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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di FEBBRAIO 2014

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aggiornamento al 25.02.2014

aggiornamento al 17.02.2014

aggiornamento al 03.02.2014

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 25.02.2014

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NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: avvio utilizzo piattaforma FERAU per la presentazione e la gestione amministrativa e tecnica dell’Autorizzazione Unica per impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili (Provincia di Bergamo, nota 19.02.2014 n. 17409 di prot.).
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Dal 20 febbraio è online la modulistica FERAU.
Dal 20.02.2014 anche l'Autorizzazione Unica per l'installazione di impianti a Fonti Energetiche Rinnovabili, di competenza provinciale, è online.
Si conclude così, con la sezione FERAU, il processo di informatizzazione di tutte le procedure per le autorizzazioni all'installazione di impianti FER, avviato l'anno scorso per le procedure di competenza comunale (FERCEL e FERPAS).
Il servizio è attivato all'interno della piattaforma MUTA (www.muta.servizirl.it), nella sezione dedicata alle FER.
Le domande presentate in cartaceo o in altra forma non saranno più accettate.
Per informazioni è possibile contattare i tecnici di Regione al seguente indirizzo e-mail: rinnovabili@regione.lombardia.it (21.02.2014 - link a www.regione.lombardia.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, art. 167, comma 4 - Quesito (MIBAC Veneto, circolare 18.02.2014 n. 12/2014).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 - Articoli 138, 141, 141-bis e 157, comma 2. - Procedimenti di dichiarazione di notevole interesse pubblico privi di formale provvedimento ministeriale (MIBACT Veneto, circolare 18.02.2014 n. 11/2014).

TRIBUTI: Oggetto: regime tariffario per rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, circolare 13.02.2014 n. 1/2014).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Chiarimenti sull'uso della modulistica di prevenzione incendi in materia di resistenza al fuoco (Ministero dell'Interno, Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e la Sicurezza Tecnica, lettera-circolare 11.02.2014 n. 1681 di prot.).
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SCIA antincendio, chiarimenti dei Vigili del Fuoco e tabella di sintesi con i modelli da usare.
Il Dipartimento dei Vigili del Fuoco ha diramato la Lettera Circolare 1681 dell’11.02.2014 contenente indicazioni sulla corretta procedura da seguire per la presentazione della SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) ai fini della sicurezza antincendio.
Nel documento vengono forniti i chiarimenti circa la nuova modulistica da utilizzare per la certificazione della resistenza al fuoco degli elementi costruttivi o dei prodotti da costruzione.
In particolare, il modello CERT.REI, attestante la prestazione di resistenza al fuoco di prodotti ed elementi costruttivi, viene sostituito dal nuovo modello DICH.PROD nei casi in cui è sufficiente la corretta posa in opera del prodotto per garantirne la prestazione di resistenza al fuoco.
E’ presente, infine, un’utile tabella riassuntiva che riporta i modelli da usare in funzione delle diverse tipologie di prodotto o elemento costruttivo (commento tratto da www.acca.it).

TRIBUTI: Oggetto: Tasi – Nota operativa e schema regolamento (ANCI Emilia Romagna, nota 11.02.2014 n. 36 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Opere sotterranee e opere interrate realizzate in corrispondenza di aree sottoposte a tutela ai sensi della Pane Terza del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Risposta al quesito proposto dalla Soprintendenza per i beni architettonici, paesaggistici, storici, artistici ed etnoantropologici per le province di Firenze, Pistoia e Prato (MIBAC, Segretariato Generale, circolare 30.05.2013 n. 27).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Decreto legislativo n. 42 del 22.01.2004 recante "Codice dei beni culturali e del paesaggio". Artt. 138, 141, 141-bis, 157, comma 2. Proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico prive di formale provvedimento ministeriale (MIBAC, Ufficio Legislativo, nota 03.11.2009 n. 21909 di prot.).

UTILITA'

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: FAQ in materia di trasparenza (sull’applicazione del d.lgs. n. 33/2013) (link a www.anticorruzione.it).

SICUREZZA LAVOROIl rischio chimico nei cantieri edili, "se lo conosci, lo eviti!"
Il rischio chimico in edilizia è legato all’impiego di materie prime (sostanze o preparati chimici) e alla possibilità di esposizione di polveri inorganiche, durante specifiche lavorazioni.
L’utilizzo di prodotti chimici risulta pericoloso sia per la salute del lavoratore ma anche per la sicurezza in generale, in quanto possono verificarsi incendi, esplosioni, ustioni chimiche.
L’Inail ha pubblicato una guida pratica dedicata al rischio chimico, utile per la formazione dei lavoratori impiegati nei cantieri edili. La guida, infatti, è realizzata tenendo conto delle nuove esigenze di informazione e formazione dei lavoratori introdotte dalle recenti normative (Regolamento CE n. 1272/2008 e l’Accordo Stato Regioni del 21/12/2011).
I temi affrontati vengono esposti facendo ricorso a numerose illustrazioni, al fine di renderne maggiormente comprensibili i contenuti, tenendo conto anche dell’ambiente multietnico che contraddistingue il settore edile.
Gli argomenti trattati dalla guida sono i seguenti:
rischio chimico nel settore edile
nuova etichettatura dei prodotti e le schede di sicurezza
mansioni che espongono al rischio chimico in edilizia
cosa fare per evitare il rischio chimico
prodotti specifici
approfondimenti (20.02.2014 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U. 21.02.2014 n. 43 "Testo del decreto-legge 23.12.2013, n. 145, coordinato con la legge di conversione 21.02.2014, n. 9, recante: «Interventi urgenti di avvio del piano “Destinazione Italia”, per il contenimento delle tariffe elettriche e del gas, per l’internazionalizzazione, lo sviluppo e la digitalizzazione delle imprese, nonché misure per la realizzazione di opere pubbliche ed EXPO 2015»".

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 21.02.2014, "Primo aggiornamento 2014 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 19.02.2014 n. 1306).

ENTI LOCALI - VARI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 8 del 20.02.2014, "Impresa Lombardia: per la libertà di impresa, il lavoro e la competitività" (L.R. 19.02.2014 n. 11).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 8 del 19.02.2014, "Determinazioni in ordine ai criteri di gestione obbligatoria e delle buone condizioni agronomiche e ambientali ai sensi del reg. CE 73/2009 così come modificato dal reg. UE 1310/2013 - Modifiche ed integrazioni alla d.g.r. 4196/2007" (deliberazione G.R. 14.02.2014 n. 1366).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

URBANISTICA: M. Grisanti, Il processo lottizzatorio, la prescrizione del reato e il recupero degli effetti mediante le varianti agli strumenti urbanistici (nota a Consiglio di Stato, n. 616 depositata il 10/02/2014) (20.02.2014 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: M. Rinaldi, Limiti all’utilizzo del cellulare aziendale: rassegna giurisprudenziale (19.02.2014 - link a www.diritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: G. Fasano, Legge di Stabilità per il 2014: meno privilegi ai dipendenti pubblici (19.02.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, La disciplina dell'immobile scolpita dal titolo abilitativo edilizio. Analisi degli effetti della c.d. super-DIA. Repetita iuvant (commento a TAR Liguria, n. 1581/2013) (18.02.2014 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: A. Giardetti, Principali interventi normativi in materia di centrali di committenza (17.02.2014 - link a www.diritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: P. Pupo, Gli accordi organizzativi fra pubbliche amministrazioni, tra applicazione dei principi codicistici e configurabilità di un potere (amministrativo) di recesso unilaterale (17.02.2014 - link a www.diritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - SEGRETARI COMUNALI: P. Russo, Il conflitto d’interessi nella funzione di responsabile della prevenzione della corruzione e della direzione dei controlli interni negli enti locali (14.02.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Greco, La controversa ammissibilità a sanatoria edilizia degli immobili abusivi in aree vincolate in territorio siciliano (05.02.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L. Guerra, Abuso edilizio e reintegrazione in forma specifica per il danneggiato (nota a sent. Cass. Pen. n. 37224/2013) (05.02.2014 - link a www.diritto.it).

APPALTI: D. Benedet, Da Palazzo Spada ancora incertezza sulla legittimità della partecipazione alle gare pubbliche in attesa di concordato preventivo con continuità aziendale (05.02.2014 - link a www.diritto.it).

APPALTI: A. Mancini, Riepilogo delle soglie di rilevanza comunitaria degli appalti pubblici nei settori ordinari e speciali (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 1/2014).

INCARICHI PROGETTUALI: A. Mancini, Determinazione degli importi a base d’asta nell’affidamento dei servizi tecnici: il D.M. 143/2013 (Bollettino di Legislazione Tecnica n. 1/2014).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALI: Dimissioni assessore comunale.
Domanda
Le dimissioni da assessore comunale sono immediatamente efficaci ed irrevocabili?
Risposta
Si richiede se le dimissioni presentate da un assessore comunale siano immediatamente efficaci ed irrevocabili.
INQUADRAMENTO NORMATIVO
Preliminarmente si osserva che la fattispecie delle dimissioni di un assessore, a differenza di quella dei consiglieri, non viene direttamente disciplinata dalla legge ed è pertanto rimessa all'autonomia statutaria degli enti locali. Il singolo Statuto comunale infatti può disciplinare in modo specifico tale particolare circostanza, non prevista dal T.U.E.L., anche al fine di evitare possibili contrasti come quello in esame. A fronte dell'assenza di una normativa anche sul piano statutario sembra necessario, onde poter dare una risposta concreta al quesito dato, prendere in considerazione tutti gli elementi posti alla base delle dimissioni stesse che, per vero, non sono stati palesati nel quesito.
In merito, sembra utile richiamare l'orientamento espresso con il parere del servizio per gli affari istituzionali delle autonomie locali della regione del Friuli Venezia Giulia il quale, pronunciandosi su di un quesito analogo, ha affermato che in mancanza di una diversa disposizione legislativa o statutaria, le dimissioni di un assessore sono immediatamente efficaci a decorrere dalla data di presentazione delle stesse (Cfr. Regione Autonoma Fiuli Venezia Giulia - Dir. Centrale funzione pubblica, autonomie locali e coordinamento delle riforme - Servizio affari istituzionali delle autonomie locali, 20.09.2011, prot. n. 32948).
Nel caso oggetto del parere appena richiamato però, a tale conclusione si era giunti anche in merito alle particolari condizioni con cui erano state rassegnate le dimissioni, ovvero le considerazioni espresse dall'assessore dimissionario nella nota indirizzata al Sindaco, con cui dichiarava che la propria decisione era "sofferta e non trattabile".
CONCLUSIONI
Dai soli elementi dati, e stante l'ampia genericità degli stessi, non è possibile fornire una risposta compiuta al quesito dato ma si ritiene, in via generale, che le dimissioni dell'assessore de quo possano essere considerate immediatamente efficaci ma non anche irrevocabili, qualora sussista una volontà comune tra l'assessore dimissionario ed il Sindaco in tal senso (21.02.2014 - tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

AMBIENTE-ECOLOGIANel formulario di identificazione dei rifiuti devono essere riportati gli orari di inizio e fine trasporto?
Ai sensi dell’art. 193 TUA, durante il trasporto effettuato da enti o imprese i rifiuti sono accompagnati dal formulario di identificazione. E, al comma 6 dello stesso si dice “relativamente alla definizione del modello e dei contenuti del formulario di identificazione si applica il decreto del Ministro dell’ambiente 01.04.1998, n. 145”.
Nel D.M. n. 145/1998 si precisa che nella quarta sezione del formulario il produttore/detentore e il trasportatore nella casella 10 devono trascrivere la data e l’ora di partenza. Nella sezione quinta, casella 11, il destinatario dei rifiuti dovrà indicare se il carico è stato accettato o respinto e la data di arrivo, cioè di fine del trasporto.
Anche la giurisprudenza ha confermato la necessità della indicazione nel formulario degli orari di inizio e fine trasporto, in quanto prescritti dal D.M. n. 145/1998.
Oltretutto, la responsabilità per omissione degli orari di trasporto grava non solo sul trasportatore, ma anche sul produttore dei rifiuti, tenuto alla redazione e sottoscrizione del formulario stesso.
Quindi, il formulario, tipico documento di accompagnamento dei rifiuti durante il trasporto, deve contenere tutti i dati richiesti all’atto della partenza del rifiuto, ad eccezione di quelli da compilare all’arrivo del carico, in modo da garantire la possibilità per gli organi di controllo di verificare su strada la rispondenza tra quanto in esso dichiarato e il dato reale.
Per tale ragione, qualunque incompletezza che non permetta di compiere tale accertamento è suscettibile della sanzione di cui all’art.. 258 del TUA che dispone che “chiunque effettua il trasporto di rifiuti senza il formulario di cui all’art. 193 ovvero indica nel formulario stesso dati incompleti o inesatti è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da milleseicento euro a novemilatrecento euro“ (17.02.2014 - link a www.ambientelegale.it).

INCARICHI PROGETTUALI - PUBBLICO IMPIEGO: Progettazione interna. Oneri per l'iscrizione del dipendente all'albo/collegio e per l'aggiornamento professionale.
Ai sensi dell'art. 90, c. 4, del D.Lgs. 163/2006, per provvedere alla progettazione di opere e lavori pubblici, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni devono essere 'abilitati all'esercizio della professione' (fatta salva l'ipotesi disciplinata dall'art. 253, comma 16, dello stesso decreto), senza che sia necessaria l'iscrizione all'albo o al collegio professionale.
Il Comune, atteso che l'art. 90 del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163
[1], prevede che le prestazioni concernenti la redazione dei progetti per la realizzazione di opere e di lavori pubblici sono espletate, in via prioritaria, dagli uffici tecnici delle stazioni appaltanti (comma 1, lett. a) [2]) e che, in tale ipotesi [3], i progetti medesimi sono firmati da dipendenti delle amministrazioni «abilitati all'esercizio della professione» (comma 4, primo periodo [4]) [5], afferma che parrebbe potersi dedurre che, per svolgere il predetto incarico, il dipendente pubblico 'debba essere annualmente in regola con il pagamento dell'iscrizione all'albo/collegio di appartenenza'.
Anzitutto, appare necessario rilevare che la richiamata previsione del Codice dei contratti pubblici, ai sensi della quale i progetti redatti all'interno delle pubbliche amministrazioni sono firmati da dipendenti 'abilitati all'esercizio della professione', ripropone la norma già contenuta nell'art. 17, comma 2, primo periodo
[6], della legge 11.02.1994, n. 109, come sostituito dall'art. 6, comma 2, della legge 18.11.1998, n. 415.
La Corte dei conti -Sezione del controllo per la Regione Sardegna
[7], chiamata ad esprimersi sulla legittimità dell'assunzione, a carico del bilancio comunale, della tassa annuale di iscrizione all'albo professionale di un dipendente a tempo indeterminato, osserva che occorre, preliminarmente, stabilire se la predetta iscrizione costituisca requisito per lo svolgimento dell'attività lavorativa.
Il Giudice contabile afferma che «Così non è più nella materia dei lavori pubblici, in quanto la disciplina di cui all'articolo 17 della legge 109 del 1994 è stata modificata dalla legge n. 415 del 1998 nel senso che non è richiesta l'iscrizione all'albo professionale per i dipendenti pubblici che firmino i progetti, ma è sufficiente il possesso dell'abilitazione professionale».
Su analoga questione, la Corte dei conti -Sezione regionale di controllo per le Marche
[8], precisa che «occorre tener conto che l'abilitazione -intesa quale accertamento dei requisiti tecnico-professionali- si distingue dall'iscrizione all'albo professionale e risulta esserne presupposto».
«La vigente disciplina» -prosegue il Collegio- «accoglie pienamente questo principio, distinguendo la redazione di progetti da parte dei dipendenti abilitati all'esercizio della professione (senza necessità di iscrizione all'albo: art. 90 quarto comma d.lgs. 163/2006) dalla redazione di progetti da parte di professionisti esterni iscritti negli appositi albi (art. 90 settimo comma d.lgs. 163/2006)».
[9]
Anche l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp)
[10] rileva che l'art. 90 del Codice dei contratti pubblici, nell'individuare i soggetti deputati ad espletare le prestazioni relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva, nonché alla direzione dei lavori e agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo, distingue tra progettazione interna ed esterna, prevedendo che i progetti redatti dai soggetti interni all'amministrazione sono firmati da dipendenti abilitati all'esercizio della professione.
L'Avcp ricorda che la disposizione ricalca quella introdotta, nella normativa previgente, con un intervento normativo del 1998, epoca alla quale risale la scelta del legislatore di distinguere i requisiti richiesti ai soggetti cui affidare la progettazione interna ed esterna, «esonerando i dipendenti delle amministrazioni dall'obbligo di iscrizione all'albo professionale».
L'Avcp richiama, poi, la rilevante osservazione svolta dall'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici
[11], secondo la quale «La circostanza che le prestazioni relative alla progettazione attengono ad un'attività umana prettamente intellettiva e di contenuto corrispondente a quello proprio di una professione liberale, individualmente esercitata, non è idonea a far ritenere che, nel nostro ordinamento, i tecnici appartenenti ad ufficio pubblico svolgano un'attività di libera professione in quanto autori delle medesime elaborazioni intellettive proprie delle professioni liberali. Quel che, invece, è vero, è che l'attività di progettazione svolta da funzionari pubblici è attività professionalmente qualificata, ma non di libera professione».
Si ritiene utile segnalare che -nel medesimo atto- la predetta Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici chiarisce, inoltre, che «Questa qualificazione professionale è garantita dalla legge quadro col prevedere che gli addetti ai competenti uffici (art. 17, comma 2), oltre alla garanzia data dalla selezione per l'accesso all'impiego, debbano possedere per poter firmare il progetto l'abilitazione all'esercizio della professione, ovvero, per i tecnici diplomati, il pregresso esercizio di analoghi incarichi, ritenuto equipollente. È significativo che in tali sensi si sia modificato il testo originario della norma, come introdotta dalla legge n. 216/1995 [...] e che prevedeva anche la necessità di iscrizione al competente albo professionale, in quanto tale modifica sta a comprovare il carattere non decisivo, ai fini dell'oggettiva affidabilità della prestazione, di detta iscrizione».
---------------
[1] «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE».
[2] «1. Le prestazioni relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla direzione dei lavori e agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del procedimento e del dirigente competente alla formazione del programma triennale dei lavori pubblici sono espletate:
a) dagli uffici tecnici delle stazioni appaltanti;
[...]».
[3] Nonché quando le prestazioni di cui trattasi sono espletate:
- dagli uffici consortili di progettazione e di direzione dei lavori costituiti dai comuni, dai rispettivi consorzi ed unioni, dalle comunità montane, dalle aziende per i servizi sanitari, dai consorzi, dagli enti di industrializzazione e dagli enti di bonifica [lett. b)];
- dagli organismi di altre pubbliche amministrazioni, di cui le singole stazioni appaltanti possono avvalersi per legge (lett. c)).
[4] «4. I progetti redatti dai soggetti di cui al comma 1, lettere a), b) e c), sono firmati da dipendenti delle amministrazioni abilitati all'esercizio della professione. [...]».
[5] Disposizioni analoghe sono contenute nell'art. 9, commi 1 e 2, della legge regionale 31.05.2002, n. 14, i quali prevedono che: «1. Le prestazioni finalizzate alla realizzazione di lavori pubblici e in particolare quelle relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva, nonché alla direzione dei lavori sono espletate:
a) dagli uffici tecnici delle stazioni appaltanti;
[...].
2. I progetti redatti dai soggetti di cui al comma 1, lettere a), b) e c), sono firmati da dipendenti in possesso del titolo di abilitazione o equipollente ai sensi della normativa vigente in materia.».
[6] «2. I progetti redatti dai soggetti di cui al comma 1, lettere a), b) e c), sono firmati da dipendenti delle amministrazioni abilitati all'esercizio della professione. [...]».
[7] Parere n. 1/2007 del 19.01.2007.
[8] Deliberazione n. 9/2008/Par. del 03.06.2008, che richiama il già citato parere della Sezione regionale di controllo per la Sardegna n. 1/2007 e quello della Sezione regionale di controllo per la Toscana, reso con deliberazione n. 11P/2008 del 22.04.2008.
[9] La Corte dei conti rammenta, per completezza, che l'art. 253, comma 16, del D.Lgs. 163/2006 (il cui contenuto è sostanzialmente identico a quello recato dall'art. 17, comma 2, secondo periodo, della L. 109/1994, come sostituito dall'art. 6, comma 2, della L. 415/1998 ed integrato dalla previsione introdotta dal comma 9 dello stesso art. 6) consente, a certe condizioni, lo svolgimento di attività tecnico-professionale a personale dipendente munito di titolo di studio, ma non abilitato.
Il testo della disposizione è il seguente: «16. I tecnici diplomati che siano in servizio presso l'amministrazione aggiudicatrice alla data di entrata in vigore della legge 18.11.1998, n. 415, in assenza dell'abilitazione, possono firmare i progetti, nei limiti previsti dagli ordinamenti professionali, qualora siano in servizio presso l'amministrazione aggiudicatrice ovvero abbiano ricoperto analogo incarico presso un'altra amministrazione aggiudicatrice, da almeno cinque anni e risultino inquadrati in un profilo professionale tecnico e abbiano svolto o collaborato ad attività di progettazione.».
[10] Parere AG 6/2012 del 12.06.2012.
[11] Atto di regolazione 04.11.1999, n. 6
(17.02.2014 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità tra la carica di assessore e quella di membro del consiglio di amministrazione di ente pubblico.
Con riferimento all'esimente alle cause di ineleggibilità o incompatibilità, di cui all'articolo 67 del d.lgs. 267/2000, secondo il Consiglio di Stato alla potestà statutaria o regolamentare degli enti locali non è attribuita la facoltà di introdurre deroghe ulteriori alle cause di ineleggibilità o incompatibilità previste dalla legge, ma ad essi residua soltanto il compito di attuare o, tutt'al più, di adeguare allo specifico assetto organizzativo dell'ente locale le disposizioni adottate dal legislatore.
Il Comune chiede di conoscere se sussistano ipotesi di incompatibilità relativamente ad un assessore comunale nominato membro del consiglio di amministrazione di un Consorzio tra enti locali e, in caso affermativo, se possa trovare applicazione l'esimente di cui all'articolo 67 del d.lgs. 267/2000.
Ciò premesso, esaminato il quadro normativo di riferimento e sentito il Servizio elettorale, si formulano le seguenti considerazioni.
Le norme che rilevano, ai fini dell'individuazione di eventuali cause di incompatibilità relativamente al caso prospettato dal Comune, sono l'articolo 11 del d.lgs. 39/2013 e l'articolo 63 del d.lgs. 267/2000.
Si rappresenta che le osservazioni che seguono sono espresse in via collaborativa, non competendo allo scrivente Ufficio esprimersi in ordine ai contenuti di norme statali, l'interpretazione delle quali resta attribuita agli uffici ministeriali a ciò deputati e, come nel caso delle norme di cui al d.lgs. 39/2013, all'Autorità nazionale anticorruzione (CIVIT, ora ANAC) la quale, ai sensi dell'articolo 16, comma 3 del d.lgs. 39/2013 è l'organo deputato ad esprimere 'pareri obbligatori sulle direttive e le circolari ministeriali concernenti l'interpretazione delle disposizioni del presente decreto e la loro applicazione alle diverse fattispecie di inconferibilità degli incarichi e di incompatibilità.'.
Ciò premesso, quanto ai casi di incompatibilità di cui all'articolo 11 del d.lgs. 39/2013, le disposizioni che interessano l'odierno quesito sono quelle di cui al comma 3 del citato articolo
[1].
Si osserva che, in questo caso, presupposto per il sorgere della causa di incompatibilità è che il conferimento dell'incarico sia di competenza di taluna delle amministrazioni locali contemplate dalla norma. Atteso che lo statuto del Consorzio attribuisce il potere di nomina dei componenti del consiglio di amministrazione all'Assemblea consortile, sembra che non ricorrano, nel caso di specie, le situazioni di incompatibilità disciplinate dalla norma in commento.
Relativamente alla fattispecie prospettata nel quesito, si richiama altresì l'attenzione del Comune sull'opportunità di valutare se ricorra taluno dei casi di incompatibilità disciplinati dall'articolo 63 del d.lgs. 267/2000 (comma 1, n. 2) il quale dispone che non possa ricoprire la carica di consigliere comunale o di assessore '2) colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell'interesse del comune o della provincia'. La predetta norma è finalizzata ad evitare che la medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di amministratore di un comune e la qualità di amministratore (dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento) di un soggetto che si trovi in rapporti giuridici economicamente rilevanti con l'ente locale, caratterizzati da una prestazione da effettuare all'ente o nel suo interesse.
Quanto alla connotazione di detta prestazione, nel termine 'servizi', può essere ricompreso qualsiasi rapporto intercorrente con l'ente locale che, a causa della sua durata e della costanza delle prestazioni effettuate, sia in grado di determinare conflitto di interessi. Il contenuto dei servizi è quindi una prestazione di fare, senza elaborazione della materia, diretta a produrre una utilità, sia essa ad esecuzione prolungata, continuativa o periodica
[2]. La Giurisprudenza ha inoltre precisato che per servizio nell'interesse del comune si intendono 'tutte quelle attività che l'ente locale, nell'ambito dei propri compiti istituzionali e mediante l'esercizio dei propri poteri normativi ed amministrativi attribuitigli, fa e considera proprie' [3] [4].
Quanto all'esimente alle cause di ineleggibilità o incompatibilità di cui all'articolo 67 del d.lgs. 267/2000, il quale stabilisce che 'Non costituiscono cause di ineleggibilità e incompatibilità gli incarichi e le funzioni conferite ad amministratori del comune, della provincia e della circoscrizione previsti da norme di legge, statuto o regolamento in ragione del mandato elettivo', che costituisce un'eccezione al più generale principio della non cumulabilità di incarichi, si rappresenta che la causa ostativa non opera se il consigliere ha assunto la titolarità della carica 'societaria' in base a una norma di legge ovvero di statuto o di regolamento dell'ente territoriale in cui svolge il proprio mandato elettivo, ma sussiste se ha assunto tale carica in base a una norma dello statuto dell'altro ente/società (Corte di Cassazione Sez. I, 04.05.1993, n. 5179).
Si segnala, inoltre, l'interpretazione ancora più restrittiva formulata dal Consiglio di Stato (parere della I Sezione, 10.11.2004, n. 10166) il quale, riscontrando un quesito del Ministero dell'interno relativamente ad iniziative di numerosi enti locali 'rivolte ad introdurre, con richiamo all'articolo 67 del d.lgs. 18.08.2000, n. 267 [...], deroghe alle cause di ineleggibilità e di incompatibilità previste dagli artt. 60 e 63 dello stesso decreto' ha interpretato la norma nel senso che alla potestà statutaria o regolamentare degli enti locali non è attribuita la facoltà di introdurre deroghe ulteriori alle cause di ineleggibilità o incompatibilità previste dalla legge, ma ad essi residua soltanto il compito di attuare o, tutt'al più, di adeguare allo specifico assetto organizzativo dell'ente locale le disposizioni adottate dal legislatore. Un tanto nel rispetto dell'articolo 51 Cost. che 'assoggettando alla riserva di legge la definizione dei requisiti per accedere e mantenere le cariche elettive, non consente alle fonti secondarie di intervenire nella materia elettorale in modo autonomo e diretto'.
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[1] Il comma 3, recita: '3. Gli incarichi amministrativi di vertice nelle amministrazioni di una provincia, di un comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione nonché gli incarichi di amministratore di ente pubblico di livello provinciale o comunale sono incompatibili:
a) con la carica di componente della giunta o del consiglio della provincia, del comune o della forma associativa tra comuni che ha conferito l'incarico;
b) con la carica di componente della giunta o del consiglio della provincia, del comune con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di una forma associativa tra comuni avente la medesima popolazione, ricompresi nella stessa regione dell'amministrazione locale che ha conferito l'incarico;
c) con la carica di componente di organi di indirizzo negli enti di diritto privato in controllo pubblico da parte della regione, nonché di province, comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti o di forme associative tra comuni aventi la medesima popolazione abitanti della stessa regione.'.
[2] Cfr. Enrico Maggiora, Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell'ente locale, 2000, pag. 146 e segg.
[3] Cfr. Cass. Civ. Sez. I, 16.01.2004, n. 550.
[4] Cfr. anche Cass. Civ. Sez. I, 04.12.2003, n. 18513 in cui, nel caso di un consigliere comunale che ricopriva la carica di consigliere di amministrazione di un'azienda consortile costituita in forma di spa da più Comuni consorziati per la gestione del servizio di approvvigionamento idrico, la Corte ha ritenuto sussistente la causa di incompatibilità
(14.02.2014 -
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PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Mobilità interna.
Il datore di lavoro pubblico, nell'ambito dei poteri assimilati a quelli del datore di lavoro privato, può valutare e disporre la mobilità interna del personale, in un'ottica di migliore utilizzazione delle prestazioni del lavoratore, con diretti vantaggi per la qualità del servizio reso agli utenti.
In relazione alla nota di cui in oggetto, con cui la S.V. ha chiesto un parere in ordine alla fattibilità di una rotazione del personale di categoria C all'interno dell'Area Tecnica, in particolare dal Settore dell'Edilizia pubblica a quello dell'Edilizia privata, si rappresenta quanto segue.
Preliminarmente si osserva che, in assenza di specifiche disposizioni contenute nella contrattazione collettiva di comparto, come chiarito dall'ARAN
[1], ai fini del trasferimento interno di un dipendente, l'amministrazione è soggetta in generale:
- alla previsione dell'art. 13 della l. 300/1970 che, a tal fine, richiede che il trasferimento sia richiesto da esigenze tecniche, organizzative e produttive;
- alle eventuali disposizioni in materia di mobilità interna autonomamente assunte dall'Ente;
- al rispetto del vincolo della equivalenza delle mansioni di cui all'art. 52 del d.lgs. 165/2001, ove il trasferimento 'geografico' sia accompagnato anche da un mutamento di mansioni.
La disciplina della mobilità interna del personale rientra nell'ambito delle 'determinazioni per la organizzazione degli uffici e delle misure inerenti alla gestione del rapporto di lavoro', che sono assunte dagli organi di gestione dell'Ente con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, ai sensi dell'art. 5, comma 2, del d.lgs. 165/2001.
Nel caso rappresentato, il provvedimento di mobilità interna, concretizzandosi nella rotazione degli interessati, non sembra comportare una modifica del profilo professionale dei dipendenti, implicandone in concreto l'utilizzo in mansioni sostanzialmente equivalenti
[2], in relazione al profilo professionale di appartenenza e riconducibili, comunque, alla categoria C di inquadramento. Si procederebbe, infatti, al collocamento a rotazione dei dipendenti in strutture diverse, ma comunque rientranti nella medesima area di attività (quella tecnica).
Il datore di lavoro pubblico, nell'ambito dei poteri assimilati a quelli del datore di lavoro privato, può ben valutare la convenienza di una siffatta determinazione, in un'ottica di migliore utilizzazione delle prestazioni del lavoratore, con diretti vantaggi per la qualità del servizio reso agli utenti
[3].
L'istituto della mobilità interna del personale si caratterizza, infatti, come uno degli strumenti ottimali per un razionale utilizzo delle risorse umane a disposizione del datore di lavoro
[4].
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[1] Cfr. parere RAL442, consultabile sul sito: www.aranagenzia.it.
[2] Per potersi parlare di mansioni sostanzialmente equivalenti, insieme al dato dell'equivalenza formale delle mansioni riferibili alla stessa area occorre valutare responsabilmente se le nuove mansioni consentano di salvaguardare la professionalità del dipendente e di garantirne lo svolgimento e l'accrescimento (Cass. Civ. sez. lav. n. 7351/2005).
[3] Cfr. parere ANCI del 07.06.2012.
[4] Cfr. parere ANCI del 16.11.2012
(12.02.2014 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: Indirizzi per la nomina dei rappresentanti del Comune presso enti, società partecipate ed istituzioni.
Lo scopo delle disposizioni di cui all'articolo 50 del d.lgs. 267/2000, ai sensi del quale la nomina e revoca dei rappresentanti dell'ente locale da parte del Sindaco debbono avvenire sulla base degli indirizzi stabiliti dal consiglio, è quello di limitare la discrezionalità molto ampia di cui altrimenti l'amministrazione sarebbe titolare.
Il Consigliere espone che con delibera consiliare dello scorso giugno sono state dettate le linee di indirizzo disciplinanti, fra l'altro, i nuovi criteri e requisiti cui fare riferimento per l'individuazione dei rappresentanti del Comune presso enti, società partecipate ed istituzioni.
A tal proposito, il Consigliere chiede di conoscere se, nell'individuazione dei suddetti rappresentanti, per gli organi del Comune sussista l'obbligo di attenersi alle suindicate linee di indirizzo e se vi siano conseguenze in caso di mancanza, originaria o sopravvenuta, in capo ai soggetti eventualmente nominati/designati, dei requisiti come introdotti dalla delibera in argomento.
Sentito il Servizio elettorale, si formulano le seguenti considerazioni.
Con riferimento alla valutazione del rilievo degli indirizzi del consiglio in ordine alle nomine dei rappresentanti, si ritiene che il provvedimento del Sindaco per la formalizzazione dei nuovi incarichi dovrebbe richiamare gli specifici indirizzi consiliari, quali presupposti per le nomine effettuate.
Il senso della formula legislativa, di cui all'articolo 50 del d.lgs. 267/2000, per cui nomina e revoca debbono avvenire sulla base degli indirizzi stabiliti dal consiglio, è quello di limitare la discrezionalità molto ampia di cui altrimenti l'amministrazione sarebbe titolare; il potere in questione, dunque, non può essere esercitato ad libitum, ma deve tener conto degli indirizzi consiliari che costituiscono una conditio sine qua non al successivo esercizio del potere di nomina/designazione attribuito dalla legge al sindaco
[1].
La delibera contenente gli indirizzi del consiglio per le nomine riveste, dunque, la natura sostanziale di un regolamento, concernente l'esercizio di una delle prerogative dell'ente
[2].
Gli indirizzi consiliari costituiscono, quindi, un parametro di riferimento vincolante, ma, come osservato da certa dottrina
[3], non é possibile escludere un margine di apprezzamento discrezionale e politico al Sindaco stesso. A conferma di un tanto si segnala la sentenza del Consiglio di Stato, Sezione V, n. 4033/2009 che, annullando la sentenza TAR Veneto n. 2035/2007, ha statuito che 'la regola generale fissata dalle norme [4] non ha un valore assoluto, in quanto va adattata alla natura delle funzioni che il designato deve svolgere, sulla base degli statuti e dei regolamenti dell'ente cui è destinato.'.
Quanto alla conseguenze derivanti dall'insussistenza o dal venir meno dei requisiti necessari ai fini della regolarità della nomina o della designazione (puntualmente individuati nell'atto deliberativo di indirizzo), si osserva che la delibera contenente gli indirizzi in argomento prevede espressamente la decadenza del soggetto nominato o designato.
Quanto alla eventualità che gli indirizzi consiliari di cui alla delibera in commento vengano disattesi nell'adozione degli atti di nomina/designazione, fermo restando che gli stessi potranno essere valutati quale parametro di legittimità dell'atto di nomina da parte del Giudice amministrativo nell'eventualità di presentazione di un ricorso, si richiama quanto affermato dall'ANCI nel parere dd. 13.07.2011, laddove la possibilità di intervento dei consiglieri risulta garantita dagli istituti dell'interrogazione, dell'interpellanza e della mozione.
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[1] Cfr. parere ANCI dd. 13.07.2011
[2] Cfr. 'Rassegna dell'autotutela amministrativa' in http://www.autotutela-pa.it/s21.htm
[3] Cfr. Aurora Nardelli: 'Il potere di indirizzo del Consiglio per la nomina e la designazione dei rappresentanti del Comune presso enti, aziende e istituzioni:confronto tra la normativa di legge e le scelte statutarie (con riferimento al Comune di Bologna) in www.diritto.it/materiali/enti locali/nardelli.html
[4] Nella specie l'art. 50 del d.lgs. 267/2000 e la deliberazione del consiglio comunale contenente gli indirizzi per le nomine dei rappresentanti del Comune
(10.02.2014 -
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AMBIENTE-ECOLOGIALa scheda di trasporto è obbligatoria nel trasporto di rifiuti o può essere sostituita dal formulario di identificazione?
Il Dm 30.06.2009 ha introdotto l’obbligo di compilazione della scheda di trasporto, di cui all’articolo 7-bis, D.lgs 286/2005.
La scheda di trasporto rappresenta documento teoricamente capace di assicurare la tracciabilità di tutti i soggetti coinvolti nelle filiera del trasporto merci conto terzi. Restano, quindi, esclusi dall’applicazione della norma i trasporti in conto proprio.
In passato l’introduzione di tale obbligo ha sollevato dispute dottrinali quanto all’applicazione di tale incombenza al settore della gestione rifiuti e quindi al trasporto del materiale di scarto.
La circolare n. 140/2009 del Ministero dei Trasporti ha sottolineato che l’art. 3 D.M. 554/2009 considera equipollente alla scheda di trasporto “ogni altro documento che deve obbligatoriamente accompagnare il trasporto stradale delle merci, ai sensi della normativa comunitaria, degli accordi e delle convenzioni internazionali o di altra norma nazionale vigente o emanate successivamente”. E dal dato normativo ne desume che il formulario di trasporto, che deve obbligatoriamente accompagnare il trasporto dei rifiuti a norma della disciplina di settore, “possa essere considerato documentazione equipollente”.
Si ammette, quindi, l’equipollenza del formulario alla scheda di trasporto e, conseguentemente, la possibilità di esonero dall’obbligo della scheda a bordo del veicolo che trasporta i rifiuti.
Ma l’equipollenza conosce dei limiti. Limiti imposti dalla stessa configurazione del formulario ai sensi della normativa sui rifiuti, a meno che si facciano degli aggiustamenti.
Nel formulario è indicato il produttore/detentore del rifiuto e cioè, precisa il Ministero, “il soggetto che dispone il trasporto, ne cura il carico sui veicoli e, in genere, è il proprietario del rifiuto fino al conferimento dello stesso al destinatario”. E ciò è avallato dalla circostanza che -di norma- il “produttore/detentore” è il soggetto che richiede ed organizza il trasporto, curandone anche il carico sul veicolo. Nel caso di assenza della scheda, si assume, sulla base dell’equipollenza del formulario, che tali figure corrispondano al “produttore/detentore” del rifiuto indicato –per l’appunto- nel formulario. Se le cose stanno diversamente -se cioè non si abbia coincidenza delle figure che dovrebbero essere indicate nella scheda con quella del produttore/detentore- allora il formulario non conterrà di per sé tutti i dati previsti dalla scheda. Quindi, non vi sarà equipollenza.
La scelta che si presenta è tra l’integrazione dei dati del formulario con le indicazioni del proprietario della merce e caricatore oppure la coesistenza di formulario e scheda di trasporto. Pertanto, qualora occorra accertare la responsabilità concorrente dei soggetti coinvolti nelle operazioni di trasporto, il produttore/detentore coincide con il committente, caricatore e proprietario della merce, salvo sia diversamente indicato nella scheda di trasporto o specificato nel formulario. Altrimenti, a fronte del solo formulario, gli organi di controllo non potranno che dare per scontata la coincidenza tra la figura del proprietario del rifiuto, del committente del trasporto e del caricatore del rifiuto con quella del produttore/detentore indicato nel formulario stesso.
La scheda di trasporto, pertanto, non è obbligatoria ma solo eventuale nell’ambito del trasporto rifiuti (10.02.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAPuò essere disposto un veto regionale all’istallazione di depositi di materiali radioattivi?
Più volte si è tentato a livello regionale di disporre un tale veto.
La Corte Costituzionale, tuttavia, si è pronunciata contrariamente alla previsione di un tale divieto a livello regionale, in più occasioni.
Si rammenta, a tal riguardo, la pronuncia nei confronti della L.R. Puglia 04.12.2009, n. 30, L.R. Basilicata 19.01.2010, n. 1, L.R. Campania 21.01.2010, n. 2 che vietavano l'installazione sul territorio regionale, oltre che di impianti di produzione di energia nucleare, anche di depositi di materiali e di rifiuti radioattivi.
Da ultimo, si è dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 3, della L.R. Molise del 21.04.2011, n. 7 nella parte in cui prevedeva il divieto di installazione sul proprio territorio di depositi di materiali e rifiuti radioattivi.
La Consulta ha, infatti, ribadito il principio secondo cui “nessuna Regione –a fronte di determinazioni di carattere ultraregionale, assunte per un efficace sviluppo della produzione di energia elettrica nucleare– può sottrarsi in modo unilaterale ai conseguenti inderogabili oneri di solidarietà economica e sociale”.
Le disposizioni relative al settore dei materiali e rifiuti radioattivi vanno ascritte –sostiene la Consulta- alla materia, di esclusiva competenza statale, tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, negando che la Regione possa disporre di poteri in campo ambientale.
I poteri regionali non consentirebbero, infatti, sia pure in nome di una protezione più rigorosa della salute degli abitanti della Regione medesima, interventi preclusivi suscettibili di pregiudicare il medesimo interesse della salute in un ambito territoriale più ampio, come avverrebbe in caso di impossibilità o difficoltà a provvedere correttamente allo smaltimento di rifiuti radioattivi.
Tuttavia, si tempera il rigore di tale divieto, specificando che occorre tener conto, per lo meno, della necessità di trovare siti particolarmente idonei per conformazione del terreno e possibilità di collocamento in sicurezza. La stessa Consulta, infatti, ammonisce che l'incidenza della potenziale installazione dei depositi sul territorio regionale determina il coinvolgimento, attraverso opportune forme di collaborazione, della Regione interessata.
Le idonee modalità di collaborazione dovranno essere individuate e disciplinate dal legislatore statale, il cui operato, ove si riveli lesivo dell'autonomia regionale, potrà soltanto essere sottoposto dalla Regione interessata al vaglio di costituzionalità della Corte (03.02.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAUna istanza di rilascio dell’AIA, incompatibile con il Piano Provinciale per la Gestione rifiuti, può essere dichiarata improcedibile?
La giurisprudenza amministrativa, pronunciatasi in tema di Autorizzazione Integrata Ambientale, ha ritenuto legittima la determinazione dirigenziale con cui la Provincia ha dichiarato improcedibile la domanda di rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale per incompatibilità con il Piano Provinciale per la Gestione dei Rifiuti (PPGR), che stabilisce il divieto di apertura di nuovi siti per discariche in alcune località del territorio provinciale e non ha quindi proceduto all’apertura della procedura di V.I.A.
L’arresto della procedura di VIA e di AIA, una volta riscontrata l’irrealizzabilità del progetto in forza della disciplina pianificatoria, sarebbe, infatti, coerente con il precetto costituzionale di buona amministrazione, con i suoi precipitati in tema di economicità ed efficacia dell’azione amministrativa.
La stessa giurisprudenza rammenta che l’art. 208, comma 6, del D.Lgs. n. 152/2006, che attribuisce valenza di variante urbanistica agli atti di approvazione dei progetti di realizzazione/ampliamento di discariche, viene in rilievo solo quando l’ente competente approva il progetto ma non può essere interpretato nel senso che un progetto va approvato necessariamente. La norma, peraltro, si riferirebbe alla variante allo strumento urbanistico e non anche alle varianti agli atti di pianificazione di settore (03.02.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAQuale è la regolamentazione dei materiali da riporto dopo il Decreto fare?
La problematicità dei materiali da riporto si individua nella carenza dell’esatta ricognizione dei presupposti affinché la terra contaminata possa, a seguito dell’espletamento di operazioni di recupero del terreno, perdere la qualifica di rifiuto e divenire un prodotto. Sorge, inoltre, il dilemma se i riporti siano rifiuti o piuttosto materiali riutilizzabili, assimilabili al terreno naturale.
Il decreto Ambiente, coordinato con la legge di conversione n. 28/2012, ha tentato di fornire una prima soluzione mediante una interpretazione autentica dell’art. 185 del D.Lgs n. 152/2006. Ai sensi di tale norma, viene stabilito che i riferimenti al "suolo", di cui all'articolo 185, comma 1, lettere b) e c), e 4, si interpretino come riferiti anche ai materiali di riporto, al fine di escluderli, alle condizioni indicate nella norma, dall'applicazione della normativa sui rifiuti. In particolare, quali materiali di riporto vengono considerati i “materiali eterogenei, utilizzati per la realizzazione di riempimenti e rilevati, non assimilabili per caratteristiche geologiche e stratigrafiche al terreno in situ, all’interno dei quali possono trovarsi materiali estranei”.
Il legislatore ha voluto equiparare, quindi, il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione ai materiali di riporto estranei e eterogenei e non naturali, senza fornire, tuttavia, una precisa definizione di tali materiali.
Tale attesa definizione viene giuridicamente enunciata nel D.M. n. 161 del 10.08.2012, in vigore a decorrere dal 06.10.2012.
I materiali di riporto sono definiti “miscela eterogenea di materiali di origine antropica e suolo/sottosuolo come definito nell'allegato 9”.
Ai sensi dell’ allegato 9 in parola, i riporti si configurano come “orizzonti stratigrafici costituiti da materiali di origine antropica, ossia derivanti da attività di scavo, di demolizione edilizia, ecc, che si possono presentare variamente frammisti al suolo e al sottosuolo”.
Il D.L. n. 69/2013 (cd. Decreto fare), coordinato con la legge n. 98/2013, interviene nuovamente sull’argomento modificando l’art. 3 del citato.
L’attuale stesura dell’art. 3 citato dispone che “1. Ferma restando la disciplina in materia di bonifica dei suoli contaminati, i riferimenti al “suolo” contenuti all’art. 185, commi 1, lett. b) e c), e 4, del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, si interpretano come riferiti anche alle matrici materiali di riporto di cui all’Allegato 2 alla Parte IV del medesimo decreto legislativo, costituite da una miscela eterogenea di materiale di origine antropica, quali residui e scarti di produzione e di consumo, e di terreno, che compone un orizzonte stratigrafico specifico rispetto alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche naturali del terreno in un determinato sito e utilizzati per la realizzazione di riempimenti, di rilevati e di reinterri.
2. Fatti salvi gli accordi di programma per la bonifica sottoscritti prima della data di entrata in vigore della presente disposizione che rispettano le norme in materia di bonifica vigenti al tempo della sottoscrizione, Ai fini dell'applicazione dell'articolo 185, comma 1, lettere b) e c), del decreto legislativo n. 152 del 2006, le matrici materiali di riporto devono essere sottoposte a test di cessione effettuato sui materiali granulari ai sensi dell'articolo 9 del decreto del Ministro dell'ambiente 05.02.1998, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta ufficiale 16.04.1998, n. 88, ai fini delle metodiche da utilizzare per escludere rischi di contaminazione delle acque sotterranee e, ove conformi ai limiti del test di cessione, devono rispettare quanto previsto dalla legislazione vigente in materia di bonifica dei siti contaminati.
3 Le matrici materiali di riporto che non siano risultate conformi ai limiti del test di cessione sono fonti di contaminazione e come tali devono essere rimosse o devono essere rese conformi ai limiti del test di cessione tramite operazioni di trattamento che rimuovano i contaminanti o devono essere sottoposte a messa in sicurezza permanente utilizzando le migliori tecniche disponibili e a costi sostenibili che consentano di utilizzare l'area secondo la destinazione urbanistica senza rischi per la salute.
3-bis. Gli oneri derivanti dai commi 2 e 3 sono posti integralmente a carico dei soggetti richiedenti le verifiche ivi previste.
" (25.01.2014 - link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L’autore dell’inquinamento ha una responsabilità oggettiva per gli obblighi di bonifica? E il proprietario incolpevole è coinvolto?
È stato affermato in giurisprudenza che la responsabilità dell'autore dell'inquinamento, in posizione differente da quella del proprietario non inquinatore, costituisca una vera e propria forma di responsabilità oggettiva per gli obblighi di bonifica, messa in sicurezza e ripristino ambientale conseguenti alla contaminazione delle aree inquinate. Dalla natura oggettiva della responsabilità in questione è desumibile che l'obbligo di effettuare gli interventi di legge sorga in connessione con una condotta "anche accidentale", ossia a prescindere dall'esistenza di qualsiasi elemento soggettivo doloso o colposo in capo all'autore dell'inquinamento.
La stessa giurisprudenza, comunque, ammonisce che ai fini della responsabilità in questione è pur sempre necessario il rapporto di causalità tra l'azione (o l'omissione) dell'autore dell'inquinamento e la contaminazione e/ o il suo aggravamento in coerenza con il principio comunitario "chi inquina paga" .
L'imputabilità dell'inquinamento può avvenire per condotte attive, ma anche per condotte omissive e la prova può essere data anche in via indiretta, tramite presunzioni ex art. 2727, e 2729 c.c. o prendendo in considerazione elementi di fatto dai quali possono trarsi indizi gravi, precisi e concordanti che inducano a ritenere verosimile, secondo l'id quod plerumque accidit, che si sia verificato un inquinamento e che questo sia attribuibile a determinati autori.
Quanto al proprietario non responsabile, invece, la giurisprudenza ha enunciato il principio di diritto in base al quale gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione oppure, nel caso questi non sia individuabile o non provveda, alla P.a. (con diritto di rivalsa sul proprietario nei limiti del valore di mercato del sito).
Il D.lgs n. 152/2006 stabilisce, infatti, una chiara e netta distinzione tra la figura del responsabile dell'inquinamento e quella del proprietario del sito che non abbia causato o concorso a causare la contaminazione (25.01.2014 - link a www.ambientelegale.it).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Quesiti inerenti le possibilità di intervento in aree con destinazione agricola di cui agli artt. 59-62 della L.R. n. 12/2005. Richiesta parere circa la corretta interpretazione applicativa della norma (Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica, Programmazione e Pianificazione Territoriale, nota 30.03.2011 n. 9064 di prot.).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto.
Inoltre, costituendo l'esercizio del potere repressivo dell'abuso edilizio un atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico.
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Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo favore della disposizione oggi contenuta nell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, essendo proprio la parte privata, autrice dell'opera e del progetto, ad essere a conoscenza di come esso è stato eseguito e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito di demolizione, in pregiudizio della parte conforme.

Per il resto, l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto (cfr., ex ceteris, C.d.S., sez. VI, 05.08.2013, n. 4075; 31.05.2013, n. 3010 cit.; C.d.S., sez, IV, 18.09.2012; 10.08.2011, n. 4764; 20.07.2011, n. 4403); inoltre, costituendo l'esercizio del potere repressivo dell'abuso edilizio un atto dovuto, per il quale è in re ipsa l'interesse pubblico alla sua rimozione, l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico (cfr., fra le tante, TAR Campania, Napoli, sez. II, 12.07.2013, n. 3647).
Infine, il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo favore della disposizione oggi contenuta nell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo (ex ceteris, cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 22.11.2013, n. 5317; C.d.S., sez. V, 05.09.2011, n. 4982), essendo proprio la parte privata, autrice dell'opera e del progetto, ad essere a conoscenza di come esso è stato eseguito e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito di demolizione, in pregiudizio della parte conforme (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 21.02.2014 n. 1143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non esiste alcun termine di “prescrizione” del potere di repressione degli abusi edilizi.
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Costituendo l'esercizio del potere repressivo dell'abuso edilizio un atto dovuto, l'interesse pubblico alla sua rimozione è in re ipsa e, pertanto, l'ordinanza di demolizione è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico.
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L’acquisizione gratuita al patrimonio comunale costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all’inottemperanza dell’ordine di demolizione, sicché non osta alla stessa né il tempo trascorso dalla realizzazione dell’abuso, né l’affidamento eventualmente riposto dall’interessato sulla legittimità delle opere realizzate, né l’assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l’acquisizione.

