaticità, l’invalidazione dell’applicata misura
ripristinatoria.
L’aspetto temporale assume, invero, una valenza neutra ove
la parte interessata non dimostri che l’edificazione sia
avvenuta in epoca in cui non era prescritto il necessario
titolo abilitativo (come ad esempio per le opere realizzate
antecedente al 1967 al di fuori dei centri abitati, con
riferimento al profilo urbanistico,nonché anteriormente
all’imposizione del vincolo paesaggistica, in relazione
all’aspetto paesaggistico).
Vale, infatti, anche in subiecta materia il principio
dell'inesauribilità del potere, di talché il comportamento
illecito dei privati resta sempre sanzionabile (cfr.
Consiglio di Stato sez. IV, 04.05.2012 n. 2592).
Né il fattore tempo in sé può aggravare l’onere di
motivazione: l'ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato e non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un
affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione
di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e
l'interessato non può dolersi del fatto che
l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n.
2781; C.d.S., VI, 05.04.2012, n. 2038).
Parimenti deve rilevarsi, quanto alle opere (che si assume)
edificate in sostituzione di altre, che anche tali
interventi di sostituzione avrebbero dovuto essere
preventivamente assentiti. Senza contare che, comunque, non
risulta in alcun modo dimostrata la legittima edificazione
dell’opera originaria, poi asseritamente sostituita (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli ulteriori interventi abusivi qui in rilievo
–che riflettono una chiara valenza innovativa e, pertanto,
non possono ritenersi dettati da esigenze di stretta
conservazione del manufatto preesistente– ripetono, secondo
un indirizzo già espresso dalla Sezione, le caratteristiche
di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono
strutturalmente.
Sicché non può ammettersi "la prosecuzione dei lavori
abusivi a completamento di opere che, fino al momento di
eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive", con
conseguente "obbligo del comune di ordinarne la
demolizione".
È consolidato, in proposito, l'orientamento della Sezione
che vieta qualsivoglia opera accessiva o in prosecuzione di
altre per cui sia stato chiesto il condono al di fuori della
procedura di cui all'art. 35, co. 13, della L. 47/1985.
Vale, inoltre,
aggiungere che "gli ulteriori interventi abusivi qui in
rilievo –che riflettono una chiara valenza innovativa e,
pertanto, non possono ritenersi dettati da esigenze di
stretta conservazione del manufatto preesistente– ripetono,
secondo un indirizzo già espresso dalla Sezione, le
caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla
quale ineriscono strutturalmente" (cfr. Tar Campania,
Napoli, questa sesta sezione, sentenze 05.05.2010, n.
2811, 10.02.2010, n. 847 e 28.01.2010, n. 423;
sezione seconda, 07.11.2008, n. 19372; negli stessi
sensi, Cass. penale, sezione terza, 24.10.2008, n.
45070), sicché non può ammettersi "la prosecuzione dei
lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento
di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive"
(Tar Campania, sempre questa sesta sezione, 05.05.2010,
n. 2811 cit. e 09.03.2006, n. 2834), con conseguente
"obbligo del comune di ordinarne la demolizione".
È consolidato, in proposito, l'orientamento della Sezione
(cfr. tra le tante, da ultimo, TAR Napoli Campania sez. VI n. 4037 dell’01.08.2013) che, in uno con la
giurisprudenza costante, vieta qualsivoglia opera accessiva
o in prosecuzione di altre per cui sia stato chiesto il
condono al di fuori della procedura di cui all'art. 35, co.
13, della L. 47/1985 che giammai è stata attivata nel caso
di specie (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La disciplina di settore
in esame (id est art. 27 del d.p.r. 380/2001) sanziona con
la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere
in zone vincolate e siffatta misura, in ragione dello stesso
chiaro valore semantico delle proposizioni letterali
all’uopo utilizzate dal legislatore (..”quando accerti
l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su
aree assoggettate”..), resta applicabile sia che venga
accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi
abusivi.
Sulla scorta delle divisate risultanze istruttorie si rivela
immune dalle censure attoree l’ordito motivazionale in cui
impinge il provvedimento impugnato, manifestamente idoneo ad
evidenziare la consistenza degli abusi in contestazione.
La stessa realizzazione dell’opera in contestazione, in
mancanza dei prescritti titoli abilitativi, di per se
stessa, fondava la reazione repressiva dell’organo di
vigilanza.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è
spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che
l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione
della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il
quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua
rimozione.
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è,
poi, ‘in re ipsa’ anche perché la straordinaria importanza
della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali
elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa
non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque
che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere
realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e
non essendo rilasciabile a posteriori l'autorizzazione
paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola
sanzione pecuniaria.
D’altro canto, è ius receptum in giurisprudenza il principio
secondo cui, una volta accertata l'esecuzione di opere in
assenza di concessione ovvero in difformità totale dal
titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune
verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza
sull'attività edilizia: l’atto può ritenersi
sufficientemente motivato per effetto della stessa
descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo
necessario e sufficiente a fondare la spedizione della
misura sanzionatoria.
Alcun pregio
hanno, poi, le ulteriori censure con cui parte ricorrente
deduce che non sussisterebbero i presupposti di cui
all’articolo 27 del d.p.r. 380/2001, in quanto le opere
abusive in contestazione non erano allo stadio iniziale, ma
già da tempo ultimate.
Ed invero, la disciplina di settore in esame (id est art. 27
del d.p.r. 380/2001) sanziona con la demolizione la
realizzazione senza titolo di nuove opere in zone vincolate
e siffatta misura, in ragione dello stesso chiaro valore
semantico delle proposizioni letterali all’uopo utilizzate
dal legislatore (..”quando accerti l'inizio o l'esecuzione
di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate”..),
resta applicabile sia che venga accertato l'inizio che
l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi.
Sulla scorta delle divisate risultanze istruttorie si rivela
immune dalle censure attoree l’ordito motivazionale in cui
impinge il provvedimento impugnato, manifestamente idoneo ad
evidenziare la consistenza degli abusi in contestazione.
La stessa realizzazione dell’opera in contestazione, in
mancanza dei prescritti titoli abilitativi, di per se
stessa, fondava la reazione repressiva dell’organo di
vigilanza.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è
spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che
l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione
della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il
quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione
(cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n.
17240).
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è,
poi, ‘in re ipsa’ anche perché la straordinaria importanza
della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali
elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa
non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque
che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere
realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e
non essendo rilasciabile a posteriori l'autorizzazione
paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola
sanzione pecuniaria (Tar Campania Napoli, sempre questa
sesta sezione, 14.04.2010, n. 1975).
D’altro canto, è ius receptum in giurisprudenza il principio
secondo cui, una volta accertata l'esecuzione di opere in
assenza di concessione ovvero in difformità totale dal
titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune
verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza
sull'attività edilizia (TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5556; TAR Lazio, sez. II-ter, 21.06.1999,
n. 1540): l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per
effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato,
presupposto giustificativo necessario e sufficiente a
fondare la spedizione della misura sanzionatoria (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Laddove una
determinazione amministrativa di segno negativo si fondi su
una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali di per sé
idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che
anche una sola di esse resista alle censure mosse in sede
giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso
resti esente dall'annullamento.
Devono,
infatti, ritenersi inammissibili le censure tese a
contestare aspetti ulteriori della motivazione i cui
eventuali vizi non potrebbero determinare l’annullamento del
provvedimento (cfr., ex multis, Consiglio Stato, sez. VI,
29.03.2011, n. 1897, che ribadisce come “laddove una
determinazione amministrativa di segno negativo si fondi su
una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali di per sé
idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che
anche una sola di esse resista alle censure mosse in sede
giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso
resti esente dall'annullamento”) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il verbale di verifica dello stato dei luoghi da
parte della Polizia Municipale ha valore di atto
endoprocedimentale, strumentale alle successive
determinazioni dell'Ente Locale e ha efficacia meramente
dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia
Municipale, alla quale non è attribuita la competenza
all'adozione di atti di amministrazione attiva, all'uopo
occorrendo che la competente autorità amministrativa faccia
proprio l'esito delle predette attraverso un formale atto di
accertamento.
Quanto
all’ulteriore mezzo, recante motivi aggiunti e proposto con
atto del 17.03.2010, lo stesso, siccome articolato avverso il
verbale (rif. 10/LE/09 + 06/09 +05/09 del 22.09.2009) con cui
il locale Comando di Polizia Municipale ha accertato
l’inadempienza al pregresso ordine di demolizione, va
dichiarato inammissibile.
Il verbale di verifica dello stato dei luoghi da parte della
Polizia Municipale ha, infatti, valore di atto
endoprocedimentale, strumentale alle successive
determinazioni dell'Ente Locale e ha efficacia meramente
dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia
Municipale, alla quale non è attribuita la competenza
all'adozione di atti di amministrazione attiva, all'uopo
occorrendo che la competente autorità amministrativa faccia
proprio l'esito delle predette attraverso un formale atto di
accertamento (cfr. ex multis TAR Napoli Campania sez. VIII n. 4481 del 30.09.2013)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La questione della concreta operatività
dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento di
annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, in passato
assai dibattuta nella giurisprudenza amministrativa, è stata
risolta dallo stesso legislatore.
Com’è noto, l'art. 159, comma 2, del d.lgs. 22.01.2004, n.
42, applicabile ratione temporis, stabilisce che
"l'amministrazione competente al rilascio
dell’autorizzazione dà immediata comunicazione alla
soprintendenza delle autorizzazioni rilasciate, trasmettendo
la documentazione prodotta dall’interessato nonché le
risultanze degli accertamenti eventualmente esperiti. La
comunicazione è inviata contestualmente agli interessati,
per i quali costituisce avviso di inizio di procedimento, ai
sensi e per gli effetti della legge 07.08.1990, n. 241.
Nella comunicazione alla soprintendenza l’Autorità
competente al rilascio dell’autorizzazione attesta di avere
eseguito il contestuale invio agli interessati...".
L’indagine sulla legittimità degli atti impugnati deve,
dunque, essere orientata, per quanto concerne la doglianza
in esame, alla stregua delle coordinate segnate dalla
richiamata disciplina, idonea ad accreditarsi, in ossequio
al principio tempus regit actum, quale ineludibile schema di
riferimento per il procedimento in esame.
All’interno della descritta cornice regolatoria l'obbligo di
comunicazione dell’avviso dell'inizio del procedimento è,
dunque, da intendersi assolto nella forma speciale
consistente nella comunicazione agli interessati, a cura
della stessa autorità preposta alla tutela del vincolo,
dell'avvenuta trasmissione alla soprintendenza
dell'autorizzazione rilasciata.
--------------
Il provvedimento di annullamento del nulla osta
paesaggistico rilasciato dal Comune non ha natura di atto
recettizio e, pertanto, il termine perentorio di sessanta
giorni, previsto per l'eventuale annullamento, attiene alla
sua adozione e non anche alla sua comunicazione.
Tanto premesso, e venendo allo scrutinio delle
censure attoree, vanno, anzitutto, disattese le
argomentazioni difensive con cui i ricorrenti lamentano la
violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento.
Al riguardo, mette conto evidenziare che la questione della
concreta operatività dell’obbligo di comunicazione
dell’avvio del procedimento di annullamento
dell’autorizzazione paesaggistica, in passato assai
dibattuta nella giurisprudenza amministrativa, è stata
risolta dallo stesso legislatore.
Com’è noto, l'art. 159, comma 2, del d.lgs. 22.01.2004,
n. 42, applicabile ratione temporis, stabilisce che
"l'amministrazione competente al rilascio
dell’autorizzazione dà immediata comunicazione alla
soprintendenza delle autorizzazioni rilasciate, trasmettendo
la documentazione prodotta dall’interessato nonché le
risultanze degli accertamenti eventualmente esperiti. La
comunicazione è inviata contestualmente agli interessati,
per i quali costituisce avviso di inizio di procedimento, ai
sensi e per gli effetti della legge 07.08.1990, n. 241.
Nella comunicazione alla soprintendenza l’Autorità
competente al rilascio dell’autorizzazione attesta di avere
eseguito il contestuale invio agli interessati...".
L’indagine sulla legittimità degli atti impugnati deve,
dunque, essere orientata, per quanto concerne la doglianza
in esame, alla stregua delle coordinate segnate dalla
richiamata disciplina, idonea ad accreditarsi, in ossequio
al principio tempus regit actum, quale ineludibile schema di
riferimento per il procedimento in esame.
All’interno della descritta cornice regolatoria l'obbligo di
comunicazione dell’avviso dell'inizio del procedimento è,
dunque, da intendersi assolto nella forma speciale
consistente nella comunicazione agli interessati, a cura
della stessa autorità preposta alla tutela del vincolo,
dell'avvenuta trasmissione alla soprintendenza
dell'autorizzazione rilasciata (cfr. cfr. Consiglio di
stato, sez. VI, 01.12.2010 , n. 8379; TAR Campania
Napoli, sez. VII, 07.09.2010, n. 17333; TAR
Campania Salerno, sez. II, 17.01.2011, n. 61; Cons.
Stato, sez. VI, 13.02.2009, n. 771; TAR Lazio, Roma,
sez. II, 28.03.2007, n. 2723; 23.04.2008, n. 3505;
TAR Campania, Salerno, sez. II, 06.11.2008, n. 3702;
Napoli, sez. VIII, 08.07.2009, n. 3820; sez. VII, 06.08.2008, n. 9860; 13.10.2009, n. 5407; sez. II,
08.01.2010, n. 19; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 04.08.2008, n. 847; Brescia, sez. I,
01.12.2009, n. 2376; 08.04.2010, n. 1507; TAR Calabria, Reggio Calabria, sez. I,
22.12.2008, n. 722).
In definitiva, è proprio la puntuale cura degli adempimenti
prescritti dal ridetto art. 159 (stimata dallo stesso
legislatore come equipollente alla comunicazione ex art. 7
della legge n. 241/1990) a far ritenere pienamente assolti,
nel caso in esame, gli obblighi funzionali al rispetto delle
cd. garanzie di partecipazione al procedimento: infatti,
nello stesso preambolo degli atti impugnati (id est decreti
del Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici
per Napoli e Provincia, tutti assunti in data 23.06.2009) si
dà espressamente atto della spedizione alla parte
interessata dell'autorizzazione medio tempore rilasciata,
così come la parte dispositiva delle mentovate
autorizzazioni comunali recano l’ordine di trasmissione
degli atti de quibus anche agli interessati.
In definitiva, può ritenersi pienamente integrato, in
ossequio allo speciale modello di riferimento sopra
descritto, il contraddittorio procedimentale.
---------------
Occorre,
invero, muovere dalla pacifica affermazione
giurisprudenziale (cfr. tra le tante Cons. Stato, VI,
10.12.2010, n. 8704; 09.06.2009, n. 3557; TAR Salerno Sez. II
09/02/2010 n. 1391, e tra le meno recenti cfr. Cons. Stato,
VI, 17.04.1997, n. 609; 25.09.1995, n. 963) secondo cui il
provvedimento di annullamento del nulla osta paesaggistico
rilasciato dal Comune non ha natura di atto recettizio e,
pertanto, il termine perentorio di sessanta giorni, previsto
per l'eventuale annullamento, attiene alla sua adozione e
non anche alla sua comunicazione (TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 823 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le autorizzazioni
comunali che si limitino a rilevare una generica e
apodittica integrazione dell'intervento nel contesto
paesistico ambientale non assolvono nemmeno in minima parte
all'obbligo motivazionale necessario alla legittimità
dell'assenso.
E’ ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui
il Ministero per i beni e le attività culturali può
motivatamente valutare se la gestione del vincolo avviene
con un atto legittimo, rispettoso di tutti i principi, e
annullare l'autorizzazione che risulti illegittima sotto
qualsiasi profilo di eccesso di potere, ma non può
sovrapporre le proprie eventuali difformi valutazioni sulla
modifica dell'area, se l'autorizzazione non risulti viziata.
Questo limite sussiste, però, soltanto se l'ente che
rilascia l'autorizzazione di base abbia adempiuto al suo
obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla
compatibilità paesaggistica dell'opera. In caso contrario
sussiste un vizio di illegittimità per difetto o
insufficienza della motivazione e ben possono gli organi
ministeriali annullare il provvedimento adottato per vizio
di motivazione e indicare le ragioni di merito, sorrette da
un puntuale indicazione degli elementi concreti della
specifica fattispecie, che concludono per la non
compatibilità delle opere edilizie con i valori tutelati.
Ai fini di una
compiuta disamina della questione, occorre aver sempre ben
presente il sistema dei rapporti tra Autorità delegata e
Soprintendenza in materia di gestione del vincolo
paesaggistico.
Ai suddetti fini, è necessario prendere abbrivio dai
requisiti minimi che l’autorizzazione rilasciata in prima
battuta deve necessariamente riflettere per superare il
vaglio di legittimità dinanzi all’organo tutorio.
Ed, invero, dalla motivazione dell'autorizzazione si deve
poter evincere che essa è immune da profili di eccesso di
potere, anche per quanto riguarda l'idoneità
dell'istruttoria, l'apprezzamento di tutte le rilevanti
circostanze di fatto e la non manifesta irragionevolezza
della scelta effettuata.
Di contro, le autorizzazioni comunali, che si limitino a
rilevare una generica e apodittica integrazione
dell'intervento nel contesto paesistico ambientale, non
assolvono nemmeno in minima parte all'obbligo motivazionale
necessario alla legittimità dell'assenso (cfr. ex multis
Consiglio Stato , sez. VI, 09.12.2010 n. 8645).
E’ ius receptum in giurisprudenza (v. per tutte Cons. Stato,
Ad. plen., 14.12.2001, n. 9) il principio secondo cui
il Ministero per i beni e le attività culturali può
motivatamente valutare se la gestione del vincolo avviene
con un atto legittimo, rispettoso di tutti i principi, e
annullare l'autorizzazione che risulti illegittima sotto
qualsiasi profilo di eccesso di potere, ma non può
sovrapporre le proprie eventuali difformi valutazioni sulla
modifica dell'area, se l'autorizzazione non risulti viziata.
Questo limite sussiste, però, soltanto se l'ente che
rilascia l'autorizzazione di base abbia adempiuto al suo
obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla
compatibilità paesaggistica dell'opera. In caso contrario
sussiste un vizio di illegittimità per difetto o
insufficienza della motivazione e ben possono gli organi
ministeriali annullare il provvedimento adottato per vizio
di motivazione e indicare -anche per evidenziare l'eccesso
di potere nell'atto esaminato- le ragioni di merito,
sorrette da un puntuale indicazione degli elementi concreti
della specifica fattispecie, che concludono per la non
compatibilità delle opere edilizie con i valori tutelati
(cfr. da ultimo, Consiglio di Stato sez. VI n. 4899 del 04.10.2013, Cons. Stato, VI, 18.01.2012, n. 173; VI,
28.12.2011, n. 6885; VI, 21.09.2011, n. 5292)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 823 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
La violazione dell’art.
10-bis della legge generale sul procedimento non produce ex
se la invalidità del provvedimento finale, dovendo la
disposizione di preavviso di rigetto essere interpretata
alla luce dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, per
cui occorre valutare il contenuto sostanziale della
determinazione conclusiva, allorché questa risulti non
incisa dal vizio formale.
In base ad un preciso orientamento
giurisprudenziale (Cons. Stato, IV, 04.09.2013, n. 4448),
pienamente condivisibile, la violazione dell’art. 10-bis
della legge generale sul procedimento non produce ex se la
invalidità del provvedimento finale, dovendo la disposizione
di preavviso di rigetto essere interpretata alla luce
dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, per cui occorre
valutare il contenuto sostanziale della determinazione
conclusiva, allorché questa risulti non incisa dal vizio
formale (in tal senso, ex multis, Cons. Stato Sez. V 10.10.2007 n. 5321).
E poiché il provvedimento in contestazione ha natura
vincolata, dovendo l’istanza di sanatoria essere definita
unicamente alla stregua delle rigorose diposizioni normative
dettate in materia, è evidente che il contenuto del
provvedimento adottato dal Comune non avrebbe potuto essere
diverso da quello (di diniego) assunto.
La natura dei manufatti abusivi, le loro dimensioni sopra
descritte, unitamente alla circostanza che essi ricadono in
zona agricola a tutela ai sensi del P.R.G. approvato nel
2002, nonché in area vincolata ai sensi del d.lgs. n.
490/1999 e sottoposta al vincolo ambientale ai sensi del
D.M. 12.09.1957, rendono applicabile la disposizione
dell’art. 21-octies della legge 241/1990
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 820 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il casotto in legno, con tettoia a doppia falda
sviluppa una superficie utile di mq. 14,44 con altezza al
colmo di mt. 2,63, non può qualificarsi alla stregua di
pertinenza, sebbene posta al servizio dell’immobile
principale, tenendo presente che, ai fini urbanistici, la
strumentalità propria della nozione civilistica prescinde
dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario.
Non possono ritenersi beni pertinenziali, con conseguente
loro assoggettamento al regime concessorio quegli interventi
edilizi che, pur legati da un vincolo di servizio al bene
principale, tuttavia non sono coessenziali ma ulteriori ad
esso poiché occupano e creano aree e volumi diversi, come
avviene nel caso di specie con la creazione di una nuova
volumetria.
Il casotto, di cui al punto 6 delle premesse
dell’atto impugnato, avrebbe, poi, natura pertinenziale e
meramente accessoria rispetto al manufatto principale.
La censura deve essere respinta in quanto il casotto in
legno, ubicato lungo il viale, con tettoia doppia falda
sviluppa una superficie utile di mq. 14,44 con altezza al
colmo di mt. 2,63, non può qualificarsi alla stregua di
pertinenza, sebbene posta al servizio dell’immobile
principale, tenendo presente che, ai fini urbanistici, la
strumentalità propria della nozione civilistica prescinde
dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario;
non possono ritenersi beni pertinenziali, con conseguente
loro assoggettamento al regime concessorio quegli interventi
edilizi che, pur legati da un vincolo di servizio al bene
principale, tuttavia non sono coessenziali ma ulteriori ad
esso poiché occupano e creano aree e volumi diversi, come
avviene nel caso di specie con la creazione di una nuova
volumetria
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 816 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In sede di emanazione
dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su
area vincolata non è necessario acquisire il parere della
Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di
ripristino discende direttamente dall'applicazione della
disciplina edilizia vigente e non costituisce affatto
irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di
disposizioni a tutela del paesaggio.
---------------
In sede di emanazione di ordinanza di demolizione delle
opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario
acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende direttamente
dall'applicazione della disciplina edilizia vigente .. e in
quanto non vi è alcun obbligo di far luogo ad accertamenti
di danni ambientali, ovvero di applicazione di sanzioni
pecuniarie alternative.
Va pure
respinta la censura di violazione dell’art. 82 della legge
616/1997 e della legge regionale 10/1982, articolata con il
quinto motivo di doglianza, con la quale il ricorrente ha
censurato la mancata acquisizione del parere della
Commissione Edilizia Integrata.
Infatti, come costantemente ribadito in giurisprudenza, “...
in sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive su area vincolata non è necessario
acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende direttamente
dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non
costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti
dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio”
(così, da ultimo, TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.09.2011, n. 1393, nello stesso senso vedi pure TAR
Campania, Napoli, sez. VI, 05.03.2012, secondo cui “…in
sede di emanazione di ordinanza di demolizione delle opere
edilizie abusive su area vincolata non è necessario
acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende direttamente
dall'applicazione della disciplina edilizia vigente .. e in
quanto non vi è alcun obbligo di far luogo ad accertamenti
di danni ambientali, ovvero di applicazione di sanzioni
pecuniarie alternative”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 816 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In presenza di un abuso edilizio, la vigente
normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo
all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di
demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art.
36, d.P.R. n. 380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n.
380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del
competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza
alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art.
36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva
iniziativa della parte interessata l'attivazione del
procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi
disciplinato.
Sotto il primo profilo si osserva come il
constante orientamento giurisprudenziali afferma che “… in
presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa
urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità
comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di
verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n.
380 del 2001. Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e
31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il
responsabile del competente ufficio comunale a reprimere
l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché
dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette
all'esclusiva iniziativa della parte interessata
l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica ivi disciplinato” (cfr. TAR Campania Napoli,
sez. VI, 21.11.2013, n. 5226, sez. IV, 06.07.2007, n. 6552)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 807 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento di demolizione, sufficientemente
motivato con la compiuta descrizione dell’abuso, è atto
vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia– e non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati.
Quanto al lamentato difetto di motivazione, poi, deve
rilevarsi come il provvedimento di demolizione,
sufficientemente motivato con la compiuta descrizione
dell’abuso, è atto vincolato -al pari di tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia– e non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati (ex multis
TAR Marche, 23.05.2013, n. 372, TAR Piemonte, sez. II, 22.05.2013, n. 620, TAR Campania, Napoli, sez. III,
10.05.2013, n. 2421)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 807 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’adozione del provvedimento ripristinatorio è
avvenuta in conformità e non in violazione dell’art. 27 del
d.P.R. 380/2001, indifferentemente riferibile a tutti gli
interventi realizzati in area sottoposta vincolo in assenza
di titolo abilitativo [invero, "la sanzione demolitoria
delle opere realizzate senza il richiesto titolo edilizio in
zona vincolata è comminata dall'art. 27, d.P.R. n. 380 del
2001, indipendentemente dal se esso sia costituito da un
permesso di costruire o da d.i.a. (oggi, s.c.i.a.)”].
Il provvedimento di demolizione, sufficientemente motivato
con la compiuta descrizione dell’abuso, è atto vincolato -al
pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia– e non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati.
Il provvedimento di demolizione non richiede una specifica
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico e
attuale alla rimozione dell’abuso, non essendo configurabile
un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di
una situazione di illecito permanente, che il tempo non può
legittimare in via di fatto.
---------------
Va respinta la censura di violazione delle garanzie
partecipative attesa la natura di atto dovuto dell'ordine di
demolizione.
Deve, infatti, osservarsi come:
- l’adozione del provvedimento ripristinatorio è avvenuta in
conformità e non in violazione dell’art. 27 del d.P.R.
380/2001, indifferentemente riferibile a tutti gli
interventi realizzati in area sottoposta vincolo in assenza
di titolo abilitativo (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. IV, 05.06.2013, n. 2898, che rileva come “la sanzione demolitoria delle opere realizzate senza il richiesto titolo
edilizio in zona vincolata è comminata dall'art. 27, d.P.R.
n. 380 del 2001, indipendentemente dal se esso sia
costituito da un permesso di costruire o da d.i.a. (oggi,
s.c.i.a.)”);
- il provvedimento di demolizione, sufficientemente motivato
con la compiuta descrizione dell’abuso, è atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia– e non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati (ex multis TAR Marche, 23.05.2013, n.
372, TAR Piemonte, sez. II, 22.05.2013, n. 620,
TAR Campania, Napoli, sez. III, 10.05.2013, n. 2421);
- il provvedimento di demolizione non richiede una specifica
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico e
attuale alla rimozione dell’abuso, non essendo configurabile
un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di
una situazione di illecito permanente, che il tempo non può
legittimare in via di fatto (cfr. Consiglio di Stato, sez.
VI , 05.08.2013, n. 4075).
Va infine respinta la censura di violazione delle garanzie
partecipative, articolata con il quarto motivo di doglianza,
attesa la natura di atto dovuto del provvedimento e tenuto
altresì conto del fatto che il ricorrente non ha
prospettato, neppure in gravame, circostanze idonee a
determinare un diverso esito provvedimentale (cfr, ex multis,
TAR Campania, Napoli, sez. III, 15.01.2013, n. 295,
TAR Campania, Salerno, sez. II, 28.11.2012, n. 2161)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 806 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sanzione pecuniaria va
disposta, in via alternativa, “soltanto” nel caso in cui sia
“oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione e,
quindi, “soltanto” nel caso in cui risulti “in maniera
inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze
materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo
complesso senza che, pertanto, possano venire in rilievo
aspetti relativi all’eccessiva onerosità dell’intervento”.
Infine, “la possibilità di non procedere alla rimozione
delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti
legittime costituisce solo un'eventualità della fase
esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità
del ripristino dello stato dei luoghi”.
------------------
La vincolatezza del provvedimento comporta che sia superflua
e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse
pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente
o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in
relazione al sacrificio imposto al privato); è, infatti,
sufficiente evidenziare la violazione del regime
vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo
abilitativo.
---------------
La doverosità del provvedimento rende recessivo l’obbligo di
comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L.
241/1990; tale obbligo, infatti, non si applica ai
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato
il loro carattere doveroso.
Con la seconda censura, parte ricorrente lamenta che non si sarebbe
fatta applicazione dell’art. 34 co. 2 D.P.R. 380/2001
allorché stabilisce che «quando la demolizione non può
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio
applica una sanzione pari al doppio del costo di
produzione…»; l’Amministrazione avrebbe quindi dovuto
applicare la sanzione pecuniaria in luogo della demolizione.
Il mezzo è infondato per diverse ragioni.
In primo luogo, l’ampliamento realizzato integra una
variazione essenziale con conseguente applicabilità
dell’art. 33 del D.P.R. 380/2001.
In secondo luogo, anche volendo riferire le censure di
parte ricorrente all’analoga disposizione del secondo comma
di quest’ultima norma che parimenti esclude la demolizione
qualora il ripristino “non sia possibile”, le argomentazioni
svolte non possono essere accolte.
Infatti, per gli immobili in area vincolata, l’art. 33, co. 3, D.P.R. 380/2001 prevede pur sempre la rimessione in
pristino sia pur «indicando criteri e modalità diretti a
ricostituire l'originario organismo edilizio».
Inoltre, l’affermazione sul pregiudizio del
preesistente non è supportata da elementi tecnici atti a
dimostrare la sussistenza del pregiudizio di cui
l’amministrazione si sarebbe dovuta far carico: il che
preclude l’ingresso all’accoglimento di tale profilo di
denuncia alla stregua del condiviso orientamento
giurisprudenziale secondo cui la sanzione pecuniaria va
disposta, in via alternativa, “soltanto” nel caso in cui sia
“oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione e,
quindi, “soltanto” nel caso in cui risulti “in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze
materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo
complesso senza che, pertanto, possano venire in rilievo
aspetti relativi all’eccessiva onerosità dell’intervento”
(cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sezione quinta, sentenze
09.04.2013, n. 1912, 29.11.2012, n. 6071 e 05.09.2011, n. 4982).
Infine, “la possibilità di non procedere alla rimozione
delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti
legittime costituisce solo un'eventualità della fase
esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità
del ripristino dello stato dei luoghi” (cfr., ex multis, Tar
Campania Napoli, questa sesta sezione, 24.07.2012, n.
3538, 18.05.2012, n. 2291, 02.05.2012, n. 2006, 08.04.2011, n. 2039, 15.07.2010, n. 16807 e 14.04.2010, n. 1973; Salerno, sez. II, 13.04.2011, n. 702).
Parimenti infondate sono la terza e la quinta censura
con cui si lamentano la carenza istruttoria e motivazionale
del provvedimento anche in rapporto all’effettivo interesse
pubblico alla demolizione.
Va ribadito, infatti, che la vincolatezza del
provvedimento comporta che sia superflua e non dovuta una
puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla
demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al
paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al
sacrificio imposto al privato); è, infatti, sufficiente
evidenziare la violazione del regime vincolistico e
l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo,
ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis,
TAR Campania Napoli, sez. VI, n. 9718/2008 e 4037/2013).
Per quanto si è detto, peraltro, neppure può ritenersi
sussistente alcun vizio istruttorio, avendo
l’amministrazione descritto con precisione l’abuso commesso
e qualificato con precisione la fattispecie.
La quarta censura è relativa al mancato rispetto delle
garanzie procedimentali di cui alla L. 241/1990 e, in
particolare, all’omessa comunicazione di avvio del
procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990.
Sennonché, come è stato ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza della sezione, la doverosità del
provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare
l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990;
tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro
carattere doveroso (cfr., art. 21-octies L. 241/1990 e, in
giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, VI sez., n.
3706/2012; Consiglio Stato sez. V, 19.09.2008, n.
4530; TAR Napoli Campania sez. IV, 02.12.2008, n.
20794 e Tar Campania, Napoli, sez. IV, 16.06.2000 n.
2147)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 798 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In presenza di opere
edificate senza titolo edilizio, e a maggior ragione in zona
vincolata, l’ordinanza di demolizione, sia essa ai sensi
dell’art. 31, di cui è stata fatta applicazione nel
provvedimento impugnato, che dell’art. 27 D.P.R. 280/2001
(più correttamente applicabile alla fattispecie in esame), è
da ritenersi provvedimento rigidamente vincolato.
Ebbene, la doverosità del provvedimento rende recessivo
l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi
dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si
applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia,
considerato il loro carattere doveroso.
---------------
La vincolatezza del provvedimento (di demolizione) comporta
che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione
sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo
danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla
proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al
privato); è, infatti, sufficiente evidenziare la violazione
del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza
del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è
avvenuto.
Con la terza censura, si lamenta la
violazione delle garanzie procedimentali ai sensi della L.
241/1990 e, in particolare, la mancanza della comunicazione
di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990.
In senso contrario a una positiva delibazione di simili
argomentazioni, deve ribadirsi che, come ripetutamente
affermato dalla sezione (cfr., da ultimo, sentenza 01.08.2013,
n. 4037), in presenza di opere edificate senza titolo
edilizio, e a maggior ragione in zona vincolata, l’ordinanza
di demolizione, sia essa ai sensi dell’art. 31, di cui è
stata fatta applicazione nel provvedimento impugnato, che
dell’art. 27 D.P.R. 280/2001 (più correttamente applicabile
alla fattispecie in esame), è da ritenersi provvedimento
rigidamente vincolato.
Ebbene, la doverosità del provvedimento rende recessivo
l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi
dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si
applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia,
considerato il loro carattere doveroso (cfr., art. 21-octies
L. 241/1990 e, in giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, VI sez., n. 3706/2012; Consiglio Stato sez. V, 19.09.2008, n. 4530; TAR Napoli Campania sez. IV, 02.12.2008, n. 20794 e Tar Campania, Napoli, sez. IV, 16.06.2000
n. 2147).
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Parimenti
infondate sono le ultime tre censure che riguardano profili
tutti relativi alla carenza motivazionale del provvedimento;
in particolare, si lamenta la mancanza di specifico
riferimento alle disposizioni urbanistiche violate e la
mancata considerazione del concreto interesse pubblico alla
demolizione anche in rapporto all’interesse del privato,
sacrificato.
Va ribadito, infatti, che la vincolatezza del
provvedimento comporta che sia superflua e non dovuta una
puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla
demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al
paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al
sacrificio imposto al privato); è, infatti, sufficiente
evidenziare la violazione del regime vincolistico e
l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo,
ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis,
TAR Campania Napoli, sez. VI, n. 9718/2008 e 4037/2013)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 796 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI -
EDILIZIA PRIVATA:
Ogni competenza del
Sindaco, in merito ai provvedimenti ascrivibili alla mera
attività di gestione amministrativa in materia edilizia,
deve essere ritenuta abrogata in virtù delle disposizioni
legislative che hanno inteso separare, anche negli enti
locali, la funzione di indirizzo politico da quella,
appunto, di gestione amministrativa.
Nel settore dell’edilizia, infatti, prima, l'art. 6, l. n.
127 del 1997, modificando l'art. 51, l. n. 142 del 1990, ha
previsto alla lett. f) che spettino alla competenza dei
dirigenti «i provvedimenti di autorizzazione, concessione o
analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e
valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di
criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti
generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le
concessioni edilizie».
Successivamente, la l. n. 191 del 1998 ha, a sua volta,
modificato l'art. 6, l. n. 127 del 1997, introducendo la
lett. f bis) secondo la quale spettano ai dirigenti «tutti i
provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e
riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i
poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni
amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e
regionale in materia di prevenzione e repressione
dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale», così
espressamente attribuendo alla dirigenza la competenza in
materia di applicazione di sanzioni edilizie; a norma
dell'art. 51 comma 3, l. 08.06.1990 n. 142 (oggi, d.lgs.
18.08.2000 n. 267), infine, sono di competenza dei dirigenti
«tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e
provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione
verso l'esterno, che la legge e lo statuto espressamente non
riservino agli organi di governo dell'ente».
Peraltro, la stessa norma azionata in questa sede, ossia
l’art. 31 del D.P.R. 380/2001, radica la relativa competenza
proprio in capo al dirigente.
Infondata è, altresì, la quarta censura relativa
all’incompetenza del dirigente che ha emanato l’atto in
favore del Sindaco dell’ente.
In proposito, si ribadisce che ogni competenza del
Sindaco, in merito ai provvedimenti ascrivibili alla mera
attività di gestione amministrativa in materia edilizia,
deve essere ritenuta abrogata in virtù delle disposizioni
legislative che hanno inteso separare, anche negli enti
locali, la funzione di indirizzo politico da quella,
appunto, di gestione amministrativa. Nel settore
dell’edilizia, infatti, prima, l'art. 6, l. n. 127 del 1997,
modificando l'art. 51, l. n. 142 del 1990, ha previsto alla
lett. f) che spettino alla competenza dei dirigenti «i
provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il
cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche
di natura discrezionale, nel rispetto di criteri
predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti
generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le
concessioni edilizie».
Successivamente, la l. n. 191 del
1998 ha, a sua volta, modificato l'art. 6, l. n. 127 del
1997, introducendo la lett. f bis) secondo la quale spettano
ai dirigenti «tutti i provvedimenti di sospensione dei
lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza
comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di
irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla
vigente legislazione statale e regionale in materia di
prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale», così espressamente attribuendo
alla dirigenza la competenza in materia di applicazione di
sanzioni edilizie; a norma dell'art. 51 comma 3, l. 08.06.1990 n. 142 (oggi, d.lgs. 18.08.2000 n. 267), infine,
sono di competenza dei dirigenti «tutti i compiti, compresa
l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che
impegnano l'amministrazione verso l'esterno, che la legge e
lo statuto espressamente non riservino agli organi di
governo dell'ente» (cfr. TAR Campania Napoli, sez. II, 13.02.2009, n. 802, TAR Campania Napoli, sez. VI, n.
3586/2009).
Peraltro, la stessa norma azionata in questa sede, ossia
l’art. 31 del D.P.R. 380/2001, radica la relativa competenza
proprio in capo al dirigente
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 796 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il silenzio serbato dal
Comune sulla domanda di sanatoria ex art. 13, l. 28.02.1985
n. 47, modificato dall'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, è
qualificabile come silenzio provvedimentale, con contenuto
di rigetto, e non come silenzio inadempimento all'obbligo di
provvedere, autonomamente impugnabile.
A fronte di un'istanza di sanatoria, infatti, il silenzio
dell'amministrazione costituisce una ipotesi di silenzio
significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un
provvedimento di rigetto dell'istanza, così determinandosi
una situazione del tutto simile a quella che si
verificherebbe in caso di un provvedimento espresso; ne
deriva che tale provvedimento ha valore di diniego vero e
proprio ed è impugnabile esclusivamente per il contenuto
reiettivo dell'atto e non, quindi, per la violazione
dell’obbligo di provvedere espressamente, obbligo che, nel
caso di specie, non sussiste.
Va detto, infatti, che il silenzio serbato dal
Comune sulla domanda di sanatoria ex art. 13, l. 28.02.1985 n. 47, modificato dall'art. 36, d.P.R.
06.06.2001 n.
380, è qualificabile come silenzio provvedimentale, con
contenuto di rigetto, e non come silenzio inadempimento
all'obbligo di provvedere, autonomamente impugnabile
(Consiglio Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2691).
Come nota la giurisprudenza copiosa anche di questa
sezione, a fronte di un'istanza di sanatoria, infatti, il
silenzio dell'amministrazione costituisce una ipotesi di
silenzio significativo, al quale vengono collegati gli
effetti di un provvedimento di rigetto dell'istanza, così
determinandosi una situazione del tutto simile a quella che
si verificherebbe in caso di un provvedimento espresso; ne
deriva che tale provvedimento ha valore di diniego vero e
proprio ed è impugnabile esclusivamente per il contenuto reiettivo dell'atto e non, quindi, per la violazione
dell’obbligo di provvedere espressamente, obbligo che, nel
caso di specie, non sussiste (v. ex multis, la Sent. n.
3555/2012 di questa Sezione)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 792 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le tettoie in esame non
sono opere né precarie né pertinenziali e, per altro verso,
incidono in misura non irrilevante sul contesto
paesaggistico.
Infatti, la realizzazione di simili manufatti, infatti,
stabilmente ancorati al pavimento e destinati a soddisfare
non un'esigenza temporanea e contingente, ma prolungata nel
tempo (le tettoie, come dichiarato dalla medesima
ricorrente, offrono riparo ai clienti dell’azienda
agrituristica), è priva del carattere della precarietà ed
amovibilità ed è quindi assoggettata al regime del permesso
di costruire, dal momento che comporta una rilevante
modifica dell'assetto edilizio preesistente.
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La nozione di "pertinenza urbanistica" è, inoltre, meno
ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e dunque non può
consentire la realizzazione di opere di grande consistenza
soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato
principale. In tal caso l'impatto volumetrico proprio,
incidendo, come detto, in modo permanente e non precario
sull'assetto edilizio del territorio è assoggettabile a
permesso di costruire con conseguente applicabilità del
regime demolitorio di cui all'art. 7 della legge n. 47/1985
in caso di abusività …. Si deve, quindi, affermare che la
realizzazione delle due tettoie costituisca intervento
edilizio assentibile mediante permesso di costruire.
Passando al
rigetto dell’istanza in relazione alle tettoie, va detto che
l’Amministrazione intimata rileva che non sarebbero stati
pagati né le oblazioni né il contributo di costruzione come
richiesto dall’art. 36, co. 2, D.P.R. 380/2001 («il rilascio
del permesso in sanatoria è subordinato al pagamento, a
titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura
doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in
misura pari a quella prevista dall'articolo 16. Nell'ipotesi
di intervento realizzato in parziale difformità, l'oblazione
è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal
permesso»).
Tale circostanza, non contestata da parte ricorrente,
già varrebbe a respingere il motivo di impugnazione, ma è
opportuno precisare che, come rilevato nella Sentenza n.
372/2010 -non impugnata- relativa al ricorso proposto dalla
medesima ricorrente avverso l’ordinanza di demolizione che
aveva attinto le stesse opere qui contemplate, le tettoie in
esame non sono opere né precarie né pertinenziali e, per
altro verso, incidono in misura non irrilevante sul contesto
paesaggistico. Infatti, «la realizzazione di simili
manufatti, infatti, stabilmente ancorati al pavimento e
destinati a soddisfare non un'esigenza temporanea e
contingente, ma prolungata nel tempo (le tettoie, come
dichiarato dalla medesima ricorrente, offrono riparo ai
clienti dell’azienda agrituristica), è priva del carattere
della precarietà ed amovibilità ed è quindi assoggettata al
regime del permesso di costruire, dal momento che comporta
una rilevante modifica dell'assetto edilizio preesistente
(cfr. in un caso analogo, TAR Campania Napoli, sez. III,
09.09.2008, n. 10059)».
«La nozione di "pertinenza urbanistica" è, inoltre,
meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e dunque
non può consentire la realizzazione di opere di grande
consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene
qualificato principale. In tal caso l'impatto volumetrico
proprio, incidendo, come detto, in modo permanente e non
precario sull'assetto edilizio del territorio è
assoggettabile a permesso di costruire con conseguente
applicabilità del regime demolitorio di cui all'art. 7 della
legge n. 47/1985 in caso di abusività (ancora, T.A.R.
Campania Napoli, sez. II, 29.01.2009, n. 492)…. Si
deve, quindi, affermare che la realizzazione delle due
tettoie costituisca intervento edilizio assentibile mediante
permesso di costruire».
Ebbene, le medesime considerazioni valgono qui ad escludere
la compatibilità delle opere con il vincolo paesistico,
particolarmente stringente nella zona ove esse insistono,
qualificata “zona a protezione integrale” (art. 11 P.T.P.)
dove sono consentiti solo limitati interventi volti alla
conservazione e al miglioramento del verde, alla prevenzione
degli incendi o alla rimozione di barriere architettoniche
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 792 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deve essere esclusa la natura pertinenziale delle
tettoie costruite (abusivamente) poiché, come chiarito dalla
costante giurisprudenza anche di questa sezione, la nozione
di "pertinenza urbanistica" è meno ampia di quella definita
dall'art. 817 c.c. e dunque non può consentire la
realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché
destinate al servizio di un bene qualificato principale.
Infatti, il carattere pertinenziale in senso urbanistico va
riconosciuto alle opere che, per loro natura, risultino
funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un
manufatto principale, siano prive di autonomo valore di
mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque
dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non
poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal
manufatto cui accedono.
In tal senso, si è chiarito, con condivisibile orientamento,
che gli interventi consistenti nella installazione di
tettoie o di altre strutture analoghe che siano comunque
apposte a parti di preesistenti edifici come strutture
accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè
non compresi entro coperture volumetriche previste in un
progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime
della concessione edilizia (oggi permesso di costruire)
soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte
dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità
di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti
atmosferici) dell'immobile cui accedono; tali strutture non
possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di
costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tale
da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle
parti dello stesso su cui vengono inserite. Ebbene, nel caso
di specie, le tettoie presentano una dimensione
incompatibile con la qualificazione come pertinenza
integrando una rilevante modifica della sagoma dell’edificio
stesso.
---------------
L’art. 27, co. 2, D.P.R. 380/2001 non distingue tra opere
per cui è necessario il permesso di costruire e quelle per
cui sarebbe necessaria la semplice D.I.A. in quanto impone
di adottare un provvedimento di demolizione per tutte le
opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree
sottoposte a vincolo paesistico.
Il provvedimento impugnato attinge due tettoie
poste rispettivamente sul lato nord e sul lato sud del
manufatto adibito ad abitazione l’una di mq 7,5 e l’altra di
mq 19 e ne ordina la demolizione ai sensi dell’art. 27
d.p.r. 380/2001, essendo state edificate senza titolo in
zona sottoposta a vincolo paesaggistico.
È opportuno trattare per prima la seconda censura con
la quale si lamentano plurimi motivi di violazione di legge
e di eccesso di potere, ossia che le opere non avrebbero
comportano “modifiche o alterazioni dei volumi”, che
avrebbero natura pertinenziale e che, pertanto, sarebbero
state assentibili con mera D.I.A. senza necessità del previo
ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica ai sensi
dell’art. 149 D.lgs. 42/2004. Tali opere, quindi, non
sarebbero state sanzionabili con la demolizione ma, al più,
con l’applicazione di una sanzione pecuniaria e, inoltre, il
provvedimento non si sarebbe potuto limitare a dichiarare
l’abusività dell’opera, ma avrebbe dovuto qualificare le
opere al fine di definirne il regime autorizzatorio.
Simili argomentazioni non hanno alcun pregio in quanto
le opere, per entità ed estensione, costituiscono senza
alcun dubbio nuova costruzione integrando un’alterazione
dello stato dei luoghi e della sagoma dell’edificio a cui
accedono.
Deve, altresì, essere esclusa la natura pertinenziale
delle tettoie poiché, come chiarito dalla costante
giurisprudenza anche di questa sezione, la nozione di
"pertinenza urbanistica" è meno ampia di quella definita
dall'art. 817 c.c. e dunque non può consentire la
realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché
destinate al servizio di un bene qualificato principale.
Infatti, il carattere pertinenziale in senso urbanistico va
riconosciuto alle opere che, per loro natura, risultino
funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un
manufatto principale, siano prive di autonomo valore di
mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque
dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non
poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal
manufatto cui accedono (Consiglio Stato, sez. IV, 17.05.2010, n. 3127).
In tal senso, si è chiarito, con condivisibile
orientamento, che gli interventi consistenti nella
installazione di tettoie o di altre strutture analoghe che
siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come
strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi
liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche
previste in un progetto assentito, possono ritenersi
sottratti al regime della concessione edilizia (oggi
permesso di costruire) soltanto ove la loro conformazione e
le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile
la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche
da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono; tali
strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza
permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di
entità tale da arrecare una visibile alterazione
all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono
inserite. Ebbene, nel caso di specie, le tettoie presentano
una dimensione incompatibile con la qualificazione come
pertinenza integrando una rilevante modifica della sagoma
dell’edificio stesso (TAR Campania Napoli, sez. II, 29.01.2009, n. 492; TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999; v. pure il precedente di questa
Sezione, Sent. n. 16446/2010).
Sul punto, non occorre spendere ulteriori
argomentazioni in quanto, a ben vedere, non rileva, in
questa sede, se le opere potessero o meno essere assentite
in virtù della presentazione di una mera D.I.A.. Infatti,
quand’anche si ritenessero tali le opere qui sanzionate, va
detto che l’applicazione della sanzione demolitoria (ai
sensi dell’art. 27 D.P.R. 380/2001) sarebbe, comunque,
doverosa, essendo, peraltro, incontestato che non sia stata
presentata neppure la D.I.A. e che non sia,
conseguentemente, stata ottenuta alcuna autorizzazione
paesistica.
Si osserva, comunque, che l’art. 27, co. 2, D.P.R.
380/2001 non distingue tra opere per cui è necessario il
permesso di costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la
semplice D.I.A. in quanto impone di adottare un
provvedimento di demolizione per tutte le opere che siano,
comunque, costruite senza titolo in aree sottoposte a
vincolo paesistico
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 06.02.2014 n. 788 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Se è vero che il potere di soccorso istruttorio
non può ledere la par condicio, così da consentire la
presentazione, anche oltre il termine previsto dal bando, di
documenti o dichiarazioni che avrebbero dovuto essere
presentati entro detto termine a pena di esclusione, non può
essere inibito alla stazione appaltante di richiedere o alla
concorrente di provare, anche con integrazioni documentali,
che la propria domanda fosse, sin dal principio e nella
realtà effettuale, conforme a quanto richiesto dalla lex
specialis; ciò nella prospettiva di non sacrificare
l'esigenza della più ampia partecipazione per carenze
meramente formali.
Si richiama, al riguardo, il
costante principio giurisprudenziale secondo cui, se è vero
che il potere di soccorso istruttorio non può ledere la par
condicio, così da consentire la presentazione, anche oltre
il termine previsto dal bando, di documenti o dichiarazioni
che avrebbero dovuto essere presentati entro detto termine a
pena di esclusione, non può essere inibito alla stazione
appaltante di richiedere o alla concorrente di provare,
anche con integrazioni documentali, che la propria domanda
fosse, sin dal principio e nella realtà effettuale, conforme
a quanto richiesto dalla lex specialis (cfr., ex multis,
Cons. St., Sez. III, 28.11.2013, n. 5694); ciò nella
prospettiva di non sacrificare l'esigenza della più ampia
partecipazione per carenze meramente formali
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 06.02.2014 n. 780 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'indicazione dell'area
di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe
a quelle abusive, costituisce elemento essenziale non già
dell’ordinanza di demolizione ma del distinto ed eventuale
provvedimento con cui l'amministrazione, accertata la
mancata ottemperanza alla demolizione da parte
dell'ingiunto, irroga la sanzione ulteriore
dell’acquisizione al patrimonio comunale.
---------------
L’ordine di demolizione di opere abusive (perché realizzate
in assenza del necessario titolo abilitativo) non deve
essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento, ai sensi dell’articolo 7 della legge n. 241
del 1990, in considerazione della natura vincolata del
potere di repressione degli abusi edilizi.
Per completezza d'argomentazione si osserva che, in ogni
caso, ai sensi dell'art. 21-octies della legge n. 241/1990,
il provvedimento impugnato, ove pure ritenuto violativo
delle norme sul procedimento amministrativo, non sarebbe
comunque annullabile, trattandosi di provvedimento vincolato
il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato dall’amministrazione.
---------------
L'eventuale omissione della comunicazione del nominativo del
responsabile del procedimento e dell'ufficio in cui poter
prendere visione degli atti, non è tale da incidere sulla
legittimità del procedimento finale, risolvendosi piuttosto
in una mera irregolarità.
In tal caso si considera responsabile del procedimento il
funzionario preposto alla competente unità organizzativa.
---------------
L'ordine di demolizione ben può essere adottato nei
confronti del proprietario attuale dell'immobile interessato
dall'intervento abusivo, anche se non responsabile
dell'abuso, giacché tale abuso costituisce illecito
permanente e l'ordine di demolizione ha carattere
ripristinatorio e non prevede l'accertamento del dolo o
della colpa del soggetto cui si imputa la realizzazione
dell'abuso stesso, trattandosi di una sanzione di carattere
reale.
La condizione di estraneità alla commissione dell'illecito,
riguardata in termini di buona fede soggettiva, può assumere
rilievo unicamente ai fini dell'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale, ferma restando la possibilità
dell’attuale proprietario di avvalersi, ricorrendone i
presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il suo
dante causa.
Per completezza di analisi, il Collegio
valuta opportuno anche specificare che, come chiarito dalla
consolidata giurisprudenza, l'indicazione dell'area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a
quelle abusive, costituisce elemento essenziale non già
dell’ordinanza di demolizione ma del distinto ed eventuale
provvedimento con cui l'amministrazione, accertata la
mancata ottemperanza alla demolizione da parte
dell'ingiunto, irroga la sanzione ulteriore
dell’acquisizione al patrimonio comunale (cfr., ex multis,
TAR Lecce, Puglia, sez. III, 15.12.2011, n. 2172).
Del pari, priva di fondatezza si palesa la deduzione
diretta a contestare l’omessa comunicazione di avvio del
procedimento sanzionatorio. Per giurisprudenza consolidata (TAR
Campania Napoli, sez. II, n. 2458 dell’08.05.2009; sez. IV, n. 9710 del
01.08.2008), l’ordine di demolizione di
opere abusive (perché realizzate in assenza del necessario
titolo abilitativo) non deve essere preceduto dalla
comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi
dell’articolo 7 della legge n. 241 del 1990, in
considerazione della natura vincolata del potere di
repressione degli abusi edilizi. Per completezza
d'argomentazione si osserva che, in ogni caso, ai sensi
dell'art. 21-octies della legge n. 241/1990, il
provvedimento impugnato, ove pure ritenuto violativo delle
norme sul procedimento amministrativo, non sarebbe comunque
annullabile, trattandosi di provvedimento vincolato il cui
contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato dall’amministrazione.
Quanto poi alla mancata indicazione del responsabile
del procedimento, essa è surrogata ex lege dagli artt. 4 e 5
della legge n. 241/1990 che individua tale responsabile nel
dirigente del Servizio, in assenza di altre indicazioni;
difatti, secondo l'orientamento della giurisprudenza,
l'eventuale omissione della comunicazione del nominativo del
responsabile del procedimento e dell'ufficio in cui poter
prendere visione degli atti, non è tale da incidere sulla
legittimità del procedimento finale, risolvendosi piuttosto
in una mera irregolarità. In tal caso si considera
responsabile del procedimento il funzionario preposto alla
competente unità organizzativa (Cons. Stato, sez. VI, 06.05.1999, n. 597; TAR Friuli V.G.
09.12.1996, n.
1241; TAR Sicilia, sez. II, 30.11.1996, n. 1730;
TAR Campania, sez. IV, 05.02.2002, n. 691, 18.03.2002, n. 1413, 14.06.2002, n. 3490).
Non meritano un favorevole apprezzamento neanche le
deduzioni incentrate sul vizio di eccesso di potere per
carenza di istruttoria e inesistenza dei presupposti,
emergendo da quanto sopra esposto l’accuratezza degli
accertamenti svolti dall’amministrazione.
Con specifico riferimento all’individuazione
dell’autore dell’abuso, il Collegio reputa sufficiente
rilevare che l'ordine di demolizione ben può essere adottato
nei confronti del proprietario attuale dell'immobile
interessato dall'intervento abusivo, anche se non
responsabile dell'abuso, giacché tale abuso costituisce
illecito permanente e l'ordine di demolizione ha carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del dolo o
della colpa del soggetto cui si imputa la realizzazione
dell'abuso stesso, trattandosi di una sanzione di carattere
reale (TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 08.07.2013, n. 502; Cons. St., Sez. VI,
15.10.2013, n. 5011).
La condizione di estraneità alla commissione dell'illecito,
riguardata in termini di buona fede soggettiva, può assumere
rilievo unicamente ai fini dell'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale, ferma restando la possibilità
dell’attuale proprietario di avvalersi, ricorrendone i
presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il suo
dante causa
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 06.02.2014 n. 779 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non sussiste alcun
obbligo per il Comune di dare comunicazione ai proprietari
frontisti o vicini dell'avvio del procedimento diretto al
rilascio di concessione edilizia, in quanto gli interessi
coinvolti dal provvedimento con cui si consente la
trasformazione edilizia del territorio sono di tale varietà
ed ampiezza da rendere difficilmente individuabili tutti i
soggetti che dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere
nocumento.
Invero, la comunicazione di avvio del procedimento deve
essere inviata ai soggetti nei cui confronti il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti,
tra i quali non rientrano i proprietari di immobili
confinanti con quello oggetto di concessione edilizia, i
quali subiscono dal provvedimento in questione soltanto
effetti riflessi.
Sulla base di quanto appena detto la ricorrente non rientra
tra i soggetti destinatari della comunicazione dell'avvio di
un procedimento per il rilascio di un titolo edilizio,
perché l'invocata estensione della predetta comunicazione
avrebbe comportato un aggravio procedimentale in contrasto
con i principi di economicità e di efficienza dell'attività
amministrativa.
Non merita adesione anche l’ultimo motivo di
ricorso in ordine alla mancata comunicazione di avvio del
procedimento ai sensi dell'art. 7 della Legge n. 241/1990
riguardante il rilascio del permesso di costruire.
Secondo un ormai costante orientamento della giurisprudenza
amministrativa “non sussiste alcun obbligo per il Comune di
dare comunicazione ai proprietari frontisti o vicini
dell'avvio del procedimento diretto al rilascio di
concessione edilizia, in quanto gli interessi coinvolti dal
provvedimento con cui si consente la trasformazione edilizia
del territorio sono di tale varietà ed ampiezza da rendere
difficilmente individuabili tutti i soggetti che
dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento”
(cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4847 del 31.07.2009;
TAR Toscana, Sez. III, 31.05.2005, n. 2689).
Invero, la comunicazione di avvio del procedimento deve
essere inviata ai soggetti nei cui confronti il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti,
tra i quali non rientrano i proprietari di immobili
confinanti con quello oggetto di concessione edilizia, i
quali subiscono dal provvedimento in questione soltanto
effetti riflessi.
Sulla base di quanto appena detto la ricorrente non rientra
tra i soggetti destinatari della comunicazione dell'avvio di
un procedimento per il rilascio di un titolo edilizio,
perché l'invocata estensione della predetta comunicazione
avrebbe comportato un aggravio procedimentale in contrasto
con i principi di economicità e di efficienza dell'attività
amministrativa (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VIII,
12.04.2010, n. 1918; TAR Toscana, Sez. III, 31.05.2005, n.
2689 cit.)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 06.02.2014 n. 769 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla gratuità circa la costruzione di una chiesa.
Deve
considerarsi “ente istituzionalmente competente” sia un ente
pubblico che agisca nell'ambito delle proprie competenze
istituzionali, sia un soggetto privato che operi per conto
di un ente pubblico, come è nel caso di specie l'ente
ecclesiastico, al quale certo non può essere disconosciuto
lo svolgimento di una funzione di interesse generale o
collettivo.
Tanto è vero che le chiese sono usualmente annoverate tra le
opere di urbanizzazione secondaria (cfr. art. 3, comma 2,
lett. b), del D.M. n. 1444/1968.
Sicché,
si evince la sussistenza nel
caso di specie dei requisiti necessari per l'esonero dal
contributo di costruzione, atteso il carattere pubblico
dell'opera qualificata dalla legge regionale quale opera
necessaria (di urbanizzazione) da ricondurre nell’ambito
delle “attrezzature religiose”, realizzata da un soggetto
privato in attuazione di strumenti urbanistici come previsto
dal combinato disposto dall'art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. 380/2001 e dell'art. 1, comma 1, della Legge
Regionale della Campania n. 9 del 05.03.1990.
Sussistono, quindi, entrambe le condizioni per accordare
l’esenzione del contributo di costruzione: sia sotto il
profilo oggettivo, in quanto il complesso ecclesiastico,
quale opera destinata alla fruizione collettiva, soddisfa un
interesse generale; sia sotto il profilo soggettivo quale è
quello secondo cui le opere devono essere eseguite da un
“ente istituzionalmente competente”.
... per l'annullamento del permesso di costruire n. 63/2004
riguardante la realizzazione di un fabbricato destinato a
chiesa in zona F – destinata ad attrezzature
...
Con il quarto
dei motivi aggiunti si denuncia la presunta illegittimità
del permesso di costruire in sanatoria n. 18 del 19.10.2010
sull’assunto del mancato pagamento degli oneri concessori di
cui all'art. 16 e seguenti del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Al fine di valutare la fondatezza della censura occorre
richiamare il quadro normativo vigente.
In primo luogo l'art. 17, comma 3, lettera c), del d.P.R.
380/2001 dispone che “il contributo di costruzione non e'
dovuto: …c) per gli impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”.
La legge Regionale della Campania n. 9 del 05.03.1990, avente
ad oggetto la “riserva di standards urbanistici per
attrezzature religiose” ha previsto all'art. 1, comma 1, che
“i Comuni sono obbligati ad includere negli strumenti
urbanistici generali ed attuativi le previsioni necessarie
per la realizzazione di attrezzature religiose” chiarendo,
altresì, al successivo comma 5 che “le dotazioni minime di
aree di cui al presente articolo in ogni caso non possono
essere inferiori a mq 5.000”.
Sulla base di quanto riportato si evince la sussistenza nel
caso di specie dei requisiti necessari per l'esonero dal
contributo di costruzione, atteso il carattere pubblico
dell'opera qualificata dalla legge regionale quale opera
necessaria (di urbanizzazione) da ricondurre nell’ambito
delle “attrezzature religiose”, realizzata da un soggetto
privato in attuazione di strumenti urbanistici come previsto
dal combinato disposto dall'art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. 380/2001 e dell'art. 1, comma 1, della Legge
Regionale della Campania n. 9 del 05.03.1990.
Sussistono, quindi, entrambe le condizioni per accordare
l’esenzione del contributo di costruzione: sia sotto il
profilo oggettivo, in quanto il complesso ecclesiastico,
quale opera destinata alla fruizione collettiva, soddisfa un
interesse generale; sia sotto il profilo soggettivo quale è
quello secondo cui le opere devono essere eseguite da un
“ente istituzionalmente competente”.
Infatti secondo un’ormai consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa deve considerarsi “ente
istituzionalmente competente” sia un ente pubblico che
agisca nell'ambito delle proprie competenze istituzionali,
sia un soggetto privato che operi per conto di un ente
pubblico (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.09.2008, n.