Il primo motivo di ricorso, con cui parte ricorrente lamenta che il Comune di Villaricca, non precisando la data della costruzione, avrebbe omesso di considerare l’eventuale intervenuta prescrizione, è manifestamente infondato, atteso che non esiste alcun termine di “prescrizione” del potere di repressione degli abusi edilizi.
Infondato è anche il secondo motivo, col quale il ricorrente lamenta il difetto di motivazione sulle ragioni di pubblico interesse che hanno giustificato l’intervento sanzionatorio dell’amministrazione.
Infatti, costituendo l'esercizio del potere repressivo dell'abuso edilizio un atto dovuto, l'interesse pubblico alla sua rimozione è in re ipsa e, pertanto, l'ordinanza di demolizione è sufficientemente motivata con riferimento all'oggettivo riscontro dell'abusività delle opere ed alla sicura assoggettabilità di queste al regime del permesso di costruire, non essendo necessario, in tal caso, alcun ulteriore obbligo motivazionale, come il riferimento ad eventuali ragioni di interesse pubblico (cfr., fra le tante, TAR Campania, Napoli, sez. II, 12.07.2013, n. 3647).
Col terzo motivo di ricorso è censurata l’avvertenza, contenuta nel provvedimento impugnato, che, decorso inutilmente il termine assegnato per la demolizione, il bene, l’area di sedime e l’area necessaria alla realizzazione di opere analoghe sarebbero state acquisite gratuitamente al patrimonio comunale: in particolare, il ricorrente lamenta al riguardo il difetto di motivazione e sostiene la necessità, ai fini dell’acquisizione, dell’accertamento della volontarietà dell’inottemperanza, di un apposito interesse pubblico e dell’identificazione del suolo.
Il motivo è inammissibile, poiché le censure sono indirizzate contro un semplice ammonimento sulle conseguenze derivanti ex lege dall’inottemperanza all’ordine di demolizione: l’acquisizione gratuita al patrimonio comunale, infatti, costituisce una misura di carattere sanzionatorio che consegue automaticamente all’inottemperanza dell’ordine di demolizione, sicché non osta alla stessa né il tempo trascorso dalla realizzazione dell’abuso, né l’affidamento eventualmente riposto dall’interessato sulla legittimità delle opere realizzate, né l’assenza di motivazione specifica sulle ragioni di interesse pubblico perseguite attraverso l’acquisizione (cfr., ex ceteris, C.d.S., sez. VI, 08.02.2013, n. 718)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 21.02.2014 n. 1141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve trovare applicazione, al caso di specie, il condivisibile indirizzo giurisprudenziale che riconosce a carico dell’amministrazione un onere di motivazione rafforzata sulla prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi nelle ipotesi connotate da una evidente eccezionalità per l’abnormità del lasso di tempo trascorso (svariati decenni) e per la specificità delle circostanze del caso concreto, alle quali ipotesi può senz’altro ricondursi, per le circostanze predette, quella ora in esame, nella quale, però, una motivazione del genere manca del tutto.
... per l'annullamento, previa sospensione cautelare dell’ordinanza di demolizione n. 10/08 del 22.02.2008 del responsabile del Settore Urbanistica del Comune di Arzano e di tutti gli altri atti preordinati, connessi e conseguenti, tra i quali il verbale P.M. 13.02.2008 e la relazione tecnica del 13.02.2008 prot. n. 3163.
...
Il ricorso è fondato in relazione all’assorbente profilo di illegittimità del provvedimento impugnato, denunciato con riferimento al tempo trascorso dalla commissione dell’abuso ed alla conseguente necessità di una specifica motivazione sulla perdurante attualità dell’interesse pubblico alla sua repressione.
Al riguardo, deve infatti preliminarmente disattendersi l’eccezione dell’amministrazione resistente, secondo cui gli stessi ricorrenti avrebbero ammesso di aver realizzato parte del manufatto abusivo, e ciò in quanto non si può attribuire alcun valore confessorio all’affermazione, contenuta a pagina 4 del ricorso introduttivo, secondo cui “i ricorrenti … hanno realizzato solo una irrilevante chiusura smontabile di un balcone”, e giacché la tesi principale propugnata dai ricorrenti è, in maniera chiara ed inequivoca, quella della loro estraneità alla realizzazione della veranda, laddove la suddetta frase, estrapolata dal contesto, in realtà si inserisce pianamente in un motivo subordinato di ricorso (quello della sanzionabilità solo pecuniaria), che presuppone il rigetto di quella tesi ed il convincimento che la realizzazione dell’abuso sia, per l’appunto, loro imputabile.
Ciò detto, dalla aerofotogrammetria del 1985, della quale non è contestata la riferibilità ai luoghi di causa, è dato in effetti evincere la presenza di una veranda e tanto concorda con l’accertamento contenuto nella sentenza del Giudice penale sulla vetustà delle opere (rilevata anche in sede di sopralluogo) da almeno oltre dieci anni e con la dichiarazione del dante causa degli odierni ricorrenti, secondo cui la veranda sarebbe stata realizzata dalla propria genitrice, deceduta nel 1989.
Deve trovare perciò applicazione, al caso di specie, il condivisibile indirizzo giurisprudenziale che riconosce a carico dell’amministrazione un onere di motivazione rafforzata sulla prevalenza dell’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi nelle ipotesi connotate da una evidente eccezionalità per l’abnormità del lasso di tempo trascorso (svariati decenni) e per la specificità delle circostanze del caso concreto (cfr. C.d.S., sez. V, 24.10.2013, n. 5158; TAR Campania, Salerno, sez. I, 27.09.2013, n. 1987), alle quali ipotesi può senz’altro ricondursi, per le circostanze predette, quella ora in esame, nella quale, però, una motivazione del genere manca del tutto.
Per tali ragioni, assorbito quant’altro, il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, annullata l’ordinanza di demolizione n. 10 del 22.02.2008 emessa dal responsabile del Settore Urbanistica del Comune di Arzano (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 21.02.2014 n. 1140 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordinanza di demolizione di opere abusive emessa in pendenza del termine e, a maggior ragione, della presentazione dell’istanza di condono si pone in contrasto con l’art. 44, ultimo comma, della l. 28.02.1985 n. 47 (richiamato dalla legislazione successiva), il quale prevede che, in pendenza del termine per la presentazione di siffatte domande, tutti i procedimenti sanzionatori in materia edilizia sono sospesi.
Ebbene, costituisce principio consolidato che l’ordinanza di demolizione di opere abusive emessa in pendenza del termine e, a maggior ragione, della presentazione dell’istanza di condono si pone in contrasto con l’art. 44, ultimo comma, della l. 28.02.1985 n. 47 (richiamato dalla legislazione successiva), il quale prevede che, in pendenza del termine per la presentazione di siffatte domande, tutti i procedimenti sanzionatori in materia edilizia sono sospesi (in tal senso si veda C.d.S., sez. sez. IV, 25.08.2006, n. 4996; cfr. anche, da ultimo, C.d.S., sez. IV, 26.03.2013, n. 1714) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 21.02.2014 n. 1139 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di opere abusive, non può incidere sulla legittimità del provvedimento di demolizione il mancato esame di un'istanza di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 presentata successivamente i cui effetti l'amministrazione dovrà autonomamente valutare.
La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se da un lato la presentazione dell'istanza ex art. 36 determina inevitabilmente un arresto provvisorio dell'efficacia dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell'accertata conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola precisazione che il termine concesso per l'esecuzione spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell'interessato, che non può rimanere pregiudicato dall'avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere l'accertamento di conformità urbanistica, e deve pertanto poter fruire dell'intero termine a lui assegnato per adeguarsi all'ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso.
La proposizione di un'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, in tempo successivo all'emissione dell'ordinanza di demolizione, incide, in definitiva, unicamente sulla possibilità dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione, ma non si riverbera sulla legittimità del precedente provvedimento di demolizione.
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Il silenzio dell’Amministrazione sulla richiesta di concessione in sanatoria (ora sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria) ha un valore legale tipico di rigetto, vale a dire costituisce un’ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego.

Anzitutto, mette conto evidenziare che «in tema di opere abusive, non può incidere sulla legittimità del provvedimento di demolizione il mancato esame di un'istanza di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 presentata successivamente i cui effetti l'amministrazione dovrà autonomamente valutare» (così, C.d.S., Sez. IV, 19.02.2008, n. 849).
La validità ovvero l'efficacia dell'ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un'istanza ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se da un lato la presentazione dell'istanza ex art. 36 determina inevitabilmente un arresto provvisorio dell'efficacia dell'ordine di demolizione, all'evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell'istanza, la demolizione di un'opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente, dall'altro, occorre ritenere che l'efficacia dell'atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l'atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All'esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell'istanza, l'ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell'accertata conformità dell'intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell'originario carattere abusivo dell'opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell'istanza, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola precisazione che il termine concesso per l'esecuzione spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell'interessato, che non può rimanere pregiudicato dall'avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere l'accertamento di conformità urbanistica, e deve pertanto poter fruire dell'intero termine a lui assegnato per adeguarsi all'ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso.
La proposizione di un'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, in tempo successivo all'emissione dell'ordinanza di demolizione, incide, in definitiva, unicamente sulla possibilità dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione, ma non si riverbera sulla legittimità del precedente provvedimento di demolizione (cfr. TAR Napoli Campania sez. VI, n. 5515 del 04.12.2013; TAR Campania, VI Sezione, 24.09.2009 n. 5071).
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Ed, invero, mette conto evidenziare, in aderenza ad un diffuso orientamento giurisprudenziale, più volte fatto proprio da questo Tribunale, che il silenzio dell’Amministrazione sulla richiesta di concessione in sanatoria (ora sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria) ha un valore legale tipico di rigetto, vale a dire costituisce un’ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego (cfr., ex multis, Cons. Stato, sezione quarta, 06.06.2008, n. 2691, 03.04.2006, n. 1710 e 14.02.2006 n. 598; sezione quinta, 11.02.2003, n. 706; Tar Campania-Napoli, questa sesta sezione, sentenze 06.09.2010, n. 17306, 15.07.2010, n. 16805, 25.05.2010, n. 8779, 17.03.2008, n. 1364 e 07.09.2007, n. 7958; sezione settima, 24.06.2008, n. 6118 e 07.05.2008, n. 3501; sezione ottava, 15.04.2010, n. 1981; Sezione staccata di Salerno, sezione seconda, 04.04.2008, n. 478; Tar Liguria, sezione prima, 24.06.2007, n. 1114; Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 21.03.2006, n. 642; Tar Piemonte-Torino, sezione prima, 08.03.2006, n. 1173; Tar Sicilia-Catania, sezione prima, 17.10.2005, n. 1723).
Natura provvedimentale che non è smentita dalla qualificazione operata dall'art. 43 della legge regionale della Campania n. 16 del 2004 in ordine al silenzio serbato dalle amministrazioni comunali (sulle ripetute domande di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001) che "non può riverberare sulla disciplina processuale, di esclusiva competenza statale, posta per la tutela giurisdizionale contro il silenzio della pubblica amministrazione", fermo che "la previsione di cui alla norma regionale si limita, di fatto, a prevedere e disciplinare un rimedio alternativo, meramente amministrativo (attivabile d'ufficio o a cura di parte), avverso la mancata pronuncia delle amministrazioni comunali sulle richieste di accertamento di conformità, senza con ciò interferire sulla qualificazione giuridica del silenzio impugnabile in sede giurisdizionale e sul relativo rito azionabile" (cfr., in tali espliciti sensi, sempre questa Sezione n. 8779 del 25.05.2010 e, per implicito, Cons. Stato n. 598 del 2006 cit.)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 21.02.2014 n. 1134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il parere dell’organo preposto alla tutela del vincolo di cui alla Legge n. 47/1985, per le opere edilizie abusive ricadenti su aree sottoposte a vincolo, è obbligatorio e di natura “endoprocedimentale”, con effetti sulla determinazione conclusiva del procedimento, di spettanza dell’autorità adita.
E’ per questo che si ritiene necessario il successivo atto che incide sulla sfera giuridica del richiedente, ossia “il provvedimento concessorio o negatorio della sanatoria richiesta”.

Ai sensi dell’art. 32 della Legge n. 47 del 28.02.1985, infatti, costituiscono atti necessari non solo il parere dell’organo preposto alla tutela del vincolo, ma anche i provvedimento conclusivo del procedimento.
Sul punto consolidata è la giurisprudenza nel ritenere che il parere dell’organo preposto alla tutela del vincolo di cui alla Legge n. 47/1985, per le opere edilizie abusive ricadenti su aree sottoposte a vincolo, sia obbligatorio e di natura “endoprocedimentale”, con effetti sulla determinazione conclusiva del procedimento, di spettanza dell’autorità adita. E’ per questo che si ritiene necessario il successivo atto che incide sulla sfera giuridica del richiedente, ossia “il provvedimento concessorio o negatorio della sanatoria richiesta” (Cfr. C. Stato, Sezione VI, n. 1248 del 24.09.1996; TAR Veneto, Sez. II, n. 933 del 08.07.2013; C. Stato, Sez. V, n. 794 del 16.02.2012) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 19.02.2014 n. 272 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ciò che rileva ai fini della qualificazione della roulotte come costruzione è la destinazione impressale: qualora come nel caso in esame –circostanza non affatto contestata dai ricorrenti con riguardo agli allacci abusivi alle utenze di luce, gas e acqua– funga da abitazione, occorre conseguire il permesso di costruire per essere installata e mantenuta nell’area di sedime.
Che, è bene sottolineare, è gravata altresì da vincolo paesaggistico, con la conseguenza che alla violazione edilizia s’aggiunge quella paesaggistica, la cui tutela impone, ai sensi dell’art. 167 d.lgs. 42 del 2004, la sanzione ripristinatoria della demolizione.

... per l'annullamento ordinanza n. 20/2012 di rimozione roulotte utilizzata a fini abitativi.
...
È impugnata l’ordinanza di demolizione avente ad oggetto la roulotte stabilmente istallata dai ricorrenti nel terreno di proprietà adibita ad abitazione permanente.
Le censure di natura sostanziale ripropongono le medesime questioni già affrontate e risolte dalla giurisprudenza amministrativa in tema di consistenza edilizia delle roulotte, adibite ad abitazione, e della loro conseguente ascrizione alla costruzione, quale intervento edilizio assoggettato al permesso di costruire.
Questione che, come più volte rilevato da questo Tribunale con orientamento univoco cui va data continuità, è stata espressamente risolta dal testo unico dell’edilizia laddove all’art. 3, comma 1, lett. e), n. 5, ha qualificato come nuova costruzione “l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, cose mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini o simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
La legge regionale ha fatto propria la disciplina statale prevedendo, all’art. 45, comma 1, l.r. 16/2008, in caso di assenza del titolo legittimante l’intervento edilizio, la demolizione del manufatto.
In definitiva ciò che rileva ai fini della qualificazione della roulotte come costruzione è la destinazione impressale (cfr., fra le tante, Cons. St., sez. V, 27.04.2012 n. 2450): qualora come nel caso in esame –circostanza non affatto contestata dai ricorrenti con riguardo agli allacci abusivi alle utenze di luce, gas e acqua– funga da abitazione, occorre conseguire il permesso di costruire per essere installata e mantenuta nell’area di sedime.
Che, è bene sottolineare, è gravata altresì da vincolo paesaggistico, con la conseguenza che alla violazione edilizia s’aggiunge quella paesaggistica, la cui tutela impone, ai sensi dell’art. 167 d.lgs. 42 del 2004, la sanzione ripristinatoria della demolizione.
Sicché anche le censure che deducono il difetto di motivazione, in considerazione della natura vincolata dell’atto impugnato, sono infondate.
Conclusivamente il ricorso deve essere respinto (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 18.02.2014 n. 281 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla scelta del criterio più idoneo per l'aggiudicazione di un appalto.
La scelta del criterio più idoneo per l'aggiudicazione di un appalto costituisce espressione tipica della discrezionalità amministrativa e, in quanto tale, è sottratta al sindacato del giudice amministrativo, tranne che, in relazione alla natura ed all'oggetto del contratto, non sia manifestamente illogica o basata su travisamento di fatti.
Le stazioni appaltanti, in sostanza, scelgono tra i due criteri (criterio del prezzo più basso o il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa) quello più adeguato in relazione alle caratteristiche dell'oggetto del contratto in quanto la specificazione del tipo di prestazione richiesta e delle sue caratteristiche peculiari consente di determinare correttamente ed efficacemente il criterio più idoneo all'individuazione della migliore offerta.
Va da sé che il criterio del prezzo più basso, in cui assume rilievo la sola componente prezzo, può presentarsi adeguato esclusivamente quando l'oggetto del contratto abbia connotati di ordinarietà e sia caratterizzato da elevata standardizzazione in relazione alla diffusa presenza sul mercato di operatori in grado di offrire in condizioni analoghe il prodotto richiesto, mentre nelle altre fattispecie è arduo ipotizzare che un sia pur minimo rilievo agli aspetti qualitativi della prestazione offerta sia indifferente per la scelta del contraente (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 17.02.2014 n. 1871 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL'annullamento in sede giurisdizionale di un atto amministrativo, per vizi formali, non impedisce all'Amministrazione di procedere alla rinnovazione del provvedimento giudicato illegittimo.
La facoltà di rinnovazione il procedimento annullato emendato dal vizio riscontrato concerne le sole fasi viziate, in quanto si deve conciliare da un lato l'esigenza di ripristinare la legalità amministrativa e dall’altro il rispetto dei principi di conservazione degli atti giuridici, di economicità e di divieto di aggravamento del procedimento.

La Sezione ha più volte modo di annotare che, sul piano procedimentale, l'annullamento in sede giurisdizionale di un atto amministrativo, per vizi formali, non impedisce all'Amministrazione di procedere alla rinnovazione del provvedimento giudicato illegittimo.
La facoltà di rinnovazione il procedimento annullato emendato dal vizio riscontrato concerne le sole fasi viziate, in quanto si deve conciliare da un lato l'esigenza di ripristinare la legalità amministrativa e dall’altro il rispetto dei principi di conservazione degli atti giuridici, di economicità e di divieto di aggravamento del procedimento (cfr. infra multa; Consiglio di Stato sez. IV 01/07/2013 n. 3542; Consiglio di Stato sez. IV 15/02/2013 n. 915) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.02.2014 n. 748 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'inesistenza dell'obbligo di dichiarare, ai sensi dell'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, le pronunce di condanna per cui è intervenuta la riabilitazione o l'estinzione del reato.
Ai sensi dell'art. 38, c. 1, lett. c), del d.lgs. n. 163/2006, non sussiste l'obbligo di dichiarare le pronunce di condanna per cui è intervenuta la riabilitazione o l'estinzione del reato. Pertanto, nel caso di specie, deve essere esclusa la legittimità della previsione della "lex specialis" di dichiarare anche le sentenze di condanna per le quali sia intervenuta la riabilitazione, in quanto ingiustificatamente gravatoria (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.02.2014 n. 736 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATANella fattispecie, trattasi di un residuo di manufatto, completamente diruto, fondamentalmente costituito da segmenti del muro perimetrale nemmeno idonei al riconoscimento dell’originaria area di sedime.
Orbene, stante l’inesistenza di un fabbricato su cui intervenire, appaiono del tutto non condivisibili le affermazioni del primo giudice sulla possibilità della ristrutturazione, in quanto tale intervento è espressamente consentito, anche nella forma della ricostruzione previa demolizione, in presenza di un edificio esistente, circostanza qui non assodata, anzi esclusa dalle prove.
Non solo, l’inesistenza di un edificio su cui intervenire esclude parimenti la possibilità di una realizzazione di parcheggi ex legge 122 del 1990, visto che la legge ricollega tale facoltà ai soli manufatti esistenti, anzi impone uno stretto vincolo di pertinenzialità, non concepibile in assenza dell’opera principale (da ultimo, Consiglio di Stato, n. 3672/2013, che rimarca come l'art. 9 della legge 24.03.1989 n. 122, nella parte in cui assoggetta la realizzazione di parcheggi ad autorizzazione gratuita e non a concessione, costituisce norma eccezionale che, derogando agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, deve intendersi riferita al parcheggio realizzato nello stesso fabbricato ove sono situate le unità immobiliari di cui il parcheggio costituisce pertinenza).

L’aspetto centrale della vicenda, come d’altronde avviene spesso in tutte le questioni riguardanti l’edilizia, attiene all’esatta individuazione della categoria di opera, in relazione alla fondamentale distinzione tra interventi di nuova costruzione e interventi sul patrimonio esistente.
Peraltro, tale dato di fatto è tutt’altro che pacifico tra le parti, atteso che per gli appellati si tratta di un fabbricato storico oggetto di dichiarazione di interesse particolarmente importante, specificamente riconoscibile nella sua sussistenza storica, mentre l’amministrazione lo qualifica come rudere. Si tratta quindi di un accertamento in fatto, peraltro di natura estremamente semplice, che non può sfuggire alla cognizione del giudice.
Orbene, nella disamina degli atti, emerge come la difesa del Comune de L’aquila abbia depositato un fascicolo fotografico, da cui si ritrae una rappresentazione visiva, immediata e lineare dell’aspetto dell’immobile. Si tratta di un residuo di manufatto, completamente diruto, fondamentalmente costituito da segmenti del muro perimetrale nemmeno idonei al riconoscimento dell’originaria area di sedime.
La prova fotografica fornita, lampante tanto da essere ovvia, impone alla Sezione di ritenere del tutto infondata la ricostruzione proposta dagli appellati, aderendo pienamente alla qualificazione data dal Comune all’edificio.
Chiarite le coordinate fattuali, la disciplina giuridica è immediatamente conseguente.
In primo luogo, stante l’inesistenza di un fabbricato su cui intervenire, appaiono del tutto non condivisibili le affermazioni del primo giudice (che peraltro si è basato sulle argomentazioni degli originari ricorrenti “da intendersi qui per riportate e trascritte”) sulla possibilità della ristrutturazione, in quanto tale intervento è espressamente consentito, anche nella forma della ricostruzione previa demolizione, in presenza di un edificio esistente, circostanza qui non assodata, anzi esclusa dalle prove. Pertanto, va confermata la presenza dei presupposti legittimanti l’atto di annullamento adottato dal Comune di L’Aquila in ordine alla D.I.A. (prot. 984 in data 11.08.2005) relativa ai lavori di ristrutturazione dell’immobile in questione.
In secondo luogo, l’inesistenza di un edificio su cui intervenire esclude parimenti la possibilità di una realizzazione di parcheggi ex lege 122 del 1990, visto che la legge ricollega tale facoltà ai soli manufatti esistenti, anzi impone uno stretto vincolo di pertinenzialità, non concepibile in assenza dell’opera principale (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 10.07.2013 n. 3672, che rimarca come l'art. 9 della legge 24.03.1989 n. 122, nella parte in cui assoggetta la realizzazione di parcheggi ad autorizzazione gratuita e non a concessione, costituisce norma eccezionale che, derogando agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti, deve intendersi riferita al parcheggio realizzato nello stesso fabbricato ove sono situate le unità immobiliari di cui il parcheggio costituisce pertinenza)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.02.2014 n. 735 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'annullamento d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell'interessato (come nel caso in esame, dove è palese l’erronea allegazione dell’effettiva natura dell’immobile oggetto dei lavori) non necessita di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato.
In relazione, poi, all’esistenza di un obbligo di particolare motivazione, derivante dalla circostanza che fossero trascorsi oltre due anni dal momento della presentazione della D.I.A., occorre ricordare come sia del tutto pacifico nella giurisprudenza di questo Consiglio l’affermazione che l'annullamento d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell'interessato (come nel caso in esame, dove è palese l’erronea allegazione dell’effettiva natura dell’immobile oggetto dei lavori) non necessita di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato (si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.02.2014 n. 735 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, prevista dall’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241, non conduce all’annullabilità del provvedimento, trattandosi di un inadempimento meramente formale rispetto a un atto di natura vincolata, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
A tale riguardo, il Collegio non può qui non ribadire quanto più volte precisato da questo Consiglio di Stato e cioè che nei procedimenti preordinati all'emanazione di ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova applicazione l'obbligo di comunicare l'avvio dell'iter procedimentale in ragione della natura vincolata del potere repressivo esercitato, che rende di per sé inconfigurabile un qualunque apporto partecipativo del privato.
In questo senso va così intesa la ricorrente affermazione del medesimo Consiglio di Stato, secondo cui le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente.
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E' principio consolidato che la demolizione degli abusi edilizi non richieda nessuna specifica motivazione, necessaria invece in casi di contrarie determinazioni. L'ordine di demolizione di opera edilizia abusiva è sufficientemente motivato, cioè, con l'affermazione dell’accertata abusività del manufatto.
Resta soltanto salva -per taluni orientamenti giurisprudenziali, comunque di frequente contestati- l'ipotesi in cui, per il lungo intervallo di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e il protrarsi della inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato. E’ questa la sola vicenda in cui potrebbe essere lecito ravvisare un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche alla entità e alla tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso e ulteriore rispetto a quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Sennonché, premesso che l’orientamento da ultimo richiamato non convince il Collegio, che preferisce l’indirizzo dominante sull’inesistenza di un obbligo di motivazione “ulteriore”, nella specie, la circostanza –messa bene in rilievo dal TAR– che l’opera incida su un’area geografica notoriamente di pregio paesaggistico-ambientale e come tale vincolata fa ritenere che sia l'entità e la tipologia dell'abuso, sia l’intervallo di tempo fra l’accertamento e l’irrogazione della sanzione non siano in alcun modo idonei a sovvertire il richiamato principio della prevalenza del pubblico interesse alla rimozione dell’illecito.
Pertanto, se la tardività dell’ordine di demolizione rispetto all’accertamento dell’illecito va apprezzata negativamente sotto l’indice della buona amministrazione (come già ha rilevato il Tribunale regionale, del tutto a ragione), essa non incide affatto sulla piena legittimità del provvedimento impugnato.

La mancata comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, prevista dall’art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241, non conduce all’annullabilità del provvedimento, trattandosi di un inadempimento meramente formale rispetto a un atto di natura vincolata, il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. art. 21-octies, comma 2, della citata legge n. 241 del 1990, che -sebbene inserito dall'articolo 14, comma 1, della legge 11.02.2005, n. 15- il Collegio ritiene comunque applicabile alla vicenda, per trattarsi di una disposizione ricognitiva di una regola già esistente e non innovativa).
A tale riguardo, il Collegio non può qui non ribadire quanto più volte precisato da questo Consiglio di Stato (cfr., per tutte, Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2008, n. 4659; Id., sez. IV, 04.02.2013, n. 666; Id., sez. IV, 25.06.2013, n. 3471) e cioè che nei procedimenti preordinati all'emanazione di ordinanze di demolizione di opere edili abusive non trova applicazione l'obbligo di comunicare l'avvio dell'iter procedimentale in ragione della natura vincolata del potere repressivo esercitato, che rende di per sé inconfigurabile un qualunque apporto partecipativo del privato. In questo senso va così intesa la ricorrente affermazione del medesimo Consiglio di Stato, secondo cui le norme sulla partecipazione del privato al procedimento amministrativo non vanno applicate meccanicamente e formalmente (così testualmente da ultimo, anche sez. IV, 17.09.2012, n. 4925; sez. IV, 04.06.2013, n. 3072, proprio con riguardo all’ipotesi del provvedimento vincolato).
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Non è destinato a miglior sorte, infine, il punto relativo al preteso difetto di motivazione, che deriverebbe dall’essere l’ordine di demolizione intervenuto, senza adeguata considerazione dell’interesse pubblico, per un manufatto che si assume provvisorio e contestato dall’Amministrazione ben sei anni prima dell’adozione del provvedimento impugnato.
Al contrario, è principio consolidato che la demolizione degli abusi edilizi non richieda nessuna specifica motivazione, necessaria invece in casi di contrarie determinazioni. L'ordine di demolizione di opera edilizia abusiva è sufficientemente motivato, cioè, con l'affermazione dell’accertata abusività del manufatto.
Resta soltanto salva -per taluni orientamenti giurisprudenziali, comunque di frequente contestati- l'ipotesi in cui, per il lungo intervallo di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e il protrarsi della inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato. E’ questa la sola vicenda in cui potrebbe essere lecito ravvisare un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche alla entità e alla tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso e ulteriore rispetto a quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (per tutti, Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2705).
Sennonché, premesso che l’orientamento da ultimo richiamato non convince il Collegio, che preferisce l’indirizzo dominante sull’inesistenza di un obbligo di motivazione “ulteriore”, nella specie, la circostanza –messa bene in rilievo dal TAR– che l’opera incida su un’area geografica notoriamente di pregio paesaggistico-ambientale e come tale vincolata fa ritenere che sia l'entità e la tipologia dell'abuso, sia l’intervallo di tempo fra l’accertamento e l’irrogazione della sanzione non siano in alcun modo idonei a sovvertire il richiamato principio della prevalenza del pubblico interesse alla rimozione dell’illecito (cfr., in termini, Cons. Stato, sez. IV, 12.04.2011, n. 2266; Id., sez. IV, n. 3471 del 2013, cit.).
Pertanto, se la tardività dell’ordine di demolizione rispetto all’accertamento dell’illecito va apprezzata negativamente sotto l’indice della buona amministrazione (come già ha rilevato il Tribunale regionale, del tutto a ragione), essa non incide affatto sulla piena legittimità del provvedimento impugnato.
In definitiva, come anticipato, l’appello non ha pregio e va dunque respinto
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.02.2014 n. 734 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'applicazione della sanzione pecuniaria di cui all'art. 3, comma 2, lett. a), L. n. 47/1985, nel caso di ritardato pagamento degli oneri di urbanizzazione, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento, trattandosi dell'applicazione ex lege di una sanzione pecuniaria connessa al ritardato pagamento del contributo dovuto per il rilascio di una concessione edilizia.
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Ai fini dell’insorgenza dell’obbligo di pagamento di una sanzione pecuniaria (e, più in generale, di una somma di denaro della quale si è debitori nei confronti della P.A., quali i contributi concessori dovuti), non è necessaria la previa notificazione della sentenza che conclude il giudizio in cui si controverte della legittimità degli atti relativi alla determinazione delle obbligazioni del privato.
Infatti, in tale giudizio è l’atto amministrativo, assistito da presunzione di legittimità, ad essere oggetto di impugnazione, con la conseguenza che il giudizio che si conclude con la reiezione del ricorso proposto avverso tale atto (la cui efficacia è stata eventualmente sospesa in corso di causa con l’adozione di misure cautelari), costituisce presupposto per la piena riespansione dell’efficacia dell’atto, oltre che di esclusione (nei limiti dei motivi di impugnazione proposti e rigettati) di profili di illegittimità del medesimo.
In definitiva, l’obbligo di pagamento previsto ex lege, consegue alla emanazione e notificazione dell’atto di determinazione del contributo (e la somma dovuta a titolo di sanzione pecuniaria all’inutile decorso del termine previsto per detto pagamento), non già alla conclusione del giudizio di impugnazione di detto atto. Ciò rende, dunque, del tutto irrilevante la intervenuta (o meno) conoscenza della sentenza (peraltro passata in giudicato per decorso del termine annuale, al momento di emanazione dell’atto di irrogazione della sanzione), né tali aspetti determinano un particolare obbligo di invio di comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio.
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In materia di obbligazioni pecuniarie, il creditore è soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità del fideiussore, senza che possa invece ritenersi tenuto ad escutere il coobbligato piuttosto che attendere il pagamento, ancorché tardivo (salva l'esistenza di apposita clausola in tal senso).
Ne consegue che legittimamente l’amministrazione, nell'applicare la sanzione prevista dall'art. 3, comma 2, lett. a), L. n. 47/1985, per ritardato pagamento degli oneri di urbanizzazione, non ha proceduto, prima dell'applicazione delle sanzioni, alla preventiva richiesta alla banca garante, obbligatasi a pagare quanto dovuto dietro semplice richiesta scritta.

... per la riforma della sentenza del TAR LOMBARDIA-MILANO: SEZIONE II n. 1006/2005, resa tra le parti, concernente sanzione amministrativa per tardivo versamento oneri concess. per opere edilizie
...
L’appello del Comune di Milano è fondato e deve essere, pertanto, accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata.
Come riportato nella esposizione in fatto, il primo giudice ha accolto il ricorso proposto avverso l’atto di irrogazione di sanzione amministrativa pecuniaria per un triplice ordine di ragioni:
- in primo luogo, perché il Comune, emettendo due atti nei confronti del medesimo destinatario, avrebbe indotto comunque quest’ultimo in errore, palesando una evidente contraddittorietà dell’agire amministrativo;
- in secondo luogo, perché il Comune avrebbe dovuto rendere partecipe il privato dell’avvio del procedimento di determinazione ed irrogazione della sanzione ex art. 3 l. n. 47/1985, e ciò a maggior ragione perché ciò avveniva all’esito di un annoso giudizio e il Comune non aveva provveduto alla notifica della sentenza di definizione del medesimo;
- in terzo luogo, perché il Comune avrebbe dovuto attivarsi per tempo a richiedere al garante il pagamento delle somme dovute per effetto della garanzia prestata con polizza fideiussoria.
Questo Consiglio di Stato, sia pure nei limiti di delibazione propri della fase cautelare, ha già avuto modo di esaminare, in senso sostanzialmente negativo quanto alla loro fondatezza, i motivi di ricorso proposti in I grado, con ordinanza 29.07.2003 n. 3179.
L’art. 3 l. n. 47/1985 (successivamente abrogato dall’art. 136 d.lgs. n. 376/2001), prevede, con riguardo al “ritardato od omesso versamento del contributo afferente alla concessione”: “Le regioni determinano le sanzioni per il ritardato o mancato versamento del contributo di concessione in misura non inferiore a quanto previsto nel presente articolo e non superiore al doppio.
Il mancato versamento, nei termini di legge, del contributo di concessione di cui agli articoli 3, 5, 6 e 10, L. 28.01.1977, n. 10, comporta:
a) l'aumento del contributo in misura pari al 20 per cento qualora il versamento del contributo sia effettuato nei successivi centoventi giorni;
b) l'aumento del contributo in misura pari al 50 per cento quando, superato il termine di cui alla lettera a), il ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni;
c) l'aumento del contributo in misura pari al 100 per cento quando, superato il termine di cui alla lettera b), il ritardo si protrae non oltre i successivi sessanta giorni.
Le misure di cui alle lettere precedenti non si cumulano.
Nel caso di pagamento rateizzato le norme di cui al secondo comma si applicano ai ritardi nei pagamenti delle singole rate.
Decorso inutilmente il termine di cui alla lettera c) del secondo comma il comune provvede alla riscossione coattiva del complessivo credito nei modi previsti dall'art. 16 della presente legge.
Fino all'entrata in vigore delle leggi regionali che determineranno la misura delle sanzioni di cui al presente articolo, queste saranno applicate nelle misure indicate nel secondo comma
”.
L’ipotesi di cui al secondo comma, lett. c) è quella che ricorre, alla luce dell’atto impugnato, nel caso di specie.
La giurisprudenza amministrativa, che questo Collegio ritiene di condividere –peraltro richiamata anche nella sentenza impugnata– afferma che l'applicazione della sanzione pecuniaria di cui all'art. 3, comma 2, lett. a), L. n. 47/1985, nel caso di ritardato pagamento degli oneri di urbanizzazione, non deve essere preceduta dalla comunicazione di avvio del relativo procedimento, trattandosi dell'applicazione ex lege di una sanzione pecuniaria connessa al ritardato pagamento del contributo dovuto per il rilascio di una concessione edilizia (Cons. Stato, sez. V, 16.07.2007 n. 4025).
Nel caso di specie, non rileva, al fine di giungere a conclusioni contrarie, né che la applicazione della sanzione pecuniaria intervenga all’esito di un annoso giudizio, né che il Comune non abbia provveduto a notificare la sentenza di definizione del citato giudizio.
Ed infatti, per un verso –come osservato dal Comune di Milano– “l’obbligo di pagamento degli oneri concessori entro i termini di legge era noto alla società ricorrente fin dal 1993”, posto che proprio gli atti con i quali era stato ingiunto il pagamento avevano formato oggetto di impugnazione; per altro verso, la società appellata era costituita nel giudizio conclusosi con la sentenza non notificata dal Comune di Milano.
Per altro verso ancora, e conclusivamente, occorre affermare che, ai fini dell’insorgenza dell’obbligo di pagamento di una sanzione pecuniaria (e, più in generale, di una somma di denaro della quale si è debitori nei confronti della P.A., quali i contributi concessori dovuti), non è necessaria la previa notificazione della sentenza che conclude il giudizio in cui si controverte della legittimità degli atti relativi alla determinazione delle obbligazioni del privato.
Infatti, in tale giudizio è l’atto amministrativo, assistito da presunzione di legittimità, ad essere oggetto di impugnazione, con la conseguenza che il giudizio che si conclude con la reiezione del ricorso proposto avverso tale atto (la cui efficacia è stata eventualmente sospesa in corso di causa con l’adozione di misure cautelari), costituisce presupposto per la piena riespansione dell’efficacia dell’atto, oltre che di esclusione (nei limiti dei motivi di impugnazione proposti e rigettati) di profili di illegittimità del medesimo.
In definitiva, l’obbligo di pagamento previsto ex lege, consegue alla emanazione e notificazione dell’atto di determinazione del contributo (e la somma dovuta a titolo di sanzione pecuniaria all’inutile decorso del termine previsto per detto pagamento), non già alla conclusione del giudizio di impugnazione di detto atto. Ciò rende, dunque, del tutto irrilevante la intervenuta (o meno) conoscenza della sentenza (peraltro passata in giudicato per decorso del termine annuale, al momento di emanazione dell’atto di irrogazione della sanzione), né tali aspetti determinano un particolare obbligo di invio di comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio.
Da quanto esposto, consegue l’accoglimento del secondo motivo di appello (sub b) dell’esposizione in fatto).
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Altrettanto fondato è il terzo motivo di appello (sub c) dell’esposizione in fatto), con il quale si censura la statuizione secondo la quale il Comune avrebbe dovuto attivarsi per tempo a richiedere al garante il pagamento delle somme dovute per effetto della garanzia prestata con polizza fideiussoria.
La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato –cui il Collegio ritiene di aderire– ha già avuto modo di affermare che, in materia di obbligazioni pecuniarie, il creditore è soltanto facultato ad attivare la solidale responsabilità del fideiussore, senza che possa invece ritenersi tenuto ad escutere il coobbligato piuttosto che attendere il pagamento, ancorché tardivo (salva l'esistenza di apposita clausola in tal senso). Ne consegue che legittimamente l’amministrazione, nell'applicare la sanzione prevista dall'art. 3, comma 2, lett. a), L. n. 47/1985, per ritardato pagamento degli oneri di urbanizzazione, non ha proceduto, prima dell'applicazione delle sanzioni, alla preventiva richiesta alla banca garante, obbligatasi a pagare quanto dovuto dietro semplice richiesta scritta (Cons. Stato, sez. V, 16.07.2007 n. 4025; sez. IV, 10.08.2007 n. 4419).
D’altra parte, nel caso di specie si tratta di garanzia fideiussoria prestata in corso di giudizio a seguito di provvedimento cautelare del giudice, non già di fideiussione prestata ante causam a garanzia dell’adempimento della propria obbligazione pecuniaria.
Per tutte le ragioni sin qui esposte –escludendosi la necessità/opportunità di disporre la richiesta rimessione della causa all’Adunanza Plenaria– l’appello deve essere accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata e rigetto del ricorso instaurativo del giudizio di I grado (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.02.2014 n. 731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'onere di immediata impugnazione del bando di concorso è circoscritto al caso della contestazione di clausole escludenti, riguardanti requisiti di partecipazione che siano ex se ostative all'ammissione dell'interessato ovvero, al più, impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso, rispetto ai contenuti della procedura concorsuale o che comportino l'impossibilità, per l'interessato, di accedere alla procedura e il conseguente arresto procedimentale.
Infatti, i bandi di gara, di concorso e le lettere di invito vanno di regola impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi ad identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento e a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell'interessato. Ogni diversa questione riguardante l'illegittimità della procedura di gara può e deve essere proposta unitamente agli atti che facciano diretta applicazione delle clausole dimostratesi lesive (provvedimento di esclusione o dell'aggiudicazione del contratto o di altro provvedimento che segni comunque, per l'interessato, un arresto procedimentale), rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell'interessato.

L’eccezione non merita accoglimento.
La giurisprudenza amministrativa ha da tempo chiarito (Cfr. Cons. stato, Ad. Plen., 29.01.2003, n. 1) che l'onere di immediata impugnazione del bando di concorso è circoscritto al caso della contestazione di clausole escludenti, riguardanti requisiti di partecipazione che siano ex se ostative all'ammissione dell'interessato ovvero, al più, impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso, rispetto ai contenuti della procedura concorsuale o che comportino l'impossibilità, per l'interessato, di accedere alla procedura e il conseguente arresto procedimentale (ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 21.11.2011, n. 6135).
Infatti, i bandi di gara, di concorso e le lettere di invito vanno di regola impugnati unitamente agli atti che di essi fanno applicazione, dal momento che sono questi ultimi ad identificare in concreto il soggetto leso dal provvedimento e a rendere attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell'interessato. Ogni diversa questione riguardante l'illegittimità della procedura di gara può e deve essere proposta unitamente agli atti che facciano diretta applicazione delle clausole dimostratesi lesive (provvedimento di esclusione o dell'aggiudicazione del contratto o di altro provvedimento che segni comunque, per l'interessato, un arresto procedimentale), rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva dell'interessato (cfr. TAR Molise, 05.02.2013, n. 36).
Nel caso di specie, la clausola di cui all’art. I.10, comma 3.b dell’avviso non rientrava tra quelle dettate in materia di requisiti di partecipazione, né imponeva obblighi sproporzionati o incomprensibili, limitandosi a dettare una regola di natura meramente operativa relativa alle modalità concrete di presentazione della domanda di ammissione.
Tale clausola ha assunto efficacia lesiva dell’interesse della ricorrente solo allorquando è stata concretamente applicata all’offerta della ricorrente, determinandone l’esclusione per violazione dell’adempimento contestato.
Ne deriva che la clausola doveva essere impugnata unitamente al provvedimento attuativo, come puntualmente ed espressamente fatto dalla ricorrente (TAR Molise, sentenza 17.02.2014 n. 119 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittima l'ordinanza di demolizione di un modesto box, realizzato da oltre 20 anni, in considerazione delle modestissime dimensioni del manufatto (circa 12 mq), realizzato nel giardino posteriore in estensione dell’antistante bar pizzeria di appena 35 mq., del lungo lasso di tempo intercorso dalla sua realizzazione, dell’inerzia serbata dal Comune in questo lungo arco di tempo, della conseguente necessità di valutare l’affidamento in tal modo ingeneratosi in conseguenza di tale situazione di fatto protrattasi nel tempo e, quindi, di motivare in ordine alla sussistenza di ragioni di interesse pubblico prevalenti.
Invero, il comune avrebbe dovuto farsi carico di mettere in comparazione la necessità di tutela dell’affidamento privato con la necessità di sanzionare l’abuso, motivando congruamente l’esito del giudizio e ciò anche con specifico riferimento alla necessità di rispettare il principio di proporzionalità, tenuto conto che, come emerso in sede di sopralluogo, il box in questione è destinato a laboratorio cucina sicché la sua demolizione avrebbe l’effetto di impedire la prosecuzione della stessa attività di bar pizzeria, in una condizione in cui la modestissima entità del manufatto non appare idonea a pregiudicare l’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio, in area peraltro classificata “C-Completamento”, tanto più che lo stesso è stato realizzato su giardino privato, nella parte posteriore ed in aderenza al fabbricato dove ha sede l’attività di ristorazione, con un modestissimo impatto visivo.

... per l'annullamento dell'ordinanza n. 167 prot. n. 2473 del 3.10.08 con la quale il Dirigente dell'Area n. 4 - Urbanistica del Comune di Campobasso ha ordinato alla ricorrente la rimozione di una presunta opera abusiva ed il ripristino dello stato dei luoghi entro 90 gg.; della comunicazione di avvio del procedimento prot. n. 20770 del 05.08.2008; della relazione tecnica prot. n. 20024 del 25.07.2008 e relativi allegati; di ogni ulteriore atto prodromico o consequenziale;
...
Il ricorso è fondato.
Merita, in particolare, di essere condiviso il secondo motivo di censura con il quale la ricorrente si duole della mancata considerazione delle modestissime dimensioni del manufatto (circa 12 mq), realizzato nel giardino posteriore in estensione dell’antistante bar pizzeria di appena 35 mq, del lungo lasso di tempo intercorso dalla sua realizzazione, dell’inerzia serbata dal Comune in questo lungo arco di tempo, della conseguente necessità di valutare l’affidamento in tal modo ingeneratosi in conseguenza di tale situazione di fatto protrattasi nel tempo e, quindi, di motivare in ordine alla sussistenza di ragioni di interesse pubblico prevalenti.
Sebbene in via generale le sanzioni in materia edilizia siano configurate dal legislatore come atti vincolati e sebbene nel caso di specie, la pacifica realizzazione di un incremento di volume, seppur modesto (36,75, mc), avrebbe reso necessario il preventivo rilascio del permesso di costruire, il collegio reputa di dover valorizzare le peculiarità della fattispecie concreta, come evidenziate nel secondo motivo di ricorso, con particolare riferimento alla necessità di tutelare il legittimo affidamento ingeneratosi nella ricorrente in conseguenza del lungo lasso di tempo intercorso dalla realizzazione del box senza che il Comune di Campobasso abbia ritenuto di intervenire.
La circostanza per cui l’abuso sarebbe stato realizzato sin dal 1984-1985 non ha infatti trovato smentita nella memoria di costituzione del Comune di Campobasso sicché appare plausibile che in sede di sopralluogo vi sia stato un travisamento di quanto riferito dall’interessata in ordine alla data di costruzione del box, erroneamente indicata nel 1994-1995.
Ne discende che, in presenza di un modesto box, realizzato da oltre 20 anni, il Comune di Campobasso avrebbe dovuto farsi carico di mettere in comparazione la necessità di tutela dell’affidamento privato con la necessità di sanzionare l’abuso, motivando congruamente l’esito del giudizio e ciò anche con specifico riferimento alla necessità di rispettare il principio di proporzionalità, tenuto conto che, come emerso in sede di sopralluogo, il box in questione è destinato a laboratorio cucina sicché la sua demolizione avrebbe l’effetto di impedire la prosecuzione della stessa attività di bar pizzeria (come argomentato dalla ricorrente in sede di richiesta della misura cautelare), in una condizione in cui la modestissima entità del manufatto non appare idonea a pregiudicare l’interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio, in area peraltro classificata “C-Completamento”, tanto più che lo stesso è stato realizzato su giardino privato, nella parte posteriore ed in aderenza al fabbricato dove ha sede l’attività di ristorazione, con un modestissimo impatto visivo (cfr. doc. fotografica allegata al verbale del 29.04.2008).
Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso deve, pertanto, essere accolto con conseguente annullamento dell’ordinanza di demolizione impugnata (TAR Molise, sentenza 17.02.2014 n. 114 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ai sensi degli artt. 13 e 18 della L. 08.07.1986, n. 349, che attribuiscono alle associazioni ambientalistiche riconosciute, in via generale, la legittimazione processuale per la tutela degli interessi di cui le stesse risultano portatrici, sussiste sempre la legittimazione ad agire in capo a un organismo associativo con finalità ambientalistiche avverso provvedimento lesivi degli interessi diffusi o collettivi, perseguiti e protetti, tra i quali rientra quello a un corretto rapporto con gli animali in genere e con gli addomesticati in particolare.
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 19 datata 09.07.2012 emessa dal Sindaco del Comune di Cerro al Volturno (Is) e pubblicata all’albo pretorio dal 09.07.2012 all’08.08.2012, nella parte in cui vieta <<l’ingresso dei cani, anche condotti al guinzaglio e con museruola, nei parchi e nei giardini pubblici comunali>>;
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Il ricorso è ammissibile e fondato.
La ricorrente è la presidente di un’associazione ambientalista nazionale per la difesa della biosfera, con sede in Roma.
Ai sensi degli artt. 13 e 18 della L. 08.07.1986, n. 349, che attribuiscono alle associazioni ambientalistiche riconosciute, in via generale, la legittimazione processuale per la tutela degli interessi di cui le stesse risultano portatrici, sussiste sempre la legittimazione ad agire in capo a un organismo associativo con finalità ambientalistiche avverso provvedimento lesivi degli interessi diffusi o collettivi, perseguiti e protetti, tra i quali rientra quello a un corretto rapporto con gli animali in genere e con gli addomesticati in particolare (cfr.: Tar Calabria Catanzaro I, 24.05.2011 n. 778). Sotto tale profilo il ricorso è senz’altro ammissibile
(TAR Molise, sentenza 17.02.2014 n. 104 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sull'illegittimità di un'ordinanza sindacale di vietare l'ingresso ai cani -e, conseguentemente, ai padroni o detentori degli stessi– nei giardini e parchi comunali.
L
e ordinanze contingibili e urgenti sono provvedimenti assunti, sulla base di una norma di legge, per fare fronte a situazioni di urgente necessità, che non potrebbero essere affrontate e risolte in maniera efficace con gli ordinari strumenti a disposizione della stessa Amministrazione.
Tali provvedimenti costituiscono strumenti atipici per quanto attiene al contenuto, fissando la legge unicamente i presupposti per l'esercizio del potere di ordinanza, ma non il contenuto della stessa. L'atipicità, infatti, è conseguenza della funzione dell'istituto, considerato che le situazioni di urgenza concretamente verificabili non sono prevedibili a priori e, quindi, non è possibile prevedere il contenuto che l'ordinanza dovrà avere per fronteggiare la situazione di urgenza.
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L'ordinanza sindacale impugnata è stato assunta per fare fronte all’eventuale pericolo di morsicature, ovvero all'abbandono sul suolo pubblico di deiezioni canine e liquidi fisiologici, in conseguenza dell'evidente violazione del dovere civico a provvedere alla raccolta degli escrementi con mezzi adatti, che potrebbe comportare i rischi per la salute della popolazione, già segnalati dalla letteratura scientifica, specie per i bambini. Sulla base del presupposto, quindi, è stato disposto il divieto di accesso ai cani nei parchi e giardini comunali, anche se al guinzaglio e con museruola.
Invero, risulta fondata, sotto un primo profilo, la censura mossa dall'associazione ricorrente, laddove con l'adozione di uno strumento extra ordinem si è inteso fare fronte a una problematica che può essere affrontata e risolta con gli ordinari strumenti a disposizione dell'Amministrazione.
Difatti, la problematica dell'abbandono degli escrementi può essere correttamente affrontata e risolta, garantendo un’attenta e severa vigilanza degli obblighi di legge, nonché a quelli che la stessa ordinanza impugnata richiama nella lett. c), imponendo ai proprietari di cani di raccogliere con strumenti idonei, di cui gli stessi devono essere muniti, le eventuali deiezioni degli animali, da conferire negli appositi cassonetti per la raccolta dei rifiuti, posizionati nel centro cittadino. Idoneo strumento per affrontare la problematica è costituito, altresì, dalla previsione di una congrua sanzione da comminare ai trasgressori dei divieti.
Stessa cosa dicasi per il pericolo di morsicature, facilmente ovviabile con la prescrizione del guinzaglio e della museruola, di guisa che non ha senso vietare –come fa l’ordinanza impugnata– l’accesso ai giardini e parchi a tutti i cani, compresi quelli dotati di museruola e guinzaglio.
L'impugnata ordinanza è, pertanto, illegittima, anche sotto tale aspetto.
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Con l'istituto dell'ordinanza contingibile e urgente, è consentito fronteggiare situazioni di emergenza, al prezzo del sacrificio temporaneo di posizioni individuali costituzionalmente tutelate, talché esso non può essere impiegato per conferire un assetto stabile e definitivo agli interessi coinvolti.
Le misure non definite nel loro limite temporale possono essere reputate legittime, ma solo quando siano razionalmente collegate alla concreta situazione di pericolo accertata e rapportata alla situazione di fatto, e non è questo il caso in esame, poiché qui il pericolo al quale si vorrebbe ovviare è solo eventuale o ipotetico.
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La scelta di vietare l'ingresso ai cani -e, conseguentemente, ai padroni o detentori degli stessi– nei giardini e parchi comunali, risulta del tutto irragionevole e illogica, oltre che sproporzionata, rispetto al fine perseguito, rappresentato, a ben vedere, dalla necessità di vigilare sul rispetto di regole di civiltà imposte ai cittadini.
Inoltre, proprio il provvedimento impugnato afferma che la problematica cui si è inteso ovviare consegue a comportamenti scorretti da parte dei proprietari o detentori di cani, per l'evidente assenza di rispetto del dovere civico di provvedere alla raccolta degli escrementi con mezzi adatti allo smaltimento, dovere che rientra nei compiti e obiettivi che un'Amministrazione comunale dovrebbe perseguire e incentivare, anche attraverso l'irrogazione di sanzioni nei confronti di chi dimostra insensibilità verso di esso.
Oltre tutto, la stessa ordinanza ricorda che già con provvedimento di data 03.03.2009 del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, è stato previsto l'obbligo a chiunque conduca il cane in ambito urbano di raccoglierne le feci e avere con se strumenti idonei alla raccolta delle stesse, con la conseguenza, quindi, che tale comportamento, espressione del dovere civico e di direttive igienico-sanitarie, deve essere fatto rispettare anche dall'Amministrazione comunale.
Anche per tali distinte ragioni, il provvedimento impugnato è illegittimo.
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Premesso che il provvedimento impugnato fa diretta applicazione dell’art. 50, comma 5, considerato che nella motivazione dello stesso è operato un -del tutto lacunoso e insufficiente- riferimento a possibili rischi per la salute della popolazione, si rileva come il presupposto richiesto dalla disposizione in esame sia del tutto insussistente.
La norma in questione, infatti, consente il ricorso allo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente in caso "di emergenze sanitarie o di igiene pubblica" a carattere locale, situazioni che, evidentemente, devono essere accertate tramite apposita attività istruttoria e devono essere rappresentate nel provvedimento medesimo attraverso un’idonea e puntuale motivazione.
E' del tutto evidente, al contrario, il totale deficit motivazionale e istruttorio che inficia l'ordinanza impugnata, atteso che il dedotto "rischio per la salute della popolazione", di per sé solo, non può costituire sufficiente giustificazione per la misura interdittiva disposta con l'ordinanza. Tale locuzione, infatti, si risolve in una sterile "formula di stile", in mancanza di una pregressa attività istruttoria, che consenta una puntuale indicazione dei pericoli gravi e concreti che costituirebbero una imminente minaccia per la popolazione, tali da giustificare l'assunzione della misura “extra ordinem”.
Il provvedimento in questione, quindi, risulta del tutto sprovvisto di idonea motivazione che sia in grado di sorreggerlo. Anche sotto tale distinto profilo, pertanto, il provvedimento impugnato, nella parte in cui dispone il divieto di accesso ai cani nei giardini e parchi comunali, è illegittimo.

Passando al merito della vicenda, l'Associazione ricorrente censura il provvedimento impugnato -con riferimento alla parte in cui vieta l’ingresso ai cani in parchi e giardini pubblici comunali, anche se condotti al guinzaglio e con museruola- per violazione ed erronea applicazione degli artt. 50, comma 5, del D.Lgs. 267/2000, non sussistendo i presupposti richiesti da detta normativa per esercitare il potere “extra ordinem”. Mancherebbe, infatti, sia la situazione di pericolo effettivo -che, oltre tutto, necessiterebbe di congrua motivazione- sia una situazione eccezionale e imprevedibile, che non potrebbe essere affrontata con i mezzi previsti in via ordinaria dall'ordinamento giuridico.
Inoltre, la ricorrente eccepisce l'omessa idonea istruttoria, volta a suffragare la decisione di adottare l'ordinanza impugnata, mancando qualunque accertamento sanitario teso a determinare l'effettiva pericolosità per la pubblica igiene. Infine, sarebbe violato il principio di motivazione.
In via generale, giova ricordare che le ordinanze contingibili e urgenti sono provvedimenti assunti, sulla base di una norma di legge, per fare fronte a situazioni di urgente necessità, che non potrebbero essere affrontate e risolte in maniera efficace con gli ordinari strumenti a disposizione della stessa Amministrazione. Tali provvedimenti costituiscono strumenti atipici per quanto attiene al contenuto, fissando la legge unicamente i presupposti per l'esercizio del potere di ordinanza, ma non il contenuto della stessa. L'atipicità, infatti, è conseguenza della funzione dell'istituto, considerato che le situazioni di urgenza concretamente verificabili non sono prevedibili a priori e, quindi, non è possibile prevedere il contenuto che l'ordinanza dovrà avere per fronteggiare la situazione di urgenza.
Nel caso in esame, il Sindaco del Comune resistente ha assunto il provvedimento impugnato ai sensi degli artt. 50, comma 5 e 54, comma 4 del D.Lgs. n. 267/2000, i quali, rispettivamente, prevedono che, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale, il Sindaco, quale rappresentante della comunità locale, adotti le ordinanze contingibili e urgenti e che la stessa autorità locale, nella qualità di ufficiale del Governo, adotti -con atto motivato- i provvedimenti, anche contingibili e urgenti, nel rispetto dei princìpi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana.
Tali disposizioni di legge, pertanto, oltre a fondare l'esercitato potere, stabiliscono i presupposti in base ai quali è possibile adottare le predette ordinanze. Dalla motivazione del provvedimento impugnato emerge che lo stesso è stato assunto per fare fronte all’eventuale pericolo di morsicature, ovvero all'abbandono sul suolo pubblico di deiezioni canine e liquidi fisiologici, in conseguenza dell'evidente violazione del dovere civico a provvedere alla raccolta degli escrementi con mezzi adatti, che potrebbe comportare i rischi per la salute della popolazione, già segnalati dalla letteratura scientifica, specie per i bambini. Sulla base del presupposto, quindi, è stato disposto il divieto di accesso ai cani nei parchi e giardini comunali, anche se al guinzaglio e con museruola.
Da quanto esposto, risulta fondata, sotto un primo profilo, la censura mossa dall'associazione ricorrente, laddove con l'adozione di uno strumento extra ordinem si è inteso fare fronte a una problematica che può essere affrontata e risolta con gli ordinari strumenti a disposizione dell'Amministrazione (cfr.: Consiglio di Stato IV, 24.03.2006, n. 1537; TAR Abruzzo L’Aquila I, 15.03.2011, n.134; TAR Campania Napoli V, 29.12.2010, n. 28169).
Invero, la problematica dell'abbandono degli escrementi può essere correttamente affrontata e risolta, garantendo un’attenta e severa vigilanza degli obblighi di legge, nonché a quelli che la stessa ordinanza impugnata richiama nella lett. c), imponendo ai proprietari di cani di raccogliere con strumenti idonei, di cui gli stessi devono essere muniti, le eventuali deiezioni degli animali, da conferire negli appositi cassonetti per la raccolta dei rifiuti, posizionati nel centro cittadino. Idoneo strumento per affrontare la problematica è costituito, altresì, dalla previsione di una congrua sanzione da comminare ai trasgressori dei divieti.
Stessa cosa dicasi per il pericolo di morsicature, facilmente ovviabile con la prescrizione del guinzaglio e della museruola, di guisa che non ha senso vietare –come fa l’ordinanza impugnata– l’accesso ai giardini e parchi a tutti i cani, compresi quelli dotati di museruola e guinzaglio.
L'impugnata ordinanza è, pertanto, illegittima, anche sotto tale aspetto.
Peraltro, il provvedimento impugnato è censurabile sotto il connesso profilo della carenza di un limite temporale di efficacia. Con l'istituto dell'ordinanza contingibile e urgente, è consentito fronteggiare situazioni di emergenza, al prezzo del sacrificio temporaneo di posizioni individuali costituzionalmente tutelate, talché esso non può essere impiegato per conferire un assetto stabile e definitivo agli interessi coinvolti. Le misure non definite nel loro limite temporale possono essere reputate legittime, ma solo quando siano razionalmente collegate alla concreta situazione di pericolo accertata e rapportata alla situazione di fatto, e non è questo il caso in esame, poiché qui il pericolo al quale si vorrebbe ovviare è solo eventuale o ipotetico (cfr.: Cons. Stato V, 06.03.2013 n. 1372; Tar Lombardia-Brescia, I, n. 1276/2011).
La scelta di vietare l'ingresso ai cani -e, conseguentemente, ai padroni o detentori degli stessi– nei giardini e parchi comunali, risulta del tutto irragionevole e illogica, oltre che sproporzionata, rispetto al fine perseguito, rappresentato, a ben vedere, dalla necessità di vigilare sul rispetto di regole di civiltà imposte ai cittadini. Inoltre, proprio il provvedimento impugnato afferma che la problematica cui si è inteso ovviare consegue a comportamenti scorretti da parte dei proprietari o detentori di cani, per l'evidente assenza di rispetto del dovere civico di provvedere alla raccolta degli escrementi con mezzi adatti allo smaltimento, dovere che rientra nei compiti e obiettivi che un'Amministrazione comunale dovrebbe perseguire e incentivare, anche attraverso l'irrogazione di sanzioni nei confronti di chi dimostra insensibilità verso di esso. Oltre tutto, la stessa ordinanza ricorda che già con provvedimento di data 03.03.2009 del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, è stato previsto l'obbligo a chiunque conduca il cane in ambito urbano di raccoglierne le feci e avere con se strumenti idonei alla raccolta delle stesse, con la conseguenza, quindi, che tale comportamento, espressione del dovere civico e di direttive igienico-sanitarie, deve essere fatto rispettare anche dall'Amministrazione comunale. Anche per tali distinte ragioni, il provvedimento impugnato è illegittimo.
Risulta, altresì, fondata la dedotta violazione dell’art. 50 del D.Lgs. 267/2000. Premesso che il provvedimento impugnato fa diretta applicazione dell’art. 50, comma 5, considerato che nella motivazione dello stesso è operato un -del tutto lacunoso e insufficiente- riferimento a possibili rischi per la salute della popolazione, si rileva come il presupposto richiesto dalla disposizione in esame sia del tutto insussistente.
La norma in questione, infatti, consente il ricorso allo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente in caso "di emergenze sanitarie o di igiene pubblica" a carattere locale, situazioni che, evidentemente, devono essere accertate tramite apposita attività istruttoria e devono essere rappresentate nel provvedimento medesimo attraverso un’idonea e puntuale motivazione.
E' del tutto evidente, al contrario, il totale deficit motivazionale e istruttorio che inficia l'ordinanza impugnata, atteso che il dedotto "rischio per la salute della popolazione", di per sé solo, non può costituire sufficiente giustificazione per la misura interdittiva disposta con l'ordinanza. Tale locuzione, infatti, si risolve in una sterile "formula di stile", in mancanza di una pregressa attività istruttoria, che consenta una puntuale indicazione dei pericoli gravi e concreti che costituirebbero una imminente minaccia per la popolazione, tali da giustificare l'assunzione della misura “extra ordinem”.
Il provvedimento in questione, quindi, risulta del tutto sprovvisto di idonea motivazione che sia in grado di sorreggerlo. Anche sotto tale distinto profilo, pertanto, il provvedimento impugnato, nella parte in cui dispone il divieto di accesso ai cani nei giardini e parchi comunali, è illegittimo.
In conclusione, il ricorso è fondato e, pertanto, l'ordinanza comunale impugnata è illegittima e deve essere annullata nella parte in cui dispone il divieto di accesso ai cani, anche se tenuti al guinzaglio nei giardini e parchi comunali
(TAR Molise, sentenza 17.02.2014 n. 104 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell’ipotesi di annullamento di un permesso di costruire va riconosciuta piena operatività ai principi generali che condizionano il legittimo esercizio del potere di autotutela; detto potere è espressione della discrezionalità amministrativa, di guisa che costituisce adempimento indefettibile l'adozione di un provvedimento espresso che richiede la valutazione di elementi ulteriori rispetto alla mera illegittimità dell'atto da eliminare.
Il provvedimento di annullamento di ufficio di un atto di assenso edilizio, in quanto scelta discrezionale, deve essere adeguatamente motivato in ordine all'esistenza dell'interesse pubblico, specifico e concreto, che giustifichi il ricorso all'autotutela anche in ordine alla prevalenza del predetto interesse pubblico su quello antagonista del privato.
Nel caso di specie, tale motivazione sul pubblico interesse è mancata, non potendo ritenersi che, in un’area urbana e in un edificio privato immune da vincoli architettonici o diversamente qualificati d’interesse culturale, possa rilevare e assurgere a interesse pubblico l’estetica architettonica del prospetto di edificio privato condominiale.
Il Comune, nella specie, si è interposto in una contesa privata tra condomini e l’ha risolta in via di autorità, senza che vi fosse l’interesse pubblico all’autotutela amministrativa, ovvero senza motivare affatto sulla sussistenza di detto interesse.
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Quando –anche per il decorso del tempo- la posizione del destinatario del provvedimento ampliativo si consolida e può dirsi generato un affidamento sulla legittimità del titolo stesso, l'esercizio del potere di autotutela è senz’altro condizionato alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, diverso da quello al mero ripristino della legalità violata e prevalente sull'interesse del privato alla conservazione del titolo illegittimo.
Viceversa, la motivazione in relazione all'interesse pubblico all'annullamento può essere tralasciata in quei casi in cui, per il brevissimo lasso di tempo trascorso dal rilascio del provvedimento favorevole, possa ritenersi assente l'affidamento del destinatario nella legittimità dell'atto.
E’ evidente che i tre anni dal permesso di costruire non consentano di ritenere giustificato l’annullamento d’ufficio sul semplice presupposto dell’illegittimità del permesso di costruire.
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Dal combinato disposto delle norme di cui all'art. 21-nonies della legge n. 241/1990 ed all'art. 38 del T.U. n. 380/2001, emerge che, a seguito della riscontrata illegittimità del titolo edilizio, l’Amministrazione procedente deve operare due distinte e progressive ponderazioni comparate dei contrapposti interessi in gioco: una, di primo livello afferente alla normativa generale sul procedimento, in ordine alla caducazione dell'atto illegittimo; nel caso di scelta affermativa, una seconda e definitiva fase di valutazione, riguardante le concrete modulazioni di ricaduta del deliberato annullamento sulla sfera giuridica del destinatario, in attuazione del citato articolo 38 del T.U. sull'edilizia.
In buona sostanza, l'annullamento del permesso di costruire non postula di per sé in via automatica il ripristino di quanto medio tempore costruito, visto che una volta determinatasi a ravvisare gli estremi dell'autotutela decisoria, l'Amministrazione sarebbe poi chiamata a modulare (con lo stesso o con altro distinto provvedimento) le misure operative che ne conseguono, senza un sistematico ricorso all'integrale autotutela esecutiva.

Il ricorso è fondato.
Il Comune di Termoli (Cb), su segnalazione-esposto del controinteressato condominio Crema di viale XXIV Maggio n. 6, avvia nel 2011 un procedimento di annullamento d’ufficio di un permesso di costruire rilasciato tre anni prima, per trasformare una finestra in un accesso carrabile (n. 132/2008), sul presupposto della scarsa esteticità del prospetto dell’edificio e del mancato assenso del condominio a modifiche che avrebbero dovuto essere concordate con esso. Il procedimento mette capo all’impugnato provvedimento prot. n. 1744 datato 20.01.2011, con il quale il Comune annulla in autotutela il permesso di costruire n. 132 del 20.10.2008, rilasciato in favore della ricorrente.
Si tratta di un annullamento che giunge alquanto in ritardo ed è vistosamente difettoso nella motivazione.
Nell’ipotesi di annullamento di un permesso di costruire va riconosciuta piena operatività ai principi generali che condizionano il legittimo esercizio del potere di autotutela; detto potere è espressione della discrezionalità amministrativa, di guisa che costituisce adempimento indefettibile l'adozione di un provvedimento espresso che richiede la valutazione di elementi ulteriori rispetto alla mera illegittimità dell'atto da eliminare (cfr.: Tar Campania Napoli VIII 30.07.2008 n. 9586).
Il provvedimento di annullamento di ufficio di un atto di assenso edilizio, in quanto scelta discrezionale, deve essere adeguatamente motivato in ordine all'esistenza dell'interesse pubblico, specifico e concreto, che giustifichi il ricorso all'autotutela anche in ordine alla prevalenza del predetto interesse pubblico su quello antagonista del privato (cfr.: Tar Campania Napoli VIII 23.05.2013 n. 2724).
Nel caso di specie, tale motivazione sul pubblico interesse è mancata, non potendo ritenersi che, in un’area urbana e in un edificio privato immune da vincoli architettonici o diversamente qualificati d’interesse culturale, possa rilevare e assurgere a interesse pubblico l’estetica architettonica del prospetto di edificio privato condominiale. Il Comune, nella specie, si è interposto in una contesa privata tra condomini e l’ha risolta in via di autorità, senza che vi fosse l’interesse pubblico all’autotutela amministrativa, ovvero senza motivare affatto sulla sussistenza di detto interesse.
Quanto alla dedotta possibile difformità tra stato di fatto e progetto assentito –menzionata nel penultimo accapo della motivazione del provvedimento impugnato– si tratta non già di un vizio di legittimità del permesso di costruire ma, semmai, di un rilievo utile ai fini del procedimento di contestazione di abuso edilizio che, allo stato, non risulterebbe avviato.
Occorre poi considerare che, quando –anche per il decorso del tempo- la posizione del destinatario del provvedimento ampliativo si consolida e può dirsi generato un affidamento sulla legittimità del titolo stesso, l'esercizio del potere di autotutela è senz’altro condizionato alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, diverso da quello al mero ripristino della legalità violata e prevalente sull'interesse del privato alla conservazione del titolo illegittimo. Viceversa, la motivazione in relazione all'interesse pubblico all'annullamento può essere tralasciata in quei casi in cui, per il brevissimo lasso di tempo trascorso dal rilascio del provvedimento favorevole, possa ritenersi assente l'affidamento del destinatario nella legittimità dell'atto (cfr.: Tar Puglia Bari II, 17.04.2009 n. 894; Tar Campania Napoli VII, 07.05.2008, n. 3511; idem IV, 27.03.2006, n. 3197). E’ evidente che i tre anni dal permesso di costruire non consentano di ritenere giustificato l’annullamento d’ufficio sul semplice presupposto dell’illegittimità del permesso di costruire.
Vi è di più. L’annullamento d’ufficio non potrebbe modificare la situazione di fatto (vale a dire, l’avvenuta trasformazione della finestra in accesso carrabile), senza l’ulteriore provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi che, allo stato, risulta non adottato, né tampoco adottabile, trattandosi di opera che non ha comportato alcuna trasformazione edilizia e urbanistica.
Dal combinato disposto delle norme di cui all'art. 21-nonies della legge n. 241/1990 ed all'art. 38 del T.U. n. 380/2001, emerge che, a seguito della riscontrata illegittimità del titolo edilizio, l’Amministrazione procedente deve operare due distinte e progressive ponderazioni comparate dei contrapposti interessi in gioco: una, di primo livello afferente alla normativa generale sul procedimento, in ordine alla caducazione dell'atto illegittimo; nel caso di scelta affermativa, una seconda e definitiva fase di valutazione, riguardante le concrete modulazioni di ricaduta del deliberato annullamento sulla sfera giuridica del destinatario, in attuazione del citato articolo 38 del T.U. sull'edilizia.
In buona sostanza, l'annullamento del permesso di costruire non postula di per sé in via automatica il ripristino di quanto medio tempore costruito, visto che una volta determinatasi a ravvisare gli estremi dell'autotutela decisoria, l'Amministrazione sarebbe poi chiamata a modulare (con lo stesso o con altro distinto provvedimento) le misure operative che ne conseguono, senza un sistematico ricorso all'integrale autotutela esecutiva (cfr.: Tar Abruzzo L’Aquila I, 18.01.2011 n. 21).
Tale considerazione pone in evidenza un profilo di inutilità del provvedimento impugnato, che non soltanto rende –se possibile- meno valida e plausibile la motivazione riferita al mero ripristino della legalità, ma –in aggiunta, sul piano processuale– priva il condominio controinteressato dell’interesse a resistere (TAR Molise, sentenza 17.02.2014 n. 100 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel valutare un'istanza di autorizzazione paesaggistica non è censurabile l'operato della Commissione Paesaggio che non aveva indicato le modifiche necessarie per rendere il progetto paesaggisticamente compatibile: ciò poiché non si rinviene nell’ordinamento alcuna norma che, in tale materia, imponga all’Amministrazione un siffatto obbligo di facere.
La valutazione dell’art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 che presiede all’autorizzazione paesaggistica non può che basarsi sulle allegazioni del solo interessato, e solo su di esse va effettuata la sua valutazione di compatibilità con i valori paesaggistici tutelati.

... per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, n. 255/2012, resa tra le parti, concernente autorizzazione paesaggistica per la demolizione e ricostruzione di un fabbricato.
...
Il ricorso in appello, ritiene qui il Collegio, è fondato.
La sentenza impugnata ha accolto il ricorso perché l’Amministrazione non aveva indicato le modifiche necessarie per rendere il progetto paesaggisticamente compatibile.
La censura formulata dall’amministrazione, in relazione a tale capo della sentenza, è fondata poiché non si rinviene nell’ordinamento alcuna norma che, in tale materia, imponga all’Amministrazione un siffatto obbligo di facere. La valutazione dell’art. 146 d.lgs. n. 42 del 2004 che presiede all’autorizzazione paesaggistica non può che basarsi sulle allegazioni del solo interessato, e solo su di esse va effettuata la sua valutazione di compatibilità con i valori paesaggistici tutelati.
Quanto poi all’asserita compatibilità dell’intervento con gli strumenti urbanistici, che il primo giudice ha ritenuto dovesse condizionare la valutazione che presiede all’autorizzazione paesaggistica (per ridurre quest’ultima all’apprezzamento di soli particolari estetici), si tratta di affermazione del tutto erronea in diritto, che confonde –contro la legge e la giurisprudenza costituzionale (per tutte: Corte cost., 21.12.1985, n. 359; 27.06.1986, n. 151, 152 e 153; 22.07.1987, n. 183; 23.11.2011, n. 309;) e amministrativa (per tutte: Cons. Stato. Ad. plen. 14.12.2001, n. 9)– i due ordinamenti, addirittura arrivando a invertirne la chiara gerarchia che vuole la tutela del paesaggio –corrispondente al principio fondamentale dell’art. 9 Cost.– sovraordinata all’urbanistica.
Del resto, non solo (art. 146, comma 4) “l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio”, e la stessa delegabilità della relativa funzione agli enti locali è subordinata alla dotazione di strutture in grado di garantire la “differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia”; in questa stessa gerarchia, la pianificazione paesaggistica è espressamente sovraordinata a quella urbanistica (cfr. art. 145).
Sicché l’assunto relativo della sentenza è senza fondamento: in realtà, l’autorizzazione paesaggistica deve avere ad oggetto l’intero manufatto e non solo suoi particolari, come invece afferma la gravata decisione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.02.2014 n. 692 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl parere della C.E.I., riportato nell’atto di diniego di autorizzazione paesaggistica impugnato nonché nella successiva nota soprintendentizia del pari gravata, costituendo espressione tipica di una valutazione tecnico-discrezionale, risulta sindacabile e dunque censurabile solo in ipotesi di evidenti e macroscopici vizi di incongruenza, contraddittorietà, illogicità, irragionevolezza, che nel caso di specie difettano.
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In ordine alla presentata richiesta di compatibilità paesaggistica, l’asserita presenza di terrazzi negli edifici circostanti, con tipologia a villa, non giustifica -in ogni caso- la tolleranza su ulteriori abusi in contrasto con il paesaggio.
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Il Soggetto pubblico -che deve pronunciarsi su di un'istanza di compatibilità paesaggistica- non risulta vincolato da alcuna disposizione a rendere indicazioni per ricondurre le opere in sanatoria ambientale alla conformità paesaggistica.

Il primo ricorso (RG. 4798/1996) è destituito di fondamento e va pertanto respinto.
Invero, premesso:
che trattasi di vincolo paesaggistico di inedificabilità relativa, risultando l’assentibilità ex post dell’intervento edilizio subordinata alla previa valutazione di compatibilità paesaggistica dello stesso da parte della C.E.I., occorre evidenziare che il parere della predetta C.E.I., riportato nell’atto di diniego di autorizzazione paesaggistica impugnato nonché nella successiva nota soprintendentizia del pari gravata, costituendo espressione tipica di una valutazione tecnico-discrezionale, risulta sindacabile e dunque censurabile solo in ipotesi di evidenti e macroscopici vizi di incongruenza, contraddittorietà, illogicità, irragionevolezza, che nel caso di specie difettano (cfr., tra le altre, TAR Toscana, III, n. 450 e n.1330 del 2012, n. 1095 del 2013);
che anzi, con sintetica, ma allo stesso tempo adeguata motivazione, in base agli atti acquisiti e a quelli già in possesso, esaminate le caratteristiche del fabbricato e del contesto ambientale, messe a raffronto le prime con le seconde, la C.E.I. ne ha rilevato i profili di contrasto, mal integrandosi l’abuso (terrazzo al piano primo) con la tipologia della villa (cfr. all. 1, 2 al ricorso);
che inoltre non risulta utile il richiamo al terrazzo presente al piano rialzato, trattandosi comunque di differente collocazione rispetto all’abuso in esame;
che poi l’asserita presenza di terrazzi negli edifici circostanti, con tipologia a villa, non giustificherebbe in ogni caso la tolleranza su ulteriori abusi in contrasto con il paesaggio (cfr. TAR Toscana, III, n. 450 e n.1096 del 2012);
che altresì il Soggetto pubblico non risultava vincolato da alcuna disposizione a rendere indicazioni per ricondurre le opere in esame, peraltro già realizzate, alla conformità paesaggistica (cfr. art. 16 R.D. n. 1357 del 1940 e Cons. Stato, VI, n. 4238 del 2009);
che in ultimo, quanto alle censure di ordine procedimentale, le stesse non conducono, ex art. 21-octies, comma 2 della Legge n. 241 del 1990, all’annullamento degli atti impugnati, atteso che, per quanto dianzi emerso, gli stessi non potevano avere un contenuto diverso da quello in concreto assunto (cfr., in ultimo, tra le altre, TAR Toscana, III, n. 809 del 2013) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.02.2014 n. 292 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl “contributo per il rilascio del permesso di costruire”, disciplinato dall’art. 16 del DPR n. 380 del 2001, è inteso dalla giurisprudenza, anche di questa Sezione, come “corrispettivo di diritto pubblico”, che rappresenta una “forma di partecipazione alle spese pubbliche con caratteri atipici, ma sempre collegata all’attività di trasformazione del territorio”; proprio questa sua funzione giustifica la ripetizione del contributo nel caso di mancato utilizzo del permesso di costruire, giacché in questa ipotesi non vi è stata alcuna attività di trasformazione del territorio e quindi non è dovuta alcuna partecipazione alla spesa pubblica correlata.
Può tuttavia accadere, come nella specie, che pur non essendo state realizzate le opere di cui al permesso di costruire, siano stati tuttavia posti in essere significativi interventi modificativi del territorio, come sbancamenti e ingenti movimenti terra, propedeutici alle edificazioni poi non realizzate. In ipotesi siffatte, venendo meno attraverso la rinuncia e/o la decadenza del titolo edilizio, la ragione giustificativa che da un punto di vista giuridico sorreggeva la trasformazione territoriale, l’Amministrazione comunale può ben vantare una pretesa alla rimessione in pristino, cioè alla eliminazione delle trasformazioni territoriali realizzate e non più sorrette dal permesso di costruire.
Si tratta di effetti giuridici che conseguono congiuntamente dalla perdita di efficacia del permesso di costruire: da un lato il diritto alla ripetizione degli oneri concessori correlati ad opere che non si edificheranno più, dall’altro l’obbligo di ripristino della situazione di fatto anteriore rispetto all’avvio delle opere attuative del titolo edilizio.
Proprio la congiunta scaturigine giustifica il collegamento tra le due fattispecie, a garanzia del congiunto adempimento, e cioè giustifica che il Comune trattenga gli oneri riscossi fino alla rimessione in pristino stato o comunque alla determinazione degli oneri conseguenti alla rimessione in pristino medesima. Così che solo una volta azzerata l’incidenza sul territorio delle trasformazioni conseguenti all’esecuzione del titolo edilizio sarà possibile procedere alla ripetizione degli oneri versati.

Con il sesto mezzo di cui ai motivi aggiunti parte ricorrente rileva che il condizionamento, effettuato dall’Amministrazione, della restituzione degli oneri concessori di cui al permesso di costruire n. 7567 alla rimessione in pristino, con eliminazione delle trasformazioni effettuate in attuazione dello stesso permesso n. 7567, sarebbe illegittimo perché privo di fondamento normativo e comunque sproporzionato.
La censura è infondata.
Il “contributo per il rilascio del permesso di costruire”, disciplinato dall’art. 16 del DPR n. 380 del 2001, è inteso dalla giurisprudenza, anche di questa Sezione, come “corrispettivo di diritto pubblico”, che rappresenta una “forma di partecipazione alle spese pubbliche con caratteri atipici, ma sempre collegata all’attività di trasformazione del territorio” (TAR Toscana, sez. 3^, 11.08.2004, n. 3181); proprio questa sua funzione giustifica la ripetizione del contributo nel caso di mancato utilizzo del permesso di costruire, giacché in questa ipotesi non vi è stata alcuna attività di trasformazione del territorio e quindi non è dovuta alcuna partecipazione alla spesa pubblica correlata.
Può tuttavia accadere, come nella specie, che pur non essendo state realizzate le opere di cui al permesso di costruire, siano stati tuttavia posti in essere significativi interventi modificativi del territorio, come sbancamenti e ingenti movimenti terra, propedeutici alle edificazioni poi non realizzate. In ipotesi siffatte, venendo meno attraverso la rinuncia e/o la decadenza del titolo edilizio, la ragione giustificativa che da un punto di vista giuridico sorreggeva la trasformazione territoriale, l’Amministrazione comunale può ben vantare una pretesa alla rimessione in pristino, cioè alla eliminazione delle trasformazioni territoriali realizzate e non più sorrette dal permesso di costruire.
Si tratta di effetti giuridici che conseguono congiuntamente dalla perdita di efficacia del permesso di costruire: da un lato il diritto alla ripetizione degli oneri concessori correlati ad opere che non si edificheranno più, dall’altro l’obbligo di ripristino della situazione di fatto anteriore rispetto all’avvio delle opere attuative del titolo edilizio. Proprio la congiunta scaturigine giustifica il collegamento tra le due fattispecie, a garanzia del congiunto adempimento, e cioè giustifica che il Comune trattenga gli oneri riscossi fino alla rimessione in pristino stato o comunque alla determinazione degli oneri conseguenti alla rimessione in pristino medesima. Così che solo una volta azzerata l’incidenza sul territorio delle trasformazioni conseguenti all’esecuzione del titolo edilizio sarà possibile procedere alla ripetizione degli oneri versati.
Nella specie non risulta che parte ricorrente abbia inteso farsi carico della rimessione in pristino e neppure che abbia avviato con l’Amministrazione un dialogo per stabilire l’ammontare dei costi dell’attività di ripristino, dialogo necessario proprio per determinare in misura corretta gli oneri ripristinatori e scongiurare le sproporzioni che parte ricorrente paventa (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.02.2014 n. 288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGli atti concernenti il diniego e l’assentimento ad altri di concessioni demaniali relative al demanio idrico, aventi in particolare ad oggetto pontili e specchi d’acqua ubicati sulla sponda sinistra del fiume, incidono sul regime delle acque pubbliche, nel senso che concorrono a disciplinare le modalità di utilizzazione di una porzione del fiume e della relativa sponda e che sono, quindi, attratti alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a), del r.d. n. 1775 del 1933, che appunto rimette a tale giudice “i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche”.
L’eccezione è fondata.
Gli atti impugnati concernono il diniego e l’assentimento ad altri di concessioni demaniali relative al demanio idrico, aventi in particolare ad oggetto pontili e specchi d’acqua ubicati sulla sponda sinistra del fiume Arno.
Si tratta quindi di provvedimenti che incidono sul regime delle acque pubbliche, nel senso che concorrono a disciplinare le modalità di utilizzazione di una porzione del fiume Arno e della relativa sponda (in termini TAR Toscana, sez. 3^, sentenza n. 662 del 2010) e che sono quindi attratti alla giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a), del r.d. n. 1775 del 1933, che appunto rimette a tale giudice “i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche” (Cass., SU, 21/06/2005, n. 13293; idem 12/05/2009, n. 10845) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.02.2014 n. 287 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di opere interne abusive con cambio di destinazione d’uso, ciò che rileva ai fini del rilascio del condono edilizio di cui all’art. 32, comma 25, d.l. 30.09.2003 n. 269, conv. nella l. 24.11.2003 n. 326, è che sia intervenuto il completamento funzionale entro i termini di legge, intendendosi con tale espressione una situazione per cui le opere, pur non perfette nelle finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi strutturali e con caratteristiche necessarie e sufficienti ad assolvere la funzione cui sono destinate.
Al riguardo, il Tribunale deve rilevare che sono del tutto condivisibili le argomentazioni svolte dall’amministrazione comunale, nonché le conclusioni giuridiche alle quali la stessa è pervenuta.
La domanda di condono risulta effettivamente carente di idonea documentazione atta a comprovare che il mutamento di destinazione d’uso del fabbricato sia avvenuto entro il 31.03.2003 previsto ex lege per la sanabilità degli abusi edilizi, risultando ad essa allegata solo documentazione fotografica dell’esterno dell’immobile, nemmeno risultando idonea, a tale fine (trattasi, infatti, di sanare un diverso utilizzo del manufatto), la dichiarazione di asseverazione da parte del professionista (sul punto, del tutto generica) allegata alla domanda.
Oltre a ciò, sia dal verbale di sopralluogo sia soprattutto dalla documentazione fotografica realizzata dagli Agenti della Polizia Municipale nell’occasione (v. doc. n. 5 della ricorrente) emerge chiaramente che in data di molto successiva a quella di cui sopra, vale a dire il 18/03/2004, i lavori all’interno del fabbricato erano ancora in corso e che mancavano ancora elementi essenziali, quali intonaci, pavimenti, infissi, rivestimenti, allacci agli impianti per ritenere completato funzionalmente il mutamento di destinazione d’uso dell’immobile da “attrezzaia” a “civile abitazione” che il ricorrente intendeva sanare.
 Il Collegio condivide, sulla questione, quanto affermato dalla giurisprudenza amministrativa secondo la quale “…nel caso di opere interne abusive con cambio di destinazione d’uso, ciò che rileva ai fini del rilascio del condono edilizio di cui all’art. 32, comma 25, d.l. 30.09.2003 n. 269, conv. nella l. 24.11.2003 n. 326, è che sia intervenuto il completamento funzionale entro i termini di legge, intendendosi con tale espressione una situazione per cui le opere, pur non perfette nelle finiture, possano dirsi individuabili nei loro elementi strutturali e con caratteristiche necessarie e sufficienti ad assolvere la funzione cui sono destinate;…” (v. Cons. Stato, sez. IV, 26/1/2009 n. 393; TAR Campania –NA- sez. III, 07/09/2012 n. 3804; 01/06/2012 n. 2612).
Dalle considerazioni che precedono discende che, non avendo il responsabile dell’abuso dimostrato di avere realizzato il mutamento di destinazione d’uso dell’immobile da sanare entro la suddetta data prefissata ex lege, risultano infondate tutte le censure rassegnate in ricorso e discende, quale ulteriore conseguenza, la reiezione dello stesso (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 11.02.2014 n. 177 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il concetto di “utente” di strada vicinale soggetta a pubblico transito, come emergente dall’art. 1 del D.L.Lgt. n. 1446 del 1918, deve necessariamente essere considerato e interpretato in senso maggiormente estensivo rispetto alla definizione (oltremodo restrittiva) datane in ricorso; ciò in coerenza e nel rispetto della ratio della norma stessa.
L’art. 1, al primo comma, stabilisce infatti che: “Gli utenti delle strade vicinali, anche se non soggette a pubblico transito, possono costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la sistemazione o ricostruzione di esse”.
La norma intende individuare detta utenza mediante un criterio del tutto oggettivo, che pone a confronto la situazione dei luoghi e delle proprietà e/o dei soggetti utilizzatori dei terreni, con il percorso della strada vicinale, in modo da includere nell’elenco dei soggetti utenti della strada tutti coloro i cui terreni siano oggettivamente, direttamente raggiungibili percorrendo la strada vicinale e ciò evidentemente a prescindere da quale sia l’effettivo concreto utilizzo di quel percorso da parte dei soggetti interessati e, ulteriormente, a prescindere dall’esistenza, in zona, di altri tragitti che consentono di accedere ai loro fondi.
In buona sostanza, il concetto di utente della strada voluto dalla citata disposizione, individua il soggetto i cui fondi possono essere direttamente raggiunti percorrendo la stessa.
Nella fattispecie in esame, pertanto, ove non è contestato che i terreni di proprietà della ricorrente siano raggiungibili direttamente percorrendo la strada vicinale di cui è causa, anche attraverso il tratto di essa non soggetto all’uso pubblico, il Collegio ritiene che del tutto legittimamente, sulla base delle motivate argomentazioni svolte nella deliberazione consiliare impugnata, il Comune abbia incluso la ricorrente tra gli utenti della strada vicinale obbligati a consorziarsi.

... per l'annullamento della deliberazione del Consiglio comunale di Monzuno avente ad oggetto l’approvazione della costituzione del consorzio obbligatorio della strada vicinale di uso pubblico “Montorio – Pieve di Montorio – Molinelli” tra gli utenti della strada, nella parte in cui si respinge il reclamo della ricorrente diretto ad essere esclusa dall’elenco degli utenti consorziati.
...
Il Collegio osserva che il ricorso non merita accoglimento.
Le argomentazioni della ricorrente sono dirette a contrastare l’inclusione della stessa nell’elenco dei soggetti partecipanti al Consorzio obbligatorio per la gestione della strada vicinale di uso pubblico “Montorio – Pieve di Montorio – Molinelli”, conferendo rilevanza a considerazioni circa l’effettivo mancato utilizzo della strada vicinale sia da parte della ricorrente –proprietaria dei fondi– sia da parte del soggetto affittuario dei fondi stessi. La ricorrente ritiene, in definitiva, di non essere e di non potere essere in alcun modo considerata “utente” della strada vicinale, mancando il necessario presupposto, indicato nel D.L.lgt. n. 1446 del 1918, di essere soggetto che per accedere alla sua proprietà deve necessariamente utilizzare, ed in concreto, utilizza, la strada.
Secondo la prospettazione della ricorrente, anche lo Statuto del Consorzio avallerebbe detta oltre modo restrittiva interpretazione della normativa statale, ove, all’art. 3 si dispone che “…fanno parte del Consorzio tutti i proprietari di terreni e fabbricati, attività agricole, artigianali ed industriali, che per accedere alle proprietà di pertinenza debbano servirsi totalmente o anche solo parzialmente della strada”. Pertanto, a dire della ricorrente, per essere considerato quale utente della strada vicinale e, quindi, obbligato al Consorzio, occorre che lo stato dei luoghi imponga la necessità di servirsi proprio di quel percorso; nella specie, invece, tale situazione non si verificherebbe, dato che i fondi di cui è proprietaria non fronteggiano la strada vicinale e dato che sia essa stessa sia il coltivatore affittuario non si servano di quel tragitto per accedere ai propri fondi.
Il Collegio ritiene che le predette considerazioni non possano essere condivise, stante che il concetto di “utente” di strada vicinale soggetta a pubblico transito, come emergente dall’art. 1 del D.L.Lgt. n. 1446 del 1918, debba necessariamente essere considerato e interpretato in senso maggiormente estensivo rispetto alla definizione (oltremodo restrittiva) datane in ricorso; ciò in coerenza e nel rispetto della ratio della norma stessa.
L’art. 1, al primo comma, stabilisce infatti che: “Gli utenti delle strade vicinali, anche se non soggette a pubblico transito, possono costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la sistemazione o ricostruzione di esse”. La norma intende individuare detta utenza mediante un criterio del tutto oggettivo, che pone a confronto la situazione dei luoghi e delle proprietà e/o dei soggetti utilizzatori dei terreni, con il percorso della strada vicinale, in modo da includere nell’elenco dei soggetti utenti della strada tutti coloro i cui terreni siano oggettivamente, direttamente raggiungibili percorrendo la strada vicinale e ciò evidentemente a prescindere da quale sia l’effettivo concreto utilizzo di quel percorso da parte dei soggetti interessati e, ulteriormente, a prescindere dall’esistenza, in zona, di altri tragitti che consentono di accedere ai loro fondi.
In buona sostanza, il concetto di utente della strada voluto dalla citata disposizione, individua il soggetto i cui fondi possono essere direttamente raggiunti percorrendo la stessa.
Nella fattispecie in esame, pertanto, ove non è contestato che i terreni di proprietà della ricorrente siano raggiungibili direttamente percorrendo la strada vicinale di cui è causa, anche attraverso il tratto di essa non soggetto all’uso pubblico (v. doc. n. 1 del Comune), il Collegio ritiene che del tutto legittimamente, sulla base delle motivate argomentazioni svolte nella deliberazione consiliare impugnata, il Comune abbia incluso la ricorrente tra gli utenti della strada vicinale obbligati a consorziarsi.
Per le suesposte ragioni, il ricorso è respinto (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 11.02.2014 n. 174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sulla illegittimità della deliberazione consiliare che ha rigettato l’istanza di proroga della scadenza dei termini per l’inizio dei lavori di un Piano di lottizzazione.
L'amministrazione non può in maniera immotivata e repentina porre nel nulla procedimenti ed attività avviati di concerto con soggetti privati (ma il discorso vale anche quando il procedimento sia stato attivato unilateralmente dalla P.A. e nella misura in cui gli atti adottati sino ad un certo momento abbiano ingenerato un legittimo affidamento in capo ai privati) soprattutto quando a questi ultimi è stato chiesto di porre in essere attività di studio, ricerca, progettazione.
In un’ipotesi di annullamento del titolo abilitativo dopo un lungo lasso di tempo, è stato ravvisato “Un chiaro difetto di motivazione …. nel provvedimento …. siccome adottato dall'Amministrazione nell'esercizio del potere di annullamento, laddove la frustrazione dell'affidamento ingenerato in capo al destinatario non risulta in alcun modo presa in considerazione dall'Amministrazione, nemmeno per affermare in ipotesi che nessuna situazione di affidamento fosse da ponderarsi ai fini della necessaria comparazione dell'incisione delle posizioni in rilievo".
Sotto un profilo generale, la leale collaborazione, intesa correttamente, preclude all’Ente pubblico di emettere un atto sfavorevole quando può acquisire le informazioni mancanti e tuttavia il privato, ove interpellato in tal senso, ha l’onere di fornire l’assistenza documentale necessaria per una decisione ponderata e adeguata che presupponga la chiarezza del quadro fattuale: l’affidamento tutelabile deve accompagnarsi ad un comportamento diligente e gli obblighi di collaborazione tra privato ed Ente pubblico vanno intesi in senso “bidirezionale”, nel senso che come l’amministrazione è obbligata a cooperare con il privato, così quest’ultimo è tenuto ad informare prontamente l’amministrazione delle circostanze che possono influire sulle determinazioni che lo riguardano.

... per l'annullamento:
- DELLA DELIBERAZIONE CONSILIARE IN DATA 01/06/2005 N. 18, DI ESAME –CON ESITO SFAVOREVOLE– DELLA RICHIESTA DI PROROGA DEI TERMINI PER L’ATTUAZIONE DEL P.L. DI INIZIATIVA PRIVATA COMPARTO B4/4;
- DEL PARERE ESPRESSO DALLA COMMISSIONE CONSILIARE IL 30/5/2005;
- DELLA DELIBERAZIONE CONSILIARE IN DATA 29/03/2005 N. 13.
...
Il thema decidendum del presente gravame verte sulla legittimità della deliberazione consiliare che ha rigettato l’istanza di proroga della scadenza dei termini per l’inizio dei lavori di un Piano di lottizzazione.
Il gravame è fondato sotto il profilo del difetto di motivazione.
1. Parte ricorrente ha in particolare dedotto che l’organo consiliare ha avvertito il dovere di pronunciarsi al punto da istituire una Commissione per l’esame della richiesta proroga e le problematiche tecnico-giuridiche dell’intera pratica (suscitando così affidamento in capo al privato) e che sussisteva l’interesse pubblico a eliminare l’attività produttiva giudicata incompatibile col particolare contesto. Ha puntualizzato che in ogni caso l’istanza doveva essere valutata sulla base delle ordinarie regole di correttezza, diligenza e collaborazione (oltre all’obbligo sancito dall’art. 2 della L. 241/1990) e che l’obbligo di motivazione non può dirsi soddisfatto col pedissequo richiamo della previsione urbanistica e del termine decadenziale. Tra le due alternative –la proroga a mezzo di atto deliberativo (trattandosi di disposizione specifica per un immobile individuato, con regole puntuali), ovvero una variante procedura semplificata ex art. 2 della L.r. 23/1997 (prospettate con istanza 16/2/2005 integrata dalla lettera 07/03/2005)– i pareri resi dagli uffici avevano privilegiato la seconda opzione della variante (cfr. note segretario generale e responsabile dell’area tecnica).
La prospettazione merita condivisione.
1.1 I principi di buona fede e di tutela dell’affidamento del privato impongono all’amministrazione, sul versante procedimentale, un comportamento lineare e non contraddittorio, dovendo la stessa esporre tempestivamente e chiaramente ai privati coinvolti tutti i dubbi e le riserve circa gli atti posti in essere. Come ha messo in evidenza la giurisprudenza (cfr. TAR Marche – 09/01/2013 n. 4) <<… l'amministrazione non può in maniera immotivata e repentina porre nel nulla procedimenti ed attività avviati di concerto con soggetti privati (ma il discorso vale anche quando il procedimento sia stato attivato unilateralmente dalla P.A. e nella misura in cui gli atti adottati sino ad un certo momento abbiano ingenerato un legittimo affidamento in capo ai privati) soprattutto quando a questi ultimi è stato chiesto di porre in essere attività di studio, ricerca, progettazione ….>>. In un’ipotesi di annullamento del titolo abilitativo dopo un lungo lasso di tempo, è stato ravvisato “Un chiaro difetto di motivazione …. nel provvedimento …. siccome adottato dall'Amministrazione nell'esercizio del potere di annullamento, laddove la frustrazione dell'affidamento ingenerato in capo al destinatario non risulta in alcun modo presa in considerazione dall'Amministrazione, nemmeno per affermare in ipotesi che nessuna situazione di affidamento fosse da ponderarsi ai fini della necessaria comparazione dell'incisione delle posizioni in rilievo” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV – 21/12/2009 n. 8529).
1.2 Sotto un profilo generale, la leale collaborazione, intesa correttamente, preclude all’Ente pubblico di emettere un atto sfavorevole quando può acquisire le informazioni mancanti e tuttavia il privato, ove interpellato in tal senso, ha l’onere di fornire l’assistenza documentale necessaria per una decisione ponderata e adeguata che presupponga la chiarezza del quadro fattuale (cfr. sentenza Sezione 10/12/2012 n. 1928): l’affidamento tutelabile deve accompagnarsi ad un comportamento diligente e gli obblighi di collaborazione tra privato ed Ente pubblico vanno intesi in senso “bidirezionale”, nel senso che come l’amministrazione è obbligata a cooperare con il privato, così quest’ultimo è tenuto ad informare prontamente l’amministrazione delle circostanze che possono influire sulle determinazioni che lo riguardano.
1.3 Nel caso in esame la condotta della Società è sempre stata improntata a coerenza e linearità, avendo intrapreso il percorso tracciato dalla norma urbanistica transitoria. Come si evince dalla cronologia degli adempimenti esposta in fatto, la ricorrente ha dato impulso al procedimento amministrativo e di seguito ha sempre ottemperato alle richieste dell’amministrazione e si è adattata agli aggravi istruttori imposti dal Comune, dalla Provincia e dalla Regione (quest’ultima attivatasi anche per le decisioni assunte a livello comunitario). In prossimità della scadenza del termine sono stati acquisiti i numerosi pareri necessari e tutti sono risultati favorevoli, seppur con prescrizioni, e lo scenario prevedibile era nel senso di una determinazione conclusiva positiva, prodromica all’inizio dei lavori.
1.4 Ad avviso del Collegio traspare la buona fede del soggetto proponente, che ha sempre condotto l’iniziativa e mantenuto vivo il suo interesse all’attuazione del Piano, ha prodotto tutti gli atti necessari e ha ottemperato alle molteplici richieste istruttorie. In questa cornice fattuale, di comportamento attivo e cooperazione prestata dalla Società Ninfea –ormai giunta in prossimità alla conclusione dell’articolato iter di approvazione– l’amministrazione non poteva limitarsi a prendere atto della formale scadenza del termine quadriennale. Il Consiglio comunale è certo l’organo che può compiere valutazioni di tipo politico-amministrativo, ma le stesse non possono considerarsi avulse da un contesto nel quale la Società ha elaborato un Piano attuativo, ha adempiuto alle plurime istanze di aggiornamento e integrazione, ed è giunta a raccogliere gli assensi di tutte le amministrazioni coinvolte. La stessa nomina della Commissione, tra l’altro, non poteva che sottendere la logica necessità di approfondimenti e valutazioni, comprendenti il bilanciamento dell’interesse pubblico con la posizione del soggetto privato alla luce del naturale affidamento insorto per la conclusione di un iter laborioso e travagliato, che tuttavia aveva superato tutti i passaggi istituzionali e persino acquisito i pareri degli uffici circa il corretto percorso giuridico per accordare la richiesta proroga.
In conclusione il ricorso è fondato e merita accoglimento (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 11.02.2014 n. 153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Impianti mobili che eseguono la sola riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni estranee.
La deroga al regime ordinario in materia di rifiuti prevista, dall'art. 208, comma 15 d.lgs. 152/2006, per gli impianti mobili che eseguono la sola riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni estranee, opera esclusivamente con riferimento a tali attività, restando conseguentemente esclusa ogni operazione diversa, antecedente o successiva, che rimane invece soggetta alla disciplina generale ed incombe su chi invoca l'applicazione di detta deroga l'onere di dimostrare la sussistenza dei presupposti di legge per la sua operatività (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.02.2014 n. 6107 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Confisca obbligatoria del mezzo di trasporto per il reato di traffico illecito di rifiuti.
In tema di gestione dei rifiuti, al fine di evitare la confisca obbligatoria del mezzo di trasporto prevista per il reato di traffico illecito di rifiuti (art. 259, comma secondo, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152), incombe sul terzo estraneo al reato, individuabile in colui che non ha partecipato alla commissione dell'illecito ovvero ai profitti che ne sono derivati, l'onere di provare la sua buona fede, ovvero che l'uso illecito della "res" gli era ignoto e non collegabile ad un suo comportamento negligente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.02.2014 n. 5776 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATARistrutturazione mediante demolizione e costruzione ed accertamento della preesistente consistenza del manufatto.
La previsione contenuta nell'art.30 legge 98/2013 consente di procedere a ristrutturazione di edificio crollato o demolito a condizione che "sia possibile accertarne la preesistente consistenza".
La norma non chiarisce attraverso quali strumenti detto accertamento possa o debba essere compiuto, ma la Corte considera indubitabile che il sistema in vigore escluda si possa ricorrere a fonti non documentali o comunque prive dei caratteri di certezza e verificabilità.
Depone per questa conclusione tutta la disciplina che regola il procedimento che conduce al permesso di costruire
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.02.2014 n. 5912 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI: Sull'applicabilità della teoria c.d. falso innocuo alle procedure d'evidenza pubblica.
La teoria del c.d. "falso innocuo" nelle gare ad evidenza pubblica presuppone che la lex specialis non preveda una sanzione espulsiva espressa per la mancata osservanza di puntuali prescrizioni sulle modalità e sull'oggetto delle dichiarazioni da fornire.
L'art. 45, § 2, lett. g), della dir. n. 2004/18/CE, che fa conseguire l'esclusione dalla gara alle sole ipotesi di grave colpevolezza e di false dichiarazioni (e non anche incomplete) nel fornire informazioni s'appalesa d'immediata applicazione nell'ordinamento nazionale e, quindi, nelle procedure di gara solo qualora l'esclusione da esse non sia sancita, in base all'art. 38, c. 1, del Dlgs 163/2006, in modo espresso nella legge di gara. Infatti, per un verso, non si può predicare l'applicabilità mera del c.d. "falso innocuo" alle procedure d'evidenza pubblica, perché la completezza delle dichiarazioni consente, anche in ossequio al principio di buon andamento dell'azione amministrazione e di proporzionalità, la celere decisione sull'ammissione dell'operatore economico alla gara. Per altro verso, la dimostrazione dell'assenza di elementi ostativi alla partecipazione ad una gara di appalto in capo ad uno degli amministratori della società (nella specie, il vicepresidente del CDA), costituisce elemento essenziale dell'offerta (o comunque è dovuta ai sensi dell'art. 38, c. 2, del Dlgs 163/2006), sì che la sua mancanza produce l'esclusione automatica ai sensi del successivo art. 46, c. 1-bis, quand'anche in assenza di espressa comminatoria da parte della legge di gara (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 06.02.2014 n. 583 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Domanda di condono edilizio e delitto di cui all'art. 483 cod. pen.
Nel caso in cui nella "Domanda relativa alla definizione degli illeciti edilizi" colui che l'ha sottoscritta, abbia dichiarato nella casella "Data di ultimazione" una data non rispondente al vero, si configura il reato di cui all'art. 483 cod. pen. poiché la domanda così presentata comporta il collegamento di specifici effetti a quanto dichiarato nella domanda stessa; dunque, si deve, a mezzo della dichiarazione del vero, dar luogo a tali effetti, tramite quella che può ben definirsi pubblica asseverazione, pervenendosi così alla qualificazione della dichiarazione come atto pubblico ai fini del reato suddetto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.02.2014 n. 5683 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Natura oggettiva del concetto di ultimazione dei lavori.
Il reato urbanistico ha natura di reato permanente la cui consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione dell'attività edificatoria abusiva.
La cessazione dell'attività si ha con l'ultimazione dei lavori per completamento dell'opera, con la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio mediante sequestro penale), con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato e sino alla data del giudizio.
Inoltre, l'ultimazione dei lavori coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni quali gli intonaci e gli infissi.
Entro tale preciso ambito deve dunque individuarsi il concetto di "ultimazione" che ha natura oggettiva e non può, pertanto, dipendere da valutazioni soggettive
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.02.2014 n. 5480 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Terre e rocce da scavo e materiali di risulta edile.
Nel caso in cui, oltre terre e rocce da scavo propriamente definibili come tali, in un impianto vengano trattati materiali di risulta edile, la questione della qualificabilità come sottoprodotti e non rifiuti dei materiali non si pone (né, quindi, la nuova disciplina derivante dall'art. 41-bis della legge 09.08.2013, n. 98, di conversione del c.d. decreto "del Fare", D.L. n. 69/2013, che introduce nell'ordinamento alcune disposizioni tese a disciplinare l'utilizzo, come sottoprodotti, dei materiali da scavo prodotti nel corso di attività e interventi autorizzati in base alle norme vigenti, in deroga a quanto previsto dal D.M. 10.08.2012, n. 161, recante il regolamento per la disciplina dell'utilizzazione delle terre e rocce da scavo) ed è conseguentemente necessaria l'autorizzazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.02.2014 n. 5470 - tratto da www.lexambiente.it).