4296; idem, Sez. IV, 10.05.2005, n. 2226), come è nel caso
di specie l'ente ecclesiastico, al quale certo non può
essere disconosciuto lo svolgimento di una funzione di
interesse generale o collettivo.
Tanto è vero che le chiese sono usualmente annoverate tra le
opere di urbanizzazione secondaria (cfr. art. 3, comma 2,
lett. b), del D.M. n. 1444/1968.
Ad ogni modo il P.R.G. vigente presso il Comune conferma la
caratteristica di opera di urbanizzazione del complesso
ecclesiastico, in quanto per l'area interessata prevede la
destinazione urbanistica “F4” corrispondente ad “attrezzature
collettive — attrezzature religiose”, sicché la
realizzazione dell’edificio parrocchiale deve ritenersi
operata in attuazione dei vigenti strumenti urbanistici
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 06.02.2014 n. 769 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 10-bis l. n. 241 del 1990, nel
disciplinare l'istituto del cd. "preavviso di rigetto", ha
lo scopo di far conoscere alle amministrazioni, in
contraddittorio rispetto alle motivazioni da esse assunte in
base agli esiti dell'istruttoria espletata, quelle ragioni,
fattuali e giuridiche, dell'interessato che potrebbero
contribuire a far assumere agli organi competenti una
diversa determinazione finale, derivante, appunto, dalla
ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando
una possibile riduzione del contenzioso fra le parti.
Tuttavia, l'obbligo di motivazione gravante sulla P.A. a
fronte delle osservazioni proposte a seguito del preavviso
di rigetto non impone ai fini della legittimità del
definitivo diniego dell'istanza dell'interessato, la
puntuale e analitica confutazione delle singole
argomentazioni svolte dall'interessato, essendo sufficiente
la motivazione complessivamente e logicamente resa a
sostegno del provvedimento finale.
Quanto al primo motivo di ricorso, va
precisato che l'art. 10-bis l. n. 241 del 1990, nel
disciplinare l'istituto del cd. "preavviso di rigetto", ha
lo scopo di far conoscere alle amministrazioni, in
contraddittorio rispetto alle motivazioni da esse assunte in
base agli esiti dell'istruttoria espletata, quelle ragioni,
fattuali e giuridiche, dell'interessato che potrebbero
contribuire a far assumere agli organi competenti una
diversa determinazione finale, derivante, appunto, dalla
ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando
una possibile riduzione del contenzioso fra le parti (cfr.,
Consiglio di Stato, sez. VI, 06.08.2013, n. 4111).
Tuttavia, l'obbligo di motivazione gravante sulla P.A. a
fronte delle osservazioni proposte a seguito del preavviso
di rigetto non impone ai fini della legittimità del
definitivo diniego dell'istanza dell'interessato, la
puntuale e analitica confutazione delle singole
argomentazioni svolte dall'interessato, essendo sufficiente
la motivazione complessivamente e logicamente resa a
sostegno del provvedimento finale (cfr., TAR Sicilia,
Palermo sez. I, 11.07.2013, n. 1485).
Nel caso di specie, l’amministrazione ha adeguatamente
motivato in ordine alle ragioni che non consentivano il
rilascio del parere favorevole all’istanza di installazione
dei pareri solari, avendo precisato la sussistenza delle
rilevanti alterazioni all’equilibrio percettivo del quadro
d’insieme tutelato. La Sopraintendenza non era tenuta a
contrastare ogni singolo rilievo formulato dal ricorrente
ma, in base ad una valutazione complessiva, sviscerare le
motivazioni che non consentivano la realizzazione
dell’intervento.
La precisazione che le rilevanti alterazioni all’equilibrio
percettivo del quadro d’insieme tutelato non consentono la
realizzazione dell’intervento, soddisfano il requisito della
sufficiente motivazione e sono capaci di contrastare le
affermazioni del ricorrente
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 06.02.2014 n. 395 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il parere della Sopraintendenza è espressione di
discrezionalità tecnica, che è soggetta a un sindacato del
giudice amministrativo di tipo intrinseco debole (o di
attendibilità).
Il giudice non deve limitarsi al rilievo degli indici
sintomatici dell’eccesso di potere, ma può ripetere la
valutazione tecnica (anche avvalendosi dello strumento della
ctu) e verificare se essa sia attendibile. Il g.a. quindi
verifica se il criterio tecnico adottato sia sufficiente ed
adeguato e se il procedimento applicativo sia stato seguito
correttamente. E’ un giudizio che il giudice ripete
applicando le stesse regole tecniche dell’amministrazione.
Recentemente il Consiglio di Giustizia Sicilia, in materia
paesaggistica, ha chiarito che le valutazioni in tema
paesaggistico e ambientale costituiscono espressione di
discrezionalità tecnica, in quanto l'accertamento è compiuto
applicando regole tecnico -specialistiche che sono
caratterizzate da una fisiologica e ineliminabile
opinabilità, con la conseguenza che le risultanze della
attività suddetta possono essere censurate in sede
giurisdizionale soltanto quando risulti la loro palese
inattendibilità sotto il profilo tecnico.
Nel caso di specie, la Sopraintendenza ha ritenuto di
esprimere parere sfavorevole all’intervento perché, come
emerge anche dai rilievi fotografici allegati in atti, la
posa di pannelli solari si colloca in un contesto
caratterizzato da un tessuto fitto di edifici con copertura
a falda o a padiglione, visibili sia dal lago che dalla
sponda di fronte e che formano un complesso di immobili
aventi caratteristico aspetto e valore estetico
tradizionale. L’intervento, quindi, realizza, secondo
l’amministrazione, una rilevante alterazione all’equilibrio
percettivo del quadro d’insieme tutelato, perché la
soluzione proposta determina un’immagine della copertura
sostanzialmente differente ed estranea al contesto
monumentale e paesistico tutelato.
Tale valutazione tecnico discrezionale è certamente immune
da censure, in quanto ragionevole e non affetta da vizi nel
procedimento valutativo.
Non risulta, infatti, fondato neanche il secondo motivo di
ricorso.
Il parere della Sopraintendenza è espressione di
discrezionalità tecnica, che, dalla sentenza del Consiglio
di Stato Cons. 601/1999, è soggetta a un sindacato del
giudice amministrativo di tipo intrinseco debole (o di
attendibilità). Il giudice non deve limitarsi al rilievo
degli indici sintomatici dell’eccesso di potere, ma può
ripetere la valutazione tecnica (anche avvalendosi dello
strumento della ctu) e verificare se essa sia attendibile.
Il g.a. quindi verifica se il criterio tecnico adottato sia
sufficiente ed adeguato e se il procedimento applicativo sia
stato seguito correttamente. E’ un giudizio che il giudice
ripete applicando le stesse regole tecniche
dell’amministrazione.
Recentemente il Consiglio di Giustizia Sicilia, in materia
paesaggistica, ha chiarito che le valutazioni in tema
paesaggistico e ambientale costituiscono espressione di
discrezionalità tecnica, in quanto l'accertamento è compiuto
applicando regole tecnico -specialistiche che sono
caratterizzate da una fisiologica e ineliminabile
opinabilità, con la conseguenza che le risultanze della
attività suddetta possono essere censurate in sede
giurisdizionale soltanto quando risulti la loro palese
inattendibilità sotto il profilo tecnico (cfr., Cons. Giust.
Amm. Sicilia, sez. giurisd., 27.08.2013, n. 737).
Nel caso di specie, la Sopraintendenza ha ritenuto di
esprimere parere sfavorevole all’intervento perché, come
emerge anche dai rilievi fotografici allegati in atti, la
posa di pannelli solari si colloca in un contesto
caratterizzato da un tessuto fitto di edifici con copertura
a falda o a padiglione, visibili sia dal lago che dalla
sponda di fronte e che formano un complesso di immobili
aventi caratteristico aspetto e valore estetico
tradizionale. L’intervento, quindi, realizza, secondo
l’amministrazione, una rilevante alterazione all’equilibrio
percettivo del quadro d’insieme tutelato, perché la
soluzione proposta determina un’immagine della copertura
sostanzialmente differente ed estranea al contesto
monumentale e paesistico tutelato.
Tale valutazione tecnico discrezionale è certamente immune
da censure, in quanto ragionevole e non affetta da vizi nel
procedimento valutativo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 06.02.2014 n. 395 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il rustico (abusivo) in
argomento ha una superficie dichiarata nella domanda di
condono di mq. 36,41 e nella tavola progettuale di mq. 46,20
cui devono aggiungersi mq. 14.49 del portico e un’altezza
massima di mt. 2,80 e minima di mt. 2,55.
Ne deriva, pertanto, che va condivisa la valutazione
dell’amministrazione che ha qualificato l’opera come nuova
costruzione e non mera pertinenza dell’edificio residenziale
principale.
La nozione urbanistica di pertinenza è, per sua natura,
collegata non solo all'esigenza di un oggettivo nesso
funzionale e strumentale rispetto alla cosa principale ma,
soprattutto, al fatto che comunque deve trattarsi di
un'opera di dimensioni modeste e ridotte, altrimenti si
rovescerebbe lo stesso nesso di pertinenzialità.
Tanto premesso in punto di fatto, va
evidenziato che il ricorrente ha chiesto la sanatoria di un
manufatto di rilevanti dimensioni, come emerge dalla
documentazione allegata.
In particolare, il rustico in
argomento ha una superficie dichiarata nella domanda di
condono di mq. 36,41 e nella tavola progettuale di mq. 46,20
cui devono aggiungersi mq. 14.49 del portico e un’altezza
massima di mt. 2,80 e minima di mt. 2,55. Ne deriva,
pertanto, che va condivisa la valutazione
dell’amministrazione che ha qualificato l’opera come nuova
costruzione e non mera pertinenza dell’edificio residenziale
principale.
La nozione urbanistica di pertinenza è, per sua natura,
collegata non solo all'esigenza di un oggettivo nesso
funzionale e strumentale rispetto alla cosa principale ma,
soprattutto, al fatto che comunque deve trattarsi di
un'opera di dimensioni modeste e ridotte, altrimenti si
rovescerebbe lo stesso nesso di pertinenzialità (cfr.,
Consiglio di Stato, sez. IV, 26/03/2013, n. 1709).
Non sussiste neanche il paventato contrasto con l’art. 35
delle NTA del Prg che consente l’ampliamento degli edifici
residenziali, a condizione che le opere abbiano “poca
incidenza sotto il profilo ambientale e paesistico”.
Nel caso di specie le rilevanti dimensioni del manufatto,
che, peraltro, ne permettono un autonomo utilizzo, non
consentono certamente di considerarlo una pertinenza e di
ritenere la scarsa incidenza delle opere sotto il profilo
ambientale e paesaggistico.
Del resto la circostanza che l’abuso sia stato commesso in
zone sottoposte a tutela paesistico-ambientale rende
applicabile l’art. 7, co. 5, della L 47/1985 che consente
all’amministrazione di procedere alla demolizione d’ufficio,
senza la valutazione sulla necessità di conservare il bene
abusivo
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 06.02.2014 n. 393 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di contributi
derivanti dal rilascio di concessione edilizia sussiste la
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e tale
giurisdizione sussiste anche quando attiene alla richiesta,
mediante cartella esattoriale, di pagamento del contributo
per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni;
sebbene, infatti, l'art. 16 della l. 28.01.1977 n. 10 sia
stato abrogato dall'art. 136, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n.
380, a decorrere dal 30.06.2003, ai sensi dell'art. 3, d.l.
20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l.
01.08.2002, n. 185, le controversie in materia di oneri di
urbanizzazione devono ritenersi tuttora attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in
materia di urbanistica e di edilizia ai sensi dell'art. 34
d.lgs. n. 80 del 1998, non avendo tra l'altro detti oneri
natura tributaria, bensì natura di corrispettivo di diritto
pubblico avente la funzione di partecipazione ai costi delle
opere di urbanizzazione.
Invero, atteso che le controversie che hanno ad oggetto la
legittimità o meno del contributo relativo a concessione
edilizia vertono sull'esistenza o sulla misura di una
obbligazione direttamente stabilita dalla legge, l'atto con
cui l'Amministrazione comunale provvede in merito alla
determinazione del contributo concessorio non ha natura
autoritativa e la posizione del soggetto nei cui confronti è
richiesto il pagamento, è di diritto soggettivo e non di
interesse legittimo;ì.
Conseguentemente la giurisdizione del giudice amministrativo
in materia ha per oggetto tutte le controversie inerenti
all'an e al quantum della pretesa contributiva del comune,
(mentre la competenza dell'a.g.o. è limitata alle sole
questioni inerenti all'esperibilità del recupero in
executivis del credito contributivo); con l'ulteriore
precisazione che oggi, dopo l'entrata in vigore dell'art. 7
della L. 21.07.2000, n. 207, tale giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo comprende anche i giudizi avverso
l'ordinanza-ingiunzione emessa dal Comune ai sensi dell'art.
2 del r.d. 14.04.1910, n. 639.
---------------
L'Amministrazione non ha l'obbligo, a fronte del ritardato
pagamento degli oneri concessori, di escutere la
fideiussione, evitando in tal modo di applicare la sanzione.
Infatti la fideiussione che accompagna la rateizzazione del
pagamento degli oneri di urbanizzazione non ha la finalità
di agevolare l'adempimento del soggetto obbligato al
pagamento, bensì costituisce una garanzia personale prestata
unicamente nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale
non incombe alcun obbligo di preventiva escussione del
fideiussore.
Invero, la garanzia sussidiaria serve a scongiurare che il
Comune possa irrimediabilmente perdere una entrata di
diritto pubblico, ma non alleggerisce affatto la posizione
del soggetto tenuto al pagamento, né attenua i doveri di
diligenza sullo stesso incombenti, né estingue di per sé
l'obbligazione principale.
L’eccezione è infondata.
Va chiarito che in materia di contributi derivanti dal
rilascio di concessione edilizia sussiste la giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo e tale giurisdizione
sussiste anche quando attiene alla richiesta, mediante
cartella esattoriale, di pagamento del contributo per gli
oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni; sebbene,
infatti, l'art. 16 della l. 28.01.1977 n. 10 sia stato
abrogato dall'art. 136, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n.
380, a decorrere dal 30.06.2003, ai sensi dell'art. 3,
d.l. 20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l.
01.08.2002, n. 185, le controversie in materia di oneri
di urbanizzazione devono ritenersi tuttora attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in
materia di urbanistica e di edilizia ai sensi dell'art. 34 d.lgs. n. 80 del 1998, non avendo tra l'altro detti oneri
natura tributaria, bensì natura di corrispettivo di diritto
pubblico avente la funzione di partecipazione ai costi delle
opere di urbanizzazione; invero, atteso che le controversie
che hanno ad oggetto la legittimità o meno del contributo
relativo a concessione edilizia vertono sull'esistenza o
sulla misura di una obbligazione direttamente stabilita
dalla legge, l'atto con cui l'Amministrazione comunale
provvede in merito alla determinazione del contributo
concessorio non ha natura autoritativa e la posizione del
soggetto nei cui confronti è richiesto il pagamento, è di
diritto soggettivo e non di interesse legittimo;
conseguentemente la giurisdizione del giudice amministrativo
in materia ha per oggetto tutte le controversie inerenti
all'an e al quantum della pretesa contributiva del comune,
(mentre la competenza dell'a.g.o. è limitata alle sole
questioni inerenti all'esperibilità del recupero in executivis del credito contributivo); con l'ulteriore
precisazione che oggi, dopo l'entrata in vigore dell'art. 7
della L. 21.07.2000, n. 207, tale giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo comprende anche i
giudizi avverso l'ordinanza-ingiunzione emessa dal Comune ai
sensi dell'art. 2 del r.d. 14.04.1910, n. 639 (cfr.,
TAR Napoli (Campania) sez. II, 18/11/2008, 19792).
Il presente giudizio ha, quindi, ad oggetto anche diritti
soggettivi e si traduce nell’accertamento in concreto della
doverosità della corresponsione dei contributi concessori e
dell’esatta quantificazione degli stessi.
Ne deriva che non ha alcuna incidenza su tale aspetto
l’omessa impugnazione del decreto di ingiunzione di
pagamento.
---------------
Il Collegio
ritiene che il ricorso sia infondato.
La L. 108/1996 non ha, infatti, abrogato l’art. 3 L.
47/1985, ma si è limitata a definire gli interessi abnormi
risultanti da liberi accordi o convenzioni tra privati, non
anche quelli definiti dalla legge, come è avvenuto nel caso
di specie. Nessuna violazione della norma in parola emerge,
anche perché l’amministrazione si è limitata, nella
determinazione degli interessi applicati in sede di
determinazione delle rate di pagamento, ad applicare gli
interessi al tasso legale in vigore al momento del rilascio
della concessione edilizia.
Le somme dovute poi ai sensi dell’art. 3 L. 47/1985 non
costituiscono, peraltro, interessi, ma sono qualificati
espressamente come sanzioni, corrispondenti a percentuali di
aumento del contributo concessorio, in relazione ai giorni
di ritardo.
La società ricorrente ha, peraltro, dedotto che
l’amministrazione, in omaggio ai principi di buona fede e
correttezza, avrebbe dovuto prima escutere la polizza
fideiussoria e poi emettere il provvedimento sanzionatorio.
L’assunto è infondato, in quanto questo Tar ha già chiarito
che l'Amministrazione non ha l'obbligo, a fronte del
ritardato pagamento degli oneri concessori, di escutere la
fideiussione, evitando in tal modo di applicare la sanzione.
Infatti la fideiussione che accompagna la rateizzazione del
pagamento degli oneri di urbanizzazione non ha la finalità
di agevolare l'adempimento del soggetto obbligato al
pagamento, bensì costituisce una garanzia personale prestata
unicamente nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale
non incombe alcun obbligo di preventiva escussione del
fideiussore; invero, la garanzia sussidiaria serve a
scongiurare che il Comune possa irrimediabilmente perdere
una entrata di diritto pubblico, ma non alleggerisce affatto
la posizione del soggetto tenuto al pagamento, né attenua i
doveri di diligenza sullo stesso incombenti, né estingue di
per sé l'obbligazione principale (cfr., TAR Milano
(Lombardia) sez. II, 21/07/2009, n. 4405) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 06.02.2014 n. 389 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
La competenza al diniego
o al rilascio del permesso di costruire, anche in sanatoria,
e dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi
non è più del Sindaco, ma del dirigente ovvero, nei Comuni
sprovvisti di personale di qualifica dirigenziale, del
responsabile di ufficio o servizio.
Parimenti
infondata è la doglianza relativa all’incompetenza del
Responsabile del Servizio Edilizia Privata ad emanare il
provvedimento impugnato.
Come già chiarito da questo Tar a seguito del mutato quadro
normativo derivante dall'art. 51, l. 08.06.1990 n. 142,
nel testo modificato dall'art. 6, comma 1, l. 15.05.1997
n. 127, e del successivo art. 45, d.lgs. 31.03.1998 n. 80
-che ha distinto gli atti di gestione, di competenza dei
dirigenti, da quelli di indirizzo e di controllo, di
pertinenza degli organi politici- la competenza al diniego o
al rilascio del permesso di costruire, anche in sanatoria, e
dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi
non è più del Sindaco, ma del dirigente ovvero, nei Comuni
sprovvisti di personale di qualifica dirigenziale, del
responsabile di ufficio o servizio (cfr., TAR Torino
(Piemonte) sez. I, 13/12/2013, n. 1358) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 06.02.2014 n. 389 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In sede di dichiarazione
dei requisiti, la referenza economica è stata dichiarata in
forma sintetica, contestualmente sono però stati elencati
tutti i servizi svolti. In tal modo la stazione appaltante
avrebbe dovuto già in sede di verifica delle offerte,
rilevare l’assenza del requisito relativo alla capacità
economica, alla luce di quanto dichiarato a riprova della
capacità professionale: per tale ragione la stazione
appaltante avrebbe dovuto estromettere la società fin
dall’inizio, senza giungere alla fase di verifica di cui
all’art 48 D.lgs. 163/2006.
La censura non può trovare accoglimento, poiché nessuna
disposizione impone alla stazione appaltante di verificare
la sussistenza dei requisiti di partecipazione, ovvero la
veridicità delle dichiarazioni.
Al contrario il sistema normativo, al fine di garantire la
celerità delle operazioni di gara, prevede che la capacità
economicO-finanziaria sia dimostrata attraverso la
autodichiarazione, demandando poi alla verifica a campione
l’effettiva sussistenza dei requisiti e la corrispondenza
alle autodichiarazioni.
---------------
L’art. 48 del D.lgs. 136/2006 configura l'incameramento
della cauzione provvisoria come una conseguenza del tutto
automatica, di carattere sanzionatorio non suscettibile di
alcuna valutazione discrezionale, con riguardo ai fatti che
determinano la loro applicazione.
Ugualmente anche la segnalazione all’Autorità è un atto che
la stazione appaltante ha l’obbligo di adottare, in quanto
conseguenza tassativamente prevista per l'ipotesi della
mancanza dei requisiti di capacità economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa previsti dall'art. 48, d.lgs. n. 163
del 2006, con la precisazione, rispetto a detto atto, che la
giurisprudenza ha avuto modo, anche recentemente, di
precisare come l’atto effettivamente lesivo non sia l’atto
di trasmissione, qualificato come atto prodromico, ma solo
l’eventuale provvedimento dell’Autorità.
1) Il presente ricorso è stato proposto avverso
gli atti con cui la stazione appaltante ha escluso la
società ricorrente, per assenza del requisito di capacità
economico-finanziaria, ha disposto l’escussione della
cauzione provvisoria e ha segnalato il fatto all’Autorità di
vigilanza sui contratti.
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Il primo motivo attiene al provvedimento di esclusione:
sostiene la difesa di Omnia che, in sede di dichiarazione
dei requisiti, la referenza economica è stata dichiarata in
forma sintetica, contestualmente sono però stati elencati
tutti i servizi svolti. In tal modo la stazione appaltante
avrebbe dovuto già in sede di verifica delle offerte,
rilevare l’assenza del requisito relativo alla capacità
economica, alla luce di quanto dichiarato a riprova della
capacità professionale: per tale ragione la stazione
appaltante avrebbe dovuto estromettere la società fin
dall’inizio, senza giungere alla fase di verifica di cui
all’art 48 D.lgs. 163/2006.
La censura non può trovare accoglimento, poiché nessuna
disposizione impone alla stazione appaltante di verificare
la sussistenza dei requisiti di partecipazione, ovvero la
veridicità delle dichiarazioni.
Al contrario il sistema normativo, al fine di garantire la
celerità delle operazioni di gara, prevede che la capacità
economicO-finanziaria sia dimostrata attraverso la
autodichiarazione, demandando poi alla verifica a campione
l’effettiva sussistenza dei requisiti e la corrispondenza
alle autodichiarazioni.
Tra l’altro, come ha osservato la difesa della società
Sogemi, i requisiti di capacità economica da provare con il
fatturato, erano differenti rispetto ai requisiti di
capacità professionale, da provare con l’indicazione dei
servizi svolti, per cui anche il controllo “incrociato” non
permetteva di verificare l’assenza del requisito di capacità
economico finanziaria.
2) Nel secondo motivo parte ricorrente lamenta la violazione
dei principi che regolano il procedimento amministrativo, la
violazione del secondo considerando introduttivo alla
Direttiva CEE 2004/18/CE, nonché degli artt. 2, 20, 27, 41,
42 e 48 D. L.gs. 163/2006, perché è stata applicata una
sanzione sproporzionata, proprio considerando che la società
Omnia ha reso dichiarazioni veritiere.
Anche questo motivo non è fondato.
Secondo l’interpretazione prevalente, cui anche questa
Sezione ritiene di aderire, l’art. 48 del D.lgs. 136/2006
configura l'incameramento della cauzione provvisoria come
una conseguenza del tutto automatica, di carattere
sanzionatorio non suscettibile di alcuna valutazione
discrezionale, con riguardo ai fatti che determinano la loro
applicazione.
Ugualmente anche la segnalazione all’Autorità è un atto che
la stazione appaltante ha l’obbligo di adottare, in quanto
conseguenza tassativamente prevista per l'ipotesi della
mancanza dei requisiti di capacità economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa previsti dall'art. 48, d.lgs. n. 163
del 2006, con la precisazione, rispetto a detto atto, che la
giurisprudenza ha avuto modo, anche recentemente, di
precisare come l’atto effettivamente lesivo non sia l’atto
di trasmissione, qualificato come atto prodromico, ma solo
l’eventuale provvedimento dell’Autorità (ex multis TAR
Torino sez. I, 01/06/2012 n. 642).
3) L’orientamento sopra citato, circa la natura dell’art 48
è sufficiente a respingere anche il terzo motivo, in cui
parte ricorrente sostiene la tesi della non automaticità
dell’applicazione delle sanzioni.
Le stesse argomentazioni valgono per ritenere infondato il
motivo successivo, ripetitivo del precedente, in cui parte
ricorrente invoca i principi di buona fede e di correttezza,
partendo però sempre dall’errata convinzione che la stazione
appaltante possa effettuare una valutazione autonoma dei
fatti, che invece la norma esclude a priori, configurando le
sanzioni come automatiche conseguenze
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 06.02.2014 n. 382 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
E' illegittimo, per vizio
di difetto di istruttoria, l'ordine di rimozione della
copertura in eternit della chiesa.
La presenza
(incontestata) di materiale contenente amianto sul tetto
della chiesa costituisce fonte di pericolo per la privata e
pubblica incolumità, così da giustificare l’emissione
dell’ordinanza contingibile ed urgente: tuttavia, la stessa
non sfugge però alla necessità di un’adeguata istruttoria,
dalla quale risultino quali specifiche prescrizioni debbano
essere osservate, al fine di rimuovere la situazione
pregiudizievole.
Nel caso di specie, l’esame del D.M. 06.09.1994 (“Normative
e metodologie tecniche di applicazione dell'art. 6, comma 3,
e dell'art. 12, comma 2, della legge 27.03.1992, n. 257,
relativa alla cessazione dell'impiego dell'amianto”) mostra
la necessità di avere riguardo all’effettiva consistenza del
materiale, dovendo dipendere da esso la scelta del metodo di
bonifica, tra quelli indicati all’art. 6 (rimozione;
incapsulamento; confinamento).
Con detta norma tecnica sono dettate le indicazioni per la
scelta del metodo di bonifica, precisando espressamente che
<<un intervento di rimozione spesso non costituisce la
migliore soluzione per ridurre l'esposizione ad amianto. Se
viene condotto impropriamente può elevare la concentrazione
di fibre aerodisperse, aumentando, invece di ridurre, il
rischio di malattie da amianto>>.
A ciò consegue che l’ordinanza impugnata, priva di
istruttoria e di motivazione in ordine alla scelta di
rimuovere la copertura della chiesa, palesa una inesatta
modalità di esercizio del potere, astrattamente idoneo (per
quanto detto) ad aggravare il fenomeno anziché risolverlo,
allorché sia dimostrato che la rimozione costituiva una
cattiva scelta per prevenire il pericolo alla salute
pubblica.
... per l’annullamento
dell’ordinanza contingibile e urgente n. 230 prot. n.
0020039 del 31/07/2007, notificata il 06/08/2007; di qualsiasi
altro atto presupposto, comunque connesso e/o
consequenziale, ivi compreso il rapporto e/o la relazione
dell’Ufficio di Polizia Municipale del Comune di Grottaglie,
redatta a seguito del sopralluogo effettuato in data
06/05/2007.
...
Con l’impugnata ordinanza contingibile ed urgente, sulla
scorta del sopralluogo effettuato dal Comando di Polizia
Municipale presso la Chiesa Matrice in Piazza Regina
Margherita, è stato ingiunto di “provvedere ad horas a
mettere in sicurezza l’immobile rimuovendo la copertura in
eternit e trasporto della stessa presso una discarica
autorizzata”.
...
Il ricorso è meritevole di accoglimento.
Posto che la presenza (incontestata) di materiale contenente
amianto sul tetto della Chiesa Madre di Grottaglie
costituisce fonte di pericolo per la privata e pubblica
incolumità, così da giustificare l’emissione dell’ordinanza
contingibile ed urgente, la stessa non sfugge però alla
necessità di un’adeguata istruttoria, dalla quale risultino
quali specifiche prescrizioni debbano essere osservate, al
fine di rimuovere la situazione pregiudizievole.
Nel caso di specie, l’esame del D.M. 06.09.1994
(“Normative e metodologie tecniche di applicazione dell'art.
6, comma 3, e dell'art. 12, comma 2, della legge 27.03.1992, n. 257, relativa alla cessazione dell'impiego
dell'amianto”) mostra la necessità di avere riguardo
all’effettiva consistenza del materiale, dovendo dipendere
da esso la scelta del metodo di bonifica, tra quelli
indicati all’art. 6 (rimozione; incapsulamento;
confinamento).
Con detta norma tecnica sono dettate le indicazioni per la
scelta del metodo di bonifica, precisando espressamente che
<<un intervento di rimozione spesso non costituisce la
migliore soluzione per ridurre l'esposizione ad amianto. Se
viene condotto impropriamente può elevare la concentrazione
di fibre aerodisperse, aumentando, invece di ridurre, il
rischio di malattie da amianto>>.
A ciò consegue che l’ordinanza impugnata, priva di
istruttoria e di motivazione in ordine alla scelta di
rimuovere la copertura della chiesa, palesa una inesatta
modalità di esercizio del potere, astrattamente idoneo (per
quanto detto) ad aggravare il fenomeno anziché risolverlo,
allorché sia dimostrato che la rimozione costituiva una
cattiva scelta per prevenire il pericolo alla salute
pubblica.
Il provvedimento è pertanto illegittimo, per il denunciato
vizio di difetto di istruttoria, e va conseguentemente
annullato
(TAR Puglia-Lecce, I,
sentenza 06.02.2014 n. 337 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di
denuncia di inizio attività (DIA), come disciplinata
dall’art. 22 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sussistono
tuttora diversi indirizzi giurisprudenziali, circa la natura
giuridica dell’istituto e degli effetti del decorso del
termine, che consente al dichiarante di effettuare gli
interventi edilizi oggetto di denuncia.
In alcune pronunce, in particolare, si ravvisa in
esito alla procedura in questione la formazione di un
provvedimento tacito, abilitativo dell’intervento; in
altre decisioni si identifica la DIA come atto privato
di autocertificazione, che pur non costituendo espressione
di potestà pubblicistica resta oggetto di poteri di
controllo ed inibitori, anche dopo la scadenza del predetto
termine, sempre comunque nel rispetto degli articoli
quinquies e nonies della legge n. 241/1990.
E’ riconosciuto dalla giurisprudenza, in ogni caso,
l’affidamento del privato, cui sono finalizzati i principi
garantistici dell’autotutela, in termini di comunicazione di
avvio del procedimento e di motivata enunciazione di
eventuali presupposti di inapplicabilità della DIA, anche a
prescindere da un vero e proprio annullamento dell’assenso
tacito, che si ritenesse in precedenza formato (purché in
presenza di corretti requisiti formali dell’istanza:
corrispondenza alle opere eseguite ed esibizione di altri
atti di assenso eventualmente necessari, a norma dell’art.
23, comma 5, del d.P.R. n. 380/2001).
---------------
Ove ricorrano i principi dell’autotutela
il provvedimento sanzionatorio –di norma vincolato– assume
connotati discrezionali, connessi all’esigenza di
bilanciamento fra gli interessi pubblici e privati
coinvolti, nei termini oggi specificati nell’art. 21-nonies
della legge n. 241/1990.
Un affidamento consolidato, in esito a DIA non resa oggetto
di tempestiva contestazione, in altre parole, rende la
comunicazione di avvio di cui trattasi non mero adempimento
formale, ma atto prodromico dell’autotutela, da esercitare
comunque con provvedimento motivato e non con mera
applicazione della misura sanzionatoria.
Non si vede, pertanto, come detto fondamentale adempimento
potesse considerarsi sostituito dalla mera presenza del
diretto interessato al sopralluogo, non certo effettuato
dall’organo competente a deliberare nei termini sopra
specificati.
A diverse conclusioni si deve pervenire, poi, per quanto
riguarda la recinzione e lo spargimento di brecciame.
Con riferimento alla recinzione, l’appellante ribadisce che
l’intervento sarebbe stato preceduto, nel 2006 e nel 2008,
da due denunce di inizio attività, in presenza delle quali
le installazioni di cui trattasi non avrebbero potuto
ritenersi abusive, con conseguente necessità che
l’Amministrazione procedesse –prima di emettere eventuali
provvedimenti repressivi– a rimuovere il titolo abilitativo,
tacitamente formatosi, in via di autotutela.
L’Amministrazione eccepisce, al riguardo, l’inammissibilità
di “ius novorum” in appello. Detta eccezione è solo
parzialmente condivisibile, in quanto la cesura di omessa
comunicazione di avvio del procedimento, già prospettata in
primo grado di giudizio (con entrambe le denunce di inizio
attività depositate in atti), traeva solo da queste ultime
ragione di fondatezza, risultando detta comunicazione non
dovuta in presenza dei presupposti per l’emanazione di atti
sanzionatori vincolati e dovuta, invece, per l’avvio di
procedimenti in via di autotutela.
In materia di denuncia di inizio attività (DIA), come
disciplinata dall’art. 22 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in
effetti, sussistono tuttora diversi indirizzi
giurisprudenziali, circa la natura giuridica dell’istituto e
degli effetti del decorso del termine, che consente al
dichiarante di effettuare gli interventi edilizi oggetto di
denuncia.
In alcune pronunce, in particolare, si ravvisa in
esito alla procedura in questione la formazione di un
provvedimento tacito, abilitativo dell’intervento (cfr. in
tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. VI, 05.04.2007, n.
1550; Cons. St., sez. IV, 12.03.2009, n. 1474 e 25.11.2008,
n. 5811; Cons. St., sez. II, 28.05.2010, parere n. 1990);
in altre decisioni si identifica la DIA come atto
privato di autocertificazione, che pur non costituendo
espressione di potestà pubblicistica resta oggetto di poteri
di controllo ed inibitori, anche dopo la scadenza del
predetto termine, sempre comunque nel rispetto degli
articoli quinquies e nonies della legge n. 241/1990 (cfr. in
tal senso Cons. St., sez. VI, 09.02.2009, n. 717 e
14.11.2012, n. 5751).
E’ riconosciuto dalla giurisprudenza, in ogni caso,
l’affidamento del privato, cui sono finalizzati i principi
garantistici dell’autotutela, in termini di comunicazione di
avvio del procedimento e di motivata enunciazione di
eventuali presupposti di inapplicabilità della DIA, anche a
prescindere da un vero e proprio annullamento dell’assenso
tacito, che si ritenesse in precedenza formato (purché in
presenza di corretti requisiti formali dell’istanza:
corrispondenza alle opere eseguite ed esibizione di altri
atti di assenso eventualmente necessari, a norma dell’art.
23, comma 5, del d.P.R. n. 380/2001).
Nella situazione in esame, non risultando la sussistenza di
vincoli, né comunque l’esigenza di altri preventivi pareri
per la presentazione di denuncia di inizio attività, il
Collegio ritiene che le caratteristiche delle opere –che
appaiono peraltro di consistenza inferiore a quella
segnalata nella sentenza in esame– non consentissero di
considerare le denunce di inizio attività presentate “tamquam
non essent”, con conseguente esigenza di previa
comunicazione di avvio del procedimento di autotutela,
finalizzato alla rimozione degli effetti autorizzativi,
conseguenti al decorso del termine prescritto.
Ove infatti ricorrano i principi dell’autotutela il
provvedimento sanzionatorio –di norma vincolato– assume
connotati discrezionali, connessi all’esigenza di
bilanciamento fra gli interessi pubblici e privati
coinvolti, nei termini oggi specificati nell’art. 21-nonies
della legge n. 241/1990. Un affidamento consolidato, in
esito a DIA non resa oggetto di tempestiva contestazione, in
altre parole, rende la comunicazione di avvio di cui
trattasi non mero adempimento formale, ma atto prodromico
dell’autotutela, da esercitare comunque con provvedimento
motivato e non con mera applicazione della misura
sanzionatoria. Non si vede, pertanto, come detto
fondamentale adempimento potesse considerarsi sostituito
dalla mera presenza del diretto interessato al sopralluogo,
non certo effettuato dall’organo competente a deliberare nei
termini sopra specificati.
Non possono non rilevare, inoltre, le caratteristiche della
recinzione di cui trattasi, oggettivamente diverse –come
comprovato tramite perizia di parte e documentazione
fotografica– da quelle che nella sentenza appellata avevano
fatto dichiarare necessario il permesso di costruire: al
posto della “recinzione in cemento armato alta 2 metri e
60 centimetri” è rilevabile, infatti, solo un muretto di
altezza variabile fra metri 1,06 a metri 0,83, con
sovrastante cancellata di non lieve consistenza, ma comunque
distinta dall’opera muraria (con evidente possibilità che
l’intervento, effettuato in base a titoli abilitativi taciti
diversi, fosse ritenuto in tutto o almeno in parte –in
termini da precisare in un provvedimento motivato–
assoggettabile a DIA, sufficiente per delimitazioni dei
confini non effettuate con opere di consistente entità, come
confermato dalla giurisprudenza citata nella stessa sentenza
appellata)
(Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 04.02.2014 n. 532 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Spargimento di brecciame e attività edilizia libera.
Può ritenersi rispondente all’attività
edilizia libera, di cui all’art. 6 del d.P.R. n. 380/2001,
la mera diffusione sul terreno di materiale ghiaioso
leggero, inframmezzato alla vegetazione spontanea,
facilmente asportabile e rispondente a dichiarate (nonché
plausibili) esigenze di drenaggio, in assenza di
coltivazioni in corso.
Quanto allo spargimento di brecciame, infine, le
caratteristiche finali del terreno –a loro volta comprovate
da perizia e documentazione fotografica– appaiono lungi dal
configurarne l’integrale pavimentazione (implicante
mutamento della destinazione agricola dell’area e soggetta a
permesso di costruire), così come non appaiono sussistenti
cumuli di materiale, qualificabili come deposito. Può
d’altra parte ritenersi rispondente all’attività edilizia
libera, di cui all’art. 6 del d.P.R. n. 380/2001, la mera
diffusione sul terreno di materiale ghiaioso leggero,
inframmezzato alla vegetazione spontanea, facilmente
asportabile e rispondente a dichiarate (nonché plausibili)
esigenze di drenaggio, in assenza di coltivazioni in corso
(Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 04.02.2014 n. 532 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Dall'art.
3 DPR n. 327/2001 consegue che, in linea generale, non
possono essere prospettate violazioni delle norme afferenti
alla comunicazione degli atti espropriativi e, quindi,
violazione del principio di partecipazione al procedimento
amministrativo, una volta che l'amministrazione abbia
effettivamente disposto le comunicazioni in favore dei
proprietari risultanti dai registri catastali, salvo che
l'amministrazione non abbia "notizia dell'eventuale diverso
proprietario effettivo".
Quanto a tale "notizia" -che, ai sensi dell'art. 3, comma 2,
DPR n. 327/2001, ove sussistente, impone all'amministrazione
di procedere alla comunicazione non già al proprietario
"catastale" (secondo la regola generale) ma a quello
"effettivo", essendo quest'ultimo da essa conosciuto-
occorre osservare che essa non può essere rappresentata, o
essere comunque desunta, da un qualsivoglia atto che, in
tempi ed in procedimenti diversi, sia comunque pervenuto
alla pubblica amministrazione, ma deve essere correttamente
intesa come una notizia recante l'emersione del "vero"
proprietario, acquisita dalla pubblica amministrazione
nell'ambito della medesima o in diversa procedura
espropriativa, o nel corso delle attività a questa
propedeutiche.
Occorre, quindi, una conoscenza dell'effettivo proprietario
che sia certa (incombendo l'onere della prova della
conoscenza su chi eccepisce l'illegittimità delle
comunicazioni effettuate al proprietario "catastale"), e non
solo astrattamente desumibile dalla presenza di un
qualsivoglia atto, prodotto o acquisito in tempi e
procedimenti diversi da quello espropriativo, cui l'obbligo
di comunicazione degli atti afferisce.
Occorre innanzi tutto ricordare che l'art. 3 DPR
n. 327/2001, prevede, per quel che interessa nella presente
sede: (comma 2) "Tutti gli atti della procedura
espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il decreto di
esproprio, sono disposti nei confronti del soggetto che
risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo che
l'autorità espropriante non abbia tempestiva notizia
dell'eventuale diverso proprietario effettivo. Nel caso in
cui abbia avuto notizia della pendenza della procedura
espropriativa dopo la comunicazione dell'indennità
provvisoria al soggetto che risulti proprietario secondo i
registri catastali, il proprietario effettivo può, nei
trenta giorni successivi, concordare l'indennità ai sensi
dell' articolo 45, comma 2." (comma 3) "Colui che
risulta proprietario secondo i registri catastali e riceva
la notificazione o comunicazione di atti del procedimento
espropriativo, ove non sia più proprietario è tenuto di
comunicarlo all'amministrazione procedente entro trenta
giorni dalla prima notificazione, indicando altresì, ove ne
sia a conoscenza, il nuovo proprietario, o comunque fornendo
copia degli atti in suo possesso utili a ricostruire le
vicende dell'immobile.".
In sensi analoghi (considerando, cioè, il proprietario
risultante dai registri catastali) già disponeva anche
l'art. 10 l. n. 865/1971.
Dall'art. 3 DPR n. 327/2001 cit., consegue che, in linea
generale, non possono essere prospettate violazioni delle
norme afferenti alla comunicazione degli atti espropriativi
e, quindi, violazione del principio di partecipazione al
procedimento amministrativo, una volta che l'amministrazione
abbia effettivamente disposto le comunicazioni in favore dei
proprietari risultanti dai registri catastali (Cons. Stato,
sez. IV, 26.02.2008 n. 677), salvo che
l'amministrazione non abbia "notizia dell'eventuale diverso
proprietario effettivo".
Quanto a tale "notizia" -che, ai sensi dell'art. 3, comma
2, DPR n. 327/2001, ove sussistente, impone
all'amministrazione di procedere alla comunicazione non già
al proprietario "catastale" (secondo la regola generale) ma
a quello "effettivo", essendo quest'ultimo da essa
conosciuto- occorre osservare che essa non può essere
rappresentata, o essere comunque desunta, da un qualsivoglia
atto che, in tempi ed in procedimenti diversi, sia comunque
pervenuto alla pubblica amministrazione, ma deve essere
correttamente intesa come una notizia recante l'emersione
del "vero" proprietario, acquisita dalla pubblica
amministrazione nell'ambito della medesima o in diversa
procedura espropriativa, o nel corso delle attività a questa
propedeutiche. Occorre, quindi, una conoscenza
dell'effettivo proprietario che sia certa (incombendo
l'onere della prova della conoscenza su chi eccepisce
l'illegittimità delle comunicazioni effettuate al
proprietario "catastale"), e non solo astrattamente
desumibile dalla presenza di un qualsivoglia atto, prodotto
o acquisito in tempi e procedimenti diversi da quello
espropriativo, cui l'obbligo di comunicazione degli atti
afferisce.
Da quanto ora esposto, consegue che –in carenza di tale
prova della conoscenza del proprietario effettivo– bene
l’Amministrazione ebbe a comunicare gli avvisi agli
intestatari catastali (in termini, ex aliis, Consiglio di
Stato sez. IV 16.09.2011 n. 5233)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2014 n. 505 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
mancata impugnazione della delibera di rigetto delle
osservazioni al piano regolatore in itinere è irrilevante ai
fini della corretta instaurazione del ricorsi proposto
avverso la delibera di adozione del Prg, sia per la loro
natura di forme di collaborazione alla formazione del piano
regolatore sia per il loro assorbimento per effetto
dell'intervenuta impugnazione del piano stesso.
Anche di recente costante quanto consolidata giurisprudenza
ha affermato che “ai fini della corretta instaurazione del
ricorso proposto avverso la deliberazione del Consiglio
comunale di adozione del p.r.g., non è necessario che il
ricorrente impugni altresì l'atto di rigetto delle
osservazioni da lui stesso eventualmente presentate nei
confronti del piano regolatore "in itinere", dovendosi
queste ultime ritenere assorbite nei motivi di
impugnazione.”
Ciò in quanto "le osservazioni del privato in un
procedimento di formazione di un P.R.G., ovvero di variante
allo stesso, hanno valore di mero apporto collaborativo e
non costituiscono in alcun modo un onere per l'interessato,
cosicché la mancata partecipazione al predetto procedimento
non rappresenta acquiescenza e non determina alcuna
preclusione quanto alla futura impugnazione dello strumento
urbanistico stesso e/o dei suoi atti applicativi.”.
In passato, si predicava addirittura la inammissibilità di
una simile azione impugnatoria: “è inammissibile, potendo le
relative doglianze essere fatte valere solo nei confronti
della delibera di approvazione del piano di lottizzazione,
per costante orientamento giurisprudenziale, l'impugnazione
della delibera di reiezione delle osservazioni ad una
variante del P.R.G. incidente -tra l'altro- su aree incluse
in un piano di lottizzazione”).
Per altro verso, e quanto al secondo profilo, questa Sezione
del Consiglio di Stato ha costantemente ribadito il
principio per cui “la mera adozione del piano regolatore,
non ancora approvato, determina la facoltà, ma non anche
l'onere di impugnazione”.
Quanto al secondo profilo, si rammenta
che, per costante quanto consolidata giurisprudenza –pienamente condivisa da questo Collegio che non ravvisa
alcun motivo per mutare opinione sul punto- ”la mancata
impugnazione della delibera di rigetto delle osservazioni al
piano regolatore in itinere è irrilevante ai fini della
corretta instaurazione del ricorsi proposto avverso la
delibera di adozione del Prg, sia per la loro natura di
forme di collaborazione alla formazione del piano regolatore
sia per il loro assorbimento per effetto dell'intervenuta
impugnazione del piano stesso”
(ex aliis TAR Lombardia Milano, sez. II, 04.11.2004, n. 5594).
Anche di recente costante quanto consolidata giurisprudenza
(Cons. Giust. Amm. Sic. Sent., 19.12.2008, n. 1142) ha
affermato che “ai fini della corretta instaurazione del
ricorso proposto avverso la deliberazione del Consiglio
comunale di adozione del p.r.g., non è necessario che il
ricorrente impugni altresì l'atto di rigetto delle
osservazioni da lui stesso eventualmente presentate nei
confronti del piano regolatore "in itinere", dovendosi
queste ultime ritenere assorbite nei motivi di
impugnazione.”
Ciò in quanto (si veda ex aliis Cons. Stato Sez. IV,
01.03.2010, n. 1176) “le osservazioni del privato in un
procedimento di formazione di un P.R.G., ovvero di variante
allo stesso, hanno valore di mero apporto collaborativo e
non costituiscono in alcun modo un onere per l'interessato,
cosicché la mancata partecipazione al predetto procedimento
non rappresenta acquiescenza e non determina alcuna
preclusione quanto alla futura impugnazione dello strumento
urbanistico stesso e/o dei suoi atti applicativi.”.
In passato, si predicava addirittura la inammissibilità di
una simile azione impugnatoria (Cons. Stato Sez. IV,
31.05.2003, n. 3041: “è inammissibile, potendo le relative
doglianze essere fatte valere solo nei confronti della
delibera di approvazione del piano di lottizzazione, per
costante orientamento giurisprudenziale, l'impugnazione
della delibera di reiezione delle osservazioni ad una
variante del P.R.G. incidente -tra l'altro- su aree
incluse in un piano di lottizzazione”).
Per altro verso, e quanto al secondo profilo, questa
Sezione del Consiglio di Stato (Sez. IV, 15.02.2013, n. 921)
ha costantemente ribadito il principio per cui “la mera
adozione del piano regolatore, non ancora approvato,
determina la facoltà, ma non anche l'onere di impugnazione”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2014 n. 496 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Il
termine previsto per la conclusione della procedura
ablatoria, coincidente con la data di adozione del
conclusivo provvedimento che pronuncia l’esproprio assume i
connotati della perentorietà di guisa l’inutile decorso del
termine de quo comporta la inefficacia della dichiarazione
di pubblica utilità e la illegittimità dell’intera procedura
espropriativa per cattivo esercizio del potere ablatorio da
parte della P.A..
Questo Consiglio di Stato ha più volte statuito
il principio per cui il termine previsto per la conclusione
della procedura ablatoria, coincidente con la data di
adozione del conclusivo provvedimento che pronuncia
l’esproprio assume i connotati della perentorietà di guisa
l’inutile decorso del termine de quo comporta la inefficacia
della dichiarazione di pubblica utilità e la illegittimità
dell’intera procedura espropriativa per cattivo esercizio
del potere ablatorio da parte della P.A. (ex multis, Cons.
Stato Sez. Sez. V 18.03.2002 n. 1562; Sez. VI 07/09/2006
n. 5190)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2014 n. 495 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: I
vincoli urbanistici non indennizzabili, che sfuggono alla
previsione del predetto articolo 2 della L. 19.11.1968, n.
1187, sono quelli che riguardano intere categorie di beni,
quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i
vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, che
devono invece essere indennizzati, sono:
a) quelli preordinati all'espropriazione ovvero aventi
carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto
implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non
discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore
statale o regionale, attraverso l'imposizione a titolo
particolare su beni determinati di condizioni di
inedificabilità assoluta;
b) quelli che superano la durata non irragionevole e non
arbitraria ove non si compia l'esproprio o non si avvii la
procedura attuativa preordinata a tale esproprio con
l'approvazione dei piani urbanistici esecutivi;
c) quelli che superano quantitativamente la normale
tollerabilità, secondo una concezione della proprietà
regolata dalla legge nell'ambito dell'art. 42 Cost..
Nei termini descritti, tutti i vincoli
finalizzati all’esproprio contengono un dato ipotetico: e
per questo “nasce” a tutela della posizione del privato e si
rende necessaria dell’ordinamento la posizione espressa
dalla Corte costituzionale, con la “storica” sentenza 20.05.1999, n. 179 (dichiarativa dell'illegittimità
costituzionale del combinato disposto degli articoli 7, n.
2, 3 e 4 e 40 della L. 17.08.1942, n. 1150, e 2, primo
comma, della L. 19.11.1968, n. 1187, nella parte in
cui consente all'Amministrazione di reiterare i vincoli
urbanistici scaduti preordinati all'espropriazione o che
comportino l'inedificabilità, senza la previsione di un
indennizzo).
Il che ha portato la uniforme giurisprudenza amministrativa
ad affermare (ex multis Cons. Stato Sez. V, 13.04.2012, n.
2116) che “i vincoli urbanistici non indennizzabili, che
sfuggono alla previsione del predetto articolo 2 della L. 19.11.1968, n. 1187, sono quelli che riguardano intere
categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli
paesistici, mentre i vincoli urbanistici soggetti alla
scadenza quinquennale, che devono invece essere
indennizzati, sono: a) quelli preordinati all'espropriazione
ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in
quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà,
se non discrezionalmente delimitati nel tempo dal
legislatore statale o regionale, attraverso l'imposizione a
titolo particolare su beni determinati di condizioni di
inedificabilità assoluta; b) quelli che superano la durata
non irragionevole e non arbitraria ove non si compia
l'esproprio o non si avvii la procedura attuativa
preordinata a tale esproprio con l'approvazione dei piani
urbanistici esecutivi; c) quelli che superano
quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una
concezione della proprietà regolata dalla legge nell'ambito
dell'art. 42 Cost..”.
Detta tesi è poi stata positivamente recepita, come è noto,
da una disposizione del dPR n. 327/2001 (l’art. 9) in quanto
ivi è certamente affermato il principio della decadenza del
vincolo preordinato all’esproprio.
La decadenza del vincolo imprime appunto un limite temporale
alla “ipotesi” (che riposa nella futura intrapresa della
realizzazione dell’area in un tempo contenuto, pena la
decadenza del vincolo).
Se così è, di nulla può dolersi l’appellante se il vincolo
impresso sia più esteso dell’area interessata dal progetto
preliminare: l’Amministrazione decide liberamente la
tempistica realizzativa delle opere che si propone di
erigere, con il solo rispetto del barrage temporale di
decadenza (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2014 n. 493 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Il
difetto di inserimento dell'opera nel programma triennale
non rende illegittima la sua realizzazione nel caso in cui
sia finanziata attraverso fondi differenti rispetto a quelli
contemplati in ambito di redazione del programma stesso, in
quanto in base all'art. 14 n. 9, L. n. 109 dell'11.02.1994,
sost. dall'art. 4, L. n. 413 del 1998, le opere pubbliche,
non inserite nel programma triennale, possono essere
realizzate sulla base di un autonomo piano di finanziamento
che non utilizzi risorse già previste tra i mezzi finanziari
dell'amministrazione al momento della formazione
dell'elenco.
---------------
La progettazione
in materia di lavori pubblici si articola secondo tre
livelli di successivi approfondimenti tecnici, in
preliminare, definitiva ed esecutiva.
Il progetto preliminare definisce
le caratteristiche qualitative e funzionali dei lavori, il
quadro delle esigenze da soddisfare e delle specifiche
prestazioni da fornire e consiste in una relazione
illustrativa delle ragioni della scelta della soluzione
prospettata in base alle valutazioni delle soluzioni
possibili.
Il progetto definitivo individua compiutamente i
lavori da realizzare, nel rispetto delle esigenze, dei
criteri, dei vincoli, degli indirizzi e delle indicazioni
stabiliti nel progetto preliminare e contiene tutti gli
elementi necessari ai fini del rilascio delle prescritte
autorizzazioni e approvazioni.
Il progetto esecutivo,
redatto in conformità al progetto definitivo, determina in
ogni dettaglio i lavori da realizzare e il relativo costo
previsto e deve essere sviluppato ad un livello di
definizione tale da consentire che ogni elemento sia
identificabile in forma, tipologia, qualità, dimensione e
prezzo (ex aliis Cons. Stato Sez. VI, 11.11.2013, n. 5365,
ma si veda anche Cons. Stato Sez. IV, 21.10.2013, n. 5094
per l’affermazione secondo cui solo nel caso di approvazione
di un progetto definitivo o esecutivo è connessa la
dichiarazione di pubblica utilità dell'opera).
Quanto (terza
censura) alla affermata carenza di copertura finanziaria la
circostanza che l’opera in questione non risultasse inserita
nel programma triennale dei lavori pubblici 2009/2011
(d.lgs. n. 163/2006 e d.P.R. n. 554/1999) non è dirimente.
E’ rimasto infatti incontestato che all’atto
dell’approvazione del progetto preliminare non era ancora
intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
Per altro verso, l’appellante non pare avere inteso
l’ulteriore sviluppo motivo del Tar allorché si duole che il
primo giudice non avesse verificato la sussistenza o meno
del piano finanziario autonomo.
E’ insegnamento consolidato della ante vigente
giurisprudenza –di inalterata validità- quello per cui “il
difetto di inserimento dell'opera nel programma triennale
non rende illegittima la sua realizzazione nel caso in cui
sia finanziata attraverso fondi differenti rispetto a quelli
contemplati in ambito di redazione del programma stesso, in
quanto in base all'art. 14 n. 9, L. n. 109 dell'11.02.1994, sost. dall'art. 4, L. n. 413 del 1998, le opere
pubbliche, non inserite nel programma triennale, possono
essere realizzate sulla base di un autonomo piano di
finanziamento che non utilizzi risorse già previste tra i
mezzi finanziari dell'amministrazione al momento della
formazione dell'elenco” (TAR Toscana Firenze Sez. III,
16.04.2004, n. 1162 ).
Ciò implica che l’opera, ovviamente ed a fortiori, sia
progettabile ma soprattutto che affermazione della
doverosità della “ricerca“ del piano finanziario autonomo
antecedentemente alla emissione dichiarazione di pubblica
utilità costituisca affermazione frutto di un evidente
errore: la sentenza è in parte qua immune da censure.
---------------
Il quarto
motivo va disatteso (esso sarebbe certamente inammissibile
perché in nulla critica la sentenza reiterando la stessa
obiezione motivatamente disattesa in primo grado) alla
stregua del principio per cui il progetto preliminare "deve
consentire l'avvio della procedura espropriativa", ma non
prescrive il presupposto dell'attuale conformità urbanistica, mentre tale presupposto deve necessariamente sussistere
soltanto al momento dell'approvazione del progetto
definitivo, poiché solo tale livello di progettazione
costituisce dichiarazione di pubblica utilità dell'opera
pubblica o di pubblica utilità.
Detto corollario è armonico
alla previsione di cui all’art. 93 D.Lgs. n. 163/2006
(Codice degli appalti) secondo il quale la progettazione in
materia di lavori pubblici si articola secondo tre livelli
di successivi approfondimenti tecnici, in preliminare,
definitiva ed esecutiva.
Il progetto preliminare definisce
le caratteristiche qualitative e funzionali dei lavori, il
quadro delle esigenze da soddisfare e delle specifiche
prestazioni da fornire e consiste in una relazione
illustrativa delle ragioni della scelta della soluzione
prospettata in base alle valutazioni delle soluzioni
possibili. Il progetto definitivo individua compiutamente i
lavori da realizzare, nel rispetto delle esigenze, dei
criteri, dei vincoli, degli indirizzi e delle indicazioni
stabiliti nel progetto preliminare e contiene tutti gli
elementi necessari ai fini del rilascio delle prescritte
autorizzazioni e approvazioni. Il progetto esecutivo,
redatto in conformità al progetto definitivo, determina in
ogni dettaglio i lavori da realizzare e il relativo costo
previsto e deve essere sviluppato ad un livello di
definizione tale da consentire che ogni elemento sia
identificabile in forma, tipologia, qualità, dimensione e
prezzo (ex aliis Cons. Stato Sez. VI, 11.11.2013, n. 5365,
ma si veda anche Cons. Stato Sez. IV, 21.10.2013, n. 5094
per l’affermazione secondo cui solo nel caso di approvazione
di un progetto definitivo o esecutivo è connessa la
dichiarazione di pubblica utilità dell'opera) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2014 n. 493 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parcheggi interrati per effetto del riporto di terra.
I parcheggi pertinenziali realizzati nel sottosuolo degli
immobili e che possono essere costruiti anche in deroga agli
strumenti urbanistici vigenti ai sensi dell'art. 9, legge n.
122 del 1989, sono solo quelli costruiti totalmente al di
sotto del piano di campagna naturale e non quelli
artificialmente interrati per effetto del riporto di terra.
L'art. 9 della L. 24.03.1989, n. 122, non è applicabile nel
caso di realizzazione di un garage che non è interrato e che
al fine del suo interramento comunque richiede una
operazione di sistemazione del soprassuolo per rendere in
definitiva interrato ciò che non lo sarebbe mantenendo
l'originario andamento del suolo, atteso che la
realizzazione di strutture de quibus resta
pacificamente ammessa solo in assenza di alterazioni
visibili del territorio, argomento valido anche per le
autorimesse pertinenziali se ed in quanto sotterranee.
Per costruzione interrata si intende una
costruzione che sia totalmente a quota non superiore a
quella dell'originario piano di campagna.
Si è condivisibilmente rilevato infatti che “i parcheggi
pertinenziali realizzati nel sottosuolo degli immobili e che
possono essere costruiti anche in deroga agli strumenti
urbanistici vigenti ai sensi dell'art. 9, legge n. 122 del
1989, sono solo quelli costruiti totalmente al di sotto del
piano di campagna naturale e non quelli artificialmente
interrati per effetto del riporto di terra”. Tra l'altro,
“le norme sulle distanze legali fra costruzioni in quanto
rivolte ad impedire la formazione di intercapedini dannose
non trovano applicazione con riguardo a costruzioni o a
parti di costruzioni interrate; realizzate interamente al di
sotto del piano di campagna".
Si è detto peraltro, più puntualmente, che "l'art. 9 della
L. 24.03.1989, n. 122, non è applicabile nel caso di
realizzazione di un garage che non è interrato e che al fine
del suo interramento comunque richiede una operazione di
sistemazione del soprassuolo per rendere in definitiva
interrato ciò che non lo sarebbe mantenendo l'originario
andamento del suolo, atteso che la realizzazione di
strutture de quibus resta pacificamente ammessa solo in
assenza di alterazioni visibili del territorio, argomento
valido anche per le autorimesse pertinenziali se ed in
quanto sotterranee.”
---------------
Anche in considerazione che l’interramento non è “naturale”,
trova applicazione il costante principio per cui
“nell'ambito della fascia di rispetto autostradale di 60
metri, prevista dal D.M. 01.04.1968, n. 1404, il vincolo di
inedificabilità è assoluto, essendo a tal fine irrilevanti
le caratteristiche concrete delle opere abusive realizzate
nell'ambito della fascia medesima; il divieto di costruire è
infatti in questo caso correlato alla esigenza di assicurare
un'area libera utilizzabile dal concessionario
dell'autostrada -all'occorrenza- per installarvi cantieri,
depositare materiali, per necessità varie e, comunque, per
ogni necessità di gestione relativa ad interventi in loco
sulla rete autostradale. Il divieto di edificazione
nell'ambito della fascia di rispetto autostradale è assoluto
e la sua violazione impedisce il conseguimento di una
concessione edilizia a seguito di domanda di condono
edilizio.”.
Ancora di recente, si è ribadito che (“in relazione alle
opere realizzate in zona vincolata, ricadente in fascia di
rispetto stradale, si è in presenza di un vincolo di
carattere assoluto, che prescinde dalle caratteristiche
dell'opera realizzata, in quanto il divieto di
"edificazione" sancito dall'art. 4, D.M. 01.04.1968 (recante
norme in materia di "distanze minime a protezione del nastro
stradale da osservarsi nella edificazione fuori del
perimetro dei centri abitati, di cui all'art. 19, legge
06.08.1967, n. 765"), non può essere inteso
restrittivamente, cioè al solo scopo di prevenire
l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di
costituire, per la loro prossimità alla sede stradale,
pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità
delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di
assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità
di interesse generale, e, cioè, per esempio, per
l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il
deposito dei materiali, per la realizzazione di opere
accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza
di costruzioni.
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Con riguardo ad altro vincolo (di pari assolutezza, però, sì
che il principio ivi affermato appare perfettamente
traslabile alla fattispecie) la giurisprudenza ha posto in
luce che “anche il parcheggio interrato, da realizzare ai
sensi dell'art. 9 della L. n. 122/1989, in quanto struttura
servente all'uso abitativo e, comunque, posta nell'ambito
della fascia di rispetto cimiteriale, rientra tra le
costruzioni edilizie del tutto vietate dalla disposizione di
cui all'art. 338 del R.D. n. 1265/1934".
Nel merito, così
stabilisce l’art. 9 della L. 24.03.1989 n. 122 nel testo
ratione temporis vigente e pertanto applicabile alla
odierna fattispecie: “1. I proprietari di immobili
possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei
locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da
destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari,
anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati,
ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree
pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto
con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della
superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei
corpi idrici . Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti
dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed
i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni
e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed
ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90
giorni. I parcheggi stessi, ove i piani urbani del traffico
non siano stati redatti, potranno comunque essere realizzati
nel rispetto delle indicazioni di cui al periodo precedente.
2. L'esecuzione delle opere e degli interventi previsti dal
comma 1 è soggetta a denuncia di inizio attività .
3. Le deliberazioni che hanno per oggetto le opere e gli
interventi di cui al comma 1 sono approvate salvo che si
tratti di proprietà non condominiale, dalla assemblea del
condominio, in prima o in seconda convocazione, con la
maggioranza prevista dall'articolo 1136, secondo comma, del
codice civile. Resta fermo quanto disposto dagli articoli
1120, secondo comma, e 1121, terzo comma, del codice civile.
4. I comuni, previa determinazione dei criteri di cessione
del diritto di superficie e su richiesta dei privati
interessati o di imprese di costruzione o di società anche
cooperative, possono prevedere, nell'ambito del programma
urbano dei parcheggi, la realizzazione di parcheggi da
destinare a pertinenza di immobili privati su aree comunali
o nel sottosuolo delle stesse . Tale disposizione si applica
anche agli interventi in fase di avvio o già avviati. La
costituzione del diritto di superficie è subordinata alla
stipula di una convenzione nella quale siano previsti:
a) la durata della concessione del diritto di superficie per
un periodo non superiore a novanta anni;
b) il dimensionamento dell'opera ed il piano
economico-finanziario previsti per la sua realizzazione;
c) i tempi previsti per la progettazione esecutiva, la messa
a disposizione delle aree necessarie e la esecuzione dei
lavori;
d) i tempi e le modalità per la verifica dello stato di
attuazione nonché le sanzioni previste per gli eventuali
inadempimenti.
5. I parcheggi realizzati ai sensi del presente articolo non
possono essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare
alla quale sono legati da vincolo pertinenziale. I relativi
atti di cessione sono nulli.
6. Le opere e gli interventi di cui ai precedenti commi 1 e
4, nonché gli acquisti di immobili destinati a parcheggi,
effettuati da enti o imprese di assicurazione sono
equiparati, ai fini della copertura delle riserve tecniche,
ad immobili ai sensi degli articoli 32 ed 86 della legge
22.10.1986, n. 742.“.
La costante giurisprudenza amministrativa ha sempre in
proposito riconosciuto che -in ossequio alla ratio legis
ivi espressa- si deve riconoscere che trattasi di norma di
favore che, però, a propria volta soggiace a taluni limiti.
Per venire immediatamente alla fattispecie per cui è causa,
sotto il profilo oggettivo costituisce condiviso approdo
giurisprudenziale quello per cui per costruzione interrata
si intende una costruzione che sia totalmente a quota non
superiore a quella dell'originario piano di campagna.
Si è condivisibilmente rilevato infatti che “i parcheggi
pertinenziali realizzati nel sottosuolo degli immobili e che
possono essere costruiti anche in deroga agli strumenti
urbanistici vigenti ai sensi dell'art. 9, legge n. 122 del
1989, sono solo quelli costruiti totalmente al di sotto del
piano di campagna naturale e non quelli artificialmente
interrati per effetto del riporto di terra” (cfr. TAR
Piemonte, n. 138/1999 Cass. pen. Sez. III, 09.05.2003, n.
26825 App. Perugia, 03.12.2007 nonché Cass. 12489 del
04/12/1995: “le norme sulle distanze legali fra
costruzioni in quanto rivolte ad impedire la formazione di
intercapedini dannose non trovano applicazione con riguardo
a costruzioni o a parti di costruzioni interrate; realizzate
interamente al di sotto del piano di campagna").
Si è detto peraltro, più puntualmente, che (TAR Campania
Napoli Sez. VII, 06.09.2012, n. 3760) "l'art. 9 della L.
24.03.1989, n. 122, non è applicabile nel caso di
realizzazione di un garage che non è interrato e che al fine
del suo interramento comunque richiede una operazione di
sistemazione del soprassuolo per rendere in definitiva
interrato ciò che non lo sarebbe mantenendo l'originario
andamento del suolo, atteso che la realizzazione di
strutture de quibus resta pacificamente ammessa solo in
assenza di alterazioni visibili del territorio, argomento
valido anche per le autorimesse pertinenziali se ed in
quanto sotterranee.”
Già tale condivisibile approdo consentirebbe di accogliere
l’appello, in quanto esso è espressivo di principi
diametralmente opposti rispetto al dictum del primo
giudice, o comunque da quest’ultimo non adeguatamente
valorizzati.
Ma anche sotto l’altro profilo ivi segnalato, il gravame
merita accoglimento: anche in considerazione che
l’interramento non è “naturale”, trova applicazione
il costante principio per cui (TAR Campania Salerno Sez. II,
13.06.2013, n. 1322) “nell'ambito della fascia di
rispetto autostradale di 60 metri, prevista dal D.M.
01.04.1968, n. 1404, il vincolo di inedificabilità è
assoluto, essendo a tal fine irrilevanti le caratteristiche
concrete delle opere abusive realizzate nell'ambito della
fascia medesima; il divieto di costruire è infatti in questo
caso correlato alla esigenza di assicurare un'area libera
utilizzabile dal concessionario dell'autostrada
-all'occorrenza- per installarvi cantieri, depositare
materiali, per necessità varie e, comunque, per ogni
necessità di gestione relativa ad interventi in loco sulla
rete autostradale. Il divieto di edificazione nell'ambito
della fascia di rispetto autostradale è assoluto e la sua
violazione impedisce il conseguimento di una concessione
edilizia a seguito di domanda di condono edilizio.”.
Ancora di recente, si è ribadito che (TAR Toscana Firenze
Sez. III, 12.03.2013, n. 405 “in relazione alle opere
realizzate in zona vincolata, ricadente in fascia di
rispetto stradale, si è in presenza di un vincolo di
carattere assoluto, che prescinde dalle caratteristiche
dell'opera realizzata, in quanto il divieto di
"edificazione" sancito dall'art. 4, D.M. 01.04.1968 (recante
norme in materia di "distanze minime a protezione del nastro
stradale da osservarsi nella edificazione fuori del
perimetro dei centri abitati, di cui all'art. 19, legge
06.08.1967, n. 765"), non può essere inteso
restrittivamente, cioè al solo scopo di prevenire
l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di
costituire, per la loro prossimità alla sede stradale,
pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità
delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di
assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità
di interesse generale, e, cioè, per esempio, per
l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il
deposito dei materiali, per la realizzazione di opere
accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza
di costruzioni.
Con riguardo ad altro vincolo (di pari assolutezza, però, sì
che il principio ivi affermato appare perfettamente
traslabile alla fattispecie) la giurisprudenza ha posto in
luce che (Cons. Stato Sez. V, 14.09.2010, n. 6671) “anche
il parcheggio interrato, da realizzare ai sensi dell'art. 9
della L. n. 122/1989, in quanto struttura servente all'uso
abitativo e, comunque, posta nell'ambito della fascia di
rispetto cimiteriale, rientra tra le costruzioni edilizie
del tutto vietate dalla disposizione di cui all'art. 338 del
R.D. n. 1265/1934"
(pre-massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.02.2014 n. 485 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Circa le formalità da rispettare per la redazione
dei verbali di gara, l’Adunanza Plenaria ha rilevato
l’assenza di disposizioni normative di dettaglio ed ha
condiviso l’orientamento già seguito da Cons. St., sez. V,
22.02.2011 n. 1094; Cons. St., sez. V, 25.07.2006 n. 4657;
Id., sez. IV, 05.10.2005 n. 5360; Id., sez. V, 10.05.2005 n.
2342; Id. sez. V, 20.09.2001 n. 4973.
Invero, la
mancata dettagliata indicazione nei verbali di gara delle
specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti
utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non
costituisce di per sé motivo di illegittimità delle
operazioni di gara, dovendo invece aversi riguardo al fatto
che, in concreto, non si sia verificata l’alterazione della
documentazione.
Sul punto controverso la Sezione remittente
innesta la seconda questione che è posta all’esame
dell’Adunanza Plenaria ed investe le modalità di custodia in
corso di gara dei plichi contenenti gli atti del
procedimento allo scopo di preservarli da indebita
manomissione, nonché alle modalità di verbalizzazione.
Con attento e compiuto esame l’ordinanza di remissione pone
in rilievo che la giurisprudenza si presenta in prevalenza
rigorosa in ordine alle misure da adottare per garantire la
conservazione e l’integrità dei plichi contenenti le
offerte, in modo che ne sia assicurata la segretezza, e
richiede che le cautele adottate siano menzionate ed
indicate nel verbale. di gara (Cons. St., sez. VI, 27.07.2011 n. 4487; Cons. St., sez. V, 21.05.2010, n. 3203;
id.,12.12.2009 n. 7804). L'integrità dei plichi
contenti le offerte costituisce garanzia della segretezza
delle stesse e della par condicio di tutti i concorrenti,
assicurando il rispetto dei principi di buon andamento e di
imparzialità cui deve conformarsi l'azione amministrativa
(Cons. St., sez. V, 21.05.2010 n. 3203; Id., 20.03.2008 n. 1219).
Il su riferito orientamento comporta in particolare:
- l’individuazione di un soggetto responsabile della
custodia dei plichi o di un consegnatario degli stessi;
- l’insufficienza di verbalizzazioni con generico
riferimento ai locali di custodia dei plichi, senza
precisare se gli stessi (e in particolare le buste con
l’offerta tecnica) siano stati nuovamente risigillati o
comunque richiusi in modo adeguato così da evitare
qualsivoglia ipotesi di manomissione (Cons. St., sez. V, 21.05.2010 n. 3203);
- l’obbligo della commissione di adottare le cautele idonee
a garantire la segretezza degli atti di gara ed a prevenire
rischi di manomissioni, indicando nel verbale tali cautele e
dando atto a verbale della integrità dei plichi;
- nel verbale deve risultare il nominativo di colui cui
siano materialmente consegnati i plichi, che ne assume le
conseguenti responsabilità, ovvero –con chiarezza e
univocità– deve essere indicato l’ufficio cui sono
consegnati e all’interno del quale essi vanno conservati
(con individuazione immediata del suo responsabile); in
qualsiasi momento, ogni autorità giurisdizionale o
amministrativa (a seconda dei casi e delle relative
funzioni, anche di vigilanza) dalla lettura dei verbali di
consegna deve poter agevolmente accertare quali siano stati
i passaggi dei plichi, ove essi siano stati collocati nel
corso del tempo, chi abbia posto mano su di essi e ogni
altra circostanza attinente alla loro integrità e
conservazione.
Le cautele osservate possono reputarsi idonee allo scopo
solo se assicurano la conservazione dei plichi in luogo
chiuso, non accessibile al pubblico, e con individuazione di
un soggetto o ufficio responsabile dell’inaccessibilità del
luogo a terzi. Anche se non occorrono formule sacramentali
la verbalizzazione è legittima se, oltre ad elencare le
cautele adottate, indica, sotto la responsabilità dei
verbalizzanti, che le cautele sono state efficaci in quanto
i plichi sono integri (Cons. St., sez. VI, 23.06.2011 n.
3803; Cons. St., sez. VI, 30.06.2011 n. 3902; Cons. St.,
sez. VI, 27.07.2011 n. 4487).
Secondo l’orientamento giurisprudenziale in esame le
garanzie a cautela della integrità dei plichi integrerebbero
una fattispecie di pericolo, non una fattispecie di danno.
Sarebbe sufficiente che dalle risultanze processuali emerga
che, per inosservanza di norme precauzionali, la
documentazione di gara sia rimasta esposta al rischio di
manomissione per ritenere invalide le operazioni di gara,
senza che a carico dell’interessato possa configurarsi un
onere di provare un concreto evento di danno (Cons. St.,
sez. V, 21.05.2010 n. 3203). E’sufficiente, quindi, la
sola esposizione al rischio di manomissione della
documentazione per ritenere invalide le operazioni di gara
(Cons. St., sez. V, 16.03.2011 n. 1617).
Un secondo orientamento reputa che la mancata emersione
dagli atti di gara dell’osservanza delle su elencate cautele
assume solo un ruolo indiziario rispetto alla dimostrazione
di elementi che facciano dubitare della c.d. genuinità dei
plichi, occorrendo comunque provare che vi sia stata una
violazione dell’integrità e segretezza dei plichi.
Si è affermato che la mancata dettagliata indicazione nei
verbali di gara delle specifiche modalità di custodia dei
plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la
segretezza delle offerte non costituisce di per sé motivo di
illegittimità delle operazioni di gara, dovendo invece
aversi riguardo al fatto che, in concreto, non si sia
verificata l’alterazione della documentazione (Cons. St.,
sez. V, 22.02.2011 n. 1094; Cons. St., sez. V, 25.07.2006 n. 4657; Id., sez. IV,
05.10.2005 n. 5360;
Id., sez. V, 10.05.2005 n. 2342; Id. sez. V, 20.09.2001 n. 4973).
Siffatto contesto giurisprudenziale ripudia il più rigoroso
orientamento perché espressione di un indirizzo formale, con
la conseguenza che la mancata dettagliata indicazione nei
verbali di gara delle specifiche modalità di custodia dei
plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la
segretezza delle offerte non costituisce di per sé motivo di
illegittimità del verbale e della complessiva attività posta
in essere dalla commissione di gara, laddove il concreto
andamento della medesima ovvero ulteriori elementi non
inducano a dubitare della corretta conservazione.
2.3. La questione sottoposta all’esame dell’Adunanza
concerne gli adempimenti della commissione preposta
all’esame delle offerte che devono accompagnare le
determinazioni di valutazione delle offerte, ove queste non
si esauriscano in un’unica seduta. Detti adempimenti
investono le modalità di conservazione e di custodia dei
plichi a prevenzione di manomissioni da cui possa derivare
l’alterazioni di atti del procedimento quali inizialmente
introdotti dai partecipati alla gara.
Si tratta di operazioni materiali che non coinvolgono la
volontà negoziale dell’Amministrazione, ma sono finalizzate,
come prima accennato, a garantire la genuinità dell’oggetto
su cui la commissione è chiamata ad esprimersi.
Sia il codice dei contratti pubblici, approvato con d.lgs.
n. 163 del 2006, che il regolamento di attuazione di cui al
d.P.R. n. 207 del 2010, non recano prescrizioni di dettaglio
in ordine all’espletamento di dette operazioni. Il
regolamento contiene un limitato rifermento alle sedute di
gara (art. 117) per le quali è, in particolare, prevista la
possibilità di sospensione e di aggiornamento a data
successiva, con esclusione della fase di apertura delle
buste contenenti l’offerta economica.
In assenza, quindi, di specifiche regole procedimentali a
livello di disciplina generale –salvo i casi di una più
puntuale regolamentazione da parte di atti generali delle
singole amministrazioni aggiudicatrici, cui la commissione
esaminatrice deve rigorosamente attenersi– non può essere
elevato di per sé a vizio del procedimento (nel profilo
della violazione di legge) l’omessa indicazione in verbale
di operazioni singolarmente prese in considerazioni quali, a
titolo di esemplificazione, l’identificazione del soggetto
responsabile della custodia dei plichi, ovvero il luogo di
custodia dei plichi stessi, nel tempo che separa ogni seduta
dalla successiva.
L’attenzione si sposta, quindi, sugli adempimenti
complessivamente osservati dalla commissione a salvaguardia
della segretezza delle offerte, dell’integrità degli atti di
gara e del pericolo di manomissione.
Il veicolo per l’espressione di un giudizio di sufficienza
in ordine a dette operazioni -che investe cioè l’assenza di
elementi e circostanze che possano viziare, sul piano
sintomatico, per eccesso di potere la condotta del collegio
giudicante in quanto contraria ai principi trasparenza, buon
andamento e parità di trattamento dei concorrenti- è il
verbale che deve accompagnare le operazioni di gara.
Il verbale è redatto in via ordinaria per ogni adunanza
dell’organo collegiale ed ha funzione ricognitiva e
documentale delle operazioni compiute e delle deliberazioni
assunte.
L’art. 78 del codice degli appalti elenca, al comma 1,
elementi informativi essenziali e minimali da cui deve
essere assistito il verbale da redigersi per “ogni
contratto”. Essi non prendono, tuttavia, in considerazione
le modalità di custodia dei plichi nella fase che intercorre
fra una seduta e l’altra. Ancora una volta non si rinviene
un puntuale dato normativo cui raccordare il giudizio di
sufficienza della verbalizzazione, cui l’ordinanza di
remissione raccorda l’effetto invalidane del concorso.
Deve quindi pervenirsi alla conclusione che -fermi di
massima sul piano funzionale i principi di sufficienza ed
esaustività del verbale- la mancata e pedissequa
indicazione in ciascun verbale delle operazioni finalizzate
alla custodia dei plichi non può tradursi, con carattere di
automatismo, in effetto viziante della procedura
concorsuale, in tal modo collegandosi per implicito
all’insufficienza della verbalizzazione il pregiudizio alla
segretezza ed all’integrità delle offerte. Ciò in anche in
ossequio al principio di conservazione dei valori giuridici,
il quale porta ad escludere che l’atto deliberativo possa
essere viziato per incompletezza dell’atto descrittivo delle
operazioni materiali, tecniche ed intellettive ad esso
preordinate, salvo i casi in cui puntuali regole dettate
dall’amministrazione aggiudicatrice indichino il contenuto
essenziale del verbale.
Ogni contestazione del concorrente volta ad ipotizzare una
possibile manomissione, o esposizione a manomissione dei
plichi, idonea ad introdurre vulnus alla regolarità del
procedimento di selezione del contraente non può, quindi,
trovare sostegno nel solo dato formale delle indicazioni che
si rinvengono nel verbale redatto per ogni adunanza della
commissione preposta all’esame delle offerte, ma deve essere
suffragata da circostanze ed elementi che, su un piano di
effettività e di efficienza causale, abbiano inciso sulla
c.d. genuinità dell’offerta, che va preservata in corso di
gara. Peraltro per quanto le modalità di conservazione siano
state accurate e rigorose (ad es. chiusura in cassaforte o
altro) non si potrà mai escludere che vi sia stata una
dolosa manipolazione (ad es. ad opera di chi conosceva la
combinazione per aprire la cassaforte) e che chi sia
interessato a farlo possa darne la prova. Viceversa, il
fatto che le modalità di conservazione siano state meno
rigorose non autorizza a presumere che la manipolazione vi
sia stata, a meno che non vengano prodotte in tal senso
prove o quanto meno indizi.
Si ha, quindi, un vizio invalidante qualora sia
positivamente provato, o quanto meno vi siano seri indizi,
che le carte siano state manipolate negli intervalli fra
un’operazione e l’altra. In siffatto contesto l’annotazione
a verbale delle modalità di conservazione ha semplicemente
l’effetto di precostituire una prova dotata di fede
privilegiata (artt. 2699 e 2700 cod. civ.), e quindi di
prevenire o rendere più difficili future contestazioni; ma
così come tali annotazioni, per quanto accurate, non
impediranno mai a chi vi abbia interesse a dare la prova
dell’avvenuta manipolazione (passando anche attraverso il
procedimento di querela di falso, ove necessario), allo
stesso modo la mancanza o l’incompletezza delle stesse
annotazioni, ovvero la scarsa (in ipotesi) efficacia delle
modalità di custodia, avranno solo l’effetto di rendere meno
arduo il compito di chi voglia raggiungere quella prova, o
rappresentare quegli indizi.
Applicando i su riferiti principi alla fattispecie di cui si
controverte, dalle risultanze delle operazioni compiute
dalla commissione giudicatrice non emergono inadempimenti
idonei a mettere in gioco la genuinità delle offerte, ove si
consideri che tutti i verbali dal numero 1 al 7 recano
attestazioni sull’integrità dei plichi e sull’adozione di
presidi a salvaguardia del loro deposito e custodia in
condizioni di sicurezza. La circostanza che la formula di
rito impiegata nei precedenti verbali non sia stata
pedissequamente ripetuta nel verbale n. 8 non assurge ad
elemento viziante la procedura, la cui regolarità va desunta
con approccio complessivo alle operazioni compiute dalla
commissione e tenuto conto che il verbale da ultimo
menzionato reca la formale attestazione che, in sede di
apertura del plico relativo alle offerte tempi (plico C) ed
economiche (plico B), “tutte le buste ivi contenute, di
ciascuno dei concorrenti, risultano integre e recano la
dicitura prescritta dal disciplinare di gara”.
Né possono
essere elevati a sintomo di interventi manomissivi
dell’integrità dei plichi, con incisione sulla genuinità
delle offerte, fatti successivi alla conclusione della gara
(nella specie non leggibilità del timbro dell’impresa e
della data sui modelli dell’offerta tempi ed economica
dell’impresa aggiudicataria in esito ad un primo accesso
documentale rispetto alle risultanze di una rinnovata
esibizione dei medesimi documenti) che per di più non
mettono in discussione gli elementi contenutistici
dell’offerta ed, in conseguenza, l’oggetto su cui si è
attestato il giudizio valutativo della commissione di gara.
Il motivo va, quindi, respinto
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 03.02.2014 n. 8
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Il partenariato pubblico–privato, secondo i
principi sottostanti le risoluzioni del Parlamento europeo
di maggiore interesse in parte qua, recepite dal codice dei
contratti, si realizza anche attraverso la formula
organizzatoria della concessione di servizi che dà vita ad
un partenariato non istituzionale (ovvero senza la creazione
di enti ad hoc preposti alla gestione della collaborazione e
del servizio).
A sua volta, l’art. 3, co. 12, del codice dei contratti
pubblici, definisce la concessione di servizi come «un
contratto che presenta le stesse caratteristiche di un
appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il
corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente
nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto
accompagnato da un prezzo».
---------------
L’housing sociale si è sviluppato alla metà del secolo
scorso, nei paesi dell’Europa settentrionale, in conseguenza
dell’evoluzione della scienza urbanistica, come tentativo di
ampliare, qualificandola, l’offerta degli alloggi in affitto
(e in misura minore anche in vendita), mettendo a
disposizione nuove unità abitative a favore di quelle
persone che, escluse per ragioni di reddito dall’accesso
all’edilizia residenziale pubblica, non sono tuttavia in
grado di sostenere i costi del libero mercato.
Tale istituto nasce, pertanto, dalla necessità di ripensare
gli insediamenti di edilizia sociale sul territorio non solo
sotto un profilo quantitativo ma anche sul versante
economico-qualitativo: l’housing sociale si presenta,
quindi, come una modalità d’intervento nella quale gli
aspetti immobiliari vengono studiati in funzione dei
contenuti sociali, offrendo una molteplicità di risposte per
le diverse tipologie di bisogni, dove il contenuto sociale è
prevalentemente rappresentato dall’accesso a una casa
dignitosa per coloro che non riescono a sostenere i prezzi
di mercato, ma anche da una specifica attenzione alla
qualità dell’abitare.
La finalità dell’housing sociale è di migliorare la
condizione di queste persone, favorendo la formazione di un
contesto abitativo e sociale dignitoso all’interno del quale
sia possibile, non solo accedere ad un alloggio adeguato, ma
anche a relazioni umane ricche e significative. Data la
sostanziale assenza di sovvenzioni pubbliche, l'housing
sociale si focalizza su quella fascia di cittadini che sono
disagiati in quanto impossibilitati a sostenere un affitto
di mercato, ma che non lo sono al punto tale da poter
accedere all’edilizia residenziale pubblica, finendo con il
rappresentare, nel contempo, una politica volta
all'incremento del patrimonio in affitto a prezzi calmierati
o controllati.
L’housing sociale si sostanzia in un programma attraverso il
quale si progetta di realizzare un insieme di alloggi e
servizi, di eseguire azioni e strumenti, tutti rivolti a
coloro che non riescono a soddisfare sul mercato il proprio
bisogno abitativo, per ragioni economiche o per l’assenza di
un’offerta adeguata. Tra le molteplicità di risposte offerte
dall’housing sociale vi sono l’affitto calmierato,
l’acquisto della casa mediante l’auto-costruzione e le
agevolazioni finanziarie, nonché soluzioni integrate per le
diverse tipologie di bisogni.
In Italia, il progressivo ritiro della mano pubblica dagli
investimenti immobiliari a fini sociali e la bolla
speculativa del mercato immobiliare, che ha toccato insieme
vendita e locazioni, hanno contribuito non poco ad allargare
l’area del disagio, sbarrando o rendendo impervio l’accesso
alla casa a vaste categorie di persone (giovani coppie,
pensionati, famiglie monoparentali, ecc.).
In questo contesto socio economico si è inserito il
legislatore attraverso alcune disposizioni normative che
hanno individuato, fra l’altro, i destinatari di tali
progetti, ovvero le categorie alle quali possono essere
destinati gli alloggi realizzati mediante tale programma:
l'art. 11, co. 2, del d.l. 25.06.2008 n. 112 convertito con
la legge 06.08.2008 n. 133 –recante la disciplina generale
per la realizzazione del c.d. Piano casa al fine di
garantire su tutto il territorio nazionale i livelli minimi
essenziali di fabbisogno abitativo per il pieno sviluppo
della persona umana- ha segnalato le seguenti categorie di
destinatari:
a) nuclei familiari a basso reddito, anche monoparentali o
monoreddito;
b) giovani coppie a basso reddito;
c) anziani in condizioni sociali o economiche svantaggiate;
d) studenti fuori sede;
e) soggetti sottoposti a procedure esecutive di rilascio;
f) altri soggetti in possesso dei requisiti di cui all’art.
1 della legge 08.02.2007 n. 9 (particolari categorie
sociali, soggette a procedure esecutive di rilascio per
finita locazione degli immobili adibiti ad uso di abitazioni
e residenti nei comuni capoluoghi di provincia, nei comuni
con essi confinanti con popolazione superiore a 10.000
abitanti e nei comuni ad alta tensione abitativa);
g) immigrati regolari a basso reddito, residenti da almeno
dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque
anni nella medesima regione.
6. LA NATURA GIURIDICA DELLA PROCEDURA DI
GARA DI HOUSING SOCIALE.
6.1. Anticipando le conclusioni tratte dagli argomenti che
saranno esposti nel presente § 6, l’Adunanza plenaria
ritiene che dall’esame del contenuto degli elementi
essenziali del programma di housing sociale intrapreso da
Roma Capitale (retro §§ 1.1.–1.3.), emerge che è stata
posta in essere una iniziativa di partenariato pubblico–privato per la gestione di un servizio pubblico locale di
rilievo economico e a domanda individuale, mediante lo
strumento della concessione di servizio pubblico.
Il partenariato pubblico–privato, secondo i principi
sottostanti le risoluzioni del Parlamento europeo di
maggiore interesse in parte qua (14.01.2004 concernente
il libro verde sui servizi di interesse generale, 26.10.2006 concernente i partenariati pubblico–privati e il
diritto comunitario degli appalti pubblici e delle
concessioni), recepite dal codice dei contratti (art. 3, co.
15-ter, introdotto dal d.lgs. 11.09.2008, n. 152,
c.d. terzo correttivo, e dunque applicabile ratione temporis
alla procedura in oggetto), si realizza anche attraverso la
formula organizzatoria della concessione di servizi che dà
vita ad un partenariato non istituzionale (ovvero senza la
creazione di enti ad hoc preposti alla gestione della
collaborazione e del servizio).
A sua volta, l’art. 3, co. 12, del codice dei contratti
pubblici, definisce la concessione di servizi come «un
contratto che presenta le stesse caratteristiche di un
appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il
corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente
nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto
accompagnato da un prezzo».
6.1.1. L’housing sociale si è sviluppato alla metà del
secolo scorso, nei paesi dell’Europa settentrionale, in
conseguenza dell’evoluzione della scienza urbanistica, come
tentativo di ampliare, qualificandola, l’offerta degli
alloggi in affitto (e in misura minore anche in vendita),
mettendo a disposizione nuove unità abitative a favore di
quelle persone che, escluse per ragioni di reddito
dall’accesso all’edilizia residenziale pubblica, non sono
tuttavia in grado di sostenere i costi del libero mercato.
Tale istituto nasce, pertanto, dalla necessità di ripensare
gli insediamenti di edilizia sociale sul territorio non solo
sotto un profilo quantitativo ma anche sul versante
economico-qualitativo: l’housing sociale si presenta,
quindi, come una modalità d’intervento nella quale gli
aspetti immobiliari vengono studiati in funzione dei
contenuti sociali, offrendo una molteplicità di risposte per
le diverse tipologie di bisogni, dove il contenuto sociale è
prevalentemente rappresentato dall’accesso a una casa
dignitosa per coloro che non riescono a sostenere i prezzi
di mercato, ma anche da una specifica attenzione alla
qualità dell’abitare.
La finalità dell’housing sociale è di migliorare la
condizione di queste persone, favorendo la formazione di un
contesto abitativo e sociale dignitoso all’interno del quale
sia possibile, non solo accedere ad un alloggio adeguato, ma
anche a relazioni umane ricche e significative. Data la
sostanziale assenza di sovvenzioni pubbliche, l'housing
sociale si focalizza su quella fascia di cittadini che sono
disagiati in quanto impossibilitati a sostenere un affitto
di mercato, ma che non lo sono al punto tale da poter
accedere all’edilizia residenziale pubblica, finendo con il
rappresentare, nel contempo, una politica volta
all'incremento del patrimonio in affitto a prezzi calmierati
o controllati.
L’housing sociale si sostanzia in un programma attraverso il
quale si progetta di realizzare un insieme di alloggi e
servizi, di eseguire azioni e strumenti, tutti rivolti a
coloro che non riescono a soddisfare sul mercato il proprio
bisogno abitativo, per ragioni economiche o per l’assenza di
un’offerta adeguata. Tra le molteplicità di risposte offerte
dall’housing sociale vi sono l’affitto calmierato,
l’acquisto della casa mediante l’auto-costruzione e le
agevolazioni finanziarie, nonché soluzioni integrate per le
diverse tipologie di bisogni.
In Italia, il progressivo ritiro della mano pubblica dagli
investimenti immobiliari a fini sociali e la bolla
speculativa del mercato immobiliare, che ha toccato insieme
vendita e locazioni, hanno contribuito non poco ad allargare
l’area del disagio, sbarrando o rendendo impervio l’accesso
alla casa a vaste categorie di persone (giovani coppie,
pensionati, famiglie monoparentali, ecc.).
In questo contesto socio economico si è inserito il
legislatore attraverso alcune disposizioni normative che
hanno individuato, fra l’altro, i destinatari di tali
progetti, ovvero le categorie alle quali possono essere
destinati gli alloggi realizzati mediante tale programma:
l'art. 11, co. 2, del d.l. 25.06.2008 n. 112 convertito
con la legge 06.08.2008 n. 133 –recante la disciplina
generale per la realizzazione del c.d. Piano casa al fine di
garantire su tutto il territorio nazionale i livelli minimi
essenziali di fabbisogno abitativo per il pieno sviluppo
della persona umana- ha segnalato le seguenti categorie di
destinatari:
a) nuclei familiari a basso reddito, anche monoparentali o
monoreddito;
b) giovani coppie a basso reddito;
c) anziani in condizioni sociali o economiche svantaggiate;
d) studenti fuori sede;
e) soggetti sottoposti a procedure esecutive di rilascio;
f) altri soggetti in possesso dei requisiti di cui all’art.
1 della legge 08.02.2007 n. 9 (particolari categorie
sociali, soggette a procedure esecutive di rilascio per
finita locazione degli immobili adibiti ad uso di abitazioni
e residenti nei comuni capoluoghi di provincia, nei comuni
con essi confinanti con popolazione superiore a 10.000
abitanti e nei comuni ad alta tensione abitativa);
g) immigrati regolari a basso reddito, residenti da almeno
dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque
anni nella medesima regione.
In attuazione della normativa primaria, il d.P.C.M. 16.07.2009
-recante l’approvazione del Piano nazionale di
edilizia abitativa c.d. Piano casa– ha previsto
espressamente, quale prima linea di intervento, la
costituzione di un sistema integrato nazionale e locale di
fondi immobiliari per l’acquisizione e la realizzazione di
immobili per l’edilizia residenziale ovvero la promozione di
strumenti finanziari immobiliari innovativi, con la
partecipazione di soggetti pubblici e privati per la
valorizzazione e l’incremento dell’offerta abitativa in
locazione (art. 1) (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 30.01.2014 n. 7 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La norma sancita dall’art. 37, co. 13, codice dei
contratti pubblici (d.lgs. 12.04.2006, n. 163), che impone
ai concorrenti riuniti, già in sede di predisposizione
dell’offerta, l’indicazione della corrispondenza fra quota
di partecipazione al raggruppamento e quota di esecuzione
delle prestazioni (per i contratti di appalto di lavori,
servizi e forniture fino al 14.08.2012 e per i soli
contratti di appalto di lavori a decorrere dal 15.08.2012)
-pur integrando un precetto imperativo capace di imporsi
anche nel silenzio della legge di gara come requisito di
ammissione dell’offerta a pena di esclusione- non esprime un
principio generale desumibile dal Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea ovvero dalla disciplina dei contratti
pubblici di appalto e come tale, a mente dell’art. 30, co.
3, del medesimo codice, non può trovare applicazione ad una
selezione per la scelta del concessionario di un pubblico
servizio.
7. LA NATURA
GIURIDICA E LA PORTATA APPLICATIVA DELLA NORMA SANCITA
DALL’ART. 37, CO. 13, CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI.
7.1. L’art. 37, co. 13, cit., nel testo vigente alla data
del bando, era il seguente: <<13. I concorrenti riuniti in
raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni
nella percentuale corrispondente alla quota di
partecipazione al raggruppamento >>.
Successivamente tale disposizione è stata novellata dalla
lettera a), del comma 2-bis dell’art. 1 del decreto legge 06.07.2012, n. 95, introdotto dalla legge di conversione
07.08.2012, n. 135 (con decorrenza dal 15.08.2012 data
di entrata in vigore della legge di conversione): <<13. Nel
caso di lavori, i concorrenti riuniti in raggruppamento
temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento.>>.
7.2. Prima della novella del 2012, la giurisprudenza
amministrativa (cfr. da ultimo Cons. St., sez. V, 29.09.2013, n. 4753; sez. VI, 20.09.2013, n.
4676), per alcuni aspetti corroborata da recenti pronunce
dell’Adunanza plenaria (cfr. 13.06.2012, n. 22 e 05.07.2012, n. 26 in tema di appalti di servizi), si era
consolidata -sulla scorta di una lettura unitaria della
norma sancita dal comma 13 cit. con quella di cui al comma 4
del medesimo articolo 37, secondo cui: <<4. Nel caso di
forniture o servizi nell’offerta devono essere specificate
le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite
dai singoli operatori economici riuniti o consorziati>>-
nell’affermazione dei seguenti principi, da cui questa
Adunanza non intende decampare:
a) corrispondenza sostanziale, già nella fase dell'offerta,
tra le quote di partecipazione all’a.t.i. e le quote di
esecuzione delle prestazioni, costituendo la relativa
dichiarazione requisito di ammissione alla gara, e non
contenuto di obbligazione da far valere solo in sede di
esecuzione del contratto;
b) funzione dell’obbligo di corrispondenza fra quote di
partecipazione ed esecuzione ravvisata nelle seguenti
esigenze: I) conoscenza preventiva, da parte della stazione
appaltante, del soggetto incaricato di eseguire le
prestazioni e della misura percentuale, al fine di rendere
più spedita l’esecuzione del rapporto individuando ciascun
responsabile; II) agevolare la verifica della competenza
dell’esecutore in relazione alla documentazione di gara; III)
prevenire la partecipazione alla gara di imprese non
qualificate;
c) trattandosi di un precetto imperativo che introduce un
requisito di ammissione, quand'anche non esplicitato dalla
lex specialis, la eterointegra ai sensi dell’art. 1339 c.c.
sicché la sua inosservanza determina l'esclusione dalla gara
(sulla non necessità, ai sensi dell’art. 46, co. 1-bis,
codice dei contratti pubblici, che la sanzione della
esclusione sia espressamente prevista dalla norma di legge
allorquando sia certo il carattere imperativo del precetto
che impone un determinato adempimento ai partecipanti ad una
gara, cfr. Adunanza plenaria 16.10.2013, n. 23; 07.06.2012, n. 21);
d) tale obbligo di dichiarazione in sede di offerta si
impone per tutte le tipologie di a.t.i. (costituite,
costituende, verticali, orizzontali), per tutte le tipologie
di prestazioni (scorporabili o unitarie, principali o
secondarie), e per tutti i tipi di appalti (lavori, servizi
e forniture), indipendentemente dall’assoggettamento della
gara alla disciplina comunitaria;
e) poiché l’obbligo di simmetria tra quota di esecuzione e
quota di effettiva partecipazione all’a.t.i. scaturisce e si
impone ex lege, è necessaria e sufficiente, in sede di
formulazione dell’offerta, la dichiarazione delle quote di
partecipazione a cui la legge attribuisce un valore
predeterminato che è quello della assunzione dell’impegno da
parte delle imprese di eseguire le prestazioni in misura
corrispondente.
7.3. All’interno del su riferito indirizzo giurisprudenziale
si è sviluppato un filone esegetico che ha divisato un
ulteriore necessario parallelismo, in modo congiunto, anche
fra quote di partecipazione, requisiti di qualificazione e
quote di esecuzione.
Tale impostazione deve essere respinta perché:
a) in contrasto con il tenore testuale delle disposizioni
del codice dei contratti pubblici (e segnatamente, i commi 4
e 13 dell’articolo 37), che non consentono di avallare una
siffatta opzione interpretativa;
b) in contrasto con la sistematica del codice (e del
regolamento attuativo), che disciplina in maniera completa e
nella sede propria il regime della qualificazione delle
imprese anche riunite in a.t.i., per i lavori, mentre affida
alla legge di gara ogni determinazione in materia per gli
appalti di servizi e forniture, salvi i limiti sanciti dagli
artt. 41–45;
c) si rileva, inoltre, che una siffatta opzione (volta a
superare e, di fatto, integrare l’espressa previsione di
legge –comma 13 dell’articolo 37– la quale si limita ad
imporre il parallelismo fra le quote di partecipazione e
quelle esecuzione), determinerebbe in molti casi l’effetto
di escludere dalle pubbliche gare raggruppamenti ai cui
partecipanti sarebbe ascritto null’altro se non una sorta di
eccesso di qualificazione; l'approccio in questione si
porrebbe in contrasto con i principi del favor partecipationis e della libertà giuridica di impresa,
negando in radice la possibilità per taluni operatori
economici (in particolare quelli maggiormente qualificati),
di individuare in modo autonomo la configurazione
organizzativa ottimale per partecipare alle pubbliche gare.
7.4. Il quadro unitario così faticosamente ricostruito dalla
giurisprudenza, ha subito, successivamente alla novella
introdotta dal d.l. n. 95 del 2012, una frattura che conduce
ad una lettura atomistica delle norme sancite dai più volte
richiamati commi 4 e 13 dell’art. 37 codice dei contratti
pubblici.
Deve ritenersi, invero, che:
a) giusta il tenore letterale della nuova disposizione e la
sua finalità di semplificare gli oneri di dichiarazione
incombenti sulle imprese raggruppate che operano nel mercato
dei contratti pubblici, l’obbligo di corrispondenza fra
quote di partecipazione e quote di esecuzione sancito dal
più volte menzionato comma 13, sia rimasto circoscritto ai
soli appalti di lavori;
b) per gli appalti di servizi e forniture continua a trovare
applicazione unicamente la norma sancita dal comma 4
dell’art. 37, che impone alle imprese raggruppate il più
modesto obbligo di indicare le parti del servizio o della
fornitura facenti capo a ciascuna di esse, senza pretendere
anche l’obbligo della corrispondenza fra quote di
partecipazione e quote di esecuzione, fermo restando, però,
che ciascuna impresa deve essere qualificata per la parte di
prestazioni che si impegna ad eseguire, nel rispetto delle
speciali prescrizioni e modalità contenute nella legge di
gara;
c) rimane inteso, in entrambi i casi, che le norme in
questione continuano ad esprimere un precetto imperativo da
rispettarsi a pena di esclusione e sono dunque capaci di
eterointegrare i bandi silenti.
7.5. Una volta ricostruito il compendio delle norme (anche
nella loro evoluzione diacronica), e dei principi
costitutivi del micro ordinamento di settore, è agevole
riscontrare che il dovere di corrispondenza fra quote di
partecipazione e quote di esecuzione in capo alle imprese
raggruppate, sancito dall’art. 37, co. 13, cit., non esprime
un principio generale del Trattato e della disciplina dei
contratti, segnatamente a tutela del valore della
trasparenza, poiché l’esigenza che soddisfa, pur meritevole
di apprezzamento per scelta della legge, si esaurisce
completamente all’interno della sfera di interessi della
stazione appaltante, in funzione di esigenze di semplice
correntezza dell’azione amministrativa, rendendo più agevoli
i compiti di accertamento e controllo da parte del seggio di
gara.
Pertanto, all’esito dello scrutinio rigoroso di indagine
basato sull’accertamento della natura dell’interesse
presidiato dal precetto e della sua ampiezza applicativa
(retro § 6.5.), non si può affermare che la ratio essendi di
tale norma sia incentrata, in via immediata e diretta, nella
tutela di valori immanenti al sistema dei contratti
pubblici.
Anche la novella introdotta dal d.l. n. 95 del 2012, pur non
applicabile ratione temporis alla fattispecie per cui è
causa, avvalora e rafforza le su esposte conclusioni
esegetiche perché dimostra che il legislatore, nel
circoscrivere la portata applicativa dell’obbligo di
corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di
esecuzione ai soli appalti di lavori, ha mostrato di
ritenerlo una precetto vincolante non per l’intero settore
dei contratti (comprensivo di forniture e servizi), ma solo
per il più ristretto ambito dei lavori pubblici col che
facendo venir meno anche il profilo soggettivo (inteso quale
comunanza della regola a tutti gli appalti), del principio
generale, residuando un precetto che se pure è imperativo
rimane confinato ai soli appalti di lavori.
7.6. In conclusione, avuto riguardo alla seconda questione
sottoposta all’Adunanza plenaria, deve enunciarsi il
seguente principio di diritto: <<la norma sancita dall’art.
37, co. 13, codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12.04.2006, n. 163), che impone ai concorrenti riuniti, già in
sede di predisposizione dell’offerta, l’indicazione della
corrispondenza fra quota di partecipazione al raggruppamento
e quota di esecuzione delle prestazioni (per i contratti di
appalto di lavori, servizi e forniture fino al 14.08.2012 e per i soli contratti di appalto di lavori a decorrere
dal 15.08.2012) -pur integrando un precetto imperativo
capace di imporsi anche nel silenzio della legge di gara
come requisito di ammissione dell’offerta a pena di
esclusione- non esprime un principio generale desumibile
dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea ovvero
dalla disciplina dei contratti pubblici di appalto e come
tale, a mente dell’art. 30, co. 3, del medesimo codice, non
può trovare applicazione ad una selezione per la scelta del
concessionario di un pubblico servizio>>
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 30.01.2014 n. 7 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Proprietà privata e demanio marittimo.
L’art. 55 cod. nav. prevede un vincolo
alla proprietà privata, richiedendo per le opere realizzate
«entro una zona di trenta metri dal demanio marittimo o dal
ciglio dei terreni elevati sul mare» l’autorizzazione del
capo del compartimento.
Ciò, in quanto la facoltà del proprietario di realizzare una
nuova opera in quella fascia non può liberamente esplicarsi,
ma è subordinata alla valutazione della compatibilità
dell’opera medesima con la tutela del demanio marittimo e
con la sua utilizzazione secondo la prescritta
autorizzazione, è sanzionata penalmente dall’art. 1161 cod.
nav., perché rientra nella mancata osservanza dei «vincoli
cui è assoggettata la proprietà privata» (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.01.2014 n. 3901
- tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L'ordine
di rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può essere
rivolto al proprietario solo quando ne sia dimostrata almeno
la corresponsabilità con gli autori dell'illecito, per avere
cioè posto in essere un comportamento, omissivo o
commissivo, a titolo doloso o colposo, dovendosi escludere
che la norma citata configuri un'ipotesi legale di
responsabilità oggettiva, con conseguente illegittimità
degli ordini di smaltimento dei rifiuti, ancorché fondati su
ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime di
esperienza, rivolti al proprietario di un fondo in ragione
della sua mera qualità, ed in mancanza di adeguata
dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente,
sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente
motivazione, dell'imputabilità soggettiva della condotta.
Con il primo motivo si deduce la
violazione dell’art. 192, c. 3, del D.Lgs. n. 152/2006, nella
parte in cui richiede l’accertamento di una responsabilità,
a tiolo di dolo o colpa, a carico del soggetto intimato, che
non sarebbe invece stata dimostrata nel caso di specie.
Il motivo è fondato.
Osserva infatti il Collegio che l'ordine di rimozione dei
rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto al
proprietario solo quando ne sia dimostrata almeno la
corresponsabilità con gli autori dell'illecito, per avere
cioè posto in essere un comportamento, omissivo o
commissivo, a titolo doloso o colposo, dovendosi escludere
che la norma citata configuri un'ipotesi legale di
responsabilità oggettiva, con conseguente illegittimità
degli ordini di smaltimento dei rifiuti, ancorché fondati su
ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime di
esperienza, rivolti al proprietario di un fondo in ragione
della sua mera qualità, ed in mancanza di adeguata
dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente,
sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente
motivazione, dell'imputabilità soggettiva della condotta
(TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 22.11.2013 n. 2378, TAR
Lazio, Roma, Sez. II, 17.09.2013 n. 8302, C.S., Sez. V,
25.01.2005 n. 136).
Ritiene il Collegio che, poiché il provvedimento impugnato
non contiene alcuna motivazione in merito alla detta
imputabilità, il motivo va accolto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 29.01.2014 n. 312 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Il
Collegio prende atto che, una parte della giurisprudenza
afferma che la competenza ad adottare ordinanze di rimozione
di rifiuti abbandonati in base all'art. 192, c. 3, D.Lgs.
03.04.2006 n. 152 spetti al dirigente e non al sindaco, in
virtù del principio della separazione tra funzioni di
indirizzo politico e funzioni gestionali, di cui all'art.
107, T.U. delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
D.Lgs. 18.8.2000 n. 267.
La giurisprudenza attualmente prevalente, alla quale il
Collegio aderisce, ritiene tuttavia la competenza sindacale,
e non dirigenziale, in relazione all’ordine di rimozione dei
rifiuti, emesso dal ex art. 192 del D.Lgs. 152/2006.
Stabilisce, infatti, il c. 3 di tale articolo che, nelle
fattispecie ivi indicate, “il Sindaco dispone con ordinanza
le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme
anticipate.”
Tale norma, che sancisce la competenza sindacale in luogo di
quella dirigenziale, viene interpretata, dalla
giurisprudenza maggioritaria, quale norma speciale rispetto
all’art. 107 del T.U. enti locali, che affida ai dirigenti i
compiti relativi alla gestione delle attribuzioni
amministrative dell’ente locale, tenuto conto
dell’applicazione del tradizionale canone ermeneutico lex
posterior specialis derogat anteriori generali, e che lo
stesso art. 107, c. 4 cit., ha cura di precisare che “le
attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di
cui all’art. 1, co. 4, possono essere derogate soltanto
espressamente e ad opera di specifiche disposizioni
legislative”, ciò che è avvenuto a seguito dell’entrata in
vigore del citato art. 192, c. 3.
Il secondo
motivo, con cui si deduce il vizio di incompetenza, è invece
infondato.
Il Collegio prende atto che, una parte della giurisprudenza,
invocata dalla ricorrente, afferma che la competenza ad
adottare ordinanze di rimozione di rifiuti abbandonati in
base all'art. 192, c. 3, D.Lgs. 03.04.2006 n. 152 spetti al
dirigente e non al sindaco, in virtù del principio della
separazione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni
gestionali, di cui all'art. 107, T.U. delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali, D.Lgs. 18.8.2000 n. 267
(TAR Campania, Napoli, Sez. V, 10.02.2012 n. 730, TAR
Sardegna, Sez. II, 04.11.2009 n. 1598).
La giurisprudenza attualmente prevalente, alla quale il
Collegio aderisce, ritiene tuttavia la competenza sindacale,
e non dirigenziale, in relazione all’ordine di rimozione dei
rifiuti, emesso dal ex art. 192 del D.Lgs. 152/2006.
Stabilisce, infatti, il c. 3 di tale articolo che, nelle
fattispecie ivi indicate, “il Sindaco dispone con ordinanza
le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui
provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno
dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme
anticipate.”
Tale norma, che sancisce la competenza sindacale in luogo di
quella dirigenziale, viene interpretata, dalla
giurisprudenza maggioritaria, quale norma speciale rispetto
all’art. 107 del T.U. enti locali, che affida ai dirigenti i
compiti relativi alla gestione delle attribuzioni
amministrative dell’ente locale (C.S., Sez. V, 29.08.2012, n.
4635; Sez. V, 12.06.2009, n. 3765; Sez. V, 10.03.2009, n.
1296, TAR Lazio, Sez. II, 01.02.2013 n. 1142; TAR
Campania, Salerno, Sez. I, 17.09.2012 n. 1644; TAR
Lombardia, Brescia, Sez. I, 09.06.2011, n. 867), tenuto conto
dell’applicazione del tradizionale canone ermeneutico lex
posterior specialis derogat anteriori generali, e che lo
stesso art. 107, c. 4 cit., ha cura di precisare che “le
attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di
cui all’art. 1, co. 4, possono essere derogate soltanto
espressamente e ad opera di specifiche disposizioni
legislative”, ciò che è avvenuto a seguito dell’entrata
in vigore del citato art. 192, c. 3
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 29.01.2014 n. 312 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Trasporto illecito di rifiuti pericolosi senza
formulario e natura del FIR.
L'art. 39, comma 2-bis d.lgs. 205/2010,
come modificato dall'art. 4 d.lgs. 07.07.2011, n. 121,
laddove stabilisce l'applicabilità delle sanzioni previste
dall'articolo 258 del decreto legislativo 03.04.2006, n.
152, «nella formulazione precedente all'entrata in vigore
del presente decreto» ha natura di norma interpretativa e
non innovativa, con la conseguenza che dette sanzioni sono
applicabili ai fatti commessi antecedentemente alla entrata
in vigore del d.lgs. 121/2011.
Il formulario di identificazione dei rifiuti (FIR) non ha
alcun valore certificativo della natura e composizione del
rifiuto trasportato, trattandosi di documento recante una
mera attestazione del privato, avente dunque natura
prettamente dichiarativa, con la conseguenza che, a
differenza di ciò che avviene per la predisposizione di un
certificato di analisi di rifiuti contenente false
indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle
caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti medesimi e di
uso di certificato falso durante il trasporto, non sono
applicabili le sanzioni penali stabilite dall'art. 258
d.lgs. 152/2006 con richiamo all'art. 483 cod. pen. (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.01.2014 n. 3692 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Interventi in parziale difformità
dall'autorizzazione paesaggistica.
L'art. 181 d.lgs. 42/2004 sanziona la condotta di chiunque,
senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa,
esegua lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici.
La
norma in esame non distingue tra parziale o totale
difformità, come avviene invece per la disciplina
urbanistica, cosicché è idonea a configurare il reato in
esame ogni difformità significativa dall’intervento
autorizzato e tale da vanificare gli scopi di tutela e
controllo che il legislatore ha assicurato agli organi
competenti attraverso la preventiva verifica della
consistenza delle opere da eseguire
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.01.2014 n. 3655 -
tratto da www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Piano di insediamento produttivo.
L’insieme della disciplina del piano di insediamento
produttivo consente di riconoscere lo stretto legame
esistente fra detto insediamento e le finalità di sostegno
all’economia locale che lo sostengono.
E’ in questo contesto
che deve essere valutata la previsione circa la
individuazione all’interno del P.i.p. di aree destinate a
finalità pubbliche, che in qualche modo compensano i
proprietari e la popolazione interessata rispetto alla
concentrazione di attività produttive in unica zona
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 27.01.2014 n. 3649 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi
dell’art. 4 della L. n. 47/1985 all’epoca vigente (oggi art.
27, comma 3, D.P.R. n. 380/2001), l’ordine di sospensione
dei lavori è preordinato all’emanazione dei definitivi
provvedimenti sanzionatori conseguenti alla tipologia di
abuso contestato.
Ne consegue che, a seguito della notifica di tale atto, il
destinatario viene compiutamente edotto sul piano sia
formale che sostanziale dell’esistenza del procedimento
sanzionatorio, il cui avvio coincide con la sospensione dei
lavori intimata, del contenuto del procedimento stesso e dei
suoi preannunciati esiti.
La finalità sostanziale di cui all’art. 7 L. n. 241/1990,
quindi, può nella specie ritenersi soddisfatta con la
comunicazione dell’ordine di sospensione dei lavori
effettuata dall’Amministrazione agli interessati, come
correttamente ritenuto dal primo giudice.
Nel merito l’appello è infondato.
3. Con una prima censura, l’appellante lamenta l’omessa
comunicazione di avvio del procedimento con conseguente
privazione del diritto di presentare memorie e documenti.
Contesta, sul punto, la decisione del Tar che ha ritenuto
assolto l’obbligo partecipativo con l’emanazione dell’ordine
di sospensione dei lavori in precedenza impartito.
3.1. La doglianza non merita condivisione
Ed invero, ai sensi dell’art. 4 della L. n. 47/1985
all’epoca vigente (oggi art. 27, comma 3, D.P.R. n.
380/2001), l’ordine di sospensione dei lavori è preordinato
all’emanazione dei definitivi provvedimenti sanzionatori
conseguenti alla tipologia di abuso contestato.
Ne consegue che, a seguito della notifica di tale atto, il
destinatario viene compiutamente edotto sul piano sia
formale che sostanziale dell’esistenza del procedimento
sanzionatorio, il cui avvio coincide con la sospensione dei
lavori intimata, del contenuto del procedimento stesso e dei
suoi preannunciati esiti.
La finalità sostanziale di cui all’art. 7 L. n. 241/1990,
quindi, può nella specie ritenersi soddisfatta con la
comunicazione dell’ordine di sospensione dei lavori
effettuata dall’Amministrazione agli interessati, come
correttamente ritenuto dal primo giudice (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.01.2014 n. 408 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Tunnel mobile di protezione delle materie prime e delle
merci.
Un tunnel mobile di protezione in
prolungamento rispetto al corpo di fabbrica, destinato alla
protezione delle materie prime e delle merci, di dimensioni
consistenti (oltre 300 mq di superficie utile complessiva),
utilizzato stabilmente per lo stoccaggio delle merci e dei
prodotti finiti, seppur realizzato con materiali e
caratteristiche che ne consentono il rapido smontaggio, non
può essere ricondotto nel novero degli impianti tecnologici.
L’opera in questione ha una volumetria superiore al 20% del
volume del fabbricato principale. Ne consegue che
l’intervento edilizio deve essere qualificato come nuova
costruzione, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 3,
lett. e.6), del DPR n. 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia),
con conseguente assoggettamento al regime concessorio e non
di certo autorizzatorio.
4. Con un secondo ordine di censure gli appellanti
sostengono che il “tunnel retrattile” non avrebbe
determinato ampliamento dello stabilimento artigianale,
costituendo al contrario semplice impianto tecnologico.
Assumono, altresì, che la sua utilizzazione non si sarebbe
potuta definire “stabile”, essendo destinata alla
mera protezione dalle intemperie delle materie prime e dei
prodotti finiti, per il tempo strettamente necessario al
loro avviamento alla produzione (le prime) ed alla
spedizione alla clientela (i secondi).
Deducono,quindi, che erroneamente il primo giudice non
avrebbe censurato i provvedimenti impugnati, siccome assunti
sul presupposto che il manufatto in questione necessitasse
di specifica concessione edilizia (oggi permesso a
costruire).
4.1. La censura è priva di fondamento.
Ed invero, osserva il Collegio come il manufatto in
questione sia di dimensioni oggettivamente consistenti
(oltre 300 mq di superficie utile complessiva) e venga
stabilmente utilizzato per i bisogni ordinari dell’azienda,
quale locale per lo stoccaggio delle merci e dei prodotti
finiti.
Ne consegue, all’evidenza, che una siffatta struttura,
seppur realizzata con materiali e caratteristiche che (come
si è visto) ne consentono il rapido smontaggio e rimontaggio
, non può comunque essere ricondotta nel novero dei meri
impianti tecnologici, che notoriamente nulla hanno a che
vedere con le caratteristiche e funzioni sopra precisate.
5. Con l’ultimo ordine di censure, gli appellanti
sostengono la natura pertinenziale delle opere realizzate,
nonché l’irrilevanza della destinazione agricola dell’area
su cui insistono (posto che alle pertinenze si applicherebbe
la medesima disciplina del bene principale), con conseguente
assoggettamento delle stesse al regime autorizzatorio (e non
concessorio) che non contempla in caso di abusivismo la
sanzione demolitoria, ma semplicemente quella pecuniaria.
5.1 La doglianza non ha pregio.
Ed invero, come risulta dalla relazione del Responsabile
Servizio Urbanistica del 12.04.2013 (non contraddetta dagli
appellanti), le opere in questione hanno una volumetria
ampiamente superiore al 20% del volume del fabbricato
asseritamente ritenuto “principale”.
Ne consegue che, a prescindere da ogni valutazione in ordine
alle caratteristiche del manufatto ed alla destinazione
urbanistica dell’area su cui lo stesso insiste, l’intervento
edilizio realizzato dagli appellanti deve essere qualificato
come “di nuova costruzione”, ai sensi e per gli
effetti di cui all’art. 3, lett. e.6), del DPR n. 380/2001
(Testo Unico dell’Edilizia), con conseguente assoggettamento
al regime concessorio e non di certo autorizzatorio, come
preteso dagli appellanti.
Infatti, il richiamato art. 3 del Testo Unico dell’Edilizia,
anche se sopravvenuto nel 2001, ha fissato un limite
oggettivo di natura quantitativa per l’individuazione in
ambito edilizio degli interventi pertinenziali, che non può
non fungere da parametro di riferimento anche per le
fattispecie pregresse, avendo sostanzialmente positivizzato
i consolidati principi giurisprudenziali da tempo formatisi
in materia.
In conclusione le opere in questione rientrano nel regime
della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) e,
come tali, sono state correttamente sanzionate
dall’Amministrazione comunale (massima tratta da
www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.01.2014 n. 408 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Una
prima considerazione attiene alla valenza da attribuire alla
deliberazione di giunta municipale che abbia individuato, a
seguito della delimitazione del centro abitato, i tratti di
strade statali, regionali o provinciali che attraversano i
centri abitati con popolazione superiore a diecimila
abitanti.
E’ indubbio che tale delibera costituisce di per sé titolo
per il passaggio di proprietà alla stregua degli altri
titoli indicati dalla norma e, quindi, è idoneo presupposto
per la consegna delle strade o di tronchi di strade tra gli
enti, ove la delimitazione del centro abitato ne comporti la
classificazione come strada appartenente ad ente diverso da
quello della precedente classificazione.
-----------------
Altra questione riguarda il concetto di “centro abitato” ed
in particolare se la individuazione e delimitazione del
centro abitato, effettuata dalla giunta comunale ai fini del
citato art. 4 del Codice della Strada, sia derogabile ove il
Comune sia effettivamente articolato in più centri abitati e
se il riferimento demografico ai fini del passaggio delle
strade tra enti debba essere riferito al “centro abitato”
individuato ai fini dell’art. 4 del Codice della Strada o ai
centri abitati in cui è articolato il Comune dal punto di
vista topografico.
Ritiene il Collegio che la disciplina dettata dal Codice
della Strada non consente deroghe e per tutti gli aspetti
considerati dalla suddetta disciplina non possa che farsi
riferimento al “centro abitato” individuato ai fini
dell’art. 4 del Codice della Strada.
L’art. 2, comma 7, del Codice si riferisce a questa
accezione di centro abitato, atteso che parla di strade
comprese nel centro abitato.
Ne consegue in base alla medesima disposizione di legge, che
sono comunali le strade urbane di scorrimento, di quartiere
e locali che ricadono all’interno del centro abitato
delimitato con popolazione superiore ai diecimila abitanti,
mentre sono tratti interni di strade statali, regionali e
provinciali quelle che sono delimitate all’interno di un
centro abitato con popolazione inferiore ai diecimila
abitanti.
---------------
Dalla disciplina citata emerge con certezza che l’elemento
demografico non può che essere riferito al “centro abitato”
o ai “centri abitati” individuati ai fini dell’art. 4 del
Codice della Strada.
Va da sé che l’individuazione del “centro abitato” o dei
“centri abitati” nella ratio del Codice della Strada
risponde a criteri funzionali all’applicazione delle diverse
discipline previste dal codice della strada e dal
regolamento all'interno ed all'esterno del centro abitato,
con i conseguenziali limiti territoriali di competenza e di
responsabilità tra il comune e gli altri enti proprietari di
strade.
Non può, quindi, essere determinata da finalità diverse,
quale in ipotesi il conseguimento del minore aggravio
possibile degli oneri di manutenzione delle strade, né
rispondere ad esigenze di natura urbanistica (non coincide
infatti con la ripartizione urbanistica di una città in
centro storico, zone residenziali, periferia) o coincidere
con la ripartizione amministrativa della città in municipi.
Ugualmente è irrilevante che il comune si sviluppi in
maniera disordinata, articolandosi in agglomerati di case
sparse lungo le arterie principali, atteso che il concetto
di centro abitato nella ratio del Codice della Strada
risponde solamente a criteri funzionali alla circolazione
stradale.
---------------
In conclusione deve ritenersi che la delimitazione del
centro abitato o dei centri abitati risponde ai soli criteri
fissati dal Codice della strada ed è funzionale solamente
alla circolazione; essa tuttavia comporta, sempre e per
effetto automatico, il passaggio delle strade ai diversi
enti territoriali secondo i criteri su esposti, non
assumendo rilevanza l’effettiva articolazione dello sviluppo
edilizio in più centri abitati da un punto di vista
topografico.
La questione in esame attiene all’interpretazione delle
norme del codice della strada e del relativo regolamento in
relazione ai c.d. “centri abitati” ed alla
classificazione delle strade interne conseguente alla
individuazione dei “centri abitati”.
L’art. 3, comma 8, del codice della strada individua il “centro
abitato” con riferimento ad un agglomerato di almeno 25
edifici sebbene intervallati da strade, giardini od altro.
L’art. 4, stabilisce la competenza della giunta comunale in
ordine alla individuazione e delimitazione del centro
abitato secondo i criteri dettati dal codice e dal
regolamento: “Ai fini dell’attuazione della disciplina
della circolazione stradale, il Comune entro centottanta
giorni dalla data di entrata in vigore del presente codice,
provvede con delibera della giunta alla delimitazione del
centro abitato…La deliberazione…è pubblicata all’Albo
Pretorio…; ad essa viene allegata idonea cartografia nella
quale sono evidenziati i confini sulle strade di accesso”.