APPALTI: Sulla scusabilità dell'errore riconducibile a formulazioni degli atti di gara che possono indurre dubbi interpretativi.
In materia di cause di esclusione dalle gare per reati incidenti sulla moralità professionale, la verifica dell'incidenza dei reati commessi dal legale rappresentante dell'impresa sulla moralità professionale della stessa attiene all'esercizio del potere discrezionale della P.A. e deve essere valutata attraverso la disamina in concreto delle caratteristiche dell'appalto, del tipo di condanna, della natura e delle concrete modalità di commissione del reato, non potendo la stessa concorrente valutare da sé quali reati siano rilevanti ai fini della dichiarazione da rendere, ciò implicando un giudizio inevitabilmente soggettivo, inconciliabile con la finalità della norma.
Tuttavia, allorché la dichiarazione sia resa sulla scorta di modelli predisposti dalla stazione appaltante ed il concorrente incorre in errore indotto dalla formulazione ambigua o equivoca del modello, non può determinarsi l'esclusione dalla gara per l'incompletezza della dichiarazione resa. Il rigore formalistico, dunque, cede in presenza di una scusabilità dell'errore riconducibile a formulazioni degli atti di gara che possono indurre dubbi interpretativi, tanto più che vige oggi la regola della tassatività delle cause di esclusione, di cui all'art. 46, c. 1-bis, Codice dei contratti, che s'ispira ad un criterio sostanzialistico e riafferma il favor partecipationis (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 04.02.2014 n. 507 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Allorquando una concessione sia stata ottenuta dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà, l’autotutela può essere esercitata senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente "in re ipsa".
... per l'annullamento:
- dell'ordinanza del Sindaco del Comune di Sant'Orsola Terme n. 14/2012 dd. 06.06.2012 prot. n. 2860 ad oggetto "annullamento in autotutela delle concessioni di edificare n. 1448 di data 08.03.2000 e n. 1456 di data 04.05.2000", rilasciate ai signori P.L. e R.S. per i lavori di costruzione dell’edificio sulla p.f. 203/02 in c.c. S. Orsola località “Palaori";
...
Quanto all’altra censura, secondo cui l’autotutela sarebbe stata esercitata, a distanza di anni dal rilascio della concessione edilizia, senza alcuna specifica motivazione sull’attualità del pubblico interesse, il Collegio si richiama, condividendola, alla giurisprudenza secondo cui, allorquando una concessione sia stata ottenuta dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà, l’autotutela può essere esercitata senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente "in re ipsa" (cfr., ad es.: Consiglio di Stato, sez. IV, 08/01/2013, n. 39).
In ogni caso, la situazione derivante dal rilascio della concessione edilizia nel lontano 2000 non si era affatto consolidata, se si considera che i relativi lavori sono stati ultimati (peraltro solo “al grezzo”, senza le necessarie finiture atte a rendere l’edificio abitabile) soltanto in data 29.10.2010 e, quindi, anche l’onere di motivazione in punto di pubblico interesse all’esercizio dell’autotutela si configurava come meno pregnante (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 30.01.2014 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl termine massimo di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall’art. 16, comma 5, della legge 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati ma valevole anche per i piani di lottizzazione, è di dieci anni.
Alla scadenza di tale termine massimo (o nel minor termine espressamente previsto per la sua attuazione) il piano di lottizzazione perde efficacia.
La scadenza del piano di lottizzazione legittima l'Amministrazione a dettare una diversa regolamentazione urbanistica ed edilizia per le aree nel medesimo ricomprese che non siano state oggetto di sfruttamento edificatorio nel termine di efficacia della relativa convenzione.
La perdita di efficacia della lottizzazione convenzionata per scadenza del termine decennale, infatti, determina il venir meno, sul piano pretensivo, dell'affidamento circa l'intangibilità della destinazione urbanistica, per cui un nuovo strumento urbanistico non deve necessariamente tenerne conto.
Ma fino a tale momento di modifica della disciplina urbanistica dettata per quell’area, nei casi in cui le opere di urbanizzazione previste dalla lottizzazione siano state interamente realizzate e sia stato completato, con ingente impegno anche finanziario, il tessuto urbano della stessa, sarebbe illogico e contrario ai principi di corretto svolgimento dell’azione amministrativa ritenere che la zona debba restare senz’altro inedificata rendendo vano quell’impegno.
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La scadenza del termine decennale di efficacia non preclude di per sé la realizzazione delle volumetrie previste dal piano, purché siano state tempestivamente realizzate le opere di urbanizzazione da esso programmate.

Occorre adesso esaminare la censura secondo la quale le opere per cui è causa non sarebbero legittime in quanto realizzate dopo che la convenzione di lottizzazione era già scaduta.
Con sentenza n. 118 del 31.01.2009, pronunciata nel ricorso n. 118/2009, questo Tribunale aveva annullato la concessione n. 9/1999, ritenendo decorso il termine decennale di efficacia della convenzione di lottizzazione in esecuzione della quale era stato rilasciato il titolo edilizio, e tale decisione è stata confermata in appello dal Consiglio di Stato con sentenza n. 2045 del 06.04.2012.
La prima censura proposta dai ricorrenti lamenta proprio la violazione delle statuizioni di cui ai predetti giudicati.
Tali precedenti, tuttavia, non vincolanti per il caso in esame in quanto resi in un giudizio tra altre parti e in relazione all’impugnazione di altro titolo edilizio, non sono tuttavia condivisi dal Collegio alla luce del prevalente orientamento giurisprudenziale affermatosi più recentemente in materia.
Il termine massimo di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall’art. 16, comma 5, della legge 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati ma valevole anche per i piani di lottizzazione, è di dieci anni.
Alla scadenza di tale termine massimo (o nel minor termine espressamente previsto per la sua attuazione) il piano di lottizzazione perde efficacia.
La scadenza del piano di lottizzazione legittima l'Amministrazione a dettare una diversa regolamentazione urbanistica ed edilizia per le aree nel medesimo ricomprese che non siano state oggetto di sfruttamento edificatorio nel termine di efficacia della relativa convenzione.
La perdita di efficacia della lottizzazione convenzionata per scadenza del termine decennale, infatti, determina il venir meno, sul piano pretensivo, dell'affidamento circa l'intangibilità della destinazione urbanistica, per cui un nuovo strumento urbanistico non deve necessariamente tenerne conto.
Ma fino a tale momento di modifica della disciplina urbanistica dettata per quell’area, nei casi in cui le opere di urbanizzazione previste dalla lottizzazione siano state interamente realizzate e sia stato completato, con ingente impegno anche finanziario, il tessuto urbano della stessa, sarebbe illogico e contrario ai principi di corretto svolgimento dell’azione amministrativa ritenere che la zona debba restare senz’altro inedificata rendendo vano quell’impegno (TAR Sardegna, Sez. II 19.02.2010 n. 191; Cons. Stato, Sez. V, 30.04.2009 n. 2768).
Nella specie, al contrario, come risulta dalle difese delle parti resistenti, con la variante al piano di fabbricazione adottata dal Comune di Stintino con delibera del Consiglio comunale n. 8 dell’08.03.2006, per il ridimensionamento delle volumetrie già assegnate alle zone “F”, successivamente e definitivamente approvata con deliberazione consiliare n. 25 del 31.07.2006, il Comune ha riconfermato, quale piano attuativo del proprio strumento urbanistico generale, riconfermandone le cubature, la lottizzazione in questione.
E non può nemmeno ritenersi che, decorso il decennio di efficacia di un piano di lottizzazione, occorresse necessariamente procedere ad un nuovo convenzionamento oppure ad una nuova formale approvazione di uno strumento attuativo, giacché tali atti sarebbero stati privi di oggetto in quanto destinati a consentire l’urbanizzazione di una zona già dotata di tutte le infrastrutture necessarie nella quale, quindi, i bisogni che impongono di procedere al convenzionamento erano ormai soddisfatti (cfr. TAR Sardegna, n. 1250 del 10.11.2001).
La scadenza del termine decennale di efficacia, in altre parole, non preclude di per sé la realizzazione delle volumetrie previste dal piano, purché siano state tempestivamente realizzate le opere di urbanizzazione da esso programmate (cfr: Tar Sardegna, Sez. II, n. 554 del 31.05.2012) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 15.01.2014 n. 38 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Difetti di progettazione: si può chiedere il risarcimento entro 10 anni.
La Corte di cassazione è intervenuta, con la pronuncia che si annota, sul dibattuto tema dell'applicazione della decadenza di cui all'art. 2226 c.c., secondo comma, all'ipotesi in cui l'oggetto della prestazione del professionista sia consistita in una prestazione di opera intellettuale.
Nel caso di specie era avvenuto che un architetto aveva richiesto l'emanazione di un decreto ingiuntivo nei confronti del proprio cliente, il quale, tuttavia, si era opposto deducendo l'inadempimento del professionista ai propri obblighi contrattuali.
Il professionista, da parte sua, aveva però dedotto la decadenza del diritto di denunciare vizi da parte del cliente ai sensi del secondo comma dell'art. 2226 c.c., il quale così prevede: “Il committente deve, a pena di decadenza denunziare le difformità e i vizi occulti al prestatore d'opera entro otto giorni dalla scoperta. L'azione si prescrive entro un anno dalla consegna”.
Il giudice di primo grado aveva rigettato tale eccezione del convenuto opposto; eccezione però successivamente accolta nel grado di appello.
Il cliente aveva dunque proposto ricorso per cassazione al fine di censurare la pronuncia della Corte d'appello sotto il profilo della falsa applicazione dell'art. 2226 c.c. al caso di specie.
La Corte, nell'esaminare la questione, ha ricordato come il tema dell'applicazione della predetta disposizione all'ipotesi del contratto d'opera intellettuale sia stato oggetto di una pronuncia delle Sezioni Unite, riferita, in particolare, alla fattispecie del professionista che abbia assunto l'obbligo di redigere un progetto o di svolgere l'attività di direzione di lavori.
Le Sezioni Unite, con pronuncia n. 15871/2005 avevano infatti chiarito che “Le disposizioni dell'art. 2226 c.c., in tema di decadenza e prescrizione dell'azione di garanzia per vizi dell'opera, sono inapplicabili alla prestazione d'opera intellettuale, ed in particolare alla prestazione del professionista che abbia assunto l'obbligazione della redazione di un progetto di ingegneria o della direzione dei lavori, ovvero l'uno e l'altro compito, attesa l'eterogeneità della prestazione rispetto a quella manuale, cui si riferisce l'art. 2226 c.c., norma che perciò non è da considerare tra quelle richiamate dall'art. 2230 c.c.”.
Nella pronuncia di cui odiernamente si dà conto, la Corte ha dunque ribadito tale principio giurisprudenziale, in considerazione del fatto che le obbligazioni svolte, nel caso di specie, dal professionista, risultavano esattamente analoghe a quelle oggetto della pronuncia delle Sezioni Unite (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 20.12.2013 n. 28575 - link a www.altalex.com).

CONSIGLIERI COMUNALI: La natura riservata degli atti non limita il diritto d’accesso del Consigliere.
Al riguardo, chiariscono i giudici del Consiglio di Stato nella pronuncia in commento, occorre premettere che l’interesse del consigliere comunale ad ottenere determinate informazioni o copia di specifici atti detenuti dall’amministrazione civica, non si presta ad alcun scrutinio di merito da parte degli uffici interpellati in quanto, sul piano oggettivo, esso ha la medesima latitudine dei compiti di indirizzo e controllo riservati al consiglio comunale (al cui svolgimento è funzionale).
Anche il diritto all’informazione del consigliere comunale è, tuttavia, soggetto al rispetto di alcune forme e modalità. In effetti, oltre alla necessità che l’interessato alleghi la sua qualità, permane l’esigenza che le istanze siano comunque formulate in maniera specifica e dettagliata, recando l’esatta indicazione degli estremi identificativi degli atti e dei documenti o, qualora siano ignoti tali estremi, almeno degli elementi che consentano l’individuazione dell’oggetto dell’accesso (tra le molte Cons. Stato, sez. V, 13.11.2002, n. 6293).
Tali cautele derivano dall’esigenza che il consigliere comunale non abusi, infatti del diritto all’informazione riconosciutogli dall’ordinamento, piegandone le alte finalità a scopi meramente emulativi od aggravando eccessivamente, con richieste non contenute entro immanenti limiti della proporzionalità e della ragionevolezza, la corretta funzionalità amministrativa dell’ente civico. Tra l’accesso ai documenti dei soggetti interessati, di cui agli art. 22 e seguenti della legge 07.08.1990 n. 241, e quello del consigliere comunale, di cui all’art. 43 D.lgs. 18.08.2000 n. 267, sussiste un evidente rapporto, poiché il primo è un istituto che consente ai singoli soggetti di conoscere atti e documenti, al fine di poter predisporre la tutela delle proprie posizioni soggettive eventualmente lese, mentre il secondo è un istituto giuridico rivolto a consentire al consigliere comunale di poter esercitare il proprio mandato, verificando e controllando il comportamento degli organi istituzionali e decisionali del comune.
Pertanto, al consigliere comunale non può essere opposto un diniego che non sia motivato puntualmente e adeguatamente. In questa circostanza, con riguardo alle istanze di accesso dei consiglieri comunali in causa, i giudici d’appello hanno valutato non controvertibile che esse, come correttamente ritenuto dal TAR, avessero i caratteri della ragionevolezza e fossero funzionali all’esercizio del mandato ed indichino specificamente gli atti richiesti. Nel primo caso si tratta, infatti, di una richiesta rivolta ad ottenere notizie in ordine al personale assunto dal Comune in un ben determinato lasso di tempo e ad ottenere informazioni circa gli automezzi e mezzi in dotazione al Comune; nel secondo caso, invece, si tratta di due richieste, entrambe di rilascio di copia delle determinazioni del solo ufficio affari generali. Di esse non è stata concessa copia, né, alternativamente, è stata proposta ai richiedenti, come essi affermano senza che ciò sia smentito dal Comune, la possibilità di prendere visione degli atti, per circoscrivere eventualmente le richieste “a quelle che più interessavano per l’esercizio del mandato”.
Un’ulteriore richiesta riguarda, invece, l’accesso a due delibere di giunta, denegato solo perché riguarderebbero dati personali, asseritamente non divulgabili. Per giustificare il diniego all’accesso, il Comune appellante sosteneva che le istanze contrastassero, per la loro genericità, con il regolamento comunale per il diritto di accesso agli atti amministrativi, emanato ai sensi dell’articolo 43 comma due del D.lgs. numero 267/2000. Ma i giudici di Palazzo Spada, su questo argomento, sottolineano che un regolamento sull’accesso, immotivamente impeditivo del diritto dei consiglieri di ottenere dall’amministrazione gli atti e le informazioni utili all’esercizio del mandato elettivo ricoperto, contrasterebbe con le leggi statali poste a salvaguardia del diritto di accesso agli atti, riconosciuto ai consiglieri comunali per le finalità suddette e ai cittadini in genere a tutela dei propri interessi, con i soli limiti previsti dalla legge stessa a tutela della privacy e dei diritti dei terzi.
Quanto alla esigenza di assicurare la riservatezza degli atti oggetto di accesso e il diritto alla privacy dei terzi, in sede di esercizio del diritto di accesso di cui dispongono i consiglieri comunali e provinciali, si osserva che tale necessità è salvaguardata dall’art. 43, comma 2, del D.lgs. 18.08.2000 n. 267, laddove viene previsto che i consiglieri stessi sono tenuti al segreto nel caso accedano ad atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva di terzi (così Consiglio di Stato, sez. V, 04.05.2004, n. 2716).
Il diritto del consigliere comunale o provinciale ad avere dall’ente tutte le informazioni che siano utili all’espletamento del mandato non incontra, conseguentemente, alcuna limitazione derivante dalla loro natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato all’osservanza del segreto (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 11.12.2013 n. 5931 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Le procedure di valutazione sono sottratte all’”accesso civico”.
Al riguardo, nella pronuncia in commento, i giudici del Consiglio di Stato sottolineano, in primo luogo, che le nuove disposizioni, dettate con d.lgs. 14.03.2013, n. 33 in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni disciplinano situazioni, non ampliative né sovrapponibili a quelle che consentono l’accesso ai documenti amministrativi, ai sensi degli articoli 22 e seguenti della legge 7.8.1990, n. 241, come successivamente modificata ed integrata.
Col citato d.lgs. n. 33/2013, infatti, si intende procedere al riordino della disciplina, intesa ad assicurare a tutti i cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni, concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, al fine di attuare “il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche”, quale integrazione del diritto “ad una buona amministrazione”, nonché per la “realizzazione di un’amministrazione aperta, al servizio del cittadino”.
Detta normativa –avente finalità dichiarate di contrasto della corruzione e della cattiva amministrazione– intende anche attuare la funzione di “coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera r), della Costituzione”: quanto sopra, tramite pubblicazione obbligatoria di una serie di documenti (specificati nei capi II, III, IV e V del medesimo d.lgs. e concernenti l’organizzazione, nonché diversi specifici campi di attività delle predette amministrazioni) nei siti istituzionali delle medesime, con diritto di chiunque di accedere a tali siti “direttamente ed immediatamente, senza autenticazione ed identificazione”; solo in caso di omessa pubblicazione può essere esercitato, ai sensi dell’art. 5 del citato d.lgs., il cosiddetto “accesso civico”, consistente in una richiesta –che non deve essere motivata– di effettuare tale adempimento, con possibilità, in caso di conclusiva inadempienza all’obbligo in questione, di ricorrere al giudice amministrativo, secondo le disposizioni contenute nel relativo codice sul processo (d.lgs. 02.07.2010, n. 104).
L’accesso ai documenti amministrativi, disciplinato dagli articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241 è riferito, invece, al “diritto degli interessati di prendere visione ed estrarre copia di documenti amministrativi”, intendendosi per “interessati….tutti i soggetti….che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”; in funzione di tale interesse la domanda di accesso deve essere opportunamente motivata. Benché sommarie, le indicazioni sopra fornite appaiono sufficienti per evidenziare la diversificazione di finalità e di disciplina dell’accesso agli atti, rispetto al cosiddetto accesso civico, pur nella comune ispirazione al principio di trasparenza, che si vuole affermare con sempre maggiore ampiezza nell’ambito dell’amministrazione pubblica.
Per quanto riguarda la documentazione richiesta nel nella vicenda in commento –concernente “tutti gli atti delle procedure di valutazione di tutti i dottorandi di ricerca…il cui relativo titolo è stato o non è stato rilasciato dal giorno 01.01.2005…”– deve ritenersi evidente, secondo i giudici di Palazzo Spada, che la procedura attivata sia da ricondurre in via esclusiva alla citata legge n. 241/1990, come del resto formalmente enunciato nell’istanza: una così ampia diffusione degli atti interni di qualsiasi procedura valutativa non appare imposta, infatti, dal ricordato d.lgs. n. 33/2013, né –se pure lo fosse– potrebbe intendersi riferita anche a procedure antecedenti all’emanazione del medesimo d.lgs., entrato in vigore il 20.04.2013 (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.11.2013 n. 5515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumori nei rapporti tra privati: parametri normativi valgono come limite minimo.
I criteri previsti dal D.P.C.M. 01.03.1991 per la determinazione dei limiti massimi di esposizione al rumore, ancorché dettati per la tutela generale del territorio, possono essere utilizzati come parametro di riferimento per stabilire l’intensità e, di riflesso, la soglia di tollerabilità delle immissioni rumorose nei rapporti tra privati purché, però, considerati come solo limite minimo.
E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 06.11.2013 n. 25019.
Il concetto di “immissione” e la sua soglia di tollerabilità
Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che l'art. 844 c.c. deve essere letto tenendo conto del limite della tutela della salute, limite da ritenersi pacificamente intrinseco nell’attività di produzione oltreché nei rapporti di vicinato e, ciò, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata per cui essenziale e prevalente deve essere il soddisfacimento di una normale qualità di vita.
Alla genericità della previsione de qua, soccorrono –in ogni caso– i criteri stabiliti dal D.P.C.M. 01.03.1991 in tema di quantificazione della soglia massima di esposizione al rumore che, benché dettati per la tutela generale del territorio, possono essere utilizzati anche come parametro di riferimento per stabilire il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose nei rapporti tra privati.
La posizione della giurisprudenza sui criteri di tollerabilità
E' stato, tuttavia, chiarito dalla giurisprudenza che i parametri fissati dalle norme speciali a tutela dell’ambiente, pur potendo essere reputati criteri minimali di partenza (al fine di stabilire -appunto- l’intollerabilità delle immissioni che li eccedono) non sono –però– necessariamente vincolanti per il giudice civile che, nel fissare la tollerabilità, o meno, dei relativi effetti in ambito privatistico, può anche discostarsene pervenendo al giudizio di intollerabilità sulla scorta di un prudente apprezzamento che consideri la particolarità della situazione concreta e dei criteri contemplati dall'art. 844 c.c.,
[1] la valutazione dei quali, ove adeguatamente motivata (come nel caso di specie), costituisce accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità. [2]
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[1] Norma posta preminentemente a protezione di situazioni soggettive privatistiche e, segnatamente, della proprietà.
[2] In proposito, v. Cass. civ., 27.01.2003, n. 1151, in “Giust. civ.”, 2003, I, 2770; Cass. civ., 25.08.2005, n. 17281, in “Mass. giust. civ.”, 2005, 10
(link a www.altalex.com).

URBANISTICA: L'art. 2, comma 1, l. 19.11.1968 n. 1187, che prevede la durata quinquennale dei vincoli che comportano l'inedificabilità dei suoli, si riferisce a tutti i vincoli discendenti dal p.r.g., senza possibilità di distinzione tra vincoli di natura sostanziale e vincoli di natura solo strumentale, tra i secondi dei quali rientra la subordinazione dell'edificabilità di un'area alla previa formazione di un piano esecutivo.
Tuttavia, la giurisprudenza ha uniformemente escluso che la decadenza ex L. n. 1187/1968 dei vincoli strumentali previsti dallo strumento urbanistico possa applicarsi nei casi in cui, in alternativa al piano particolareggiato, sia prevista dal piano regolatore la possibilità di ricorso ad un piano di lottizzazione ad iniziativa privata. In questo ultimo caso, infatti, la possibilità di una pianificazione di livello derivato ad iniziativa privata, consentendo di porre rimedio ad eventuali inerzie o ritardi della P.A., esclude la configurabilità dello schema ablatorio, e quindi, conseguentemente, la decadenza quinquennale del relativo vincolo.
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Secondo l’insegnamento giurisprudenziale, una concessione edilizia può essere rilasciata anche in assenza del piano attuativo pur richiesto dalle norme di piano regolatore quando in sede istruttoria l'Amministrazione abbia accertato che il lotto del richiedente è l'unico a non essere stato ancora edificato, vi è già stata, cioè, una pressoché completa edificazione dell'area (come nell'ipotesi del lotto residuale ed intercluso), e si trova in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere di urbanizzazione.
Pertanto, si può prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme di piano solo, in pratica, nei casi eccezionali in cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti.

Tanto premesso, la prima doglianza riproposta dall’attuale appellante attiene all’intervenuta decadenza del vincolo c.d. strumentale di inedificabilità opposto dal Comune per scadenza del quinquennio previsto dalla legge.
Il mezzo non è suscettibile di valutazione positiva.
La società si richiama al tradizionale orientamento secondo il quale l'art. 2, comma 1, l. 19.11.1968 n. 1187, che prevede la durata quinquennale dei vincoli che comportano l'inedificabilità dei suoli, si riferisce a tutti i vincoli discendenti dal p.r.g., senza possibilità di distinzione tra vincoli di natura sostanziale e vincoli di natura solo strumentale, tra i secondi dei quali rientra la subordinazione dell'edificabilità di un'area alla previa formazione di un piano esecutivo (cfr. ad es. C.d.S., V, 14.04.2000, n. 2238; 06.03.1991, n. 223).
La Sezione deve però osservare che, pur rimanendosi sul terreno dell’orientamento tradizionale appena detto, la censura risulta comunque infondata.
La giurisprudenza ha infatti uniformemente escluso che la decadenza ex L. n. 1187/1968 dei vincoli strumentali previsti dallo strumento urbanistico possa applicarsi nei casi in cui, in alternativa al piano particolareggiato, sia prevista dal piano regolatore la possibilità di ricorso ad un piano di lottizzazione ad iniziativa privata. In questo ultimo caso, infatti, la possibilità di una pianificazione di livello derivato ad iniziativa privata, consentendo di porre rimedio ad eventuali inerzie o ritardi della P.A., esclude la configurabilità dello schema ablatorio, e quindi, conseguentemente, la decadenza quinquennale del relativo vincolo (C.d.S., IV, 24.03.2009, n. 1765; V, 03.04.2000, n. 1908).
E nella fattispecie concreta si profila proprio una condizione siffatta, atteso che l’art. 7 delle N.T.A. subordinava l’attività edificatoria nelle aree libere della zona D all’adozione non solo di piani particolareggiati, ma anche, in alternativa e senza limitazioni, di “altri strumenti attuativi”.
Senza dire che l’indirizzo giurisprudenziale posto a base della doglianza comporterebbe che l'area in precedenza sottoposta a vincoli, anche strumentali, dopo la loro decadenza quinquennale risulterebbe priva di regolamentazione urbanistica (e quindi “bianca”), in quanto, mentre la disciplina preesistente era stata ormai abrogata, quella successiva sarebbe diventata inefficace, con il risultato che all'area in questione si applicherebbe la disciplina di cui all'art. 4, ultimo comma, della L. 28.01.1977 n. 10 (C.d.S., V, 23.11.1996, n. 1413; 30.10.1997, n. 1225). Donde l’onere della ricorrente, rimasto inadempiuto, di giustificare il proprio interesse a base della censura, dimostrando l’utilità effettiva dell’accoglimento della medesima ai fini del positivo corso del proprio progetto edificatorio.
Una volta confermata la permanente vigenza del suddetto vincolo strumentale all’epoca del pronunciamento dell’Amministrazione sul progetto di parte, occorre peraltro ricordare che, secondo una consolidata giurisprudenza, previsioni urbanistiche del genere possono, in casi particolari, risultare superate dai fatti e non più vincolanti in concreto, ove sia stato raggiunto il risultato -l’adeguata dotazione di infrastrutture, primarie e secondarie- cui tali previsioni di “attesa” erano finalizzate.
Secondo l’insegnamento giurisprudenziale, infatti, una concessione edilizia può essere rilasciata anche in assenza del piano attuativo pur richiesto dalle norme di piano regolatore quando in sede istruttoria l'Amministrazione abbia accertato che il lotto del richiedente è l'unico a non essere stato ancora edificato, vi è già stata, cioè, una pressoché completa edificazione dell'area (come nell'ipotesi del lotto residuale ed intercluso), e si trova in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche dotata delle opere di urbanizzazione; pertanto, si può prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme di piano solo, in pratica, nei casi eccezionali in cui nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella che deriverebbe dall'attuazione della lottizzazione stessa, ovvero in presenza di opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard urbanistici minimi prescritti (C.d.S., V, 05.12.2012, n. 6229; 05.10.2011, n. 5450; IV, 01.08.2007, n. 4276; 21.12.2006, n. 7769) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza  31.10.2013 n. 5251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa presentazione di un’istanza di sanatoria rende inefficace il precedente provvedimento ripristinatorio e quindi improcedibile la relativa impugnazione per sopravvenuta carenza di interesse.
Invero, l’obbligo per l’Amministrazione di pronunciarsi previamente sulla domanda di sanatoria e la conseguente paralizzazione degli effetti dell’atto repressivo insorgono se ed in quanto è ravvisabile la ordinaria ipotesi di un onere di verifica dell’eventuale sanabilità di ciò che si è costruito sine titulo.

Procedendo nell’ordine, quanto alla questione sub a) il Collegio non intende decampare dall’orientamento più volte espresso da questo stesso Collegio secondo il quale la presentazione di un’istanza di sanatoria rende inefficace il precedente provvedimento ripristinatorio e quindi improcedibile la relativa impugnazione per sopravvenuta carenza di interesse (Cons. Stato Sez. IV 16.09.2011 n. 5228; idem 16.04.2012 n. 2185); ma tale principio non è nella specie applicabile.
Invero, l’obbligo per l’Amministrazione di pronunciarsi previamente sulla domanda di sanatoria e la conseguente paralizzazione degli effetti dell’atto repressivo insorgono se ed in quanto è ravvisabile la ordinaria ipotesi di un onere di verifica dell’eventuale sanabilità di ciò che si è costruito sine titulo
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.10.2013 n. 5115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 38 del DPR 06.06.2001 n. 3890 disciplina il regime sanzionatorio applicabile nelle ipotesi in cui l’intervento edilizio sia stato realizzato sulla base di un titolo poi annullato, con la espressa previsione dell’irrogazione di una sanzione pecuniaria … “ove non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino…” .
La norma è finalizzata ad introdurre un regime sanzionatorio più mite per le opere edilizie realizzate conformemente ad un titolo abilitativo successivamente rimosso rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo, con il chiaro intento di tutelare un certo affidamento del privato, regime che consente la conservazione del bene.
Invero, anche tenuto conto della stessa formulazione letterale della disposizione (“qualora non sia possibile .. la rimozione dei vizi delle procedure amministrative …”), l’effetto, per così dire, sanante della stessa è circoscritto alle sole ipotesi in cui il titolo ad aedificandum sia stato annullato per vizi di carattere formale e procedurale, non essendoci, così, spazio per l’applicazione della sanzione pecuniaria, allorché sia stata acclarata la sussistenza di un vizio di natura sostanziale.

L’art. 38 del DPR 06.06.2001 n. 3890 (Testo unico dell’edilizia) disciplina il regime sanzionatorio applicabile nelle ipotesi in cui l’intervento edilizio sia stato realizzato sulla base di un titolo poi annullato, con la espressa previsione dell’irrogazione di una sanzione pecuniaria … “ove non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino…” .
La norma è finalizzata ad introdurre un regime sanzionatorio più mite per le opere edilizie realizzate conformemente ad un titolo abilitativo successivamente rimosso rispetto ad altri interventi abusivi eseguiti sin dall’origine in assenza di titolo, con il chiaro intento di tutelare un certo affidamento del privato, regime che consente la conservazione del bene (Cons. Stato Sez. IV 10/08/2011 n. 4770).
Ora nella specie non si può escludere in capo agli interessati una situazione di buona fede, ma il fatto è che nel caso de quo siamo al di fuori del campo operativo della norma sopra illustrata, recante sostanzialmente una forma di sanatoria a formazione progressiva (con la sanzione pecuniaria in luogo della rimozione).
Invero, anche tenuto conto della stessa formulazione letterale della disposizione (“qualora non sia possibile .. la rimozione dei vizi delle procedure amministrative …”), l’effetto, per così dire, sanante della stessa è circoscritto alle sole ipotesi in cui il titolo ad aedificandum sia stato annullato per vizi di carattere formale e procedurale, non essendoci, così, spazio per l’applicazione della sanzione pecuniaria, allorché sia stata acclarata la sussistenza di un vizio di natura sostanziale (Cons. Stato Sez. V 12.05.2006 n. 2960)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.10.2013 n. 5115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALo jus aedificandi del privato, nei casi previsti dall’art. 22, t.u. dell’edilizia, non è subordinato ad un atto di assenso della pubblica amministrazione ma è legittimato direttamente dalla legge e condizionato all’attivazione di un «contatto necessario» con l’amministrazione che si realizza mediante la presentazione della d.i.a..
Segue da ciò che il decorso del termine previsto dalla legge a seguito della presentazione della d.i.a. non determina la formazione di un silenzio-assenso (o, comunque, di un consenso tacito) alla realizzazione dell’opera, ma vale sostanzialmente come termine utile per la verifica della regolarità dell’intervento edilizio che il denunciante intende intraprendere.
La caratteristica fondamentale della procedura abbreviata prevista per la d.i.a., infatti, è proprio quella di escludere la necessità di un titolo provvedimentale di legittimazione (anche implicito), residuando in capo all’amministrazione solamente un potere di verifica da esercitarsi nel termine massimo decadenziale previsto dalla legge, ma che non esclude i poteri generali di controllo sull’attività edilizia, una volta realizzata.

Il ricorso è infondato e va respinto.
In particolare :
a) il ricorrente ha abusivamente trasformato i locali ad uso residenziale da locale lavatoio creando nuova volumetria residenziale;
b) solo in data 17.05.2011 veniva presentata DIA per mutamento di destinazione d’uso a fini residenziali per le stesse opere già adibite a fini residenziali in epoca anteriore alla presentazione della DIA;
c) sulla presunta formazione del silenzio assenso il Collegio ritiene di aderire a quell’orientamento giurisprudenziale per cui lo jus aedificandi del privato, nei casi previsti dall’art. 22, t.u. dell’edilizia, non è subordinato ad un atto di assenso della pubblica amministrazione ma è legittimato direttamente dalla legge e condizionato all’attivazione di un «contatto necessario» con l’amministrazione che si realizza mediante la presentazione della d.i.a. (Cons. St., sez. V, 19.06.2006, n. 3586; Tar Lombardia, Milano, sez. II, 29.11.2007, n. 6519; id. 15.11.2007, n. 6461; Tar Liguria 22.01.2003, n. 113).
Segue da ciò che il decorso del termine previsto dalla legge a seguito della presentazione della d.i.a. non determina la formazione di un silenzio-assenso (o, comunque, di un consenso tacito) alla realizzazione dell’opera, ma vale sostanzialmente come termine utile per la verifica della regolarità dell’intervento edilizio che il denunciante intende intraprendere.
La caratteristica fondamentale della procedura abbreviata prevista per la d.i.a., infatti, è proprio quella di escludere la necessità di un titolo provvedimentale di legittimazione (anche implicito), residuando in capo all’amministrazione solamente un potere di verifica da esercitarsi nel termine massimo decadenziale previsto dalla legge (Tar Piemonte, sez. I, 04.05.2005, n. 1359), ma che non esclude i poteri generali di controllo sull’attività edilizia, una volta realizzata (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 14.10.2013 n. 8822 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE PROGETTUALIGli ordini professionali hanno la legittimazione ad agire davanti al giudice amministrativo per difendere gli interessi dei soggetti di cui hanno la rappresentanza istituzionale, sia ai fini della tutela della professione stessa o di attribuzioni proprie, sia ai fini del perseguimento di vantaggi strumentali giuridicamente riferibili alla sfera categoriale.
Gli ordini professionali hanno la legittimazione ad agire davanti al giudice amministrativo per difendere gli interessi dei soggetti di cui hanno la rappresentanza istituzionale, sia ai fini della tutela della professione stessa o di attribuzioni proprie, sia ai fini del perseguimento di vantaggi strumentali giuridicamente riferibili alla sfera categoriale (ex plurimis: TAR Lazio, Sez. III-quater, 18.11.2005 n. 11607; TAR Lazio-Roma Sez. I, 02.11.1995 n. 1896; Cons. Stato, Sez. V 30.01.2002 n. 505; TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I 18.12.2001 n. 1282) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 01.10.2013 n. 936 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIDa una interpretazione letterale e sistematica della legge 07.01.1976 n. 3, emerge che soltanto ai dottori agronomi viene riconosciuta una competenza esclusiva in materia forestale, come chiaramente indicato dal precitato art. 2, lett. c), che riserva agli stessi l’esercizio dell’attività di progettazione di opere di imboschimento.
Invero, per quanto concerne le competenze dei dottori agronomi, occorre fare riferimento alle attività di valorizzazione e gestione dei processi produttivi agricoli, zootecnici e forestali con la tutela dell'ambiente e del mondo rurale, mentre, per quanto concerne la competenza dei periti, occorre fare riferimento alla direzione e gestione di aziende agrarie e zootecniche piccole e medie e di progettazione, direzione e collaudo di opere di miglioramento fondiario, fino al limite della media azienda, nella cui nozione può anche rientrare la coltivazione di un bosco ceduo, di un castagneto, di limitati accorpamenti di alberi da frutta fra loro associati.
Sussiste, dunque, la competenza concorrente dei periti agrari e dei dottori agronomi e forestali soltanto nelle ipotesi inerenti le attività di progettazione di opere di trasformazione e di miglioramento fondiario in “medie aziende”, che potrebbero comprendere, sia in quanto già insediati sia in progetto di impianto, anche boschi non irrilevanti, purché concepiti in funzione della produzione agraria.
In tale ottica, è stato affermato che, dal raffronto fra le due leggi professionali, non emerge che possa essere “potenzialmente esclusa l'affidabilità ad entrambe le categorie della cura dei boschi, allorché contenuti in aziende agrarie fino alla soglia di quelle medie. Infatti, se per i dottori si tratta delle attività di valorizzazione e gestione dei processi produttivi agricoli zootecnici e forestali con la tutela dell'ambiente e del mondo rurale, per i periti si parla di direzione e gestione di aziende agrarie e zootecniche piccole e medie e di progettazione, direzione e collaudo di opere di miglioramento fondiario, di nuovo fino al limite della media azienda”.
Invero, va riconosciuta, in capo ai periti agrari, una competenza residuale nella materia quando si tratti di boschi pertinenti ad aziende agrarie, purché in funzione solo produttiva e non ambientale, e sempre nei limiti in cui la coltivazione del bosco non presenti difficoltà insostenibili per la cultura astrattamente riconoscibile ai periti medesimi, in base alle cognizioni apprese in ambiente scolastico.

L’art. 2, comma 1, lettera b), della legge 28.03.1968 n. 434, nel testo sostituito dall'art. 2 della legge 21.02.1991 n. 54, attribuisce ai periti agrari “la progettazione, la direzione ed il collaudo di opere di miglioramento fondiario e di trasformazione di prodotti agrari e relative costruzioni, limitatamente alle medie aziende, il tutto in struttura ordinaria, secondo la tecnologia del momento, anche se ubicate fuori dai fondi”.
L’art. 2 della legge 07.01.1976 n. 3, al comma 1, lettere b) e c), nel testo sostituito dall'art. 2, della legge 10.02.1992 n. 152, riserva ai dottori agronomi “lo studio, la progettazione, la direzione, la sorveglianza, la liquidazione, la misura, la stima, la contabilità e il collaudo delle opere di trasformazione e di miglioramento fondiario, nonché delle opere di bonifica e delle opere di sistemazione idraulica e forestale, di utilizzazione e regimazione delle acque e di difesa e conservazione del suolo agrario, sempreché queste ultime, per la loro natura prevalentemente extraagricola o per le diverse implicazioni professionali non richiedano anche la specifica competenza di professionisti di altra estrazione” nonché “c) lo studio, la progettazione, la direzione, la sorveglianza, la liquidazione, la misura, la stima, la contabilità e il collaudo di opere inerenti ai rimboschimenti, alle utilizzazioni forestali, alle piste da sci ed attrezzature connesse, alla conservazione della natura, alla tutela del paesaggio ed all'assestamento forestale”.
Il medesimo art. 2, comma 1, della legge 07.01.1976 n. 3 prevede la competenza dei dottori agronomi e forestali anche con riferimento alle seguenti ipotesi: "q) gli studi di assetto territoriale ed i piani zonali, urbanistici e paesaggistici; la programmazione, per quanto attiene alle componenti agricolo - forestali ed ai rapporti città-campagna; i piani di sviluppo di settore e la redazione nei piani regolatori di specifici studi per la classificazione del territorio rurale, agricolo e forestale;
r) lo studio, la progettazione, la direzione, la sorveglianza, la misura, la stima, la contabilità ed il collaudo di lavori inerenti alla pianificazione territoriale ed ai piani ecologici per la tutela dell'ambiente; la valutazione di impatto ambientale ed il successivo monitoraggio per quanto attiene agli effetti sulla flora e la fauna; i piani paesaggistici e ambientali per lo sviluppo degli ambiti naturali, urbani ed extraurbani; i piani ecologici e i rilevamenti del patrimonio agricolo e forestale
".
Da una interpretazione letterale e sistematica della legge 07.01.1976 n. 3, emerge che soltanto ai dottori agronomi viene riconosciuta una competenza esclusiva in materia forestale, come chiaramente indicato dal precitato art. 2, lett. c), che riserva agli stessi l’esercizio dell’attività di progettazione di opere di imboschimento.
Invero, per quanto concerne le competenze dei dottori agronomi, occorre fare riferimento alle attività di valorizzazione e gestione dei processi produttivi agricoli, zootecnici e forestali con la tutela dell'ambiente e del mondo rurale, mentre, per quanto concerne la competenza dei periti, occorre fare riferimento alla direzione e gestione di aziende agrarie e zootecniche piccole e medie e di progettazione, direzione e collaudo di opere di miglioramento fondiario, fino al limite della media azienda, nella cui nozione può anche rientrare la coltivazione di un bosco ceduo, di un castagneto, di limitati accorpamenti di alberi da frutta fra loro associati.
Sussiste, dunque, la competenza concorrente dei periti agrari e dei dottori agronomi e forestali soltanto nelle ipotesi inerenti le attività di progettazione di opere di trasformazione e di miglioramento fondiario in “medie aziende”, che potrebbero comprendere, sia in quanto già insediati sia in progetto di impianto, anche boschi non irrilevanti, purché concepiti in funzione della produzione agraria.
In tale ottica, è stato affermato che, dal raffronto fra le due leggi professionali, non emerge che possa essere “potenzialmente esclusa l'affidabilità ad entrambe le categorie della cura dei boschi, allorché contenuti in aziende agrarie fino alla soglia di quelle medie. Infatti, se per i dottori si tratta delle attività di valorizzazione e gestione dei processi produttivi agricoli zootecnici e forestali con la tutela dell'ambiente e del mondo rurale, per i periti si parla di direzione e gestione di aziende agrarie e zootecniche piccole e medie e di progettazione, direzione e collaudo di opere di miglioramento fondiario, di nuovo fino al limite della media azienda” (cfr.: Cons. St., Sez. IV, 30.07.1996, n. 915).
Invero, va riconosciuta, in capo ai periti agrari, una competenza residuale nella materia quando si tratti di boschi pertinenti ad aziende agrarie, purché in funzione solo produttiva e non ambientale, e sempre nei limiti in cui la coltivazione del bosco non presenti difficoltà insostenibili per la cultura astrattamente riconoscibile ai periti medesimi, in base alle cognizioni apprese in ambiente scolastico (conf.: Tar Sardegna 08.07.1999 n. 901)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 01.10.2013 n. 936 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Perché sia legittimamente accolta una domanda di sanatoria di abusi edilizi perpetrati, occorra sia riscontrata la sussistenza delle condizioni previste dalla legge per ottenere il condono, attraverso un controllo in ordine alla veridicità delle dichiarazioni sottese alla domanda presentata dall’interessato.
Detto controllo avviene in sede amministrativa, in prima battuta, e successivamente ed eventualmente in sede giurisdizionale: in carenza di esito positivo di tale riscontro la domanda è legittimamente respinta.
E’ agevole riscontrare che la data di commissione dell’illecito edilizio rientri certamente nel fulcro della attività accertativa, sia amministrativa che giudiziale (“è da escludere la formazione del c.d. silenzio-assenso sull'istanza di condono edilizio, di cui all'art. 31 l. 28.02.1985 n. 47, qualora il fabbricato abusivo sia stato ultimato dopo il 31.10.1983 e l'istanza di sanatoria sia stata prodotta senza la prescritta documentazione, di talché …… ne è superfluo l'annullamento in autotutela”) e che, in subiecta materia, l’esigenza che le dichiarazioni sottese alla domanda siano effettivamente veridiche (trattandosi di legalizzare in via eccezionale una condotta che l’ordinamento giuridico considerava illegittimo al momento della commissione) consente, in ipotesi contraria, il ricorso ai poteri di autotutela in termini assai più ampi che laddove si trattasse di “ritirare” un atto amministrativo in virtù di un rinnovato apprezzamento dell’interesse pubblico ovvero dell’incolpevole emergere di circostanze prima ignorate.
Di converso, la giurisprudenza penalistica ha costantemente affermato che, laddove il privato, in una dichiarazione allegata alla domanda di sanatoria di un abuso edilizio, riferisca falsamente di avere completato l’abuso in una epoca antecedente a quella reale, ricorre la fattispecie criminosa di cui all’art. 483 del codice penale.
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Allorché sia accertata la falsità della dichiarazione attestante l’epoca di realizzazione dell’abuso, la conseguenza unica di tale circostanza riposa nell’illegittimità del provvedimento di sanatoria (”il decreto penale di condanna per dichiarazione falsa circa la data di ultimazione di un manufatto ai fini dell'ottenimento della concessione edilizia in sanatoria è circostanza che provoca l'illegittimità sopravvenuta della concessione per difetto di un atto presupposto essenziale”).
E’ stato in particolare evidenziato, da parte della giurisprudenza di merito, che “l'inesatta volontaria rappresentazione della realtà contenuta nell'istanza di concessione in sanatoria su un presupposto essenziale (nella specie data di realizzazione dell'abuso) integra gli estremi della domanda dolosamente infedele, che, ai sensi dell'art. 40 L. 28.02.1985, n. 47, impedisce il formarsi del c.d. silenzio-assenso previsto dall'art. 35, comma 18, della stessa L. 28.02.1985, n. 47, e comporta altresì il non accoglimento della domanda medesima”.