L’art. 4 del Regolamento del Codice della Strada (d.p.r. n.
285 del 1992), ai commi 4 e 5 stabilisce che “I tratti di
strade statali, regionali o provinciali, che attraversano i
centri abitati con popolazione superiore a diecimila
abitanti, individuati a seguito della delimitazione del
centro abitato prevista dall’art. 4 del codice, sono
classificati quali strade comunali con la stessa
deliberazione della giunta municipale con la quale si
procede alla delimitazione medesima.
Successivamente all’emanazione dei provvedimenti di
classificazione e di declassificazione delle strade previsti
dagli articoli 2 e 3, all’emanazione dei decreti di
passaggio di proprietà ed alle deliberazioni di cui ai commi
precedenti, si provvede alla consegna delle strade o dei
tronchi di strade fra gli enti proprietari”.
Una prima considerazione attiene alla valenza da attribuire
alla deliberazione di giunta municipale che abbia
individuato, a seguito della delimitazione del centro
abitato, i tratti di strade statali, regionali o provinciali
che attraversano i centri abitati con popolazione superiore
a diecimila abitanti.
E’ indubbio che tale delibera costituisce di per sé titolo
per il passaggio di proprietà alla stregua degli altri
titoli indicati dalla norma e, quindi, è idoneo presupposto
per la consegna delle strade o di tronchi di strade tra gli
enti, ove la delimitazione del centro abitato ne comporti la
classificazione come strada appartenente ad ente diverso da
quello della precedente classificazione.
Altra questione riguarda il concetto di “centro abitato”
ed in particolare se la individuazione e delimitazione del
centro abitato, effettuata dalla giunta comunale ai fini del
citato art. 4 del Codice della Strada, sia derogabile ove il
Comune sia effettivamente articolato in più centri abitati e
se il riferimento demografico ai fini del passaggio delle
strade tra enti debba essere riferito al “centro abitato”
individuato ai fini dell’art. 4 del Codice della Strada o ai
centri abitati in cui è articolato il Comune dal punto di
vista topografico.
Ritiene il Collegio che la disciplina dettata dal Codice
della Strada non consente deroghe e per tutti gli aspetti
considerati dalla suddetta disciplina non possa che farsi
riferimento al “centro abitato” individuato ai fini
dell’art. 4 del Codice della Strada.
L’art. 2, comma 7, del Codice si riferisce a questa
accezione di centro abitato, atteso che parla di strade
comprese nel centro abitato.
Ne consegue in base alla medesima disposizione di legge, che
sono comunali le strade urbane di scorrimento, di quartiere
e locali che ricadono all’interno del centro abitato
delimitato con popolazione superiore ai diecimila abitanti,
mentre sono tratti interni di strade statali, regionali e
provinciali quelle che sono delimitate all’interno di un
centro abitato con popolazione inferiore ai diecimila
abitanti.
Tanto è dettagliatamente esposto nel Regolamento del Codice
della Strada, che all’art. 5, precisa che “la
delimitazione del centro abitato, come definito all'articolo
3, comma 1, punto 8, del codice, è finalizzata ad
individuare l'ambito territoriale in cui, per le
interrelazioni esistenti tra le strade e l'ambiente
circostante, è necessaria da parte dell'utente della strada,
una particolare cautela nella guida, e sono imposte
particolari norme di comportamento (la delimitazione del
centro abitato individua pertanto i limiti territoriali di
applicazione delle diverse discipline previste dal codice e
dal regolamento all'interno ed all'esterno del centro
abitato).
La delimitazione del centro abitato individua altresì, lungo
le strade statali, regionali e provinciali, che attraversano
i centri medesimi, i tratti di strada che:
a) per i centri con popolazione non superiore a diecimila
abitanti costituiscono «i tratti interni»;
b) per i centri con popolazione superiore a diecimila
abitanti costituiscono «strade comunali», ed individua,
pertanto, i limiti territoriali di competenza e di
responsabilità tra il comune e gli altri enti proprietari di
strade”.
Dalla disciplina citata emerge con certezza che l’elemento
demografico non può che essere riferito al “centro
abitato” o ai “centri abitati” individuati ai
fini dell’art. 4 del Codice della Strada.
Va da sé che l’individuazione del “centro abitato” o
dei “centri abitati” nella ratio del Codice
della Strada risponde a criteri funzionali all’applicazione
delle diverse discipline previste dal codice della strada e
dal regolamento all'interno ed all'esterno del centro
abitato, con i conseguenziali limiti territoriali di
competenza e di responsabilità tra il comune e gli altri
enti proprietari di strade.
Non può, quindi, essere determinata da finalità diverse,
quale in ipotesi il conseguimento del minore aggravio
possibile degli oneri di manutenzione delle strade, né
rispondere ad esigenze di natura urbanistica (non coincide
infatti con la ripartizione urbanistica di una città in
centro storico, zone residenziali, periferia) o coincidere
con la ripartizione amministrativa della città in municipi.
Ugualmente è irrilevante che il comune si sviluppi in
maniera disordinata, articolandosi in agglomerati di case
sparse lungo le arterie principali, atteso che il concetto
di centro abitato nella ratio del Codice della Strada
risponde solamente a criteri funzionali alla circolazione
stradale.
Significativo in tal senso è la prescrizione di cui al comma
4 dell’art. 4 del Regolamento del Codice della Strada (“Nel
caso in cui l'intervallo tra due contigui insediamenti
abitativi, aventi ciascuno le caratteristiche di centro
abitato, risulti, anche in relazione all'andamento
planoaltimetrico della strada, insufficiente per un duplice
cambiamento di comportamento da parte dell'utente della
strada, si provvede alla delimitazione di un unico centro
abitato, individuando ciascun insediamento abitativo con il
segnale di località. Nel caso in cui i due insediamenti
ricadano nell'ambito di comuni diversi si provvede a
delimitazioni separate, anche se contigue, apponendo sulla
stessa sezione stradale il segnale di fine del primo centro
abitato e di inizio del successivo centro abitato”).
In conclusione deve ritenersi che la delimitazione del
centro abitato o dei centri abitati risponde ai soli criteri
fissati dal Codice della strada ed è funzionale solamente
alla circolazione; essa tuttavia comporta, sempre e per
effetto automatico, il passaggio delle strade ai diversi
enti territoriali secondo i criteri su esposti, non
assumendo rilevanza l’effettiva articolazione dello sviluppo
edilizio in più centri abitati da un punto di vista
topografico
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.01.2014 n. 403 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICA: Il
parere di compatibilità del PGT con il PTCP, di cui alla LR
12/2005, non costituisce una manifestazione della generale
potestà di pianificazione riconosciuta dal Testo Unico degli
enti locali (D.Lgs. 267/2000), all’organo consiliare, quanto
piuttosto una valutazione di carattere tecnico, non
riservata pertanto al Consiglio.
---------------
Va ricordato l’indirizzo giurisprudenziale che riconosce
alle Amministrazioni ampia discrezionalità in sede di
approvazione degli strumenti urbanistici generali, senza
contare che le osservazioni dei privati a questi ultimi
costituiscono un mero apporto collaborativo.
La giurisprudenza amministrativa, infatti, è
ormai giunta alla conclusione che il parere di compatibilità
del PGT con il PTCP, di cui alla LR 12/2005, non costituisce
una manifestazione della generale potestà di pianificazione
riconosciuta dal Testo Unico degli enti locali (D.Lgs.
267/2000), all’organo consiliare, quanto piuttosto una
valutazione di carattere tecnico, non riservata pertanto al
Consiglio (si vedano, sul punto, le sentenze del TAR
Lombardia, sez. II, n. 4303/2009, n. 1221/2010, n. 7512 del
10.12.2010 e n. 7614/2010, costituenti precedenti specifici
ai quali si rinvia).
Il precedente di segno opposto di questa Sezione II, citato
dalla ricorrente (sentenza n. 5292/2007), risulta ormai
superato dalle più recenti decisioni di cui sopra, senza
contare che la sentenza n. 5292/2007 è stata annullata senza
rinvio dal Consiglio di Stato con sentenza della sezione IV,
28.05.2009, n. 3337.
---------------
Nella
controdeduzione all’osservazione n. 14 della società
istante, l’Amministrazione ha avuto cura di specificare che
l’ambito di trasformazione commerciale “E” è stato
individuato sulla base di una precedente proposta di piano
attuativo in variante al PRG presentata dalla società stessa
(cfr. su tale proposta, il doc. 4 ed il doc. 12 del Comune),
mentre non appariva rispondente alle esigenze della
collettività la soppressione dell’area a verde, peraltro già
non edificabile anche in base al previgente PRG.
Si tratta di motivazioni non illogiche né arbitrarie, che
escludono l’illegittimità della decisione di pianificazione
del Comune, anche tenendo conto dell’indirizzo
giurisprudenziale che riconosce alle Amministrazioni ampia
discrezionalità in sede di approvazione degli strumenti
urbanistici generali, senza contare che le osservazioni dei
privati a questi ultimi costituiscono un mero apporto
collaborativo (cfr. fra le tante, la fondamentale sentenza
del Consiglio di Stato, sez. IV, 10.05.2012, n. 2710,
richiamata e confermata dalla successiva sentenza della
stessa Sezione IV, 28.11.2012, n. 6040; Consiglio di Stato,
sez. IV, 28.12.2012, n. 6703 e 21.12.2012, n. 6656; oltre
che, fra le decisioni di primo grado, TAR Toscana, sez. I,
20.11.2013, n. 1593; TAR Lombardia, Milano, sez. II,
04.12.2013, n. 2696, 26.02.2013, n. 532 e 08.02.2012, n. 437;
TAR Emilia Romagna, Parma, 29.01.2013, n. 26; TRGA Trentino
Alto Adige, Bolzano, 17.07.2012, n. 255)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza
24.01.2014 n. 280 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Prescrizione del reato e onere della prova.
In tema di prescrizione sempre restando a carico dell'accusa
l'onere della prova della data d’inizio della decorrenza del
termine prescrittivo, non basta una mera e diversa
affermazione da parte dell'imputato a fare ritenere che il
reato si sia realmente estinto per prescrizione e neppure a
determinare l'incertezza sulla data d’inizio della
decorrenza del relativo termine con la conseguente
applicazione del principio "in dubio pro reo", atteso che,
in base al principio generale per cui ciascuno deve dare
dimostrazione di quanto afferma, grava sull'imputato che
voglia giovarsi della causa estintiva, in contrasto o in
aggiunta a quanto già risulta in proposito dagli atti di
causa, l'onere di allegare gli elementi in suo possesso, dei
quali è il solo a potere concretamente disporre, per
determinare la data di inizio del decorso del termine di
prescrizione, data che in tali ipotesi coincide con quella
di esecuzione dell'opera incriminata
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 23.01.2014 n. 3137 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Acque. Disciplina delle acque meteoriche di dilavamento.
La nuova formulazione dell’art. 74, lett. g), del d.lgs.
152/2006 esclude ogni riferimento qualitativo alla tipologia
delle acque, dal momento che è stato eliminato dal dato
normativo sia il riferimento alla differenza qualitativa
dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di
dilavamento, sia l'inciso «intendendosi per tali (acque
meteoriche di dilavamento) anche quelle venute in contatto
con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connesse con
le attività esercitate nello stabilimento», di talché
sembrerebbe non più possibile oggi assimilare, sotto un
profilo qualitativo, le due tipologie di acque (reflui
industriali e acque meteoriche di dilavamento) né
sembrerebbe possibile ritenere che le acque meteoriche di
dilavamento (una volta venute a contatto con materiali o
sostanze anche inquinanti connesse con l'attività esercitata
nello stabilimento) possano essere assimilate ai reflui
industriali. Sembrerebbe, cioè, che data la ricordata
modifica legislativa, non sarebbe più possibile accomunare
le acque meteoriche di dilavamento e le acque reflue
industriali.
In ogni caso va anche considerato che l’art.
113 del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, rubricato appunto «Acque
meteoriche di dilavamento e acque di prima pioggia», prevede
che le Regioni, «ai fini della prevenzione di rischi
idraulici ed ambientali», emanino una disciplina delle acque
meteoriche che dilavano le superfici e si riversano in
differenti corpi recettori (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.01.2014 n. 2867
- tratto da
www.lexambiente.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Falso e abuso di ufficio.
In caso di contestazione dei delitti di abuso di ufficio e
di falsità in atto pubblico, sussiste il concorso di reati -e non il fenomeno dell'assorbimento del delitto di cui
all’art 323 cp nel più grave delitto di falsità in atto
pubblico-, in ragione del diverso ambito operativo dei beni
giuridici protetti (il primo garantisce l’imparzialità e il
buon andamento della pubblica amministrazione, il secondo la
genuinità degli atti pubblici) e del fatto che la condotta
di abuso di ufficio non si esaurisce in quella del delitto
di falso, non coincidendo con essa.
In tema di falsità ideologica in atto pubblico, la
fattispecie ivi prevista è compatibile con condotte
consistenti nella formulazione di giudizi che siano
espressione della discrezionalità tecnica, laddove vi siano
a monte previsioni normative recanti criteri di valutazione
che impongano verifiche di conformità del dato fattuale a
parametri predeterminati
(Corte di Cassazione, Sez. II
penale,
sentenza 20.01.2014 n. 2245 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illecito urbanistico come reato proprio e
possibilità di concorso.
Il reato previsto dall’art. 44 del D.P.R. 380/2001, pur
potendosi definire “proprio”, (anche se non mancano tesi
contrarie che attribuiscono a tali reati la veste di
illeciti “comuni”) non esclude che soggetti diversi da
quelli individuati dall'art. 6 del D.P.R. 380/2001, possano
concorrere nella loro consumazione, nella misura in cui
apportino, nella realizzazione dell'evento, un proprio
contributo causale rilevante e consapevole (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.01.2014 n. 1784 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I tralicci e le antenne di rilevanti dimensioni necessitano
di permesso di costruire.
I tralicci e le antenne di rilevanti
dimensioni debbono essere valutate come strutture edilizie
soggette a permesso di costruire.
Orbene, nel caso di specie, trattandosi, come emerge dalle
schede tecniche in atti, di una struttura di circa 12 metri
d’altezza, quest’ultima non può non essere considerata di
“rilevanti dimensioni” e, quindi, come tale avrebbe dovuto
essere autorizzata tramite permesso di costruire, con la
conseguenza che risulta corretta, anche sotto questo
profilo, l’impugnata ordinanza di demolizione emessa dal
Comune.
Per quanto concerne l’ulteriore censura presentata
dall’appellante con la memoria del 14.11.2013 -relativa alla
circostanza che la giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato escluderebbe la necessità della previa concessione
edilizia per interventi analoghi a quello di cui è causa- il
Collegio osserva che tale censura risulta inammissibile, in
quanto presentata in violazione del primo comma dell’art.
104 c.p.a., a norma del quale “nel giudizio di appello
non possono essere prodotte nuove domande […] né nuove
eccezioni non rilevabili d’ufficio”.
Peraltro, anche prescindendo dal suesposto rilievo, il
Collegio osserva che detta censura risulta comunque
infondata.
La risalente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
citata dell’appellante, infatti, è stata superata dai
successivi orientamenti giurisprudenziali del medesimo
Consiglio, peraltro condivisi dal Collegio, secondo cui “i
tralicci e le antenne di rilevanti dimensioni debbono essere
valutate come strutture edilizie soggette a permesso di
costruire […]” (Cons. di Stato, Sez. VI, 08.10.2008, n.
4910).
Orbene, nel caso di specie, trattandosi -come emerge dalle
schede tecniche in atti- di una struttura di circa 12 metri
d’altezza, quest’ultima non può non essere considerata di
“rilevanti dimensioni” e, quindi, come tale avrebbe dovuto
essere autorizzata tramite permesso di costruire, con la
conseguenza che risulta corretta, anche sotto questo
profilo, l’impugnata ordinanza di demolizione emessa dal
Comune di Sarnonico (massima tratta da
www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 17.01.2014 n. 225 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
concessione edilizia comporta la corresponsione di un
contributo commisurato all'incidenza delle spese di
urbanizzazione, nonché al costo di costruzione, in quanto
ogni attività di trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio partecipa agli oneri ad essa relativi. Esso ha
natura, quindi, di corrispettivo di diritto pubblico.
La quantificazione dei contributi dovuti dal soggetto in cui
favore è rilasciata la concessione è ordinariamente
effettuata all'atto del rilascio della concessione medesima,
ma il Comune, anche in seguito, ben può effettuare la
rideterminazione dell'ammontare del contributo dovuto dal
concessionario, in quanto il potere è espressione del
generale principio di autotutela che può essere
legittimamente esercitato ogni qual volta l'amministrazione
si renda conto di essere incorsa, per qualsiasi ragione, in
errore nella liquidazione o nel calcolo del contributo.
Ed invero, è stato inoltre ritenuto che, poiché l'eventuale
errore nella determinazione dei costi di costruzione e degli
oneri di urbanizzazione configura un indebito oggettivo da
parte dell'intestatario della concessione, la sola
preclusione alla azionabilità del credito effettivamente
dovuto è la prescrizione del diritto alla percezione degli
oneri nel loro integrale ammontare.
La concessione edilizia comporta la corresponsione di un
contributo commisurato all'incidenza delle spese di
urbanizzazione, nonché al costo di costruzione, in quanto
ogni attività di trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio partecipa agli oneri ad essa relativi (cfr.,
Cons. St., sez. V, 06.05.1997, n. 462). Esso ha natura,
quindi, di corrispettivo di diritto pubblico.
La quantificazione dei contributi dovuti dal soggetto in cui
favore è rilasciata la concessione è ordinariamente
effettuata all'atto del rilascio della concessione medesima,
ma il Comune, anche in seguito, ben può effettuare la
rideterminazione dell'ammontare del contributo dovuto dal
concessionario, in quanto il potere è espressione del
generale principio di autotutela (cfr. TAR Veneto, II,
01.02.2011, nn. 181 e 189; Cons. St.,V, 30.09.1998, n. 1144)
che può essere legittimamente esercitato ogni qual volta
l'amministrazione si renda conto di essere incorsa, per
qualsiasi ragione, in errore nella liquidazione o nel
calcolo del contributo.
Ed invero, è stato inoltre ritenuto che, poiché l'eventuale
errore nella determinazione dei costi di costruzione e degli
oneri di urbanizzazione configura un indebito oggettivo da
parte dell'intestatario della concessione, la sola
preclusione alla azionabilità del credito effettivamente
dovuto è la prescrizione del diritto alla percezione degli
oneri nel loro integrale ammontare (TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 06.11.2002, n. 4267)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 17.01.2014 n. 50 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: In
primo luogo, è ben noto che l’ente territoriale
competente a redigere i piani urbanistici generali compie in
tal sede scelte espressione di una discrezionalità molto
ampia, sindacabile nella presente sede giurisdizionale di
legittimità solo nei casi di errori di fatto o di manifesta
illogicità o irrazionalità di quanto deciso.
In secondo luogo, l’ente stesso è tenuto a
motivare in modo più approfondito le proprie scelte solo in
una serie di casi eccezionali, ovvero allorquando vada a
disattendere un affidamento qualificato dei privati,
fattispecie ravvisabile allorquando la posizione del privato
si sia consolidata in un titolo formale, perfetto ed
efficace, ad esempio una convenzione di lottizzazione, o un
accordo di diritto privato, già conclusi, ovvero, senza
stipula di atti, a fronte di comportamenti assolutamente
univoci, come nel classico caso della trasformazione in
agricola di un’area limitata, interclusa tra fondi già
edificati in modo non abusivo.
Ai fini della decisione, per
chiarezza, vanno quindi riassunti i principi generali
elaborati dalla giurisprudenza, e condivisi dalla Sezione,
in tema di impugnazione di piani urbanistici generali.
In
primo luogo, è ben noto che l’ente territoriale competente a
redigerli compie in tal sede scelte espressione di una
discrezionalità molto ampia, sindacabile nella presente sede
giurisdizionale di legittimità solo nei casi di errori di
fatto o di manifesta illogicità o irrazionalità di quanto
deciso: sul punto per tutte, come più recente, C.d.S. sez. IV 22.03.2012 n. 2952 e, nella giurisprudenza della
Sezione, già sez. II 20.11.2009 n. 2248.
In secondo luogo, come affermato in origine da C.d.S. a.p. 22.12.1999 n. 24, l’ente stesso è tenuto a
motivare in modo più approfondito le proprie scelte solo in
una serie di casi eccezionali, ovvero allorquando vada a
disattendere un affidamento qualificato dei privati,
fattispecie ravvisabile allorquando la posizione del privato
si sia consolidata in un titolo formale, perfetto ed
efficace, ad esempio una convenzione di lottizzazione, o un
accordo di diritto privato, già conclusi, ovvero, senza
stipula di atti, a fronte di comportamenti assolutamente
univoci, come nel classico caso, oggetto di C.d.S. sez. IV
01.10.2004 n. 6401, della trasformazione in agricola di
un’area limitata, interclusa tra fondi già edificati in modo
non abusivo (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 17.01.2014 n. 44 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Inapplicabilità art. 34, comma 2-ter, d.P.R.
380/2001.
Gli interventi eseguiti su immobili ricadenti sui parchi o
in aree protette nazionali e regionali sono considerati in
totale difformità dal permesso di costruire, ai sensi e per
gli effetti degli articoli 31 e 44 d.P.R. n. 380/2001, non
può quindi trovare applicazione, nei loro confronti, la
speciale ipotesi del comma 2-ter dell’art. 34, d.P.R. n.
380/2001 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.01.2014 n. 1486
- tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Sequestro preventivo ed attualità del
pericolo.
In tema di sequestro preventivo per reati paesaggistici, la
sola esistenza di una struttura abusiva integra il requisito
dell'attualità del pericolo indipendentemente dall'essere
l'edificazione ultimata o meno, in quanto il rischio di
offesa al territorio ed all'equilibrio ambientale, a
prescindere dall'effettivo danno al paesaggio, perdura in
stretta connessione con l'utilizzazione della costruzione
ultimata (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.01.2014 n. 1484
- tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
CdS annulla la sentenza del TAR Napoli n. 1099/2013 secondo
cui le piscine interrate non possono alterare i valori
paesaggistici, perché non suscettibili di verticalizzazione
con pregiudizio di visuali e visioni prospettiche.
Il TAR è incorso nella violazione dei
principi della separazione dei poteri e della tassatività
delle ipotesi di giurisdizione di merito delineate dall’art.
134 cod. proc. amm., da cui esula la fattispecie sub iudice,
non solo perché ha sostituito la propria valutazione a
quella tecnico-discrezionale rientrante nell’ambito dei
poteri dell’amministrazione, ma anche perché ha affermato in
modo apodittico che «le piscine interrate non possono
alterare i valori paesaggistici, perché non suscettibili di
verticalizzazione con pregiudizi di visuali e visioni
prospettiche», senza correlativa valutazione della
fattispecie concreta, con conseguente manifesta
insufficienza motivazionale.
Del resto, per la giurisprudenza di questo Consiglio, hanno
una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le opere
realizzate sull’area sottoposta a vincolo, anche se non vi è
un volume da computare sotto il profilo edilizio (pur se si
tratti di volumi tecnici), anche se si tratta di una
piscina, poiché le esigenze di tutela dell’area sottoposta a
vincolo paesaggistico possono anche esigere l’immodificabilità
dello stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore
modifica).
Nel caso di specie, la Soprintendenza ha motivatamente
rilevato l’esigenza di conservazione delle dune ancora
esistenti e oggetto del progetto, con osservazioni puntuali
e ragionevoli, mentre la sentenza impugnata ha dato una
erronea lettura della normativa di tutela dei beni
paesaggistici, che consente (e impone) all’autorità preposta
alla tutela del vincolo di valutare non solo l’incidenza
delle ‘verticalizzazioni’ su ‘visuali e visioni
prospettiche’, ma anche di ogni opera che modifichi i tratti
naturalistici dell’area, oltre che di quanto può emergere
dall’alto (dal momento che per loro natura le aree
sottoposte a vincolo sono oggetto di visione, esame e studio
anche dall’alto, quale elemento decisivo per la loro
descrizione e per la valutazione della loro maggiore o
minore integrità).
---------------
Le caratteristiche della zona, che hanno giustificato
l’imposizione del vincolo paesaggistico sul litorale domitio,
tra cui la peculiare vegetazione mediterranea connotata da
fitte macchie verdeggianti, costituiscono elementi di fatto
qualificati normativamente dai provvedimenti impositivi del
vincolo, assurgendo a parametri di valutazione della
compatibilità paesaggistica dei singoli interventi edilizi
e, dunque, ponendosi su un piano diverso dai fatti,
principali e/o secondari, costituenti l’oggetto del thema
probandum ed, in ipotesi, suscettibili di non contestazione
ai sensi della citata disposizione processuale, di cui
l’appellata sentenza ha, pertanto, fatto erronea
applicazione, confondendo il piano normativo/valutativo con
il piano processuale dell’individuazione dei fatti
controversi e della distribuzione dell’onere della prova.
Peraltro, la circostanza ripetutamente emergente dalle
stesse deduzioni di parte –secondo cui nel corso del tempo
atti o comportamenti omissivi hanno portato al degrado, o
addirittura alla cancellazione, di ampie aree un tempo
caratterizzate dalle dune sabbiose del litorale domitio–
rende del tutto ragionevole e legittima la valutazione sulla
non assentibilità di opere che ulteriormente riducano la
presenza delle dune, e sull’esercizio in un senso rigoroso
dei poteri tecnico-discrezionali, volti alla salvaguardia
delle relative aree.
... per la riforma della sentenza breve del TAR CAMPANIA -
NAPOLI, SEZIONE VII, n. 1099/2013, resa tra le parti e
concernente: diniego di permesso di costruire a seguito di
parere soprintendentizio negativo.
...
Si osserva che l’appello è fondato.
Dai sopra (sub 1.1.) riportati passaggi motivazionali
centrali dell’appellata sentenza emerge in modo palese che
il Tar ha travalicato i limiti del sindacato proprio
della giurisdizione di legittimità ed è entrato nel merito
dell’atto amministrativo, sostituendosi all’Amministrazione
preposta alla gestione del vincolo nella valutazione, di
natura tecnico-discrezionale, della compatibilità
paesaggistica dell’intervento in questione.
L’area de qua ricade in area sottoposta a tutela con d.m. 28.03.1985 (pubblicato nel S.O. alla G.U. n. 98 del 26.04.1985), ai sensi della l. 29.06.1939, n. 1497, in
un tratto di arenile di pineta e duna sottoposta a regime di
conservazione integrale ai sensi del Piano territoriale
paesistico del Litorale Domitio (la cui fascia sabbiosa é
caratterizzata dai rilievi della duna con la flora e la
fauna mediterranee, tipiche di questo habitat).
Il TAR è incorso nella violazione dei principi della
separazione dei poteri e della tassatività delle ipotesi di
giurisdizione di merito delineate dall’art. 134 cod. proc. amm., da cui esula la fattispecie
sub iudice, non solo
perché ha sostituito la propria valutazione a quella
tecnico-discrezionale rientrante nell’ambito dei poteri
dell’amministrazione, ma anche perché ha affermato in modo
apodittico che «le piscine interrate non possono alterare i
valori paesaggistici, perché non suscettibili di
verticalizzazione con pregiudizi di visuali e visioni
prospettiche», senza correlativa valutazione della
fattispecie concreta, con conseguente manifesta
insufficienza motivazionale.
Del resto, per la giurisprudenza di questo Consiglio, hanno
una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le opere
realizzate sull’area sottoposta a vincolo, anche se non vi è
un volume da computare sotto il profilo edilizio (pur se si
tratti di volumi tecnici: Sez. VI, 20.06.2012, n. 3578),
anche se si tratta di una piscina (Sez. VI, 02.03.2011, n.
1300), poiché le esigenze di tutela dell’area sottoposta a
vincolo paesaggistico possono anche esigere l’immodificabilità
dello stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore
modifica).
Nel caso di specie, la Soprintendenza ha motivatamente
rilevato l’esigenza di conservazione delle dune ancora
esistenti e oggetto del progetto, con osservazioni puntuali
e ragionevoli, mentre la sentenza impugnata ha dato una
erronea lettura della normativa di tutela dei beni
paesaggistici, che consente (e impone) all’autorità preposta
alla tutela del vincolo di valutare non solo l’incidenza
delle ‘verticalizzazioni’ su ‘visuali e visioni
prospettiche’, ma anche di ogni opera che modifichi i tratti
naturalistici dell’area, oltre che di quanto può emergere
dall’alto (dal momento che per loro natura le aree
sottoposte a vincolo sono oggetto di visione, esame e studio
anche dall’alto, quale elemento decisivo per la loro
descrizione e per la valutazione della loro maggiore o
minore integrità).
Ne deriva la fondatezza dei motivi d’appello sub 2.a) e 2.b)
e, in parte qua, anche del motivo sub 2.c).
---------------
Quanto al
secondo profilo di censura dedotto col motivo sub 2.c), è,
altresì, fondata la censura della Amministrazione statale,
che ha lamentato come il TAR –non correttamente
interpretando l’art. 64, comma 2, cod. proc. amm.– ha
rilevato che essa, nel corso del procedimento, non avrebbe
assolto all’onere di contestare in modo specifico i fatti
allegati dalla ricorrente e suffragati dalla relazione
tecnica con allegata documentazione fotografica prodotta in
giudizio (asseritamente escludenti la stessa presenza e,
dunque, la compromissione, nell’area interessata
dall’intervento, delle essenze arboree tipiche della macchia
mediterranea).
Invero, le caratteristiche della zona, che hanno
giustificato l’imposizione del vincolo paesaggistico sul
litorale domitio, tra cui la peculiare vegetazione
mediterranea connotata da fitte macchie verdeggianti,
costituiscono elementi di fatto qualificati normativamente
dai provvedimenti impositivi del vincolo, peraltro non
impugnati, assurgendo a parametri di valutazione della
compatibilità paesaggistica dei singoli interventi edilizi
e, dunque, ponendosi su un piano diverso dai fatti,
principali e/o secondari, costituenti l’oggetto del thema
probandum ed, in ipotesi, suscettibili di non contestazione
ai sensi della citata disposizione processuale, di cui
l’appellata sentenza ha, pertanto, fatto erronea
applicazione, confondendo il piano normativo/valutativo con
il piano processuale dell’individuazione dei fatti
controversi e della distribuzione dell’onere della prova.
Peraltro, la circostanza ripetutamente emergente dalle
stesse deduzioni di parte –secondo cui nel corso del tempo
atti o comportamenti omissivi hanno portato al degrado, o
addirittura alla cancellazione, di ampie aree un tempo
caratterizzate dalle dune sabbiose del litorale domitio–
rende del tutto ragionevole e legittima la valutazione sulla
non assentibilità di opere che ulteriormente riducano la
presenza delle dune, e sull’esercizio in un senso rigoroso
dei poteri tecnico-discrezionali, volti alla salvaguardia
delle relative aree
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.01.2014 n. 18 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI PUBBLICO IMPIEGO: In
costanza di proroga di una graduatoria concorsuale, la
decisione di indire un nuovo concorso relativo
all’assunzione degli stessi profili di quella graduatoria va
congruamente motivata, poiché se non sussiste un diritto
soggettivo all’assunzione in capo agli idonei,
l’Amministrazione deve tenere conto sul piano ordinamentale
che lo scorrimento delle preesistenti graduatorie deve
costituire la regola generale, mentre l’indizione del
concorso rappresenta un’eccezione.
Per cui è l’indizione che deve essere adeguatamente motivata
sul perché si debba seguire un procedimento amministrativo
di rilevante complessità ed accompagnato ad oneri di
bilancio come un nuovo concorso pubblico, piuttosto che la
chiamata di soggetti già scrutinati e dichiarati idonei a
quelle determinate funzioni.
Tutto questo potrebbe eventualmente verificarsi in presenza
di graduatorie estremamente datate pure in virtù della
ricerca di personale dotato di requisiti fondamentalmente
diversi da quelli in possesso dei precedenti idonei oppure
ancora dal tipo differente di selezione decisa,
eventualmente con passaggi più rigorosi, tutti elementi
questi assolutamente assenti nel caso di specie in cui i
requisiti di partecipazione e prove di esame del vecchio e
del nuovo concorso appaiono sostanzialmente conformi, né la
scansione temporale tra l’approvazione della precedente
graduatoria e l’indizione del nuovo concorso appare
oggettivamente giustificare la scelta di quella via
procedimentale definita come eccezionale.
- Ritenuto che appare assolutamente corretto il ragionamento
seguito dalla sentenza impugnata secondo cui, giusta gli
insegnamenti dell’Adunanza plenaria, in costanza di proroga
di una graduatoria concorsuale, la decisione di indire un
nuovo concorso relativo all’assunzione degli stessi profili
di quella graduatoria va congruamente motivata, poiché se
non sussiste un diritto soggettivo all’assunzione in capo
agli idonei, l’Amministrazione deve tenere conto sul piano
ordinamentale che lo scorrimento delle preesistenti
graduatorie deve costituire la regola generale, mentre
l’indizione del concorso rappresenta un’eccezione; per cui è
l’indizione che deve essere adeguatamente motivata sul
perché si debba seguire un procedimento amministrativo di
rilevante complessità ed accompagnato ad oneri di bilancio
come un nuovo concorso pubblico, piuttosto che la chiamata
di soggetti già scrutinati e dichiarati idonei a quelle
determinate funzioni;
- Ritenuto che tutto questo potrebbe eventualmente
verificarsi in presenza di graduatorie estremamente datate
pure in virtù della ricerca di personale dotato di requisiti
fondamentalmente diversi da quelli in possesso dei
precedenti idonei oppure ancora dal tipo differente di
selezione decisa, eventualmente con passaggi più rigorosi,
tutti elementi questi assolutamente assenti nel caso di
specie in cui i requisiti di partecipazione e prove di esame
del vecchio e del nuovo concorso appaiono sostanzialmente
conformi, né la scansione temporale tra l’approvazione della
precedente graduatoria e l’indizione del nuovo concorso
appare oggettivamente giustificare la scelta di quella via
procedimentale definita come eccezionale
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.12.2013 n. 6247 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione e preesistenza opere di
urbanizzazione.
Non basta la mera preesistenza di opere di urbanizzazione
per escludere la dovutezza della pianificazione attuativa,
ma è necessario che le opere esistenti siano sufficienti in
un rapporto di proporzionalità fra i bisogni degli abitanti
già insediati e da insediare e la quantità e qualità degli
impianti urbanizzati già disponibili destinati a
soddisfarli.
Deve sussistere cioè, per escludere la
lottizzazione, una situazione di completa e razionale
urbanizzazione della zona, in presenza di opere urbanizzative primarie e secondarie almeno pari allo
standard urbanistico minimo prescritto, tale da rendere del
tutto superfluo un piano attuativo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.12.2013 n. 51710 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La quota di contributo commisurata al costo di
costruzione costituisce una prestazione di natura tributaria
e paratributaria, collegata alla produzione di ricchezza dei
singoli che è generata dallo sfruttamento del territorio.
---------------
Il contributo relativo al costo di
costruzione è dovuto anche in presenza di una trasformazione
edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di
opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa
connessi, situazione che si verifica per il mutamento di
destinazione o comunque per ogni variazione anche di
semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie
funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico.
---------------
Il settimo comma,
primo periodo, dell'art. 64 della L.R. Lombardia 11.03.2005 n. 12
prevede che: “La realizzazione degli interventi di recupero
di cui al presente capo comporta la corresponsione …. del
contributo commisurato al costo di costruzione, calcolati
sulla volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa
abitativa secondo le tariffe approvate e vigenti in ciascun
comune per le opere di nuova costruzione”.
In sostanza, la quantificazione degli oneri di
urbanizzazione e del contributo riferito al costo di
costruzione per il recupero dei sottotetti è agganciata da
un lato alla “superficie lorda di pavimento resa abitativa”, e dall’altro alle “tariffe approvate e vigenti” per le
opere di nuova costruzione.
In tal senso il TAR ha ragione quanto ha escluso la
legittimità di un conteggio che tenga conto della
“superficie complessiva”, cioè la superficie utile più
quella non residenziale di cui all’art. 2 del D.M. 10.05.1977
n. 10.
Infatti, in applicazione del principio ermeneutico generale
della prevalenza della norma speciale sulla norma generale è
esatto l’assunto per cui in materia di oneri di
urbanizzazione relativi al recupero dei sottotetti, deve
farsi esclusivo riferimento al più ristretto ambito spaziale
individuato al settimo comma dell'art. 64 della L.R..
Pertanto, in base al vecchio brocardo “ubi lex voluit
dixit”, se il legislatore regionale ha prescritto che gli
oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione debbono
essere computati con riferimento alla “volumetria o sulla
superficie lorda di pavimento resa abitativa”, ha
intenzionalmente inteso porre una fattispecie peculiare
derogatoria del regime generale di cui agli artt. 44 e 48
della L.R. n. 12/2005.
Tuttavia, al fine del calcolo del costo di costruzione per
gli interventi in questione deve dunque escludersi che
possano essere conteggiate come fattori di moltiplicazione
le superfici non destinate anche indirettamente ai fini
residenziali quali i locali di pertinenza del fabbricato ad
uso comune quali androni, deposito biciclette e carrozzine,
deposito rifiuti, corridoi e disimpegni dei solai delle
cantine ed ecc..
Tuttavia il richiamo alle “tariffe vigenti” di cui all’art.
64, co. 7, della detta L.R. implica che per la
determinazione del costo di costruzione per le nuove
costruzioni -sia pure con riferimento alle sole superfici
lorde di pavimento rese abitative- debba farsi diretto
rinvio all’art. 48 della L.R. n. 12/2005, ed al d.m.
10.05.1977.
In altre parole, l'interpretazione della preposizione
"calcolati sulla volumetria o sulla superficie lorda di
pavimento resa abitativa secondo le tariffe approvate
vigenti per ciascun Comune per le opere di nuova
costruzione" deve essere coerente con il precedente art. 48
ed implica che il calcolo del costo di costruzione dei
recuperi edilizi dei sottotetti deve essere computato
utilizzando da un lato la volumetria o la superficie s.l.p.
resa abitativa e dall’altro le tabelle comunali per le nuove
costruzioni di cui all'art. 48 della L.R. n. 12/2005.
Esattamente
l’Amministrazione appellante ricorda, in linea di principio,
che la quota di contributo commisurata al costo di
costruzione costituisce una prestazione di natura tributaria
e paratributaria, collegata alla produzione di ricchezza dei
singoli che è generata dallo sfruttamento del territorio
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.04.2006 n. 2258; Cons.
Stato Sez. V 06.05.1997 n. 462; Cons. Stato Sez. VI 18.01.2012 n. 177). Infatti il contributo relativo al
costo di costruzione è dovuto anche in presenza di una
trasformazione edilizia che, indipendentemente
dall'esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di
vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si
verifica per il mutamento di destinazione o comunque per
ogni variazione anche di semplice uso che comporti un
passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV
14/10/2011 n. 5539).
Nello specifico però, il settimo comma, primo periodo,
dell'art. 64 della L.R. Lombardia 11.03.2005 n. 12
prevede che: “La realizzazione degli interventi di recupero
di cui al presente capo comporta la corresponsione …. del
contributo commisurato al costo di costruzione, calcolati
sulla volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa
abitativa secondo le tariffe approvate e vigenti in ciascun
comune per le opere di nuova costruzione”.
In sostanza, la quantificazione degli oneri di
urbanizzazione e del contributo riferito al costo di
costruzione per il recupero dei sottotetti è agganciata da
un lato alla “superficie lorda di pavimento resa abitativa”, e dall’altro alle “tariffe approvate e vigenti” per le
opere di nuova costruzione.
In tal senso il TAR ha ragione quanto ha escluso la
legittimità di un conteggio che tenga conto della
“superficie complessiva”, cioè la superficie utile più
quella non residenziale di cui all’art. 2 del D.M. 10.05.1977
n. 10.
Infatti, in applicazione del principio ermeneutico generale
della prevalenza della norma speciale sulla norma generale è
esatto l’assunto per cui in materia di oneri di
urbanizzazione relativi al recupero dei sottotetti, deve
farsi esclusivo riferimento al più ristretto ambito spaziale
individuato al settimo comma dell'art. 64 della L.R..
Pertanto, in base al vecchio brocardo “ubi lex voluit
dixit”, se il legislatore regionale ha prescritto che gli
oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione debbono
essere computati con riferimento alla “volumetria o sulla
superficie lorda di pavimento resa abitativa”, ha
intenzionalmente inteso porre una fattispecie peculiare
derogatoria del regime generale di cui agli artt. 44 e 48
della L.R. n. 12/2005.
La Società, nella memoria del 03.10.2013, esattamente ricorda
come tale individuazione è del tutto coerente sia con le
finalità generali di recupero di patrimonio edilizio ai fini
abitativi, sia con riferimento al fatto che non possano
computarsi tutte le superfici non residenziali che spesso
non appartengono nemmeno all’esecutore dell’intervento.
Al riguardo, al fine del calcolo del costo di costruzione
per gli interventi in questione deve dunque escludersi che
possano essere conteggiate come fattori di moltiplicazione
le superfici non destinate anche indirettamente ai fini
residenziali quali i locali di pertinenza del fabbricato ad
uso comune quali androni, deposito biciclette e carrozzine,
deposito rifiuti, corridoi e disimpegni dei solai delle
cantine ed ecc. (ma al riguardo vedi anche infra).
Tuttavia il richiamo alle “tariffe vigenti” di cui all’art.
64, co. 7, della detta L.R. implica che per la
determinazione del costo di costruzione per le nuove
costruzioni -sia pure con riferimento alle sole superfici
lorde di pavimento rese abitative- debba farsi diretto
rinvio all’art. 48 della L.R. n. 12/2005, ed al d.m. 10.05.1977.
In altre parole, l'interpretazione della preposizione
"calcolati sulla volumetria o sulla superficie lorda di
pavimento resa abitativa secondo le tariffe approvate
vigenti per ciascun Comune per le opere di nuova
costruzione" deve essere coerente con il precedente art. 48
ed implica che il calcolo del costo di costruzione dei
recuperi edilizi dei sottotetti deve essere computato
utilizzando da un lato la volumetria o la superficie s.l.p.
resa abitativa e dall’altro le tabelle comunali per le nuove
costruzioni di cui all'art. 48 della L.R. n. 12/2005.
Solo in relazione a quest’ultimo limitato profilo il primo
motivo del Comune può, per tale parte, essere accolto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.12.2013 n. 6160 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi del comma 6-ter dell'art. 19 della legge
07.08.1990, n. 241
"Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di
diritto di accesso ai documenti amministrativi", le denuncie di inizio attività "non
costituiscono provvedimenti taciti".
Il legislatore ha
fatto dunque proprio l’avviso dell'Adunanza plenaria per cui "la denuncia di inizio attività
non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e
non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma
costituisce un atto privato volto a comunicare l'intenzione
di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla
legge".
---------------
In linea generale, l'efficacia abilitativa alla
realizzazione dell'intervento edilizio non è conseguente
all'iniziativa del privato ma alla giuridica possibilità di
realizzare le opere.
Pertanto l'obbligo di corrispondere gli oneri di
urbanizzazione ed il costo di costruzione deve essere
agganciato non al tempo della presentazione della denuncia
di inizio attività, ma al sorgere della giuridica
possibilità di realizzare legittimamente l’intervento e
quindi al momento dell’intervenuta efficacia della d.i.a.
per decorso del termine o intervenuto accertamento della
conformità alla disciplina urbanistica vigente.
La determinazione dell'importo dei contributi dovuti per le
opere da realizzarsi è dunque connessa all'effettiva
possibilità di effettuare l'intervento edilizio. Ciò, onde
evitare l’insorgenza di un obbligo di pagamento anche nel
caso in cui, nel termine di trenta giorni l'amministrazione
intervenga con l'ordine motivato di blocco dei lavori, è
dunque evidente che la determina dei contributi urbanistici
deve essere effettuata tenendo conto dei parametri di
calcolo in vigore al momento dell’operatività della detta
denuncia.
Fino al momento dell'attribuzione di efficacia, secondo
momento di realizzazione della fattispecie precettiva, la
vicenda procedimentale non è ancora conclusa, ed è quindi
ancora possibile, ed anzi doveroso, dare risalto agli eventi
esterni sopravvenuti, quale è il mutamento dei parametri di
calcolo, (come nel caso di specie), o anche il
sopraggiungere di una nuova disciplina urbanistica).
---------------
In conseguenza del principio che
precede, quando poi, come nel caso particolare, il privato
abbia parcellizzato l’intervento attraverso uno stillicidio
di molteplici DIA (nel caso ben cinque) tutte concernenti i
medesimi spazi, è evidente che il contributo cui dovrà
soggiacere non potrà che essere quello corrispondente
all’assetto finale dell’immobile, onde evitare che una
sapiente regia nella segmentazione dei lavori finisca per
risolversi in un abuso del diritto in danno
dell’Amministrazione.
Come la
Sezione ha più volte avuto modo di ricordare, ai sensi del
comma 6-ter dell'art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241
"Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di
diritto di accesso ai documenti amministrativi" (introdotto
con l'articolo 6, co. 1°, lettera c), del D.L. 13.08.2011, n. 138), le denuncie di inizio attività "non
costituiscono provvedimenti taciti". Il legislatore ha
fatto dunque proprio l’avviso dell'Adunanza plenaria 29.07.2011 n. 15 per cui "la denuncia di inizio attività
non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e
non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma
costituisce un atto privato volto a comunicare l'intenzione
di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla
legge".
In linea generale, l'efficacia abilitativa alla
realizzazione dell'intervento edilizio non era conseguente
all'iniziativa del privato ma alla giuridica possibilità di
realizzare le opere.
Pertanto l'obbligo di corrispondere gli oneri di
urbanizzazione ed il costo di costruzione deve essere
agganciato non al tempo della presentazione della denuncia
di inizio attività, ma al sorgere della giuridica
possibilità di realizzare legittimamente l’intervento e
quindi al momento dell’intervenuta efficacia della d.i.a.
per decorso del termine o intervenuto accertamento della
conformità alla disciplina urbanistica vigente.
La determinazione dell'importo dei contributi dovuti per le
opere da realizzarsi è dunque connessa all'effettiva
possibilità di effettuare l'intervento edilizio. Ciò, onde
evitare l’insorgenza di un obbligo di pagamento anche nel
caso in cui, nel termine di trenta giorni l'amministrazione
intervenga con l'ordine motivato di blocco dei lavori, è
dunque evidente che la determina dei contributi urbanistici
deve essere effettuata tenendo conto dei parametri di
calcolo in vigore al momento dell’operatività della detta
denuncia (cfr. Cons. Stato Sez. IV 13.05.2010 n. 2922).
Fino al momento dell'attribuzione di efficacia, secondo
momento di realizzazione della fattispecie precettiva, la
vicenda procedimentale non è ancora conclusa, ed è quindi
ancora possibile, ed anzi doveroso, dare risalto agli eventi
esterni sopravvenuti, quale è il mutamento dei parametri di
calcolo, (come nel caso di specie), o anche il
sopraggiungere di una nuova disciplina urbanistica).
In conseguenza del principio che precede, quando poi, come
nel caso particolare, il privato abbia parcellizzato
l’intervento attraverso uno stillicidio di molteplici DIA
(nel caso ben cinque) tutte concernenti i medesimi spazi, è
evidente che il contributo cui dovrà soggiacere non potrà
che essere quello corrispondente all’assetto finale
dell’immobile, onde evitare che una sapiente regia nella
segmentazione dei lavori finisca per risolversi in un abuso
del diritto in danno dell’Amministrazione.
Nel caso la terza DIA del 13.12.2005 si era perfezionata
successivamente all’entrata in vigore -in data 01.01.2006-
della determina dirigenziale n. 295/2005 per cui deve
concludersi per la legittimità del computo del costo di
costruzione di € 322,05 operato con riferimento alle tariffe
in vigore al momento della formazione finale del titolo
edilizio.
L’ultima DIA della società ricorrente è stata presentata,
completa di tutti gli allegati e dei conteggi degli oneri,
in data 21.12.2007 e quindi, allo scadere del termine
di trenta giorni di cui al comma 1 dell'art. 23 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380. Pertanto il suo iter formativo si era
concluso solo dopo l'intervenuta efficacia della delibera
comunale.
Il motivo va dunque respinto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.12.2013 n. 6160 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illegittimità concessione edilizia in deroga per
realizzazione di ambulatorio medico privato.
Se è pur vero che il titolo è stato
richiesto per la realizzazione di un manufatto destinato ad
accogliere l’attività di medico di base del Servizio
Sanitario Nazionale (in relazione al quale potrebbe essere
non implausibile la sussistenza di un interesse pubblico
all’assistenza nei confronti dei pazienti), è d’altra parte
indubitabile che il vulnus alla disciplina
urbanistico–edilizia inflitto con la concessione in deroga
non risulta giustificato dalla duratura destinazione (a
servizio sanitario) dell’immobile: quest’ultimo, infatti,
non solo è (e resta privato) e nella esclusiva disponibilità
dell’interessato anche quanto all’uso, non essendo stato
apposto alcun vincolo ragionevole durata o di destinazione
(di interesse pubblico), ma altresì nulla impedisce che,
anche prima della naturale conclusione dell’attività
professionale del proprietario, l’immobile possa essere
ceduto a terzi e/o concretamente utilizzato per un’attività
ovvero per una finalità esclusivamente privata.
--------------
Al riguardo si rammenta la distinzione
tra l’ambulatorio, che identifica una struttura
aziendale, aperta, spersonalizzata ed organizzata
imprenditorialmente in vista dell’affluenza di un pubblico
indeterminato, in cui prevale l’aspetto organizzativo su
quello professionale, e lo studio medico, connotato
dal prevalente apporto professionale mediante esercizio
professionale dell’attività sanitaria: solo nei confronti
del primo (ambulatorio) è astrattamente ipotizzabile la
ricorrenza del presupposto dell’interesse pubblico
preminente idoneo a giustificare il rilascio della
concessione edilizia in deroga.
---------------
Nel merito
l’appello è infondato, il che consente di prescindete
dall’esame delle ulteriori eccezioni preliminari, sollevate
in primo grado e non esaminate per assorbimento, ma
espressamente riproposte in appello.
Come emerge dalla documentazione in atti, non è
contestato che il dott. -OMISSIS- presentò in data 23.09.1980 una richiesta di concessione edilizia in
deroga per l’ampliamento del fabbricato sito in Asolo, via
S. Caterina (in catasto, sez. B, foglio n. IV, mapp. n. 654)
ad uso ambulatorio medico.
Con delibera n. 89 del 02.10.1980 il Consiglio comunale
di Asolo espresse al riguardo parere favorevole, in ragione
della particolare rilevanza sociale e di pubblica utilità
dell’iniziativa, incaricando contestualmente il sindaco di
richiedere alla Regione Veneto il prescritto nulla–osta ai
sensi dell’art. 3 della legge 21.12.1955, n. 1357; in
data 14.01.1984 veniva poi effettivamente rilasciato il
richiesto titolo edilizio in deroga n. 93/1980 per la
realizzazione di un ambulatorio medico, essendo intervenuto
in data 08.11.1983 (prot. 1150) anche il nulla – osta
dei Beni Ambientali di Treviso.
E’ altresì pacifico, mancando sul punto qualsiasi
contestazione tra le parti, che l’immobile, il cui
ampliamento ad uso ambulatorio medico è stato consentito con
il contestato titolo edilizio, ricadeva nella zona A del
Comune di Asolo, all’interno della quale, ai sensi
dell’allora vigente piano regolatore (art. 13), gli
interventi edilizi erano subordinati all’approvazione di
piani particolareggiati, potendo, in difetto degli stessi,
essere consentiti, sempre previo apposito titolo concessorio,
solo la manutenzione ordinaria e straordinaria; gli
interventi sui parametri esterni, purché non interessino
spostamenti di aperture e modifiche dei materiali di
facciata; risanamenti interni di carattere igienico o
distributivo, purché non comportino sostanziali modifiche
strutturali e tipologiche; restauri conservativi e
demolizioni di corpi di fabbrica interni privi di valore
architettonico.
Il successivo art. 27 (ex 29) del piano regolatore prevedeva
la possibilità di derogare alle relative previsioni, ove
ricorressero “particolari motivi di pubblico interesse, di
decoro cittadino e di igiene”.
Per completezza deve aggiungersi che l’art. 80 (rubricato
“Deroghe”) dell’allora vigente legge regionale 02.05.1980, n. 40 (“Norme per l’assetto e l’uso del territorio”)
stabiliva che “Il piano regolatore può dettare disposizioni
che consentano al Sindaco di rilasciare concessioni in
deroga alle norme e alle previsioni urbanistiche generali
quando riguardino edifici e/o impianti pubblici o di
interesse pubblico, purché non abbiano per oggetto la
modificazione delle destinazioni di zona. In tali casi il
rilascio della concessione deve essere preceduto da
deliberazione favorevole del consiglio comunale”.
Benché la predetta legge sia stata sostituita dalla
successiva legge regionale 27.06.1985, n. 61 (anch’essa
disciplinante l’assetto e l’uso del territorio), l’art. 80
di quest’ultima, pur esso rubricato “Deroghe”, riporta ai
primi due commi delle disposizioni del tutto identiche a
quelle della precedente legge n. 40 del 1980.
Ciò precisato, la Sezione ritiene che la sentenza
impugnata sfugga alle critiche che le sono state appuntate.
Il rilascio della concessione in deroga, sia nelle
previsioni del piano regolatore generale che secondo le
ricordate disposizioni della legislazione regionale,
costituisce una facoltà eccezionale riconosciuta
all’amministrazione comunale per il perseguimento di un
interesse pubblico preminente, a prescindere dalla
circostanza che si tratti di un’attività di edificazione di
carattere privato: il solo predetto interesse pubblico
consente infatti di disapplicare una norma con riferimento
ad una fattispecie concreta che pure presenta tutti gli
elementi per essere assoggettata alla disciplina di
carattere generale (C.d.S., sez. V, 23.07.2009, n. 4664;
02.04.2006, n. 439).
In ragione della natura eccezionale (del rilascio) della
concessione edilizia in deroga i relativi presupposti (in
particolare proprio la ricorrenza di un interesse pubblico
preminente) devono essere accertati in modo puntuale e
rigoroso, così come le norme che la ammettono devono essere
interpretate in senso restrittivo (pena lo stravolgimento
della sua stessa ratio), come del resto ha sottolineato la
giurisprudenza (C.d.S., sez. V, 11.01.2006, n. 46),
evidenziando che la concessione in deroga costituisce un
provvedimento eccezionale ed a contenuto singolare, assunto
cioè per soddisfare specifici interessi pubblici sulla base
di valutazioni contingenti e dotate di eccezionalità che
giustificano nella situazione concreta l’inosservanza delle
disposizioni contenute negli atti di programmazione.
E’ stato anche precisato che per edificio di interesse
pubblico, ai fini del rilascio della concessione in droga
(nel caso di specie ex art. 16 della legge 06.08.1967, n.
765) deve intendersi ogni manufatto edilizio idoneo per
caratteristiche intrinseche o per destinazione funzionale a
soddisfare interessi di rilevanza pubblica (C.d.S., sez. IV,
23.05.1988, n. 434).
Applicando tali condivisibili e consolidati principi
al caso in esame, non sussistevano i presupposti per il
rilascio del titolo edilizio in deroga per la realizzazione
dell’immobile in questione, non essendo del resto stata
fornita dall’amministrazione una adeguata e convincente
valutazione (dell’esistenza) dell’interesse pubblico
preminente.
Se è pur vero, infatti, che il titolo è stato richiesto per
la realizzazione di un manufatto destinato ad accogliere lo
studio del ricorrente, esercente l’attività di medico di
base del Servizio Sanitario Nazionale (in relazione al quale
potrebbe essere non implausibile la sussistenza di un
interesse pubblico all’assistenza nei confronti dei
pazienti), è d’altra parte indubitabile che il vulnus alla
disciplina urbanistico–edilizia inflitto con la
concessione in deroga non risulta giustificato dalla
duratura destinazione (a servizio sanitario) dell’immobile:
quest’ultimo, infatti, non solo è (e resta privato) e nella
esclusiva disponibilità dell’interessato anche quanto
all’uso, non essendo stato apposto alcun vincolo ragionevole
durata o di destinazione (di interesse pubblico), ma altresì
nulla impedisce che, anche prima della naturale conclusione
dell’attività professionale del proprietario, l’immobile
possa essere ceduto a terzi e/o concretamente utilizzato per
un’attività ovvero per una finalità esclusivamente privata.
Al riguardo si rammenta la distinzione (Cass. Civ., sez. II,
19.03.2010, n. 6719) tra l’ambulatorio, che identifica
una struttura aziendale, aperta, spersonalizzata ed
organizzata imprenditorialmente in vista dell’affluenza di
un pubblico indeterminato, in cui prevale l’aspetto
organizzativo su quello professionale, e lo studio medico,
connotato dal prevalente apporto professionale mediante
esercizio professionale dell’attività sanitaria: solo nei
confronti del primo (ambulatorio) è astrattamente
ipotizzabile la ricorrenza del presupposto dell’interesse
pubblico preminente idoneo a giustificare il rilascio della
concessione edilizia in deroga
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.12.2013 n. 6136
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva terzo acquirente e
giudice dell'esecuzione.
Pur se resta estraneo al procedimento penale per
lottizzazione abusiva, l'acquirente degli immobili in cui
questa si è concretata non è automaticamente qualificabile
come terzo in buona fede rispetto all'attività criminosa,
vale a dire non può, sempre automaticamente, rimanere
indenne dalla confisca degli immobili stessi.
Infatti,
qualora al momento dell'acquisto e nel periodo delle prodromiche trattative si comporti in modo imprudente e
negligente, con tale imprudente e negligente condotta
l'acquirente si pone in una situazione di inconsapevolezza
che apporta un determinante contributo causale all'attività
illecita per la quale norma incriminante, contravvenzionale,
è sufficiente l’elemento soggettivo della colpa -motivo per
cui l'acquirente di immobili o terreni abusivamente
lottizzati non può dirsi terzo realmente estraneo al reato
di lottizzazione abusiva se non prova di avere agito in
buona fede partecipando inconsapevolmente all'operazione
illecita dopo aver adempiuto ai doveri di informazione e
conoscenza richiesti dall'ordinaria diligenza in relazione
al contenuto specifico dell'attività di compravendita
immobiliare da lui posta in essere: adempimento la cui
valutazione spetta naturalmente al giudice di merito, il
quale -trattandosi di soggetto rimasto estraneo al processo
per lottizzazione abusiva- non può non essere il giudice
dell'esecuzione
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 19.12.2013 n. 51387 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illegittimità diniego di sanatoria edilizia per difetto di
motivazione.
E’ illegittimo il diniego di sanatoria
edilizia per difetto di motivazione allorché si fa
riferimento sia a caratteristiche dei materiali utilizzati
per la realizzazione del manufatto, genericamente definiti
“inadeguati”, sia a caratteristiche estetiche delle forme
del manufatto, definite “rozze”; per altro verso, si
sottolinea la (mera) ubicazione dell’opera che
contribuirebbe a renderne intollerabile la presenza.
Ambedue i profili richiamati, tuttavia, non contribuiscono a
definire le ragioni ostative alla sanatoria, rappresentando
essi, nel primo caso, mere valutazioni non circostanziate da
elementi di fatto volti a supportare il giudizio negativo
formulato; nel secondo caso, una semplice descrizione di
luoghi, in relazione ai quali il concreto contrasto del
manufatto non risulta reso evidente
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 18.12.2013 n. 6065 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Imprenditore agricolo oneri concessori e variante da
agricola a residenziale.
La mancanza del requisito
dell’imprenditore agricolo a titolo principale è sufficiente
a ritenere dovuto il contributo concessorio e insussistente
il diritto alla esenzione, legato a ipotesi tassative.
Inoltre, va aggiunto che ai fini del mutamento di
destinazione d’uso (nella specie, da agricola a
residenziale) si ritiene che comporti aumento del carico
urbanistico il passaggio tra due categorie funzionalmente
autonome, in quanto il mutamento di destinazione d’uso, in
sé, nella specie, a differenza di quanto sostiene
l’appellata, comporta un maggiore carico urbanistico, al
quale si correla la imposizione di pagamento.
Occorre ora
esaminare la correttezza del ragionamento del primo giudice,
contestato dall’appello, sulla base sia degli accertamenti
effettuati sulla natura dell’intervento che sulla base della
disciplina normativa sulla dovutezza del contributo.
In fatto, la verificazione ha dato modo di accertare che:
a) l’intervento (che secondo il Comune è consistito nella
demolizione e ricostruzione del preesistente edificio
ubicato in zona agricola ed individuato come fabbricato
rurale di rilevante valore dal Piano regolatore con
contestuale cambio di destinazione di uso poiché la nuova
costruzione oggetto di sanatoria non avrebbe più
destinazione agricola ma residenziale) deve essere
qualificato come ristrutturazione edilizia e non come
restauro e risanamento conservativo; b) non sussistono
elementi univoci nel senso che esso avrebbe comportato
mutamenti di destinazione d’uso, anche se le previsioni
divisorie interne e le modifiche alle aperture esistenti non
pregiudicano tale possibilità; c) non si può ritenere dalla
documentazione esistente che sussista il requisito
dell’imprenditore agricolo a titolo principale e anzi, deve
ritenersi, tale qualifica non sussiste.
La legge invocata 28/01/1977, n. 10 all’articolo 9 prevede
(prevedeva perché trattasi di articolo abrogato
dall'articolo 136, comma 1, lettera c), del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, a decorrere dal
01.01.2002; tuttavia
applicabile ratione temporis, poiché l’intervento è degli
anni novanta e il ricorso originario dell’anno 1998) che il
contributo di cui al precedente articolo 3 non è dovuto per
(lettera a) le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi
comprese le residenze, in funzione della conduzione del
fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo
principale, ai sensi dell'art. 12, L. 09.05.1975, n. 153.
Si intende quindi (tra tante, si veda Consiglio Stato sez.
V, 30.08.2005, n. 4424) che l'esonero dal pagamento
degli oneri concessori per gli edifici destinati alla
conduzione del fondo e alle esigenze dell'imprenditore
agricolo, stabilito dalla lett. a), art. 9, l. n. 10 del
1977, spetta soltanto a tutti i soggetti che esercitino
l'attività agricola a titolo principale, tanto persone
fisiche che persone giuridiche.
Pertanto, una volta accertata la insussistenza della
qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale,
l’esenzione è del tutto ingiustificata, né si giustifica
l’accoglimento motivato sulla base di una asserita disparità
di trattamento con situazione, invero del tutto differente,
di un altro soggetto, anch’egli proprietario di un edificio
unifamiliare (che però ricade in zona diversamente
classificata dal PRG), che non sarebbe esonerato da tale
obbligazione, a fronte di un intervento edilizio medesimo
avente le medesime caratteristiche.