In via preliminare è incontroverso sia in dottrina che in giurisprudenza che, perché sia legittimamente accolta una domanda di sanatoria di abusi edilizi perpetrati, occorra sia riscontrata la sussistenza delle condizioni previste dalla legge per ottenere il condono, attraverso un controllo in ordine alla veridicità delle dichiarazioni sottese alla domanda presentata dall’interessato.
Detto controllo avviene in sede amministrativa, in prima battuta, e successivamente ed eventualmente in sede giurisdizionale: in carenza di esito positivo di tale riscontro la domanda è legittimamente respinta (ex multis: “in tema di condono edilizio, il giudice -prima di sospendere il processo a norma dell'art. 44 della L. 28.02.1985, n. 47- ha il potere-dovere di controllare la sussistenza delle condizioni di applicabilità del condono in quanto si tratta di un potere di controllo strettamente connesso all'esercizio della giurisdizione, il cui mancato esercizio determina inevitabilmente ed inutilmente la dilatazione dei tempi del processo. Ciò che deve costituire oggetto del controllo giudiziale è: a) la data di esecuzione delle opere; b) il rispetto dei limiti volumetrici; c) le eventuali esclusioni oggettive della tipologia d'intervento della sanatoria; d) la tempestività della presentazione, da parte di soggetti legittimati, di una domanda di sanatoria riferita alle opere abusive contestate nel capo di imputazione” TAR Lombardia Milano Sez. II, 23.03.2012, n. 910).
E’ agevole riscontrare che la data di commissione dell’illecito edilizio rientri certamente nel fulcro della attività accertativa, sia amministrativa che giudiziale (“è da escludere la formazione del c.d. silenzio-assenso sull'istanza di condono edilizio, di cui all'art. 31 l. 28.02.1985 n. 47, qualora il fabbricato abusivo sia stato ultimato dopo il 31.10.1983 e l'istanza di sanatoria sia stata prodotta senza la prescritta documentazione, di talché …… ne è superfluo l'annullamento in autotutela”- Cons. Stato Sez. V, 06.05.1995, n. 721) e che, in subiecta materia, l’esigenza che le dichiarazioni sottese alla domanda siano effettivamente veridiche (trattandosi di legalizzare in via eccezionale una condotta che l’ordinamento giuridico considerava illegittimo al momento della commissione) consente, in ipotesi contraria, il ricorso ai poteri di autotutela in termini assai più ampi che laddove si trattasse di “ritirare” un atto amministrativo in virtù di un rinnovato apprezzamento dell’interesse pubblico ovvero dell’incolpevole emergere di circostanze prima ignorate (ex multis: “le domande di condono "dolosamente infedeli" non sono atte a determinare il sorgere di fattispecie di silenzio-assenso e, di conseguenza, non essendosi formato alcun –silenzioso - provvedimento di accoglimento, neppure vi è necessità per il Comune di ricorrere alla c.d. autotutela prima di emanare il provvedimento di diniego, mancando qualsivoglia atto da annullare” TAR Liguria Genova Sez. I, 01.07.2005, n. 998).
Di converso, la giurisprudenza penalistica ha costantemente affermato che, laddove il privato, in una dichiarazione allegata alla domanda di sanatoria di un abuso edilizio, riferisca falsamente di avere completato l’abuso in una epoca antecedente a quella reale, ricorre la fattispecie criminosa di cui all’art. 483 del codice penale (ex multis: L'art. 483 cod. pen. -falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico- postula, di norma, l'esistenza di disposizioni extrapenali integratrici che concorrono a determinare il contenuto delle dichiarazioni del privato e attribuiscono al pubblico ufficiale il potere-dovere di documentarle in atti aventi, "ex lege", una determinata funzione probatoria. In tale ambito rientra la legge 04.01.1968 n. 15 che agli artt. 2 e 4 facultizza il privato alla dichiarazione sostitutiva di certificato o di atto di notorietà, la quale diventa atto pubblico per il solo fatto della sottoscrizione autenticata dal "funzionario competente a ricevere l'atto, o da un notaio, cancelliere, segretario comunale o altro funzionario incaricato dal Sindaco" e che all'art. 26, commi 1 e 2, stabilisce che tali dichiarazioni "sono considerate come fatte a pubblico ufficiale". Di conseguenza, è dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, rientrante nella previsione dell'art. 483 cod. pen., anche quella allegata alla domanda di concessione edilizia in sanatoria, diretta al Sindaco, ma ricevuta dal funzionario competente o da altro pubblico ufficiale appositamente incaricato” -Fattispecie relativa alla falsa attestazione che la costruzione era stata eseguita in un determinato anno- Cassazione penale Sezione V, sent. n. 11186 del 26.10.998; “integra il delitto di falsità ideologica del privato in atto pubblico la condotta di chi, in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio allegata a una domanda di sanatoria , indica una falsa data di ultimazione della costruzione, sussistendo il requisito dell'attestazione in atto pubblico.” Cass. pen. Sez. V, 26.11.2009, n. 2978).
Sotto altro profilo, costituirebbe inspiegabile aporia dell’ordinamento quella che permettesse di godere dei frutti di una propria condotta affermata quale illecita dall’ordinamento: è questa la ragione per cui, nel caso di specie, ritiene il Collegio che la decisione del Tar gravata con l’odierno appello sia in realtà ineccepibile, e non potesse essere diversa.
Allorché, infatti, sia accertata la falsità della dichiarazione attestante l’epoca di realizzazione dell’abuso, la conseguenza unica di tale circostanza riposa nell’illegittimità del provvedimento di sanatoria (”il decreto penale di condanna per dichiarazione falsa circa la data di ultimazione di un manufatto ai fini dell'ottenimento della concessione edilizia in sanatoria è circostanza che provoca l'illegittimità sopravvenuta della concessione per difetto di un atto presupposto essenziale” Cons. Stato Sez. V, 18.12.2006, n. 7581).
E’ stato in particolare evidenziato, da parte della giurisprudenza di merito, che “l'inesatta volontaria rappresentazione della realtà contenuta nell'istanza di concessione in sanatoria su un presupposto essenziale (nella specie data di realizzazione dell'abuso) integra gli estremi della domanda dolosamente infedele, che, ai sensi dell'art. 40 L. 28.02.1985, n. 47, impedisce il formarsi del c.d. silenzio-assenso previsto dall'art. 35, comma 18, della stessa L. 28.02.1985, n. 47, e comporta altresì il non accoglimento della domanda medesima” (TAR Sardegna, Sez. II, 28.05.2010 n. 1386).
L’affermazione per cui, se anche fosse stata comprovata la circostanza che l’immobile venne realizzato successivamente rispetto a quanto dichiarato, ugualmente la sanatoria sarebbe stata legittima è pertanto da contestare recisamente nei suoi presupposti teorici
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2013 n. 39 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per univoca giurisprudenza ”l'onere della prova dell'ultimazione dei lavori edilizi entro la data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria; ciò perché mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che richiede la sanatoria può fornire qualche documentazione da cui si desuma che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data predetta, come ad es. fatture, ricevute, bolle di consegna, relative all'esecuzione dei lavori e/o all'acquisto dei materiali ecc.”.
La giurisprudenza di merito si è peraltro spinta ad affermare, sul solco di tale orientamento, che “anche in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto notorio presentata dall'interessato, l'Amministrazione può legittimamente respingere la domanda di condono edilizio ove non riscontri elementi dai quali risulti univocamente l'ultimazione dell'edificio entro la data prescritta dalla legge, atteso che la semplice produzione della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà non può in alcun modo assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull' epoca dell' abuso”.

Rammenta il Collegio in proposito che, per univoca giurisprudenza ”l'onere della prova dell'ultimazione dei lavori edilizi entro la data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria; ciò perché mentre l'amministrazione comunale non è normalmente in grado di accertare la situazione edilizia di tutto il proprio territorio alla data indicata dalla normativa sul condono, colui che richiede la sanatoria può fornire qualche documentazione da cui si desuma che l'abuso sia stato effettivamente realizzato entro la data predetta, come ad es. fatture, ricevute, bolle di consegna, relative all'esecuzione dei lavori e/o all'acquisto dei materiali ecc.” (Cons. Stato Sez. IV, 02.02.2011, n. 752).
La giurisprudenza di merito si è peraltro spinta ad affermare, sul solco di tale orientamento, che “anche in presenza di dichiarazione sostitutiva di atto notorio presentata dall'interessato, l'Amministrazione può legittimamente respingere la domanda di condono edilizio ove non riscontri elementi dai quali risulti univocamente l'ultimazione dell'edificio entro la data prescritta dalla legge, atteso che la semplice produzione della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà non può in alcun modo assurgere al rango di prova, seppur presuntiva, sull' epoca dell' abuso” (TAR Campania Napoli Sez. II, 08.01.2010, n. 27).
Nel caso di specie, a fronte dell’autodichiarazione dell’appellante, v’è una assoluta assenza di elementi probatori indiretti di rilievo assoluto che ne comprovino la veridicità (tali non possono essere considerate le tardive dichiarazioni testimoniali asseritamente supportanti detta tesi, siccome sostenuto negli scritti difensivi e nella relazione comunale).
Al contempo (oltre alle contrarie asserzioni dell’originario ricorrente), si rinviene in atti un argomento assai pregnante e di valenza assoluta (appunto, l’atto notarile di donazione nel quale l’incremento volumetrico per cui è causa non era punto menzionato), che ne smentisce la rispondenza al vero (si rammenta sul punto il consolidato orientamento della Cassazione Civile secondo il quale: “nell'interpretazione dei contratti di compravendita immobiliare, ai fini della determinazione della comune intenzione delle parti circa l'estensione dell'immobile compravenduto, i dati catastali, emergenti dal tipo di frazionamento approvato dai contraenti ed allegato nell'atto notarile trascritto, e l'indicazione dei confini risultante dal rogito assurgono al rango di risultanze di pari grado” Cass. civ. Sez. II, 14.12.1994, n. 10698)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2013 n. 39 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio condivide l’orientamento della giurisprudenza di merito secondo il quale, specie allorché il provvedimento ampliativo illegittimamente ottenuto leda gli interessi di terzi, l’autotutela non necessita di particolare motivazione (“allorquando un provvedimento amministrativo ampliativo sia stato ottenuto dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla p.a. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa”).
Ciò perché, in punto di diritto, la giurisprudenza ha giustamente affermato che in ipotesi di ritiro in autotutela di un'autorizzazione precedentemente rilasciata, nessun affidamento può essere invocato laddove sia stata posta a base dell'istanza che abbia condotto al rilascio dell'autorizzazione stessa una falsa dichiarazione.

Per altro verso, il Collegio condivide l’orientamento della giurisprudenza di merito secondo il quale, specie allorché il provvedimento ampliativo illegittimamente ottenuto leda gli interessi di terzi, l’autotutela non necessita di particolare motivazione (“allorquando un provvedimento amministrativo ampliativo sia stato ottenuto dall'interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla p.a. esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l'atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa” TAR Lombardia Milano Sez. II, 04.04.2012, n. 1002).
Ciò perché, in punto di diritto, la giurisprudenza ha giustamente affermato che in ipotesi di ritiro in autotutela di un'autorizzazione precedentemente rilasciata, nessun affidamento può essere invocato laddove sia stata posta a base dell'istanza che abbia condotto al rilascio dell'autorizzazione stessa una falsa dichiarazione (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 20.04.2009, n. 2373, ma anche TAR Sicilia Catania Sez. III, 26.01.2010, n. 92)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.01.2013 n. 39 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il parere della Commissione edilizia non obbligatorio ma, tutt'al più, facoltativo, al fine di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi, in assenza dei quali il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei numerosi presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore.
La specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria, il parere della Commissione edilizia non obbligatorio, ma al più facoltativo.
In caso di domanda di condono non è sempre necessario il previo parere della commissione edilizia comunale: nei casi di violazione di vincoli assoluti di inedificabilità, infatti, il mero accertamento tecnico degli appositi uffici è da solo sufficiente a legittimare il diniego del provvedimento richiesto.
Ad abundantiam, in caso di domanda di condono non è sempre necessario il previo parere della commissione edilizia comunale: nei casi di violazione di vincoli assoluti di inedificabilità, come nella specie, infatti, il mero accertamento tecnico degli appositi uffici sarebbe da solo sufficiente a legittimare il diniego del provvedimento richiesto.
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La demolizione è nella specie provvedimento assolutamente necessitato e non suscettibile di diversa discrezionale valutazione, giacché, neppure ex post, è possibile addivenire a diversa determinazione sulla compatibilità paesistica del realizzato.
L’interesse pubblico è in re ipsa ove si consideri l’insanabilità dell’opera realizzata in zona vincolata, neppure comparabile, per la prevalenza dei valori paesaggistici, con l’interesse privato eventualmente confliggente con esso.
Ai sensi degli artt. 32, comma 27, lett. d), d.l. 30.09.2003 n. 269, convertito in l. 24.11.2003 n. 326, la sanabilità delle opere edilizie realizzate in zona vincolata è radicalmente esclusa, ove si tratti di un vincolo di inedificabilità assoluta o di difformità dalle prescritte previsioni.
In tema di diniego di sanatoria edilizia ai sensi della l. 28.02.1985 n. 47, è sufficientemente e chiaramente motivato il provvedimento comunale che nega la sanatoria sulla base del puntuale richiamo della normativa regionale che si oppone al condono e della descrizione della situazione di fatto ostativa, sulla base di detta normativa, senza che sia anche necessaria l'indicazione, nel contesto dell'atto, dell'art. 33 della suddetta legge statale che, nel definire quali siano le opere non suscettibili di sanatoria, fa espresso rinvio, fra l'altro, ai vincoli derivanti dalle leggi regionali e dagli strumenti urbanistici.
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I provvedimenti di diniego del condono edilizio non devono essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del procedimento, perché i procedimenti finalizzati alla sanatoria degli abusi edilizi sono avviati su istanza di parte.

D’altronde, come chiarito da consolidata giurisprudenza, la specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria c.d. straordinaria (o condono), il parere della Commissione edilizia non obbligatorio ma, tutt'al più, facoltativo, al fine di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi, in assenza dei quali il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei numerosi presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore (così tra tante, Consiglio Stato, sez. IV, 03.08.2010, n. 5156).
La specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione ad edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria, il parere della Commissione edilizia non obbligatorio, ma al più facoltativo (così, Consiglio Stato, sez. IV, 12.02.2010, n. 772).
Si è anche ritenuto che, in caso di domanda di condono non è sempre necessario il previo parere della commissione edilizia comunale: nei casi di violazione di vincoli assoluti di inedificabilità, infatti, il mero accertamento tecnico degli appositi uffici è da solo sufficiente a legittimare il diniego del provvedimento richiesto (così, Consiglio Stato, sez. V, 02.10.2006, n. 5725).
Ad abundantiam, si osserva che è stato affermato anche il principio per cui in caso di domanda di condono non è sempre necessario il previo parere della commissione edilizia comunale: nei casi di violazione di vincoli assoluti di inedificabilità, come nella specie, infatti, il mero accertamento tecnico degli appositi uffici sarebbe da solo sufficiente a legittimare il diniego del provvedimento richiesto (Consiglio Stato, sez. V, 02.10.2006, n. 5725).
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Con altro motivo viene dedotto eccesso di potere, in quanto l’abbattimento non corrisponde all’interesse pubblico e comporterebbe pregiudizi alla parte della struttura non interessata all’abuso (oggetto della domanda del figlio).
Come si è sopra detto, il condono (presentato dal figlio) è tuttora in itinere, per cui la sorte del manufatto in esame non può essere collegata a quella (del tutto incerta) di altro manufatto, allo stato non ancora accertato come sanabile.
Né ha pregio il rilievo dell’appello, secondo cui si tratterebbe soltanto di opere di manutenzione straordinaria ed adeguamento strutturale eseguite sul manufatto preesistente, che, se demolite, comporterebbero pregiudizi irreversibili alla struttura dello stesso, in quanto la intimata demolizione è conseguenza in ogni caso, per quanto sopra detto, dell’accertata insanabilità dell’opera, in quanto contrastante con gli strumenti urbanistici e le direttive di piano paesistico in zona vincolata.
In definitiva, la demolizione è nella specie provvedimento assolutamente necessitato e non suscettibile di diversa discrezionale valutazione, giacché, neppure ex post, è possibile addivenire a diversa determinazione sulla compatibilità paesistica del realizzato.
L’interesse pubblico è in re ipsa ove si consideri l’insanabilità dell’opera realizzata in zona vincolata, neppure comparabile, per la prevalenza dei valori paesaggistici, con l’interesse privato eventualmente confliggente con esso.
Ai sensi degli artt. 32, comma 27, lett. d), d.l. 30.09.2003 n. 269, convertito in l. 24.11.2003 n. 326, la sanabilità delle opere edilizie realizzate in zona vincolata è radicalmente esclusa, ove si tratti di un vincolo di inedificabilità assoluta o di difformità dalle prescritte previsioni (Consiglio Stato, sez. IV, 19.05.2010, n. 3174).
In tema di diniego di sanatoria edilizia ai sensi della l. 28.02.1985 n. 47, è sufficientemente e chiaramente motivato il provvedimento comunale che nega la sanatoria sulla base del puntuale richiamo della normativa regionale che si oppone al condono e della descrizione della situazione di fatto ostativa, sulla base di detta normativa, senza che sia anche necessaria l'indicazione, nel contesto dell'atto, dell'art. 33 della suddetta legge statale che, nel definire quali siano le opere non suscettibili di sanatoria, fa espresso rinvio, fra l'altro, ai vincoli derivanti dalle leggi regionali e dagli strumenti urbanistici (Consiglio Stato, sez. V, 02.10.2006, n. 5725).
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E’ infondato anche ogni motivo con cui si deduce difetto di adeguata partecipazione e di comunicazione dell’avvio del procedimento.
Sul punto, giova richiamare la giurisprudenza assolutamente maggioritaria che ritiene l’omissione denunciata, anche laddove esistente, non inficiante la legittimità dell’atto.
D’altro canto, i provvedimenti di diniego del condono edilizio non devono essere preceduti dalla comunicazione dell'avvio del procedimento, perché i procedimenti finalizzati alla sanatoria degli abusi edilizi sono avviati su istanza di parte (tra tante, Consiglio di Stato, IV, 22.01.2010, n. 209; TAR Campania Napoli, sez. VII, 10.12.2009, n. 8608)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.07.2012 n. 3969 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Venuti meni i requisiti soggettivi per l'edificazione gratuita in zona gratuita appena due anni dopo l'edificazione.
Il primo motivo di ricorso, in base al quale avendo l’immobile comunque una destinazione residenziale non vi sarebbe il presupposto per l’applicazione dell’art. 19, comma 3, del DPR 380/2001 e dell’art. 52, comma 3, della LR 12/2005, non appare condivisibile.
Le suddette norme prendono in considerazione l’uso qualificato che deriva dalla presenza di un’azienda agricola, e quindi presuppongono il collegamento tra l’edificio residenziale e la coltivazione del fondo.
Se viene meno l’attività agricola a titolo principale l’abitazione fuoriesce dalla fattispecie particolare che giustificava la deroga al divieto di edificazione e al principio di onerosità e acquista una destinazione residenziale semplice, come tale sottoposta alle normali regole previste dagli strumenti urbanistici per gli interventi edificatori.
Solo se la perdita del collegamento con l’attività agricola professionale avviene oltre il termine previsto dalla legge (10 anni dall’ultimazione dei lavori) scatta una presunzione assoluta circa il consolidamento della situazione sotto il profilo urbanistico.
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Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 19, comma 3, del DPR 380/2001 e dell’art. 52, comma 3, della LR 12/2005, in quanto il trasferimento di proprietà avvenuto per via ereditaria dovrebbe essere considerato irrilevante ai fini del cambio di destinazione. Neppure questa tesi può essere condivisa.
Il regime di favore collegato alla posizione di imprenditore agricolo a titolo principale è strettamente personale e non si trasmette agli eredi se questi ultimi non siano a loro volta imprenditori agricoli allo stesso titolo.
L’esenzione dagli oneri di concessione ha il proprio fondamento nella presenza di un’azienda agricola per una durata minima di 10 anni. Entro questo limite temporale la normativa sopra richiamata impone che l’uso residenziale dell’edificio sia strumentale allo svolgimento di attività agricola professionale, e dunque i soggetti che a qualunque titolo si succedono nella proprietà del bene devono garantire questa condizione.
Se il nuovo proprietario non è in grado di assicurare la continuità del suddetto collegamento tra l’edificio e l’attività agricola professionale si riespandono le esigenze di natura urbanistica che richiedono un bilanciamento in termini economici tra l’utilità derivante dall’edificazione e il peso che il nuovo edificio aggiunge al territorio.

... per l'annullamento del provvedimento del responsabile dell’Area Tecnica prot. n. 14113 del 09.04.2004, con il quale è stato ingiunto al ricorrente il pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria e del contributo sul costo di costruzione;
...
Il Comune di Castiglione delle Stiviere aveva rilasciato al signor S.D.S. la concessione edilizia n. 619/2000 del 24.05.2001 per la realizzazione di una casa rurale in via Casino Pernestano sul mappale n. 406. L’area è situata in zona agricola. La concessione edilizia è stata rilasciata in quanto il richiedente era imprenditore agricolo a titolo principale. Per lo stesso motivo vi è stato esonero dal contributo di costruzione in base alla deroga prevista dall’art. 9, comma 1, lett. a), della legge 28.01.1977 n. 10 e dall’art. 3, comma 1, lett. a), della LR 07.06.1980 n. 93. Il medesimo trattamento è ora previsto dall’art. 17, comma 3, del DPR 06.06.2001 n. 380 e dall’art. 60, comma 1, lett. a), della LR 11.03.2005 n. 12.
Dopo il decesso del signor S.D.S., avvenuto il 13.03.2002, nel titolo edilizio è subentrato il figlio M.D.S.. Quest’ultimo ha presentato una DIA in data 20.03.2002 per realizzare una variante in corso d’opera consistente nell’ampliamento della cantina e nella modifica di aperture, scala e recinzione. La costruzione dell’edificio è stata ultimata il 16.06.2002 (come risulta dalla dichiarazione di fine lavori depositata in Comune il 10.03.2003).
Poiché il signor M.D.S. non possiede i requisiti soggettivi per edificare in zona agricola il Comune con provvedimento del responsabile dell’Area Tecnica prot. n. 14113 del 09.04.2004 ha ingiunto il pagamento degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria e del contributo sul costo di costruzione (complessivamente € 9.418,13). Questa decisione si basa sul presupposto che il subentro di un diverso soggetto nel titolo edilizio avrebbe modificato la destinazione d’uso dell’immobile realizzando una fattispecie assimilabile a quella dell’art. 10, comma 3, della legge 10/1977 (v. ora l’art. 19, comma 3, del DPR 380/2001 e l’art. 52, comma 3, della LR 12/2005).
Contro il suddetto provvedimento il signor M.D.S. ha presentato ricorso con atto notificato il 07.05.2004 e depositato il 14.05.2004. Le censure possono essere sintetizzate nei punti seguenti: a) travisamento dei fatti, in quanto la destinazione dell’immobile è comunque residenziale; b) violazione dell’art. 19, comma 3, del DPR 380/2001, in quanto il trasferimento di proprietà rilevante sarebbe solo quello determinato dalla cessione inter vivos. Il Comune si è costituito in giudizio chiedendo la reiezione della domanda del ricorrente.
Il primo motivo di ricorso, in base al quale avendo l’immobile comunque una destinazione residenziale non vi sarebbe il presupposto per l’applicazione dell’art. 19, comma 3, del DPR 380/2001 e dell’art. 52, comma 3, della LR 12/2005, non appare condivisibile. Le suddette norme prendono in considerazione l’uso qualificato che deriva dalla presenza di un’azienda agricola, e quindi presuppongono il collegamento tra l’edificio residenziale e la coltivazione del fondo. Se viene meno l’attività agricola a titolo principale l’abitazione fuoriesce dalla fattispecie particolare che giustificava la deroga al divieto di edificazione e al principio di onerosità e acquista una destinazione residenziale semplice, come tale sottoposta alle normali regole previste dagli strumenti urbanistici per gli interventi edificatori. Solo se la perdita del collegamento con l’attività agricola professionale avviene oltre il termine previsto dalla legge (10 anni dall’ultimazione dei lavori) scatta una presunzione assoluta circa il consolidamento della situazione sotto il profilo urbanistico.
Il fatto che il ricorrente abbia acquisito l’iscrizione nel registro delle imprese come imprenditore agricolo a decorrere dal 10.05.2002 non è sufficiente a garantire la continuità dell’originario titolo di esenzione dagli oneri di concessione, in quanto non è dimostrato che l’attività agricola sia svolta a titolo principale secondo i parametri individuati dalla Regione (DGR 02.07.2001 n. 7/5326 e successive modifiche).
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 19, comma 3, del DPR 380/2001 e dell’art. 52, comma 3, della LR 12/2005, in quanto il trasferimento di proprietà avvenuto per via ereditaria dovrebbe essere considerato irrilevante ai fini del cambio di destinazione. Neppure questa tesi può essere condivisa. Il regime di favore collegato alla posizione di imprenditore agricolo a titolo principale è strettamente personale e non si trasmette agli eredi se questi ultimi non siano a loro volta imprenditori agricoli allo stesso titolo. L’esenzione dagli oneri di concessione ha il proprio fondamento nella presenza di un’azienda agricola per una durata minima di 10 anni. Entro questo limite temporale la normativa sopra richiamata impone che l’uso residenziale dell’edificio sia strumentale allo svolgimento di attività agricola professionale, e dunque i soggetti che a qualunque titolo si succedono nella proprietà del bene devono garantire questa condizione. Se il nuovo proprietario non è in grado di assicurare la continuità del suddetto collegamento tra l’edificio e l’attività agricola professionale si riespandono le esigenze di natura urbanistica che richiedono un bilanciamento in termini economici tra l’utilità derivante dall’edificazione e il peso che il nuovo edificio aggiunge al territorio.
Il ricorso deve quindi essere respinto (
TAR Lombardia-Brescia, sentenza 03.06.2008 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAPer quanto riguarda il piano attuativo, dopo la scadenza del termine previsto per la sua esecuzione, rileva il principio generale contenuto nell’art. 17, primo comma, della legge n. 1150 del 1942, per il quale, “decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”.
Da tale comma, emergono i seguenti principi (di per sé applicabili anche al piano di lottizzazione, equiparato al piano particolareggiato di iniziativa pubblica):
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi dell’art. 869 del codice civile);
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
c) col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al principio secondo cui le previsioni del piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli (e determinano ciò che è consentito e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il profilo urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano attuativo delle determinazioni sulle specifiche conformazioni delle proprietà), mentre le previsioni dello strumento attuativo rientrano in una prospettiva di stabilità (perché specificano in dettaglio le consentite modifiche del territorio, in una prospettiva in cui l’attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della pianificazione, determina l’assetto definitivo della parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un contesto compiutamente definito).
In considerazione della stabilità delle previsioni del piano attuativo, va affermato dunque il principio per il quale le prescrizioni urbanistiche di un piano attuativo rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza.
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Dall'art. 17, primo comma, della legge n. 1150 del 1942, si evince un ulteriore principio riguardante il caso in cui le previsioni di un sopravvenuto piano regolatore generale vadano a ‘sovrapporsi’ su quelle del precedente piano attuativo.
L’Autorità urbanistica può modificare le specifiche prescrizioni dello strumento attuativo, in base a una motivata valutazione dello stato dei luoghi e delle posizioni venutesi a consolidare e su cui si va ad incidere.
Se tale modifica è effettuata con una variante speciale, nulla quaestio: prevalgono le prescrizioni disposte con la variante al piano regolatore, approvata proprio per incidere su quelle desumibili dallo strumento attuativo.
Nel caso di approvazione di una variante generale al piano regolatore generale, o vi è un espresso e specifico richiamo alle prescrizioni del precedente strumento attuativo su cui si intenda incidere, oppure –in assenza di tale richiamo– tale approvazione è irrilevante per la perdurante efficacia delle prescrizioni del piano attuativo.
Sotto tale aspetto, va rimarcato che il piano regolatore generale –nel riferirsi in senso dinamico alle parti del territorio da pianificare in dettaglio– di per sé non incide sulle previsioni del precedente strumento attuativo (anche se non più eseguibile per il decorso del tempo), poiché quest’ultimo ha stabilmente determinato l’assetto definitivo e di dettaglio della parte del territorio in considerazione.
Pertanto, anche per la localizzazione degli edifici, le prescrizioni del piano esecutivo (malgrado la scadenza del termine decennale) continuano ad essere rilevanti per coloro che –non avendo ancora realizzato le costruzioni- intendano tardivamente chiedere il titolo abilitativo (nel vigore dello strumento urbanistico sopravvenuto, ove questo ugualmente consenta la nuova costruzione).

Per quanto riguarda il rilievo del piano attuativo, dopo la scadenza del termine previsto per la sua esecuzione, rileva il principio generale contenuto nell’art. 17, primo comma, della legge n. 1150 del 1942, per il quale, “decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso”.
Da tale comma, emergono i seguenti principi (di per sé applicabili anche al piano di lottizzazione, equiparato al piano particolareggiato di iniziativa pubblica):
a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata (con specificazione delle regole di conformazione disposte dal piano regolatore generale, ai sensi dell’art. 869 del codice civile);
b) in linea di principio, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato (nel senso che costituiscono le regole determinative del contenuto della proprietà delle aree incluse nel piano attuativo);
c) col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del piano regolatore generale e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che per questa parte ha efficacia ultrattiva.
In altri termini, l’art. 17 della legge n. 1150 del 1942 si ispira al principio secondo cui le previsioni del piano regolatore rientrano in una prospettiva dinamica della utilizzazione dei suoli (e determinano ciò che è consentito e ciò che è vietato nel territorio comunale sotto il profilo urbanistico ed edilizio, con la devoluzione al piano attuativo delle determinazioni sulle specifiche conformazioni delle proprietà), mentre le previsioni dello strumento attuativo rientrano in una prospettiva di stabilità (perché specificano in dettaglio le consentite modifiche del territorio, in una prospettiva in cui l’attuazione del piano esecutivo esaurisce la fase della pianificazione, determina l’assetto definitivo della parte del territorio in considerazione e inserisce gli edifici in un contesto compiutamente definito).
In considerazione della stabilità delle previsioni del piano attuativo, va affermato dunque il principio per il quale le prescrizioni urbanistiche di un piano attuativo rilevano a tempo indeterminato, anche dopo la sua scadenza.
Dal sopra riportato art. 17, primo comma, della legge n. 1150 del 1942, si evince un ulteriore principio riguardante il caso in cui le previsioni di un sopravvenuto piano regolatore generale vadano a ‘sovrapporsi’ su quelle del precedente piano attuativo.
L’Autorità urbanistica può modificare le specifiche prescrizioni dello strumento attuativo, in base a una motivata valutazione dello stato dei luoghi e delle posizioni venutesi a consolidare e su cui si va ad incidere.
Se tale modifica è effettuata con una variante speciale, nulla quaestio: prevalgono le prescrizioni disposte con la variante al piano regolatore, approvata proprio per incidere su quelle desumibili dallo strumento attuativo.
Nel caso di approvazione di una variante generale al piano regolatore generale, o vi è un espresso e specifico richiamo alle prescrizioni del precedente strumento attuativo su cui si intenda incidere, oppure –in assenza di tale richiamo– tale approvazione è irrilevante per la perdurante efficacia delle prescrizioni del piano attuativo.
Sotto tale aspetto, va rimarcato che il piano regolatore generale –nel riferirsi in senso dinamico alle parti del territorio da pianificare in dettaglio– di per sé non incide sulle previsioni del precedente strumento attuativo (anche se non più eseguibile per il decorso del tempo), poiché quest’ultimo ha stabilmente determinato l’assetto definitivo e di dettaglio della parte del territorio in considerazione.
Pertanto, anche per la localizzazione degli edifici, le prescrizioni del piano esecutivo (malgrado la scadenza del termine decennale) continuano ad essere rilevanti per coloro che –non avendo ancora realizzato le costruzioni- intendano tardivamente chiedere il titolo abilitativo (nel vigore dello strumento urbanistico sopravvenuto, ove questo ugualmente consenta la nuova costruzione) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.12.2007 n. 6170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAGli articoli 16, 17 e 28 della legge c.d. urbanistica prevedono che l’efficacia dei piani particolareggiati, ai quali si assimilano analogicamente le lottizzazioni convenzionate, hanno un termine entro il quale le opere debbano essere eseguite, che non può essere superiore a 10 anni.
Le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l’autorità competente in materia urbanistica riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Al contrario, dall’art. 28 L. 1150/1942 (il quale prevede che il termine entro il quale deve essere ultimata la esecuzione dell’opera contenuto nella convenzione, non può essere superiore ai dieci anni), si evince che non è possibile, a lottizzazione scaduta, prorogarla una volta venuta meno la efficacia della stessa.

E’ altresì da condividere la deduzione dell’appellante sulla presenza del divieto legislativo di proroga a tempo indefinito dei piani di lottizzazione convenzionati ai sensi della L. 1150/1942.
Gli articoli 16, 17 e 28 della legge c.d. urbanistica prevedono che l’efficacia dei piani particolareggiati, ai quali si assimilano analogicamente le lottizzazioni convenzionate, hanno un termine entro il quale le opere debbano essere eseguite, che non può essere superiore a 10 anni.
Le attività dirette alla realizzazione dello strumento urbanistico, sia convenzionale che autoritativo, non possono essere attuate ai sensi di legge oltre un certo termine, scaduto il quale l’autorità competente in materia urbanistica riacquista il potere-dovere di dare un nuovo assetto urbanistico alle parti non realizzate, anche, in ipotesi, con una nuova convenzione di lottizzazione.
Al contrario, dall’art. 28 L. 1150/1942 (il quale prevede che il termine entro il quale deve essere ultimata la esecuzione dell’opera contenuto nella convenzione, non può essere superiore ai dieci anni), si evince che non è possibile, a lottizzazione scaduta, prorogarla una volta venuta meno la efficacia della stessa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.02.2007 n. 851 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAAllorquando un provvedimento amministrativo ampliativo sia stato ottenuto dall’interessato in base ad una falsa rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla Pubblica Amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l’atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente “in re ipsa”.
Ove si consideri, poi, che –al fine precipuo di conseguire l’autorizzazione commerciale n. 786 del 1987– il legale rappresentante della S.r.l. .... ha falsamente dichiarato e documentato che il predetto locale disponeva, invece, di una superficie di vendita di 500 mq., si rivela manifestamente priva di pregio giuridico la principale censura prospettata in ricorso incentrata sulla dedotta carente individuazione, nella motivazione del provvedimento di annullamento, dell’esistenza di un interesse pubblico specifico e concreto (diverso da quello al mero ripristino della legalità violata) idoneo a giustificare l’esercizio della potestà di autotutela.
E’ noto, infatti, che –secondo l’insegnamento giurisprudenziale prevalente e condiviso dal Tribunale– allorquando (come nella fattispecie concreta de qua) un provvedimento amministrativo ampliativo sia stato ottenuto dall’interessato in base ad una falsa rappresentazione della realtà materiale, è consentito alla Pubblica Amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l’atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente “in re ipsa” (ex multis: TAR Emilia Romagna, Bologna, II Sezione, 10.06.2002 n. 854) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 04.04.2006 n. 1831 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa norma dell’art. 31, comma 9, della legge 17.08.1942, n. 1150, come novellato dalla legge 06.08.1967, n. 765, secondo cui la possibilità di ricorrere contro le concessioni edilizie è riconosciuta a “chiunque”, deve essere interpretata nel senso che ai fini della legittimazione al ricorso occorre sempre un criterio di stabile collegamento tra il ricorrente e la zona interessata all’attività edilizia assentita con la concessione che si impugna (collegamento che può derivare dal residenza nella zona interessata, dalla proprietà e dal possesso o dalla detenzione di immobili in detta zona o da altro titolo di frequentazione di quest’ultima).
Ed infatti -premesso che la norma dell’art. 31, comma 9, della legge 17.08.1942, n. 1150, come novellato dalla legge 06.08.1967, n. 765, secondo cui la possibilità di ricorrere contro le concessioni edilizie è riconosciuta a “chiunque”, deve essere interpretata nel senso che ai fini della legittimazione al ricorso occorre sempre un criterio di stabile collegamento tra il ricorrente e la zona interessata all’attività edilizia assentita con la concessione che si impugna (collegamento che può derivare dal residenza nella zona interessata, dalla proprietà e dal possesso o dalla detenzione di immobili in detta zona o da altro titolo di frequentazione di quest’ultima)- il Collegio deve ritenere che nel caso in esame ciò si verifichi in quanto il sig. B. risulta essere proprietario del lotto n. 14 nell’ambito della lottizzazione in questione e, in quanto tale, viene certamente a subire un pregiudizio concreto e attuale nella propria posizione giuridica soggettiva dalla realizzazione delle costruzioni in questione su lotti vicini a quello di sua proprietà.
E ciò, in particolare, perché le impugnate concessioni consentono la realizzazione, nella immediate vicinanze del lotto del ricorrente di un progetto modificativo degli allineamenti di zona e del dosaggio degli standards edilizi e caratterizzato da una notevolmente maggiore volumetria (per mc. 5184, rispetto ai mc. 4200 originariamente previsti) con conseguente sostanziale alterazione dell’assetto residenziale originario e diminuzione della zona destinata a verde privato.
Deve respingersi, pertanto, l’eccezione preliminare anzidetta, dovendo, al contrario, riconoscersi in capo al sig. Boccanera (in quanto proprietario di immobile sito nella zona interessata e, quindi, posto in situazione di stabile collegamento con la zona stessa) la sussistenza di un interesse qualificato a proporre ricorso per la tutela della posizione giuridica da lui ritenuta lesa.
Il suo ricorso è, di conseguenza ammissibile, anche a prescindere dalla concreta dimostrazione, da parte dell’istante, della sussistenza nella specie di un suo più specifico interesse alla tutela giurisdizionale (Cons. St., Sez. V, 26.02.1992, n. 143; 11.04.1995, n. 587; 30.10.1995, n.1495; Sez. IV 15.09.1998, n. 1155; 08.07.2002, n. 3805)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.01.2003 n. 200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe lottizzazioni approvate vanno considerate inefficaci dopo il decorso decennale previsto per la loro attuazione, sicché per produrre ulteriori effetti esse debbono essere nuovamente adottate dall’Amministrazione comunale attraverso uno strumento attuativo, previa eventuale valutazione, se necessaria, della situazione dei terzi interessati al rispetto degli obblighi derivanti dalla preesistente convenzione.
Infatti, l’art. 28 della legge n. 1150/1942, così come modificato dall’art. 8 L. 06.08.1967, n. 765, avendo dato un particolare rilievo al ruolo dei piani di lottizzazione (che costituiscono ormai strumenti urbanistici specifici preordinati e normalmente alternativi rispetto ai piani particolareggiati), deve essere applicato in via analogica ai piani di lottizzazione medesimi, con la conseguenza che va riconosciuta anche ad essi l’applicabilità del termine massimo di validità decennale entro il quale devono essere attuati (art. 16, comma 5, L. n. 1150/1942) e decorso il quale divengono inefficaci per la parte inattuata (art. 17, comma 1, della stessa legge), salvi gli allineamenti e le prescrizioni di zona nel rispetto sia dell’interesse pubblico per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione (cui si riferisce l’art. 28 cit.) che per quello volto alla edificazione dei lotti
.
Quanto alla prima censura, con cui viene dedotta l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per violazione e falsa applicazione degli artt. 16 e 17 della legge 17.8.1942, n. 1150, atteso che le concessioni edilizie in questione non potevano essere rilasciate per sopravvenuta inefficacia della lottizzazione originaria “primo stralcio”, il Collegio deve osservare che, per effetto delle citate norme, le lottizzazioni approvate vanno considerate inefficaci dopo il decorso decennale previsto per la loro attuazione, sicché per produrre ulteriori effetti esse debbono essere nuovamente adottate dall’Amministrazione comunale attraverso uno strumento attuativo, previa eventuale valutazione, se necessaria, della situazione dei terzi interessati al rispetto degli obblighi derivanti dalla preesistente convenzione.
Infatti, l’art. 28 della predetta legge n. 1150/1942, così come modificato dall’art. 8 L. 06.08.1967, n. 765, avendo dato un particolare rilievo al ruolo dei piani di lottizzazione (che costituiscono ormai strumenti urbanistici specifici preordinati e normalmente alternativi rispetto ai piani particolareggiati), deve essere applicato in via analogica ai piani di lottizzazione medesimi, con la conseguenza che va riconosciuta anche ad essi l’applicabilità del termine massimo di validità decennale entro il quale devono essere attuati (art. 16, comma 5, L. n. 1150/1942) e decorso il quale divengono inefficaci per la parte inattuata (art. 17, comma 1, della stessa legge), salvi gli allineamenti e le prescrizioni di zona nel rispetto sia dell’interesse pubblico per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione (cui si riferisce l’art. 28 cit.) che per quello volto alla edificazione dei lotti (cfr. Cons. St., Sez. IV, 03.11.1998, n. 1412; 25.07.2001, n. 4073)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.01.2003 n. 200 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 17.02.2014

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L'INTERROGATIVO DELLA SETTIMANA: il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica (ex art. 146 d.lgs. n. 42/2004) presuppone, sempre e comunque, l'acquisizione agli atti del preventivo parere della Soprintendenza??

     La questione posta potrebbe avere una certa similitudine con quella afferente alla verifica della compatibilità paesaggistica ex art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, laddove per anni s'era detto (e subìto) che la Soprintendenza poteva anche non esprimersi (entro il termine perentorio a disposizione di 180 gg.) e poi, finalmente, la questione è stata chiarita dalla giurisprudenza: si legga quanto scritto con l'AGGIORNAMENTO AL 02.02.2012.
     Oltre all'ivi citato pronunciamento del TAR Brescia ci sono state altre sentenze, anche del Consiglio di Stato, e ad oggi non vi sono più dubbi: il comune non può legittimamente concludere (favorevolmente o negativamente che sia) il procedimento di verifica di compatibilità paesaggistica senza aver acquisito agli atti il parere vincolante della Soprintendenza.
     Alcuni esempi:

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi della previsione dell’art. 167, 5° comma, del d.lgs. 42 del 2004, il parere della Soprintendenza è vincolante e non può essere surrogato da meccanismi di silenzio-assenso o devolutivo; del resto, anche l’eventuale applicazione alla fattispecie della previsione dell’art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio non cambierebbe certo i termini del problema, dovendo trovare comunque applicazione la previsione dell’ottavo comma della disposizione citata che attribuisce comunque valore vincolante al parere della Soprintendenza fino all’<<approvazione del piano paesaggistico ai sensi dell'articolo 143, comma 3, e all'avvenuto adeguamento ad esso degli strumenti urbanistici comunali>>.
... per l'annullamento della nota 12.12.2007 prot. n. 11669 della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio e il Patrimonio Artistico e Storico per le Province di Lecce, Brindisi e Taranto con la quale viene espresso parere negativo sulla compatibilità paesaggistica degli interventi realizzati dal ricorrente in difformità dal permesso di costruire n. 80 del 2003; nonché di ogni atto presupposto, connesso o comunque collegato.
...
Il ricorso è infondato e deve pertanto essere respinto.
In primo luogo, la Sezione deve rilevare come, contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente, la fattispecie non possa essere assolutamente riportata alla previsione dell’art. 146 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio); l’esame complessivo della disposizione evidenzia, infatti, chiaramente come la stessa sia destinata a trovare applicazione nelle ipotesi “fisiologiche” in cui l’autorizzazione paesaggistica sia richiesta prima di procedere alla trasformazione del territorio.
Al contrario, per le ipotesi in cui l’autorizzazione sia richiesta dopo l’esecuzione dei lavori (e, quindi, a sanatoria, come nel caso di specie), l’art. art. 146, 12° comma, del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (come, da ultimo, modificato dall’art. 16 del d.lgs. 24.03.2006 n. 157), prevede un generale divieto di rilasciare autorizzazioni paesaggistiche in sanatoria, se non nei casi e con le modalità previste dall’art. 167, 4° e 5° comma del Codice; il rilascio dell’autorizzazione sanatoria è quindi possibile solo nelle ipotesi (lavori che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'art. 3 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380) previste dal quarto comma e con le modalità (il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area interessati dagli interventi presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo ai fini dell'accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi; l’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni; qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione) previste dal quinto comma dell’articolo 167 del Codice dei beni culturali e del paesaggio).
Ai sensi della previsione dell’art. 167, 5° comma, del d.lgs. 42 del 2004, il parere della Soprintendenza è quindi vincolante e non può essere surrogato da meccanismi di silenzio-assenso o devolutivo, come sostenuto da parte ricorrente; del resto, anche l’eventuale applicazione alla fattispecie della previsione dell’art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio non cambierebbe certo i termini del problema, dovendo trovare comunque applicazione la previsione dell’ottavo comma della disposizione citata che attribuisce comunque valore vincolante al parere della Soprintendenza fino all’<<approvazione del piano paesaggistico ai sensi dell'articolo 143, comma 3, e all'avvenuto adeguamento ad esso degli strumenti urbanistici comunali>> (evenienze che sono ancora ben lungi dal verificarsi).
Nella fattispecie concreta non può poi trovare applicazione neanche la previsione dell’art. 159 del d.lgs. 42 del 2004 che prevede un regime transitorio destinato a trovare applicazione fino al 01.05.2008 (o all’eventuale anteriore approvazione dei piani paesaggistici adeguati al nuovo Codice dei beni culturali e del paesaggio) e costituito dalla riproposizione della ormai tradizionale strutturazione che attribuisce alla Soprintendenza il potere di annullare per motivi di legittimità (ed entro un termine perentorio di sessanta giorni) le autorizzazioni paesaggistiche rilasciate dagli organi competenti (per l’applicabilità del regime transitorio, si veda la recente sentenza 17.04.2008 n. 1141 della Sezione).
L’autorizzazione paesaggistica, in un primo momento, concessa dal Comune di Racale (provvedimento 16.06.2005 n. 49 del Sindaco) è stata successivamente revocata (provvedimento 22.11.2006 prot. n. 16591 del Dirigente del Servizio Edilizia Privata) e non è stata più trasmessa alla Soprintendenza (la nota 28.02.2007 prot. n. 2627 che ha dato vita all’intervento della Soprintenda si è, infatti, limitata a trasmettere solo il progetto in sanatoria e non eventuali autorizzazioni rilasciate dall’Amministrazione); mancando un provvedimento di autorizzazione paesaggistica da sottoporre alla Soprintendenza non poteva pertanto trovare applicazione il meccanismo previsto dall’art. 159, 3° comma, che ruota intorno al potere di annullamento di un’autorizzazione evidentemente già rilasciata (e che, allo stato, non sussiste più, in considerazione del provvedimento di autoannullamento dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria in precedenza emessa dal Sindaco di Racale).
Il parere negativo emesso dalla Soprintendenza è poi congruamente motivato ed è in linea con la previsione dell’art. 167, 4° comma, del d.lgs. 42 del 2004; la lettura della relazione allegata al progetto di sanatoria evidenzia, infatti, chiaramente come siano state realizzate opere (ampliamento del garage interrato e di una centrale termica) che vengono ad integrare quell’aumento <<di superfici utili o volumi>> che impedisce, ai sensi dell’art. 167, 4° comma del Codice dei beni culturali e del paesaggio, il rilascio dell’autorizzazione in sanatoria.
Del resto, nessuna rilevanza può assumere il richiamo dell’orientamento giurisprudenziale (Cons. Stato, sez. V, 01.07.2002, n. 3589; TAR Puglia Lecce, sez. I, 12.09.2005, n. 4238) che esclude rilevanza alle opere interrate; come già rilevato in giurisprudenza (TAR Puglia Lecce, sez. III, 22.01.2008 n. 162), l’orientamento in discorso è stato, infatti, affermato con riferimento alla valutazione del parametro volumetria della costruzioni (ed in tale prospettiva, è stata affermata l’irrilevanza delle costruzioni interrate che, non essendo utilizzabili al pari di quelle costruite al di sopra del piano di campagna, non aumentano il carico urbanistico) e non può essere applicato alle ipotesi in cui è, al contrario, contestata la stessa possibilità di procedere all’edificazione (come nel caso di specie, in cui si discute della mancanza dell’autorizzazione paesaggistica e non della considerazione della volumetria realizzata).
Conclusivamente, deve poi rilevarsi come l’impossibilità di applicare alla fattispecie la previsione dell’art. 159 d.lgs. 42 del 2004 (che, al primo comma, richiama la necessità di comunicare agli interessati l’invio alla Soprintendenza dell’autorizzazione paesaggistica) e la natura di procedimento ad iniziativa di parte della sanatoria escludano la necessità di inviare all’interessato la comunicazione di inizio procedimento; la previsione dell’art. 10-bis della l. 07.08.1990 n. 241 (articolo inserito dall'art. 6 della legge 11.02.2005, n. 15) è poi dettata con riferimento ai provvedimenti di diniego delle istanze presentate dai privati e non agli apporti consultivi (anche vincolanti, come nel caso di specie) acquisiti al procedimento.
In definitiva, il ricorso deve pertanto essere rigettato; la particolare complessità della materia trattata permette di disporre l’integrale compensazione delle spese di giudizio nei confronti del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio e il Patrimonio Artistico e Storico per le Province di Lecce, Brindisi e Taranto (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 21.05.2008 n. 1459 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

la cui sentenza è stata confermata dal Consiglio di Stato:

EDILIZIA PRIVATA: Conferma la sentenza n. 1459/2008 del TAR Lecce.
Ai sensi della previsione dell’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004, il parere della Soprintendenza è vincolante (e dev’essere espresso in senso negativo quando risultino realizzati volumi di qualsiasi tipo) e non può essere surrogato da meccanismi di silenzio-assenso o inerzia devolutiva ed anche l’eventuale applicazione alla fattispecie dell’art. 146 del codice dei beni culturali e del paesaggio non cambierebbe certo i termini del problema, dovendo trovare comunque applicazione la previsione dell’ottavo comma della disposizione citata, assegnante comunque valore vincolante al parere della Soprintendenza fino all’“approvazione del piano paesaggistico ai sensi dell'articolo 143, comma 3, e all'avvenuto adeguamento ad esso degli strumenti urbanistici comunali”.
... per la riforma della sentenza del Tar Puglia, Lecce, sezione I, n. 1459/2008, resa tra le parti e concernente il rilascio di un permesso di costruire ed il diniego di riconoscimento di compatibilità paesaggistica.
...
L’appello è infondato e va respinto, dovendosi condividere quanto ritenuto dai primi giudici (dalle cui conclusioni il collegio non ha motivo di discostarsi), per le ipotesi in cui l’autorizzazione sia richiesta dopo l’esecuzione dei lavori (e, quindi, a sanatoria, come nel caso di specie): l’art. 146, comma 12, d.lgs. 22.01.2004 n. 42 (modificato dall’art. 16, d.lgs. 24.03.2006 n. 157), prevede un generale divieto di rilasciare autorizzazioni paesistiche a sanatoria, salvi i casi e con le modalità di cui all’art. 167, commi 4 e 5, citato codice.
Il rilascio dell’autorizzazione a sanatoria è, quindi, possibile solo nelle ipotesi (lavori che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzabili; impiego di materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria, ai sensi dell'art. 3, d.P.R. 06.06.2001 n. 380) previste dal quarto comma e con le modalità previste dal quinto comma dell’articolo 167 del codice dei beni culturali e del paesaggio (il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell'immobile o dell'area presenta apposita domanda all'autorità preposta alla gestione del vincolo, ai fini dell'accertamento della compatibilità paesistica degli interventi medesimi; l’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza, da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni; qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione).
Quanto all’ambito di applicazione del richiamato art. 167, commi 4 e 5, la Sezione ritiene di dover ribadire quanto già affermato con la propria sentenza 20.06.2012 n. 3578, la quale ha osservato che:
- l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, delle opere (art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004), al di fuori dai casi tassativamente previsti dall’art. 167, commi 4 e 5;
- con tale scelta il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l’esame di compatibilità paesistica possa essere postergato all’intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica;
- in altri termini, il richiamato art. 167 del codice n. 42 del 2004, evidentemente in considerazione delle prassi applicative delle leggi succedutesi in materia di condoni e sanatorie (caratterizzate di regola dall’esercizio di poteri discrezionali delle autorità preposte alla tutela del vincolo paesaggistico), ha inteso tutelare più rigorosamente i beni sottoposti al medesimo vincolo, precludendo in radice ogni valutazione di compatibilità ex post delle opere abusive (tranne quelle tassativamente indicate nello stesso art. 167);
- ove le opere risultino diverse da quelle sanabili ed indicate nell’art. 167, le competenti autorità non possono che emanare un atto dal contenuto vincolato e cioè esprimersi nel senso della reiezione dell’istanza di sanatoria;
- l’unica eccezione a tale rigida prescrizione riguarda il caso in cui i lavori, pur se realizzati in assenza o difformità dell’autorizzazione paesaggistica, non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;
- tenuto conto del testo e della ratio dell’art. 167, nella prospettiva della tutela del paesaggio non è rilevante la classificazione dei volumi edilizi che si suole fare al fine di evidenziare la loro neutralità, sul piano del carico urbanistico, poiché le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non hanno rilievo, quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d’uso, sia quando comunque si tratti di modificare un terreno o un edificio o il relativo sottosuolo.
II) Ai sensi della previsione dell’art. 167, comma 5, d.lgs. n. 42/2004, il parere della Soprintendenza è, quindi, vincolante (e dev’essere espresso in senso negativo quando risultino realizzati volumi di qualsiasi tipo) e non può essere surrogato da meccanismi di silenzio-assenso o inerzia devolutiva ed anche l’eventuale applicazione alla fattispecie dell’art. 146 del codice dei beni culturali e del paesaggio non cambierebbe certo i termini del problema, dovendo trovare comunque applicazione la previsione dell’ottavo comma della disposizione citata, assegnante comunque valore vincolante al parere della Soprintendenza fino all’“approvazione del piano paesaggistico ai sensi dell'articolo 143, comma 3, e all'avvenuto adeguamento ad esso degli strumenti urbanistici comunali” (evenienze ben lungi dal verificarsi).
Nella fattispecie concreta non si sarebbe potuta poi applicare neanche la previsione dell’art. 159, d.lgs. n. 42/2004, contemplante un regime transitorio destinato a trovare applicazione fino al 01.05.2008 (o all’eventuale anteriore approvazione dei piani paesaggistici adeguati al nuovo codice dei beni culturali e del paesaggio) e costituito dalla riproposizione dell’ormai tradizionale strutturazione attribuente alla Soprintendenza il potere di annullare per motivi di legittimità (ed entro un termine perentorio di sessanta giorni) le autorizzazioni paesaggistiche rilasciate dagli organi competenti.
III) L’autorizzazione paesistica, in un primo momento rilasciata dal Comune di Racale (con provvedimento sindacale n. 49 del 16.06.2005) è stata successivamente revocata (con provvedimento 22.11.2006 prot. n. 16591 del dirigente del servizio edilizia privata) e non è stata più trasmessa alla Soprintendenza (la nota 28.02.2007 prot. n. 2627, che aveva attivato i poteri della Soprintendenza si era, infatti, limitata a trasmettere solo il progetto di sanatoria e non eventuali autorizzazioni rilasciate dall’amministrazione); mancando un provvedimento di autorizzazione paesaggistica da sottoporre alla Soprintendenza, non avrebbe potuto pertanto applicarsi il meccanismo previsto dall’art. 159, comma 3, ruotante intorno al potere di annullamento di un’autorizzazione evidentemente già rilasciata (ed allo stato non più sussistente, in considerazione del provvedimento di autoannullamento dell’autorizzazione paesistica a sanatoria, in precedenza emessa dal Sindaco di Racale).
IV) Il parere negativo emesso dalla Soprintendenza risulta, poi, congruamente motivato ed in linea con l’art. 167, comma 4, d.lgs. n. 42/2004; la lettura della relazione allegata al progetto di sanatoria evidenzia, infatti, chiaramente come fossero state realizzate opere (ampliamento del garage interrato e di una centrale termica) integranti quell’aumento “di superfici utili o volumi” ostativo, ai sensi dell’art. 167, comma 4, codice dei beni culturali e del paesaggio, al rilascio della licenza a sanatoria, nessuna rilevanza potendo assumere -come si evince da quanto sopra esposto sui c.d. volumi tecnici- il richiamo all’orientamento giurisprudenziale (cfr. C.S., sez. V, sent. 01.07.2002 n. 3589) escludente rilevanza alle opere interrate: orientamento affermatosi in rapporto alla valutazione del parametro concernente la volumetria della costruzione (onde l’irrilevanza delle costruzioni interrate che, in quanto non utilizzabili al pari di quelle costruite al di sopra del piano di campagna, non aumentino il carico urbanistico) e non applicabile alle ipotesi in cui, al contrario, sia contestata la stessa possibilità di procedere all’edificazione (come nel caso di specie, per la mancanza dell’autorizzazione paesaggistica e non in considerazione della volumetria realizzata).
V) L’impossibilità di applicare alla fattispecie l’art. 159, comma 1, d.lgs. n. 42/2004 (richiamante la necessità di comunicare agli interessati l’invio alla Soprintendenza dell’autorizzazione paesaggistica) e la natura di procedimento avviato ad iniziativa di parte (evidenziata dalla decisione della Adunanza plenaria n. 9 del 2001, le cui argomentazioni sono condivise dalla sezione) escludevano, d’altro canto, la necessità di alcun preavviso procedimentale.
Conclusivamente, l’appello va respinto, con conferma dell’impugnata sentenza, mentre le spese e gli onorari del secondo grado di giudizio si liquidano come in dispositivo, secondo il consueto criterio della soccombenza (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.09.2012 n. 5066 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Ed ancora:

EDILIZIA PRIVATAL’art. 167 d.lgs. 42/2004 prevede espressamente che la soprintendenza debba rendere il proprio parere sulla domanda di autorizzazione paesaggistica entro il termine perentorio di novanta giorni: qualora questo termine non venga rispettato sussiste un illegittimo silenzio-inadempimento dell’amministrazione.
Nonostante l’art. 167, comma 5, D.Lgs. 42/2004, qualifichi come perentori i termini assegnati alla Soprintendenza ed alla Regione rispettivamente per rendere il parere e per concludere il procedimento di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’inutile decorso non comporta la perdita, in capo all’amministrazione, del potere di provvedere sull’istanza ad essa rivolta; conseguentemente l’inerzia dell’una e dell’altra è qualificabile come silenzio-inadempimento, lasciando inalterato il loro potere-dovere di provvedere, ancorché tardivamente.
Pertanto, sussiste l’obbligo della Soprintendenza di pronunciarsi con un provvedimento espresso sulla domanda dei ricorrenti in relazione all’autorità paesaggistica.

È invece fondato il ricorso nella parte in cui chiede l’accertamento dell’illegittimità del silenzio serbato dalla Soprintendenza.
L’art. 167 d.lgs. 42/2004 prevede espressamente che la soprintendenza debba rendere il proprio parere sulla domanda di autorizzazione paesaggistica entro il termine perentorio di novanta giorni: qualora questo termine non venga rispettato sussiste un illegittimo silenzio-inadempimento dell’amministrazione.
Nonostante l’art. 167, comma 5, D.Lgs. 42/2004, qualifichi come perentori i termini assegnati alla Soprintendenza ed alla Regione rispettivamente per rendere il parere e per concludere il procedimento di autorizzazione paesaggistica in sanatoria, l’inutile decorso non comporta la perdita, in capo all’amministrazione, del potere di provvedere sull’istanza ad essa rivolta; conseguentemente l’inerzia dell’una e dell’altra è qualificabile come silenzio-inadempimento, lasciando inalterato il loro potere-dovere di provvedere, ancorché tardivamente (Tar Catanzaro, sez. I, 16.04.2012, n. 382).
Pertanto, sussiste l’obbligo della Soprintendenza di pronunciarsi con un provvedimento espresso sulla domanda dei ricorrenti in relazione all’autorità paesaggistica
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 24.01.2013 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

la cui sentenza è stata ugualmente confermata dal Consiglio di Stato:

EDILIZIA PRIVATAQualora non sia rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere dell’Amministrazione continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dal medesimo comma 5), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e così come avviene nel caso di superamento del termine di centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5, per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio-qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure emesso dopo il superamento del termine fissato dal richiamato art. 167, comma 5.
Ritiene altresì il Collegio che il termine fissato dal comma 5, però, come risulta pacifico in giurisprudenza, decorre esclusivamente a partire dalla ricezione, da parte della Soprintendenza, della documentazione completa e necessaria ai fini dell’emanazione degli atti di sua competenza, con la conseguenza che, in mancanza di detta documentazione, non sorge, in capo all’Amministrazione statale, l’obbligo di provvedere in merito all’istanza di autorizzazione paesaggistica.

... per la riforma della sentenza 24.01.2013 n. 141 del TAR PUGLIA - SEZ. STACCATA DI LECCE - SEZIONE I, resa tra le parti;
...
L’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, al comma 5, dispone che “il proprietario, possessore o detentore a qualsiasi titolo dell’immobile o dell’area interessati dagli interventi di cui al comma 4 presenta apposita domanda all’autorità preposta alla gestione del vicolo ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica degli interventi medesimi. L’autorità competente si pronuncia sulla domanda entro il termine perentorio di centottanta giorni, previo parere vincolante della Soprintendenza da rendersi entro il termine perentorio di novanta giorni […]”.
Ritiene innanzitutto il Collegio che, qualora non sia rispettato il termine di novanta giorni stabilito dall’art. 167, comma 5, del Codice per il paesaggio, il potere dell’Amministrazione continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dal medesimo comma 5), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Infatti, nel caso di superamento del medesimo termine (e così come avviene nel caso di superamento del termine di centottanta giorni, fissato dal medesimo art. 167, comma 5, per la conclusione del procedimento, nonché nel caso di superamento di quello di quarantacinque giorni, fissato dall’art. 146, comma 5), il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio-qualificato o significativo.
Pertanto, il superamento del sopra richiamato termine di novanta giorni:
- consente all’interessato di proporre il ricorso previsto dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (così come in linea di principio ha ritenuto la sentenza di primo grado);
- non rende illegittimo in quanto tale il parere tardivo;
- comporta che comunque il provvedimento conclusivo del procedimento deve attenersi al parere vincolante, sia pure emesso dopo il superamento del termine fissato dal richiamato art. 167, comma 5.
Ritiene altresì il Collegio che il termine fissato dal comma 5, però, come risulta pacifico in giurisprudenza, decorre esclusivamente a partire dalla ricezione, da parte della Soprintendenza, della documentazione completa e necessaria ai fini dell’emanazione degli atti di sua competenza (ex multis: Cons. di Stato, Sez. VI, 11.02.2013, n. 753), con la conseguenza che, in mancanza di detta documentazione, non sorge, in capo all’Amministrazione statale, l’obbligo di provvedere in merito all’istanza di autorizzazione paesaggistica.
Orbene, nel caso di specie, dagli atti di causa risulta che il Comune di Ostuni non ha inviato alla Soprintendenza la documentazione relativa alla domanda d’accertamento della compatibilità paesaggistica presentata dal signor Massacri: ne deriva, dunque, che -contrariamente a quanto rilevato dal giudice di primo grado- non vi è stata alcun inadempimento da parte della Soprintendenza che, in assenza della documentazione relativa all’istanza de qua, non è stata posta nelle condizioni di esercitare il potere legislativamente attribuitole, provvedendo sulla domanda presentata dall’appellato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.09.2013 n. 4656 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Ciò premesso, passiamo all'interrogativo qui posto rileggendo -dapprima- quanto dispone l'art. 146, commi 7, 8 e 9:

   7. L'amministrazione competente al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, ricevuta l'istanza dell'interessato, verifica se ricorrono i presupposti per l'applicazione dell'articolo 149, comma 1, alla stregua dei criteri fissati ai sensi degli articoli 140, comma 2, 141, comma 1, 141-bis e 143, comma 1 lettere b), c) e d). Qualora detti presupposti non ricorrano, l'amministrazione verifica se l'istanza stessa sia corredata della documentazione di cui al comma 3, provvedendo, ove necessario, a richiedere le opportune integrazioni e a svolgere gli accertamenti del caso. Entro quaranta giorni dalla ricezione dell'istanza, l'amministrazione effettua gli accertamenti circa la conformità dell'intervento proposto con le prescrizioni contenute nei provvedimenti di dichiarazione di interesse pubblico e nei piani paesaggistici e trasmette al soprintendente la documentazione presentata dall'interessato, accompagnandola con una relazione tecnica illustrativa nonché con una proposta di provvedimento, e dà comunicazione all’interessato dell’inizio del procedimento e dell’avvenuta trasmissione degli atti al soprintendente, ai sensi delle vigenti disposizioni di legge in materia di procedimento amministrativo.
   8. Il soprintendente rende il parere di cui al comma 5, limitatamente alla compatibilità paesaggistica del progettato intervento nel suo complesso ed alla conformità dello stesso alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico ovvero alla specifica disciplina di cui all'articolo 140, comma 2, entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti. Il soprintendente, in caso di parere negativo, comunica agli interessati il preavviso di provvedimento negativo ai sensi dell’articolo 10-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241. Entro venti giorni dalla ricezione del parere, l’amministrazione provvede in conformità.
   9. Decorso inutilmente il termine di cui al primo periodo del comma 8 senza che il soprintendente abbia reso il prescritto parere, l'amministrazione competente può indire una conferenza di servizi, alla quale il soprintendente partecipa o fa pervenire il parere scritto. La conferenza si pronuncia entro il termine perentorio di quindici giorni. In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente, l'amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione. Con regolamento da emanarsi ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, entro il 31 dicembre 2008, su proposta del Ministro d'intesa con la Conferenza unificata, salvo quanto previsto dall'articolo 3 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono stabilite procedure semplificate per il rilascio dell'autorizzazione in relazione ad interventi di lieve entità in base a criteri di snellimento e concentrazione dei procedimenti, ferme, comunque, le esclusioni di cui agli articoli 19, comma 1 e 20, comma 4 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni.

     Invero, questa (rara) volta potremmo dire che la norma è chiara e senza necessità di interpretazioni giurisprudenziali: scaduti i 45 gg. a disposizione della Soprintendenza, senza che la stessa si esprima, e scaduti i successivi 15 gg., senza che il comune abbia convocato la conferenza dei servizi, il comune legittimamente conclude il procedimento (rilascia o denega la richiesta autorizzazione paesaggistica) a decorrere dal 61° giorno.
     Al riguardo, la conferma (autorevole) l'abbiamo con la circolare n. 27/2011 del MIBAC qui sotto riportata:

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.Lgs. n. 42/2004 - art. 146 - parere tardivo della Soprintendenza e autorizzazione paesaggistica (Mibac, Direzione Generale per il Paesaggio, le Belle Arti, l'Architettura e l'Arte Contemporanea, circolare 07.12.2011 n. 27).

     Purtroppo, pare che così non sia nel senso che anche per quanto riguarda il parere del Soprintendente ex art. 146 del dlgs 42/2004, per il rilascio ovvero diniego dell'istanza di autorizzazione paesaggistica, questo occorra acquisirlo agli atti sempre e comunque altrimenti il comune (quale ente sub-delegato dalla Regione) non può legittimamente concludere il procedimento.
     Invero, sono intervenute alcune sentenze che hanno rimarcato tale necessità inderogabile, le quali sono riproposte a seguire:

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il parere (contrario) della Soprintendenza protocollato oltre il termine (di 45 giorni) di cui all’art. 146, 8° comma d.lgs. n. 42/2004.
... per l'annullamento provvedimento della soprintendenza bb.aa.pp. sa-av n. 22620/2012 con il quale si è espresso parere contrario sulla richiesta di autorizzazione paesaggistica per opere di sistemazione esterna e riqualificazione di una parte del giardino di pertinenza del fabbricato in località palazzone in san giovanni a piro.
...
CONSIDERATO che la controversia può essere decisa in forma semplificata, avuto decisivo ed assorbente riguardo alla evidenziata tardività del contestato parere, in quanto protocollato oltre il termine (di quarantacinque giorni) di cui all’art. 146, 8° comma d.lgs. n. 42/2004 (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 07.12.2012 n. 2263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ma la sentenza del TAR è stata annullata dal Consiglio di Stato:

EDILIZIA PRIVATA: Il CdS annulla la sentenza n. 2263/2012 del TAR Salerno.
L’art. 88 cod. proc. amm. prevede che la sentenza deve contenere, tra l’altro, «la concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione, anche con rinvio a precedenti cui intende conformarsi».
L’art. 60 consente, ricorrendo determinati presupposti, che la decisione venga assunta in forma semplificata all’esito della camera di consiglio fissata per la trattazione della domanda cautelare.
Nel caso in esame, la sentenza si è limitata ad affermare, senza alcuna descrizione della fattispecie, che il parere della Soprintendenza è tardivo.
Tale motivazione viola la norma sopra riportata, ispirata, pur nel rispetto del principio generale della sinteticità, all’esigenza di assicurare l’“autosufficienza” della motivazione.
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Nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall’art. 146, comma 5, così come del termine fissato dall’art. 167, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, il potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Poiché nel caso di superamento del termine in questione il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio-qualificato o significativo, va riformata la sentenza con cui il TAR ha rilevato la tardività del parere, senza nemmeno occuparsi delle conseguenze della constatata tardività.

Con la sentenza impugnata, il Tribunale amministrativo regionale della Campania, Sezione di Salerno, all’esito della camera di consiglio fissata per la trattazione della domanda cautelare, ha adottato, sentite le parti, una sentenza in forma semplificata, con la quale ha accolto il ricorso proposto dalla signora Giovanna Cutugno avverso il provvedimento della Soprintendenza, con il quale, si legge nell’intestazione della sentenza, «si è espresso parere contrario sulla richiesta di autorizzazione paesaggistica per opere di sistemazione esterna e riqualificazione di una parte del giardino di pertinenza del fabbricato in località Palazzone in San Giovani a Piro».
Nella parte motiva si afferma quanto segue: «Considerato che la controversia può essere decisa in forma semplificata, avuto decisivo ed assorbente riguardo alla evidenziata tardività del contestato parere, in quanto protocollato oltre il termine (quarantacinque giorni) di cui all’art. 146, comma 8, del d.gs. n. 42 del 2004».
La Soprintendenza ed il Ministero per i beni e le attività culturali, per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato, ha proposto appello, rilevando: a) la nullità della sentenza perché completamente priva delle regioni di fatto e di diritto; b) la mancata impugnazione del provvedimento del 05.11.2012, n. 9584, con cui il Comune, prima della proposizione del ricorso, ha concluso il procedimento con un proprio atto autoritativo ed ha adottato un diniego espresso in ordine all’autorizzazione paesaggistica (sul punto si fa presente che, con provvedimento del 05.03.2013, lo stesso Comune, a seguito della sentenza impugnata, ha rilasciato l’autorizzazione paesaggistica).
Si è costituita in giudizio la ricorrente in primo grado, rilevando che: a) la sentenza è adeguatamente motivata; b) il provvedimento negativo del Comune, rappresentando l’unico atto conseguente al parere, è automaticamente caducato senza necessità di autonoma impugnazione. L’appellata ha riproposto i motivi non esaminati dal primo giudice.

...
Nel caso in esame, la sentenza si è limitata ad affermare, senza alcuna descrizione della fattispecie, che il parere della Soprintendenza è tardivo.
Tale motivazione viola la norma sopra riportata, ispirata, pur nel rispetto del principio generale della sinteticità, all’esigenza di assicurare l’“autosufficienza” della motivazione.
In primo luogo, non è, infatti, possibile ricostruire la vicenda amministrativa e le ragioni della decisione mediante l’analisi degli atti del processo, con violazione del diritto di difesa della controparte, impedendole di articolare adeguate ragioni sostanziali di critica avverso la sentenza impugnata.
In secondo luogo, la sentenza ha rilevato la mera tardività del parere reso dalla Soprintendenza, senza esaminare il quadro normativo di riferimento, dal quale si evince che –nel caso di mancato rispetto del termine fissato dall’art. 146, comma 5, così come del termine fissato dall’art. 167, comma 5, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 06.07.2002, n. 137)– il potere della Soprintendenza continua a sussistere (tanto che un suo parere tardivo resta comunque disciplinato dai richiamati commi 5 e mantiene la sua natura vincolante), ma l’interessato può proporre ricorso al giudice amministrativo, per contestare l’illegittimo silenzio-inadempimento dell’organo statale: la perentorietà del termine riguarda non la sussistenza del potere o la legittimità del parere, ma l’obbligo di concludere la fase del procedimento (obbligo che, se rimasto inadempiuto, può essere dichiarato sussistente dal giudice, con le relative conseguenze sulle spese del giudizio derivato dall’inerzia del funzionario).
Poiché nel caso di superamento del termine in questione il Codice non ha determinato né la perdita del relativo potere, né alcuna ipotesi di silenzio-qualificato o significativo, va riformata la sentenza con cui il TAR ha rilevato la tardività del parere, senza nemmeno occuparsi delle conseguenze della constatata tardività (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.10.2013 n. 4914 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Ed ancora:

EDILIZIA PRIVATANel procedimento previsto dall’art. 146 Codice dei beni culturali, il parere della soprintendenza, autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, ha natura obbligatoria e vincolante (vincolo superabile solo a seguito di una ulteriore fase procedimentale conseguente al preavviso di diniego di cui all’art. 10-bis della legge n. 2431 del 1990) e, quindi, assume una connotazione non solamente consultiva ma tale da possedere un'autonoma capacità lesiva della sfera giuridica del destinatario, lesività non superabile e perciò attuale quando l’interessato non abbia prodotto alcuna osservazione.
L’indicato parere è autonomamente ed immediatamente lesivo e di conseguenza ex se impugnabile in sede giurisdizionale.

In via preliminare è da rilevare che, nel procedimento previsto dall’art. 146 Codice dei beni culturali, il parere della soprintendenza, autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico, ha natura obbligatoria e vincolante (vincolo superabile solo a seguito di una ulteriore fase procedimentale conseguente al preavviso di diniego di cui all’art. 10-bis della legge n. 2431 del 1990) e, quindi, assume una connotazione non solamente consultiva ma tale da possedere un'autonoma capacità lesiva della sfera giuridica del destinatario, lesività non superabile e perciò attuale quando l’interessato non abbia prodotto (come nella specie) alcuna osservazione (secondo le dichiarazioni rese dal difensore all’udienza del 17.11.2010 e risultanti dal verbale della stessa udienza). L’indicato parere è autonomamente ed immediatamente lesivo e di conseguenza ex se impugnabile in sede giurisdizionale.
Nel caso in cui (come nella specie) l’amministrazione competente abbia indetto una conferenza di servizi e il motivato dissenso di un’amministrazione preposta alla tutela ambientale (nella specie la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici) possa essere superato a seguito della rimessione della vicenda al giudizio del Consiglio dei Ministri, ex art. 14-quater, terzo comma, della legge n. 241 del 1990, non si può negare che il parere negativo espresso dalla citata amministrazione determina una situazione di stallo di per sé lesiva, sicché l’atto che tale situazione determina è impugnabile ex se in sede giurisdizionale.
Ciò tanto più, quando, come nel caso in esame, è intervenuto un provvedimento che, pur qualificandosi quale preavviso di diniego, dichiara che, stante il parere negativo della Soprintendenza, “il procedimento di autorizzazione … si è concluso negativamente”.
Infatti, in questo caso è evidente l’autonoma portata lesiva del parere impugnato, che è stato posto alla base del provvedimento del 24.06.2010 (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 03.12.2010 n. 2784 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl parere ex art. 146 dlgs 42/2004 è stato assimilato a un'autorizzazione o ad un nulla osta con funzione di strumento dato all'autorità preposta alla tutela delle bellezze naturali per salvaguardare gli interessi da essa rappresentati.
Deve perciò ritenersi autonomamente impugnabile per l’effetto preclusivo all’ulteriore prosieguo procedimentale che esso produce.
Nella giurisprudenza amministrativa, il parere della Soprintendenza previsto dall'art. 146, D.Lgs. n. 42/2004, ha natura obbligatoria e vincolante e, quindi, assume una connotazione non solamente consultiva, ma tale da possedere un'autonoma capacità lesiva della sfera giuridica del destinatario: il parere, pertanto, è autonomamente ed immediatamente lesivo e di conseguenza ex se impugnabile in sede giurisdizionale.

Preliminarmente il Collegio osserva di essersi ripetutamente pronunziato sull’ammissibilità del ricorso, benché diretto nei confronti del parere che la Soprintendenza rende ai sensi dell’art. 146, D.Lgs. n. 42/2004: nella giurisprudenza del Tribunale il parere è stato assimilato a un'autorizzazione o ad un nulla osta con funzione di strumento dato all'autorità preposta alla tutela delle bellezze naturali per salvaguardare gli interessi da essa rappresentati (TAR Umbria Perugia, 06.03.1998, n. 182).
Deve perciò ritenersi autonomamente impugnabile per l’effetto preclusivo all’ulteriore prosieguo procedimentale che esso produce (arg. TAR Umbria Perugia, 31.03.2011 n. 97).
Nella giurisprudenza amministrativa, il parere della Soprintendenza previsto dall'art. 146, D.Lgs. n. 42/2004, ha natura obbligatoria e vincolante e, quindi, assume una connotazione non solamente consultiva, ma tale da possedere un'autonoma capacità lesiva della sfera giuridica del destinatario: il parere, pertanto, è autonomamente ed immediatamente lesivo e di conseguenza ex se impugnabile in sede giurisdizionale (TAR Campania Salerno, sez. II, 07.12.2011, n. 1955) (TAR Umbria, sentenza 16.01.2013 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl modulo della conferenza di servizi c.d. decisoria, applicato alle vicende di autorizzazione paesaggistica, per quanto possa essere utile a un esame contestuale e sollecito dell’istanza e possa comportare il raccordo con gli altri procedimenti, non è ex se idoneo a legittimare dal punto di vista paesaggistico l’intervento, se non è seguito da un autonomo, espresso e puntuale provvedimento autorizzatorio da parte dell’Ente competente e se la Soprintendenza non ha poi esercitato in senso favorevole all’istanza stessa la sua conseguente funzione di co-gestione del vincolo.
Infondato è anche l’ulteriore motivo col quale si denuncia l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto sussistente il vizio di mancata acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, tornando parte appellante a insistere nella propria tesi secondo cui tale assenso sarebbe implicito nella mancata partecipazione della competente Soprintendenza alla conferenza di servizi che ha istruito il permesso di costruire de quo.
Al riguardo, in disparte i rilievi svolti dal primo giudice in ordine alla non significatività di tale mancata partecipazione anche per le circostanze di tempo e di luogo in cui si è verificata, la Sezione non ritiene di doversi discostare dal consolidato indirizzo secondo cui il modulo della conferenza di servizi c.d. decisoria, applicato alle vicende di autorizzazione paesaggistica, per quanto possa essere utile a un esame contestuale e sollecito dell’istanza e possa comportare il raccordo con gli altri procedimenti, non è ex se idoneo a legittimare dal punto di vista paesaggistico l’intervento, se non è seguito da un autonomo, espresso e puntuale provvedimento autorizzatorio da parte dell’Ente competente e se la Soprintendenza non ha poi esercitato in senso favorevole all’istanza stessa la sua conseguente funzione di co-gestione del vincolo (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18.04.2011, nr. 2378; id., 11.12.2008, nr. 5620)  (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.07.2013 n. 3755  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAVa confermata la natura obbligatoria e vincolante del parere di cui all’art. 146 d.lgs. 42/2004, e ciò in ossequio ad un costante orientamento giurisprudenziale che ha sancito che “il parere della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici previsto dall'art. 146 D.Lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali) ha natura obbligatoria e vincolante e, quindi, assume una connotazione non solamente consultiva, ma tale da possedere un'autonoma capacità lesiva della sfera giuridica del destinatario...”.
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E' legittimo un provvedimento di diniego, a conclusione del procedimento amministrativo, laddove l’assenza della motivazione è da ricondurre dal carattere “per relationem” della motivazione di cui si tratta, contenuta nel parere della Sopraintendenza e, ciò, in considerazione del carattere obbligatorio e vincolante di detto provvedimento.
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Va ricordato, per un costante orientamento giurisprudenziale, come l’Amministrazione non possa limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un'opera non sia idonea ad inserirsi nell'ambiente, attraverso l'individuazione degli elementi di contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche.
L’esame della motivazione contenuta nei provvedimenti impugnati consente di rilevare che .. ”l’intervento proposto …in un’area di eccezionale bellezza e di grande visibilità, qualora realizzato comporterebbe un’alterazione sostanziale dell’ambiente e inciderebbe negativamente sull’equilibrio del contesto sottoposto a tutela paesaggistica...”.
Nel parere negativo si è ancora affermato che… ”negli ultimi anni si è avuta una trasformazione intensiva dei terreni rimboschiti della Valpolicella in vigneti portando ad un impoverimento del paesaggio locale e privandolo viepiù di quella variegazione evidenziata dal decreto di tutela: risulta pertanto essenziale la salvaguardia e il recupero di tali aspetti peculiari...”.
E’, pertanto, del tutto evidente che la lettura della motivazione contenuta nei due atti sopra citati, lungi dal costituire l’applicazione di formule apodittiche, ha a riferimento l’area di cui si tratta, esprimendo una valutazione che, seppur sintetica, consente di ripercorrere l’iter logico seguito e a fondamento dei provvedimenti impugnati.

Il ricorso è infondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
E’ infondato il primo motivo mediante il quale si asserisce la violazione dell’art. 146 del D.Lgs. 42/2004 in quanto non sarebbero rispettati i termini della norma sia in quanto riferiti ai 45 giorni (comma 8°) che per quanto attiene i 90 giorni (comma 5°).
Si rileva, altresì, che il parere in quanto pervenuto oltre detti termini doveva considerarsi reso in senso favorevole, essendo trascorsi 90 giorni senza che la Soprintendenza si fosse pronunciata.
Con riferimento a dette eccezioni in primo luogo va confermata la natura obbligatoria e vincolante del parere di cui all’art. 146 sopra citato e, ciò, in ossequio ad un costante orientamento giurisprudenziale (TAR Umbria Perugia Sez. I, 16.01.2013, n. 11) che ha sancito che “il parere della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici previsto dall'art. 146 D.Lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali) ha natura obbligatoria e vincolante e, quindi, assume una connotazione non solamente consultiva, ma tale da possedere un'autonoma capacità lesiva della sfera giuridica del destinatario...
Va, inoltre, rilevato come nel concreto siano rispettati anche i termini entro i quali il parere doveva essere emanato e, ciò, considerando che i termini sia di cui al comma 5 che al comma 8 decorrono dalla data di ricezione degli atti e non dalla data di deposito dell’istanza presso l’ufficio regionale competente come sostenuto dalla parte ricorrente.
Ne consegue come non risulti nemmeno condivisibile l’applicazione di un presunto silenzio assenso di cui al comma 5 della disposizione sopra citata e, ciò, in considerazione del fatto che il parere sfavorevole era stato emesso nei termini sopra citati.
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Sono, altresì, infondati il secondo e il terzo motivo alla base del ricorso mediante il quale si sostiene il venire in essere di un difetto di motivazione dei provvedimenti impugnati.
Per quanto attiene il difetto di motivazione del provvedimento del Servizio Forestale del 14.05.2012 va rilevato che l’assenza della motivazione è da ricondurre dal carattere “per relationem” della motivazione di cui si tratta, contenuta nel parere della Sopraintendenza e, ciò, in considerazione del carattere obbligatorio e vincolante di detto provvedimento.
Con riferimento al presunto difetto di motivazione del parere della Soprintendenza va ricordato che per un costante orientamento giurisprudenziale (TAR Campania Salerno Sez. II, 01.08.2012, n. 1591 e Cons. Stato Sez. VI Sent., 25.02.2008, n. 653) come l’Amministrazione non possa limitare la sua valutazione al mero riferimento ad un pregiudizio ambientale, utilizzando espressioni vaghe o formule stereotipate, ma tale motivazione deve contenere una sufficiente esternazione delle specifiche ragioni per le quali si ritiene che un'opera non sia idonea ad inserirsi nell'ambiente, attraverso l'individuazione degli elementi di contrasto; pertanto, occorre un concreto ed analitico accertamento del disvalore delle valenze paesaggistiche.
L’esame della motivazione contenuta nei provvedimenti impugnati consente di rilevare che .. ”l’intervento proposto …in un’area di eccezionale bellezza e di grande visibilità, qualora realizzato comporterebbe un’alterazione sostanziale dell’ambiente e inciderebbe negativamente sull’equilibrio del contesto sottoposto a tutela paesaggistica...”.
Nel parere negativo si è ancora affermato che… ”negli ultimi anni si è avuta una trasformazione intensiva dei terreni rimboschiti della Valpolicella in vigneti portando ad un impoverimento del paesaggio locale e privandolo viepiù di quella variegazione evidenziata dal decreto di tutela: risulta pertanto essenziale la salvaguardia e il recupero di tali aspetti peculiari...”.
E’, pertanto, del tutto evidente che la lettura della motivazione contenuta nei due atti sopra citati, lungi dal costituire l’applicazione di formule apodittiche, ha a riferimento l’area di cui si tratta, esprimendo una valutazione che, seppur sintetica, consente di ripercorrere l’iter logico seguito e a fondamento dei provvedimenti impugnati
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 21.08.2013 n. 1081 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Sussistono, tuttavia, anche alcune voci fuori dal coro del tipo:

EDILIZIA PRIVATA: E' illegittimo il parere (negativo) espresso dalla Soprintendenza non rispettando la tempistica dettata dai commi 8 e 9 dell’art. 146, in quanto il parere reso risulta comunque espresso risultando ormai superato il termine perentorio di 45 giorni, così come previsto dal comma 8, del dlgs 42/2004, per l’espressione del richiesto parere. Tale circostanza rende quindi nullo e privo di ogni effetto il parere successivamente reso, in alcun modo in grado di condizionare l’azione dell’amministrazione procedente.
Al contempo, scatta l’obbligo per il Comune di concludere il procedimento, così come previsto in termini generali una volta decorsi 60 giorni dal ricevimento degli atti da parte della Soprintendenza, indipendentemente dalla manifestazione del parere Soprintendizio.
Ribadita l’inesistenza del parere tardivamente emesso, in quanto manifestato da un autorità che, per inosservanza del termine perentorio dettato dalla legge, non poteva più esercitare il relativo potere attribuitole, sussiste l’obbligo per il Comune di concludere il procedimento, stante il chiaro disposto di cui alla seconda parte del comma 9, che testualmente recita: “In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente, l’amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione”: illegittima è quindi la mera comunicazione del parere negativo, senza concludere il procedimento, da parte dell’amministrazione comunale.

... per l'annullamento del provvedimento della Soprintendenza 28/06/2013 prot. n. 17179 con il quale sono stati confermati i "motivi ostativi" al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica ex art. 146, comma 8, D.Lgs. n. 42/2004 relativamente alla costruzione di tre fabbricati in Comune di Sappada, con invito al Comune a concludere il procedimento adottando il provvedimento di diniego in tempo utile, nonché della comunicazione dei "motivi ostativi" del 18/04/2013 prot. n. 10348; del provvedimento del Comune di Sappada 29/07/2013 prot. n. 4973 con il quale il Comune ha trasmesso alle istanti società G & B Investimenti e VICAMMDUE S.r.l. la nota della Soprintendenza del 28/06/2013 prot. n. 17179 senza adottare il provvedimento conclusivo nonché per l'accertamento dell'obbligo del Comune di Sappada di provvedere in ordine all'autorizzazione paesaggistica.
...
- Premesso che –ai sensi dell’allora vigente regime transitorio di cui all’art. 159 D.lgs. 42/2004– è stata rilasciata (per silentium) l’autorizzazione paesaggistica in ordine al progetto di PUA, nel quale era stata prevista la realizzazione di cinque edifici da destinare a residenza;
- che per l’effetto le ricorrenti hanno già eseguito le opere di urbanizzazione, debitamente collaudate;
- che con i provvedimenti ora impugnati, vigente il regime ordinario ex art. 146 D.lgs. 42/2004, è stata respinta con provvedimento del 28.06.2013 della Soprintendenza la richiesta di autorizzazione paesaggistica relativamente all’istanza di rilascio dei titoli edilizi per la costruzione di tre dei suddetti edifici e che, per effetto del suddetto parere sfavorevole, il Comune ha provveduto al mero invio di una comunicazione nella quale ha dato atto del parere, peraltro tardivamente emesso dalla Soprintendenza, senza tuttavia pronunciarsi sull’istanza degli interessati;
- visti i motivi di ricorso e ritenuta, in via del tutto assorbente ogni ulteriore considerazione, la sussistenza della denunciata violazione delle disposizioni introdotte con l’art. 146 del D.lgs. 42/2004;
- che invero il procedimento non risulta rispettoso della tempistica dettata dai commi 8 e 9 dell’art. 146, in quanto il parere della Soprintendenza, formulato in termini negativi, anche tenendo conto della tesi più favorevole e, quindi, conteggiando il tempo concesso ai richiedenti per controdedurre al preavviso di diniego loro inviato, risulta comunque espresso quanto risultava ormai superato il termine perentorio di 45 giorni, così come previsto dal comma 8, per l’espressione del richiesto parere;
- che tale circostanza rende quindi nullo e privo di ogni effetto il parere successivamente reso, in alcun modo in grado di condizionare l’azione dell’amministrazione procedente;
- che, al contempo, scatta l’obbligo per il Comune di concludere il procedimento, così come previsto in termini generali una volta decorsi 60 giorni dal ricevimento degli atti da parte della Soprintendenza (avvenuto il 05.04.2013), indipendentemente dalla manifestazione del parere;
- ciò detto e ribadita l’inesistenza del parere tardivamente emesso, in quanto manifestato da un autorità che, per inosservanza del termine perentorio dettato dalla legge, non poteva più esercitare il relativo potere attribuitole, sussisteva l’obbligo per il Comune di concludere il procedimento, stante il chiaro disposto di cui alla seconda parte del comma 9, che testualmente recita: “In ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente, l’amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione”: illegittima è quindi la mera comunicazione del parere negativo, senza concludere il procedimento, da parte dell’amministrazione comunale;
- di conseguenza, in accoglimento del presente ricorso annullati gli atti impugnati e ritenuta in particolare l’illegittimità dell’inerzia manifestata dall’amministrazione comunale, si dispone che il Comune provveda in ordine alla richiesta dei ricorrenti, così concludendo il procedimento, tenuto conto delle considerazioni già espresse in occasione della presentazione della proposta di autorizzazione paesaggistica e tenendo conto altresì delle considerazioni già svolte in occasione dell’approvazione del PUA (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 14.11.2013 n. 1295 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Soprintendenza deve rendere il proprio parere vincolante (ex art. 146 dlgs 42/2004) entro 45 giorni dalla ricezione degli atti; qualora il parere sia reso dopo questo termine il parere non può essere più considerato vincolante.
Militano in tal senso due fattori:
a) la formulazione delle norme che vengono in rilievo: l’ottavo comma dell’art. 146 si riferisce al “parere [vincolante] di cui al comma 5”, che va reso entro 45 giorni, soggiungendo all’ultimo periodo che “l’amministrazione provvede in conformità” (e, cioè, non potendosene discostare esclusivamente in tal caso);
b) la previsione della conferenza di servizi, nell’ipotesi in cui il termine non sia rispettato (nono comma), alla cui base v’è l’esigenza di concentrazione e celerità nella definizione del procedimento; il ricorso a detto modulo procedimentale è inconciliabile con la possibilità che possa ancora essere assegnato carattere vincolante al parere della Soprintendenza, attesa la specifica disciplina dettata dall’art. 14-quater, terzo comma, della legge n. 241 del 1990 (né è ipotizzabile la conservazione della natura vincolante del parere, qualora la conferenza di servizi non sia stata indetta, che creerebbe un’evidente distonia nel sistema, poiché il modulo procedimentale suddetto segue alla mancata espressione del parere/preavviso di rigetto nel termine perentorio fissato).

È assorbente il primo profilo della censura.
Risulta che, con nota prot. n. 1749 del 28/12/2011 (doc. 5 della produzione di parte ricorrente), l’Unione dei Comuni “Terra di Leuca” ha inviato la pratica, con allegati gli elaborati grafici e la relazione, per il parere di competenza alla Soprintendenza, che l’ha ricevuta il 02.01.2012 (v. il timbro di arrivo).
Il termine assegnato alla Soprintendenza decorre da questa data, coincidente con la “ricezione degli atti” a cui ha riguardo l’ottavo comma dell’art. 146 cit. (pertanto, non può rilevare il protocollo interno del 09/01/2012).
A decorrere dal 02/01/2012 la Soprintendenza doveva dunque esprimere il proprio parere, ovvero adottare il preavviso di rigetto, dovendosi interpretare l’art. 146, quinto comma, nel senso di ritenere doveroso tale atto, posto come obbligatorio, e in quanto tale idoneo a produrre l’effetto interruttivo del termine finale, secondo quanto stabilito dall’art. 10-bis della legge n. 241/1990.
Nel termine di quarantacinque giorni da tale data (scadente il 16.02.2012, osservandosi nel computo la regola di cui all’art. 155 c.p.c.) la Soprintendenza non ha formulato il preavviso di rigetto, che è stato adottato il 17.02.2012, al quarantaseiesimo giorno.
Al proposito, il Collegio intende ribadire il proprio consolidato indirizzo, con il quale è stato ritenuto che la vincolatività del parere della Soprintendenza sussiste solamente allorquando esso (ovvero, il preavviso di rigetto) sia reso entro i quarantacinque giorni a cui ha riguardo il quinto comma dell’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 (cfr., da ultimo, la sentenza della Sezione del 25.10.2013 n. 2191: <<È, anzitutto, da confermare l’orientamento di questo Tribunale, per il quale la Soprintendenza deve rendere il proprio parere vincolante entro 45 giorni dalla ricezione degli atti; qualora il parere sia reso dopo questo termine il parere non può essere più considerato vincolante (sent. 1049/2013 e 1739/2013; nello stesso senso Cons. St., sez. VI, 15.03.2013, n. 1561)>>).
Militano in tal senso due fattori:
a) la formulazione delle norme che vengono in rilievo: l’ottavo comma dell’art. 146 si riferisce al “parere [vincolante] di cui al comma 5”, che va reso entro 45 giorni, soggiungendo all’ultimo periodo che “l’amministrazione provvede in conformità” (e, cioè, non potendosene discostare esclusivamente in tal caso);
b) la previsione della conferenza di servizi, nell’ipotesi in cui il termine non sia rispettato (nono comma), alla cui base v’è l’esigenza di concentrazione e celerità nella definizione del procedimento; il ricorso a detto modulo procedimentale è inconciliabile con la possibilità che possa ancora essere assegnato carattere vincolante al parere della Soprintendenza, attesa la specifica disciplina dettata dall’art. 14-quater, terzo comma, della legge n. 241 del 1990 (né è ipotizzabile la conservazione della natura vincolante del parere, qualora la conferenza di servizi non sia stata indetta, che creerebbe un’evidente distonia nel sistema, poiché il modulo procedimentale suddetto segue alla mancata espressione del parere/preavviso di rigetto nel termine perentorio fissato).
In sintesi, il parere del Soprintendente è vincolante se espresso nei quarantacinque giorni dal ricevimento degli atti; se l’avviso è negativo, deve essere comunicato il preavviso e il procedimento si articola nei tempi di cui all’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990. Trascorso il lasso di tempo di 45 giorni o quello più ampio determinato dall’applicazione del citato art. 10-bis (al massimo 45 + 10 + 45), l’Amministrazione può indire una conferenza di servizi. Dalla previsione relativa al dovere dell’Amministrazione di pronunciarsi trascorsi sessanta giorni dal ricevimento degli atti da parte della Soprintendenza si desume che l’Amministrazione ha quindici giorni di tempo per indire la conferenza di servizi.
In questo lasso di tempo l’Amministrazione può indire la conferenza di servizi o provvedere sull’istanza.
Se indetta, la conferenza di servizi si svolge secondo l’iter delineato dagli artt. 14-ter e 14-quater della legge n. 241 del 1990; la conclusione della medesima non è vincolata dal parere della Soprintendenza.
Se in questo lasso interviene il parere della Soprintendenza (positivo o negativo che sia), l’Amministrazione deve tenerne conto, senza però che dallo stesso sia vincolata.
Nella specie, si è detto, l’Unione dei Comuni ha negato l’autorizzazione paesaggistica non in base ad una propria valutazione, raggiunta anche aderendo al parere della Soprintendenza, ma semplicemente perché ha ritenuto vincolante il parere espresso dalla stessa; per questa ragione va accolto il ricorso e, per l’effetto, va annullato l’impugnato diniego dell’autorizzazione paesaggistica prot. n. 1050 del 04/07/2012 (TAR Puglia-Lecce, I, sentenza 06.02.2014 n. 321 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

     Sulla questione qui posta, poi, sono consultabili alcuni contributi reperibili nel web e di seguito riportati:

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Il parere vincolante del soprintendente nel procedimento di autorizzazione paesaggistica (29.07.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Il parere vincolante del Soprintendente nel procedimento di autorizzazione paesaggistica è indefettibile. Sono finite le larghe intese sul paesaggio? (11.10.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: S. Deliperi, Il parere del Soprintendente nel procedimento di autorizzazione paesaggistica è vincolante e indefettibile (19.10.2013 - link a http://gruppodinterventogiuridicoweb.wordpress.com).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Il parere vincolante del Soprintendente e la conferenza dei servizi nel procedimento di autorizzazione paesaggistica (all’indomani della sentenza n. 4914/2013 del Consiglio di Stato) (22.10.2013 - link a www.lexambiente.it).

     E sull'argomento c'è pure un parere legale che va nel senso dell'imprescindibilità del parere della Soprintendenza per concludere legittimamente (favorevolmente o negativamente che sia) un'istanza di autorizzazione paesaggistica:

EDILIZIA PRIVATA: V. Stefutti, Un quesito sull'autorizzazione paesaggistica e il parere del Soprintendente - Commento a sentenza 04.10.2013 n. 4914 del Consiglio di Stato.
Domanda:
Nel caso in cui, in sede di Conferenza dei Servizi, il Soprintendente non si esprima, e poi il parere di cui agli artt. 146, comma 5, e 167, comma 5, del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 venga reso successivamente, vale  adire dopo la scadenza dei termini fissati dalle predette norme, è possibile per l'autorità competente pronunciarsi definitivamente sull'istanza proposta dall'interessato, considerando tamquam non esset il parere sopravvenuto oltre il termine fissato dal comma 8 dell'art. 146? (02.02.2014 - tratto da www.dirittoambiente.net).

QUINDI ??

     Una volta tanto che la norma è chiara arriva la giurisprudenza a sparigliare le carte ed ingenerare confusione ed incertezza negli operatori: tra l'altro, con due posizioni forti ed autorevoli, laddove da una parte c'è il MIBAC e dall'altra la Giustizia Amministrativa. E allora, per sapere con certezza come correttamente comportarsi, non resta che attendere che l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato -presto o tardi che sia- si pronunci in merito ...
     Nel frattempo, se qualcuno vuol dire la propria può partecipare alla discussione di questo interessante forum.
17.02.2014 - LA SEGRETERIA PTPL

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATAAPE, obbligo di allegazione, nullità e sanzioni. Lo Speciale di BibLus-net con tavole sinottiche e normative.
La disciplina relativa alla Certificazione Energetica degli Edifici contenuta nel D.Lgs. 192/2005 ha subito di recente diverse modifiche, anche a distanza di breve tempo l’una dall’altra.
In particolare sono intervenuti sul tema:
Decreto Ecobonus (D.L. 63/2013, convertito con Legge 90/2013)
Decreto Destinazione Italia (D.L. 145/2013)
Legge di Stabilità (Legge 147/2013)
Decreto Milleproroghe (D.L. 151/2013)
Le modifiche apportate dai vari interventi normativi hanno, tuttavia, generato gran confusione su un tema così rilevante, visto che riguarda la compravendita e l’affitto degli immobili.
Basti pensare che la Legge di Stabilità 2014 ha rinviato l'operatività della norma sulla nullità del contratto in caso di mancata allegazione dell'APE, ma non ha tenuto conto che la norma stessa era stata già abrogata dal Decreto Destinazione Italia.
Di recente anche il Governo (Ministro Cancellieri) si è espresso in risposta ad un’interrogazione sull’APE in caso di trasferimento o locazione di immobili.
In questo articolo proponiamo uno Speciale di approfondimento a cura di BibLus-net che cerca di riassumere e fare chiarezza su tutti gli interventi normativi e sul regime giuridico applicabile all’APE in tema di allegazione ai contratti immobiliari.
Sono presenti, inoltre, utili tabelle sinottiche con obblighi e sanzioni previste nei vari casi possibili (13.02.2014 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROSicurezza nei cantieri e nei luoghi di lavoro, le risposte alle domande più frequenti.
Al fine di fornire indicazioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, la Regione Piemonte ha selezionato e raccolto i requisiti più interessanti sul proprio sito, che viene periodicamente aggiornato.
Il contenuto della pubblicazione (aggiornata al 15.05.2013), pur avendo carattere esclusivamente informativo, è un utile strumento per datori di lavoro, responsabili e addetti dei servizi di prevenzione e protezione, preposti, professionisti, lavoratori per essere sempre informati sulla normativa a tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
In allegato la raccolta delle FAQ della Regione Piemonte sulla sicurezza, raggruppate in maniera omogenea in base ai seguenti argomenti:
applicazione generale del Decreto Legislativo 81/2008 e s.m.i.
luoghi di lavoro, macchine e DPI
sicurezza nei cantieri
segnaletica di sicurezza, movimentazione manuale dei carichi, videoterminali
agenti fisici, sostanze pericolose, agenti biologici, protezione da atmosfere esplosive (13.02.2014 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROSicurezza sui cantieri, ecco una utile guida con definizioni, procedure e liste di controllo.
La valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori è finalizzata ad individuare le necessarie misure di prevenzione e protezione e a predisporre il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza.
Gli obblighi in materia di sicurezza in capo ad un’impresa edile sono vari, come ad esempio l’elaborazione del Documento di valutazione dei rischi (DVR) e la redazione del Piano Operativo di Sicurezza (POS) in osservanza dell’eventuale Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC) predisposto dal Coordinatore per la sicurezza.
In questi documenti devono essere individuate tutte le misure di sicurezza, preventive e protettive, da applicare nei luoghi di lavoro.
In questo articolo proponiamo una guida per la sicurezza in edilizia elaborate dal CPT di Taranto che ha lo scopo di fornire agli operatori del settore edile uno strumento utile per il controllo dell’applicazione delle misure di sicurezza, della congruenza dei documenti e dell’organizzazione aziendale in materia di prevenzione e protezione dai rischi.
In dettaglio, il documento analizza i seguenti argomenti:
figure della sicurezza
documentazione attestante l’attuazione di adempimenti a carico del datore di lavoro
adempimenti e documenti a cura del committente
dispositivo di protezione individuale
segnaletica di sicurezza
dotazione della tessera di riconoscimento ai lavoratori
comunicazione telematica d’infortunio all’INAIL (06.02.2014 - link a www.acca.it).