A meno di non incorrere in una interpretazione arbitraria,
si deve soltanto accertare, a tal fine –salvo valutare
altresì la natura dell’intervento realizzato– se sussiste
il requisito della imprenditore agricolo a titolo principale
(che è oggetto di una specifica disciplina, ora a seguito
della c.d. Legge di orientamento sull’imprenditore
agricolo), in quanto solo in tal caso sussiste il diritto (e
invero ovviamente la ragione legislativa) alla esenzione del
contributo di concessione per le opere da realizzare in zona
agricola.
Con riguardo alla effettiva natura dell’intervento, è
evidente che non possa essere accolta la tesi della parte
appellata, riproposta in memoria, secondo cui si tratterebbe
nella specie soltanto di restauro o risanamento
conservativo.
Sia sufficiente osservare come in relazione alla natura di
ristrutturazione dell’intervento si sono espressi con
chiarezza sia la verificazione sia lo stesso primo giudice,
che ha accolto il ricorso, come visto, sulla base di diverso
iter logico interpretativo. Né, al riguardo, l’appellata ha
fornito argomenti in grado di sovvertire le conclusioni del
verificatore.
La caratteristica degli interventi di mero restauro è quella
di essere effettuati mediante interventi che non comportano
l’alterazione delle caratteristiche edilizie dell’immobile
da restaurare, rispettando gli elementi formali e
strutturali dell’immobile stesso, dovendosi privilegiare la
funzione di ripristino della individualità originaria
dell’immobile (Cassazione penale, III, 01.09.2009, n.
33536), mentre la ristrutturazione edilizia si caratterizza
per essere idonea ad introdurre un quid novi rispetto al
precedente assetto dell’edificio.
Nella specie è stato demolito il secondo corpo di fabbrica e
parzialmente ricostruito con pareti portanti dal piano terra
al piano primo a sostegno del solaio e le opere realizzate
sono tali da essere definite variazioni essenziali recanti
il mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio;
il verificatore aggiunge che non è da escludersi –e anzi
tutte le circostanze di fatto portano a ritenerlo probabile- il successivo mutamento di destinazione d’uso da agricolo
a residenziale.
La mancanza del requisito dell’imprenditore agricolo a
titolo principale è sufficiente a ritenere dovuto il
contributo concessorio e insussistente il diritto alla
esenzione, legato a ipotesi tassative.
Inoltre, va aggiunto che ai fini del mutamento di
destinazione d’uso (nella specie, da agricola a
residenziale) si ritiene che comporti aumento del carico
urbanistico il passaggio tra due categorie funzionalmente
autonome, in quanto il mutamento di destinazione d’uso, in
sé, nella specie (per tali considerazioni, si veda di
recente tra varie Cons. Stato, V, 30.08.2013, n. 4326) a
differenza di quanto sostiene l’appellata, comporta un
maggiore carico urbanistico, al quale si correla la
imposizione di pagamento
(massima tratta da www.lexambiente.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.12.2013 n. 6005
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Rifiuti da imballaggio.
Rientra nell'attività di illecita
gestione, sanzionata dall'art. 256, comma 1, d.lgs.
152/2006, lo smaltimento mediante combustione di rifiuti di
imballaggio (nella specie, polistirolo) effettuato in
assenza del prescritto titolo abilitativo
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 05.12.2013 n. 48737 -
tratto da www.lexambiente.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Danno ambientale. Associazioni e legittimazione a
costituirsi parte civile.
Le associazioni ambientaliste, sono legittimate a
costituirsi parte civile quando perseguano un interesse non
caratterizzato da un mero collegamento con quello pubblico,
bensì concretizzatosi in una realtà storica di cui il
sodalizio ha fatto il proprio scopo, in quanto in tal caso
l’interesse all’ambiente cessa di essere diffuso e diviene
soggettivizzato e personificato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.12.2013 n. 47805
- tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Finalità dell'abbandono e della raccolta.
La volontà che sottende all'abbandono di rifiuti è
sostanzialmente diretta a disfarsi ed a disinteressarsi
completamente della cosa, mentre quella relativa alla
raccolta è diretta a conservare i materiali per poter poi
compiere sugli stessi una attività successiva, sia di
riutilizzo o di smaltimento
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 29.11.2013 n. 47501 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Acque. Scarico responsabilità e delega.
La responsabilità in tema di superamento dei limiti nello
scarico deve essere esclusa quando esiste un soggetto
delegato competente.
Il TRIBUNALE di Reggio Emilia, Sez. II civile, con la
sentenza 28.11.2013 ha accolto il ricorso n. 8382/2008 del
Condominio Corte Gonzaga e di Cristina Denti contro il
Comune di Reggio Emilia per l’annullamento dell’ordinanza
del Comune di Reggio Emilia n. 20864 del 30.09.2008
con la quale veniva ingiunto il pagamento di una sanzione
amministrativa per la violazione dell’art. 101, comma 2°,
del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i. a causa del
cattivo funzionamento del proprio “impianto biologico a
fanghi di attivi di trattamento di reflui”, verificato dall’A.R.P.A.
Emilia-Romagna (verbale n. 45/2007).
Il Condominio Corte Gonzaga faceva invano presente fin dalla
contestazione l’aver incaricato una Ditta specializzata e
adeguatamente dotata di professionalità e mezzi per il
mantenimento in efficienza dell’impianto di depurazione
condominiale.
Il Giudice civile reggiano ha accolto le tesi difensive.
Infatti, è innanzitutto presente il carattere
dell’imprevedibilità: “la ditta incaricata ha rilevato
che la concentrazione abnorme sarebbe determinata da un
accumulo di sostanza organica nell’impianto a seguito di un
intasamento del pozzetto di ingresso la cui liberazione ha
determinato un afflusso eccessivo di fluidi e una
conseguente ed inevitabile maggiore difficoltà del
depuratore di smaltimento; da un punto di vista tecnico, non
sarebbe stato possibile l’inserimento di batteri prima che
fosse stata ripristinato un corretto rapporto tra ossigeno e
materiale, dal momento che essi avrebbero potuto attivarsi
solo in ambiente aerobico” (tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Differenze tra la nozione di deposito e quella di
abbandono.
La nozione di deposito di rifiuti anche
solo temporaneo implica, a differenza di quella
dell’abbandono, ed in virtù della sua finalizzazione ad una
gestione degli stessi, una attività connotata
necessariamente da un controllo a che la collocazione
avvenga inizialmente e poi permanga, nell'arco temporale
richiesto, secondo le modalità di legge, non è sostenibile
che, una volta collocato il materiale (su area che già non
sia interessata da oggetti di provenienza diversa) sia
possibile disinteressarsi della sorte del medesimo.
Se, del resto, il deposito prelude per legge all'avviamento
del materiale alle operazioni di recupero e di smaltimento,
è necessario che il requisito del raggruppamento per
categorie omogenee sussista inizialmente e permanga sino a
che detto smaltimento non intervenga, restando a carico di
chi il deposito effettui curare che detto requisito venga
costantemente rispettato, senza per questo addossare al
“depositante” inadempienze altrui.
Una diversa conclusione finirebbe d’altra parte per dar
luogo ad una indebita assimilazione della figura del
“deposito” a quella dell’"abbandono" (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.11.2013 n. 46711
- tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Materiale bituminoso.
Il materiale bituminoso, come ogni prodotto proveniente da
scavo o demolizione, può essere considerato sottoprodotto ai
sensi dell’art. 183, lett. qq), del d.lgs. 03.04.2006,
n. 152 soltanto in ipotesi di totale riutilizzazione nel
rispetto delle condizioni fissate dal successivo art. 184-bis
al comma 1, anche in relazione all’art. 185, in particolare lett. b)
e c), della medesima legge
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 19.11.2013 n. 46243 -
tratto da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Ambiente in genere. Getto pericoloso di cose e concorso con
reati ambientali.
In linea di principio, il reato di getto pericoloso di cose
può concorrere con i reati di gestione non autorizzata di
rifiuti (art. 256, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152) e di
scarico di reflui industriali senza autorizzazione (art.
137, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152), purché si accerti la
potenziale offensività del rifiuto o del refluo ed il getto
avvenga in un luogo di pubblico transito o in un luogo
privato di comune o altrui uso (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.11.2013 n. 46237 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Terre e rocce da scavo e decreto legge 69/2013.
La disciplina specifica in tema di terre e rocce da scavo
esclude la rilevanza penale delle condotte esclusivamente in
presenza di condizioni di fatto e di procedure che
assicurino la qualità minima e la integrale destinazione dei
materiali in conformità dei limiti fissati; conclusione,
questa, certamente corretta anche dopo l’entrata in vigore
del d.lgs. 02.12.2010, n. 205 e del relativo decreto
ministeriale.
Né, sul punto, risultano rilevanti le
successive modifiche normative che hanno ad oggetto le rocce
e terre da scavo: anche secondo gli artt. 41 e 41-bis del
d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito in legge 09.08.2013, n.
98, la legittimità del trattamento e del reimpiego di tali
materiali è subordinata a condizioni di fatto e a garanzie e
certificazioni (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.11.2013 n. 46227 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Gestione illecita ed omessa vigilanza del titolare
di impresa.
Il reato di illecita gestione di rifiuti è ascrivibile anche
al titolare dell'impresa sotto il profilo dell'omessa
vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in
essere la condotta vietata (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.11.2013 n. 45932 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Il reato di gestione non autorizzata non necessita
di continuità o stabilità della condotta.
Il reato di cui all'art. 256, comma 1, del d.lgs. n. 152 del
2006, riguardante, in via ordinaria e sull'intero territorio
nazionale, l'attività di gestione di rifiuti non
autorizzata, contempla segnatamente la condotta di chiunque
effettui, tra le altre, una "attività di trasporto":
ebbene, con riguardo a tale fattispecie, plasmata, nelle sue
componenti, in maniera, assolutamente uguale a quella
impiegata dalla norma "speciale" ex lege n. 210 del 2008, la
giurisprudenza non ha mai dubitato del fatto che per la
integrazione della stessa, avente natura di reato istantaneo
e solo eventualmente abituale, in quanto perfezionantesi nel
momento in cui si realizza la singola condotta tipica, sia
sufficiente un unico trasporto, da ciò discendendo,
evidentemente, la non necessità di requisiti di
continuatività e stabilità di sorta
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 11.11.2013 n. 45306 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni Ambientali. Autorizzazione paesaggistica e permesso di
costruire in sanatoria.
Se è vero che tra l'autorizzazione paesaggistica e quella
edilizia in sanatoria esiste una piena autonomia di guisa
che è ben possibile il rilascio di un permesso di costruire
in sanatoria anche in assenza di un nulla osta
paesaggistico, è altrettanto vero che un eventuale parere
favorevole da parte dell'Autorità amministrativa deputata
alla tutela del paesaggio non debba necessariamente influire
positivamente sulla procedura di rilascio del permesso di
costruire nel senso che trattandosi di tutela di interessi
diversi, una costruzione che sia compatibile con l'ambiente
paesaggistico può tuttavia confliggere con l'interesse
urbanistico-edilizio e viceversa.
Occorre, quindi, che da
parte dell'Autorità Amministrativa competente alla tutela
paesistica intervenga il rilascio della preventiva
autorizzazione paesaggistica (non essendo sufficiente che
sia lo stesso Comune a poter rilasciare una autorizzazione
del genere), senza che possa rilevare il rilascio di un
semplice parere, oltretutto sottoposto a prescrizioni nella
specie pacificamente non osservate
(Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 05.11.2013 n. 44647 -
tratto da www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La riconducibilità di un intervento alle ipotesi
di attività “libere”, come tali irrilevanti sotto il profilo
strettamente edilizio, non implica automaticamente che il
medesimo intervento sia irrilevante sotto il profilo
paesaggistico, per cui la valutazione, anche nell’ipotesi
della sanatoria, deve essere effettuata pregiudizialmente in
termini di compatibilità col vincolo.
... per l'annullamento
●
del provvedimento comunale 04.04.2013 n. 1920 di diniego
permesso di costruire in sanatoria, del provvedimento
04.04.2013 n. 1921 di ripristino dello stato dei luoghi e del
parere negativo reso nell'ambito del procedimento di
sanatoria da parte dell'Ufficio periferico BB.AA. di Verona
prot. 901 dell'11.01.2013;
nonché con i motivi aggiunti depositati il 13.09.2013;
●
per l'annullamento del provvedimento del Ministero BB.AA.
20.06.2013 con il quale è stata confermata l'inammissibilità
dell'istanza di sanatoria presentata ex art. 167 D. L.vo
42/2004 sul presupposto che l'intervento di cui trattasi
abbia determinato un aumento della superficie utile.
...
-
Premesso che parte ricorrente ha presentato istanza di
sanatoria per un intervento realizzato in ambito soggetto a
vincolo paesaggistico, onde regolarizzarlo sia sotto il
profilo edilizio sia sotto il profilo paesaggistico, in
applicazione della speciale deroga prevista dall’art. 167,
comma 4, del D.lgs. n. 42/2004;
-
che l’istanza è stata respinta sulla base del parere
sfavorevole espresso dalla Soprintendenza per i BB.AA. di
Verona, come da parere richiamato nel provvedimento
comunale, parimenti impugnato;
-
premesso che la riconducibilità di un intervento alle
ipotesi di attività “libere”, come tali irrilevanti sotto il
profilo strettamente edilizio, non implica automaticamente
che il medesimo intervento sia irrilevante sotto il profilo
paesaggistico, per cui la valutazione, anche nell’ipotesi
della sanatoria, deve essere effettuata pregiudizialmente in
termini di compatibilità col vincolo;
-
atteso che la richiesta di sanatoria è stata presentata, nel
caso di specie, ritenendo che l’intervento, effettuato in
assenza di titolo edilizio e di autorizzazione
paesaggistica, potesse essere ricondotto all’ipotesi
disciplinata dal quarto comma dell’art. 167 del D.lgs.
42/2004, che eccezionalmente, nei casi ivi indicati, ammette
che l’autorizzazione possa essere rilasciata a sanatoria,
laddove sussista la compatibilità col vincolo;
-
osservato che -diversamente da quanto affermato in ricorso
e considerato il dato di fatto, come documentato da parte
resistente– l’intervento de quo non appare riconducibile
alle ipotesi di cui all’art. 149 del D.lgs. 42/2004, in
particolare a quelle indicate alla lettera b), ossia ad
interventi inerenti l’attività agro-silvo-pastorale, in
quanto per caratteristiche e dimensioni trattasi di un
intervento che esorbita dalla indicazione normativa, che è
riferita ai soli movimenti di terra strettamente pertinenti
all’attività agricola e alle pratiche agro-silvo-pastorali;
-
che invero per essere esentati dall’autorizzazione deve
trattarsi di interventi che non comportano alterazioni
permanenti dello stato dei luoghi e non influiscono
sull’assetto idrogeologico del territorio;
-
che inoltre, come correttamente rilevato dalla difesa
resistente, lo stesso D.P.R. n. 139/2010, nell’assoggettare
interventi di tombinatura -di minori dimensioni (4 ml)
rispetto a quelle realizzate nel caso di specie (70 ml)-
alla procedura semplificata per il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, conferma che detta
tipologia di interventi necessita dell’autorizzazione
(eventualmente anche secondo la procedura semplificata),
laddove realizzati in ambiti tutelati (circostanza,
quest’ultima, mai messa in discussione da parte istante);
-
vista la successiva nota della Soprintendenza, oggetto dei
motivi aggiunti, con la quale è stata focalizzata
l’attenzione sulla sola non riconducibilità dell’ipotesi de
qua agli interventi suscettibili di sanatoria paesaggistica,
circostanza di per sé preclusiva di ogni ulteriore
accertamento e ponderazione circa la compatibilità
dell’intervento realizzato in ambito tutelato in assenza
della preventiva autorizzazione paesaggistica;
-
che quindi è risultata prevalente ed assorbente ogni
ulteriore valutazione l’inammissibilità della richiesta di
sanatoria per contrasto con le previsioni eccezionali di cui
all’art. 167 D.lgs. n. 42/2004;
-
che per effetto del mancato conseguimento
dell’autorizzazione paesaggistica risulta atto dovuto il
rigetto della sanatoria edilizia, con conseguente
ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi;
- per detti motivi il ricorso va respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 10.10.2013 n. 1153 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
La partecipazione dell’interessato al sopralluogo
disposto per accertare lo stato dei luoghi non esime
l’amministrazione dal comunicare i motivi che ostano
all’accoglimento dell’istanza: l’ispezione è attività
ricognitiva dello stato dei luoghi e consiste in attività
materiali di osservazione, di descrizione, di misurazione
dei luoghi mentre il preavviso ex art. 10-bis consiste nella
comunicazione dell’ipotesi decisionale cui l’organo
procedente è approdato in via provvisoria dopo aver sussunto
e vagliato i fatti materiale rilevati in sede istruttoria
nella previsione di legge.
Né, nel caso di specie, può opporsi che la decisione fosse
vincolata, poiché in realtà proprio la necessità di
accertare le reali dimensioni della tettoia imponeva di
ammettere al contraddittorio procedimentale il destinatario
degli effetti del provvedimento di diniego, al fine di
consentirgli di produrre documenti o memorie sul punto, come
poi accaduto, del resto, in sede giudiziale.
Carattere dirimente ed assorbente riveste il primo motivo di
censura con il quale il ricorrente ha contestato la
violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990,
stante la mancata comunicazione del preavviso di rigetto.
Il Comune intimato ne eccepisce la superfluità per avere il
ricorrente partecipato al sopralluogo preventivamente
disposto e, in ogni caso, per la natura sostanzialmente
vincolata del diniego ai sensi dell’art. 21-octies della
legge n. 241 del 1990.
In senso contrario deve osservarsi che la partecipazione
dell’interessato al sopralluogo disposto per accertare lo
stato dei luoghi non esime l’amministrazione dal comunicare
i motivi che ostano all’accoglimento dell’istanza:
l’ispezione è attività ricognitiva dello stato dei luoghi e
consiste in attività materiali di osservazione, di
descrizione, di misurazione dei luoghi mentre il preavviso
ex art. 10-bis consiste nella comunicazione dell’ipotesi
decisionale cui l’organo procedente è approdato in via
provvisoria dopo aver sussunto e vagliato i fatti materiale
rilevati in sede istruttoria nella previsione di legge.
Né, nel caso di specie, può opporsi che la decisione fosse
vincolata, poiché in realtà proprio la necessità di
accertare le reali dimensioni della tettoia imponeva di
ammettere al contraddittorio procedimentale il destinatario
degli effetti del provvedimento di diniego, al fine di
consentirgli di produrre documenti o memorie sul punto, come
poi accaduto, del resto, in sede giudiziale.
Il motivo di censura è, pertanto, fondato ed il diniego dev’essere
annullato (TAR Molise,
sentenza 20.03.2013 n. 225 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
giurisprudenza pressoché costante anche di questa sezione,
le piscine interrate non possono alterare i valori
paesaggistici, perché non suscettibili di verticalizzazione
con pregiudizio di visuali e visioni prospettiche.
... per l'annullamento del provvedimento del Comune di
Cellole n. 9771/2012 con cui si ordina la demolizione ed il
ripristino dello stato dei luoghi, nonché del verbale della
conferenza di servizi in data 05.06.2012 e del parere ivi
espresso dalla soprintendenza statale ai beni paesaggistici
di Caserta.
...
Premesso che:
a) la ricorrente è comproprietaria di un albergo denominato
“Hotel La Baia”, sito nella località balneare di Baia Domitia, nel Comune di Cellole. È altresì titolare di due
concessioni demaniali relative all’arenile antistante alla
suddetta struttura alberghiera. Su una di queste due aree
chiedeva l’autorizzazione per la realizzazione di una
piscina prefabbricata di facile rimozione. Si riuniva la
conferenza di servizi all’interno della quale la
Soprintendenza statale preposta alla tutela del paesaggio
esprimeva parere negativo “considerato che l’intervento
proposto è ubicato in zona di rilevante interesse
paesaggistico per l’assenza di modifiche antropiche
sostanziali dei caratteri naturali caratterizzati
dall’ecosistema, composta dalla macchia mediterranea che
preserva l’equilibrio vegetazionale tra le varie essenze … e
considerato che, pertanto, l’attuazione della trasformazione
proposta comporterebbe la cancellazione dei tratti
distintivi del paesaggio protetto”. A seguito di detto
parere la conferenza di servizi si esprimeva negativamente.
Di conseguenza il Comune di Cellole comunicava il rigetto
dell’istanza;
b) i provvedimenti sopra indicati venivano impugnati, prima
con ricorso originario e poi con motivi aggiunti, per le
ragioni di seguito sintetizzate: 1) omesso preavviso di
rigetto; 2) difetto di motivazione, anche in considerazione
del favor normativo per la realizzazione di piscine
all’interno di strutture alberghiere previsto dalla legge
regionale n. 10 del 2012; 3) eccesso di potere sotto il
profilo della erroneità dei presupposti, dato che non vi
sarebbe alterazione alcuna della macchia mediterranea; 4)
violazione dell’art. 146 del decreto legislativo n. 42 del
2004, atteso che le strutture di cui si discute (piscine)
non comporterebbero alterazione alcuna dei valori
paesaggistici.
c) si costituivano in giudizio le amministrazioni statali
intimate per chiedere il rigetto del gravame;
d) alla camera di consiglio del 24.01.2013, avvisate le
parti circa la possibilità di adottare sentenza in forma
semplificata, la causa veniva infine trattenuta in
decisione.
Considerato che, in disparte ogni considerazioni circa la
fondatezza delle censure indicati ai numeri 1) e 2), si
appalesa senz’altro fondato il motivo sub 4) atteso che, per
giurisprudenza pressoché costante anche di questa sezione,
le piscine interrate non possono alterare i valori
paesaggistici, perché non suscettibili di verticalizzazione
con pregiudizio di visuali e visioni prospettiche (cfr.
TAR Campania Napoli, Sez. VII, 20.03.2009, n. 1552;
Sez. VII, 29.06.2010, n. 16423; sez. VI, 06.11.2008;
n. 19288).
Considerato altresì, in ordine alla compromissione delle
essenze arboree tipiche della macchia mediterranea (motivo
sub 3), che secondo quanto sufficientemente dimostrato in
giudizio dalla parte ricorrente (anche mediante produzione
di materiale fotografico nonché di apposita relazione
tecnica) l’eventuale realizzazione della struttura in
questione non comporterebbe la compromissione dei suddetti
valori ambientali, senza che sul punto la difesa
dell’amministrazione statale abbia opposto specifiche
contestazioni, con ogni conseguenza in merito
all’applicazione dell’art. 64, comma 2, c.p.a.
Ritenuto in conclusione che il ricorso, assorbita ogni altra
censura, è fondato e deve essere accolto, con ogni
conseguenza in ordine all’annullamento degli atti in
epigrafe indicati e in relazione al regime delle spese, le
quali vanno poste a carico della sola amministrazione dei
beni culturali, data l’efficienza causale della propria
posizione in relazione al resto dei provvedimenti gravati
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 25.02.2013 n. 1099 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Eliminato
il duplice riferimento terminologico, il legislatore del
2001 ha optato per l’onnicomprensivo termine di “certificato
di agibilità” attestante l’idoneità abitativa di qualsiasi
edificio.
Secondo la nuova formulazione, l’ambito di operatività del
certificato di agibilità risulta più esteso rispetto al
passato, essendo richiesto non solo per i nuovi organismi
edilizi, ma anche per gli interventi eseguiti sugli stessi
che possiedano l’attitudine a modificare le condizioni
igieniche e sanitarie preesistenti.
Ai fini dell’accertamento dell’agibilità di un edificio ciò
che rileva non è tanto la qualificazione giuridica
dell’intervento (ristrutturazione, restauro o risanamento
conservativo, oppure manutenzione straordinaria o
realizzazione di sole opere interne), quanto piuttosto la
qualità e l’entità dell’intervento, nonché i suoi riflessi
sulla condizione di salubrità della costruzione o di sue
parti.
Il certificato di agibilità è dunque necessario per tutti
gli organismi edilizi destinati a un utilizzo che comporti
la permanenza dell'uomo che può risolversi sia nel soggiorno
prolungato, com'è per le abitazioni, sia nella semplice
frequentazione, com’è per l'immobile destinato a un'attività
produttiva, che deve comunque essere di durata tale da
richiedere la presenza di condizioni minime di igiene e
salubrità.
In base a quanto previsto dagli artt. 24 e 25 del D.P.R. n.
380 del 2001, il certificato di abitabilità delle
costruzioni costituisce un'attestazione da parte dei
competenti uffici tecnici comunali in ordine alla
sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità
e risparmio energetico degli edifici e degli impianti
tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa
vigente.
Ne deriva la legittimità, in via generale, dello svolgimento
da parte degli organi comunali competenti di ogni indagine
utile al fine di effettuare una consapevole valutazione
sulla sussistenza delle surriferite condizioni, soprattutto
quando in un edificio siano state realizzate modifiche
strutturali, che implicano anche un cambiamento dell'uso
degli spazi.
---------------
Tenuto conto che la disciplina suesposta (DPR 380/2001) )
presenta una ipotesi di silenzio-assenso nell’ipotesi di
istanza di agibilità presentata agli Uffici competenti e
rispetto alla quale gli stessi non hanno adottato alcun
provvedimento espresso, occorre pur tuttavia verificare se
l’ordinamento ha previsto casi in cui vi siano criticità
riferibili alla acquisibilità implicita –per effetto del
silenzio– della dichiarazione di agibilità.
Sul punto vale la pena rammentare che:
a) in caso di istanza di condono edilizio, il rilascio del
c.d. certificato di agibilità può avvenire in deroga
soltanto alle norme di tipo secondario e/o regolamentare, ma
non anche in deroga alle disposizioni normative di fonte
primaria e/o di legge, soprattutto se attinenti alla materia
dell'igiene pubblica e dell'inquinamento del suolo, in
quanto diversamente, in caso di adesione ad una possibile
interpretazione di tipo estensivo delle norme in materia di
condono edilizio, l'art. 35, comma 14, della legge
28.02.1985 n. 47 (come le altre norme analoghe ad essa
succedute nel tempo in materia di condoni edilizi) sarebbe
palesemente incostituzionale per contrasto con il
fondamentale principio della tutela della salute ex art. 32
Cost., inteso non solo come diritto alla salute del singolo
individuo, ma anche come diritto dell'intera collettività
alla salubrità dell'ambiente;
b) il suesposto orientamento si pone perfettamente in linea
con quello espresso dalla Corte Costituzionale la quale ha
avuto modo di precisare, per un verso, che il certificato di
abitabilità non deve necessariamente autorizzare in maniera
uniforme tutto l'edificio o parte di esso, dovendo essere
distinti gli usi abitativi o di semplice agibilità, quando
alcuni locali siano utilizzabili solo come accessori o come
locali non destinabili a usi abitativi stabili o come
depositi o con altri usi non abitativi, quando non siano
strutturalmente idonei sotto il profilo igienico-sanitario
per una abitabilità piena, ancorché oggetto di concessione
edilizia in sanatoria nonché, per altro verso, la
circostanza che le norme sul condono edilizio prevedano, a
seguito della concessione in sanatoria, il rilascio del
certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai
requisiti fissati da norme regolamentari, purché non
sussista contrasto con le disposizioni vigenti in materia di
sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli
infortuni, "non riguarda i requisiti richiesti da
disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una
automaticità assoluta nel rilascio del certificato di
abitabilità (...) a seguito di concessione in sanatoria,
dovendo invece il Comune verificare che al momento del
rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non
solo le disposizioni di cui all'art. 221 T.U. delle leggi
sanitarie (rectius, di cui all'art. 4 del D.P.R. n. 425 del
1994), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di
legge in materia di abitabilità e servizi essenziali
relativi e rispettiva normativa tecnica (...) Permangono,
infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla
verifica delle condizioni igienico-sanitarie per
l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai
requisiti fissati da norme regolamentari";
c) se è dunque vero che, in base a quanto previsto dagli
art. 24 e 25, del n. 380 del 2001, il certificato di
agibilità delle costruzioni costituisce un'attestazione da
parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla
sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità
e risparmio energetico degli edifici e degli impianti
tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa
vigente, appare altrettanto legittimo che una valutazione
sulla sussistenza di dette condizioni, sia richiesta a
fronte di modifiche strutturali che implicano anche un
cambiamento dell'uso degli spazi e che dunque il Comune non
perda, neppure per l’ipotesi di rilascio implicito del
certificato ovvero per effetto di condono, il potere-dovere
di verificare la sussistenza effettiva di dette condizioni
di salubrità e di intervenire laddove siano riscontrate
carenze.
Va sottolineato preliminarmente che il provvedimento qui
impugnato si sostanzia in un ordine di sgombero di taluni
appartamenti del fabbricato sito in Roma, Via Gradoli n. ...
e tutti collocati ai piani scantinati S1 e S2 del palazzo,
perché, all’esito di numerosi sopralluoghi, se ne è
manifestata la inabitabilità sia per carenza del requisito
relativo alle superfici minime che di quelli
igienico-sanitari, concretandosi quindi un pericolo per la
salute pubblica il permanente loro utilizzo a fini
abitativi.
Al di là dei profili in fatto che caratterizzano la
presente controversia, sotto il profilo giuridico va
evidenziato che:
A) l’art. 4 del D.P.R. 22.04.1994 n. 425 ebbe a
prevedere che per utilizzare un edificio fosse necessario
ottenere il certificato di agibilità il cui rilascio da
parte del sindaco era condizionato alla presentazione di una
serie di documenti idonei ad attestare la sussistenza di
determinati standards minimi di salubrità. Nel contempo
l’art. 5 di detto testo normativo abrogava l’art. 221, primo
comma, del regio decreto 27.07.1934 n. 1265
relativamente alla disciplina del procedimento per il
rilascio del certificato.
L’intervento normativo in esame ha
modificato in termini sostanziali l’istituto dell’agibilità,
mutando la denominazione dell’atto da “autorizzazione”
amministrativa a “certificato”, semplificando il
procedimento di rilascio, e, soprattutto, estendendo
l’ambito di valutazione ad interessi diversi e ulteriori
rispetto a quelli connaturati alla tutela di carattere
meramente sanitario; in altri termini, al concetto di
agibilità si è andato sostituendo quello di “vivibilità”
della costruzione, che inerisce ad una condizione
dell’abitare complessivamente rispettosa della dignità
dell’individuo;
B) successivamente gli articoli da 24 a 26 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 hanno fissato la disciplina attualmente
vigente. Anzitutto –per come è ricordato nella relazione
illustrativa che ha accompagnato il predetto decreto
presidenziale– il legislatore ha provveduto a ricondurre ad
unità i termini di agibilità e abitabilità spesso utilizzati
indifferentemente nella normativa precedente. Inizialmente
nel linguaggio normativo il termine “licenza di abitabilità”
era stato utilizzato in relazione agli immobili ad uso
abitativo, mentre il termine “licenza di agibilità”
relativamente a quelli non residenziali, quali opifici,
uffici, esercizi pubblici e commerciali. In un secondo
tempo, il legislatore aveva operato una diversa
classificazione, riconducendo all’agibilità la disciplina
generale della stabilità e della sicurezza dell’immobile e
all’abitabilità la disciplina speciale dei requisiti
dell’immobile rispetto a specifiche destinazioni d’uso.
In
effetti, alcune disposizioni normative e, soprattutto, una
certa prassi giurisprudenziale, avevano indotto a pensare
che all’interno del nostro ordinamento esistessero due
diversi tipi di certificazioni. In realtà, le due
espressioni, se pur diversamente utilizzate, erano di fatto
omogenee e non richiedevano procedimenti amministrativi
diversi. Dimostrativo ne è il fatto che il corredo
documentale dell’istanza, come pure le indagini tecniche
preliminari al rilascio del certificato, non cambiavano a
seconda del tipo di unità immobiliare da certificare, fatta
salva, ovviamente, l’esigenza di valutare la presenza di
requisiti igienico-sanitari diversi in ragione dell’uso
previsto.
Eliminato il duplice riferimento terminologico, il
legislatore del 2001 ha optato per l’onnicomprensivo termine
di “certificato di agibilità” attestante l’idoneità
abitativa di qualsiasi edificio. Secondo la nuova
formulazione, l’ambito di operatività del certificato di
agibilità risulta più esteso rispetto al passato, essendo
richiesto non solo per i nuovi organismi edilizi, ma anche
per gli interventi eseguiti sugli stessi che possiedano
l’attitudine a modificare le condizioni igieniche e
sanitarie preesistenti. Ai fini dell’accertamento
dell’agibilità di un edificio ciò che rileva non è tanto la
qualificazione giuridica dell’intervento (ristrutturazione,
restauro o risanamento conservativo, oppure manutenzione
straordinaria o realizzazione di sole opere interne), quanto
piuttosto la qualità e l’entità dell’intervento, nonché i
suoi riflessi sulla condizione di salubrità della
costruzione o di sue parti.
Il certificato di agibilità è
dunque necessario per tutti gli organismi edilizi destinati
a un utilizzo che comporti la permanenza dell'uomo che può
risolversi sia nel soggiorno prolungato, com'è per le
abitazioni, sia nella semplice frequentazione, com’è per
l'immobile destinato a un'attività produttiva, che deve
comunque essere di durata tale da richiedere la presenza di
condizioni minime di igiene e salubrità;
C) in base a quanto previsto dagli artt. 24 e 25 del D.P.R.
n. 380 del 2001, il certificato di abitabilità delle
costruzioni costituisce un'attestazione da parte dei
competenti uffici tecnici comunali in ordine alla
sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità
e risparmio energetico degli edifici e degli impianti
tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa
vigente.
Ne deriva la legittimità, in via generale, dello
svolgimento da parte degli organi comunali competenti di
ogni indagine utile al fine di effettuare una consapevole
valutazione sulla sussistenza delle surriferite condizioni,
soprattutto quando in un edificio (per come è avvenuto nel
caso in esame) siano state realizzate modifiche strutturali
(cfr., in argomento, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 16.03.2011 n. 740), che implicano anche un cambiamento
dell'uso degli spazi (si veda sul punto la relazione
prodotta in data 26.10.2010 con allegazione di
documenti dall’amministrazione del Condominio dello stabile
in questione);
D) l'art. 25, commi 3-5, del D.P.R. n. 380 del 2001 prevede
un procedimento di rilascio del certificato di agibilità,
articolato sui seguenti principi fondamentali:
1) il
procedimento deve essere concluso nel termine di 30 giorni
dalla ricezione della domanda di rilascio del certificato di
agibilità o di 60 giorni, nel caso in cui il ricorrente si
sia avvalso della possibilità di sostituire con
autocertificazione il parere dell'A.S.L. previsto dall'art.
5, 3° comma, lett. a), del D.P.R. n. 380 del 2001;
2) il
decorso del termine per la definizione del procedimento,
importa la formazione del silenzio-assenso sull'istanza di
rilascio del certificato di agibilità;
3) il termine del
procedimento può essere interrotto una sola volta dal
responsabile del procedimento, entro quindici giorni dalla
domanda, esclusivamente per la richiesta di documentazione
integrativa, che non sia già nella disponibilità
dell'amministrazione o che non possa essere acquisita
autonomamente; in tal caso, il termine per la conclusione
del procedimento ricomincia a decorrere dalla data di
ricezione della documentazione integrativa;
4) il rilascio
del certificato di agibilità non impedisce l'esercizio del
potere di dichiarazione di inagibilità di un edificio o di
parte di esso ai sensi dell'articolo 222 del regio decreto
27.07.1934, n. 1265 (art. 26 D.P.R. n. 380 del 2001).
Fermo quanto sopra e tenuto conto che la disciplina
suesposta presenta una ipotesi di silenzio-assenso
nell’ipotesi di istanza di agibilità presentata agli Uffici
competenti e rispetto alla quale gli stessi non hanno
adottato alcun provvedimento espresso, occorre pur tuttavia
verificare se l’ordinamento ha previsto casi in cui vi siano
criticità riferibili alla acquisibilità implicita –per
effetto del silenzio– della dichiarazione di agibilità.
Sul punto vale la pena rammentare che:
a) in caso di istanza di condono edilizio, il rilascio del
c.d. certificato di agibilità può avvenire in deroga
soltanto alle norme di tipo secondario e/o regolamentare, ma
non anche in deroga alle disposizioni normative di fonte
primaria e/o di legge, soprattutto se attinenti alla materia
dell'igiene pubblica e dell'inquinamento del suolo, in
quanto diversamente, in caso di adesione ad una possibile
interpretazione di tipo estensivo delle norme in materia di
condono edilizio, l'art. 35, comma 14, della legge 28.02.1985 n. 47 (come le altre norme analoghe ad essa
succedute nel tempo in materia di condoni edilizi) sarebbe
palesemente incostituzionale per contrasto con il
fondamentale principio della tutela della salute ex art. 32
Cost., inteso non solo come diritto alla salute del singolo
individuo, ma anche come diritto dell'intera collettività
alla salubrità dell'ambiente (sul punto cfr. Cons. Stato,
Sez. V, 15.04.2004 n. 2140 e 13.04.1999 n. 414
nonché TAR Sardegna 29.10.2002 n. 1422);
b) il suesposto orientamento si pone perfettamente in linea
con quello espresso dalla Corte Costituzionale la quale, con
sentenza n. 256 del 18.06.1996, ha avuto modo di
precisare, per un verso, che il certificato di abitabilità
non deve necessariamente autorizzare in maniera uniforme
tutto l'edificio o parte di esso, dovendo essere distinti
gli usi abitativi o di semplice agibilità, quando alcuni
locali siano utilizzabili solo come accessori o come locali
non destinabili a usi abitativi stabili o come depositi o
con altri usi non abitativi, quando non siano
strutturalmente idonei sotto il profilo igienico-sanitario
per una abitabilità piena, ancorché oggetto di concessione
edilizia in sanatoria nonché, per altro verso, la
circostanza che le norme sul condono edilizio prevedano, a
seguito della concessione in sanatoria, il rilascio del
certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai
requisiti fissati da norme regolamentari, purché non
sussista contrasto con le disposizioni vigenti in materia di
sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli
infortuni, "non riguarda i requisiti richiesti da
disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una
automaticità assoluta nel rilascio del certificato di
abitabilità (...) a seguito di concessione in sanatoria,
dovendo invece il Comune verificare che al momento del
rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non
solo le disposizioni di cui all'art. 221 T.U. delle leggi
sanitarie (rectius, di cui all'art. 4 del D.P.R. n. 425 del
1994), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di
legge in materia di abitabilità e servizi essenziali
relativi e rispettiva normativa tecnica (...) Permangono,
infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla
verifica delle condizioni igienico-sanitarie per
l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai
requisiti fissati da norme regolamentari" (così,
testualmente, la sentenza della Corte costituzionale n. 256
del 1996 citata);
c) se è dunque vero che, in base a quanto previsto dagli
art. 24 e 25, del n. 380 del 2001, il certificato di
agibilità delle costruzioni costituisce un'attestazione da
parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla
sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità
e risparmio energetico degli edifici e degli impianti
tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa
vigente, appare altrettanto legittimo che una valutazione
sulla sussistenza di dette condizioni, sia richiesta a
fronte di modifiche strutturali che implicano anche un
cambiamento dell'uso degli spazi e che dunque il Comune non
perda, neppure per l’ipotesi di rilascio implicito del
certificato ovvero per effetto di condono, il potere-dovere
di verificare la sussistenza effettiva di dette condizioni
di salubrità e di intervenire laddove siano riscontrate
carenze (cfr. sul punto TAR Veneto, Sez. III, 02.01.2009 n. 6 nonché TAR Basilicata, Sez. I, 29.11.2008
n. 916).
Nel caso di specie il Comune, con l’ordinanza qui
principalmente impugnata, ha evidenziato, all’esito di
alcuni sopralluoghi, importanti deficienze igienico-sanitarie negli appartamenti per i quali è qui controversia,
confermate dalle verificazioni disposte da questo Tribunale
e gli esiti delle consulenza di parte affidate da alcuni
degli odierni ricorrenti a tecnici di fiducia non si
manifestano idonei a superare le conclusioni confermative
alle quali sono pervenute le indagini di verificazione
disposte con profili di evidente sintonia rispetto alle
valutazioni operate dagli uffici comunali nel corso
dell’istruttoria che ha condotto all’adozione della qui
avversata ordinanza sindacale di sgombero.
I verificatori hanno infatti significativamente affermato
che tutti i locali esaminati presentano superfici finestrate
inidonee ed aree calpestabili inferiori ai 28 metri
quadrati, valore minimo per un monolocale. Alcuni immobili
presentano evidenti inconvenienti igienico-sanitari che li
rendono inidonei all’uso abitativo.
In altri termini, seppure con alcune peculiarità e
caratteristiche diverse per taluni dei monolocali, l’esito
delle disposte verificazioni costituisce conferma della
inadeguatezza, sotto il profilo igienico-sanitario, dei
locali in questione ad essere abitati, rafforzando i
risultati dell’istruttoria svolta in vista della adozione
dell’ordinanza sindacale di sgombero.
L’indagine, va precisato, è stata svolta accuratamente
dall’Azienda USL RM/C, che in contraddittorio con le parti
coinvolte ha concluso i propri rilievi affermando con
nettezza e senza escludere alcun immobile da siffatto esito
che “si esprime parere igienico-sanitario contrario all’uso
di tali locali come abitazioni” (così, testualmente, nella
relazione depositata l’08.10.2009).
Ciò posto, in via di fatto, le censure dedotte dal
ricorrente con l’atto introduttivo e con quello recante
motivi aggiunti non si presentano idonee a scalfire la
dimostrazione, acquisita nel corso del processo, del
corretto percorso seguito dagli uffici comunali per giungere
all’adozione dell’ordinanza di sgombero, avvalorato dagli
esiti delle disposte verificazioni; ne deriva la reiezione
del ricorso, tenuto conto che per la natura di provvedimento
d’urgenza propria dell’atto impugnato non vi era ragione per
comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7
della legge 07.08.1990 n. 241 e che la contestata nullità
della notifica appare superata dalla intervenuta
impugnazione tempestiva dell’atto pregiudizievole, che ha
consentito al proprietario di poter tutelare tempestivamente
ed adeguatamente le proprie ragioni dinanzi all’Autorità
giudiziaria
(TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 10.01.2012 n. 181 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sanzione di cui all’art. 167 del codice dei beni culturali,
avente carattere alternativo rispetto alle misure di tipo
ripristinatorio, rientra nella potestà amministrativa
demandata all’Amministrazione a tutela indiretta di
interessi pubblici, con la conseguenza che la controversia
rivolta a contestare la validità e l’efficacia del
provvedimento applicativo di detta sanzione rientra nella
cognizione del giudice amministrativo, in quanto si
ricollega a posizioni di interesse legittimo.
Deve essere preliminarmente disattesa l’eccezione di difetto
di giurisdizione dell’adito giudice amministrativo
sull’impugnativa delle ordinanze di ingiunzione di pagamento
dell’indennità pecuniaria di cui all’art. 167 del d.lgs.
22.01.2004, n. 42, svolta dall’Amministrazione regionale nel
presupposto che l’indennità in questione ha natura
sanzionatoria (alternativa alla demolizione delle opere
abusive), con conseguente cognizione del giudice ordinario
ai sensi degli artt. 22 e seguenti della legge n. 689 del
1981.
Ed invero, anche a prescindere dalla, invero dubbia,
riconducibilità della sanzione impugnata alla materia
dell’urbanistica (pur intesa in senso lato, concernente
tutti gli aspetti dell’uso del territorio: così Cass., Sez.
Un., 12.03.2008, n. 6525), con conseguente giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo ai sensi, in
precedenza, dell’art. 34 del d.lgs. 31.03.1998, n. 80, ed,
attualmente, dell’art. 133, comma 1, lett. f, del cod. proc.
amm. (di cui al d.lgs. 02.07.2010, n. 104), la giurisdizione
amministrativa va postulata nella considerazione che la
sanzione pecuniaria è espressione del potere autoritativo
dell’Amministrazione.
Più precisamente, la sanzione di cui all’art. 167 del codice
dei beni culturali, avente carattere alternativo rispetto
alle misure di tipo ripristinatorio, rientra nella potestà
amministrativa demandata all’Amministrazione a tutela
indiretta di interessi pubblici, con la conseguenza che la
controversia rivolta a contestare la validità e l’efficacia
del provvedimento applicativo di detta sanzione rientra
nella cognizione del giudice amministrativo, in quanto si
ricollega a posizioni di interesse legittimo (così Cons.
Stato, Sez. IV, 11.04.2007, n. 1585)
(TAR Umbria,
sentenza 31.03.2011 n. 97 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di paesaggio è configurabile la potestà legislativa
esclusiva dello Stato, desumibile dall’art. 117, comma 2,
lett. s), della Costituzione, in quanto il paesaggio, pur
non espressamente nominato dalla norma, deve intendersi
ricompreso nella locuzione “beni culturali”, in quanto
componente del patrimonio culturale, secondo la chiara
formulazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Tuttavia, la tutela del paesaggio è inevitabilmente
collegata con i profili attinenti al “governo del
territorio” ed alla necessità di una sua “valorizzazione”,
materie, queste, entrambe rientranti nella legislazione
concorrente, secondo quanto sancito dall’art. 117, comma 3,
della Costituzione; il che implica la necessità del
coinvolgimento di più livelli di governo.
Anche per questi motivi la giurisprudenza costituzionale ha,
in più occasioni, evidenziato che il paesaggio costituisce,
più che una materia, un valore costituzionale “trasversale”,
con implicazione in più materie, ed intrecciato
inestricabilmente con altri interessi e competenze regionali
concorrenti.
La difficoltà di enucleare la “tutela del paesaggio” come
una sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e
delimitata ha, da sempre, posto in luce la necessità
dell’osservanza del principio di leale cooperazione tra
Stato e Regione in tale ambito.
A conferma di quanto osservato, va sottolineato come lo
stesso art. 118 della Costituzione, al terzo comma,
stabilisce che la legge statale disciplina forme di intesa e
coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali,
esprimendo un chiaro favor costituzionale per la
collaborazione tra Stato e Regioni nell’amministrazione dei
beni culturali e del paesaggio.
Il codice dei beni culturali ha dato attuazione all’art.
118, comma 3, della Costituzione, configurando varie forme
di collaborazione in senso lato; più precisamente, può dirsi
che il codice ha ampliato, sotto più profili, la potestà
legislativa ed amministrativa delle Regioni a statuto
ordinario.
Il riferimento è anzitutto all’art. 4 del d.lgs. n. 42 del
2004, che, nell’attribuire allo Stato (e, per esso, al
Mi.B.A.C.) le funzioni in materia di tutela del patrimonio
culturale, aggiunge che lo stesso le esercita direttamente o
ne può conferire l’esercizio alle Regioni tramite forme di
intesa e coordinamento, ed al successivo art. 5, che, al
primo comma, sancisce la regola della cooperazione delle
regioni e degli altri enti pubblici territoriali in materia
di tutela del patrimonio culturale, mentre al sesto comma,
ancora più esplicitamente, afferma che «le funzioni
amministrative di tutela dei beni paesaggistici sono
esercitate dallo Stato e dalle regioni secondo le
disposizioni di cui alla Parte terza del presente codice, in
modo che sia sempre assicurato un livello di governo
unitario ed adeguato alle diverse finalità perseguite».
Passando poi alla Parte terza del codice, che concerne
specificamente i beni paesaggistici, la collaborazione tra
Stato e Regioni, oltre che negli artt. 131 e 133, per quanto
attiene allo specifico ambito oggettivo della presente
controversia, è apertis verbis enunciata dall’art. 146,
comma 6, in tema di autorizzazione paesaggistica, il quale
dispone che «la regione esercita la funzione autorizzatoria
in materia di paesaggio avvalendosi di propri uffici dotati
di adeguate competenze tecnico scientifiche e idonee risorse
strumentali. Può tuttavia delegarne l’esercizio, per i
rispettivi territori, a province, a forme associative e di
cooperazione fra enti locali come definite dalle vigenti
disposizioni sull’ordinamento degli enti locali, ovvero a
comuni, purché gli enti destinatari della delega dispongano
di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di
competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la
differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed
esercizio di funzioni amministrative in materia
urbanistico-edilizia».
L’art. 146, comma 6, attribuisce dunque alla Regione la
funzione autorizzatoria, consentendo alla stessa anche di
delegarne l’esercizio agli enti locali, ed in specie ai
Comuni, pur garantendo una forte condivisione delle scelte
da parte dell’Amministrazione statale, cui compete, in sede
procedimentale, mediante il competente Soprintendente,
esprimere un parere obbligatorio, ad oggi anche vincolante,
espressivo proprio del potere di cogestione del vincolo, ed
esteso anche al merito.
La tematica
implicata dal presente ricorso, pur nella sua complessità,
può essere, ad avviso del Collegio, ricostruita nei termini
che seguono.
In materia di paesaggio è configurabile effettivamente la
potestà legislativa esclusiva dello Stato, desumibile
dall’art. 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, in
quanto il paesaggio, pur non espressamente nominato dalla
norma, deve intendersi ricompreso nella locuzione “beni
culturali”, in quanto componente del patrimonio
culturale, secondo la chiara formulazione dell’art. 2 del
d.lgs. n. 42 del 2004.
Da ciò non possono però trarsi le conseguenze giuridiche
prospettate da parte ricorrente almeno per un doppio ordine
di considerazioni.
La prima consiste nel fatto che la tutela del paesaggio è
inevitabilmente collegata con i profili attinenti al “governo
del territorio” ed alla necessità di una sua “valorizzazione”,
materie, queste, entrambe rientranti nella legislazione
concorrente, secondo quanto sancito dall’art. 117, comma 3,
della Costituzione; il che implica la necessità del
coinvolgimento di più livelli di governo.
Anche per questi motivi la giurisprudenza costituzionale ha,
in più occasioni, evidenziato che il paesaggio costituisce,
più che una materia, un valore costituzionale “trasversale”,
con implicazione in più materie, ed intrecciato
inestricabilmente con altri interessi e competenze regionali
concorrenti (in termini Corte cost., 26.07.2002, n. 407;
22.07.2004, n. 259).
La difficoltà di enucleare la “tutela del paesaggio”
come una sfera di competenza statale rigorosamente
circoscritta e delimitata ha, da sempre, posto in luce la
necessità dell’osservanza del principio di leale
cooperazione tra Stato e Regione in tale ambito (Corte cost,
27.06.1986, n. 151; 18.10.1996, n. 341; 08.05.1998, n. 157;
25.10.2000, n. 437).
A conferma di quanto osservato, e passando così al secondo
ordine di considerazioni, va sottolineato come lo stesso
art. 118 della Costituzione, al terzo comma, stabilisce che
la legge statale disciplina forme di intesa e coordinamento
nella materia della tutela dei beni culturali, esprimendo un
chiaro favor costituzionale per la collaborazione tra Stato
e Regioni nell’amministrazione dei beni culturali e del
paesaggio.
Il codice dei beni culturali ha dato attuazione all’art.
118, comma 3, della Costituzione, configurando varie forme
di collaborazione in senso lato; più precisamente, può dirsi
che il codice ha ampliato, sotto più profili, la potestà
legislativa ed amministrativa delle Regioni a statuto
ordinario.
Il riferimento è anzitutto all’art. 4 del d.lgs. n. 42 del
2004, che, nell’attribuire allo Stato (e, per esso, al
Mi.B.A.C.) le funzioni in materia di tutela del patrimonio
culturale, aggiunge che lo stesso le esercita direttamente o
ne può conferire l’esercizio alle Regioni tramite forme di
intesa e coordinamento, ed al successivo art. 5, che, al
primo comma, sancisce la regola della cooperazione delle
regioni e degli altri enti pubblici territoriali in materia
di tutela del patrimonio culturale, mentre al sesto comma,
ancora più esplicitamente, afferma che «le funzioni
amministrative di tutela dei beni paesaggistici sono
esercitate dallo Stato e dalle regioni secondo le
disposizioni di cui alla Parte terza del presente codice, in
modo che sia sempre assicurato un livello di governo
unitario ed adeguato alle diverse finalità perseguite».
Passando poi alla Parte terza del codice, che concerne
specificamente i beni paesaggistici, la collaborazione tra
Stato e Regioni, oltre che negli artt. 131 e 133, per quanto
attiene allo specifico ambito oggettivo della presente
controversia, è apertis verbis enunciata dall’art.
146, comma 6, in tema di autorizzazione paesaggistica, il
quale dispone che «la regione esercita la funzione
autorizzatoria in materia di paesaggio avvalendosi di propri
uffici dotati di adeguate competenze tecnico scientifiche e
idonee risorse strumentali. Può tuttavia delegarne
l’esercizio, per i rispettivi territori, a province, a forme
associative e di cooperazione fra enti locali come definite
dalle vigenti disposizioni sull’ordinamento degli enti
locali, ovvero a comuni, purché gli enti destinatari della
delega dispongano di strutture in grado di assicurare un
adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché
di garantire la differenziazione tra attività di tutela
paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in
materia urbanistico-edilizia».
L’art. 146, comma 6, attribuisce dunque alla Regione la
funzione autorizzatoria, consentendo alla stessa anche di
delegarne l’esercizio agli enti locali, ed in specie ai
Comuni, pur garantendo una forte condivisione delle scelte
da parte dell’Amministrazione statale, cui compete, in sede
procedimentale, mediante il competente Soprintendente,
esprimere un parere obbligatorio, ad oggi anche vincolante,
espressivo proprio del potere di cogestione del vincolo, ed
esteso anche al merito.
Anche nella disciplina transitoria, di cui all’art. 159 del
codice, era configurabile il potere di cogestione, in quanto
l’autorizzazione rilasciata dalla Regione o
dall’Amministrazione subdelegata andava subito comunicata
alla Soprintendenza, che poteva esercitare, entro sessanta
giorni, il potere di annullamento per vizi di (sola)
legittimità.
Ne discende un contesto ordinamentale in cui la legge
ordinaria (quale è il codice dei beni culturali), in
continuità con il passato (quanto meno a fare tempo
dall’art. 82 del d.P.R. n. 616 del 1977) ha attribuito alle
Regioni la funzione autorizzatoria in materia di uso del
bene paesaggistico (che è “bene ad uso controllato”),
con facoltà di delega anche ai Comuni, enucleando un sistema
che, alla luce di quanto si è cercato prima di evidenziare,
non risulta in contrasto con le norme costituzionali.
Tale sistema è stato recepito, in Umbria, da ultimo, senza
difformità dal paradigma della legge statale, dalla l.r. n.
11 del 2005, di cui in questa sede si censura, in
particolare, l’art. 37, che conferisce le funzioni ai
Comuni.
La sostanziale “tenuta” del sistema legittima, per
quanto ora rileva, il Comune di Assisi ad adottare le
sanzioni pecuniarie previste dall’art. 167 del d.lgs. n. 42
del 2004, inflitte con i provvedimenti oggetto del presente
gravame.
Occorre aggiungere che il ricorrente contesta in via di
principio, e cioè in astratto, la delega all’Amministrazione
comunale, senza dedurre profili di inadeguatezza in concreto
in tale affidamento delle funzioni di gestione dei vincoli
paesaggistici, aspetto che, ove effettivamente
configurabile, avrebbe imposto una diversa attenzione, alla
luce dei principi (sanciti dall’art. 118 della Costituzione)
che informano l’esercizio delle funzioni amministrative, e
cioè la sussidiarietà (nella declinazione verticale), la
differenziazione e l’adeguatezza
(TAR Umbria,
sentenza 31.03.2011 n. 97 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
domanda di risarcimento del danno non sostenuta dalle
allegazioni necessarie all'accertamento della responsabilità
dell'Amministrazione va per ciò stesso disattesa. Grava,
infatti, sul danneggiato l'onere di provare, ai sensi
dell'art. 2697 c.c., tutti gli elementi costitutivi della
domanda di risarcimento del danno per fatto illecito, danno,
nesso causale e colpa.
---------------
In sede di giudizio avente ad oggetto la richiesta di
condanna dell'Amministrazione al risarcimento dei danni il
privato danneggiato, ancorché onerato, in particolare, della
dimostrazione della colpa dell'Amministrazione, può offrire
al giudice anche elementi solo indiziari, quali la gravità
della violazione, il carattere vincolato dell'azione
amministrativa, l'univocità della normativa di riferimento e
il proprio apporto partecipativo al procedimento.
---------------
Nel rispetto del principio generale sancito dall'art. 2697
c.c., secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la
prova dei fatti costitutivi della domanda, ai fini del
risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio
del potere amministrativo il ricorrente deve inoltre fornire
in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, non
potendosi invocare in proposito il c.d. principio
acquisitivo, perché tale principio attiene allo svolgimento
dell'istruttoria e non all'allegazione dei fatti.
L'importanza dell'assolvimento dell'onere allegatorio è
fondamentale, perché, se è vero che il diritto entra nel
processo attraverso le prove, queste ultime devono però
avere ad oggetto fatti circostanziati. Infatti, anche se può
ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729
c.c. per fornire la prova del danno subìto e della sua
entità, è comunque ineludibile l'obbligo, a monte, di
allegare circostanze di fatto precise.
E quando il soggetto onerato della allegazione e prova dei
fatti non vi abbia adempiuto non può neppure darsi ingresso
alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c.,
perché tale norma presuppone l'impossibilità di provare
l'ammontare preciso del pregiudizio subìto.
L’insegnamento giurisprudenziale in materia è per contro
chiaro sul principio che la domanda di risarcimento del
danno non sostenuta dalle allegazioni necessarie
all'accertamento della responsabilità dell'Amministrazione
vada per ciò stesso disattesa. Grava, infatti, sul
danneggiato l'onere di provare, ai sensi dell'art. 2697
c.c., tutti gli elementi costitutivi della domanda di
risarcimento del danno per fatto illecito, danno, nesso
causale e colpa (C.d.S., V, 25.01.2002, n. 416).
È quindi inammissibile e comunque infondata la domanda
risarcitoria formulata -come la presente- in maniera del
tutto generica, senza alcuna allegazione dei fatti
costitutivi (C.d.S., V, 06.04.2009, n. 2143, e 13.06.2008,
n. 2967).
In sede di giudizio avente ad oggetto la richiesta di
condanna dell'Amministrazione al risarcimento dei danni il
privato danneggiato, ancorché onerato, in particolare, della
dimostrazione della colpa dell'Amministrazione, può offrire
al giudice anche elementi solo indiziari, quali la gravità
della violazione, il carattere vincolato dell'azione
amministrativa, l'univocità della normativa di riferimento e
il proprio apporto partecipativo al procedimento (C.d.S., IV,
18.07.2008, n. 3615). Ma nemmeno sotto questo profilo gli
oneri incombenti sulla parte attrice sono stati a suo tempo
adempiuti.
Nel rispetto del principio generale sancito dall'art. 2697
c.c., secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la
prova dei fatti costitutivi della domanda, ai fini del
risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio
del potere amministrativo il ricorrente deve inoltre fornire
in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, non
potendosi invocare in proposito il c.d. principio
acquisitivo, perché tale principio attiene allo svolgimento
dell'istruttoria e non all'allegazione dei fatti.
L'importanza dell'assolvimento dell'onere allegatorio è
fondamentale, perché, se è vero che il diritto entra nel
processo attraverso le prove, queste ultime devono però
avere ad oggetto fatti circostanziati. Infatti, anche se può
ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729
c.c. per fornire la prova del danno subìto e della sua
entità, è comunque ineludibile l'obbligo, a monte, di
allegare circostanze di fatto precise (Sez. V, 13.06.2008,
n. 2967). E quando il soggetto onerato della allegazione e
prova dei fatti non vi abbia adempiuto non può neppure darsi
ingresso alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226
c.c., perché tale norma presuppone l'impossibilità di
provare l'ammontare preciso del pregiudizio subìto (Sez. V,
13.06.2008, n. 2967; 16.02.2009, n. 842, e 06.04.2009, n.
2143)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 04.03.2011 n. 1408 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordinamento
giuridico affida la tutela del paesaggio ai poteri di due
livelli istituzionali -lo Stato e la Regione (o Ente da
questa delegato)- per cui entrambi sono titolari di una
funzione di amministrazione attiva nell'ambito di un
procedimento unitario a struttura complessa.
In particolare è stato evidenziato che l'annullamento
dell'autorizzazione costituisce non già la manifestazione di
un potere di controllo, bensì l'espressione di un'attività
di cogestione dell'interesse pubblico paesaggistico, posta
ad estrema difesa di un vincolo intimamente connesso ad un
valore costituzionale primario.
La giurisprudenza amministrativa altresì ritiene che il
potere esercitato in materia di autorizzazione in sanatoria
possa essere parimenti definito in termini di "cogestione
dei valori paesistici", poiché contempla l'intervento di
entrambi i soggetti pubblici, investiti di una concorrente
competenza orientata alla salvaguardia del bene ambiente.
È noto che l'ordinamento giuridico affida la tutela del
paesaggio ai poteri di due livelli istituzionali -lo Stato e
la Regione (o Ente da questa delegato)- per cui entrambi
sono titolari di una funzione di amministrazione attiva
nell'ambito di un procedimento unitario a struttura
complessa.
In particolare è stato evidenziato che l'annullamento
dell'autorizzazione costituisce non già la manifestazione di
un potere di controllo, bensì l'espressione di un'attività
di cogestione dell'interesse pubblico paesaggistico, posta
ad estrema difesa di un vincolo intimamente connesso ad un
valore costituzionale primario (sentenze Sezione 12/03/2009
n. 623; 28/05/2004 n. 599; Consiglio di Stato, sez. VI -
20/01/2003 n. 204).
La giurisprudenza amministrativa altresì ritiene che il
potere esercitato in materia di autorizzazione in sanatoria
possa essere parimenti definito in termini di "cogestione
dei valori paesistici", poiché contempla l'intervento di
entrambi i soggetti pubblici, investiti di una concorrente
competenza orientata alla salvaguardia del bene ambiente.
In particolare, deve essere sottolineato che il D.Lgs.
42/2004 (cd. Codice Urbani) ha totalmente ridisegnato,
all'art. 146, il procedimento per il rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, eliminando, nel sistema a
regime, il potere della Soprintendenza di annullare
l'autorizzazione paesaggistica già emessa dal Comune e
prevedendo l'intervento della medesima Soprintendenza in
sede endoprocedimentale, con facoltà di formulare un parere
che risulta espressione di un potere decisorio complesso
facente capo a due apparati distinti: si anticipa quindi
-già in sede procedimentale- l'apporto partecipativo
dell'autorità statale (Consiglio di Stato, sez. VI -
25/02/2008 n. 653).
La citata norma inoltre prevede che non possano più essere
rilasciate autorizzazione paesaggistiche "in sanatoria",
ossia successive alla realizzazione, anche parziale, degli
interventi. A temperamento di tale previsione, il D.Lgs.
157/2006 ha inserito, all'art. 167, la possibilità di sanare
ex post gli interventi abusivi, nel caso di lavori
realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione
paesaggistica che non abbiano determinato creazione di
superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli
legittimamente realizzati.
Orbene, nel caso di specie, come già emerso in sede di
decisione cautelare e nel successivo provvedimento comunale
di sanatoria, deve osservarsi come l’intervento in questione
-risolvendosi nella mera apposizione di serrande a chiusura
di spazi condominali già adibiti a garage con esclusione di
interventi in muratura che danno luogo a nuovi organismi
edilizi- non abbia inciso sui volumi e sulla superficie
utile, né abbia modificato la destinazione del manufatto,
trattandosi di semplice trasformazione di garage collettivi
in box (intervento che, operato senza alterazione di volumi,
superfici e caratteristiche strutturali e di uso
dell'edificio configura un'ipotesi di ristrutturazione
edilizia significativamente annoverata in passato dalla
giurisprudenza amministrativa tra i casi di concessione
gratuita ai sensi dell'art. 9, lett. b), l. 28.01.1977 n.
10. Cfr. Consiglio Stato, sez. V, 16.09.1994, n. 997).
Poiché il provvedimento della Sovrintendenza impugnato è
motivato esclusivamente con la violazione dell'art. 146 del
d.lgs. n. 42 del 2004, nel presupposto dell’assoluta
insanabilità ai fini paesaggistici ex post di
qualunque manufatto, lo stesso provvedimento è illegittimo
per le considerazioni prima esposte e deve essere quindi
annullato, fatte salve le ulteriori determinazioni
amministrative da adottare al riguardo
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 11.01.2011 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 03.02.2014 |
ã |
Ma a Roma, nelle stanze del potere
centrale, "ci sono" o "ci fanno" ??
A proposito dell'incentivo
alla progettazione interna:
RI-BUTTIAMO L'OKKIO
NELL'ORTICELLO ALTRUI... |
Con l'AGGIORNAMENTO
AL 05.07.2013 avevamo dato risalto al fatto che
sulla GURI fosse stato pubblicato il DM dell'Interno
circa la disciplina dell'incentivo alla
progettazione interna del personale del "Dipartimento
dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della
difesa civile" e con il quale si riconosce
l'incentivo alla progettazione riguardante anche la
manutenzione straordinaria e ordinaria quanto la
Corte dei Conti, a più riprese, ha statuito che non
spetta in tali casi.
Ebbene, pochi giorni fa anche il MIBAC ha pubblicato
sulla GURI il decreto col quale disciplina
l'erogazione dell'incentivo alla progettazione
interna di cui al D.Lgs. 163/2006 che è il seguente: |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: G.U.
30.01.2014 n. 24 "Regolamento recante norme per
la ripartizione dell’incentivo di cui all’articolo
92, commi 5 e 6, del decreto legislativo 12.04.2006,
n. 163" (Ministero dei Beni e delle
Attività Culturali e del turismo,
decreto 11.10.2013 n. 161). |
e, guarda
caso, l'art. 2, comma 3, prevede una disposizione
tal quale a quella del Ministero dell'Interno sopra
menzionato che, per comodità di lettura,
riproponiamo a seguire. "3. Gli incentivi di
cui al comma 1 sono riconosciuti soltanto quando i
relativi progetti siano stati formalmente approvati
e posti a base di gara e
riguardino lavori pubblici di competenza
dell'Amministrazione quali attività di costruzione,
demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro e
manutenzione straordinaria e
ordinaria, comprese le eventuali
progettazioni connesse a campagne diagnostiche e le
redazioni di perizie di variante e suppletive nei
casi previsti dall'articolo 132, comma 1 del codice,
ad eccezione della lettera e).". |
QUINDI ?? |
Ogni commento è superfluo, poiché quello che c'era
da dire l'abbiamo già detto nell'occasione dell'AGGIORNAMENTO
AL 05.07.2013. Tuttavia, tutto ciò fa
letteralmente inkazzare
chi scrive (qui) e tutte quelle Amministrazioni
Pubbliche per si comportano per bene, giorno dopo
giorno con estrema fatica, rispettando la legge ed
adeguandosi, nell'operato quotidiano, alle varie
statuizioni che provengono dalla giurisprudenza
amministrativa, contabile e penale nell'interpretare
la norma.
E l'inkazzatura non è tanto perché il MIBAC ha proposto
un testo regolamentare (in parte) non conforme alla
legge quanto, piuttosto, perché tale regolamento
illegittimo (in parte) ha avuto il visto di
registrazione da parte della Corte dei Conti !!!
Allora, è proprio il caso di dire (e di farsene una
ragione) che |
in Italia la legge NON è uguale per tutti. |
03.02.2014 - LA
SEGRETERIA PTPL |
IN EVIDENZA |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
E' stato chiesto al Presidente della Corte dei Conti che la
Sezione delle Autonomie intervenga a mettere la parola
"fine" sulla controversa questione dell'incentivo in materia
di atti di pianificazione.
Ritiene la Sezione di sottoporre alla valutazione del Presidente della
Corte dei conti
l’opportunità di rimettere alla Sezione delle
Autonomie della Corte la seguente questione di massima: “Se
l’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006 debba essere
interpretato nel senso che il diritto all’incentivo per la
redazione di un atto di pianificazione sussiste solo nel
caso in cui l’atto di pianificazione è collegato alla
realizzazione di opere pubbliche ovvero nel senso che il
suddetto diritto sussiste anche nel caso di redazione di
atti di pianificazione generale (quali la redazione di un
piano urbanistico generale o attuativo ovvero di una
variante) ancorché non puntualmente connessi ad un’opera
pubblica”.
---------------
Il Sindaco del Comune di Genova ha formulato una
richiesta di parere in ordine alla corretta interpretazione
dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163,
che prevede la corresponsione di incentivi a favore del
personale dipendente dell’amministrazione aggiudicatrice che
abbia partecipato alla redazione di un atto di
pianificazione.
Il Comune chiede, in particolare, se la norma debba
essere interpretata nel senso che il diritto all’incentivo
per la redazione di un atto di pianificazione sussiste solo
nel caso in cui l’atto di pianificazione è collegato alla
realizzazione di opere pubbliche ovvero nel senso che il
suddetto diritto sussiste anche nel caso di redazione di
atti di pianificazione generale (quali la redazione di un
piano urbanistico generale o attuativo ovvero di una
variante) ancorché non puntualmente connessi ad un’opera
pubblica.
Nel formulare la richiesta di parere, il Comune rappresenta
che il quesito muove dalla circostanza che in ordine al
significato dell’espressione “atto di pianificazione,
comunque denominato” sussistono opinioni contrastanti
tra le diverse Sezioni regionali di controllo della Corte
dei conti. Secondo alcune Sezioni (Sez. contr. Campania n.
141 del 2013, Sez. contr. Piemonte n. 290 del 2012, Sez.
contr. Lombardia n. 452 del 2012, Sez. contr. Puglia n. 1
del 2012, Sez. contr. Toscana n. 213 del 2011), i
corrispettivi previsti a favore dei dipendenti per la
partecipazione alla redazione di atti di pianificazione
devono essere collegati al compimento di opere pubbliche,
mentre secondo altre Sezioni (Sezioni riunite per la Regione
Siciliana in sede consultiva n. 2 del 2013, Sez. contr.
Veneto n. 337 del 2011,) sarebbe ammissibile la
corresponsione dell’incentivo correlato all’attività di
pianificazione anche senza uno stretto collegamento tra
pianificazione e progettazione di opere pubbliche.
In linea con l’indirizzo più restrittivo, l’Ente richiama
anche l’orientamento dell’Autorità di Vigilanza sui
Contratti Pubblici (deliberazione 21.11.2012, AG 22/12),
secondo cui deve in ogni caso sussistere un nesso, sia pure
in via mediata, tra pianificazione urbanistica e
realizzazione dei opere pubbliche.
...
Nel merito, occorre richiamare il comma 6 dell’art. 92 del
d.lgs. n. 163 del 2006, secondo cui “il trenta per cento
della tariffa professionale relativa alla redazione di un
atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con
le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al
comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice
che lo abbiano redatto”.
Sulla portata applicativa della norma si sono più volte
pronunciate, in sede consultiva, diverse Sezioni regionali
di controllo della Corte dei conti (Sez. contr. Campania
parere 10.04.2013 n. 141,
Sez. contr. Piemonte
parere 30.08.2012 n. 290,
Sez. contr. Lombardia
parere 24.10.2012 n. 452,
Sez. contr. Puglia
parere 16.01.2012 n. 1,
Sez. contr. Toscana
parere 18.10.2011 n. 213),
tra cui anche questa Sezione con il
parere 21.12.2012 n. 109 e più recentemente con il
parere 11.11.2013 n. 80, seguendo un indirizzo
interpretativo restrittivo in linea peraltro con quanto
affermato anche dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti
Pubblici nel citato
parere sulla normativa 21.11.2012 - rif. AG-22/12.
E’ stato al riguardo affermato che l’analisi delle
fattispecie non può prescindere dalla collocazione
sistematica della norma nel Codice dei contratti e più
specificatamente nella Sezione I del Capo IV dedicata alla
progettazione interna ed esterna relativa a lavori pubblici.
Sicché, come precisato da questa Sezione nei citati parere
n. 109 del 2012 e n. 80 del 2013, gli atti
di pianificazione indicati dall’art. 92, comma 6, del d.lgs.
n. 163 del 2006 non possono che riferirsi ed essere
collegati alla realizzazione di lavori pubblici, con la
conseguenza che i corrispettivi previsti a favore dei
dipendenti che materialmente redigono atti di pianificazione
devono essere collegati al compimento di opere pubbliche. La
partecipazione alla redazione di un piano urbanistico
generale, se non collegata alla realizzazione di singole
opere pubbliche, rientra, infatti, nell’espletamento di
un’attività riconducibile ad una funzione istituzionale,
rispetto alla quale il dipendente che abbia materialmente
redatto l’atto svolge un’attività lavorativa ordinaria che è
da ricomprendersi nei compiti e doveri d’ufficio (art. 53
del d.lgs. n. 165 del 2011) e come tale non suscettibile
della liquidazione dell’incentivo di cui all’art. 92, comma
6, del d.lgs. n. 163 del 2006.
Non pertinente, per una diversa interpretazione della norma,
è il precedente delle Sezioni riunite per la Regione
Siciliana in sede consultiva.
Nel citato
parere 03.01.2013 n. 2,
le Sezioni riunite per la Regione Siciliana, nel precisare
che “per «atto di pianificazione comunque denominato»
vada inteso qualsiasi elaborato complesso, previsto dalla
legislazione statale o regionale, composto da parte
grafica/cartografica, da testi illustrativi e da testi
normativi (es., norme tecniche di attuazione), finalizzato a
programmare, definire e regolare, in tutto o in parte, il
corretto assetto del territorio comunale, coerentemente con
le prescrizioni normative e con la pianificazione
territoriale degli altri livelli di governo”, affermano,
infatti, richiamando il consolidato orientamento
restrittivo, che “l’attività di pianificazione debba
essere contestualizzata nell’ambito dei lavori pubblici, in
un rapporto di necessaria strumentalità con l’attività di
progettazione di opere pubbliche”, mentre il precedente
della Sezione regionale di controllo per il Veneto (parere
26.07.2011 n. 337),
richiamato nella richiesta di parere all’odierno esame, è
riferito essenzialmente ad altre questioni desumibili dal
comma 6 dell’art. 92 del d.lgs. n. 163 del 2006 e cioè alla
possibilità che l’incentivo possa essere riconosciuto a
tutti i soggetti che hanno partecipato alla redazione
dell’atto sul presupposto del carattere multidisciplinare
dell’attività di pianificazione.
Il Collegio, pur ritenendo di poter aderire
al consolidato indirizzo interpretativo restrittivo
enunciato, in sede consultiva, dalle diverse Sezioni
regionali di controllo e ribadito da ultimo anche da questa
Sezione, evidenzia, tuttavia, che, successivamente alla
formulazione della richiesta di parere in esame, è
nuovamente intervenuta sulla questione la Sezione regionale
di controllo per il Veneto
(parere
03.12.2013 n. 380 e
parere 03.12.2013 n. 381), la
quale ha affermato, andando in contrario avviso al
consolidato orientamento giurisprudenziale, che “l’attribuzione
di tale incentivo prescinde dal collegamento con la
progettazione di una opera pubblica e il rinvio al comma 5
concernerebbe solo le modalità, da stabilirsi con
regolamento, di erogazione”.
Ciò sul presupposto, ad avviso della Sezione Veneta, di una
interpretazione letterale e sistematica della norma, sulla
base della quale da un lato “il rinvio da essa operato
non concerne l’an, ovverosia l’ambito (che per i motivi
sopradescritti non è riferibile alla necessaria
progettazione dell’opera pubblica, bensì alla pianificazione
urbanistica), ma solamente il quomodo (ovverosia, secondo
l’esplicito tenore testuale della norma, le modalità e i
criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5) della
incentivazione”, mentre dall’altro la “previsione di
una diversa commisurazione del compenso rispetto a quanto
previsto in tema di progettazione di opere pubbliche”
costituirebbe elemento per non ritenere necessario uno
stretto collegamento tra attività di pianificazione e
attività di progettazione.
Ritiene, pertanto, la Sezione
–alla luce del contrasto interpretativo sopra evidenziato–
di sottoporre alla valutazione del Presidente della
Corte dei conti,
ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge 10.10.2012,
n. 174, convertito nella legge 07.12.2012, n. 213,
l’opportunità di rimettere alla Sezione delle
Autonomie della Corte la seguente questione di massima: “Se
l’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006 debba essere
interpretato nel senso che il diritto all’incentivo per la
redazione di un atto di pianificazione sussiste solo nel
caso in cui l’atto di pianificazione è collegato alla
realizzazione di opere pubbliche ovvero nel senso che il
suddetto diritto sussiste anche nel caso di redazione di
atti di pianificazione generale (quali la redazione di un
piano urbanistico generale o attuativo ovvero di una
variante) ancorché non puntualmente connessi ad un’opera
pubblica”.
P.Q.M.
la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per
la Liguria ritiene di sottoporre al Presidente della Corte
dei conti la valutazione, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del
decreto-legge 10.10.2012, n. 174, convertito nella legge
07.12.2012, n. 213, in ordine alla opportunità di rimettere
alla Sezione delle Autonomie della Corte dei conti questione
di massima concernente i quesiti formulati dal Comune di
Genova (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 21.01.2014 n. 6). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI
LOCALI:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 6 del 03.02.2014:
●
L.R. 30.01.2014 n. 2 - Istituzione del comune di
Sant’Omobono Terme, mediante la fusione dei comuni di Sant’Omobono
Terme e Valsecca, in provincia di Bergamo
●
L.R. 30.01.2014 n. 3 - Istituzione del comune di Val
Brembilla, mediante la fusione dei comuni di Brembilla e
Gerosa, in provincia di Bergamo
● L.R.
30.01.2014 n. 4 - Istituzione del comune di Bellagio,
mediante la fusione dei comuni di Bellagio e Civenna, in
provincia di Como
● L.R.
30.01.2014 n. 5 - Istituzione del comune di Colverde,
mediante la fusione dei comuni di Drezzo, Gironico e Parè,
in provincia di Como
● L.R.
30.01.2014 n. 6 - Istituzione del comune di Verderio,
mediante la fusione dei comuni di Verderio Inferiore e
Verderio Superiore, in provincia di Lecco
● L.R.
30.01.2014 n. 7 - Istituzione del comune di Cornale e
Bastida, mediante la fusione dei comuni di Cornale e Bastida
de’ Dossi, in provincia di Pavia
● L.R.
30.01.2014 n. 8 - Istituzione del comune di Maccagno
con Pino e Veddasca, mediante la fusione dei comuni di
Maccagno, Pino sulla sponda del Lago Maggiore e Veddasca, in
provincia di Varese
● L.R.
30.01.2014 n. 9 - Istituzione del comune di Borgo
Virgilio, mediante la fusione dei comuni di Virgilio e
Borgoforte, in provincia di Mantova
● L.R.
30.01.2014 n. 10 - Istituzione del comune di
Tremezzina, mediante la fusione dei comuni di Lenno,
Ossuccio, Tremezzo e Mezzegra, in provincia di Como. |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 del 03.02.2014, "Patto
di integrità in materia di contratti pubblici regionali"
(deliberazione
30.01.2014 n. 1299). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 del 03.02.2014, "Approvazione
delle «Linee guida per l’acquisizione d’ufficio dei dati
oggetto di autocertificazione e per l’esecuzione dei
controlli sulle dichiarazioni (art. 35, comma 2, l.r.
01.02.2012, n. 1 in materia di procedimento amministrativo)»"
(deliberazione
G.R. 30.01.2014 n. 1298). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Decreto del Ministro dell’Economia e delle
Finanze di concerto con il Ministro del Lavoro e delle
Politiche Sociali 13.03.2013. Rilascio del documento unico
di regolarità contributiva in presenza di certificazione dei
crediti ai sensi dell’art. 13-bis, comma 5, del decreto
legge 07.05.2012, n. 52 convertito, con modificazioni, dalla
legge 06.07.2012, n. 94 (INPS,
circolare 30.01.2014 n. 16 - link a www.inps.it).
---------------
Il documento unico di regolarità contributiva può essere
rilasciato in presenza di certificazione dei crediti certi,
liquidi ed esigibili, vantati nei confronti delle pubbliche
amministrazioni, emessa tramite la “Piattaforma per la
Certificazione dei Crediti”.
---------------
Con la Circolare 30/01/2014, n. 16, l'INPS fornisce
indicazioni in merito all'applicazione della disciplina per
il rilascio del DURC in presenza di certificazione di
crediti certi, liquidi ed esigibili, vantati nei confronti
delle P.A. -emessa tramite la «Piattaforma per la
Certificazione dei Crediti» (PCC)- a seguito della
realizzazione, da parte del Ministero dell’Economia e delle
Finanze, all’interno della citata Piattaforma, della
funzione di «Gestione Richieste DURC», riservata ai soggetti
titolari dei crediti, e di quella di «Verifica la capienza
per l’emissione del DURC», rivolta agli Enti tenuti al
rilascio del DURC.
Si ricorda che nel quadro del sistema vigente in materia di
DURC, il Documento rilasciato ai sensi dell’art. 13-bis,
comma 5, del D.L. 52/2012, che prevede per l'appunto
l'emissione del DURC in presenza di crediti certi, liquidi
ed esigibili, viene a costituire pertanto una tipologia
specifica attraverso la quale il legislatore ha inteso far
sì che le imprese creditrici nei confronti delle pubbliche
amministrazioni, nell’ambito dei limiti delineati dalla
norma, ottengano un DURC per poter continuare ad operare sul
mercato, in particolare in quello della contrattualistica
pubblica, pur in presenza di debiti previdenziali e/o
assicurativi.
Rinviando integralmente a quanto chiarito in materia dalla
Circolare del Ministero del Lavoro 40/2013, la Circolare
16/2014 in commento fornisce le opportune indicazioni in
ordine all’applicazione della disciplina a seguito della
realizzazione delle due citate nuove funzioni nella
«Piattaforma per la Certificazione dei Crediti» (PCC)
(commento tratto da www.legislazionetecnica.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
P. Giampietro e A. Scialò,
Il sottoprodotto, Il fresato d’asfalto e la “normale
pratica” (nota a Consiglio di Stato, n. 4151/2013) (31.01.2014
- tratto da www.ambientediritto.it). |
APPALTI: A.
Giardetti,
Discrezionalità delle stazioni appaltanti sulla sussistenza
di cause di esclusione dalla gara pubblica
(29.01.2014 - link a www.diritto.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
A. Casesa,
Concorso pubblico e mobilità volontaria
(29.01.2014 - link a www.diritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: I.
Pagano,
Il provvedimento finale non può essere basato su ragioni
nuove o diverse rispetto a quelle esplicitate nell’avviso ex
art. 10-bis L. n. 241/1990
(24.01.2014 - link a www.diritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
S. Rocchina,
Mobbing ed onere della prova (Cass. Civ. n. 172/2014) (22.01.2014
- link a www.diritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
C. Cataldi,
La Corte Costituzionale dice ancora una volta no
all’esercizio della professione forense del dipendente
pubblico anche solo part-time (22.01.2014 - link
a www.diritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I. Pagano,
La disciplina del silenzio assenso non si applica al
provvedimento di concessione di suolo pubblico (20.01.2014
- link a www.diritto.it). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA:
Termine di validità della certificazione unica di regolarità
contributiva.
Domanda
Dopo l'entrata in
vigore della Legge n. 98/2013 il termine di 120 giorni per
la validità del DURC è estendibile sia agli appalti pubblici
(committente ente pubblico e appalto a ditta privata), sia
agli altri casi (committente privato e appalto a ditta
privata)?
Risposta
Il documento unico di regolarità contributiva (c.d. DURC) è
il certificato che attesta contestualmente la regolarità di
un operatore economico per quanto concerne i versamenti
dovuti agli Istituti previdenziali nonché, per i lavori
dell'edilizia, alle Casse edili.
Il possesso di tale documento permette di fruire dei
benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e
legislazione sociale, nonché dei benefici e delle
sovvenzioni previsti dalla disciplina comunitaria. Inoltre,
nell'ambito delle procedure di appalto di opere, servizi e
forniture pubbliche, nelle ipotesi di gestione di servizi ed
attività in convenzione o concessione con l'ente pubblico e
nei lavori privati dell'edilizia, il DURC è requisito
essenziale per l'affidamento dell'appalto o per il rilascio
della concessione e la stipula della convenzione, oltre che
per lo svolgimento dei lavori privati edili, rappresentando,
quindi, la condizione preliminare per la stessa operatività
dell'impresa.
Prevista originariamente solo nei settori degli appalti
pubblici e dell'edilizia privata, la certificazione unica di
regolarità contributiva è stata poi estesa alle imprese di
tutti i settori per accedere ai benefici e alle sovvenzioni
comunitarie, fino all'intervento dell'art. 1, c. 1175, della
legge n. 296/2006 (finanziaria 2007) che ha ampliato
sensibilmente il campo di applicazione del DURC, stabilendo
che, a decorrere dal 01.07.2007, il possesso del documento
diviene obbligatorio per tutti i settori di attività ai fini
del riconoscimento dei benefici normativi e contributivi
previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione
sociale, fermi restando gli altri obblighi di legge ed il
rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali
nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, se
sottoscritti.
Con specifico riferimento al quesito posto si precisa che il
DURC rilasciato per i contratti pubblici di lavori, servizi
e forniture, ha validità di 120 giorni dalla data del
rilascio. Inoltre, secondo quanto disposto dall'art. 31, cc.
8-ter e 8-sexies, D.L. n. 69/2013 così come convertito nella
legge n. 98/2013, le disposizioni in materia di validità del
DURC si applicano anche ai lavori edili commissionati da
soggetti privati (27.01.2014 - tratto da
www.ipsoa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Il committente è responsabile della corretta gestione dei
rifiuti prodotti dalla ditta esecutrice?
Domanda
Tre anni fa ho
commissionato la realizzazione di un fabbricato: oggi, dopo
essere stato rinviato a giudizio per gestione abusiva di
rifiuti (prodotti e gestiti dalla ditta esecutrice), il
Tribunale mi ha condannato, insieme a quest'ultima e al
direttore dei lavori, per aver abbandonato o depositato in
modo incontrollato sul suolo rifiuti speciali non pericolosi
derivanti da opere di demolizione e costruzione. Il
committente è comunque responsabile della corretta gestione
dei rifiuti prodotti e gestiti dalla ditta esecutrice?
Risposta
La qualità di
committente, ma anche quella di direttore dei lavori, non
determina alcun obbligo di legge di intervenire nella
gestione dei rifiuti prodotti dalla ditta appaltatrice, o di
garantire che la stessa venga effettuata correttamente.
In materia di gestione dei rifiuti, tali figure non possono
essere ritenute responsabili a titolo di concorso con
l’appaltatore per la raccolta e lo smaltimento abusivi dei
rifiuti non pericolosi connessi all’attività edificatoria.
I doveri di controllo imposti al committente e al direttore
dei lavori riguardano esclusivamente la conformità della
costruzione alla normativa urbanistica, alle previsioni di
piano, al permesso di costruire e all’osservanza delle altre
prescrizioni contenute nel TUE.
Dai principî generali che regolano i compiti del direttore
dei lavori o i rapporti fra la ditta appaltante e quella
appaltatrice derivano obblighi di intervenire per il
rispetto da parte della ditta esecutrice dei lavori della
normativa in materia di rifiuti: di conseguenza, salva
l’ipotesi di un diretto concorso nella commissione del
reato, non può ravvisarsi alcuna responsabilità a carico di
tali soggetti, per non essere intervenuti al fine di
impedire violazioni della normativa in materia di gestione
dei rifiuti da parte della ditta appaltatrice.
Risponde, invece, del reato di abusiva gestione dei rifiuti
l’appaltatore di lavori edili: infatti grava su di lui
l’obbligo di garanzia in relazione all’interesse tutelato ed
al corretto espletamento delle operazioni di raccolta e
smaltimento dei rifiuti connessi all’attività edificatoria (17.01.2014
- tratto da www.ipsoa.it). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
1) per le
attività inerenti la redazione del Piano Generale del
Traffico Urbano e la redazione del Nuovo Piano Strategico
delle Aree verdi, non si ritiene ammissibile l'erogazione
dell'incentivo ex art. 92 d.lgs. 12.04.2006 n. 163 e s.m.i..
----------------
2) l’incentivo alla progettazione non può venire
riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria
su beni dell’ente locale, ma solo per lavori di
realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una
necessaria un’attività progettuale richiamata negli articoli
90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163/2006. La verifica del
ricorrere di tali presupposti è rimessa, nei singoli casi,
alla stazione appaltante;
----------------
3) con riferimento alla realizzazione di opere di
urbanizzazione a scomputo, l’Amministrazione non può
corrispondere a favore del responsabile del procedimento
l’incentivo per la progettazione, poiché, nella fattispecie
prospettata, ogni onere di progettazione e costruzione delle
opere è posto a carico del soggetto attuatore
dell’intervento;
----------------
4) la circostanza che l’Amministrazione non proceda
nell’anno in corso con l'approvazione dei progetti redatti
dai dipendenti, sebbene questi presentino caratteristiche e
contenuti aderenti alle previsioni di cui agli atti
programmatori, alle necessità manifestate, nonché alle norme
di legge vigenti, non fa venir meno la diretta
corrispondenza, di natura sinallagmatica, tra incentivo ed
attività svolte dai dipendenti a suo tempo incaricati.
L’erogazione in discorso rimane comunque sospensivamente
condizionata quantomeno all’approvazione da parte
dell’Amministrazione del progetto esecutivo, che deve essere
necessariamente finanziato;
----------------
5) l’incentivo si ritiene erogabile qualora nel corso
dell'esecuzione di un'opera pubblica o lavoro si renda
necessario redigere, da parte del personale dipendente
dall’Ente, una perizia di variante e suppletiva con
incremento dell'importo dei lavori affidati, rientrante
negli ambiti consentiti dalla norma vigente, con esclusione
delle varianti determinate da errori di progettazione, con
la specificazione che l’entità dell’incentivo stesso deve
essere correlata all’importo della perizia di variante.
---------------
Il Sindaco del Comune di
Grugliasco (TO) pone alla Sezione una serie di quesiti in
merito alla corretta erogazione dell'incentivo ex art. 92
d.lgs. 12.04.2006 n. 163 e s.m.i. ai propri dipendenti.
Nello specifico, espone quanto segue.
Quesito n° 1:
Il comune di Grugliasco, nel corso del 2012 ha dato avvio
alle procedure inerenti la redazione del Piano Generale del
Traffico Urbano e, ad inizio 2013, la redazione del Nuovo
Piano Strategico delle Aree verdi con contestuale incarico
agli Uffici interni del Settore Lavori Pubblici affinché
procedessero alla redazione degli atti di pianificazione.
L'affidamento dell'incarico di redazione degli atti di
pianificazione agli Uffici interni della struttura comunale
è stato fatto, oltre che in un contesto di valorizzazione
delle professionalità interne e di razionalizzazione delle
spese, in presenza di professionalità competenti nonché dei
pareri espressi dall'AVCP (10.05.2010 e 21.11.2012) e del
parere espresso dalla Sezione Regionale della Corte dei
Conti Veneto n° 37 del 26.07.2011.
Come previsto dall'art. 36 comma 4 del Nuovo Codice della
Strada, il Piano Generale del Traffico Urbano, nell'attuale
programmazione dell'Ente, si sostanzia nella pianificazione
delle opere viarie da realizzarsi a medio e lungo periodo,
per gestire la mobilità cittadina anche alla luce delle
politiche di espansione della Città: insediamento del nuovo
Polo Scientifico Universitario, Realizzazione di nuovi
insediamenti abitativi.
Analogamente, il Piano Strategico delle Aree Verdi Comunali
assume significato esclusivamente nella programmazione e
pianificazione delle opere di riqualificazione degli spazi
verdi comunali, gestite nel breve/medio periodo al fine di
ottimizzare e razionalizzare le risorse finanziarie di volta
in volta disponibili.
L'incentivo ex art. 92, comma 6, del D.Lgs. 163/2006,
inerente la redazione del Piano è stato computato per ogni
componente degli Uffici incaricati, sulla base dei compiti
pianificatori assegnati ed delle elaborazioni progettuali in
fase di completamento e/o redazione.
L'erogazione effettiva è stata attualmente sospesa in attesa
di chiarimenti, sebbene si ritenga che entrambe le
pianificazioni possano rientrare fra le fattispecie
incentivabili anche a fronte di alcuni pareri espressi da
altre Sezioni regionali di Controllo.
Ciò premesso, il Sindaco del Comune di Grugliasco chiede
se per le attività di pianificazione di cui al suddetto
quesito sia corretta l'erogazione dell'incentivo ex art. 92
d.lgs. 12.04.2006 no 163 e s.m.i.;
Quesito n° 2:
Dopo aver richiamato quanto disposto dell'art. 105 del
D.P.R. 05.10.2010 n° 207 (Lavori di manutenzione) e aver
messo in evidenza che per le attività di cui al comma 1 di
tale articolo assumono rilevante importanza il coordinamento
sicurezza in fase di progettazione e di esecuzione, nonché
la direzione lavori e la contabilità, mentre per le attività
di cui al comma 2 è comunque previsto almeno un livello di
progettazione, oltre che il coordinamento sicurezza e la
direzione lavori e contabilità, il Sindaco del Comune di
Grugliasco chiede se sia riconoscibile ed erogabile
l'incentivo per le descritte fattispecie di lavori di
manutenzione.
Quesito n° 3:
Si chiede se, con riferimento alla realizzazione di opere
di urbanizzazione a scomputo, progettate ed eseguite
direttamente da parte del soggetto attuatore, l'incentivo in
questione sia erogabile al Responsabile di Procedimento.
Quesito n° 4:
Per ragioni legate all'effettiva disponibilità finanziaria
in corso d'anno o per ragioni di opportunità,
l’Amministrazione potrebbe non procedere con l'approvazione
dei progetti redatti dai dipendenti, sebbene questi
presentino caratteristiche e contenuti aderenti alle
previsioni di cui agli atti programmatori, alle necessità
manifestate, nonché alle norme di legge vigenti.
Il Sindaco del Comune di Grugliasco chiede, pertanto, se
in tali casi sia erogabile l'incentivo riferito al livello
di progettazione effettivamente redatto dai dipendenti a suo
tempo incaricati.
Quesito n° 5:
Nel corso dell'esecuzione di un'opera pubblica o lavoro può
essere necessario redigere una perizia di variante e
suppletiva, non determinata da errori di progettazione, con
il conseguente incremento dell'importo dei lavori affidati.
La responsabilità dei Progettisti, del Coordinatore per la
sicurezza, del Direttore Lavori risultano di fatto
incrementate perché riferite all'importo dei lavori così
come risultante in seguito alla redazione della perizia di
variante e suppletiva.
A fronte di ciò, il Sindaco del Comune di Grugliasco
chiede se siano proporzionalmente incrementabili le somme
per incentivi ex art. 92, commi 5 e 6, del D.Lgs. 12.04.2006
n° 163 e s.m.i..
...
Per offrire una soluzione all’articolata richiesta di parere
pervenuta alla Sezione dal Sindaco del Comune di Grugliasco,
è opportuno richiamare gli approdi ermeneutici sinora
raggiunti in merito alla corretta applicazione dell’istituto
del cd. “incentivo alla progettazione”, come previsto
dalla disciplina di settore, contenuta nel d.lgs. n.
163/2006 e s.m.i. e nel suo Regolamento di esecuzione e
attuazione, D.P.R. 05.10.2010 n° 207.
In particolare, la questione in esame concerne la corretta
interpretazione dell’articolo 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n.
163/2006, argomento su cui, già da tempo, si è formata una
consolidata giurisprudenza da parte dalle varie Sezioni
regionali di Controllo della Corte dei conti.
Fra le numerose pronunce in sede consultiva, in questa sede
può richiamarsi quanto affermato nelle precedenti pronunce
della Corte dei conti sui due commi citati dell’art. 92 Cod.
Contr. Pubblici (cfr., fra le altre, Sezione Autonomie
delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto
parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Lombardia
parere 06.03.2012 n. 57
e
parere 30.05.2012 n. 259; inoltre,
parere 30.08.2012 n. 290 di questa
Sezione) e, in particolare, nella deliberazione della
Sezione Lombardia
parere 06.03.2013 n. 72, che di seguito si
ripercorre e a cui può farsi riferimento per l’analisi dei
profili generali: “Il menzionato comma 5 (incentivi per
l’affidamento di lavori di manutenzione
ordinaria/straordinaria) prevede che “una somma non
superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara
di un'opera o di un lavoro, (…), è ripartita, per ogni
singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti
in sede di contrattazione decentrata e assunti in un
regolamento adottato dall'amministrazione, tra il
responsabile del procedimento e gli incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro
collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo
del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto
all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La
ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali
connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La
corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente
preposto alla struttura competente, previo accertamento
positivo delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti (…); le quote parti dell'incentivo corrispondenti
a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto
affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto
accertamento, costituiscono economie”.
La norma va letta nel complessivo contesto delle modalità
d’affidamento degli incarichi tecnico professionali,
previste dalla legislazione in materia di contratti
pubblici. Quest’ultima (si rinvia agli artt. 10, 84, 90,
112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un
principio generale, già codificato dall’art. 7, comma 6, del
d.lgs. n. 165/2001, in base al quale i
predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti
esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di
professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza
non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di
gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a
preservare le finanze pubbliche oltre che a valorizzare il
personale interno alle amministrazioni.
Pertanto, nelle ipotesi ordinarie in cui
gli incarichi tecnici sono espletati da personale interno,
ai fini della loro remunerazione, occorre far riferimento
alle regole generali previste per il pubblico impiego, il
cui sistema retributivo è conformato da due principi
cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti
economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione
(cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché
Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Puglia,
sentenze nn. 464, 475 e 487 del 2010).
Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento
economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti
collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che
rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare
complessità.
Il c.d. “incentivo alla progettazione”, previsto dal
Codice dei contratti pubblici, costituisce uno di quei casi
nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il
trattamento economico è fissato dai contratti collettivi,
attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai
regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa
contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di
ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 deroga ai principi
di onnicomprensività e determinazione contrattuale della
retribuzione del dipendente pubblico e, come tale,
costituisce un’eccezione che si presta a stretta
interpretazione e per la quale sussiste il divieto di
analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al
codice civile (in tal senso Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008, Sezione Umbria,
parere 09.07.2013 n. 119, Sezione Marche,
parere 04.10.2013 n. 67).
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone
alcuni limiti per l’attribuzione del predetto incentivo,
rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”)
ad un regolamento interno assunto previa contrattazione
decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare
(sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a
quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non
previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione Lombardia) paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi
tassativamente indicati dalla norma (responsabile del
procedimento, incaricati della redazione del progetto, del
piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del
collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione
ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non,
pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi);
- ammontare complessivo non superiore al due per cento
dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma
concretamente prevista dal regolamento interno può essere
stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non
all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante
dallo stato finale dei lavori). Si deduce che non appare
ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso
nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia
giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando
o della spedizione delle lettere d’invito (cfr., per
esempio, l’art. 2 comma 3 del DM Infrastrutture n. 84 del
17/03/2008). Quanto detto non esclude che, in sede di
regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione
dell’incentivo a più stringenti presupposti,
l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo
subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli
incarichi attribuibili (responsabile del procedimento,
progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro
collaboratori), secondo percentuali rimesse alla
discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere,
tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e
ragionevolezza (cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici, Deliberazioni n. 315 del 13/12/2007, n. 70 del
22/06/2005, n. 97 del 19/05/2004);
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante
corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma
affidate a personale esterno all'organico
dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere
analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le
percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal
personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui
alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni,
la predetta devoluzione (si rinvia alle Deliberazioni
dell’Autorità di vigilanza n. 315 del 13/12/2007, n. 35 del
08/04/2009, n. 18 del 07/05/2008 e n. 150 del 02/05/2001).
Pertanto, l’incentivo alla progettazione non può venire
riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione
ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale ma solo per
lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base
vi sia una necessaria attività di progettazione.
Esulano, dunque, tutti quei lavori manutentivi per la cui
realizzazione non è necessaria l’attività progettuale
richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n.
163/2006.
Al contrario, l’incentivo si ritiene erogabile qualora nel
corso dell'esecuzione di un'opera pubblica o lavoro si renda
necessario redigere, da parte del personale dipendente
dall’Ente, una perizia di variante e suppletiva con
incremento dell'importo dei lavori affidati, rientrante
negli ambiti consentiti dalla norma vigente, con esclusione
delle varianti determinate da errori di progettazione, con
la specificazione che l’incentivo stesso deve essere
correlato all’importo della perizia di variante.
Inoltre, come è stato messo in luce dal
parere 13.11.2012 n. 293
della Sezione regionale di Controllo per la Toscana, “l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006 sia alla
rubrica che al c. 1, fa riferimento esclusivamente ai lavori
pubblici, e l’art. 92, c. 1, presuppone l’attività di
progettazione nelle varie fasi come finalizzata alla
costruzione dell’opera pubblica progettata. A fortiori, lo
stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla
progettazione venga ripartito tra i dipendenti
dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto
e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento
normativo e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile
solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una
procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla
realizzazione di un’opera di pubblico interesse”.
Pertanto, così come l’incentivo alla progettazione non può
venire riconosciuto per la redazione di varianti allo
strumento urbanistico generale, non sarà neppure
riconoscibile per la redazione del Piano Generale del
Traffico Urbano e per la redazione del Piano Strategico
delle Aree verdi.
Sul corretto significato da attribuire alla locuzione “atto
di pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92,
comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, la Sezione richiama il
proprio orientamento espresso nel precedente
parere 30.08.2012 n. 290, a tenore del quale, l’atto di
pianificazione, comunque denominato, deve necessariamente
riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un
mero atto di pianificazione territoriale redatto dal
personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla
progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio
della disposizione (contenere i costi connessi alla
progettazione delle opere pubbliche valorizzando le
professionalità interne alla pubblica amministrazione), “la
norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad
ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la
redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere
pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio,
sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta
all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun
compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici
dell’Ente” (in termini, Sezione contr. Piemonte
deliberazione cit.; cfr. altresì Sezione contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259;
parere 06.03.2012 n. 57; Sezione contr.
Puglia,
parere 16.01.2012 n. 1; Sezione contr. Toscana,
parere 18.10.2011 n. 213).
Pertanto, ciò che rileva ai fini della
riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è
tanto il nomen juris attribuito all’atto di
pianificazione, quanto il suo contenuto specifico
intimamente connesso alla realizzazione di un’opera
pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità
interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale
(piano regolatore o variante generale) che costituisce, al
contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale
dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la
retribuzione ordinariamente spettante.
Al riguardo, viene in rilevo anche l'ipotesi in cui le opere
di urbanizzazione previste da un piano di lottizzazione
siano eseguite direttamente dal privato a scomputo, totale o
parziale, del contributo degli oneri di urbanizzazione. La
realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo oneri
prevede la redazione ed approvazione, da parte del soggetto
attuatore, di progetti redatti in conformità ai tre livelli
di progettazione, le attività di direzione lavori e
contabilità, sotto il diretto controllo del Responsabile del
procedimento nominato dall'Amministrazione. I lavori in
discorso sono previsti dall’art. 32, lettera g), del Codice
dei contratti pubblici e ai soggetti privati ivi indicati,
titolari di permesso di costruire, non si applica l’art. 92
del Codice stesso, relativo agli incentivi in trattazione.
Pertanto, l’Amministrazione non potrà corrispondere a favore
del responsabile del procedimento l’incentivo per la
progettazione, essendo nella fattispecie ogni onere posto a
carico dell’attuatore dell’intervento.
Infine, per il caso in cui sia stato eseguito un livello di
progettazione effettivamente redatto dai dipendenti a suo
tempo incaricati e l’Amministrazione non proceda
successivamente all’approvazione del progetto, per “indisponibilità
finanziaria in corso d'anno o per ragioni di opportunità”,
occorre innanzitutto rammentare che sin dal momento della
designazione del responsabile unico del procedimento l’Ente
deve procedere all’assunzione di un regolare impegno di
spesa per la realizzazione del progetto.
Tale puntualizzazione si rende necessaria in quanto la
fattispecie portata ad esempio nel quesito potrebbe
costituire sintomo di carenze programmatorie nella gestione
dell’Ente o, nella peggiore ipotesi, potrebbe ricadere nella
risalente prassi di dotare gli enti locali di un c.d. "parco
progetti", conforme al piano triennale dello opere
pubbliche, ma con il pagamento dell'onorario ai tecnici
condizionato all'ottenimento del finanziamento per il
progetto non posto in gara. In merito, si richiama
l’attenzione dell’ente sugli eventuali profili di
responsabilità correlati a tale prassi, più volte censurata
dalla giurisprudenza contabile (ex plurimis, Corte
dei conti - Sez. I Giur. App., n. 906/2013).
I principi in discorso, evidenziati anche dall’Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici nella deliberazione n. 125
del 09.05.2007, in relazione agli affidamenti di
progettazioni esterne, possono essere richiamati per il caso
degli incentivi per le progettazioni interne: “non è
possibile -a pena di nullità- affidare incarichi di
progettazione subordinando la corresponsione dei compensi
professionali, relativi allo svolgimento della progettazione
e delle attività tecnico-amministrative ad esse connesse, ai
finanziamenti dell'opera (cfr. determinazione dell'Autorità
n. 18/2001). La progettazione di un'opera pubblica non può,
infatti, costituire un'attività fine a se stessa, svincolata
dalla esecuzione dei lavori, con la conseguenza che non si
può affidare un incarico di progettazione senza che l'opera
sia stata non solo programmata ma sia stata anche indicata
l'effettiva reperibilità delle somme necessarie per
realizzarla. In simili casi, peraltro, le stazioni
appaltanti devono provvedere con fondi propri alla
corresponsione dei compensi professionali, correlando il
pagamento del corrispettivo alle fasi dello sviluppo della
progettazione e non alla fase esecutiva dei lavori” (delib.
AVCP cit.).
Tanto premesso, nell’ipotesi prospettata soccorre quanto
affermato dalla Sezione delle Autonomie della Corte dei
conti nella
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG: “l’incentivo per
la progettazione ha la finalità di accrescere l’efficienza e
l’efficacia degli uffici tecnici preposti a tale ramo
d’amministrazione ed (…) è direttamente funzionalizzato al
risultato, ossia all’effettivo adempimento del concreto
compito affidato ai vari soggetti potenziali beneficiari
della ripartizione della somma.
In tale direzione conduce la constatazione della diretta
correlazione, (art. 13 L. 144/1999) per ogni singola opera o
lavoro tra somme da ripartire, importo dell’appalto e
stanziamenti relativi, superando l’originaria previsione
della costituzione di un fondo interno alimentato con le su
descritte modalità e commisurato al costo preventivato
dell’opera, che poteva anche far configurare una
modulabilità degli stanziamenti in funzione di esigenze di
compatibilità della spesa per incentivi con le mutevoli
necessità di bilancio e, di conseguenza, l’eventualità di
restrizioni. L’aver, invece, legato la provvista delle
risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a
base di gara e aver previsto la ripartizione delle somme
così determinata per ogni singola opera, evidenzia il chiaro
intento di stabilire una diretta corrispondenza di natura
sinallagmatica tra incentivo ed attività compensate.
Ed invero la Suprema Corte ha ritenuto che il diritto
all’incentivo di cui si sta trattando, costituisce un vero e
proprio diritto soggettivo di natura retributiva (Cass. Sez.
Lav., sent. n. 13384 del 19.07.2004) che inerisce al
rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va individuato
l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere, a prescindere
dalle condizioni e dai presupposti per rendere concreta
l’erogazione del compenso. (…)”.
L’erogazione in discorso rimane comunque sospensivamente
condizionata quantomeno all’approvazione da parte
dell’Amministrazione del progetto esecutivo, che deve essere
necessariamente finanziato.
In conclusione, possono fornirsi le
seguenti indicazioni relative ai singoli quesiti:
1) per le attività inerenti la redazione del Piano Generale
del Traffico Urbano e la redazione del Nuovo Piano
Strategico delle Aree verdi, non si ritiene ammissibile
l'erogazione dell'incentivo ex art. 92 d.lgs. 12.04.2006 n.
163 e s.m.i.;
2) l’incentivo alla progettazione non può venire
riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria
su beni dell’ente locale, ma solo per lavori di
realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una
necessaria un’attività progettuale richiamata negli articoli
90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163/2006. La verifica del
ricorrere di tali presupposti è rimessa, nei singoli casi,
alla stazione appaltante;
3) con riferimento alla realizzazione di opere di
urbanizzazione a scomputo, l’Amministrazione non potrà
corrispondere a favore del responsabile del procedimento
l’incentivo per la progettazione, poiché, nella fattispecie
prospettata, ogni onere di progettazione e costruzione delle
opere è posto a carico del soggetto attuatore
dell’intervento;
4) la circostanza che l’Amministrazione non proceda
nell’anno in corso con l'approvazione dei progetti redatti
dai dipendenti, sebbene questi presentino caratteristiche e
contenuti aderenti alle previsioni di cui agli atti
programmatori, alle necessità manifestate, nonché alle norme
di legge vigenti, non fa venir meno la diretta
corrispondenza, di natura sinallagmatica, tra incentivo ed
attività svolte dai dipendenti a suo tempo incaricati.
L’erogazione in discorso rimane comunque sospensivamente
condizionata quantomeno all’approvazione da parte
dell’Amministrazione del progetto esecutivo, che deve essere
necessariamente finanziato;
5) l’incentivo si ritiene erogabile qualora nel corso
dell'esecuzione di un'opera pubblica o lavoro si renda
necessario redigere, da parte del personale dipendente
dall’Ente, una perizia di variante e suppletiva con
incremento dell'importo dei lavori affidati, rientrante
negli ambiti consentiti dalla norma vigente, con esclusione
delle varianti determinate da errori di progettazione, con
la specificazione che l’entità dell’incentivo stesso deve
essere correlata all’importo della perizia di variante
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 16.01.2014 n. 8). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
MONITORAGGIO DEGLI ATTI DI SPESA RELATIVI A
COLLABORAZIONI, CONSULENZE, STUDI E RICERCHE, RELAZIONI
PUBBLICHE, CONVEGNI, MOSTRE, PUBBLICITA’ E RAPPRESENTANZA,
POSTI IN ESSERE NELL’ESERCIZIO FINANZIARIO 2010 DAGLI ENTI
PUBBLICI AVENTI SEDE NELL’EMILIA-ROMAGNA (Corte dei
Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
deliberazione 15.01.2014 n. 2).
---------------
Di particolare interesse sono gli
argomenti trattati di seguito indicati:
►
2.3.1 I vincoli sostanziali al conferimento degli incarichi
professionali o di collaborazione
►
2.3.2 La nuova disciplina degli incarichi professionali
esterni affidati a dipendenti pubblici
►
2.3.3 I vincoli finanziari al conferimento degli incarichi
professionali o di collaborazione
...
►
2.3.5 I vincoli finanziari alle spese relative a relazioni
pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza
...
►
2.4 Gli obblighi di pubblicità preventiva e successiva
...
►
2.4.1 La pubblicità preventiva
►
2.4.2 La pubblicità successiva
...
►
2.5 Gli orientamenti giurisprudenziali in materia di
incarichi di studio e di consulenza |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Il danno erariale desumibile da procedure di
verticalizzazioni (da D1 a D3) non conformi alla normativa e al contratto.
La procedura disposta per attuare la progressione
verticale in argomento è avvenuta in violazione dell’art. 4
CCNL Enti Locali del 31.03.1999 che prevede, ove ricorrano
posti vacanti all’interno della dotazione organica,
procedure selettive.
La progressione (“verticale” ai sensi dell’art. 4 CCNL Enti
Locali 31.03.1999) infatti è avvenuta nel mancato rispetto
dei presupposti normativi ed ha consentito la “liberazione”,
all’interno del Fondo di produttività, di risorse destinate
a remunerare anche altri istituti, a beneficio di altri
dipendenti comunali e di alcuni degli stessi riqualificati
cui veniva riconosciuta, oltre al superiore inquadramento
giuridico, un’ulteriore fascia economica.
Il passaggio di qualifica è avvenuto, inoltre, in
mancanza di una effettiva procedura selettiva, come
prescritto, invece, dal richiamato art. 4 del CCNL Enti
locali 31.03.1999 e dalle norme che regolano la materia
dell’accesso al pubblico impiego, per garantire anche
l’accesso ai concorrenti esterni.
---------------
Da quanto sopra esposto consegue ad avviso del Collegio la
responsabilità degli Amministratori e del Segretario
comunale per la vicenda in esame, ricorrendo tutti i
presupposti per una affermazione di responsabilità: il
danno, il rapporto di servizio, il nesso causale, la colpa
grave.
In particolare, per quanto attiene al Sindaco ed ai
componenti della Giunta, il carattere gravemente colposo del
loro comportamento emerge in maniera evidente dalla stessa
sequenza degli atti adottati, diretti inequivocabilmente a
liberare somme dal fondo di produttività, ponendole a carico
del bilancio, con conseguente maggior onere complessivo per
l’Ente.
Anche il comportamento del Segretario comunale è
parimenti connotato da grave colpevolezza, in quanto,
presente, tra l’altro, alla seduta dell’11.04.2006 nella
quale è stata adottata la più volte richiamata deliberazione
di Giunta n. 56, non risulta in alcun modo aver fatto
rilevare le illegittimità della decisione in corso di
adozione, ed il suo conseguente carattere dannoso, come
invece sarebbe stato suo dovere, nell’ambito del rapporto di
collaborazione con l’Organo politico i cui contenuti sono
delineati dalla consolidata giurisprudenza della Corte dei
conti.
Quanto alla sig.ra R.R., il Collegio rileva che
non solo nella sua qualità di Responsabile
dell’Area amministrativa ed AA.GG. ha espresso il parere di
regolarità tecnica in ordine alla predetta delibera 56 del
2006 ed ha adottato successivamente la determinazione
17.05.2006 n. 36, con cui è stata eseguita la delibera
stessa, ma in precedenza in quanto componente della
delegazione trattante di parte pubblica a più riprese aveva
esaminato la questione della trasformazione in inquadramento
giuridico dell’inquadramento economico D3. Anche nei suoi
confronti, pertanto, il Collegio ritiene sussistente quella
colpa grave che costituisce presupposto per l’affermazione
della responsabilità.
---------------
Come già esposto in narrativa nel 2009 la Giunta Comunale
pro-tempore del Comune di San Vittore Olona ha disposto una
serie di controlli e verifiche su deliberazioni assunte dai
precedenti amministratori, in materia di personale, in
particolare sulla delibera di giunta n. 56/2006 avente ad
oggetto “Progetto di valorizzazione risorse umane”,
riguardo alla quale nella relazione predisposta dalla
Segretaria comunale sono poste in evidenza diverse
illegittimità da cui derivano effetti dannosi.
Con riferimento a tale relazione, i profili censurati
dall’Inquirente riguardano sostanzialmente il passaggio
dalla categoria D1 alla categoria D3, che viene a
configurare una progressione verticale, e il passaggio alla
superiore posizione giuridica in assenza dei relativi posti
in organico e di una vera e propria procedura selettiva.
L’importo del danno è stato quantificato in €. 121.924,03
complessivi da addebitare per il 70% del danno contestato in
parti uguali ai componenti della Giunta e cioè €. 14.224,48
ciascuno a B., M., V., R., G. e T..
Il 15% del danno pari a €. 18.288,60, è stato addebitato
alla signora R., e un ulteriore 10% pari a €. 12.192,403 ai
componenti del Nucleo di valutazione signori B. ed A. (la
parte addebitata a CONTE non risulta perseguibile per
l’intervenuta scomparsa del medesimo). Il restante 5%
dell’importo contestato pari a €. 6.096,20, infine a M..
Il Collegio osserva che la procedura disposta per attuare
la progressione verticale in argomento è avvenuta in
violazione dell’art. 4 CCNL Enti Locali del 31.03.1999 che
prevede, ove ricorrano posti vacanti all’interno della
dotazione organica, procedure selettive.
La progressione (“verticale” ai sensi dell’art. 4
CCNL Enti Locali 31.03.1999) infatti è avvenuta nel mancato
rispetto dei presupposti normativi ed ha consentito la “liberazione”,
all’interno del Fondo di produttività, di risorse destinate
a remunerare anche altri istituti, a beneficio di altri
dipendenti comunali e di alcuni degli stessi riqualificati
cui veniva riconosciuta, oltre al superiore inquadramento
giuridico, un’ulteriore fascia economica.
Nel caso in esame la modifica della pianta organica, con la
previsione dei n. 6 nuovi posti di D3 giuridico, è avvenuta,
infatti, solo con delibera giuntale n. 129 del 05.09.2006,
approvata successivamente alla delibera n. 56
dell’11.04.2006, ed alla convalida della riqualificazione
del Nucleo di valutazione dell’11.05.2006, nonché alla
determina dirigenziale n. 16 del 17.05.2006.
Con la delibera n. 56/2006, la Giunta comunale non ha
provveduto a modificare l’assetto della pianta organica
dell’ente delineata dalla delibera 209/2000 ma si è limitata
a disporre la soppressione, con effetti differiti al termine
della procedura di riqualificazione, dei posti vacanti (che,
come evidenziato dalla tabella allegata alla stessa
delibera, erano quelli di categoria C). Si condivide sul
punto quanto rappresentato dalla Procura regionale che non
corrisponde al vero, pertanto, quanto affermato nelle
proprie deduzioni dai convenuti circa la previsione delle
nuove posizioni funzionali già con la delibera n. 56/2006 .
L’art. 5, comma 7, del D.C.P.M. 15.02.2006, con riguardo ai
limiti concernenti la rideterminazione della dotazione
organica e le assunzioni a tempo indeterminato, prevedeva,
poi, che i Comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti
(come San Vittore Olona) potessero procedere a nuove
assunzioni nel limite del 25% delle cessazioni dal servizio
verificatesi nel triennio 2004-2006 (esclusa la mobilità).
Per prevedere in pianta organica i posti di cui si discute
almeno 24 dipendenti avrebbero dovuto cessare dal servizio.
Il passaggio di qualifica è avvenuto, inoltre, in
mancanza di una effettiva procedura selettiva, come
prescritto, invece, dal richiamato art. 4 del CCNL Enti
locali 31.03.1999 e dalle norme che regolano la materia
dell’accesso al pubblico impiego, per garantire anche
l’accesso ai concorrenti esterni.
Come evidenziato dall’Inquirente dopo che la delibera
giuntale n. 56/2006, riconfermando la volontà espressa
dall’Amministrazione in sede di contrattazione decentrata di
riconoscimento dell’inquadramento giuridico D3 ai dipendenti
già collocati in posizione economica D3 (vedasi, in
particolare, i verbali del 17.10.2005 e del 03.11.2005), ha
disposto la “riclassificazione” dei posti interessati
in cat. D3 giuridico, la relativa copertura è avvenuta sulla
base della “convalida” ad opera del Nucleo di
valutazione, quale risulta dalla sintetica nota 11.05.2006,
comunque in violazione di quanto previsto dall’art. 28
Regolamento degli uffici e dei servizi del Comune per la
formazione della Commissione esaminatrice.
La progressione giuridica è stata riconosciuta a far data
dal 01.01.2006, nonostante la delibera giuntale n. 56 sia
datata 11.04.2006 e l’atto di “convalida” (a firma
della responsabile dell’Area Amministrativa Affari Generali,
sig. R., partecipante alla procedura) sia intervenuto solo
il 17.05.2006.
Gli Amministratori in più occasioni hanno ribadito l’assenza
di danno e l’utilità conseguita.
Come si evince da tutti gli atti di causa ed in particolare
dalla denuncia della Segretaria M.N. e dalla delibera n.
109/2010 il danno all’Ente invece sussiste ed è pari alla
differenza tra il compenso spettante alla Cat. D1 e quella
spettante alla Cat. D3 giuridica, legato alle maggiori somme
indebitamente erogate ai dipendenti sotto forma di salario
accessorio e degli oneri riflessi –CPDEL IRAP INAIL INADEL-
attinte al Fondo di produttività di cui si è già detto,
depurato dai costi ad esso afferenti in relazione ai
compensi dei dipendenti promossi (per un costo complessivo,
dal 2006 al 2010, di € 121.924,03).
Il Collegio rileva inoltre che, quanto all’utilità
conseguita in seguito alla valorizzazione del personale
suddetto, solo in sede di audizione personale, come risulta
dal relativo verbale, il sindaco B. si è soffermato
specificamente su questo aspetto della valorizzazione del
personale, limitandosi a rappresentare che tale progetto “ha
permesso di recuperare la disponibilità del personale a
svolgere, i compiti assegnati dall’Amministrazione e
l’ultimazione della fase preliminare all’introduzione del
controllo di gestione” senza fornire alcuna prova di
questa aumentata produttività; quando invece risulta che gli
impiegati promossi hanno continuato a svolgere esattamente
le stesse mansioni che svolgevano in precedenza senza
aggravio di funzioni e responsabilità.
Da quanto sopra esposto consegue ad avviso del Collegio
la responsabilità degli Amministratori e del Segretario
comunale per la vicenda in esame, ricorrendo tutti i
presupposti per una affermazione di responsabilità: il
danno, il rapporto di servizio, il nesso causale, la colpa
grave.
In particolare, per quanto attiene al Sindaco B. ed ai
componenti della Giunta M., V., R., G. e T., il carattere
gravemente colposo del loro comportamento emerge in maniera
evidente dalla stessa sequenza degli atti adottati, diretti
inequivocabilmente –come emerge dalla nota-denunzia del
Comune 23.12.2009 n. 13675 e meglio da quelle successive
16.06.2011 n. 6191 e 24.06.2011 n. 4910– a liberare somme
dal fondo di produttività, ponendole a carico del bilancio,
con conseguente maggior onere complessivo per l’Ente, ciò
che del resto risulta anche dagli atti indicati dalla
Procura regionale nell’atto di citazione (cfr. pagg. 4 e
5).
Anche il comportamento del Segretario comunale M. è
parimenti connotato da grave colpevolezza, in quanto,
presente, tra l’altro, alla seduta dell’11.04.2006 nella
quale è stata adottata la più volte richiamata deliberazione
di Giunta n. 56, non risulta in alcun modo aver fatto
rilevare le illegittimità della decisione in corso di
adozione, ed il suo conseguente carattere dannoso, come
invece sarebbe stato suo dovere, nell’ambito del rapporto di
collaborazione con l’Organo politico i cui contenuti sono
delineati dalla consolidata giurisprudenza della Corte dei
conti.
Quanto alla sig.ra R.R., il Collegio rileva
che –come posto in
rilievo nell’atto di citazione– non solo
nella sua qualità di Responsabile dell’Area amministrativa
ed AA.GG. ha espresso il parere di regolarità tecnica in
ordine alla predetta delibera 56 del 2006 ed ha adottato
successivamente la determinazione 17.05.2006 n. 36, con cui
è stata eseguita la delibera stessa, ma in precedenza in
quanto componente della delegazione trattante di parte
pubblica a più riprese aveva esaminato la questione della
trasformazione in inquadramento giuridico dell’inquadramento
economico D3. Anche nei suoi confronti, pertanto, il
Collegio ritiene sussistente quella colpa grave che
costituisce presupposto per l’affermazione della
responsabilità
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia,
sentenza 21.01.2014 n. 9). |
APPALTI SERVIZI:
Opere e servizi pubblici o di pubblico interesse - Contratti
di partenariato pubblico privato - Spesa di indebitamento e
spesa di investimento - Criteri Eurostat - Rischi
concretamente assunti dalle parti - Sussistenza e
contabilizzazione.
Nel contratto di partenariato pubblico privato almeno due
dei tre rischi indicati dall’Eurostat devono essere
“effettivamente” assunti dal privato.
Con la decisione in rassegna un sindaco pugliese ha chiesto
alla Corte dei conti un parere avente a oggetto la
possibilità di affidare, previa una regolare gara, l’intero
servizio d’illuminazione pubblica e la relativa manutenzione
della rete a un soggetto privato a fronte del pagamento di
un canone annuale che il comune dovrebbe versare per dieci
anni all’aggiudicatario e come debba essere contabilizzata
tale operazione.
In base a quanto prospettato dall’amministrazione locale,
risulterebbero a carico del vincitore della gara i costi
immediati di ammodernamento degli impianti e tutte le spese
per la manutenzione e l’erogazione del servizio di energia
elettrica.
Il progetto esposto dall’ente locale potrebbe configurare a
parere della Corte un’ipotesi di partenariato pubblico
privato (“publicprivate partnership” od anche “Ppp”)
riconducibile all’art. 3, comma 15-ter, del Dlgs n.
163/2006. In base a tale norma, alle operazioni di
partenariato pubblico privato si applicano i contenuti delle
decisioni Eurostat.
L’art. 14, comma 1, lett. c), del Dpr n. 207/2010
(Regolamento di esecuzione e attuazione del codice dei
contratti pubblici) in ordine al ricorso ai Ppp prevede un
apposito studio di fattibilità composto da una relazione
illustrativa del progetto.
Il legislatore è intervenuto più volte nel corso degli
ultimi anni sulle fattispecie contrattuali ascrivibili ai
Ppp, sia per la possibilità di integrare le competenze del
settore pubblico con quello privato, sia in considerazione
delle ridotte risorse finanziarie a disposizione delle
stazioni appaltanti.