PATRIMONIOMessa in sicurezza di edifici scolastici e interventi senza permesso di costruire. Ecco le deroghe ammesse.
Il D.M. 906/2013 ha predisposto lo stanziamento di 150 milioni per il finanziamento di lavori di riqualificazione e messa in sicurezza delle scuole, con l’obbligo da parte degli enti locali di affidamento mediante una procedura più snella ed immediata entro il 28.02.2014, pena la revoca delle risorse disponibili.
Il Decreto del Fare ha dato facoltà a sindaci e presidenti delle Province interessate di operare in qualità di commissari governativi per gli interventi riguardanti la messa in sicurezza delle scuole.
Al fine di rispettare i tempi di affidamento dei lavori, il Presidente del Consiglio dei Ministri ha firmato il Decreto attuativo del 22.01.2014, che definisce le possibili deroghe a norme e leggi di seguito riportate:
Codice Appalti (D.Lgs. 163/2006):
art. 11 (Fasi delle procedure di affidamento)
art. 12 (Controlli sugli atti delle procedure di affidamento)
art. 48 (Controlli sul possesso dei requisiti)
art. 70 (Termini di ricezione delle domande di partecipazione e di ricezione delle offerte)
art. 71 (Termini di invio ai richiedenti dei capitolati d'oneri, documenti e informazioni complementari nelle procedure aperte)
art. 122 (Disciplina specifica per i contratti, di lavori pubblici sotto soglia)
art. 123 (Procedura ristretta semplificata per gli appalti di lavori)
art. 125 (Lavori, servizi e forniture in economia)
Decreto 207/2010, tutte le disposizioni strettamente connesse agli articoli derogabili del Codice Appalti
Legge 241/1990: art. 10-bis (Comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza)
D.P.R. 380/2001 (Testo Unico in Edilizia): art. 10 (Interventi subordinati a permesso di costruire) (06.02.2014 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, gennaio 2014).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Art. 2, comma 4, d.l. n. 101 del 2013, convertito in l. n. 125 del 2013 - applicazione del regime pensionistico previgente ai dipendenti che hanno maturato un qualsiasi diritto alla pensione entro il 31.12.2011 (nota 31.01.2014 n. 6295 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Pierobon, SISTRI: SUL SUO AGGIORNAMENTO E SUL SUO “NULLA” (12.02.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Case mobili e permesso di costruire (commento critico a Cass. penale, Sez. III, n. 3572/2014) (12.02.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Verderosa, Requisiti di validità del permesso di costruire e rapporto con lo Sportello Unico dell’Edilizia (11.02.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Greco, La controversa ammissibilità a sanatoria edilizia degli immobili abusivi in aree vincolate in territorio siciliano (06.02.2014 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: M. Sanna, La gestione dei rottami metallici. Il regolamento del Consiglio (UE) n. 333/2011 (27.01.2014 - link a www.industrieambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Paone, Bruciare i rifiuti è reato, ma sulla carta! (16.01.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: S. Deliperi, I progetti non possono essere “spezzettati” per eludere le procedure di valutazione di impatto ambientale (16.01.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. Mauri, Il potere ministeriale di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica comunale nella nuova interpretazione data dal Consiglio di Stato (15.01.2014 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Di Tullio D'Elisiis, Il delitto di combustione illecita di rifiuti (10.01.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, L'istanza di permesso a sanatoria non sospende l'efficacia dell'ordinanza di demolizione (commento a TAR Campania, NA, sentenza 23.12.2013 n. 6024) (09.01.2014 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, E' un diritto ottenere il permesso di costruire per iniziare la realizzazione delle opere assoggettate a DIA o SCIA obbligatoria dalle leggi regionali (commento alla sentenza 21.11.2013 n. 1406 del TAR Liguria) (07.01.2014 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Paone, Quando si consuma il reato di deposito incontrollato? (nota a Cass. pen. n. 16183/2013) (Ambiente & Sviluppo n. 1/2014 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. L. Vergine, Tanto tuonò ....che piovve! A proposito dell’art. 3, D.L. 136/2013 (Ambiente & Sicurezza n. 1/2014 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L. Castagnola, SISTRI, sanzioni e “doppio binario (20.12.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Acque pubbliche e demanio necessario (commento critico a sentenza 11.11.2013 n. 2289 del TAR Puglia-Lecce) (17.12.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: F. Albanese, Aree Naturale Protette, nulla osta e silenzio-assenso: l’altalena del Consiglio di Stato (16.12.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Strade private di uso pubblico e diritti soggettivi (commento critico a Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.11.2013 n. 5596) (12.12.2013 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. Verderosa, Autorizzazione Paesaggistica in sanatoria: limiti e possibilità residuali secondo le nozioni di superfici utili e volumi (10.12.2013 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Amendola, Abbandono di rifiuti e responsabilità penale di “titolari di imprese o responsabili di enti” nella giurisprudenza della cassazione (06.12.2013 - link a www.industrieambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Aiello, Bruciare Rifiuti diventa reato con il Decreto “Terra dei Fuochi (04.12.2013 - tratto da e link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, Sui limiti delle deroghe al vincolo cimiteriale (04.12.2013 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: D. Roettgen, Fresato d’asfalto: sottoprodotto o rifiuto? (nota CdS n. 4151/2013) (Ambiente & Sviluppo n. 12/2013 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Paone, Il recupero delle traversine ferroviarie e la sentenza Corte Ue 07.03.2013, C-358/11 (Ambiente & Sviluppo n. 11/2013 - link a www.lexambiente.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 14.02.2014, "Circolare in materia di dimensionamento di medie e grandi strutture di vendita e di commercio al dettaglio su area pubblica" (circolare regionale 10.02.2014 n. 3).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 14.02.2014, "Incentivi per la riqualificazione degli ostelli della gioventù di proprietà di enti pubblici attraverso l’adeguamento al regolamento regionale n. 2/2011 recante “Definizione degli standard obbligatori minimi e dei requisiti funzionali delle case per ferie e degli ostelli per la gioventù, in attuazione dell’articolo 36, comma 1, della legge regionale 16.07.2007, n. 15 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo)”" (deliberazione G.R. 07.02.2014 n. 1339).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 12.02.2013, "Criteri per la predisposizione dei piani territoriali di coordinamento dei parchi regionali e per la definizione della documentazione minima a corredo delle proposte finalizzata alla semplificazione" (deliberazione G.R. 07.02.2014 n. 1343).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 del 10.02.2014, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2001, n. 1, dell’elenco dei tecnici competenti in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 31 gennaio 2014, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 03.02.2014 n. 10).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 10.02.2014 n. 33 "Modifiche alla parte I dell’allegato IV, alla parte quinta del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, recante: «Norme in materia ambientale»" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 15.01.2014).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie avvisi e concorsi n. 6 del 05.02.2014, "Disposizioni per l’iscrizione all’albo dei commissari ad acta di cui all’art. 31 della legge regionale 11.03.2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio», disciplinato con d.g.r. n. 6/41493 del 19.02.1999 «Attuazione dell’art. 14, secondo comma, della legge regionale 23.06.1997, n. 23. Definizione di criteri e modalità per la formazione, la gestione e l’articolazione dell’albo dei commissari ad acta ai fini dell’esercizio dei poteri sostitutivi regionali in materia edilizio-urbanistica e paesistico-ambientale»" (deliberazione G.R. 24.01.2014 n. 1273).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 del 05.02.2014, "Approvazione delle linee guida per la componente salute pubblica degli studi di impatto ambientale ai sensi dell’art. 12, comma 2, del regolamento regionale 21.11.2011, n. 5" (deliberazione G.R. 24.01.2014 n. 1266).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 08.02.2014 n. 32 "Testo del decreto-legge 10.12.2013, n. 136, coordinato con la legge di conversione 06.02.2014, n. 6, recante: «Disposizioni urgenti dirette a fronteggiare emergenze ambientali e industriali ed a favorire lo sviluppo delle aree interessate»".

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: SISTRI: confermata la partenza del 3 marzo per i produttori di rifiuti pericolosi. Corsi gratuiti per l’utilizzo del sistema (ANCE Bergamo, circolare 14.02.2014 n. 46).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Durc in presenza di certificazione dei crediti ai sensi dell’art. 13-bis, comma 5, d.l. 52/2012 e d.m. 13.03.2013. Verifica capienza per l’emissione del Durc (INAIL, nota 13.02.2014 n. 1123 di prot.).
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Si legga, al riguardo anche: GUIDA AL RILASCIO DEL DURC IN PRESENZA DI CERTIFICAZIONE DEL CREDITO (D.M. 13.03.2013) - PIATTAFORMA PER LA CERTIFICAZIONE DEI CREDITI (versione 1.0 del 09.01.2014).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Aggiornamento della disciplina regionale per l’efficienza e la certificazione energetica degli edifici e criteri per il riconoscimento della funzione bioclimatica delle serre e delle logge, al fine di equipararle a volumi tecnici (ANCE Bergamo, circolare 07.02.2014 n. 43).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: D.Lgs 28/2011: Decreto fonti rinnovabili – Prossima proroga al 01.01.2015 dell’obbligo di incremento della copertura da fonti rinnovabili (ANCE Bergamo, circolare 07.02.2014 n. 42).

EDILIZIA PRIVATA: MAPEL: 01.02.2014 la trasmissione dei provvedimenti paesaggistici è on-line.
Con la sottoscrizione del Protocollo d’Intesa tra Regione Lombardia, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e Soprintendenze per i beni architettonici e paesaggistici di Brescia e Milano si stabilisce che dal 01.02.2014 l'invio dei provvedimenti paesaggistici rilasciati dagli Enti locali lombardi, avverrà tramite l’utilizzo di MAPEL (Monitoraggio Autorizzazioni Paesaggistiche Enti Locali), un applicativo informatico che Regione Lombardia ha sviluppato e sperimentato nel 2013 con i coinvolgimento degli Enti locali.
Con la sottoscrizione di tale Protocollo, ha dichiarato l’Assessore Claudia Maria Terzi, la “dematerializzazione” della trasmissione dei provvedimenti paesaggistici rilasciati dagli Enti locali diviene un fatto concreto.
Si consegue, ha continuato l’Assessore, la eliminazione della trasmissione, oggi prevalentemente cartacea, di circa 25.000 provvedimenti rilasciati dagli Enti locali, si risparmia carta e spazi per gli archivi e si potrà disporre di uno strumento in grado di monitorare, anche tramite funzioni statistiche e reportistiche, l’attività paesaggistica sul territorio lombardo
Tutti i provvedimenti paesaggistici (autorizzazioni, autorizzazioni con prescrizioni e dinieghi in procedura ordinaria e semplificata, nonché i provvedimenti di accertamento di compatibilità paesaggistica) dovranno essere inseriti in MAPEL a seguito di accreditamento da parte degli Enti locali e seguendo i passi indicati nella guida dell’applicativo.
Confido, ha concluso l’Assessore, che la sottoscrizione del Protocollo con la Direzione regionale del MIBACT possa contribuire ad una sempre maggiore collaborazione sui temi della salvaguardia e valorizzazione del paesaggio, con particolare attenzione alle politiche ed azioni per la pianificazione paesaggistica (05.02.2014 - link a www.regione.lombardia.it).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Mobilità per compensazione.
Secondo la Corte dei conti, la mobilità, anche intercompartimentale, è ammessa in via di principio, ai sensi dell'art. 1, comma 47, della l. 311/2004, 'tra amministrazioni sottoposte a discipline limitative anche differenziate, in quanto modalità di trasferimento di personale che non dovrebbe generare alcuna variazione nella spesa sia a livello del singolo ente che del complessivo sistema della finanza pubblica locale'.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine ad una richiesta di trasferimento per mobilità, con la procedura della compensazione di cui all'art. 7 del D.P.C.M. 05.08.1988, n. 325. Nello specifico, un dipendente dell'Ente transiterebbe presso un'Azienda Ospedaliera, mentre un dipendente di quest'ultima si trasferirebbe presso l'Amministrazione istante.
Sentito il Servizio organizzazione, formazione e relazioni sindacali comparto, si espone quanto segue.
Preliminarmente appare corretto esaminare il contesto normativo in cui è inserito il richiamato art. 7 del D.P.C.M. n. 325/1988.
La disposizione citata stabilisce che è consentita in ogni momento, nell'ambito delle dotazioni organiche di cui all'art. 3, la mobilità dei singoli dipendenti presso la stessa od altre amministrazioni, anche di diverso comparto, nei casi di domanda congiunta di compensazione con altri dipendenti di corrispondente profilo professionale, previo nulla osta dell'amministrazione di provenienza e di quella di destinazione.
Si osserva che l'art. 3 del medesimo decreto, cui rinvia il richiamato art. 7, dispone in merito agli adempimenti preliminari da effettuare per l'attuazione della procedura speciale di mobilità, approvata all'epoca nell'ambito delle pubbliche amministrazioni.
Detta norma prevede, infatti, che entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del medesimo decreto, le pubbliche amministrazioni definiscano, nel rispetto delle norme vigenti, con provvedimento formale previsto dai rispettivi ordinamenti, le dotazioni organiche provvisorie anche territoriali d'ufficio.
Si ritiene che tale normativa debba intendersi superata, allo stato attuale, essendo riferita a procedura 'sperimentale' di mobilità generale all'interno dell'ambito delle pubbliche amministrazioni, coordinata dal Dipartimento della funzione pubblica e attuata in un'ottica di riorganizzazione dei vari enti interessati.
Come evidenziato dalla Corte dei conti
[1], un riferimento normativo più attuale è da rinvenirsi all'art. 6, comma 1, ultimo periodo, del d.lgs. 165/2001, che prevede che le amministrazioni pubbliche curino l'ottimale distribuzione delle risorse umane attraverso la coordinata attuazione dei processi di mobilità e di reclutamento del personale. L'istituto della mobilità tra enti assume pertanto un ruolo primario, al fine di consentire una ottimale distribuzione del personale, una riduzione della spesa corrente, nonché a garantire la sostenibilità dei livelli occupazionali del pubblico impiego.
Inoltre la magistratura contabile ha evidenziato che, nell'ambito delle previsioni dell'articolo 30 del d.lgs. 165/2001, può farsi rientrare anche la mobilità per interscambio di due dipendenti (trasferimento bilaterale comunemente denominato mobilità bilaterale o reciproca)
[2]: quella cioè attuata per passaggio diretto tra diverse amministrazioni nella quale gli enti si scambiano i dipendenti (su iniziativa o con il consenso degli stessi) realizzando una scelta organizzativa a somma zero, che non lascia margini alle aspettative di altri soggetti [3].
La magistratura contabile, nell'esprimersi in ordine ad una procedura di mobilità per interscambio (per compensazione) tra enti locali dello stesso comparto, ha rilevato che, pur essendo intervenuta l'abrogazione delle disposizioni contrattuali che disponevano in ordine alla mobilità in compensazione
[4], ciò non preclude 'alle amministrazioni locali di poter attivare comunque una mobilità reciproca o bilaterale con altre amministrazioni locali', in applicazione del principio generale contenuto ai richiamati art. 6 e 30 del d.lgs. 165/2001.
Si è richiamata, in tale contesto, la disposizione, tuttora vigente, di cui all'art. 1, comma 47, della l. 311/2004, ove è previsto che: 'in vigenza di disposizioni che stabiliscono un regime di limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato, sono consentiti trasferimenti per mobilità, anche intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte al regime di limitazione, nel rispetto delle disposizioni sulle dotazioni organiche e, per gli enti locali, purché abbiano rispettato il patto di stabilità interno per l'anno precedente'.
Le Sezioni riunite in sede di controllo della Corte dei conti, dopo aver richiamato la norma in materia di mobilità volontaria del personale, per gli enti sottoposti a regime vincolistico delle assunzioni, contenuta nel citato art. 1, comma 47, della legge n. 311/2004, hanno affermato che tale disposizione configura, per detti enti 'la mobilità come un'ulteriore e prodromica possibilità di reclutamento in deroga ai limiti normativamente previsti'
[5].
La mobilità si configura dunque -secondo l'indirizzo interpretativo delle Sezioni riunite- come strumento per una più razionale distribuzione del personale tra le diverse amministrazioni, preliminare alla decisione di bandire procedure concorsuali in ossequio al principio che, prima di procedere all'immissione, nei limiti consentiti dall'ordinamento, di nuovo personale, appare opportuno sperimentare iniziative volte ad una migliore e più razionale collocazione dei dipendenti già in servizio presso amministrazioni diverse.
La Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia
[6], alla luce dell'esame coordinato della legislazione vigente e delle pronunce di orientamento generale rese dalle Sezioni riunite della Corte dei conti [7], ha affermato che la mobilità, anche intercompartimentale, è ammessa in via di principio, ai sensi dell'art. 1, comma 47, della l. 311/2004, 'tra amministrazioni sottoposte a discipline limitative anche differenziate, in quanto modalità di trasferimento di personale che non dovrebbe generare alcuna variazione nella spesa sia a livello del singolo ente che del complessivo sistema della finanza pubblica locale'.
La citata sezione Lombardia ha precisato che, perché possano essere ritenute neutrali
[8] (e, quindi, non assimilabili ad assunzioni/dimissioni), le operazioni di mobilità in uscita e in entrata, devono intervenire tra enti entrambi sottoposti a vincoli di assunzioni e di spesa ed in regola con le prescrizioni del patto di stabilità interno e rispettare gli obiettivi legislativi finalizzati alla riduzione della spesa e le disposizioni sulle dotazioni organiche. Inoltre, 'qualora si verifichino tutte le condizioni sopra richiamate, i trasferimenti per mobilità possono derogare ai vincoli normativamente previsti (quale, ad esempio, quello disposto per gli enti 'virtuosi' nel limite del 20 % della spesa corrispondente alle cessazioni dell'anno precedente)'.
---------------
[1] Cfr. sez. reg. di controllo per il Veneto, deliberazione n. 65/2013/PAR.
[2] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per il Veneto, deliberazione n. 162/2013/PAR.
[3] Cfr. Corte dei conti, sez. reg. di controllo per il Veneto, deliberazione n. 227/2010. Peraltro, la citata Corte ritiene che gli adempimenti di cui al comma 1, dell'art. 30, del d.lgs. 165/2001, vadano espletati qualora si voglia procedere senza ricorrere alla c.d. mobilità reciproca. Dello stesso tenore, nell'ambito della disciplina regionale della mobilità reciproca tra amministrazioni del comparto unico, appare l'art. 13, comma 19-bis, della l.r. 24/2009, che dispensa le amministrazioni interessate dall'approvazione di un avviso di mobilità ad evidenza pubblica, nel caso in cui l'applicazione della procedura di mobilità individuale avvenga, a richiesta dei lavoratori e con contestuale trasferimento reciproco, tra due enti facenti parte del comparto unico regionale, cedente e accettante, previo consenso degli enti medesimi.
[4] Per gli enti locali, tale normativa era rappresentata dall'art. 6, comma 20, del d.p.r. 268/1987, che consentiva il trasferimento del personale tra enti diversi, a domanda del dipendente motivata e documentata e previa intesa delle due amministrazioni, anche in caso di contestuale richiesta da parte di due dipendenti di corrispondente livello professionale.
[5] Cfr. n. 59/CONTR/2010 del 06.12.2010.
[6] Cfr. n. 79/2011/PAR.
[7] Vedasi anche n. 53/2010/CONTR/PAR.
[8] In questo senso è dato argomentarsi anche dalle affermazioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri (cfr. parere n. 4/2010), secondo cui la mobilità non è neutrale e va considerata come un'assunzione quando l'amministrazione cedente non è sottoposta a vincoli assunzionali ed invece lo è l'amministrazione ricevente. Infatti, osserva la Presidenza, una tale situazione produrrebbe la conseguenza per cui la p.a. non sottoposta ad alcun regime limitativo delle assunzioni verrebbe a fungere da serbatoio cui attingere nuovo personale da parte delle p.a. soggette a limitazioni, con alterazione del livello occupazionale e quindi della spesa pubblica
(05.02.2014 -
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PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Congedi straordinari retribuiti per assistenza handicap.
Con sentenza n. 203/2013 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001, nella parte in cui non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto, e alle condizioni stabilite, il parente o l'affine entro il terzo grado convivente, in caso di mancanza, decesso o patologie invalidanti di parenti o affini più prossimi.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità che un affine convivente (es. cognata) possa fruire del congedo retribuito per assistenza a disabile con handicap grave, considerato che il fratello dell'assistito non è mancante/deceduto/invalido, ma ha già utilizzato il periodo massimo consentito dal legislatore per assistere altro portatore di handicap.
Preliminarmente si osserva che il congedo in argomento è disciplinato dall'art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001, modificato da ultimo dal d.lgs. 119/2011
[1], che ha recepito le intervenute pronunce della Corte costituzionale in materia [2], provvedendo ad adeguare il testo normativo de quo.
Alla luce dell'evoluzione normativa, i soggetti legittimati alla fruizione del congedo di cui trattasi sono individuati nel seguente ordine di priorità:
1) coniuge convivente della persona in situazione di handicap grave;
2) padre o madre, anche adottivi o affidatari, della persona in situazione di handicap grave, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge convivente;
3) uno dei figli conviventi della persona in situazione di handicap grave, nel caso in cui il coniuge convivente ed entrambi i genitori del disabile siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti. La possibilità di concedere il beneficio ai figli conviventi si verifica nel caso in cui tutti i soggetti menzionati (coniuge convivente ed entrambi i genitori) si trovino in una delle descritte situazioni (mancanza, decesso, patologie invalidanti);
4) uno dei fratelli o sorelle conviventi nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori ed i figli conviventi della persona in situazione di handicap grave siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti. Anche in tale ipotesi, la possibilità di concedere il beneficio ai fratelli conviventi si verifica solo nel caso in cui tutti i soggetti menzionati (coniuge convivente, entrambi i genitori e tutti i figli conviventi) si trovino in una delle descritte situazioni (mancanza, decesso, patologie invalidanti).
Recentemente è intervenuta sulla materia un'ulteriore pronuncia della Corte costituzionale
[3], cui si è rivolto il TAR della Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione al disposto dell'art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001, 'nella parte in cui, in assenza di altri soggetti idonei, non consente ad altro parente o affine convivente di persona con handicap in situazione di gravità, debitamente accertata, di poter fruire del congedo straordinario', ovvero, solo in via subordinata, 'nella parte in cui non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto l'affine di terzo grado convivente, in assenza di altri soggetti idonei a prendersi cura della persona' [4].
Esaminando la questione posta, la Corte costituzionale ha evidenziato che il congedo straordinario in argomento, benché fosse originariamente concepito come strumento di tutela rafforzata della maternità in caso di figli portatori di handicap grave e sia tuttora inserito in un testo normativo dedicato alla tutela e al sostegno della maternità e della paternità, ha assunto una portata più ampia. La progressiva estensione del complesso dei soggetti aventi titolo a richiedere il congedo, operata soprattutto dalla Consulta medesima, ne ha dilatato l'ambito di applicazione oltre i rapporti genitoriali, per ricomprendere anche le relazioni tra figli e genitori disabili, e ancora, in altra direzione, i rapporti tra coniugi o tra fratelli.
La Corte costituzionale ha evidenziato che la dichiarazione di illegittimità costituzionale è volta a consentire che, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti degli altri soggetti menzionati nella disposizione censurata, e rispettando il rigoroso ordine di priorità da essa stabilito, un parente o affine entro il terzo grado, convivente con il disabile, possa sopperire alle esigenze di cura dell'assistito, sospendendo l'attività lavorativa per un tempo determinato. Peraltro, il legislatore ha già riconosciuto il ruolo dei parenti e degli affini entro il terzo grado proprio nell'assistenza ai disabili in condizioni di gravità, attribuendo loro il diritto a tre giorni di permessi retribuiti su base mensile, ai sensi dell'art. 33, comma 3, della l. 104/1992.
E' da sottolineare come la Corte costituzionale, nel dichiarare l'illegittimità dell'art. 42, comma 5, del d.lgs. 151/2001, nella parte in cui non include nel novero dei soggetti legittimati a fruire del congedo ivi previsto, e alle condizioni ivi stabilite, il parente o l'affine entro il terzo grado convivente, abbia comunque ribadito il presupposto essenziale, che ciò possa avvenire esclusivamente in caso di mancanza, decesso o patologie invalidanti di parenti o affini più prossimi.
Pertanto, alla luce della riportata sentenza, il congedo di cui trattasi può essere riconosciuto, in subordine, anche ai parenti o affini entro il terzo grado, conviventi della persona disabile in situazione di gravità, solo nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori, i figli conviventi e i fratelli o sorelle conviventi siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti.
Si precisa infine che, per quanto concerne i concetti di 'mancanza' e 'patologie invalidanti', il Dipartimento della funzione pubblica
[5] ha fornito a suo tempo indicazioni interpretative. A tal proposito si osserva che, nella locuzione 'mancanti', non è considerata la situazione (ricorrente nel caso di specie) in cui il soggetto (in ipotesi) legittimato a fruire del congedo in argomento abbia esaurito il limite massimo individuale dei due anni.
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[1] Cfr. art. 4.
[2] Come, infatti, rappresentato dal Dipartimento della funzione pubblica (cfr. circolare n. 1/2012), dopo l'entrata in vigore della l. 388/2000, con cui è stato introdotto l'istituto del congedo per l'assistenza alle persone in situazione di handicap grave, la Corte costituzionale in più occasioni ha avuto modo di pronunciarsi sulla disposizione in argomento, estendendo la possibilità di fruire di detto congedo anche in favore dei figli conviventi di persone con handicap grave in caso di mancanza di altri soggetti idonei (cfr. sentenza n. 19/2009).
[3] Cfr. sentenza n. 203 del 2013.
[4] La Consulta ha dichiarato inammissibile la prima questione prospettata, mirante ad una declaratoria di illegittimità della disposizione impugnata 'nella parte in cui, in assenza di altri soggetti idonei, non consente ad altro parente o affine convivente di persona con handicap in situazione di gravità, debitamente accertata, di poter fruire del congedo straordinario'. Tale questione non è stata considerata ammissibile, in ragione del fatto che esigerebbe dalla Corte una pronuncia volta ad introdurre nella disposizione impugnata una previsione di chiusura, di contenuto ampio e indeterminato, in quanto mirante ad estendere la fruibilità del congedo straordinario ad una platea indefinita di soggetti. Pertanto, tale questione, oltre ad eccedere dai limiti della rilevanza nel caso di specie -secondo la Corte costituzionale- avrebbe un petitum indeterminato e chiederebbe alla Corte medesima un intervento additivo, in assenza di una soluzione costituzionalmente necessitata.
[5] Cfr. circolare n. 13/2010
(05.02.2014 -
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PUBBLICO IMPIEGO: Personale degli enti locali. Permessi assistenza.
L'affinità, ai fini della fruizione dei permessi ex art. 33, comma 3, della l. 104/1992, si determina come previsto dall'art. 78 del codice civile, cioè come vincolo esistente tra un coniuge e i parenti dell'altro coniuge. Pertanto, solo il sussistere di un rapporto di parentela può comportare, conseguentemente, la sussistenza del vincolo di affinità.
Il Comune ha chiesto un parere in ordine alla possibilità di concedere i permessi di cui all'art. 33, comma 3, della l. 104/1992 ad un dipendente, per assistere la seconda moglie del suocero, padre del coniuge del dipendente medesimo. Tale persona, sposata in seconde nozze dal suocero, non è quindi la madre del coniuge del dipendente (deceduta).
La citata norma prevede che, a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa.
Il legislatore ha pertanto individuato il presupposto per la fruizione dei permessi in argomento, la sussistenza cioè di un rapporto di coniugio, parentela o affinità tra il beneficiario e la persona in condizione di handicap grave.
Premesso un tanto, la definizione della parentela e dell'affinità si rinviene nelle disposizioni del codice civile, in particolare, negli artt. 74-78.
L'art. 74 stabilisce che la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione sia avvenuta all'interno del matrimonio, sia nel caso in cui sia avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio risulti adottivo.
L'art. 75 precisa che sono parenti in linea retta le persone di cui l'una discende dall'altra; in linea collaterale quelle che, pur avendo uno stipite comune, non discendono l'una dall'altra.
L'art. 76 definisce inoltre le modalità per computare i gradi di parentela, precisando che, nella linea retta, si computano altrettanti gradi quante sono le generazioni, escluso lo stipite.
Nella linea collaterale i gradi si computano dalle generazioni, salendo da uno dei parenti fino allo stipite comune e da questo discendendo all'altro parente, sempre restando escluso lo stipite
[1].
L'art. 78 definisce l'affinità quale vincolo tra un coniuge e i parenti dell'altro coniuge, precisando che, nella linea e nel grado in cui taluno è parente d'uno dei due coniugi, egli è affine dell'altro coniuge
[2].
Per quanto concerne quindi l'affinità, si osserva che la medesima si concretizza, in ogni caso, in relazione ad un sussistente rapporto di parentela. Ad esempio, l'affinità di primo grado tra suocero e genero sussiste in quanto il coniuge è parente di primo grado con il proprio padre.
Al contrario, non può esistere vincolo di affinità in carenza del richiamato vincolo di parentela, come prospettato nella fattispecie oggetto del quesito, in cui la persona da assistere risulta essere la seconda moglie del suocero, persona che non è pertanto legata da un vincolo di parentela con il coniuge del dipendente (non ne è, infatti, la madre).
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[1] A titolo esemplificativo sono: parenti di primo grado, figli e genitori (linea retta); parenti di secondo grado, nonni e nipoti (figli dei figli) in linea retta e fratelli e sorelle, in linea collaterale; parenti di terzo grado, bisnonni e bisnipoti (figli dei nipoti da parte dei figli), in linea retta, zii (fratelli e sorelle dei genitori) e nipoti (figli di fratelli e sorelle) in linea collaterale; parenti di quarto grado, cugini, pronipoti (figli di nipoti da parte di fratelli e sorelle) e prozii (fratelli e sorelle dei nonni), in linea collaterale.
[2] A titolo esemplificativo, sono affini di primo grado suoceri, generi e nuore; affini di secondo grado i cognati
(03.02.2014 -
link a www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito alla possibilità di sanare urbanisticamente un manufatto utilizzando la volumetria di un altro manufatto non più esistente - Comune di Tuscania (Regione Lazio, parere 27.01.2014 n. 155045 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Parere in merito al ricalcolo del contributo di costruzione nel caso di realizzazione di opere autorizzate con precedente permesso di costruire e non eseguite. Art. 15, comma 3, DPR 380/2001 - Comune di Oriolo Romano (Regione Lazio, parere 21.01.2014 n. 33492 di prot.).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

LAVORI PUBBLICI: Certificati Esecuzione Lavori. Disponibile il formulario per la presentazione delle istanze di parere per l’emissione dei CEL.
Per poter raccogliere gli elementi indispensabili per la predisposizione dei numerosi quesiti che giungono all’Autorità in merito alla emissione dei Certificati Esecuzione Lavori (CEL), l’Avcp ha predisposto un formulario che i richiedenti dei pareri dovranno compilare. Il modello è pubblicato nella sezione Servizi-Modulistica (12.02.2014 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Bandi-tipo per i lavori pubblici. Riaperta la consultazione on-line. Invio delle osservazioni fino al 14.03.2014, ore 18.
Con avviso del 30.09.2013, l’Autorità ha deliberato di sospendere la consultazione avente ad oggetto i bandi-tipo per i lavori pubblici, in attesa di conoscere il quadro normativo conseguente al parere n. 3014, reso dal Consiglio di Stato in data 26.06.2013 in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, con il quale sono state dichiarate illegittime alcune rilevanti norme in materia di qualificazione degli esecutori di lavori pubblici.
In considerazione del regime transitorio disposto dall’art. 3, comma 9, del d.l. 30.12.2013, n. 151 (cd. “milleproroghe”) a norma del quale, nelle more di adozione delle disposizioni regolamentari sostitutive delle norme annullate, continuano a trovare applicazione le regole previgenti, l’Autorità ha deliberato di riaprire la consultazione on-line sospesa nel mese di settembre 2013. La riapertura della consultazione è finalizzata a dare l’opportunità a tutti gli operatori del settore di formulare osservazioni sulla documentazione, con particolare riguardo ai soggetti che non hanno ritenuto utile inviare un contributo a seguito della sospensione delle attività.
Il termine per l’invio delle osservazioni è fissato al 14.03.2014.
Si evidenzia che, al fine di garantire una celere definizione dei bandi tipo, tenuto conto che gli stessi saranno comunque aggiornati a seguito dell’adozione delle citate disposizioni regolamentari, la documentazione posta in consultazione non è stata modificata rispetto alla precedente pubblicazione (07.02.2014 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

LAVORI PUBBLICI: Utilizzo dei lavori subappaltati ai fini della qualificazione – annullamento dell’art. 85, comma 1, lett. b), nn. 2 e 3, D.P.R. n. 207/2010.
Qualificazione SOA - Indicazioni interpretative alle Società Organismo di Attestazione per garantire il loro corretto esercizio dell’attività di qualificazione.
Con il Comunicato del Presidente n. 1, del 29.01.2014 ‘Utilizzo dei lavori subappaltati ai fini della qualificazione – annullamento dell’art. 85, comma 1, lett. b), nn. 2 e 3, D.P.R. n. 207/2010’, l’Avcp fornisce indicazioni interpretative alle SOA al fine di garantire il corretto esercizio dell’attività di qualificazione da parte delle stesse società.
In caso di subappalto eccedente le quote del 30 e del 40 per cento –fermo restando quanto previsto dall’art. 37, comma 11, del Codice– l’impresa affidataria può utilizzare, ai fini della qualificazione nella singola categoria scorporabile, l’intero importo dei lavori dalla stessa direttamente eseguiti in tale categoria, nonché una quota dei lavori subappaltati (pari ad un massimo del 30 per cento o del 40 per cento) avvalendosene in alternativa per la qualificazione nella categoria prevalente, ovvero ripartita tra categoria prevalente e categoria scorporabile (comunicato del Presidente 29.01.2014 n. 1 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Linee guida per l'applicazione dell'art. 48 del d.lgs. 12.04.2006, n. 163.
Requisiti speciali per la partecipazione alle gare. In una Determinazione nuove indicazioni operative alle stazioni appaltanti ed agli operatori economici.
In seguito all’evoluzione normativa e giurisprudenziale, relativa al procedimento di verifica dei requisiti speciali per la partecipazione alle procedure di affidamento dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (art. 48 del D.LGS. 12.04.2006, n. 163), l’Autorità ha riesaminato la materia -già affrontata con la Determinazione n. 5 del 2009- con una nuova Determinazione al fine di fornire nuove indicazioni operative alle stazioni appaltanti ed agli operatori economici (determinazione 15.01.2014 n. 1 - link a
www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: AVCPASS: obbligatorietà della PEC personale. Prorogato di 6 mesi il termine del regime transitorio relativo all'obbligatorietà della PEC personale.
Si comunica che il Consiglio dell'Autorità, viste le difficoltà segnalate dalle Stazioni Appaltanti, ha disposto la proroga di 6 mesi del regime transitorio relativo all'obbligatorietà della PEC personale di cui all'art. 9, co. 4, della Deliberazione n. 111 del 20/12/2012 e successive modificazioni intervenute a seguito delle decisioni assunte nelle adunanze dell’8 maggio e del 05.06.2013.
La Stazione Appaltante che nel periodo transitorio ricorra all’utilizzo di caselle di posta elettronica ordinaria è comunque tenuta a:
a. garantire che le caselle di posta elettronica ordinaria utilizzate siano esclusivamente individuali, rilasciate nell’ambito del dominio istituzionale dell’Amministrazione e ad accesso esclusivo del soggetto intestatario;
b. fornire al personale operante in qualità di incaricato del trattamento dei dati le necessarie istruzioni circa il corretto utilizzo delle credenziali di accesso, fermo restando quanto disposto dall’art. 8 della Deliberazione di che trattasi nell’ambito delle misure di sicurezza obbligatorie previste dal D.Lgs. n. 196/2003 (22.01.2014 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Adempimenti nei confronti dell’Avcp - art. 1 L. 190/2012. Pubblicate le FAQ sugli adempimenti di cui all’art. 1, comma 32, della legge 06.11.2012, n. 190.
In seguito alle numerose richieste di chiarimenti riguardanti l’applicazione delle disposizioni contenute nell’art. 1, comma 32, della legge 06.11.2012, n.190 -Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione- è stato pubblicato un set di FAQ sugli aspetti di carattere generale, informatico e di corretta modalità di compilazione della tabella dati predisposta dall’AVCP (16.01.2014 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Proposte di direttive europee in materia di appalti e concessioni. Audizione presso l’AVCP il 28.01.2014.
In vista del recepimento delle prossime direttive europee che semplificheranno la normativa in materia di appalti pubblici (settori ordinari e speciali) e concessioni, l’AVCP è chiamata a contribuire nelle competenti sedi istituzionali, mediante proposte o segnalazioni.
Per conoscere le osservazioni dei soggetti interessati l’Autorità li ha invitati a partecipare all’audizione che si terrà il 28.01.2014 presso la propria sede (14.01.2014 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti (AUSA). Avviato il nuovo servizio AUSA rivolto alle Stazioni appaltanti.
Il servizio, ad accesso riservato, consente l’iscrizione all’Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti (AUSA) e l’aggiornamento, almeno annuale, dei rispettivi dati identificativi, in attuazione di quanto disposto dall’articolo 33-ter del Decreto Legge del 18.10.2012 n. 179, convertito con modificazioni, dalla Legge n. 221 del 17.12.2012.
Pubblicato anche il manuale utente che illustra il funzionamento del sistema (10.01.2014 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Indicazioni interpretative concernenti le modifiche apportate alla disciplina dell’arbitrato nei contratti pubblici dalla legge 06.11.2012, n. 190, recante disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione (determinazione 18.12.2013 n. 6 - link a www.autoritalavoripubblici.it).
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Arbitrato - In una Determinazione le indicazioni sulle modifiche apportate alla disciplina dell’arbitrato nei contratti pubblici.
Pubblicata la Determinazione n. 6, del 18.12.2013 che contiene le indicazioni interpretative concernenti le modifiche apportate alla disciplina dell’arbitrato nei contratti pubblici dalla legge 06.11.2012, n. 190, recante disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione.

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONECiò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante.
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Gli incentivi de quibus, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, hanno la finalità di incoraggiare i dipendenti delle amministrazioni pubbliche ad eseguire attività di progettazione internamente agli uffici, allo scopo di diminuire i costi delle attività collegate alla progettazione delle opere pubbliche. La previsione pone una deroga al principio generale della onnicomprensività del trattamento economico dei dipendenti pubblici e, pertanto, dev’essere interpretata restrittivamente.
Sulla questione non si ravvisano motivi per discostarsi dall’orientamento in materia, ormai consolidato, che emerge da pareri resi da diverse Sezioni regionali di controllo di questa Corte, nel senso che il riferimento ad un “atto di pianificazione”, operato dal richiamato art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006, è da intendersi come limitato ai soli atti che abbiano ad oggetto la pianificazione collegata alla realizzazione di opere pubbliche, e non anche ad atti di pianificazione generale, quali possono essere la redazione del piano regolatore o di una variante generale
.
Gli atti di pianificazione generale, infatti, costituiscono diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente e non giustificano la deroga al principio di onnicomprensività della retribuzione.
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L’art. 92, comma 6, non può costituire titolo per l’erogazione di speciali compensi ai dipendenti che svolgono attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla redazione di atti di pianificazione affidata a professionisti esterni. Ciò in quanto “tale disposizione, infatti, abilita (nella misura autoritativamente fissata dalla legge) a riconoscere uno speciale compenso, al di là del trattamento economico ordinariamente spettante, solo in presenza dei due seguenti elementi di fattispecie:
a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri d’ufficio dei dipendenti, nel contesto dell’attività di governo del territorio;
b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia stata esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi dell’art. 90, comma 6.
La ratio di tale norma eccezionale è quella di rendere attraente per i professionisti ad alta qualificazione la resa delle loro prestazioni nel contesto di un rapporto di lavoro subordinato con la p.a.; infatti, «laddove le amministrazioni pubbliche non disponessero di personale interno qualificato, dovrebbero ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato».

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Il sindaco del Comune di Olginate, con nota prot. n. 747 del giorno 20.01.2014, ha posto alla Sezione un quesito in merito alla possibilità di riconoscere ed erogare al personale dipendente il compenso previsto dall'art. 92, comma 6, del Codice dei contratti pubblici nel caso di formazione del PGT, comprendente zone F destinate alla realizzazione di opere pubbliche, redatto da professionista esterno appositamente incaricato.
Più nello specifico il Comune evidenzia come la fattispecie risulterebbe costituita dai seguenti elementi:
• “affidamento incarico a libero professionista per la redazione dello strumento urbanistico con richiesta ed ottenimento di una congrua riduzione del preventivo di spesa per onorari;
• regolare espletamento dell'incarico e liquidazione del compenso;
• richiesta da parte del personale dipendente dell'area tecnica di riconoscimento del 30% della tariffa professionale a compenso dell'attività svolta quale, ad esempio:
a) Presentazione all' Amministrazione delle richieste dei vari soggetti, elaborazione e svolgimento di attività di supporto necessaria ai fini decisionali;
b) Incontri con vari soggetti per raccogliere le istanze da sottoporre all'urbanista incaricato;
c) Verifica cartografica e aggiornamento aerofotogrammetrico necessarie alla formazione del PGT;
d) Presentazione al pubblico e ad Enti delle attività propedeutiche all'adozione PGT;
e) Incontri con funzionari Provincia per raccordo PGT con PTCP;
f) Incontri con funzionari Arpa per raccordo PGT con zonizzazione acustica dei Comuni limitrofi;
g) Controllo e verifica completezza documenti PGT e VAS;
h) Aggiornamento mappatura reti di scarico acque reflue e supporto alla redazione del PUGSS;
i) attività di supporto nella fase di ricevimento delle osservazioni e predisposizione delle osservazioni d'ufficio;
l) attività legate all'incarico di autorità competente per la VAS;
m) partecipazione a consigli comunali, incontri e riunioni per l'approvazione della VAS, VIC e PGT;
n) Predisposizione copie, inoltro ed adeguamento files ai vari Enti;
o) verifica cartografica aree fabbricabili con comunicazione ai proprietari
”.
Il Comune rappresenta, altresì, che la “posizione di questo Ente in ordine al riconoscimento degli incentivi per le attività di pianificazione comunque denominate è in linea con quella espressa, a rigor di logica, dalla sezione controllo Veneto con parere 361/2013/PAR”.
Nello specifico si richiama l’attenzione, al fine di corroborare la tesi della riconoscibilità del compenso in analisi al personale dipendente dell’Ente, su uno dei passaggi motivazionali della recente pronunzia della Sezione di controllo per il Veneto, secondo cui “nell'ipotesi di un particolare ulteriore impegno -il quale (pur riconducibile nell'ambito del rapporto di lavoro) richieda, continuativamente o per un determinato periodo di tempo, un'abnegazione di particolare intensità e l'assunzione di specifiche responsabilità- debba essere compensato mediante un adeguamento della prefissata retribuzione ai sensi dell'art. 36, primo comma, Cost., in quanto norma applicabile ad ogni categoria di lavoratori (Cassazione Sezione Lavoro sentenza 05.03.1987, n. 2350 nonché n. 28728 del 23.12.2011)”.
Alla luce di questi elementi, il Comune chiede di sapere “se, in presenza di un incarico esterno per la redazione di uno strumento di pianificazione, sia in tutto o in parte precluso il riconoscimento dei compensi al personale dipendente per lo svolgimento di attività quali quelle esemplificate sopra.
Ove ciò fosse possibile si chiede se il calcolo del 30% sia da commisurare sulle somme pagate al professionista e poi da abbattere della percentuale prevista dal regolamento comunale oppure è da calcolare sulle prestazioni non svolte (peraltro di difficile misurazione) dal professionista esterno
.
...
La richiesta del Comune di Olginate, come sopra ricordato, concerne la possibilità di riconoscere ed erogare al personale dipendente dell’Ente il compenso previsto dall'art. 92, comma 6, del Codice dei contratti pubblici nel caso di formazione del PGT, comprendente zone F destinate alla realizzazione di opere pubbliche, redatto da professionista esterno appositamente incaricato. Giova, preliminarmente, evidenziare come, nella prospettazione del Comune, il quesito interpretativo appaia investire il solo profilo della possibilità di erogazione del suddetto compenso ai dipendenti dell’Ente nel caso in cui il PGT sia stato redatto da professionista esterno, dandosi, in vero, per presupposta la riconoscibilità di tali incentivi al personale per le attività di pianificazione comunque denominate.
Sul punto nella richiesta di parere si precisa che “la posizione di questo Ente in ordine al riconoscimento degli incentivi per le attività di pianificazione comunque denominate è in linea con quella espressa, a rigor di logica, dalla Sezione controllo Veneto con
parere 22.11.2013 n. 361
”. In tale pronuncia si è concluso per l’applicabilità “dell'istituto premiale estesa a ogni atto di pianificazione, anche di carattere mediato”.
Seppur incidentalmente, considerato l’oggetto specifico della richiesta di parere, non può mancarsi di evidenziare come questa Sezione abbia già in più occasioni, anche di recente, perimetrato l’ambito di applicazione del compenso previsto dall'art. 92, comma 6, del Codice dei contratti pubblici (
parere 15.10.2013 n. 442; parere 06.03.2013 n. 72; parere 23.10.2012 n. 440; parere 30.05.2012 n. 259; parere 06.03.2012 n. 57).
In tali pronunce, alle quali si rinvia per un necessario approfondimento di questi profili, si è avuto modo di chiarire che “
ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante” (
parere 06.03.2013 n. 72 di questa Sezione).
Quest’orientamento interpretativo appare, in vero, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., da ultimo, Sezione regione di controllo per il Piemonte deliberazione parere 16.01.2014 n. 8): la Sezione di controllo per l’Emilia Romagna, con una recente pronuncia (
parere 25.06.2013 n. 243), ha avuto modo, in particolare, di precisare come “gli incentivi de quibus, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, hanno la finalità di incoraggiare i dipendenti delle amministrazioni pubbliche ad eseguire attività di progettazione internamente agli uffici, allo scopo di diminuire i costi delle attività collegate alla progettazione delle opere pubbliche. La previsione pone una deroga al principio generale della onnicomprensività del trattamento economico dei dipendenti pubblici e, pertanto, dev’essere interpretata restrittivamente. Sulla questione non si ravvisano motivi per discostarsi dall’orientamento in materia, ormai consolidato, che emerge da pareri resi da diverse Sezioni regionali di controllo di questa Corte, nel senso che il riferimento ad un “atto di pianificazione”, operato dal richiamato art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006, è da intendersi come limitato ai soli atti che abbiano ad oggetto la pianificazione collegata alla realizzazione di opere pubbliche, e non anche ad atti di pianificazione generale, quali possono essere la redazione del piano regolatore o di una variante generale (ex multis, Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Toscana, parere 18.10.2011 n. 213; Sezione regionale di controllo per il Piemonte, parere 30.08.2012 n. 290 e Sezione regionale di controllo Campania, parere 10.04.2013 n. 141). Gli atti di pianificazione generale, infatti, costituiscono diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente e non giustificano la deroga al principio di onnicomprensività della retribuzione”.
Da ultimo su questo profilo si evidenzia come, con parere 21.01.2014 n. 6
, la Sezione regionale di controllo per la Liguria, tenuto conto del contrasto interpretativo sorto a seguito della più volte richiamata pronuncia della Sezione regionale di controllo per il Veneto (parere 22.11.2013 n. 361), abbia sottoposto alla valutazione del Presidente della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174, convertito nella legge 07.12.2012, n. 213, l’opportunità di rimettere alla Sezione delle Autonomie della Corte la seguente questione di massima: “Se l’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006 debba essere interpretato nel senso che il diritto all’incentivo per la redazione di un atto di pianificazione sussiste solo nel caso in cui l’atto di pianificazione è collegato alla realizzazione di opere pubbliche ovvero nel senso che il suddetto diritto sussiste anche nel caso di redazione di atti di pianificazione generale (quali la redazione di un piano urbanistico generale o attuativo ovvero di una variante) ancorché non puntualmente connessi ad un’opera pubblica”.
Tanto doverosamente premesso in via preliminare sull’inquadramento dell’incentivazione ex art. 92, comma 6, d.lgs. 163/2006, e rinviando alle deliberazioni citate per una disamina più approfondita delle sottese argomentazioni interpretative, può ora analizzarsi l’oggetto specifico della richiesta di parere, ovvero “se, in presenza di un incarico esterno per la redazione di uno strumento di pianificazione, sia in tutto o in parte precluso il riconoscimento dei compensi al personale dipendente per lo svolgimento di attività quali quelle esemplificate sopra”.
Anche questo aspetto ha costituito oggetto di puntuale esame da parte di questa Sezione.
Con il
parere 30.05.2012 n. 259 si è avuto modo di precisare che l’art. 92, comma 6, non può costituire titolo per l’erogazione di speciali compensi ai dipendenti che svolgono attività sussidiarie, strumentali o di supporto alla redazione di atti di pianificazione affidata a professionisti esterni. Ciò in quanto “tale disposizione, infatti, abilita (nella misura autoritativamente fissata dalla legge) a riconoscere uno speciale compenso, al di là del trattamento economico ordinariamente spettante, solo in presenza dei due seguenti elementi di fattispecie:
a) sul piano dell’oggetto, che la prestazione consista nella diretta “redazione di un atto di pianificazione”, non in attività variamente sussidiarie che rientrano nei doveri d’ufficio dei dipendenti, nel contesto dell’attività di governo del territorio
(cfr.
il parere 27.01.2009 n. 9 di questa Sezione);
b) implicitamente, che la redazione dello stesso non sia stata esternalizzata ad un professionista esterno ai sensi dell’art. 90, comma 6.
La ratio di tale norma eccezionale è quella di rendere attraente per i professionisti ad alta qualificazione la resa delle loro prestazioni nel contesto di un rapporto di lavoro subordinato con la p.a.; infatti, «laddove le amministrazioni pubbliche non disponessero di personale interno qualificato, dovrebbero ricorrere al mercato attraverso il ricorso a professionisti esterni con possibili aggravi di costi per il bilancio dell’ente interessato»
(SS.RR., in sede nomofilattica di controllo,
deliberazione 04.10.2011 n. 51)”.
Alla luce di questi principi, risulta evidente come, nella concreta fattispecie prospettata nella richiesta di parere in esame non appaiano ricorrere entrambi gli elementi della fattispecie ora richiamati.
Infatti, quanto all’elemento sub a), è evidente che non si tratta della redazione dell’atto di panificazione, ma di specifici compiti e funzioni assolti dal personale dipendente dell'Ente, ovvero di compiti strumentali e comunque svolti nell’ambito della specifica competenza istituzionale dell’ente di governo del territorio, quindi nei doveri d’ufficio. Quanto all’elemento sub b) è incontroversa, come rappresentato dalla stessa Amministrazione richiedente, la non ricorrenza del presupposto implicito sopra evidenziato.
Né, alla luce della ratio della disposizione ora ricordata,
alcun elemento a favore dell’opposta soluzione interpretativa può derivare dalla circostanza che la disponibilità del personale dell’Ente avrebbe “tacitamente consentito e reso possibile lo sconto offerto dal professionista esterno incaricato”. L’attività che sarebbe chiamata a svolgere il personale dell’Ente, sopra dettagliatamente ricordata, appare, infatti, pienamente riconducibile tra i doveri d’ufficio dei dipendenti, nel contesto dell’attività di governo del territorio (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 10.02.2014 n. 62).