Ai fini della riconduzione di una determinata operazione
nell’alveo dei Ppp risulta necessario strutturare il
contratto in modo tale che i rischi vengano allocati alla
parte che sia meglio in grado di controllarli (cfr. Autorità
di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e
forniture, determinazione n. 4, del 22.05.2013).
Ai fini di tale esame occorre fare riferimento ai criteri
contenuti nelle decisioni Eurostat e in particolare alla
decisione “Treatment of publicprivate partnership”
dell’11.02.2004, con la quale sono state fornite indicazioni
specifiche per il trattamento nei conti economici nazionali
per i Ppp.
Secondo la decisione dell’Eurostat tali
tipologie di partenariato devono essere caratterizzate da un
rapporto contrattuale di lungo periodo tra pubblico e
privato, avente a oggetto la costruzione di una nuova
infrastruttura o la ristrutturazione di una già esistente.
L’opera deve riguardare i settori in cui la pubblica
amministrazione possiede un forte interesse pubblico, ovvero
deve essere l’acquirente principale dei servizi. I beni
oggetto di tali operazioni non devono essere registrati nei
conti delle pubbliche amministrazioni ai fini del calcolo
dell’indebitamento netto e del debito soltanto se vi è un
sostanziale trasferimento di rischio dalla parte pubblica a
quella privata, ovvero circostanza che si ha nel caso in cui
il soggetto privato assuma il rischio di costruzione e
almeno uno dei due rischi di disponibilità o di domanda.
Il rischio di disponibilità attiene alla fase
operativa ed è connesso a una scadente o insufficiente
gestione dell’opera pubblica a seguito della quale la
qualità e/o quantità del servizio reso risultano inferiori
ai livelli previsti nell’accordo contrattuale. Pertanto,
affinché il rischio sia effettivamente trasferito sul
privato è necessario che i pagamenti pubblici siano
correlati all’effettivo ottenimento del servizio reso e la
possibilità per il soggetto pubblico di ridurre i propri
pagamenti nel caso in cui i parametri stabiliti ex ante
non siano effettivamente raggiunti. La previsione di
pagamenti costanti indipendentemente dal volume e dalla
qualità dei servizi erogati implica, viceversa,
un’assunzione di rischio di disponibilità da parte del
soggetto pubblico.
Il rischio di domanda invece deve essere considerato
come quello connesso alla variabilità della stessa, non
dipendente dalla qualità del servizio prestato. Il rischio
si considera assunto dal privato qualora i pagamenti
pubblici siano correlati all’effettiva quantità domandata
dall’utenza per un dato servizio, mentre è assunto dal
soggetto pubblico nel caso di pagamenti garantiti anche per
prestazioni non erogate. Tale è peraltro il rischio tipico
delle “opere calde”, ovvero le opere o i servizi
pubblici capaci di produrre flussi di cassa derivanti dal
pagamento da parte di altri utenti di un canone o di una
tariffa legati alla gestione economica della stessa opera.
La nuova versione del SEC ’95, pubblicata dall’Eurostat
nell’ottobre del 2012, individua le differenti forme di
finanziamento pubblico. Fra le stesse, qualora il costo del
capitale è prevalentemente coperto dalla pubblica
amministrazione (in misura superiore al 50 per cento) la
maggioranza dei rischi è assunto dalla pubblica
amministrazione e l’asset deve essere contabilizzato “on
balance”.
Anche le garanzie, ove assicurino l’integrale copertura del
debito o un rendimento certo del capitale investito dal
privato e unitamente al contributo pubblico superino il 50
per cento del costo dell’opera, determinano la
contabilizzazione dell’asset “on balance”, così come
anche qualora si concordi un prezzo che l’amministrazione
dovrà pagare alla scadenza del contratto superiore al valore
di mercato, o inferiore perché la stessa ha già pagato ex
ante per l’acquisizione.
Il trattamento contabile delle forme pure di Ppp consente
quindi di non considerarle (almeno astrattamente) quali
forme di indebitamento, anche se l’ampio margine lasciato
all’autonomia negoziale può rendere difficoltoso profilare
una ripartizione di rischi coerente con lo schema delineato
nella decisione Eurostat e, pertanto, il corretto
inquadramento di ciascuna di tali operazioni deve scaturire
da una valutazione delle singole fattispecie (cfr. Corte dei
conti, sez. riunite, deliberazione n. 6/2013 del 23 maggio,
con cui è stato approvato il Rapporto 2013 sul coordinamento
della finanza pubblica).
Tra le diverse forme di Ppp deve essere ricompreso anche
l’appalto di servizi con finanziamento tramite terzi (Ftt)
definito dall’art. 2, comma 1, lett. m), del Dlgs n.
115/2008, recante l’attuazione della direttiva 2006/32/Ce
relativa all’efficienza degli usi finali dell’energia e i
servizi energetici. La nozione di indebitamento può essere
ricavata dalla legislazione vigente all’art. 3, comma 17,
della legge n. 350/2003. La nozione di investimento è invece
data dal successivo diciottesimo comma.
La Corte costituzionale ha precisato altresì che la nozione
di spesa di investimento non può essere determinata a
priori, e in modo assolutamente univoco, sulla base della
sola disposizione costituzionale ma essa va desunta dai
principi della scienza economica e dalle regole di
contabilità.
Le definizioni di spesa di investimento e di indebitamento
offerte dal legislatore derivano da scelte di politica
economica e finanziaria effettuate in stretta correlazione
con i vincoli di carattere sovrannazionale, cui anche
l’Italia è assoggettata in forza dei Trattati europei e dei
criteri politico-economici e tecnici adottati dall’Unione
europea.
Poiché la normativa in materia di Ppp non prevede uno schema
rigido e ben definito, secondo anche l’orientamento già
espresso dalla stessa sezione della Corte dei conti con la
delibera n. 66 del 31 maggio 2012, il corretto
inquadramento dell’operazione di Ppp, anche ai fini
contabili di ciascuna operazione, non può che scaturire da
un’attenta valutazione, caso per caso, delle singole
fattispecie.
Gli enti pertanto nella redazione del capitolato
prestazionale del bando di gara e delle conseguenti clausole
contrattuali dovranno ben valutare le categorie di rischio
onde fissare in maniera certa, trasparente e conforme ai
criteri elaborati in sede europea la distribuzione dei
rischi e dei rendimenti sottostanti il contratto di
partenariato pubblico privato.
Secondo la decisione Eurostat, affinché l’operazione possa
essere considerata “off balance” rispetto ai tre
rischi di costruzione, di domanda e di disponibilità, almeno
due (normalmente quelli di costruzione e di domanda negli
interventi relativi alla realizzazione di opere pubbliche)
devono pienamente sussistere a carico del privato in senso
sostanziale e non solo formale.
Diversamente, l’operazione non ha realmente la natura di
partenariato con utilizzo di risorse private ma, di fatto,
rientra nella piena disponibilità e rischio dell’ente
pubblico.
In assenza di tali condizioni quindi, l’operazione
contrattuale non può essere considerata un Ppp e, dovendo
essere inserita nel calcolo del disavanzo e del debito
nazionale, analogamente deve essere qualificata come
operazione di indebitamento dell’ente territoriale.
Ove non sussistano i requisiti sopra indicati, l’assunzione
dell’obbligo del pagamento di un canone rientra quindi, a
pieno titolo, nella nozione di indebitamento (cfr., sez.
riunite, delib. n. 49/CONTR/2011 del 16.09.2011).
Qualora pertanto lo schema contrattuale possegga solo il
nomen o gli aspetti meramente formali di un Ppp ma
integri di fatto una vera e propria forma di finanziamento,
il canone versato dall’ente locale dovrà essere allocato al
titolo III, tra le spese per rimborso prestiti, per la quota
afferente le opere di manutenzione straordinaria, mentre
dovranno essere allocate al titolo I, tra la spesa corrente,
le restanti quote del canone inerenti alla spesa per i
consumi di energia elettrica e per manutenzione ordinaria.
L’ente dovrà altresì tenere conto del fatto che i contratti
di servizi o gli altri aspetti posti in essere dalle regioni
e dagli altri enti locali che si configurano elusivi del
Patto di stabilità interno sono nulli (Corte dei Conti, Sez.
controllo Puglia,
parere 31.10.2013 n. 161 - commento tratto da
Diritto e Pratica Amministrativa n. 1/2014). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
Enti locali - Limiti alle transazioni degli enti pubblici -
Disponibilità dei diritti oggetto della transazione -
Discrezionalità amministrativa - Necessità di reciproche
concessioni ai fini della sussistenza di una transazione -
Potere sanzionatorio e misure afflittive.
È escluso che possano concludersi accordi transattivi con la
parte privata destinataria degli interventi sanzionatori
dell’amministrazione.
La Corte dei conti, sez. reg. controllo per il Piemonte, ha
avuto modo di evidenziare i limiti a cui gli enti pubblici
devono attenersi qualora decidano di fare ricorso a una
transazione nei rapporti con i privati.
La Corte ha preliminarmente respinto la richiesta di parere
con la quale veniva richiesto da parte di un comune
piemontese se poteva ritenersi legittima una transazione
avente a oggetto la rinuncia parziale del credito vantato
dall’ente nei confronti di un privato, derivante
dall’applicazione di una sanzione per un abuso edilizio, ex
art. 34, comma 2, Dpr n. 380/2001.
Invero, in base ai principi consolidati e più volte espressi
dalla Corte dei conti, la richiesta di parere non può essere
rivolta a ottenere indicazioni specifiche per l’attività
gestionale concreta. Diversamente, l’attività consultiva si
risolverebbe di fatto in una sorta di coamministrazione.
Tuttavia, pur dichiarando la richiesta di parere
inammissibile la Corte piemontese, in un’ottica
collaborativa, ha comunque evidenziato i limiti a cui gli
enti pubblici devono attenersi ove decidano di effettuare
una transazione. Partendo dalla premessa che, di norma,
anche gli enti pubblici possono transigere le controversie
delle quali siano parte, ex art. 1965 c.c., sono stati posti
in luce i seguenti principi:
I) qualora una parte della transazione sia
un ente pubblico, quest’ultimo oltre ai limiti previsti per
ogni soggetto dell’ordinamento giuridico (legittimazione
soggettiva e disponibilità dell’oggetto), soggiace anche
agli specifici limiti derivanti dal diritto pubblico e,
pertanto, i negozi giuridici conclusi con i privati non
possono condizionare l’esercizio del potere della pubblica
amministrazione sia rispetto all’interesse dell’intera
comunità che alla tutela delle posizioni soggettive dei
terzi, secondo il principio di imparzialità che deve
caratterizzare l’azione amministrativa;
II) la scelta se proseguire un giudizio o addivenire a una
transazione (e la concreta delimitazione del relativo
oggetto) spetta all’amministrazione nell’ambito dello
svolgimento della ordinaria attività amministrativa e, quale
scelta discrezionale, non è soggetta al sindacato
giurisdizionale, salvo i limiti della rispondenza della
scelta ai criteri di razionalità, congruità, e prudente
apprezzamento ai quali deve ispirarsi l’azione della
pubblica amministrazione. Tra gli elementi che l’ente deve
considerare alla base di tale scelta risulta di primaria
importanza (ma non essenziale) la convenienza economica
della transazione, in relazione all’incertezza del giudizio,
ovvero in riferimento alla natura delle pretese, alla
chiarezza della situazione normativa ed agli eventuali
orientamenti giurisprudenziali;
III) ai fini dell’ammissibilità della transazione è
necessaria l’esistenza di una controversia giuridica (e non
di un mero conflitto economico) che sussiste quando vengano
a contrapporsi pretese configgenti di cui non sia possibile
a priori stabilire quale delle stesse sia giuridicamente
fondata;
IV) la transazione è valida solo se ha a oggetto diritti
disponibili ex art. 1966, comma 2, c.c., ovvero quando le
parti hanno il potere di estinguere il diritto in forma
negoziale. Diversamente, la stessa deve considerarsi nulla.
In riferimento allo specifico caso esposto dal comune
piemontese, secondo la Corte il potere sanzionatorio
dell’amministrazione e le misure afflittive che ne sono
l’espressione, possono farsi rientrare nel novero delle
potestà e dei diritti indisponibili, in relazione ai quali è
escluso che possano concludersi accordi transattivi con la
parte privata destinataria degli interventi sanzionatori
(Cfr. sez. controllo Lombardia, parere n. 1116 del
18.12.2009) (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 26.09.2013 n. 344 - commento tratto da
Diritto e Pratica Amministrativa n. 11-12/2013). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: La
responsabilità precontrattuale prescinde dall’eventuale
illegittimità del provvedimento amministrativo di autotutela
che formalizza la volontà dell’Amministrazione di annullare
o revocare gli atti di gara. La responsabilità
precontrattuale non discende infatti dalla violazione delle
norme di diritto pubblico che disciplinano l’agire
autoritativo della pubblica amministrazione e dalla cui
violazione discende l’illegittimità dell’atto.
Essa, al contrario, deriva dalla violazione delle regole
comuni (in particolare del principio generale di buona fede
in senso oggettivo dell’art. 1337 Cod. civ..) che trattano
del “comportamento” precontrattuale, ponendo in capo alla
pubblica amministrazione doveri di correttezza e di buona
fede analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel
corso delle trattative precontrattuali.
Invero, nello svolgimento della sua attività di ricerca del
contraente l’Amministrazione è tenuta non soltanto a
rispettare le norme dettate nell’interesse pubblico (la cui
violazione implica l’annullamento del provvedimento ed una
eventuale responsabilità da attività provvedimentale
illegittima), ma anche le norme generali sulla correttezza
di cui all’art. 1337 Cod. civ. prescritte dal diritto comune
(la violazione delle quali fa nascere appunto la
responsabilità precontrattuale).
Il Collegio condivide, a tale riguardo, il
principio giurisprudenziale secondo il quale “la
responsabilità precontrattuale prescinde dall’eventuale
illegittimità del provvedimento amministrativo di autotutela
che formalizza la volontà dell’Amministrazione di annullare
o revocare gli atti di gara. La responsabilità
precontrattuale non discende infatti dalla violazione delle
norme di diritto pubblico che disciplinano l’agire autoritativo della pubblica amministrazione e dalla cui
violazione discende l’illegittimità dell’atto. Essa, al
contrario, deriva dalla violazione delle regole comuni (in
particolare del principio generale di buona fede in senso
oggettivo dell’art. 1337 Cod. civ..) che trattano del
“comportamento” precontrattuale, ponendo in capo alla
pubblica amministrazione doveri di correttezza e di buona
fede analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel
corso delle trattative precontrattuali. Invero, nello
svolgimento della sua attività di ricerca del contraente
l’Amministrazione è tenuta non soltanto a rispettare le
norme dettate nell’interesse pubblico (la cui violazione
implica l’annullamento del provvedimento ed una eventuale
responsabilità da attività provvedimentale illegittima), ma
anche le norme generali sulla correttezza di cui all’art.
1337 Cod. civ. prescritte dal diritto comune (la violazione
delle quali fa nascere appunto la responsabilità
precontrattuale)” (cfr., in questi termini, Consiglio di
Stato, Sez. VI, sentenza 01.02.2013, n. 633, e Cons. Stato,
Ad. Plen., 05.09.2005, n. 6)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 31.01.2014 n. 361 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I regolamenti edilizi comunali possono stabilire distanze
tra edifici o dal confine, maggiori (e non minori) da quelle
stabilite dal codice civile.
In tema di distanze legali fra edifici,
mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme
del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale,
di rifinitura od accessoria di limitata entità, come la
mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili,
rientrano nel concetto civilistico di "costruzione" le parti
dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d.
"aggettanti") che, seppure non corrispondono a volumi
abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare
la consistenza del fabbricato.
D'altra parte, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ.,
la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge
statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia
pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla
normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella
seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola
facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza
maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella
codicistica.
---------------
2. - La censura,
nella sua duplice articolazione, risulta in parte
inammissibile, in parte priva di fondamento.
2.1. - Deve, anzitutto, osservarsi, quanto al primo quesito,
che esso risulta del tutto inconferente -e la relativa
doglianza, di conseguenza, inammissibile- non trattandosi,
nella specie, di porre in discussione in via generale
l'applicabilità della normativa di cui al Regolamento
Edilizio, ma, come esattamente rilevato nel controricorso,
ove, appunto, viene sollevata eccezione di inammissibilità,
di determinare il criterio applicativo dell'art. 873 cod.
civ. alla luce dell'art. 101 del predetto Regolamento.
2.2. - La norma citata esclude l'obbligo di rispetto delle
distanze per gli aggetti senza sovrastanti corpi chiusi,
cioè, evidentemente, aggetti aventi funzione esclusivamente
ornamentale.
Al riguardo, questa Corte ha chiarito che in tema di
distanze legali fra edifici, mentre non sono a tal fine
computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano
funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria
di limitata entità, come la mensole, le lesene, i
cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto
civilistico di "costruzione" le parti dell'edificio,
quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. "aggettanti")
che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti,
sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del
fabbricato.
D'altra parte, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ.,
la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge
statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia
pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla
normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella
seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola
facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza
maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella
codicistica (v. Cass., sent. n. 1556 del 2005).
Nella specie, la Corte di merito ha escluso, attraverso una
indagine di fatto, che la terrazza costituisca un aggetto
sottratto alla disciplina in materia di distanze, rilevando
che essa è costituita da un piano di calpestio, da un
parapetto in muratura e da una stabile copertura
sovrastante, che concorrevano alla creazione di un volume, e
che, quindi, essendo posta ad una distanza dal confine
inferiore ai cinque metri, come rilevato in sede di c.t.u.,
è soggetta al rispetto delle distanze. Ne deriva la
infondatezza della censura sotto il profilo dell'art. 873
cod.civ.
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 30.01.2014 n. 2094 - link a
www.avvocatocassazionista.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
giurisprudenza costante, in considerazione della natura
vincolata del potere di repressione degli abusi edilizi,
l’omessa comunicazione di avvio del procedimento non
invalida l’ordinanza di demolizione.
---------------
La creazione di un deposito di materiali inerti in area
agricola integra un abusivo mutamento della destinazione del
terreno, comportando una trasformazione permanente del suolo
inedificato, assoggettata a concessione edilizia
A questi fini va affermata l’infondatezza del
ricorso per le seguenti ragioni:
- per giurisprudenza costante, in considerazione della
natura vincolata del potere di repressione degli abusi
edilizi, l’omessa comunicazione di avvio del procedimento
non invalida l’ordinanza di demolizione (Cons. Stato, sez.
IV, 26.09.2008 , n. 4659; TAR Puglia Lecce, sez. III, 20.09.2008, n. 2651);
- la creazione di un deposito di materiali inerti in area
agricola integra un abusivo mutamento della destinazione del
terreno, comportando una trasformazione permanente del suolo
inedificato, assoggettata a concessione edilizia
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.01.2014 n. 303 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
mancata impugnazione del diniego di accesso nel termine di
decadenza, anche in ipotesi di silenzio-rigetto della
relativa istanza, non consente la reiterazione dell'istanza
di ostensione e la conseguente impugnazione del diniego
meramente confermativo del precedente.
L'eccezione di inammissibilità del ricorso
è fondata.
Con l'istanza del 01.08.2013, il ricorrente ha reiterato
la richiesta di accesso agli elaborati grafici relativi ad
alcune pratiche edilizie intestate ad Augusta s.p.a. già
formulata con le precedenti istanze del 22.11.2012,
del 09.01.2013, del 12.03.2013 e del 21.05.2013,
riscontrate dall’amministrazione, rispettivamente, con
provvedimenti del 02.01.2012, del 16.01.2013, del 09.04.2013 e del 30.05.2013.
Come chiarito dalla giurisprudenza, la mancata impugnazione
del diniego di accesso nel termine di decadenza, anche in
ipotesi di silenzio-rigetto della relativa istanza, non
consente la reiterazione dell'istanza di ostensione e la
conseguente impugnazione del diniego meramente confermativo
del precedente (Consiglio di Stato, Ad. Pl., n. 6 del 2006;
Consiglio di Stato, sez. 4^, n. 3403 del 2011)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.01.2014 n. 300 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte urbanistiche compiute dall’autorità amministrativa
costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato
giurisdizionale di legittimità, salvo che esse risultino
inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità ovvero
che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree,
esse risultino confliggenti con particolari situazioni che
abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate.
Sicché, ritiene il Collegio che l’allocazione di un
parcheggio su un’area prospiciente una via non
particolarmente trafficata non costituisca, a differenza di
quanto sostenuto dai ricorrenti, scelta palesemente
irrazionale. Pertanto, non è condivisibile la doglianza che
lamenta l’irrazionalità della localizzazione effettuata dal
PGT.
Per costante giurisprudenza, le scelte
urbanistiche compiute dall’autorità amministrativa
costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato
giurisdizionale di legittimità, salvo che esse risultino
inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità ovvero
che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree,
esse risultino confliggenti con particolari situazioni che
abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate
(cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 25.11.2013 n. 5589).
Ritiene il Collegio che l’allocazione di un parcheggio
su un’area prospiciente una via non particolarmente
trafficata non costituisca, a differenza di quanto sostenuto
dai ricorrenti, scelta palesemente irrazionale. Pertanto non
è condivisibile la doglianza che lamenta l’irrazionalità
della localizzazione effettuata dal PGT
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 28.01.2014 n. 292 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Campeggio, ‘casa mobile’ ancorabile al suolo se per
un periodo provvisorio.
In un campeggio la struttura mobile agganciata al
suolo deve ritenersi abusiva soltanto quando l’aggancio non
è temporaneo.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.01.2014 n. 3572,
annullando un’ordinanza del tribunale di Lucca che disponeva
il sequestro preventivo di case mobili perché allacciate
alle reti idriche, elettriche e fognarie.
La norma
Spiega la Corte che ai sensi dell’articolo 3, comma 1,
lettera e), n. 5), del Dpr n. 380 del 2001, <<il reato di
costruzione edilizia abusiva è configurabile anche
nell’ipotesi di installazione di case mobili aventi una
destinazione duratura per soddisfare esigenze abitative>>.
L’assenza di fumus
Tuttavia <<l’ordinanza impugnata -si legge nella
sentenza- non dà conto delle modalità di ancoraggio delle
case mobili al suolo, omettendo, in particolare, di
specificare se tale ancoraggio abbia carattere temporaneo>>.
E questa è <<un’omissione decisiva ai fini della
sussistenza del fumus del reato>>, perché la
temporaneità dell’ancoraggio è espressamente ritenuta
determinante dalla legge regionale della Toscana n. 42 del
2000.
In particolare, l’articolo 29, comma 2, prevede che <<è
consentita, in non più del 40% delle piazzole di un
campeggio … l’installazione di strutture temporaneamente
ancorate al suolo per l’intero periodo di permanenza del
campeggio nell’area autorizzata>>.
L’allacciamento alla rete non prova
l’abusivismo
Mentre il fatto che le case mobili siano allacciate alle
reti dei servizi non è di per sé sufficiente a ritenere
configurabile il fumus dei reati contestati, <<perché
tale allacciamento ben potrebbe avere anch’esso carattere
temporaneo>>
(tratto
da www.diritto24.ilsole24ore.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quanto
all’ordine di demolizione conseguente –e contestuale- al
rigetto dell’istanza di condono, secondo consolidata
impostazione i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi
non devono essere preceduti dal suddetto avviso, trattandosi
di provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un
mero accertamento tecnico della consistenza delle opere
realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
È poi stato precisato che la violazione dell'obbligo di
comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce un
motivo idoneo a determinare l'annullabilità dei
provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in
quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo
abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo
del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato", sicché sussiste la condizione
prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del
1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento
impugnato.
Eguale sorte tocca al secondo mezzo, con
cui i ricorrenti denunciano l’omessa comunicazione di avvio
del procedimento.
Al riguardo si deve evidenziare, innanzitutto, che tale
comunicazione on era necessaria in relazione alla natura del
procedimento di condono, che inizia ad istanza di parte.
Peraltro, gli interessati hanno potuto interloquire con
l’Amministrazione a seguito del preavviso di diniego loro
indirizzato ai sensi dell’art. 10-bis L. 241/1990, cui essi
hanno contro dedotto con nota del 16.06.2010, di cui dà
atto, non smentito, l’atto impugnato.
Quanto all’ordine di demolizione conseguente –e
contestuale- al rigetto dell’istanza di condono, secondo
consolidata impostazione i provvedimenti repressivi degli
abusi edilizi non devono essere preceduti dal suddetto
avviso, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati
emessi all'esito di un mero accertamento tecnico della
consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo
delle medesime (Cons. Stato, sez. IV, 30.03.2000, n.
1814; TAR Campania, sez. IV, 28.03.2001, n. 1404, 14.06.2002, n. 3499, 12.02.2003, n. 797).
È poi stato precisato che la violazione dell'obbligo di
comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce un
motivo idoneo a determinare l'annullabilità dei
provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in
quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo
abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo
del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato", sicché sussiste la condizione
prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del
1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento
impugnato (Consiglio di stato, sez. IV, 15.05.2009, n. 3029)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 24.01.2014 n. 629 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di legittimazione all'impugnazione di
permesso di costruire si ritiene necessaria e sufficiente,
come posizione legittimante, la vicinitas, ossia la
dimostrazione di uno stabile collegamento materiale con la
zona coinvolta da un intervento edilizio in capo al
proprietario confinante.
Preliminarmente, va respinta
l’eccezione –opposta dalla contro interessata– di
inammissibilità del ricorso per carenza di interesse: i
ricorrenti sono soggetti che risiedono nelle immediate
vicinanze del parcheggio da costruire, e pertanto sono
senz’altro legittimati ad impugnare il permesso di costruire
medesimo.
Come ritenuto da costante giurisprudenza, “In
materia di legittimazione all'impugnazione di permesso di
costruire si ritiene necessaria e sufficiente, come
posizione legittimante, la vicinitas, ossia la dimostrazione
di uno stabile collegamento materiale con la zona coinvolta
da un intervento edilizio in capo al proprietario
confinante” (CdS, sez. IV, n. 3543/2013, tra le tante)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 24.01.2014 n. 628 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il provvedimento
amministrativo ha natura confermativa quando, senza
acquisizione di nuovi elementi di fatto e senza alcuna nuova
valutazione, tiene ferme le statuizioni in precedenza
adottate; viceversa, se viene condotta un'ulteriore
istruttoria, anche per la sola verifica dei fatti o con un
nuovo apprezzamento di essi, il mantenimento dell'assetto
degli interessi già disposto ha carattere di nuovo
provvedimento, poiché esprime un diverso esercizio del
medesimo potere.
E’ dunque necessario, affinché possa escludersi che un atto
sia meramente confermativo del precedente, che la sua
formulazione sia preceduta da un riesame della situazione
che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo
l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia
pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco ed
un nuovo esame degli elementi di fatto e diritto che
caratterizzano la fattispecie considerata, può dar luogo ad
un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di
dar vita ad un provvedimento diverso dal precedente e,
quindi, suscettibile di autonoma impugnazione.
In limine, si rammenta che il provvedimento
amministrativo ha natura confermativa quando, senza
acquisizione di nuovi elementi di fatto e senza alcuna nuova
valutazione, tiene ferme le statuizioni in precedenza
adottate; viceversa, se viene condotta un'ulteriore
istruttoria, anche per la sola verifica dei fatti o con un
nuovo apprezzamento di essi, il mantenimento dell'assetto
degli interessi già disposto ha carattere di nuovo
provvedimento, poiché esprime un diverso esercizio del
medesimo potere.
E’ dunque necessario, affinché possa escludersi che un atto
sia meramente confermativo del precedente, che la sua
formulazione sia preceduta da un riesame della situazione
che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo
l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia
pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco ed
un nuovo esame degli elementi di fatto e diritto che
caratterizzano la fattispecie considerata, può dar luogo ad
un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di
dar vita ad un provvedimento diverso dal precedente e,
quindi, suscettibile di autonoma impugnazione (ex multis,
Consiglio di Stato, Sez. V, 29.12.2009 n. 8853)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 24.01.2014 n. 617 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una
veranda, chiusa sui lati, costituisce una trasformazione
urbanistico-edilizia del preesistente manufatto idonea a
creare nuovo volume e perciò richiede il preventivo rilascio
del permesso di costruire.
Il Tribunale osserva, in contrario,
che l’assenza del duplice titolo, edilizio e paesistico,
necessario per l’edificazione in area vincolata, come,
appunto, è l’area interessata dall’intervento edilizio de
quo (cfr. motivazione dell’atto impugnato ove si richiama il d.m. 15.12.1959 in G.U.
06.05.1960 n. 110, che ha
dichiarato l’area di notevole interesse pubblico, e il
d.lgs. 22.01.2004 n. 42) costituisce presupposto
bastevole a reggere, sul piano motivazionale, l’atto
impugnato: l’intervento edilizio in contestazione ha,
infatti, determinato una immutatio loci in un territorio
protetto, non consentita –si ribadisce- senza il concorso
del titolo autorizzativo edilizio e di quello paesistico.
In
particolare, per quanto attiene alla tipologia edilizia in
esame, riconducibile ad un volume verandato sul terrazzo di
copertura di un preesistente edificio, è costante
l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “la
realizzazione di una veranda, chiusa sui lati, costituisce
una trasformazione urbanistico-edilizia del preesistente
manufatto idonea a creare nuovo volume e perciò richiede il
preventivo rilascio del permesso di costruire” (ex multis,
TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 22.08.2013, n. 4132; si
vedano anche TAR Campania, Napoli, sez. VI, nn. 1228/2012,
5223/2013, 5535/2013)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.01.2014 n. 611 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per costante orientamento:
- in primo luogo, l'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001
riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di
vigilanza e controllo su tutte le attività
urbanistico-edilizie del territorio, ivi comprese quelle
riguardanti immobili sottoposti a vincolo storico-artistico;
- in secondo luogo, «presupposto per l'adozione
dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la
constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza
del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di
una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato,
e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi»;
- in terzo luogo, gli atti di repressione degli abusi
edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata
(essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per
l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, secondo
l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario;
- in ultimo, l’avvenuta presentazione, in data successiva all’ordinanza di
demolizione, dell’istanza di accertamento di conformità ai
sensi dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001, quest’ultima non
determina l’effetto sospensivo del procedimento
sanzionatorio, previsto espressamente dal legislatore solo
in caso di presentazione della domanda di sanatoria edilizia
straordinaria (cd. condono, ex art. 44 l. 47/1985, norma
richiamata dalla l. n. 724/1994 e l. n. 32672003), e non
dispiega alcuna rilevanza ai fini dello scrutinio di
legittimità del provvedimento demolitorio.
---------------
Alla stregua
del proprio costante orientamento, il Tribunale osserva:
- in primo luogo, che l'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001
riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di
vigilanza e controllo su tutte le attività
urbanistico-edilizie del territorio, ivi comprese quelle
riguardanti immobili sottoposti a vincolo storico-artistico;
- in secondo luogo, che «presupposto per l'adozione
dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la
constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza
del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di
una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato,
e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi»
(cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.09.2012 n. 3951);
- in terzo luogo, che neppure è fondata la censura inerente
l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento: gli atti
di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e
strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione
dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione
del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro
adozione, secondo l’ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, non sono richiesti apporti partecipativi
del soggetto destinatario (cfr. ex multis, TAR Campania,
Napoli, sez. VIII, 23.02.2011 n. 1048);
- in ultimo, in relazione all’avvenuta presentazione il 30.06.2009, in data successiva all’ordinanza di
demolizione, dell’istanza di accertamento di conformità ai
sensi dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001, che quest’ultima non
determina l’effetto sospensivo del procedimento
sanzionatorio, previsto espressamente dal legislatore solo
in caso di presentazione della domanda di sanatoria edilizia
straordinaria (cd. condono, ex art. 44 l. 47/1985, norma
richiamata dalla l. n. 724/1994 e l. n. 32672003), e non
dispiega alcuna rilevanza ai fini dello scrutinio di
legittimità del provvedimento demolitorio, ciò non senza
evidenziare altresì che, allo stato degli atti, sull’istanza
in parola dovrebbe essersi formato il silenzio rigetto di
cui all’art. 13 l. 47/1985 (ora art. 36 D.P.R. n. 380/2001) e
non risulta esservi stata la relativa impugnazione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.01.2014 n. 611 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il riesame dell’abusività
dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36
D.P.R. 380/2001 determina la necessaria formazione di un
nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto espresso o
tacito, che vale comunque a rendere inefficace il
provvedimento sanzionatorio originario tanto che l’eventuale
impugnazione proposta avverso quest’ultimo atto diverrebbe
improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse perché
l’interesse del responsabile dell’abuso edilizio si sposta,
dall’annullamento del provvedimento sanzionatorio già
adottato e divenuto inefficace, all’annullamento
dell’eventuale provvedimento di rigetto della domanda di
sanatoria e degli eventuali ulteriori provvedimenti
sanzionatori, che dovranno essere comunque adottati anche a
seguito della formazione del silenzio rigetto.
... per l'annullamento del provvedimento del 09.07.2013 prot. n. 8513 avente ad oggetto: accertamento inottemperanza
all'ordinanza n. 18/2012 relativa al ripristino dello stato
dei luoghi adottata ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n.
380/2001 - acquisizione delle opere e dell'area
pertinenziale sita in Amorosi alla via Fontanelle;
...
Considerato che il ricorso è fondato per le ragioni di
seguito illustrate:
- ai sensi dell’art. 74 cod. proc. amm. il punto di diritto
risolutivo del giudizio attiene alla insussistenza dei
presupposti di legge affinché l’intimata amministrazione
locale potesse legittimamente procedere all’acquisizione
gratuita dell’opera abusiva ai sensi dell’art. 31 terzo
comma del D.P.R. 380/2001 che, come noto, consistono nella
mancata esecuzione di una ordinanza di demolizione valida ed
efficace, oltre che al decorso del termine di 90 giorni per
la relativa esecuzione;
- ciò in quanto, nella fattispecie in scrutinio, la
presentazione ad opera del ricorrente della domanda di
sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 relativamente alle
opere abusive determina la sopravvenuta inefficacia
dell’ordinanza demolitoria: ne consegue altresì che, sotto
il profilo processuale, non rileva l’omessa impugnazione
dell’atto sanzionatorio il quale, siccome inefficace, si
appalesa inidoneo a reggere la sequela procedimentale che è
culminata nell’adozione del gravato provvedimento
acquisitivo;
- formatosi il provvedimento tacito di diniego conseguente
al decorso del termine di 60 giorni di cui al terzo comma
dell’art. 36 in assenza di statuizione espressa
dell’amministrazione, quest’ultima avrebbe dovuto rieditare
il procedimento sanzionatorio ed adottare una nuova
ingiunzione demolitoria assegnando al privato un nuovo
termine per adempiere;
- difatti, secondo condivisibile orientamento
giurisprudenziale da cui la Sezione non ritiene di
discostarsi (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV,
02.10.2006 n. 8424; Sez. VI, 12 novembre 2008 n. 5646;
T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 23 febbraio 2011 n. 1041
e 22 marzo 2011 n. 1622; Sez. VII, 8 marzo 2012 n. 1202; 20
novembre 2007, n. 14442; Sez. IV 2 ottobre 2006, n. 8424 e
26 luglio 2007 n. 7071; Sez. III, 30 aprile 2009 n. 2252) il
riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di
sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 determina la necessaria
formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di
rigetto espresso o tacito, che vale comunque a rendere
inefficace il provvedimento sanzionatorio originario tanto
che l’eventuale impugnazione proposta avverso quest’ultimo
atto (che nel caso specifico non è stata proposta)
diverrebbe improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse perché l’interesse del responsabile dell’abuso
edilizio si sposta, dall’annullamento del provvedimento
sanzionatorio già adottato e divenuto inefficace,
all’annullamento dell’eventuale provvedimento di rigetto
della domanda di sanatoria e degli eventuali ulteriori
provvedimenti sanzionatori, che dovranno essere comunque
adottati anche a seguito della formazione del silenzio
rigetto.
Le considerazioni svolte conducono, con assorbimento delle
ulteriori doglianze, all’accoglimento del gravame con
conseguente annullamento del provvedimento impugnato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 24.01.2014 n. 608 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini paesistici il
divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini
della tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova
edificazione comportante creazione di volume, senza che sia
possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di
volume.
La nozione di volume rilevante ai fini paesaggistici non
distingue, infatti, secondo l’indirizzo interpretativo
richiamato, tra volumi esterni e volumi interrati, essendo
anche questi ultimi idonei a determinare una modificazione
del territorio e dell'assetto edilizio esistente, posto che
lo stesso volume che a fini edilizi, per le sue
caratteristiche, potrebbe non essere considerato rilevante e
non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili,
ad esempio perché ritenuto volume tecnico, ai fini
paesaggistici può assumere una diversa rilevanza, laddove si
ritenga che determini una possibile alterazione dello stato
dei luoghi salvaguardato dalle apposite norme di tutela, le
quali, al preordinato fine di conservare la sostanziale
integrità di determinati ambiti territoriali, ben possono
vietare anche la realizzazione di un volume edilizio tecnico
od interrato, quand'anche irrilevanti secondo le norme che
regolano l'attività edilizia.
---------------
Quanto alla lamentata disparità di trattamento di
trattamento rispetto ad altri interventi edilizi analoghi
assentiti dall’Amministrazione, il Tribunale rileva che la
valutazione del rilievo paesistico dell’opera va condotta
dall’autorità tutoria caso per caso, in considerazione della
consistenza e dell’ubicazione del singolo intervento da
assentire (cfr. in tal senso Cons. Stato n. 3557/2009: “non
può tradursi in vizio di legittimità del provvedimento di
annullamento di un'autorizzazione paesistica, la presenza,
nell'area interessata dall'intervento edilizio, di altre
costruzioni asseritamene omogenee a quella da assentire, sia
perché ogni manufatto è diverso per consistenza, ubicazione,
periodo di realizzazione, sia perché un pregresso
comportamento illegittimo dell'amministrazione non può
valere a sanare un'ulteriore illegittimità”).
... per l'annullamento del decreto della Soprintendenza per
i Beni Architettonici e Paesaggistici per Napoli e Provincia
del 16.04.2009, spedito per la notifica in data 27.04.2009,
con il quale è stato disposto l'annullamento del
provvedimento del Dirigente del Settore VI Urbanistica ed
Edilizia Privata del Comune di Capri n. 12 del 18.02.2009;
...
Il Tribunale osserva in contrario, richiamandosi
all’orientamento giurisprudenziale prevalente, che, ai fini
paesistici il divieto di incremento dei volumi esistenti,
imposto ai fini della tutela del paesaggio, preclude
qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di
volume, senza che sia possibile distinguere tra volume
tecnico ed altro tipo di volume.
La nozione di volume rilevante ai fini paesaggistici non
distingue, infatti, secondo l’indirizzo interpretativo
richiamato, tra volumi esterni e volumi interrati, essendo
anche questi ultimi idonei a determinare una modificazione
del territorio e dell'assetto edilizio esistente, posto che
lo stesso volume che a fini edilizi, per le sue
caratteristiche, potrebbe non essere considerato rilevante e
non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili,
ad esempio perché ritenuto volume tecnico, ai fini
paesaggistici può assumere una diversa rilevanza, laddove si
ritenga che determini una possibile alterazione dello stato
dei luoghi salvaguardato dalle apposite norme di tutela, le
quali, al preordinato fine di conservare la sostanziale
integrità di determinati ambiti territoriali, ben possono
vietare anche la realizzazione di un volume edilizio tecnico
od interrato, quand'anche irrilevanti secondo le norme che
regolano l'attività edilizia (in tal senso cfr. TAR
Campania, Napoli, sez. III, 21.12.2012, n. 5336; Id., VI, 23.10.2012, n. 4202; Id, IV, 29.05.2012 n.2529;
cfr. anche Cons. St., sez. IV, 28.03.2011 n. 1879; Tar
Campania, Salerno, sez. I, 11.10.2011 n. 1642).
Quanto, poi, alla lamentata disparità di trattamento di
trattamento rispetto ad altri interventi edilizi analoghi
assentiti dall’Amministrazione, il Tribunale rileva che la
valutazione del rilievo paesistico dell’opera va condotta
dall’autorità tutoria caso per caso, in considerazione della
consistenza e dell’ubicazione del singolo intervento da
assentire (cfr. in tal senso Cons. Stato, sez. VI, 09.06.2009 n. 3557: “non può tradursi in vizio di legittimità del
provvedimento di annullamento di un'autorizzazione
paesistica, la presenza, nell'area interessata
dall'intervento edilizio, di altre costruzioni asseritamene
omogenee a quella da assentire, sia perché ogni manufatto è
diverso per consistenza, ubicazione, periodo di
realizzazione, sia perché un pregresso comportamento
illegittimo dell'amministrazione non può valere a sanare
un'ulteriore illegittimità”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.01.2014 n. 607 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il privato sanzionato con
l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera
edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo
favore della disposizione oggi contenuta nell'art. 34 comma
2, d.P.R. n. 380 del 2001 se non fornisce seria ed idonea
dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e
sull'utilizzazione del bene residuo (con la precisazione che
l'applicazione della sanzione pecuniaria è innescata da
un'istanza presentata a tal fine dall'interessato e non già
da una verifica tecnica di cui la parte pubblica non può
venire ragionevolmente gravata, essendo proprio la parte
privata, autrice dell'opera e del progetto, ad essere a
conoscenza di come esso è stato eseguito e di quali danni
potrebbero prodursi, a seguito di demolizione, in
pregiudizio della parte conforme).
---------------
Alla stregua
del proprio consolidato orientamento dal quale non vi è
motivo di discostarsi, va ribadito:
- in primo luogo, che «l'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001
riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di
vigilanza e controllo su tutte le attività
urbanistico-edilizie del territorio, ivi comprese quelle
riguardanti immobili sottoposti a vincolo storico-artistico»;
- in secondo luogo, che «presupposto per l'adozione
dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la
constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza
del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di
una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato,
e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi»;
- in terzo luogo, che gli atti di repressione degli
abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata
(essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per
l’avvenuta trasformazione del territorio), con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, secondo
l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario;
Infine, in relazione all’omessa considerazione dell’istanza
di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 D.P.R.
n. 380/2001, va osservato
che quest’ultima non determina l’effetto sospensivo del
procedimento sanzionatorio, previsto espressamente dal
legislatore esclusivamente in caso di presentazione della
domanda di condono (art. 44 l. 47/1985, norma richiamata
dalla l. n. 724/1994 e l. n. 32672003), e non dispiega
alcuna rilevanza ai fini dello scrutinio di legittimità del
provvedimento demolitorio, ciò non senza evidenziare altresì
che, allo stato degli atti, sull’istanza in parola dovrebbe
essersi formato il silenzio rigetto di cui all’art. 13 l.
47/1985 (ora art. 36 D.P.R. n. 380/2001) e non risulta
esservi stata la relativa impugnazione.
E' noto -e costituisce jus receptum
nella giurisprudenza amministrativa- che la mera
constatazione di opere edilizie poste in essere in difetto
del prescritto atto autorizzativo costituisce presupposto
sufficiente per l’emanazione del provvedimento sanzionatorio
il quale, nel caso di specie, versandosi in ipotesi di nuovi
volumi e superfici in area territoriale vincolata, non
avrebbe potuto che essere –diversamente da quanto opinato
dalla difesa di parte ricorrente che invoca l’irrogazione
della sanzione pecuniaria– che l’ordine di demolizione e/o
di riduzione in pristino.
In tal senso è, del resto,
univocamente orientata la giurisprudenza di questo
Tribunale: “il privato sanzionato con l'ordine di
demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva
non può invocare l'applicazione a suo favore della
disposizione oggi contenuta nell'art. 34 comma 2, d.P.R. n.
380 del 2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione
del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione
del bene residuo (con la precisazione che l'applicazione
della sanzione pecuniaria è innescata da un'istanza
presentata a tal fine dall'interessato e non già da una
verifica tecnica di cui la parte pubblica non può venire
ragionevolmente gravata, essendo proprio la parte privata,
autrice dell'opera e del progetto, ad essere a conoscenza di
come esso è stato eseguito e di quali danni potrebbero
prodursi, a seguito di demolizione, in pregiudizio della
parte conforme)” (TAR Campania, Napoli, sez. II, 22.11.2013, n.5317).
---------------
Alla stregua
del proprio consolidato orientamento dal quale non vi è
motivo di discostarsi, va ribadito:
- in primo luogo, che «l'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001
riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di
vigilanza e controllo su tutte le attività
urbanistico-edilizie del territorio, ivi comprese quelle
riguardanti immobili sottoposti a vincolo storico-artistico»;
- in secondo luogo, che «presupposto per l'adozione
dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la
constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza
del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di
una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato,
e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi»
(cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.09.2012 n. 3951);
- in terzo luogo, neppure è fondata la censura inerente
l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento: gli atti
di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e
strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione
dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione
del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro
adozione, secondo l’ormai consolidato orientamento
giurisprudenziale, non sono richiesti apporti partecipativi
del soggetto destinatario (cfr. ex multis, TAR Campania,
Napoli, sez. VIII, 23.02.2011 n. 1048);
- in quarto luogo, va evidenziato che nessun rilievo può
assumere, nello scrutinio di legittimità dell’atto
impugnato, il mancato richiamo alla memoria presentata in
data anteriore (22.05.2006) all’emanazione della
sanzione demolitoria (27.07.2006), attesa la non concludenza degli argomenti rispetto alla imperiosa
necessità di reprimere la situazione antigiuridica
determinatasi a seguito dell’intervento abusivo posto in
essere da parte ricorrente (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 17.12.2007 n.16283).
Infine, in relazione all’omessa considerazione dell’istanza
di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 D.P.R.
n. 380/2001, presentata in data 21.07.2006, va osservato
che quest’ultima non determina l’effetto sospensivo del
procedimento sanzionatorio, previsto espressamente dal
legislatore esclusivamente in caso di presentazione della
domanda di condono (art. 44 l. 47/1985, norma richiamata
dalla l. n. 724/1994 e l. n. 32672003), e non dispiega
alcuna rilevanza ai fini dello scrutinio di legittimità del
provvedimento demolitorio, ciò non senza evidenziare altresì
che, allo stato degli atti, sull’istanza in parola dovrebbe
essersi formato il silenzio rigetto di cui all’art. 13 l.
47/1985 (ora art. 36 D.P.R. n. 380/2001) e non risulta
esservi stata la relativa impugnazione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 24.01.2014 n. 606 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il decorso del tempo,
oltre a produrre effetti che l’ordinamento riconosce e
consacra dando vita a istituti ampiamente disciplinati in
ogni settore del diritto, ivi compreso l’ordinamento
amministrativo dello Stato, determina l’esigenza di
rafforzare l’impalcatura motivazionale di un provvedimento
di natura repressiva perché esige l’efficace
rappresentazione del rinnovato interesse
dell’amministrazione procedente a rimuovere situazione
antigiuridiche.
Nel caso in esame l’ordine demolitorio è intervenuto a
notevole distanza di tempo dalla costruzione del fabbricato
(circa 50 anni), quindi in una situazione di consolidato
affidamento del privato sulla legittimità del proprio
operato, e si regge esclusivamente sul richiamo al carattere
abusivo del manufatto senza che l’amministrazione abbia dato
compiutamente conto delle ragioni di pubblico interesse che
depongono per il ripristino dello stato dei luoghi nonché
per il sacrificio della posizione giuridica soggettiva e
dell’affidamento del deducente.
... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 34
del 01.07.2013 emessa dal Comune di San Prisco.
...
Considerato che il gravame è fondato per le ragioni di
seguito illustrate:
- ha pregio la censura che attiene alla violazione dell’art.
21-nonies della L. 07.08.1990 n. 241 e del principio del
legittimo affidamento, avendo l’amministrazione proceduto ad
intimare la demolizione del manufatto eseguito prima del
1967 (come indicato nel provvedimento demolitorio) senza
tenere conto del notevole lasso di tempo trascorso dalla sua
realizzazione;
- in proposito, si rammenta che il decorso del tempo, oltre
a produrre effetti che l’ordinamento riconosce e consacra
dando vita a istituti ampiamente disciplinati in ogni
settore del diritto, ivi compreso l’ordinamento
amministrativo dello Stato, determina l’esigenza di
rafforzare l’impalcatura motivazionale di un provvedimento
di natura repressiva perché esige l’efficace
rappresentazione del rinnovato interesse
dell’amministrazione procedente a rimuovere situazione
antigiuridiche;
- nel caso in esame l’ordine demolitorio è intervenuto a
notevole distanza di tempo dalla costruzione del fabbricato
(circa 50 anni), quindi in una situazione di consolidato
affidamento del privato sulla legittimità del proprio
operato, e si regge esclusivamente sul richiamo al carattere
abusivo del manufatto senza che l’amministrazione abbia dato
compiutamente conto delle ragioni di pubblico interesse che
depongono per il ripristino dello stato dei luoghi nonché
per il sacrificio della posizione giuridica soggettiva e
dell’affidamento del deducente;
- coglie altresì nel segno il profilo di illegittimità di
eccesso di potere per contraddittorietà dell’azione
amministrativa, dal momento che lo stesso Comune ha in
passato rilasciato titoli abilitativi concernenti il
medesimo stabile di cui, con l’atto impugnato, viene
contestata l’abusiva realizzazione (concessione n. 33 del 22.09.1988 e n. 9 del 28.02.1990 per modifica di
destinazione d’uso; concessione n. 8 del 18.02.2000
per lavori di ristrutturazione di un locale deposito, cambio
di destinazione d’uso e costruzione di un sottotetto
sovrastante).
Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni e con
assorbimento degli ulteriori motivi di diritto, il ricorso
deve essere accolto con conseguente annullamento del
provvedimento impugnato e condanna del Comune al pagamento
delle spese processuali nella misura indicata in dispositivo
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 24.01.2014 n. 603 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’organo statale “non esprime un giudizio di
merito sovrapponendo il proprio giudizio di compatibilità
paesaggistica a quello dell’amministrazione competente nel
caso in cui rilevi che l’Autorità amministrativa che ha
emesso il nulla osta od il parere non abbia esternato alcuna
congrua motivazione dalla quale evincere le ragioni che la
inducevano a concludere per la compatibilità dei manufatti
realizzati con il vincolo paesaggistico”, e, soprattutto,
“ben può disporre l’annullamento ove indichi la disposizione
normativa che si frappone in via assoluta, diretta ed
immediata, alla realizzazione dell’intervento e che, quindi,
è stata violata”.
---------------
La prevalente e condivisa giurisprudenza ha avuto modo di
negare l’applicabilità dell’art. 10-bis calendato al
procedimento statale di verifica della legittimità
dell'autorizzazione paesaggistica comunale, dal momento che
la relativa comunicazione deve avere ad oggetto “i motivi
che ostano all'accoglimento della domanda”, laddove la
funzione del potere di cui costituisce (costituiva ratione
temporis, vigente il regime transitorio di cui all’art. 159
del T.U. del 2004, nel cui ambito si è esaurita la vicenda
qui data) espressione il decreto di annullamento di
un'autorizzazione paesaggistica, siccome riconducibile alla
tipologia dei procedimenti di secondo grado, non è (era)
quella di verificare la sussistenza dei presupposti
legittimanti il rilascio del provvedimento favorevole, ma
quella di scrutinare la legittimità dell'autorizzazione
rilasciata dall'amministrazione comunale e di adottare, al
suo esito, un provvedimento vincolato entro un termine di
decadenza, nel mentre “la disposizione di cui all'art.
10-bis l. 241 del 1990 è applicabile a procedimento ad
istanza di parte in cui l'esercizio del potere non è
sottoposto a termini di decadenza“.
In definitiva, “la legge prevede il preavviso solo nei
procedimenti ad istanza di parte e non trova applicazione
per la sequenza di secondo grado di cui qui trattasi che è
avviata d'ufficio e che, pur configurando un secondo tratto
di un'unica vicenda amministrativa di cogestione del
vincolo, segue la cesura procedimentale del già avvenuto
rilascio del provvedimento di base che conclude la fase ad
istanza di parte”.
Il secondo mezzo di impugnazione va
respinto facendosi applicazione del condiviso principio
giurisprudenziale secondo cui l’organo statale “non
esprime un giudizio di merito sovrapponendo il proprio
giudizio di compatibilità paesaggistica a quello
dell’amministrazione competente nel caso in cui rilevi che
l’Autorità amministrativa che ha emesso il nulla osta od il
parere non abbia esternato alcuna congrua motivazione dalla
quale evincere le ragioni che la inducevano a concludere per
la compatibilità dei manufatti realizzati con il vincolo
paesaggistico”, e, soprattutto, che “ben può disporre
l’annullamento ove indichi la disposizione normativa che si
frappone in via assoluta, diretta ed immediata, alla
realizzazione dell’intervento e che, quindi, è stata violata” (cfr.,
ex multis, Cons. Stato, sezione quarta,
sentenze 04.05.2011, n. 2664, sezione sesta, 08.06.2010, n. 3643; Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione,
sentenze n. 4202 del 23.10.2012, n. 330 del 24.01.2012, n. 28 del 10.01.2012, n. 3190 del 16.06.2011,
n. 1341 del 08.03.2011, sezione quarta, 22.11.2010,
n. 25589, sezione settima, 19.02.2009, n. 978 e 06.08.2008, n. 9860).
---------------
Respinto deve
essere infine il terzo ed ultimo mezzo da vagliare, volto a
denunciare la violazione dell’art. 10-bis della l. 241 del
1990.
Ed invero, la prevalente e condivisa giurisprudenza ha avuto
modo di negare l’applicabilità dell’art. 10-bis calendato al
procedimento statale di verifica della legittimità
dell'autorizzazione paesaggistica comunale, dal momento che
la relativa comunicazione deve avere ad oggetto “i motivi
che ostano all'accoglimento della domanda”, laddove la
funzione del potere di cui costituisce (costituiva ratione
temporis, vigente il regime transitorio di cui all’art. 159
del T.U. del 2004, nel cui ambito si è esaurita la vicenda
qui data) espressione il decreto di annullamento di
un'autorizzazione paesaggistica, siccome riconducibile alla
tipologia dei procedimenti di secondo grado, non è (era)
quella di verificare la sussistenza dei presupposti
legittimanti il rilascio del provvedimento favorevole, ma
quella di scrutinare la legittimità dell'autorizzazione
rilasciata dall'amministrazione comunale (Cons. Stato, sez.
sesta, 13.05.2010, n. 2949 e 07.04.2010, n. 1971; Tar
Campania, Napoli, questa sesta sezione, 23.10.2012, n.
4202, sezione quarta, 22.11.2010, n. 25589, sez.
settima, 14.01.2011, n. 132 e 26.02.2010, n.
1169; Salerno, sez. seconda, 08.07.2010, n. 10165) e di
adottare, al suo esito, un provvedimento vincolato entro un
termine di decadenza, nel mentre “la disposizione di cui
all'art. 10-bis l. 241 del 1990 è applicabile a procedimento
ad istanza di parte in cui l'esercizio del potere non è
sottoposto a termini di decadenza“ (così, sempre nelle
fattispecie di cui anche qui trattasi, Cons. Stato, sez.
sesta, 06.07.2010, n. 4307 e Tar Campania, Napoli, questa
sesta sezione, 23.10.2012, n. 4202, cit.).
In definitiva, “la legge prevede il preavviso solo nei
procedimenti ad istanza di parte e non trova applicazione
per la sequenza di secondo grado di cui qui trattasi che è
avviata d'ufficio e che, pur configurando un secondo tratto
di un'unica vicenda amministrativa di cogestione del
vincolo, segue la cesura procedimentale del già avvenuto
rilascio del provvedimento di base che conclude la fase ad
istanza di parte” (così ancora, ex multis, fra le ultime,
Cons. Stato sezione sesta, 20.12.2011, n. 6725 e 21.09.2011, n. 5293; Tar Campania, questa sesta sezione,
n. 2943 del 21.06.2012; Tar Puglia, Lecce, sezione
prima, 14.12.2011, n. 2082; Tar Campania, Salerno,
seconda sezione, 08.07.2010, n. 10165).
Né A diversa conclusione potrebbe pervenirsi facendosi
leva sulla previsione dell’art. 146, comma 8, del d.l.vo 42
del 2004, come modificato dall’art. 4, comma 16, lettera e,
numero 5, del d. l. 13.05.2011, integrato dalla relativa
legge di conversione, ovvero sull’avvenuta introduzione ex lege dell’obbligo per le Soprintendenze di comunicare il
preavviso di provvedimento negativo.
Al riguardo è sufficiente osservare come detta previsione,
oltre che sopravvenuta ai fatti di causa in quanto
introdotta nell’ordinamento dall’art. 4, comma 16, n. 15,
della legge 12.07.2011, n. 106, recante la conversione
in legge del d.l. 13.05.2011, n. 70, afferisca al
procedimento a regime, ben diverso da quello transitorio
previgente di cui all’art. 159 del Codice, sotto il quale,
come ripetuto, ricade la fattispecie qui data che vede(va)
invece la presenza delle due fasi (di rilascio
dell’autorizzazione e di controllo) ed è (detta previsione)
tesa “a render più agile l’iter procedimentale dettato
dall’art. 146 in commento, eliminando il passaggio
intermedio a cura della diversa amministrazione (sia pur) co-decidente: non avente ragion d’essere soprattutto in
presenza della (perdurante) natura vincolante del parere
soprintendizio” (cfr., amplius sul punto, Tar Campania,
questa sesta sezione, sentenza n. 1770 del 18.04.2012).
A ciò aggiungendosi che, come fin qui fatto palese,
all’accoglimento della denuncia si sarebbe comunque
frapposta la concreta situazione in cui qui si verte che,
stante l’assenza di margini di discrezionalità, avrebbe in
ogni caso imposto di fare applicazione dell’art. 21-octies
della stessa legge 241 del 1990 (cfr., da ultimo, in
situazione assimilabile a quella qui data, Cons. Stato,
sezione sesta, sentenza 17.09.2012, n. 4925)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.01.2014 n. 596 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Al di là del nomen iuris contenuto nel
provvedimento, si controverte di un annullamento d’ufficio
ex art. 21-nonies della L. 241/1990 (e non di una revoca
disposta ai sensi dell’art. 21-quinquies) giacché, come si è
visto, esso si fonda sulla erronea rappresentazione grafica
del locale deposito e sul conseguente vizio di legittimità
procedimentale che ne è derivato.
La giurisprudenza amministrativa ha enucleato i principi che
governano l'esercizio del potere di auto-annullamento dei
titoli edilizi confluiti nell'art. 21-nonies della L.
241/1990.
Con specifico riferimento all’interesse pubblico, si è
osservato che l'ambito della motivazione esigibile va
calibrato in rapporto al vizio che inficia il titolo
abilitativo dovendosi tenere conto, tra l’altro, del
particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia
di tutela del territorio e dei valori che su di esso
insistono (ambiente, paesaggio, salute, sicurezza, beni
storici e culturali) che quasi sempre sono prevalenti
rispetto a quelli contrapposti dei privati e della eventuale
negligenza o della malafede del privato che ha indotto in
errore l'amministrazione o ha approfittato di un suo errore,
ad esempio rappresentando in modo erroneo la situazione di
fatto in base alla quale è stato rilasciato il titolo o sono
stati individuati i legittimati attivi.
Con la terza ed ultima censura parte
ricorrente svolge due articolate doglianze che attengono,
rispettivamente, all’omessa specificazione dell’interesse
pubblico dell’atto di autotutela e all’eccesso di potere per
irragionevolezza dell’azione amministrativa.
Quanto al primo rilievo occorre previamente precisare che,
al di là del nomen iuris contenuto nel provvedimento, si
controverte di un annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies
della L. 241/1990 (e non di una revoca disposta ai sensi
dell’art. 21-quinquies) giacché, come si è visto, esso si
fonda sulla erronea rappresentazione grafica del locale
deposito e sul conseguente vizio di legittimità
procedimentale che ne è derivato.
La giurisprudenza amministrativa ha enucleato i principi che
governano l'esercizio del potere di auto-annullamento dei
titoli edilizi confluiti nell'art. 21-nonies della L.
241/1990 (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.11.2010 n.
8291, 21.12.2009 n. 8529, Sez. V, 06.12.2007 n.
6252; 12.11.2003 n. 7218; 24.09.2003 n. 5445;
TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 06.06.2012 n. 2668).
Con specifico riferimento all’interesse pubblico, si è
osservato che l'ambito della motivazione esigibile va
calibrato in rapporto al vizio che inficia il titolo
abilitativo dovendosi tenere conto, tra l’altro, del
particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia
di tutela del territorio e dei valori che su di esso
insistono (ambiente, paesaggio, salute, sicurezza, beni
storici e culturali) che quasi sempre sono prevalenti
rispetto a quelli contrapposti dei privati e della eventuale
negligenza o della malafede del privato che ha indotto in
errore l'amministrazione o ha approfittato di un suo errore,
ad esempio rappresentando in modo erroneo la situazione di
fatto in base alla quale è stato rilasciato il titolo o sono
stati individuati i legittimati attivi.
Nel caso in esame tali principi consentono di derubricare il
vizio che attiene all’omessa specificazione dell’interesse
pubblico atteso che, come si è visto, l’amministrazione è
stata indotta in errore circa la precisa collocazione del
manufatto ed in ordine alla posizione legittimante del
richiedente.
E’ viceversa fondata la censura di eccesso di potere per
irragionevolezza.
Invero, si è visto che il profilo di illegittimità
procedimentale che ha condotto all’adozione dell’atto di
autotutela attiene esclusivamente alla errata
rappresentazione grafica del locale deposito posto a quota
arenile.
Trattandosi di un vizio che riguardava un singolo manufatto
erroneamente sanato, l’atto di autotutela avrebbe dovuto
riguardare esclusivamente quest’ultimo, tanto più che -nella fattispecie in scrutinio- si controverte di un
permesso di costruire in sanatoria che ha oggetto diverse
opere (chiosco con locale bar, infermeria, foresteria,
servizi, area coperta esterna destinata in parte a pic-nic e
giochi, zona destinata a parcheggi e muro frangivento) sui
quali il Comune di Castel Volturno non ha avanzato alcun
rilievo.
Tale soluzione si impone in base ai principi di economicità
dell’azione amministrativa e dell’“utile per inutile non vitiatur”
giacché non appare ragionevole l’annullamento in autotutela
in toto di un titolo edilizio per un motivo di illegittimità
che riguarda solo uno degli interventi edilizi sanati
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 24.01.2014 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il giudizio sul diritto
di accesso non esime da una valutazione circa l'esistenza di
una posizione pur sempre differenziata in capo al
richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza
ed attualità, un interesse conoscitivo.
In altri termini, essere titolare di una situazione
giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché
l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto,
concreto e attuale", essendo anche necessario che la
documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a
quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il
soddisfacimento.
L'ordinamento prevede, infatti, che l'esibizione dei
documenti sia strumentale alla tutela di un interesse
concreto e meritevole di tutela e la necessità di un
collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante
impedisce che l'accesso possa essere utilizzato per
conseguire improprie finalità di controllo generalizzato
sulla legittimità degli atti della P.A.
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti
amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa
dimostrare che il provvedimento o gli atti
endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a
dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi
confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere
esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una
lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo
invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio
e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e
a partecipare alla formazione di quelli successivi.
Tanto premesso, rileva il Collegio che il
giudizio sul diritto di accesso non esime da una valutazione
circa l'esistenza di una posizione pur sempre differenziata
in capo al richiedente, cui deve correlarsi, in termini di
concretezza ed attualità, un interesse conoscitivo (cfr. da
ultimo Cons. St. Ad. Plen. 7/2012).
In altri termini, essere titolare di una situazione
giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché
l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto,
concreto e attuale", essendo anche necessario che la
documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a
quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il
soddisfacimento.
L'ordinamento prevede, infatti, che l'esibizione dei
documenti sia strumentale alla tutela di un interesse
concreto e meritevole di tutela e la necessità di un
collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante
impedisce che l'accesso possa essere utilizzato per
conseguire improprie finalità di controllo generalizzato
sulla legittimità degli atti della P.A.
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti
amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa
dimostrare che il provvedimento o gli atti
endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a
dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi
confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere
esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una
lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo
invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio
e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e
a partecipare alla formazione di quelli successivi (cfr.
TAR Roma Lazio sez. II, 01.12.2011, n. 9461)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.01.2014 n. 594 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La natura del
provvedimento di demolizione comporta che sia superflua e
non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico
alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al
paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al
sacrificio imposto al privato); è, infatti, sufficiente
evidenziare la violazione del regime vincolistico e
l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo,
ciò che nel caso di specie è avvenuto.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è
spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che
l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione
della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il
quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione
né costituisce onere del Comune verificare la sanabilità
delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia:
l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto
della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto
giustificativo necessario e sufficiente a fondare la
spedizione della misura sanzionatoria.
Va, a tal riguardo, ribadito che la natura
del provvedimento di demolizione comporta che sia superflua
e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse
pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente
o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in
relazione al sacrificio imposto al privato); è, infatti,
sufficiente evidenziare la violazione del regime
vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo
abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VI n. 9718 del
04.08.2008 e n. 3588 dell’11.07.2013).
In altri termini, nel
modello legale di riferimento non vi è spazio per
apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del
potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in
re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr.
TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240)
né costituisce onere del Comune verificare la sanabilità
delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia
(TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5556;
TAR Lazio, sez. II-ter, 21.06.999, n. 1540): l’atto
può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della
stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto
giustificativo necessario e sufficiente a fondare la
spedizione della misura sanzionatoria
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.01.2014 n. 591 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il vincolo di
inedificabilità connesso alla presenza di testimonianze
archeologiche non è astrattamente qualificabile come
assoluto, riguardando soltanto le costruzioni che, in
qualsiasi modo, snaturano o, comunque, danneggiano i reperti
fissi al suolo o affioranti, non potendo trovare
applicazione per tutte quelle altre costruzioni che non
determinano sul fatto pregiudizio e che, con la debita
approvazione ex art. 18 l. n. 1089 del 1939, gli aventi
diritto sull'immobile sono in grado di eseguire, a meno che
non debba ritenersi che, in concreto, l'interesse
archeologico non rimanga circoscritto ad alcuni resti
presenti nell'area, ma si correli al luogo nel suo
complesso, quale sede di una pluralità di reperti tale da
testimoniare uno specifico assetto storico di insediamento.
Giova, inoltre, aggiungere che, secondo un consolidato
orientamento giurisprudenziale, anche in tale ultima
evenienza (di un’estensione del vincolo all’intero
territorio con conseguente inedificabilità assoluta
dell’area), trovano applicazione i principi di cui alla l.
n. 47 del 1985, cui fa rinvio l'art. 39 l. n. 724 del 1994,
secondo cui i vincoli di inedificabilità assoluta risultano
preclusivi del condono, se apposti prima dell'esecuzione
delle opere, fermo restando che -dovendo la funzione
amministrativa essere esercitata secondo la normativa
vigente alla data del relativo esercizio- detti vincoli sono
comunque rilevanti, ma come vincoli a carattere relativo,
richiedenti apposita e concreta valutazione, da parte
dell'Autorità preposta, circa la compatibilità dell'opera
realizzata con i valori tutelati.
Deve, anzitutto, rilevarsi che il vincolo
di inedificabilità connesso alla presenza di testimonianze
archeologiche non è astrattamente qualificabile come
assoluto, riguardando soltanto le costruzioni che, in
qualsiasi modo, snaturano o, comunque, danneggiano i reperti
fissi al suolo o affioranti, non potendo trovare
applicazione per tutte quelle altre costruzioni che non
determinano sul fatto pregiudizio e che, con la debita
approvazione ex art. 18 l. n. 1089 del 1939, gli aventi
diritto sull'immobile sono in grado di eseguire, a meno che
non debba ritenersi che, in concreto, l'interesse
archeologico non rimanga circoscritto ad alcuni resti
presenti nell'area, ma si correli al luogo nel suo
complesso, quale sede di una pluralità di reperti tale da
testimoniare uno specifico assetto storico di insediamento
(cfr. Cassazione civile sez. I, 29.05.2003 n. 8593;
TAR Napoli Campania sez. II, 08.05.2009, n. 2466)
Giova, inoltre, aggiungere che, secondo un consolidato
orientamento giurisprudenziale (cfr. ex plurimis, Cons.
Stato, VI, 05.04.2012, n. 2018; 09.03.2011, n. 1476; 07.01.2008, n. 22), anche in tale ultima evenienza (di
un’estensione del vincolo all’intero territorio con
conseguente inedificabilità assoluta dell’area), trovano
applicazione i principi di cui alla l. n. 47 del 1985, cui
fa rinvio l'art. 39 l. n. 724 del 1994, secondo cui i vincoli
di inedificabilità assoluta risultano preclusivi del
condono, se apposti prima dell'esecuzione delle opere, fermo
restando che -dovendo la funzione amministrativa essere
esercitata secondo la normativa vigente alla data del
relativo esercizio- detti vincoli sono comunque rilevanti,
ma come vincoli a carattere relativo, richiedenti apposita e
concreta valutazione, da parte dell'Autorità preposta, circa
la compatibilità dell'opera realizzata con i valori tutelati
(cfr. artt. 32 e 33 l. n. 47 del 1985 e, per il principio,
Cons. Stato, VI, 09.03.2011, n. 1476; VI, 07.01.2008, n. 22;
05.12.2007, n. 6177, 02.11.2007, n. 5669; V, 04.11.1997, n.
1228)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.01.2014 n. 585 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va esclusa la
condivisibilità dell’assunto circa la non assoggettabilità a
permesso di costruire della tettoia oggetto di demolizione
quale mera struttura asseritamente precaria di natura
pertinenziale, aperta su tutti i lati, non autonomamente
utilizzabile e destinata a servizio dell’immobile
principale.
La realizzazione di una tettoia, ancorché avente natura
pertinenziale, è configurabile quale intervento di
ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3 comma 1 lett.
d), d.P.R. n. 380 del 2001, nella misura in cui realizza
"l'inserimento di nuovi elementi ed impianti" ed è quindi
subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi
dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.p.r. laddove
comporti, come nella specie, una modifica della sagoma o del
prospetto del fabbricato cui inerisce, come evincibile dalle
riproduzioni fotografiche in atti.
In materia edilizia la nozione di pertinenza è più ristretta
di quella civilistica, ed è riferibile solo a manufatti di
dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui
ineriscono, cosa non ravvisabile nella specie in presenza di
una tettoia della superficie di m.q. 4,00 x 7,60 come
dichiarato in ricorso, e rilevabile dai grafici in atti.
La nozione di pertinenza, ai fini edilizi, va definita sotto
un duplice profilo ossia in relazione alla necessità ed
oggettività del rapporto pertinenziale, ed alla consistenza
dell'opera, che non deve essere tale da alterare in modo
significativo l'assetto del territorio.
---------------
Ai fini del rilascio del permesso di costruire, la nozione
di costruzione si configura comunque in presenza di opere
che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del
territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi.
Ciò a prescindere dal fatto che detta trasformazione e/o
alterazione avvenga mediante realizzazione di opere murarie,
ben potendo trattarsi di opere realizzate in legno, metallo,
in laminati di plastica, o altro materiale, che attuino
un'evidente trasformazione del tessuto urbanistico ed
edilizio e che riguardino opere preordinate a soddisfare
esigenze non precarie sotto il profilo funzionale.
In sostanza, per la individuazione di un’opera quale
pertinenza rilevano non soltanto gli elementi strutturali
(composizione dei materiali, smontabilità o meno del
manufatto) ma anche i profili funzionali, sicché non può,
attribuirsi il carattere pertinenziale ai fini edilizi ad
interventi solo in quanto destinati a servizio del bene
principale, specie qualora si tratti di opere di natura non
precaria ma dotate di una destinazione permanente e durevole
nel tempo.
---------------
Rispetto alle tettoie la giurisprudenza ne ha ammesso la
libera edificabilità solo qualora la loro conformazione e le
loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la
loro finalità di arredo, riparo o protezione, anche da
agenti atmosferici, quando non presentino carattere di
autonoma utilizzabilità, e possano ritenersi assorbite,
ovvero ricomprese in ragione della loro accessorietà,
nell'edificio principale o nella parte dello stesso cui
accedono.
Il ricorso è infondato e va respinto
come di seguito argomentato.
In primo luogo va esclusa la condivisibilità dell’assunto
circa la non assoggettabilità a permesso di costruire della
tettoia oggetto di demolizione quale mera struttura
asseritamente precaria di natura pertinenziale, aperta su
tutti i lati, non autonomamente utilizzabile e destinata a
servizio dell’immobile principale. La realizzazione di una
tettoia, ancorché avente natura pertinenziale, è
configurabile quale intervento di ristrutturazione edilizia
ai sensi dell'art. 3 comma 1 lett. d), d.P.R. n. 380 del
2001, nella misura in cui realizza "l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti" ed è quindi subordinata al regime del
permesso di costruire, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett.
c), dello stesso d.p.r. laddove comporti, come nella specie,
una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui
inerisce, come evincibile dalle riproduzioni fotografiche in
atti. In materia edilizia la nozione di pertinenza è più
ristretta di quella civilistica, ed è riferibile solo a
manufatti di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa
cui ineriscono, cosa non ravvisabile nella specie in
presenza di una tettoia della superficie di m.q. 4,00 x 7,60
come dichiarato in ricorso, e rilevabile dai grafici in
atti. La nozione di pertinenza, ai fini edilizi, va definita
sotto un duplice profilo ossia in relazione alla necessità
ed oggettività del rapporto pertinenziale, ed alla
consistenza dell'opera, che non deve essere tale da alterare
in modo significativo l'assetto del territorio (cfr.
Consiglio di stato, sez. IV, 07.07.2008, n. 3379).
Ai fini del rilascio del permesso di costruire, la nozione
di costruzione si configura comunque in presenza di opere
che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del
territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi.
Ciò a prescindere dal fatto che detta trasformazione e/o
alterazione avvenga mediante realizzazione di opere murarie,
ben potendo trattarsi di opere realizzate in legno, metallo,
in laminati di plastica, o altro materiale, che attuino
un'evidente trasformazione del tessuto urbanistico ed
edilizio e che riguardino opere preordinate a soddisfare
esigenze non precarie sotto il profilo funzionale (cfr. ex multis CdS, Sez. IV, n. 2705/2008 in tal senso anche
Consiglio Stato, sez. V, 13.06.2006, n. 3490).
In sostanza,
per la individuazione di un’opera quale pertinenza rilevano
non soltanto gli elementi strutturali (composizione dei
materiali, smontabilità o meno del manufatto) ma anche i
profili funzionali (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater, n.
11679 del 23.11.2007), sicché non può, attribuirsi il
carattere pertinenziale ai fini edilizi ad interventi solo
in quanto destinati a servizio del bene principale, specie
qualora si tratti di opere di natura non precaria ma dotate
di una destinazione permanente e durevole nel tempo.
Rispetto alle tettoie la giurisprudenza ne ha ammesso la
libera edificabilità solo qualora la loro conformazione e le
loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la
loro finalità di arredo, riparo o protezione, anche da
agenti atmosferici, quando non presentino carattere di
autonoma utilizzabilità, e possano ritenersi assorbite,
ovvero ricomprese in ragione della loro accessorietà,
nell'edificio principale o nella parte dello stesso cui
accedono (TAR Campania, Napoli, sezione III, 25.07.2011
n. 3947).
Diversamente la tettoia-pensilina oggetto di contestazione,
come evincibile anche dalle riproduzioni fotografiche in
atti, non è di ridotte dimensioni né presenta una funzione
meramente accessoria rispetto alla destinazione commerciale
dell’immobile cui accede, essendo costituita da una
copertura in pannelli coibentati di oltre 44 m.q. , fissata
per una lunghezza di quattro metri alla parete, e quindi di
natura stabile e non precaria, priva perciò di quelle
caratteristiche sopra descritte che ne consentirebbero
l’edificazione in assenza di permesso di costruire (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 24.01.2014 n. 562 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
In ordine alla richiesta di risarcimento del
danno, si osserva che la domanda, non solo non risulta
sostenuta dalle necessarie allegazioni in ordine al danno
subito e all'accertamento della responsabilità
dell'amministrazione, ma è stata proposta in modo generico
e, quindi, va respinta.
Sul punto la giurisprudenza prevalente si è andata
orientando nel senso dell’attenuazione dell’onere probatorio
del privato.
In particolare, sotto il profilo della colpa, si è affermato
che il privato danneggiato, ai fini di ottenere il
risarcimento dei danni derivanti da lesione di interessi
legittimi, ancorché onerato della dimostrazione della
"colpa" dell’amministrazione, risulta agevolato dalla
possibilità di offrire al giudice elementi indiziari
–acquisibili, sia pure con i connotati normativamente
previsti, con maggior facilità delle prove dirette- quali la
gravità della violazione, qui valorizzata quale presunzione
semplice di colpa e non come criterio di valutazione
assoluto, il carattere vincolato dell’azione amministrativa
giudicata, l’univocità della normativa di riferimento ed il
proprio apporto partecipativo al procedimento. Così che,
acquisiti gli indici rivelatori della colpa, spetta poi
all’amministrazione l’allegazione degli elementi, pure
indiziari, ascrivibili allo schema dell’errore scusabile e,
in definitiva, al giudice, così come, in sostanza, voluto
dalla Cassazione con la sentenza n. 500/1999, apprezzarne e
valutarne liberamente l’idoneità ad attestare o ad escludere
la colpevolezza dell’amministrazione.
Tale attenuazione dell’onere probatorio non esclude,
tuttavia, la necessità che le pretese risarcitorie
presuppongano l’indicazione degli elementi che possano
indurre il giudice a valutare in termini di responsabilità
la condotta della pubblica amministrazione. Allegazione che
nel caso di specie non è dato riscontrare con conseguente
impossibilità di accogliere la domanda risarcitoria.
In ordine alla richiesta di risarcimento
del danno, si osserva che la domanda, non solo non risulta
sostenuta dalle necessarie allegazioni in ordine al danno
subito e all'accertamento della responsabilità
dell'amministrazione, ma è stata proposta in modo generico
e, quindi, va respinta.
Sul punto la giurisprudenza prevalente si è andata
orientando nel senso dell’attenuazione dell’onere probatorio
del privato. In particolare, sotto il profilo della colpa,
si è affermato (Consiglio di Stato, Sez. V, 10.01.2005,
n. 32) che il privato danneggiato, ai fini di ottenere il
risarcimento dei danni derivanti da lesione di interessi
legittimi, ancorché onerato della dimostrazione della
"colpa" dell’amministrazione, risulta agevolato dalla
possibilità di offrire al giudice elementi indiziari –acquisibili, sia pure con i connotati normativamente
previsti, con maggior facilità delle prove dirette- quali
la gravità della violazione, qui valorizzata quale
presunzione semplice di colpa e non come criterio di
valutazione assoluto, il carattere vincolato dell’azione
amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di
riferimento ed il proprio apporto partecipativo al
procedimento. Così che, acquisiti gli indici rivelatori
della colpa, spetta poi all’amministrazione l’allegazione
degli elementi, pure indiziari, ascrivibili allo schema
dell’errore scusabile e, in definitiva, al giudice, così
come, in sostanza, voluto dalla Cassazione con la sentenza
n. 500/1999, apprezzarne e valutarne liberamente l’idoneità ad
attestare o ad escludere la colpevolezza
dell’amministrazione.
Tale attenuazione dell’onere probatorio non esclude,
tuttavia, la necessità che le pretese risarcitorie
presuppongano l’indicazione degli elementi che possano
indurre il giudice a valutare in termini di responsabilità
la condotta della pubblica amministrazione. Allegazione che
nel caso di specie non è dato riscontrare con conseguente
impossibilità di accogliere la domanda risarcitoria
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 24.01.2014 n. 561 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La possibilità di non procedere alla rimozione
delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti
legittime costituisce solo un’eventualità della fase
esecutiva, subordinata alla circostanza dell’impossibilità
del ripristino dello stato dei luoghi.
---------------
Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di
opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un
intervento edilizio in assenza del prescritto titolo
abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un
atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con
l’accertamento dell'abuso, e non necessita di una
particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato,
e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
Quanto alla mancata indicazione dell’estensione dell’area da
confiscare, costante giurisprudenza amministrativa, da cui
il collegio non ha motivo di discostarsi, ritiene che non
costituisca un vizio di legittimità dell’ordinanza di
demolizione in quanto, fermi gli effetti acquisitivi
operanti direttamente ex lege, siffatta specificazione ben
può essere operata nella successiva sede dell’(eventuale)
accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire,
come da art. 31, comma 4, del d.P.R. 380 del 2001 che
riproduce i contenuti dell’art. 7 della l. 47 del 1985.
Quanto all’asserita impossibilità tecnica
di demolire il manufatto abusivamente realizzato, in
disparte la considerazione che tale impossibilità non
risulta in alcun modo dimotrata, essa –secondo il
consolidato orientamento della giurisprudenza anche di
questa sezione- non incide sulla legittimità del
provvedimento sanzionatorio.
Infatti, “la possibilità di non procedere alla rimozione
delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti
legittime costituisce solo un’eventualità della fase
esecutiva, subordinata alla circostanza dell’impossibilità
del ripristino dello stato dei luoghi” (cfr., tra le molte,
TAR Campania, Napoli, questa sesta sezione 08.04.2011,
n. 2039 e 15.07.2010 , n. 16807; n. 1973 del 14.04.2010; Salerno, sez. II, 13.04.2011, n. 702).
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In ordine al
dedotto difetto di motivazione, peraltro non ravvisabile
dalla piana lettura del provvedimento in questione, và
rilevato che, come costantemente affermato dalla
giurisprudenza di questo Tribunale, che questo Collegio
condivide, “…presupposto per l'adozione dell'ordine di
demolizione di opere abusive è soltanto la constatata
esecuzione di un intervento edilizio in assenza del
prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che,
essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente
motivato con l’accertamento dell'abuso, e non necessita di
una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa,
consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato,
e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi”
(fra molte, TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999).
Quanto alla mancata indicazione dell’estensione dell’area da
confiscare, costante giurisprudenza amministrativa, da cui
il collegio non ha motivo di discostarsi, ritiene che non
costituisca un vizio di legittimità dell’ordinanza di
demolizione in quanto, fermi gli effetti acquisitivi
operanti direttamente ex lege, siffatta specificazione ben
può essere operata nella successiva sede dell’(eventuale)
accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire,
come da art. 31, comma 4, del d.P.R. 380 del 2001 che
riproduce i contenuti dell’art. 7 della l. 47 del 1985 (cfr.
Tar Campania, questa sesta sezione, sentenza n. 3194 del 16.06.2011; 11.05.2011, n. 2624; Tar Lazio, Roma, sez.
I, 07.03.2011, n. 2031; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.
2010, n. 2809)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.01.2014 n. 542 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I provvedimenti repressivo-ripristinatori perdono
la propria efficacia in conseguenza della presentazione di
un’istanza di sanatoria.
Ed invero, il riesame dell’abusività degli interventi
eseguiti, provocato dalla domanda di accertamento di
conformità, comporta la formazione di un nuovo
provvedimento, esplicito o implicito, di accoglimento o di
rigetto, che vale comunque a superare la precedente
ingiunzione a demolire, per modo che, anche nell’ipotesi di
rigetto dell’istanza, l’amministrazione comunale è obbligata
ad adottare ex novo la misura sanzionatoria, con
l’assegnazione in tal caso di un ulteriore termine per
adempiere.
Pertanto, essendo stata avanzata, nella specie,
successivamente all’emissione dell’ordinanza di demolizione
ed alla proposizione del ricorso introduttivo e dei relativi
motivi aggiunti, domanda di sanatoria degli abusi edilizi
contestati, è da considerarsi venuto meno, in capo alla
ricorrente, l’interesse –anche quanto alle opere non
spontaneamente rimosse– ad ottenere l’annullamento
giurisdizionale degli impugnati provvedimenti
repressivo-ripristinatori, resi ormai irreversibilmente
inefficaci e ineseguibili.
Come sopra accennato, il rigetto delle rassegnate istanze di
accertamento di conformità non esime, comunque,
l’amministrazione comunale dall’obbligo di riattivare il
procedimento sanzionatorio sulla base dell’acclarata
insanabilità del manufatto, oltre che, prima ancora, di
valutarne il permanere dei presupposti alla luce della
parziale ottemperanza alle ingiunzioni di demolizione n. 6
del 23.02.2012 e n. 40 del 14.09.2012 e del connesso
mutamento dello stato dei luoghi, concentrandosi, al
momento, l’interesse ex art. 100 cod. proc. civ.
dell’istante sulla contestazione del diniego (tacitamente)
oppostole.
In proposito, il Collegio ritiene di dover
aderire al consolidato orientamento giurisprudenziale,
secondo cui i provvedimenti repressivo-ripristinatori
perdono la propria efficacia in conseguenza della
presentazione di un’istanza di sanatoria (cfr., ex multis,
TAR Campania, Napoli, sez. VI, 05.03.2008, n. 1108; sez. VII, 21.03.2008, n. 1472;
07.05.2008, n. 3501; sez. IV,
13.05.2008, n. 4257; 29.05.2008, n. 5176 e n. 5183;
sez. VII, 05.06.2008, n. 5243; sez. IV, 26.07.2007,
n. 7071; 15.09.2008, n. 10133; sez. III, 01.10.2008, n. 12315;
07.11.2008, n. 19352; sez. VII, 04.12.2008, n. 20973; 03.03.2009, n. 1211; TAR Sicilia,
Palermo, sez. III, 31.01.2007, n. 259; 05.03.2007, n.
723; 26.06.2007, n. 1704; Catania, sez. I, 18.12.2007, n. 1990; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 21.02.2009, n. 258; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 30.10.2008,
n. 2721; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.07.2008, n. 6954;
sez. II, 15.09.2008, n. 8306; TAR Sicilia, Catania,
sez. I, 21.07.2010, n. 3200).
Ed invero, il riesame dell’abusività degli interventi
eseguiti, provocato dalla domanda di accertamento di
conformità, comporta la formazione di un nuovo
provvedimento, esplicito o implicito, di accoglimento o di
rigetto, che vale comunque a superare la precedente
ingiunzione a demolire, per modo che, anche nell’ipotesi di
rigetto dell’istanza, l’amministrazione comunale è obbligata
ad adottare ex novo la misura sanzionatoria, con
l’assegnazione in tal caso di un ulteriore termine per
adempiere.
Pertanto, essendo stata avanzata, nella specie,
successivamente all’emissione dell’ordinanza di demolizione
ed alla proposizione del ricorso introduttivo e dei relativi
motivi aggiunti, domanda di sanatoria degli abusi edilizi
contestati, è da considerarsi venuto meno, in capo alla
ricorrente, l’interesse –anche quanto alle opere non
spontaneamente rimosse– ad ottenere l’annullamento
giurisdizionale degli impugnati provvedimenti repressivo-ripristinatori, resi ormai irreversibilmente
inefficaci e ineseguibili.
Come sopra accennato, il rigetto delle rassegnate istanze di
accertamento di conformità non esime, comunque,
l’amministrazione comunale dall’obbligo di riattivare il
procedimento sanzionatorio sulla base dell’acclarata
insanabilità del manufatto, oltre che, prima ancora, di
valutarne il permanere dei presupposti alla luce della
parziale ottemperanza alle ingiunzioni di demolizione n. 6
del 23.02.2012 e n. 40 del 14.09.2012 e del
connesso mutamento dello stato dei luoghi, concentrandosi,
al momento, l’interesse ex art. 100 cod. proc. civ.
dell’istante sulla contestazione del diniego (tacitamente)
oppostole (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 12.11.2008, n. 5646;
07.05.2009, n. 2833; TAR Puglia,
Lecce, sez. I, 04.06.2008, n. 1649; 06.05.2009, n.
907; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 09.01.2008, n. 37;
sez. IV, 07.02.2008, n. 628; sez. VI, 05.03.2008, n.
1121; 18.03.2008, n. 1399; sez. VII, 07.05.2008, n.
3501; sez. IV, 13.05.2008, n. 4257; 29.05.2008, n.
5176 e n. 5183; sez. VII, 05.06.2008, n. 5243; Salerno,
sez. II, 16.06.2008, n. 1940; Napoli, sez. IV, 15.09.2008, n. 10133; sez. VI, 16.09.2008, n.
10220; sez. III, 01.10.2008, n. 12315; sez. VI, 22.10.2008, n. 17688;
06.11.2008, n. 19285; sez. IV,
07.11.2008, n. 19352; sez. VII, 03.03.2009, n. 1211;
Salerno, sez. II, 09.04.2009, n. 1408; Napoli, sez. VI,
22.04.2009, n. 2097; sez. III, 29.04.2009, n. 2220;
30.04.2009, n. 2252; sez. VII, 05.06.2009, n. 3105;
sez. III, 08.06.2009, n. 3150; 18.06.2009, n. 3354;
sez. VII, 09.07.2009, n. 3829; sez. IV, 03.08.2009, n.
4628; sez. III, 11.09.2009, n. 4918; sez. IV, 19.10.2010, n. 20262; sez. VII, 10.03.2011, n. 1401;
TAR Lazio, Roma, sez. I, 02.12.2010, n. 35024; sez. II,
05.09.2008, n. 8089; 03.07.2009, n. 6453; 07.09.2010, n. 32129; 13.10.2010, n. 32799; 13.12.2010, n. 36294; 22.12.2010, n. 38234; TAR
Toscana, Firenze, sez. III, 13.05.2008, n. 1454; 09.04.2009, n. 605; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 30.10.2008, n. 2721; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II,
07.11.2008, n. 1482)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 24.01.2014 n. 541 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Soprintendenza non può annullare il parere del
Comune per ragioni di merito, dovendo limitarsi al solo
scrutinio di legittimità, in quanto il potere di
annullamento dell'Amministrazione non comporta un riesame
complessivo, non potendo la Soprintendenza sovrapporre o
sostituire il proprio apprezzamento di merito alle
valutazioni discrezionali compiute in sede di rilascio del
nulla osta da parte dell'ente locale.
Il riesame dell'Amministrazione è infatti meramente
estrinseco ed è diretto all'accertamento dell'assenza di
vizi di legittimità comprendenti quello di eccesso di potere
nelle diverse forme sintomatiche.
In altre parole, l'Amministrazione non può rinnovare il
giudizio tecnico discrezionale sulla compatibilità
paesaggistico-ambientale dell'intervento, che appartiene in
via esclusiva all'autorità preposta alla tutela del vincolo.
Come infatti costantemente rilevato in
giurisprudenza, “... la Soprintendenza non può annullare il
parere del Comune per ragioni di merito, dovendo limitarsi
al solo scrutinio di legittimità, in quanto il potere di
annullamento dell'Amministrazione non comporta un riesame
complessivo, non potendo la Soprintendenza sovrapporre o
sostituire il proprio apprezzamento di merito alle
valutazioni discrezionali compiute in sede di rilascio del
nulla osta da parte dell'ente locale. Il riesame
dell'Amministrazione è infatti meramente estrinseco ed è
diretto all'accertamento dell'assenza di vizi di legittimità
comprendenti quello di eccesso di potere nelle diverse forme
sintomatiche. In altre parole, l'Amministrazione non può
rinnovare il giudizio tecnico discrezionale sulla
compatibilità paesaggistico-ambientale dell'intervento, che
appartiene in via esclusiva all'autorità preposta alla
tutela del vincolo” (così TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.10.2012, n. 8248, nello stesso senso TAR Campania,
Salerno, sez. II, 26.11.2012, n. 2131, TAR
Campania, Napoli, sez. VI , 10/01/2012, 14).
Né il mero riferimento che la Soprintendenza fa alla
funzione dell’autorizzazione di cui all’art. 146 del decreto
legislativo n. 42/2004 e la correlativa conclusione secondo
cui l’atto del comune attuerebbe una inammissibile deroga al
vincolo stesso, sono idonei a ricondurre l’effetto di
annullamento disposto ad un difetto di motivazione del
provvedimento dell’ente locale, essendo l’affermazione
sostanzialmente tautologica e priva di riferimenti, ancorché
sintetici, a riscontrabili carenze dell’atto annullato
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.01.2014 n. 522 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli interventi di ristrutturazione o di
manutenzione postulano «necessariamente la preesistenza di
un fabbricato da ristrutturare -ossia di un organismo
edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e
copertura-, onde la ricostruzione su ruderi o su un edificio
già da tempo demolito, anche se soltanto in parte,
costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle
comuni regole edilizie e paesistico-ambientali vigenti al
momento della riedificazione»
In proposito, va ribadito che gli
interventi di ristrutturazione o di manutenzione postulano
«necessariamente la preesistenza di un fabbricato da
ristrutturare -ossia di un organismo edilizio dotato di
mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura-, onde
la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo
demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova
opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesistico-ambientali vigenti al momento della
riedificazione» (TAR Campania, questa sezione, Sent. n.
03588/2013 e 7049/2009; si vedano anche Consiglio di Stato,
sez. IV, 13.10.2010, n. 7476 e Cassazione penale sez. III, 21.10.2008 n. 42521)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.01.2014 n. 514 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’atto di autotutela
appare doveroso e vincolato nella misura in cui si prende
atto della mancanza della prescritta autorizzazione
paesaggistica con conseguente inefficacia della D.I.A..
Va anzi detto, e sul punto non incidono le ricorrenti
modifiche della normativa, che il mancato ottenimento
dell’autorizzazione paesaggistica ha impedito persino il
perfezionamento della D.I.A. in oggetto con ulteriore
conferma della doverosità dell’atto di cui si discute da
cui, anzi, il Comune avrebbe potuto prescindere limitandosi
a esercitare il proprio potere sanzionatorio.
La descritta doverosità dell’atto rende irrilevante la
mancata partecipazione del ricorrente al procedimento per
l’applicazione dell’ art. 21-octies L. 241/1990 (co. 2: «non
è annullabile il provvedimento adottato in violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per
la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo
non è comunque annullabile per mancata comunicazione
dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione
dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato»).
La terza
censura è relativa alla mancata comunicazione di avvio del
procedimento volto all’adozione del presente atto di
autotutela.
Sul punto, valgano due ordini di considerazioni.
In primo luogo, il ricorrente era stato messo in
condizione di interloquire sulle circostanze poste alla base
del provvedimento, in quanto con nota n. 195 del 07.01.2009,
il Comune gli aveva richiesto di attivare la procedura per
il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica intimandogli,
nel contempo, di sospendere i lavori.
In secondo luogo, l’atto di autotutela appare
doveroso e vincolato nella misura in cui si prende atto
della mancanza della prescritta autorizzazione paesaggistica
con conseguente inefficacia della D.I.A.. Va anzi detto, e
sul punto non incidono le ricorrenti modifiche della
normativa, che il mancato ottenimento dell’autorizzazione
paesaggistica ha impedito persino il perfezionamento della
D.I.A. in oggetto con ulteriore conferma della doverosità
dell’atto di cui si discute da cui, anzi, il Comune avrebbe
potuto prescindere limitandosi a esercitare il proprio
potere sanzionatorio (sul punto, v. Consiglio di Stato sez.
VI 05/04/2007 n. 1550; Cassazione penale sez. III 21/01/2010
n. 9255; TAR Napoli sez. VI 10/01/2011 n. 35; Cassazione
penale sez. III 21/01/2010 n. 8739).
La descritta doverosità dell’atto rende irrilevante
la mancata partecipazione del ricorrente al procedimento per
l’applicazione dell’ art. 21-octies L. 241/1990 (co. 2: «non
è annullabile il provvedimento adottato in violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per
la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo
non è comunque annullabile per mancata comunicazione
dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione
dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato»)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.01.2014 n. 514 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La vincolatezza del provvedimento di demolizione
comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale
motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione,
sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora,
sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al
privato); è, infatti, sufficiente evidenziare la violazione
del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza
del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è
avvenuto.
La descritta vincolatezza del provvedimento rende recessivo
l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi
dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si
applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia,
considerato il loro carattere doveroso.
La mancata indicazione del responsabile del procedimento non
integra alcuna ragione di illegittimità del provvedimento
costituendo una mera irregolarità a cui la stessa L.
241/1990 pone rimedio radicando la relativa responsabilità
in capo al dirigente.
È infondata anche la terza censura con cui
si lamenta la insufficienza della motivazione circa le
ragioni che avrebbero giustificato la demolizione.
Va ribadito, in proposito, che la vincolatezza del
provvedimento di demolizione comporta che sia superflua e
non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico
alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al
paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al
sacrificio imposto al privato); è, infatti, sufficiente
evidenziare la violazione del regime vincolistico e
l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo,
ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis,
TAR Campania Napoli, sez. VI n. 9718 del 04.08.2008 e
n. 3588 dell’11.07.2013).
Infine in merito alla quarta censura, relativa al
mancato rispetto delle cd. garanzie procedimentali di cui
alla L. 241/1990 e, in particolare, all’omesso avviso di
avvio del procedimento, va ribadito che la descritta vincolatezza del provvedimento rende recessivo l’obbligo di
comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L.
241/1990; tale obbligo, infatti, non si applica ai
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato
il loro carattere doveroso (cfr., art. 21-octies L. 241/1990
e, in giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, VI sez.,
n. 3706/2012; Consiglio Stato sez. V, 19.09.2008, n.
4530; TAR Napoli Campania sez. IV, 02.12.2008, n.
20794 e Tar Campania, Napoli, sez. IV, 16.06.2000 n.
2147).
Va aggiunto che la mancata indicazione del responsabile
del procedimento, pure lamentata da parte ricorrente, non
integra alcuna ragione di illegittimità del provvedimento
costituendo una mera irregolarità a cui la stessa L.
241/1990 pone rimedio radicando la relativa responsabilità
in capo al dirigente (art. 5, co. 2, L. 241/1990)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 24.01.2014 n. 512 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Qualora gli strumenti
urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e
nulla aggiungano sulla possibilità di costruire in aderenza
od in appoggio, la preclusione di dette facoltà non consente
l'operatività del principio della prevenzione e non è quindi
consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il
vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa
di chiedere la comunione del muro e di costruire in
aderenza, con la conseguenza che la distanza dal confine
prescritta dallo strumento urbanistico è assoluta.
Peraltro, la circostanza che le minori distanze rilevate dal
confine si riferirebbero a balconi incassati (cioè chiusi su
tre lati), in ogni caso non sarebbe rilevante ai fini in
esame, giacché anche i balconi di apprezzabile profondità ed
ampiezza rientrano tra i corpi di fabbrica computabili nelle
distanze tra costruzioni (cfr. C.d.S. n. 7731/2010, nel
senso che ai fini del computo delle distanze assumono
rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori,
qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della
solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo
che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste
dimensioni con funzione meramente decorativa e di
rifinitura).
Infatti, la scheda urbanistica di cui alle NTA del PRG per la zona Ba, sottozona 20, in cui ricadono i
manufatti in questione prevede un distacco minimo dai
confini di 10 metri senza null’altro aggiungere (cfr.
allegato 4.a alla relazione di verificazione), sicché, come
correttamente rileva parte ricorrente, nel caso di specie
deve trovare applicazione il principio per il quale, qualora
gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze
dal confine e nulla aggiungano sulla possibilità di
costruire in aderenza od in appoggio, la preclusione di
dette facoltà non consente l'operatività del principio della
prevenzione e non è quindi consentito al preveniente
costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua
volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione
del muro e di costruire in aderenza (cfr. C.d.S., sez. V, 27.04.2012, n. 2458; Cass. Civ., sez. II,
09.04.2010, n.
8465), con la conseguenza che la distanza dal confine
prescritta dallo strumento urbanistico è assoluta.
Peraltro, la circostanza che le minori distanze rilevate dal
confine si riferirebbero a balconi incassati (cioè chiusi su
tre lati), come rimarca parte controinteressata, in ogni
caso non sarebbe rilevante ai fini in esame, giacché anche i
balconi di apprezzabile profondità ed ampiezza rientrano tra
i corpi di fabbrica computabili nelle distanze tra
costruzioni (cfr. C.d.S., sez. IV, 02.11.2010, n. 7731, nel
senso che ai fini del computo delle distanze assumono
rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori,
qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della
solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo
che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste
dimensioni con funzione meramente decorativa e di
rifinitura); mentre è privo di ogni specificazione e
riscontro l’ultimo assunto difensivo, per il quale si
verterebbe nella specie di volumi tecnici, il che esime di
soffermarsi sul punto
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 24.01.2014 n. 506 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI E AMBIENTALI - PARCHI E RISERVE -
DIRITTO URBANISTICO - Interventi edilizi eseguiti su
immobili - Area vincolata - Totale difformità dal permesso -
Delitto paesaggistico - Configurabilità - Artt. 32, 34, c.
2-ter e art. 44, lett. C), d.P.R. n. 380/2001 - Artt. 136,
142, lett. F), art. 167, cc. 4 e 5, e 181, c. 1-bis, d.Lgs.
n. 42/2004.
Gli interventi eseguiti su immobili ricadenti sui parchi o
in aree protette nazionali e regionali (ipotesi contestata
agli indagati: artt. 136 e 142, lett. f), d.lgs. n.
42/2004), sono considerati in totale difformità dal
permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44
d.P.R. n. 380/2001, non trovando applicazione nemmeno la
speciale ipotesi del comma 2-ter dell'art. 34, d.P.R.
n.380/2001.
Conseguentemente, il positivo accertamento di compatibilità
paesaggistica dell'abuso edilizio eseguito in zona vincolata
non esclude la punibilità del delitto paesaggistico previsto
dall'art. 181, comma 1-bis, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (Cass.
Sez. 3, n. 7216 del 17/11/2010 - dep. 25/02/2011, Zolesio e
altro).
BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Area
vincolata - Interventi edilizi eseguiti su immobili - Reati
urbanistici - Concessione in sanatoria – Effetti -
Autorizzazione paesaggistica in sanatoria - Esclusione
-Autonomia della valutazione dell'A.G. penale - Artt. 32,
34, c.2-ter e art. 44, lett. C), d.P.R. n. 380/2001 - Artt.
136, 142, lett. F), 167, cc. 4 e 5, e 181, c. 1-bis, d.Lgs.
n. 42/2004.
In materia urbanistica, permane l'autonomia della
valutazione dell'A.G. penale da quella amministrativa in
materia, posto che, da un lato, il giudice penale deve
accertare la conformità dell'atto agli strumenti
urbanistici, in ossequio alla previsione degli artt. 36 e 44
del d.P.R. n. 380/2001, per i quali la concessione in
sanatoria estingue i reati urbanistici solo se le opere
risultano conformi agli strumenti urbanistici, senza
ricorrere all'istituto della disapplicazione del
provvedimento ex art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, all.
E (Sez. 3, n. 18764 del 26/02/2003 - dep. 18/04/2003, Demori,
Rv. 224731) e, dall'altro, che ai fini della configurabilità
dei fatti-reato previsti dalle disposizioni di settore, è
necessaria la valutazione sulla legittimità degli atti
amministrativi autorizzatori, ovviamente non estesa ai
profili di discrezionalità, allorché tali atti costituiscano
il presupposto o elementi costitutivi o integrativi del
reato, atteso che una attività formalmente assentita non può
svolgersi in contrasto con la disciplina di settore e con
conseguente lesione del bene protetto finale).
Nella specie, l'accoglimento della richiesta difensiva,
atteso che non potendosi rilasciare l'autorizzazione
paesaggistica in sanatoria per l'incremento volumetrico, non
poteva nemmeno essere rilasciato il permesso di costruire in
sanatoria (link a www.ambientediritto.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.01.2014 n. 1486). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Realizzazione di
interventi edilizi - Sequestro preventivo per reati
paesaggistici - Requisito dell'attualità del pericolo - Art.
181 c.1 bis, D. Lgs. n. 42/2004 - Art. 44, d.P.R. n.
380/2001 - Art. 321 c.p.p..
Con riferimento all'art. 181 D.Lgs. n. 42/2004, in tema di
sequestro preventivo per reati paesaggistici, la sola
esistenza di una struttura abusiva integra il requisito
dell'attualità del pericolo indipendentemente dall'essere
l'edificazione ultimata o meno, in quanto il rischio di
offesa al territorio ed all'equilibrio ambientale, a
prescindere dall'effettivo danno al paesaggio, perdura in
stretta connessione con l'utilizzazione della costruzione
ultimata (Cass. Sez. 3, n. 24539 del 20/03/2013 - dep.
05/06/2013, Chiantone).
BENI CULTURALI E AMBIENTALI -
Realizzazione di interventi edilizi - Condotte inidonee a
compromettere i valori del paesaggio - Attualità del
pericolo anche in astratto – Effetti - Art. 181, c. 1-bis,
D.Lgs. n. 42/2004 - Art. 44, d.P.R. n. 380/2001 - Art. 321
c.p.p..
Il reato di pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs.
22.01.2004, n. 42 è integrato anche dalla realizzazione di
interventi edilizi non determinanti aggravio del carico
urbanistico, essendo assoggettabile ad autorizzazione ogni
intervento modificativo, con esclusione delle condotte che
si palesino inidonee, anche in astratto, a compromettere i
valori del paesaggio.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Sequestro
ipotesi criminosa già perfezionatasi - Requisiti della
concretezza e dell'attualità - Art. 181, c. 1-bis, D. Lgs.
n. 42/2004 - Art. 44, d.P.R. n. 380/2001 - Art. 321 c.p.p..
Il sequestro è consentito anche nel caso di ipotesi
criminosa già perfezionatasi, purché il pericolo della
libera disponibilità della cosa stessa -che va accertato dal
giudice con adeguata motivazione- presenti i requisiti della
concretezza e dell'attualità e le conseguenze del reato,
ulteriori rispetto alla sua consumazione, abbiano
connotazione di antigiuridicità, consistano nel volontario
aggravarsi o protrarsi dell'offesa al bene protetto che sia
in rapporto di stretta connessione con la condotta
penalmente illecita e possano essere definitivamente rimosse
con l'accertamento irrevocabile del reato (Cass. Sez. U., n.
12878 del 29/01/2003 - dep. 20/03/2003, P.M. in proc.
Innocenti) (massima tratta da www.ambientediritto.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.01.2014 n. 1484 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Conservazione di
una specifica coltura tipica del territorio – Valenza
paesaggistica – Piano urbanistico – Violazione della
normativa regionale a tutela delle colture specializzate –
Censura proposta da un’associazione ambientalista –
Ammissibilità.
Una particolare vocazione agricola di un’area può
obiettivamente concorrere alla relativa valutazione
paesaggistica, nel senso cioè che la conservazione di una
specifica coltura, tipica di un determinato territorio,
costituisce parte essenziale ed integrante del “paesaggio”
esistente, connotandone sempre più le dimensioni storiche,
sociali ed economiche; la tutela del paesaggio inoltre
rientra certamente nel concetto, trasversale e di notevole
latitudine, di ambiente: ne deriva l’ammissibilità della
censura, proposta da un’associazione ambientalista avverso
gli atti di pianificazione urbanistica comunale, relativa
alla violazione dell’art. 2 della l.r. Sicilia n. 71/1978, a
tutela delle colture specializzate.
BENI CULTURALI E AMBIENTALI –
Conservazione di una specifica coltura tipica del territorio
– Concetto di coltura specializzata – Sicilia – Coltivazione
di agrumi – Specifiche caratteristiche quali-quantitative.
Il concetto di coltura specializzata varia da territorio a
territorio e, con riguardo alla Sicilia, la destinazione di
un suolo a coltivazione di agrumi –attesa la vasta
diffusione in tutta l’isola di siffatta coltura– non è di
per sé un indice sufficiente di detta specializzazione.
Con ciò non si intende affermare che in Sicilia un agrumeto
non possa mai considerarsi coltura specializzata a norma
dell’art. 2 della l.r. Sicilia n. 71/1978, ma indubbiamente,
per riconoscere tale qualificazione, è necessario che la
coltura in questione presenti peculiari caratteristiche
quali-quantitative (ad esempio, relative a un raro genere di
agrume o alla presenza di particolari opere infrastrutturali
ed irrigue) che la rendano meritevole di specifica
attenzione (massima tratta da www.ambientediritto.it -
C.G.A.R.S.,
sentenza 15.01.2014 n. 4 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Variante ad un piano urbanistico non direttamente
connessa alla gestione del sito – Effettuazione di una
preventiva valutazione di incidenza.
L’effettuazione di una preventiva valutazione di incidenza è
indispensabile anche nelle ipotesi in cui l’autorità
nazionale competente intenda approvare una variante di un
piano urbanistico sebbene non direttamente connessa e
necessaria alla gestione del sito, ma che possa comunque
avere incidenze significative su tale sito, singolarmente o
congiuntamente ad altri piani e progetti.
Valutazione di incidenza – Piani
urbanistici e varianti a contenuto generale posti
all’esterno di un sito della Rete Natura 2000.
La valutazione di incidenza deve essere svolta anche con
riferimento a piani urbanistici (e le loro varianti) a
contenuto generale e non solo a quelli attuativi di singoli
interventi; essa riguarda anche piani posti all’esterno di
un sito della Rete Natura 2000.
Valutazione di incidenza – Probabilità
di un’incidenza significativa.
La valutazione di incidenza deve essere effettuata
ogniqualvolta vi sia la probabilità di un’incidenza
significativa e può essere omessa soltanto quando vi sia la
certezza di un’assenza di incidenze; le amministrazioni
nazionali devono comunque motivare sul punto dell’assenza di
incidenze; la verifica preliminare delle probabilità di
incidenze va valutata alla stregua di quanto disposto dalla
direttiva 85/337/CEE e dalla direttiva 97/11/CE, che ha
modificato la prima.
Valutazione di incidenza – Distanza
dell’area oggetto dell’intervento dai siti della Reta Natura
2000 – Esclusione della probabilità di qualunque incidenza
significativa – Inconfigurabilità.
La considerazione della mera distanza dell’area oggetto
dell’intervento dai limitrofi siti della Rete Natura 2000
non è un elemento di per sé sufficiente ad escludere la
probabilità di qualunque incidenza significativa
dell’intervento pianificato sui predetti siti.
AREE PROTETTE – Valutazione di incidenza
– Effettuazione caso per caso.
La valutazione di incidenza deve esser fatta, caso per caso,
in relazione alle caratteristiche della specifica area
interessata dagli interventi.
Variante ad un piano urbanistico -
Valutazione di incidenza – Mancanza – Successiva
effettuazione sui piani attuativi della variante – Effetto
sanante – Esclusione.
Il vizio della mancanza della valutazione di incidenza non è
sanabile attraverso l’effettuazione della valutazione sui
futuri ed eventuali piani attuativi della variante al piano
urbanistico, giacché una considerazione del genere si pone
in diretto contrasto con la disciplina europea.
Valutazione di incidenza – Art. 5 del
D.P.R. n. 357/1997 – Orientamento eurounitario –Distinzione
tra piano e intervento - Inconfigurabilità.
L’art. 5 del D.P.R. n. 357/1997 va interpretato con un
orientamento eurounitario: ciò significa che detta norma
deve essere interpretata in modo che il precetto da essa
ricavabile si presenti coerente con il dettato dell’art. 6,
par. 3, della Direttiva 92/43/CEE del 21.05.1992, relativa
alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e
della flora e della fauna selvatiche, recepita
nell’ordinamento nazionale dal ridetto decreto.
Il predetto par. 3 dell’art. 6 della Direttiva -con
riferimento alle ipotesi di non diretta connessione e però
di possibile incidenza significativa- non reca alcuna
distinzione terminologica tra “piano” e “intervento”,
ma usa soltanto la locuzione “piani o progetto” nella
quale certamente rientra anche la variante di un piano
urbanistico (e, dunque, per scongiurare ogni incompatibilità
tra la disciplina interna e quella sovranazionale si deve
concludere nel senso che nel generico concetto nazionale di
“intervento” siano da ricondursi anche i piani)
(massima tratta da www.ambientediritto.it - C.G.A.R.S.,
sentenza 15.01.2014 n. 4 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI
- INCARICHI PROGETTUALI:
Il riconoscimento di un debito da parte di un
ente locale, pur facendo salvo l’impegno di spesa in
precedenza assunto senza copertura contabile, non comporta
la sanatoria del contratto eventualmente nullo o comunque
invalido, come quello privo della forma scritta “ad
substantiam”; il riconoscimento di debito, infatti, non può
costituire esso stesso fonte di obbligazione.
Con il terzo motivo, come detto, il ricorrente sostiene che
dovevano essere ritenute fondate la sua domanda proposta ex
art. 1988 c.c. e quella di ingiustificato arricchimento ex
art. 2041 c.c., sviluppa argomenti per sostenere la
fondatezza di tali domande; assume che, essendo stato posto
a fondamento del credito non un titolo, ma il semplice
riconoscimento di debito, il giudice di appello non avrebbe
potuto rilevare di ufficio la nullità del contratto dal
quale il riconoscimento traeva origine.
Il motivo, con riferimento alla domanda di ingiustificato
arricchimento, resta assorbito dalla rilevata
inammissibilità della domanda per tardività.
Con riferimento alla domanda fondata sul riconoscimento di
debito se ne rileva la manifesta infondatezza perché, come
riconosciuto dalla costante giurisprudenza di questa Corte
(Cass. 11021/2005; Cass. 9412/2011; Cass. 1423/2013), il
riconoscimento di debito non costituisce una autonoma
causa obligandi e quindi non può produrre effetti ove,
come nella specie, il credito non possa sorgere per la
nullità del contratto; il relativo accertamento, pertanto
non può dirsi estraneo al thema decidendum sottoposto
al giudice del merito con la domanda di adempimento
contrattuale (pur facilitata dall’inversione dell’onere
probatorio per il riconoscimento titolato del debito) e il
giudice ha correttamente rilevato di ufficio la nullità, per
la mancanza della forma scritta richiesta ad substantiam
per i contratti della p.a., del contratto dal quale
scaturiva il debito pur riconosciuto dal Comune, secondo la
tesi del ricorrente, contestata invece dal Comune che aveva
attribuito alla delibera il significato di una mera
attestazione di disponibilità delle risorse.
Va ulteriormente rilevato che con il giudizio di opposizione
era stata contestata la fondatezza nel merito della pretesa
azionata così che anche sotto questo profilo, l’accertamento
della causa debendi era stato sottoposto al giudice (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 10.01.2014 n. 405 -
link a http://renatodisa.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Compravendita immobiliare. Difetti di costruzione
dell'immobile: la S.C. ''sposta'' i termini per la denuncia.
Il termine di un anno per la denunzia dei gravi
difetti di costruzione dell'immobile non coincide con la
manifestazione esteriore bensì col momento in cui il
danneggiato acquisisce un apprezzabile grado di conoscenza
non solo dell'entità, ma soprattutto delle cause tecniche,
al fine di individuare le responsabilità.
La sentenza impugnata ha dedotto la gravità dei difetti
sulla scorta della ctu, definendoli difetti strutturali la
cui eliminazione dovrebbe comportare la demolizione e
ricostruzione dei solai, intervento costoso e disagevole.
La scoperta del vizio deve effettuarsi con riguardo tanto
alla gravità dei vizi quanto al collegamento causale di essi
con l'attività espletata.
La conoscenza completa, idonea a determinare il decorso del
termine, dovrà ritenersi conseguita solo all'atto di
acquisizione di idonei accertamenti tecnici.
Per giurisprudenza costante, ne deriva che il termine di un
anno per la denunzia non coincide con la manifestazione
esteriore bensì col momento in cui il danneggiato acquisisce
un apprezzabile grado di conoscenza non solo dell'entità, ma
soprattutto delle cause tecniche, al fine di individuare le
responsabilità.
Il risarcimento del danno può essere addossato in via
solidale sia all'azienda esecutrice dei lavori sia al
professionista col ruolo di direttore degli stessi lavori
quando si tratti di individuare il responsabile nel quadro
di un rapporto oggettivamente unico (Corte di Cassazione,
Sez. II civile,
sentenza 17.12.2013 n. 28202 - commento tratto da
www.ispoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla demolizione di opera abusiva realizzata sul demanio
marittimo.
Appare
prima facie destituita di fondamento l’eccezione dedotta
dalla difesa comunale in ordine ad un presunto difetto di
giurisdizione del giudice adito, in quanto la domanda
sarebbe diretta ad ottenere l’accertamento della proprietà
privata dell’area e conseguentemente apparterrebbe alla
giurisdizione ordinaria.
La prospettazione proposta appare invero ardita, oltre che
smentita da consolidata giurisprudenza.
Oggetto del contendere è la legittimità di un ordine di
rimozione di opere reputate abusive ed asseritamente
realizzate su demanio marittimo; la causa petendi consiste
pertanto nella legittimità di un provvedimento
amministrativo, reputato lesivo della sfera giuridica del
titolare dei beni in capo al quale, rispetto all’esercizio
del predetto potere, sussiste un interesse legittimo
oppositivo. La contestazione in merito alla natura dell’area
assume all’evidenza carattere incidentale rispetto alla
questione principale della legittimità o meno dell’ordine
posto in essere dalla p.a..
Così rettamente ricostruito l’oggetto del contendere, assume
rilievo dirimente il noto principio a mente del quale va
riconosciuta la giurisdizione del giudice amministrativo per
le ipotesi in cui non venga in contestazione principale
l'appartenenza dell'area; in altri termini, in tutte le
ipotesi in cui la controversia risulti incentrata sul
contestato esercizio del potere e/o sulla violazione delle
norme che disciplinano il procedimento amministrativo e non
direttamente sulla stessa situazione proprietaria ben può il
giudice amministrativo conoscere in via incidentale di
questioni inerenti diritti soggettivi.
Peraltro, nel caso de quo, oltre a mancare qualsiasi domanda
di accertamento, la contestazione riguarda in via diretta lo
scorretto esercizio del potere, in specie sotto i
tradizionali profili della violazione di norme e di figure
sintomatiche di eccesso di potere, specie per difetto di
motivazione ed istruttoria sui presupposti del potere, tra
cui la natura dell’area demaniale la cui contestazione
avviene invero proprio in merito alla carenza degli
accertamenti istruttori e della conseguente esplicazione
motivazionale delle ragioni poste a sostegno del
provvedimento lesivo.
---------------
E' illegittimo l'ordine di sgombero di un'area che si
ritiene appartenere al demanio marittimo ove non preceduto
dall'effettuazione dello speciale procedimento di
delimitazione previsto dall'art. 32 Cod. Nav., che assume
carattere indispensabile nel caso in cui ricorra
un'oggettiva incertezza, da superare mediante un formale
contraddittorio sull'esatta posizione dei confini, non
assumendo alcuna rilevanza in proposito il richiamo
effettuato alla determinazione catastale, la quale non può
essere equiparata alla determinazione ex art. 32 Cod. Nav.,
ed in ogni caso non è sufficiente di per sé ad attribuire
natura demaniale ad un'area.
... per l'annullamento decreto 12 del 10.07.2012 recante
ingiunzione di rimozione opere abusive realizzate su sedime
demaniale marittimo.
...
Con il gravame introduttivo del giudizio l’odierna parte
ricorrente, quale proprietaria dell’immobile interessato e
titolare dell’azienda ivi operante, impugnava il
provvedimento di cui in epigrafe, avente ad oggetto ordine
di rimozione di opere abusive asseritamente realizzate su
demanio marittimo. Nel ricostruire in fatto e nei documenti
la vicenda, avverso l’atto impugnato parte ricorrente
muoveva le seguenti censure:
- violazione degli artt. 822 c.c. e 28 cod. nav., eccesso di
potere per travisamento, errore di presupposto e difetto di
istruttoria, in quanto l’area non appartiene al demanio
marittimo essendo sul punto insufficiente la prova fornita
con le risultanze catastali;
- analoghi vizi sotto altro profilo, dovendo in caso di
dubbio comunque procedere preliminarmente, rispetto
all’ordine di rimozione, alla demarcazione ex art. 32 cod.
nav.;
- violazione dell’art. 3 l. 241/1990 per difetto di
motivazione, anche a fronte degli esiti negativi per la p.a.
del processo penale in cui è stata reputata indimostrata la
natura demaniale dell’area de qua.
L’amministrazione intimata si costituiva in giudizio e,
replicando punto per punto, chiedeva la declaratoria di
inammissibilità per difetto di giurisdizione ed il rigetto
del gravame.
Con ordinanza n. 345/2012 veniva accolta la domanda di
misura cautelare e quindi sospesa l’esecuzione del
provvedimento, nonché fissata udienza di discussione del
merito per il giorno 10.10.2013, all’esito della quale la
causa passava in decisione.
Preliminarmente, appare prima facie destituita di
fondamento l’eccezione dedotta dalla difesa comunale in
ordine ad un presunto difetto di giurisdizione del giudice
adito, in quanto la domanda sarebbe diretta ad ottenere
l’accertamento della proprietà privata dell’area e
conseguentemente apparterrebbe alla giurisdizione ordinaria.
La prospettazione proposta appare invero ardita, oltre che
smentita da consolidata giurisprudenza. Oggetto del
contendere è la legittimità di un ordine di rimozione di
opere reputate abusive ed asseritamente realizzate su
demanio marittimo; la causa petendi consiste pertanto
nella legittimità di un provvedimento amministrativo,
reputato lesivo della sfera giuridica del titolare dei beni
in capo al quale, rispetto all’esercizio del predetto
potere, sussiste un interesse legittimo oppositivo. La
contestazione in merito alla natura dell’area assume
all’evidenza carattere incidentale rispetto alla questione
principale della legittimità o meno dell’ordine posto in
essere dalla p.a..
Così rettamente ricostruito l’oggetto del contendere, assume
rilievo dirimente il noto principio a mente del quale va
riconosciuta la giurisdizione del giudice amministrativo per
le ipotesi in cui non venga in contestazione principale
l'appartenenza dell'area; in altri termini, in tutte le
ipotesi in cui la controversia risulti incentrata sul
contestato esercizio del potere e/o sulla violazione delle
norme che disciplinano il procedimento amministrativo e non
direttamente sulla stessa situazione proprietaria ben può il
giudice amministrativo conoscere in via incidentale di
questioni inerenti diritti soggettivi (cfr. ora art. 8 cod.
proc. amm.; per un caso analogo cfr. ad es. Cass. civ. sez.
unite n. 27181 del 28.12.2007 e Tar Calabria n. 398/2010).
Peraltro, nel caso de quo, oltre a mancare qualsiasi
domanda di accertamento, la contestazione riguarda in via
diretta lo scorretto esercizio del potere, in specie sotto i
tradizionali profili della violazione di norme e di figure
sintomatiche di eccesso di potere, specie per difetto di
motivazione ed istruttoria sui presupposti del potere, tra
cui la natura dell’area demaniale la cui contestazione
avviene invero proprio in merito alla carenza degli
accertamenti istruttori e della conseguente esplicazione
motivazionale delle ragioni poste a sostegno del
provvedimento lesivo.
Nel merito il ricorso appare prima facie fondato,
alla luce delle medesime considerazioni già evidenziate in
sede cautelare con conseguente applicabilità dell’art. 74
cod. proc. amm., sotto l’assorbente profilo del difetto di
istruttoria e di motivazione in ordine ai presupposti del
potere esercitato.
Infatti, se per un verso, come già riconosciuto (cfr. docc.
nn. 11 ss. di parte ricorrente) dal giudice penale (e
neppure minimamente valutato in sede amministrativa), la
p.a. ha fondato l’esercizio del potere su di un elemento
presupposto non adeguatamente dimostrato, per un altro e
connesso verso nessuna autonoma ed adeguata attività
istruttoria risulta essere stata svolta prima
dell’emanazione del provvedimento, neppure dopo le puntuali
e contrarie considerazioni svolte dal giudice penale ovvero
in contestazione delle osservazioni formulate dalla parte
interessata.
Invero, il provvedimento impugnato appare gravemente carente
nei termini dedotti, in quanto pur prendendo atto dell’esito
negativo del versante penale, ha automaticamente ed
inspiegabilmente svoltato sul versante amministrativo senza
spendere alcuna parola ulteriore in merito alle ragioni che
hanno spinto a perseguire la parallela strada in totale
spregio di quanto emerso, fra l’altro, in sede penale.
In tale contesto di gravi carenze istruttorie e
motivazionali, va altresì richiamato, anche a fini di
indicazione circa la corretta strada da percorrere per
l’esercizio del potere in questione, il condiviso e
consolidato orientamento a mente del quale è illegittimo
l'ordine di sgombero di un'area che si ritiene appartenere
al demanio marittimo ove non preceduto dall'effettuazione
dello speciale procedimento di delimitazione previsto
dall'art. 32 Cod. Nav., che assume carattere indispensabile
nel caso in cui ricorra un'oggettiva incertezza, da superare
mediante un formale contraddittorio sull'esatta posizione
dei confini, non assumendo alcuna rilevanza in proposito il
richiamo effettuato alla determinazione catastale, la quale
non può essere equiparata alla determinazione ex art. 32
Cod. Nav., ed in ogni caso non è sufficiente di per sé ad
attribuire natura demaniale ad un'area (cfr. ex multis
Tar Calabria n. 398/2010, Tar Lazio n. 13654/2010 e
Consiglio Stato, sez. VI, 21.09.2006, n. 5567).
Nel caso di specie, oltre ad emergere una palese situazione
di incertezza, anche a fronte degli esiti dei pregressi
tentativi in sede penale, la p.a. non ha svolto alcun
accertamento autonomo, né in termini di delimitazione né
altrimenti.
Alla luce delle considerazioni che precedono,
all’accoglimento del gravame consegue l’annullamento
dell’atto impugnato
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 30.10.2013 n. 1255 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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