INCENTIVO PROGETTAZIONEL'amministrazione non può, in sede di regolamento, adottare disposizioni in contrasto con quanto previsto dalla legge, sia, in particolare, dall'art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 165/2006 che, in generale, dai principi posti in tema di pubblico impiego dal D.lgs. n. 165/2001 e dall'ulteriore normativa di rango primario.
Nello specifico non è legittima l'erogazione dell'intero incentivo, suddiviso dal regolamento interno fra fase di aggiudicazione e fase di esecuzione, nel caso in cui l'opera non sia stata successivamente appaltata ed eseguita (e, di conseguenza, l'attività del personale interno, in relazione a tali ulteriori fasi, non sia stata espletata).
Nel caso in cui l'attività di progettazione sia stata affidata a professionisti esterni, le rispettive quote del fondo incentivante sono devolute in economia, costituendo un risparmio per l'amministrazione. L'eventuale attività prestata dal personale interno prima della fase di aggiudicazione (RUP e "collaboratori" specificatamente individuati ex art. 10 e 92, comma 5, d.lgs. 163/2006), ove l'incentivazione sia prevista dal regolamento interno (e quest'ultimo non richieda anche la successiva aggiudicazione) deve essere limitata alla quota spettante per la fase di gara (e non anche alle quote previste, sempre per RUP e collaboratori, per la fase esecutiva non realizzata). Nessun compenso è dovuto in questo caso (in quanto non riferibile ad attività espletata) per la direzione lavori, il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione ed il collaudo.
Quanto esposto non esclude la valutazione dell'operato dell'amministrazione sia ai fini dell'affidamento ed esecuzione della singola opera o lavoro che del complessivo programma di opere pubbliche attuato nel corso di un più ampio arco temporale. Appare evidente, infatti, che la redazione di un progetto o la pubblicazione di un bando di gara senza la successiva aggiudicazione ed esecuzione dell'opera costituiscono un sintomo di carente programmazione amministrativa (mancata effettuazione di espropri, assenza di titoli abilitativi o autorizzativi urbanistici, etc.), finanziaria (sottostima del fabbisogno, distorsione verso iniziative non preventivate, etc.) o progettuale (emersione di lacune in sede di verifica, incoerenza dei costi, etc.) da parte dell'Ente.
Nel caso tale carente programmazione sia dovuta a colpa dell’amministrazione (o meglio di alcuni suoi organi) appare evidente come non solo il costo per i progetti non utilizzati ma anche l’incentivo attribuito ai dipendenti interni può costituire, in presenza degli altri presupposti previsti dalla legge, voce di danno risarcibile.
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Il Comune di Orzivecchi (BS), con lettera n. 8555/185/2013 chiede quale interpretazione dare al comma 5 dell'art. 92 del D.Lgs. n. 163/2006.
Il quesito viene richiesto sulla base del presupposto che una certa interpretazione dei commi 5 e 6 del citato art. 92 produrrebbe una grave disparità di trattamento tra i tecnici dipendenti di una Pubblica Amministrazione: e ciò perché il comma 5 prevede che l'incentivo ivi previsto opererebbe "solo quando l'opera progettata sia posta a gara", mentre per il comma 6 sarebbe "sufficiente per la liquidazione dell'incentivo tra i dipendenti dell'Amministrazione solo aver redatto l'atto dì pianificazione, a prescindere che l'amministrazione l'abbia poi adottato".
...
Come ha fatto il comune, riportiamo qui il testo integrale delle due norme in questione:
Art. 92, comma 5: "Una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, comprensiva anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 93, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti; limitatamente alle attività di progettazione, l'incentivo corrisposto al singolo, dipendente non può superare l'importo del rispettivo trattamento economico complessivo annuo lordo; le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all’organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono; economie . I soggetti di cui all'articolo 32, comma 1, lettere b) e c), possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri".
Art. 92, comma 6: "Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto".
In primis va rilevato che le due norme non provocano una discriminazione in quanto volte a regolare due fattispecie diverse.
Il comma 5 regolamenta una situazione in cui è implicata, con il responsabile del procedimento, una attività riguardante la progettazione, la sicurezza, la direzione lavori, il collaudo.

Il comma 6, invece, non riguarda un'opera o un lavoro, ma "un atto di pianificazione", che attiene più direttamente al potere operativo e decisionale dell'ente.
Detto questo, il quesito posto dal Comune di Orzivecchi è già stato affrontato da questa Sezione, che ha reso un parere organico ed esaustivo: trattasi del
parere 08.10.2012 n. 425 a cui si rimanda integralmente: del resto, il Comune mostra di conoscere già tale delibera.
In particolare, si riporta qui la parte finale del parere appena citato: "
Alla luce del dettato normativo e dei precedenti sopra richiamati, appare necessario ribadire, in primo luogo, che l'amministrazione non può, in sede di regolamento, adottare disposizioni in contrasto con quanto previsto dalla legge, sia, in particolare, dall'art. 92, comma 5, del d.lgs. n. 165/2006 che, in generale, dai principi posti in tema di pubblico impiego dal D.lgs. n. 165/2001 e dall'ulteriore normativa di rango primario.
Nello specifico non è legittima l'erogazione dell'intero incentivo, suddiviso dal regolamento interno fra fase di aggiudicazione e fase di esecuzione, nel caso in cui l'opera non sia stata successivamente appaltata ed eseguita (e, di conseguenza, l'attività del personale interno, in relazione a tali ulteriori fasi, non sia stata espletata).
Nel caso in cui l'attività di progettazione sia stata affidata a professionisti esterni, le rispettive quote del fondo incentivante sono devolute in economia, costituendo un risparmio per l'amministrazione. L'eventuale attività prestata dal personale interno prima della fase di aggiudicazione (RUP e "collaboratori" specificatamente individuati ex art. 10 e 92, comma 5, d.lgs. 163/2006), ove l'incentivazione sia prevista dal regolamento interno (e quest'ultimo non richieda anche la successiva aggiudicazione) deve essere limitata alla quota spettante per la fase di gara (e non anche alle quote previste, sempre per RUP e collaboratori, per la fase esecutiva non realizzata). Nessun compenso è dovuto in questo caso (in quanto non riferibile ad attività espletata) per la direzione lavori, il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione ed il collaudo.
Quanto esposto non esclude la valutazione dell'operato dell'amministrazione sia ai fini dell'affidamento ed esecuzione della singola opera o lavoro che del complessivo programma di opere pubbliche attuato nel corso di un più ampio arco temporale. Appare evidente, infatti, che la redazione di un progetto o la pubblicazione di un bando di gara senza la successiva aggiudicazione ed esecuzione dell'opera costituiscono un sintomo di carente programmazione amministrativa (mancata effettuazione di espropri, assenza di titoli abilitativi o autorizzativi urbanistici, etc.), finanziaria (sottostima del fabbisogno, distorsione verso iniziative non preventivate, etc.) o progettuale (emersione di lacune in sede di verifica, incoerenza dei costi, etc.) da parte dell'Ente.
Nel caso tale carente programmazione sia dovuta a colpa dell’amministrazione (o meglio di alcuni suoi organi) appare evidente come non solo il costo per i progetti non utilizzati ma anche l’incentivo attribuito ai dipendenti interni può costituire, in presenza degli altri presupposti previsti dalla legge, voce di danno risarcibile
.” (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 05.02.2014 n. 45).

APPALTI FORNITURE: L’art. 1, comma 141, della l. 24.12.2012, n. 228, nel disporre limiti puntuali alle spese per l’acquisto di mobili e arredi, obbliga gli Enti locali al rispetto del tetto complessivo di spesa risultante dall’applicazione dell’insieme dei coefficienti di riduzione della spesa per consumi intermedi previsti da norme in materia di coordinamento della finanza pubblica, consentendo che lo stanziamento in bilancio tra le diverse tipologie di spese soggette a limitazione avvenga in base alle necessità derivanti dalle attività istituzionali dell’Ente.
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Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Cuneo, richiamate le disposizioni contenute nell’art. 5, comma 2, del D.L. n. 95/2012, convertito nella L. n. 135/2012 (limite di spesa per autovetture), nell’art. 6, commi 7, 8, 12, 13, del D.L. n. 78/2010, convertito nella L. n. 122/2010 (limite di spesa per studi e consulenze; per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza; per missioni; per attività di formazione), nell’art. 1, comma 141, della L. n. 228/2012 (limite di spesa per mobili ed arredi), e richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 139/2012 in base alla quale le disposizioni di cui all’art. 6 del D.L. n. 78/2010, convertito nella L. n. 122/2010 “prevedono puntuali misure di riduzione parziale o totale di singole voci di spesa, ma ciò non esclude che da esse possa desumersi un limite complessivo, nell’ambito del quale le Regioni (e gli Enti locali) restano libere di allocare le risorse tra i diversi ambiti e obiettivi di spesa”, ha formulato i seguenti quesiti:
1) E’ possibile esercitare l’autonomia finanziaria del Comune distribuendo i “tagli”, nell’ambito delle tipologie di spesa individuate dai citati provvedimenti legislativi, in modo diverso rispetto a quanto puntualmente disposto dal legislatore, a condizione che venga rispettato il limite complessivo?
2) E’ possibile intendere che dal concetto di “mobili ed arredi”, oggetto di limitazione di spesa all’art. 1, comma 141, della L. n. 228/2012, possano escludersi quelle suppellettili (banchi e cattedre), qualificabili come attrezzature indispensabili per la fruizione delle strutture scolastiche?

Con delibera n. 393/2013 questa Sezione, dopo aver ritenuto ammissibile la richiesta di parere, ha espresso il proprio avviso in ordine al quesito n. 2).
Con riferimento al quesito n. 1) questa Sezione ha sospeso la pronuncia, avendo già la Sezione regionale di controllo per la Lombardia, con delibera n. 296/2013, a seguito di quesito posto dalla Provincia di Sondrio su analoga fattispecie, sospeso la pronuncia e rimesso gli atti al Presidente della Corte dei conti per le valutazioni di competenza ai sensi dell’art. 6, comma 4, del D.L. n. 174/2012, convertito nella L. n. 213/2012.
Con deliberazione n. 26/2013 la Sezione delle Autonomie si è pronunciata sulla questione posta dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia.
...
La questione posta dalla Sezione regionale di controllo per la Lombardia all’esame della Sezione Autonomie ha riguardato la corretta interpretazione dell’art. 1, comma 141, della Legge 24.12.2012, n. 228 (legge di stabilità per il 2013), il quale, nel prevedere la riduzione puntuale della spesa per mobili ed arredi, così dispone: “
Ferme restando le misure di contenimento della spesa già previste dalle vigenti disposizioni, negli anni 2013 e 2014 le amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31.12.2009, n. 196, e successive modificazioni, nonché le autorità indipendenti e la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB) non possono effettuare spese di ammontare superiore al 20 per cento della spesa sostenuta in media negli anni 2010 e 2011 per l'acquisto di mobili e arredi, salvo che l'acquisto sia funzionale alla riduzione delle spese connesse alla conduzione degli immobili. In tal caso il collegio dei revisori dei conti o l'ufficio centrale di bilancio verifica preventivamente i risparmi realizzabili, che devono essere superiori alla minore spesa derivante dall'attuazione del presente comma. La violazione della presente disposizione è valutabile ai fini della responsabilità amministrativa e disciplinare dei dirigenti.”
La Sezione regionale di controllo per la Lombardia ha altresì richiamato il disposto dell’art. 6, commi 7, 8, 12, 13, 14, del D.L. n. 78/2010, convertito nella L. n. 122/2010, nonché dell’art. 5, comma 2, del D.L. n. 95/2012, convertito nella L. n. 135/2012, per prospettare la possibilità di conseguire l’obiettivo di riduzione delle spese per mobili e arredi mediante la gestione unitaria e consolidata dei budget inerenti le varie tipologie di spese di funzionamento oggetto di limitazione da parte di distinte previsioni di legge.
Con deliberazione n. 26/2013 la Sezione delle Autonomie, risolvendo la questione di massima che le è stata sottoposta, ha enunciato il seguente principio di diritto: “
L’art. 1, comma 141, della l. 24.12.2012, n. 228, nel disporre limiti puntuali alle spese per l’acquisto di mobili e arredi, obbliga gli Enti locali al rispetto del tetto complessivo di spesa risultante dall’applicazione dell’insieme dei coefficienti di riduzione della spesa per consumi intermedi previsti da norme in materia di coordinamento della finanza pubblica, consentendo che lo stanziamento in bilancio tra le diverse tipologie di spese soggette a limitazione avvenga in base alle necessità derivanti dalle attività istituzionali dell’Ente”.
L’art. 6, comma 4, del D.L. n. 174/2012, convertito nella L. n. 213/2012 dispone che “In presenza di interpretazioni discordanti delle norme rilevanti per l’attività di controllo o consultiva o per la risoluzione di questioni di massima di particolare rilevanza, la Sezione delle autonomie emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni regionali di controllo si conformano. Resta salva l'applicazione dell'articolo 17, comma 31, del decreto-legge 01.07.2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 03.08.2009, n. 102, nei casi riconosciuti dal Presidente della Corte dei conti di eccezionale rilevanza ai fini del coordinamento della finanza pubblica ovvero qualora si tratti di applicazione di norme che coinvolgono l’attività delle Sezioni centrali di controllo”.
Conseguentemente questa Sezione rende il parere richiesto dal Comune di Cuneo con la nota indicata in epigrafe richiamando e conformandosi al suddetto principio di diritto enunciato dalla Sezione Autonomie
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 03.02.2014 n. 26).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Danno erariale conseguente all'indebita percezione di compensi per progettazione.
La Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Calabria, con la sentenza 03.02.2014 n. 22, condanna al risarcimento del danno patrimoniale cagionato all'amministrazione, un dirigente tecnico che si è liquidato somme per incentivi ex art. 92, d.lgs. 163/2006 per la redazione del documento preliminare alla progettazione nonché la quota spettante ai collaboratori.
Lo stesso fu, infatti, autore del solo documento preliminare alla progettazione e non anche del progetto vero e proprio, per la cui redazione lo stesso dirigente aveva stipulato convenzione d'incarico con una società di ingegneria, riguardante tutte le fasi della progettazione: preliminare, definitiva ed esecutiva dell'opera pubblica in questione.
Né il Codice dei contratti (d.lgs. 163/2006) né il regolamento attuativo (attualmente, d.p.r. 207/2010) riconduce il "documento preliminare alla progettazione" alle fasi proprie del progetto; infatti, come ricorda la Corte: "Anzi, è ben vero il contrario, ove si consideri che in base all'art. 8, lett. e), del D.P.R. n. 554/1999, anch'esso abrogato dal D.P.R. 05.10.2010, n. 207, ma ratione temporis applicabile ai fatti di causa, il documento preliminare rientrava tra i compiti specifici del responsabile del procedimento e aveva una funzione programmatica e di pianificazione dell'intervento, ma non per questo poteva essere considerato un componente dell'elaborato progettuale, come, peraltro, bene evidenziato dall'art. 4, comma 1, del regolamento interno approvato con la deliberazione di Giunta n. ... del ...".
La magistratura contabile, in più occasioni e per gli aspetti generali dell'istituto, ha rimarcato che:
"... l'incentivo non può, nel totale, superare il due per cento della base di gara, per cui, in sede di regolamento interno, ben si potrebbe stabilire una percentuale anche inferiore; che la quantificazione del fondo sarebbe dovuta avvenire sul valore a base di gara, con conseguente esclusione di ogni diverso importo, ad esempio quello di contratto o quello desumibile dallo stato finale; che l'erogazione del compenso avrebbe potuto aver luogo soltanto dopo che il progetto fosse stato posto a base di gara (cfr. art. 2, comma 3, del D.M. n. 84/2008); che gli aventi diritto potevano essere solo le figure tecnico-professionali espressamente richiamate ai fini del riparto, ossia il responsabile del procedimento, il progettista, il direttore dei lavori, i collaudatori, nonché i loro collaboratori; infine, che la parte del fondo non attribuibile, perché riguardante prestazioni affidate a soggetti esterni all'amministrazione, oppure attività che non fossero state accertate, avrebbe dovuto essere destinata ad ‘economia' per l'amministrazione".

Nella fattispecie, inoltre "
il convenuto ha percepito il fondo come collaboratore di sé medesimo in evidente violazione dell'art. 92, comma 5, nella parte in cui, invece, stabiliva la destinazione ad 'economia' non solo per la quota d'incentivo riguardante le attività conferite a soggetti esterni, ma anche per quelle prive del dovuto 'accertamento"'da parte del dirigente, e non vede il Collegio come il ... abbia potuto sindacare, valutare e, dunque, 'accertare' la propria auto-collaborazione".
Le uniche somme che il convenuto poteva legittimamente percepire, dunque, erano solo quelle destinate all'attività del responsabile del procedimento (commento tratto da www.publica.it).
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Dalla documentazione in atti e dagli stessi argomenti usati dal convenuto, si deve, anzi tutto, pacificamente desumere che la progettazione dell’opera ha visto impegnata la sola società d’ingegneria “Sistemi srl”, cui l’incarico era stato conferito mediante la convenzione sottoscritta il 24.07.2008 (peraltro, dallo stesso M.) e alla quale furono liquidate prestazioni per complessivi euro 725.269,59 (cfr. le determinazioni dirigenziali n. 577/2008 e n. 22/2010).
Il convenuto non ha, dunque, partecipato ad alcuna delle fasi di progettazione.
E’ appena il caso, infatti, di ricordare ciò che ormai costituisce patrimonio di conoscenza tecnico-giuridica sin dalla legge quadro nella materia dei lavori pubblici, la n. 109 dell’11.02.1994.
Come ha correttamente osservato la Procura regionale, l’art. 16 di tale legge stabiliva, infatti, che l’attività di progettazione si sarebbe dovuta articolare, secondo tre successivi livelli di approfondimenti tecnici, in preliminare, definitiva ed esecutiva.
Tale articolazione fu, ovviamente, mantenuta dai successivi interventi normativi, primo tra tutti dal Regolamento di attuazione della legge quadro, approvato con il D.P.R. 21.12.1999, n. 554, e dal Codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, quest’ultimo operante, tra l’altro, anche la definitiva abrogazione della menzionata legge n. 109/1994.
Ebbene, sia nel “Regolamento” che nel “Codice”, nessuna disposizione riconduce il “documento preliminare alla progettazione” alle fasi proprie del progetto.
Anzi, è ben vero il contrario, ove si consideri che in base all’art. 8, lett. e), del D.P.R. n. 554/1999, anch’esso abrogato dal D.P.R. 05.10.2010, n. 207, ma ratione temporis applicabile ai fatti di causa, il documento preliminare rientrava tra i compiti specifici del responsabile del procedimento e aveva una funzione programmatica e di pianificazione dell’intervento, ma non per questo poteva essere considerato un componente dell’elaborato progettuale, come, peraltro, bene evidenziato dall’art. 4, comma 1, del regolamento interno approvato con la deliberazione di Giunta n. 298 del 19.10.2004 e su cui il Collegio avrà ancora modo di soffermarsi nel prosieguo della trattazione.
Da quanto osservato si può, quindi, affermare che il convenuto fu estraneo al progetto dei lavori di riqualificazione urbana per l’area di via Asmara e che il documento preliminare alla progettazione era un atto esclusivamente propedeutico alle altre fasi dell’iter procedimentale tecnico-amministrativo dell’opera.
Ciò nonostante, egli ha ritenuto che il diritto al compenso aggiuntivo derivasse proprio dall’aver approntato detto elaborato.
Il cosiddetto fondo d’incentivo alla progettazione ha trovato disciplina nell’art. 92, comma 5, del D.Lgs. n. 163/2006, che ha, appunto, stabilito la ripartizione di “una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, (…), per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti (…); le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie”.
A tale disposizione ha, poi, fatto seguito il D.M. 17.03.2008, n. 84 – “Regolamento recante norme per la ripartizione dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 5, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163”.
Ebbene, la magistratura contabile ha avuto modo di soffermarsi su tali normative (cfr. Sezione Autonomie
delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Piemonte parere 30.08.2012 n. 290, Sezione Lombardia parere 06.03.2012 n. 57 e parere 30.05.2012 n. 259 e parere 06.03.2013 n. 72), evidenziandone la portata derogatoria rispetto al generalissimo principio dell’onnicomprensività e della previa determinazione contrattuale del trattamento economico spettante al pubblico dipendente, e il rinvio, in essa contenuto, a un regolamento dell’amministrazione per la concreta disciplina del fondo.
Ancora,
la giurisprudenza ha rimarcato:
- che l’incentivo non può, nel totale, superare il due per cento della base di gara, per cui, in sede di regolamento interno, ben si potrebbe stabilire una percentuale anche inferiore;
- che la quantificazione del fondo sarebbe dovuta avvenire sul valore a base di gara, con conseguente esclusione di ogni diverso importo, ad esempio quello di contratto o quello desumibile dallo stato finale; che l’erogazione del compenso avrebbe potuto aver luogo soltanto dopo che il progetto fosse stato posto a base di gara (cfr. art. 2, comma 3, del D.M. n. 84/2008);
- che gli aventi diritto potevano essere solo le figure tecnico-professionali espressamente richiamate ai fini del riparto, ossia il responsabile del procedimento, il progettista, il direttore dei lavori, i collaudatori, nonché i loro collaboratori;
- infine, che la parte del fondo non attribuibile, perché riguardante prestazioni affidate a soggetti esterni all’amministrazione, oppure attività che non fossero state accertate, avrebbe dovuto essere destinata ad “economia” per l’amministrazione
.
Come già fatto cenno, il Comune di Gioia Tauro si è dotato di un proprio regolamento con la deliberazione di Giunta n. 298/2004, e l’ha fatto riportandosi ai criteri del menzionato D.P.R. n. 554/1999, sia per le attività ammissibili al riparto che per la quantificazione del fondo e per l’individuazione delle figure professionali beneficiarie, mentre con particolare riferimento al “quando” della liquidazione, l’ha subordinata al “collaudo delle opere” e alla emissione “degli atti di liquidazione finale” (art. 12 del regolamento), con ciò privilegiando un presupposto ben più stringente rispetto a quello che poi sarebbe stato previsto dall’art. 2, comma 3, del D.M. n. 84/2008 (per tali norme, infatti, ai fini della corresponsione dell’incentivo sarebbe stato sufficiente che il progetto fosse posto “a base di gara”).
Tutto ciò chiarito, tornando alla condotta del M., dopo aver esaminato la documentazione in atti e la determina dirigenziale n. 566 del 05.12.2008, non ritiene il Collegio che la liquidazione del compenso oggetto di domanda sia stata operata nel rispetto di detti criteri.
Il primo profilo che, infatti, risalta come evidentemente censurabile, è che la liquidazione abbia riguardato anche la parte dell’incentivo destinata alla progettazione.
E invero, determinato il fondo in euro 100.000,00 (il 2% dell’intero valore dell’opera pari a 5.000.000,00 di euro), il M. si è riconosciuto un importo di 10.000,00 euro, applicando con ciò la percentuale (10%) prevista dall’art. 7 del regolamento interno per la progettazione al “livello di progetto preliminare”, ma, come più volte rimarcato, tale attività lo ha visto del tutto estraneo.
Altrettanto deve dirsi per la percentuale destinata al compito di coordinatore per la sicurezza della progettazione, 8.000,00 euro, e per quella riguardante la fase di affidamento dei lavori ed espletamento della gara di appalto, 2.200,00 euro.
In proposito è, infatti, sufficiente osservare come nella menzionata determina n. 566/2008, il dirigente non faccia alcun riferimento all’appalto dei lavori, ma solo all’approvazione del progetto esecutivo avvenuta col provvedimento dirigenziale n. 278 del 31.07.2008, il che, nell’autorizzare a ritenere che dette fasi non fossero ancora espletate, introduce un altro profilo d’illegittimità per l’evidente contrasto della liquidazione così operata con le disposizioni regolamentari interne, segnatamente con l’art. 12 in precedenza commentato, che subordinava la liquidazione del fondo addirittura al collaudo dell’opera.
L’altro profilo meritevole di particolare censura attiene al fatto che i compensi furono liquidati anche per la parte del fondo destinata ai “collaboratori”.
Così è stato per quelli del gruppo progettazione, euro 11.000,00, ma anche per i collaboratori della fase di affidamento lavori ed espletamento della gara, euro 900,00, e per le funzioni di responsabile del procedimento, euro 1.000,00.
Detto in altri termini, il convenuto ha percepito il fondo come collaboratore di sé medesimo in evidente violazione dell’art. 92, comma 5, nella parte in cui, invece, stabiliva la destinazione ad “economia” non solo per la quota d’incentivo riguardante le attività conferite a soggetti esterni, ma anche per quelle prive del dovuto ”accertamento” da parte del dirigente, e non vede il Collegio come il M. abbia potuto sindacare, valutare e, dunque, “accertare” la propria auto-collaborazione.
L’unico incentivo legittimamente percepibile era quello di 4.000,00 euro destinato all’attività di responsabile del procedimento.
Alla luce delle suesposte argomentazioni il Collegio deve, quindi, pervenire alla conclusione che il M. ha cagionato un danno patrimoniale con una condotta senza dubbio connotata da colpa grave.
Sotto il profilo soggettivo,
il suo comportamento è stato, infatti, inescusabilmente riprovevole quanto più si consideri, da un lato, l’oggettiva gravità delle violazioni di norme, legislative e regolamentari, che disciplinavano la ripartizione del fondo, e, dall’altro, il fatto che a commetterle sia stato un dipendente pubblico che rivestiva la qualifica di dirigente comunale, ossia un soggetto chiamato a un ruolo apicale nella struttura organizzativa del Comune con il compito di garantire e tutelare il corretto esercizio di funzioni amministrative sottese al perseguimento del pubblico interesse in ambito locale.
Il danno da porsi a carico del convenuto, tenuto conto del compenso spettante al responsabile del procedimento, va, dunque, quantificato in euro 33.100,00 e, stante la gravità della condotta, non ritiene il Collegio di dover esercitare il potere riduttivo ai sensi dell’art. 52 del R.D. 12.07.1934, n. 1214.

INCARICHI PROFESSIONALI: No all’incarico senza una seria verifica dell’impossibilità di utilizzo delle risorse disponibili all’interno.
Come stabilito dalla legislazione di settore e ampiamente precisato dalla giurisprudenza, infatti, è insufficiente, ai fini di giustificare l’affidamento di un incarico all’esterno, una mera affermazione teorica di carenza di personale idoneo necessitando, invece, una reale ricognizione volta a dare la dimostrazione della carenza di personale nei settori interessati e soprattutto dell’insussistenza di adeguate professionalità interne con le quali far fronte alle esigenze istituzionali.
La giurisprudenza ha, altresì, precisato che soltanto in situazioni del tutto eccezionali risulta possibile ricorrere ad incarichi esterni di alta professionalità ed, in questo caso, tale accertata ed eccezionale impossibilità deve essere valutata in concreto e “caso per caso”, attraverso l'esame della motivazione del provvedimento, che deve essere congrua ed esauriente
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Veneto, sentenza 21.01.2014 n. 26 - massima tratta da www.respamm.it).

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Venendo al merito dell’azione promossa, la domanda di condanna azionata dalla Procura appare fondata e deve, pertanto, essere accolta, sia pure nei limiti della prescrizione di cui sopra, posto che la fattispecie in esame configura un illecito amministrativo, consistente nel conferimento contra legem di un incarico esterno, produttivo di danno erariale.
III.1. Ritiene, infatti, la Sezione che
in fattispecie siano presenti tutti gli elementi tipici della responsabilità amministrativa la quale, come noto, può sussistere ove sia ravvisabile, oltre al danno erariale causalmente collegabile con la condotta/e del/dei convenuto/i, pur se cagionato ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quello di appartenenza, anche l’elemento psicologico del dolo o della colpa grave (art. 1, comma 1, della legge 14.01.1994 n. 20, nel testo sostituito dall’art. 3 del D.L. 23.10.1996 n. 543, convertito nella legge 20.12.1996 n. 639).
Si ricorda in proposito che il conferimento di incarichi e di consulenze a professionisti esterni all'Amministrazione è stato, ed è tuttora, oggetto di esame da parte della Corte dei Conti in sede giurisdizionale e di controllo proprio con la finalità di sanzionare la produzione di danno all'Erario derivante da spese improduttive e non giustificate, attribuite a soggetti estranei all'Amministrazione.
Al riguardo, questa Sezione non può che ribadire quelli che costituiscono principi giurisprudenziali consolidati in materia di conferimenti di incarichi e consulenze esterne intesi a ritenere che,
per l’assolvimento dei compiti istituzionali, l’amministrazione pubblica deve prioritariamente avvalersi delle proprie strutture organizzative e del personale che vi è preposto.
In tale ottica –ed in conformità a quanto stabilito dall’art. 7, comma 6, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165-
è stato ripetutamente affermato che la facoltà, per le pubbliche amministrazioni, di affidare il perseguimento di determinate finalità all’opera di soggetti ad essa esterni, dotati di “particolare e comprovata specializzazione” riveste natura di eccezionalità, può avvenire solo in presenza di situazioni particolari e contingenti, nel rispetto di tutti i presupposti imposti dalla legge quali: la straordinarietà ed eccezionalità delle esigenze da soddisfare, la carenza di strutture e/o di personale interno idoneo, il carattere limitato nel tempo, l’oggetto circoscritto della consulenza, ecc. e deve conformarsi ai criteri di efficacia ed economicità dell'azione amministrativa (cfr., tra le ultime, Corte dei conti, Sez. III Centrale d’Appello, sent. n. 306/10 del 24.02.2010; Sez. II Centrale d’Appello, sent. n. 263 del 26.08.2008; Sez. I Centrale d’Appello, sent. 220/2008 del 01.04.2008; Sez. Veneto, sent. n. 471/2010) ed ai principi di imparzialità e buon andamento sanciti dall’art. 97 Cost..
In base a quanto sin qui detto, pertanto,
l'affidamento di incarichi a soggetti esterni non consegue ad una libera ed incondizionata scelta (nel senso di ricorrervi o meno), ma è strettamente collegata alla effettiva sussistenza del carattere di eccezionalità della contingente situazione, quale sopra delineata.
Le esposte considerazioni, in definitiva, se da un lato attestano che nell’ordinamento vigente, salvo i limiti posti alla spesa pubblica, non sussiste alcun divieto, di carattere generale per le Pubbliche Amministrazioni di conferire a soggetti estranei incarichi professionali per l’assolvimento di determinati compiti, dall’altro, tuttavia, confermano che il ricorso a tale strumento convenzionale non può concretizzarsi se non nel rispetto dei limiti e delle condizioni sopra specificati.
In ragione di ciò
la giurisprudenza della Corte dei conti, sia in sede di controllo (SS.RR delib. n. 6/CONTR/05 del 15.02.2005) sia in sede giurisdizionale ha dettato principi e criteri direttivi in grado di orientare utilmente l'interprete e l'operatore, pur nella varietà e complessità delle situazioni concrete, sulla base dei quali l’incarico (o la consulenza) esterno può essere ritenuto legittimo qualora ci sia:
a) rispondenza agli obiettivi dell’amministrazione;
b) inesistenza, all’interno della propria organizzazione, della figura professionale idonea allo svolgimento dell’incarico, da accertare per mezzo di una reale ricognizione;
c) indicazione specifica dei contenuti e dei criteri per lo svolgimento dell’incarico;
d) indicazione della durata dell’incarico;
e) proporzione fra il compenso corrisposto all’incaricato e l’utilità conseguita dall’amministrazione. La mancanza anche di una sola delle riferite condizioni, rende il conferimento dell'incarico illecito di talché il compenso ad esso conseguente costituisce ingiusto depauperamento delle finanze dell'Ent
e (cfr. Sezioni Riunite, 12.06.1998 n. 27).
A quanto sopra,
il dettato normativo di riferimento ha aggiunto l’ulteriore requisito che l’incaricato esterno sia un esperto nella materia, la cui competenza deve risultare provata, ovvero emergente da dati oggettivi.
Dal predetto impianto normativo e giurisprudenziale si può dunque ritenere che
il conferimento di consulenze esterne, per poter rimanere ancorato a principi di legittimità e liceità delle relative scelte, deve essere caratterizzato da alto contenuto di professionalità ma soprattutto dalla necessità di inserire temporaneamente nell'organizzazione dell'Amministrazione, personale di provata competenza per fronteggiare esigenze particolari, e non ordinarie, cui non sia possibile adibire con risultati vantaggiosi, unità di personale già in servizio presso l'Ente.
Più nello specifico, con riferimento alla disciplina regolamentare dell’Amministrazione, al quadro normativo sopra delineato si aggiungono: le disposizioni sulle procedure gestionali in tema di collaborazioni coordinate e continuative e consulenze, approvate con decreto del Commissario Straordinario Arpav del 31.12.2002 n. 1062, le successive disposizioni sulle procedure gestionali approvate con decreto del Commissario Straordinario del 18.04.2006 n. 294 e le disposizioni contenute nel Regolamento Arpav, approvato con DGR della Regione Veneto n. 450 del 28/12/2006.
Le predette disposizioni, infatti, ammettono il ricorso a collaboratori esterni solo per la soluzione di problematiche complesse che necessitino di specifiche competenze professionali, a condizione che non sia possibile avvalersi, con risultato ottimale, del personale in servizio mantenendo gli stessi tempi e modi, ovvero quando sussista l’impossibilità di rispondere ad esigenze derivanti da norme cogenti con il personale in organico o l’esigenza di utilizzare un profilo con professionalità non disponibile all’interno dell’organico. Ad ogni modo l’affidamento deve essere conseguente ad una verifica interna della disponibilità delle figure professionali esistenti a cura del Direttore/Dirigente della Struttura.
III.1.1. Alla luce delle richiamate norme nonché dei principi della consolidata giurisprudenza contabile formatasi in materia, che ha fornito un indubbio supporto ermeneutico, arricchendo la fattispecie astratta di ulteriori requisiti e contenuti,
il conferimento dell’incarico esterno non solo doveva essere giustificato unicamente per far ricorso ad alte professionalità, ma doveva seguire solo dopo un esame approfondito della utilità effettiva della prestazione e dopo il riscontro dell'assenza di risorse umane interne capaci di dare il proprio contributo. L'amministrazione doveva, altresì, accertare -anche attraverso un meccanismo di selezione informale– l’idoneità allo scopo dell’extraneus, le cui capacità dovevano essere formalizzate in atti.
Ciò considerato e premesso, nel caso all’esame, è ampiamente provato dall’Organo requirente e dalla documentazione tutta versata in atti che l’incarico di che trattasi è stato conferito in violazione della prescrizione che imponeva la preliminare verifica dell’impossibilità di utilizzo delle risorse disponibili all’interno, non potendosi considerare tale la mera affermazione di insufficienza d’organico, del tutto generica, senza riferimento a dati concreti, contenuta dalla nota della dott.ssa S. del 22.02.2007 in riscontro a quella del 15.02.2007 del Direttore Generale, dott. D.
Come stabilito dalla legislazione di settore e ampiamente precisato dalla giurisprudenza (cfr. tra le tante: Corte dei Conti, Sez. Calabria n. 62 del 28.01.2010; Sez. Friuli n. 106 del 12.05.2010; Sez. Veneto n. 284 del 20.05/2011; Sez. Sicilia n. 1679 del 29.04.2011 e n. 4037 del 09.12.2011; Sez. Campania n. 144 del 10.02.2012), infatti,
è insufficiente, ai fini di giustificare l’affidamento all’esterno, una mera affermazione teorica di carenza di personale idoneo necessitando, invece, una reale ricognizione volta a dare la dimostrazione della carenza di personale nei settori interessati e soprattutto dell’insussistenza di adeguate professionalità interne con le quali far fronte alle esigenze istituzionali.
La giurisprudenza ha, altresì, precisato che
soltanto in situazioni del tutto eccezionali risulta possibile ricorrere ad incarichi esterni di alta professionalità ed, in questo caso, tale accertata ed eccezionale impossibilità deve essere valutata in concreto e “caso per caso”, attraverso l'esame della motivazione del provvedimento, che deve essere congrua ed esauriente (Corte dei conti, Sez. Contr. Toscana, Delib. 11.05.2005 n. 6).
Conseguentemente, il provvedimento deliberativo dell’affidamento dell’incarico (in specie la più volte richiamata deliberazione del Direttore Generale n. 182 del 29.03.2007) avrebbe dovuto precisare le effettive motivazioni del ricorso a risorse esterne, indicare l’alta ed eccezionale professionalità richiesta nel caso di specie, evidenziare i reali carichi di lavoro del personale interno con professionalità analoghe a quelle richieste e dare contezza della effettuata completa ricognizione delle professionalità esistenti all'interno dell'amministrazione e dei percorsi di formazione e riqualificazione sviluppati, verificando la possibilità o la convenienza di aggiornare il personale non utilizzato (cfr. in termini: Delib. Sez. Contr. Toscana cit.).
In luogo di tutto ciò, invece, la Deliberazione di che trattasi si limita semplicemente ad affermare, in maniera del tutto apodittica, senza elementi concreti di valutazione, che: <Vista la corrispondenza intercorsa tra il Direttore Generale e il Dirigente del Servizio Comunicazione ed Educazione Ambientale per l’avvio del progetto sopra indicato; Vista altresì la nota in data 13.03.2007…… con la quale il signor B.S., in riscontro a conforme richiesta del Direttore Generale…….. comunicava la propria disponibilità a collaborare, in forma coordinata e continuativa, per la redazione, sviluppo e svolgimento delle attività inerenti il progetto di cui sopra che, data la particolare specificità, richiede una competenza e professionalità in dinamiche comunicative applicate ai temi ambientali, non disponibile attualmente tra le risorse interne; Considerato che il sunnominato sig. S. è stato individuato sulla base della specifica professionalità posseduta (è iscritto all’Ordine Nazionale dei giornalisti), e della competenza dimostrata nello svolgimento di precedenti collaborazioni intrattenute con Arpav per incarichi analoghi, ed inoltre per il fatto che, nell’immediato, è l’unico a poter organizzare e sviluppare in breve il complesso incarico di cui trattasi, in quanto è a conoscenza dei meccanismi di funzionamento dell’agenzia ed ha già svolto incarichi di analoga complessità anche presso altre Amministrazioni come l’Arpav Friuli Venezia Giulia>.
Come, del resto, giustamente evidenziato dall’Organo Requirente,
il compito affidato all’incaricato esterno non era certo di particolare complessità, e non vi è alcuna prova del fatto che il predetto fosse l’unico in grado di eseguirlo, non potendosi considerare idonea allo scopo la circostanza che lo stesso avesse già in precedenza collaborato con Arpav. Inoltre, le due precedenti collaborazioni, espletate nel 2005 e 2006, non inerivano all’oggetto del conferimento di che trattasi, riguardando l’una, un generico programma di divulgazione ambientale in ambito regionale e l’altra, una attività di informazione ad enti e cittadini sul piano di monitoraggio ambientale dell’autostrada A31 Valdastico sud.
Non provata e, quindi, insussistente anche la ragione d’urgenza, non potendosi considerare tale la circostanza che poiché: “per il progetto Agenda 21 Locale, la Regione percepiva importanti contributi statali e, a sua volta, alimentava il fondo di progetto dell’Arpav, vi era la necessità di non perdere tali finanziamenti dando corretta e tempestiva attuazione del progetto stesso" (pag. 11 memoria di costituzione e difesa del convenuto Drago Andrea).
Inoltre,
l’incarico è stato conferito in violazione delle disposizioni che impongono alle amministrazioni pubbliche di disciplinare e rendere pubbliche, secondo i propri ordinamenti, le procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione (art. 6-bis del D.Lgs 165/2001) posto che l’incarico è stato infatti conferito in maniera diretta (deliberazione del Direttore Generale n. 182 del 29.03.2007), in violazione anche della norma regolamentare interna contenuta al punto 5 delle disposizioni sulle procedure gestionali approvate con decreto del Commissario Straordinario 1062/2002, in virtù della quale “Il conferimento di un incarico di collaborazione è conseguente ad una procedura selettiva, per soli titoli, per esami, o per titoli ed esami, da attuarsi mediante avviso pubblico” nonché in violazione della successiva disposizione contenuta al punto 5.1 delle disposizioni sulle procedure gestionali approvate con decreto del Commissario Straordinario 294/2006 in base alla quale “Il conferimento di un incarico di co.co.co. è conseguente, di norma, ad una procedura selettiva specifica, per soli titoli, per esami, o per titoli ed esami, da attuarsi mediante avviso pubblico”.
Giova, anche da ultimo, evidenziare che la stessa considerazione svolta dalla difesa del convenuto F. (pag. 10 memoria di costituzione e difesa) in relazione al mancato espletamento della gara: <D’altra parte, sin dal 2002 vige in Arpav una deliberazione del Direttore Generale (D.G. 1062 del 31.12.2002) che, all’art. 6 (Consulenza professionale ed occasionale), stabilisce espressamente: “Nel caso sussista la necessità di ricorrere ad una consulenza specialistico-professionale anche occasionale ….l’incarico può essere conferito su base fiduciaria, dopo aver effettuato una scelta tra più esperti di analoga competenza in materia, se esistenti”> avvalora la fondatezza dell’impianto accusatorio posto che, in specie, non vi è stata alcuna scelta tra più esperti né tantomeno è stata data la prova che lo S. fosse l’unico del settore. Tra l’altro come evidenziato in narrativa, e più volte precisato dall’Organo Requirente, l’incarico è stato conferito a soggetto privo di laurea ed a fronte di un curriculum privo della documentazione di supporto.
III.1.2. In specie risultano, poi, violate le disposizioni sui requisiti soggettivi dell’affidatario e sui limiti di compenso.
Infatti, come correttamente evidenziato dalla procura, le disposizioni sulle procedure gestionali approvate con decreto del Commissario Straordinario 1062/2002 e quelle approvate con decreto 294/2006 stabiliscono, per il conferimento di una collaborazione co.co, un compenso lordo annuo fino ad euro 18.000,00, per laureato junior, e fino a 20.000, per laureato senior.
Nonostante l’incaricato esterno non fosse munito di laurea e fosse, quindi, carente del requisito soggettivo per l’affidamento in questione, con deliberazione n. 182 del 29.03.2007, si disponeva il formale affidamento al predetto dell’incarico dietro corresponsione di un compenso lordo omnicomprensivo di € 36.500,00 oltre ad un rimborso spese fino ad un massimo di €. 2.000,00, superiore (raddoppiato) ai limiti stabiliti con D.D.G. n. 1062/2002 <in considerazione dell’elevato livello di professionalità richiesto dall’incarico>.
III.1.3. Risulta, altresì, che il predetto compenso è stato corrisposto per intero, nonostante la prestazione sia stata parziale e, peraltro, ritenuta insufficiente.
L’incaricato avrebbe dovuto curare: lo sviluppo di un progetto finalizzato all’implementazione delle pagine web con l’obiettivo di fornire metodi e strumenti agli operatori, l’aggiornamento dei processi di Agenda 21 attivati in Veneto, l’implementazione della banca dati relativa ai progetti di Agenda 21, la valutazione di risultati positivi e criticità dei progetti finanziati.
L’oggetto della prestazione veniva individuato dal contratto, stipulato il 23.04.2007, e meglio specificato dalla nota del 02.04.2007 della Dirigente del Servizio Comunicazione e Servizio Ambientale.
Come risulta dagli atti di causa, premesso che l’incaricato nell’ottobre del 2007 era transitava presso la Regione, lo stesso nell’arco di tempo considerato aveva eseguito, peraltro parzialmente, solo uno dei punti dell’oggetto contrattuale (il primo punto), ossia “In parte il progetto di implementazione delle pagine web, relative allo sviluppo dei progetti di Agenda 21 locale” (cfr. verbale di audizione del 05.09.2012 della convenuta S.). Ciò nonostante, fino al marzo 2008, ossia fino alla scadenza contrattuale, all’incaricato è stato corrisposto il corrispettivo contrattuale.
Inoltre dalla corrispondenza intervenuta tra l’incaricato e la Dirigente S. emerge con evidenza l’insufficienza qualitativa della prestazione resa.
III.3. In considerazione di tutta quanto sopra addotto,
emerge con tutta evidenza la fondatezza dell’addebito di responsabilità: sono state violate le norme sugli affidamenti degli incarichi, sono state violate le disposizioni sui requisiti soggettivi dell’affidatario e sui limiti di compenso, è stata corrisposto l’intero compenso a fronte sia di una prestazione contrattuale eseguita, dall’incaricato, solo per una parte minima, ed in maniera inadeguata, è stato attestato, sulle note mensili di pagamento, l’avvenuto regolare svolgimento della prestazione, anche dopo l’ottobre del 2007, nonostante il collaboratore avesse smesso l’adempimento contrattuale, transitando presso la Regione e, pertanto, si attestava ciò di cui non si aveva contezza, ignorando che il corrispettivo trova la sua esclusiva ragione nel contratto e nella derivante prestazione da rendere nei modi e termini ivi stabiliti.
La colpa grave dei convenuti è insita nei comportamenti adottati, ampiamente descritti in narrativa, le cui violazioni dei doveri di servizio in relazione a principi e norme dell’agire amministrativo chiari ed inequivocabili, che non era possibile ignorare, sono palesi.
In conseguenza, l’intero corrispettivo pagato all’incaricato, fatti salvi gli effetti della prescrizione di cui sopra, da assumere al lordo, dal momento che le somme sono state erogate da Arpav per intero, è da ritenere causa di ingiusto pregiudizio economico per l’ente pubblico e, pertanto, deve essere risarcito.
Quanto all’apporto causale di ciascun convenuto alla causazione del danno, la Sezione, tenuto conto delle funzioni rivestite e dei comportamenti adottatiti, ritiene congrua ed adeguatamente motivata la ripartizione effettuata dalla Procura dalla quale, pertanto, ritiene di non doversi discostare.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente danno all’immagine se la stampa locale non ne parla.
Per aversi danno risarcibile come conseguenza di un fatto criminoso deve realizzarsi una aggressione all’immagine dell’Ente tale da superare la cd. “soglia minima” della lesione del bene tutelato; in caso contrario si rischierebbe di risarcire la mera violazione dei soli doveri di servizio, non assistita da alcuna deminutio patrimonii in tal modo trasformando, di fatto, il danno all’immagine in una pena accessoria a quella principale.
La lesione dell’immagine, quindi, deve rilevare come negativo riflesso del comportamento antidoveroso (e doloso) del soggetto incardinato nella struttura della P.A. che deteriora ed offusca l’immagine dell’amministrazione pubblica la quale, per definizione, deve possedere, diffondere e difendere valori di onestà, correttezza, trasparenza e legalità ed affidabilità.
Ciò premesso, secondo comune esperienza la diffusione a mezzo stampa della notizia del comportamento illecito, pur essendo solo uno degli elementi qualificanti la fattispecie di danno, è elemento essenziale per il perfezionamento di quel deterioramento del rapporto di fiducia tra cittadini e istituzione pubblica atto a realizzare, quale conseguenza immediata e diretta, la lesione dell’immagine e del prestigio dell’ente pubblico di cui si chiede il ristoro
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz Veneto, sentenza 20.01.2014 n. 25 - massima tratta da www.respamm.it).
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Non sussistente, invece, il danno all’immagine dell’Amministrazione Pubblica.
Giova, in proposito, ricordare come l’azionabilità, innanzi al Giudice contabile, del danno “all’immagine” della Pubblica Amministrazione rappresenti l’approdo di un ultradecennale orientamento giurisprudenziale della Corte dei conti, confortato dalle decisioni della Corte di Cassazione (ex pluribus: Corte dei conti Sezioni Riunite n. 10/QM/2003; Corte di Cassazione SS.UU. n. 5668/1997, n. 3600/2003).
Va inoltre osservato come la materia de qua abbia, recentemente, formato oggetto della peculiare regolamentazione legislativa dettata dall’art. 17 comma 30-ter del decreto legge n. 78/2009 (convertito con modificazioni nella legge 03.08.2009 n. 102, modificato con il decreto legge 03.08.2009 n. 103, convertito con modificazioni dalla legge 03.10. 2009 n. 141), che ne ha delimitato l’ambito di perseguibilità, rispetto ai confini delineati dall’arresto giurisprudenziale, stabilendo che: “Le Procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’art. 7 della legge 27.03.2001 n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell’artt. 1 della legge 14.01.1994 n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale”.
In conseguenza la norma ha circoscritto oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento, innanzi al Giudice Contabile, del danno in presenza di lesione dell’immagine dell’Amministrazione imputabile ad un suo dipendente (Cassazione, SS.UU., sentenze n. 14831/2011 e n. 9188/2012) collegando la proposizione dell’azione risarcitoria del PM contabile alle fattispecie di reato ascrivibili alla categoria dei “delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione”.
Ciò precisato, deve osservarsi che,
per quanto attiene al danno d'immagine anche le persone giuridiche, al pari delle persone fisiche, sono titolari di diritti non patrimoniali, tra i quali il diritto alla propria immagine, vale a dire alla tutela della propria identità personale, del proprio buon nome, della propria reputazione e credibilità in sé considerate. Nel contesto delle persone giuridiche, la tutela di quelle pubbliche e, quindi, delle pubbliche amministrazioni discende, con particolare evidenza, dal dettato costituzionale, in particolare dalla generale previsione dell’art. 2, relativa alla tutela delle formazioni sociali, e dell’art. 97, primo e secondo comma, a cui vanno ad aggiungersi, gli articoli 7 e 10 c.c. relativi alla tutela del nome e dell’immagine della persona, ritenuti applicabili anche alle persone giuridiche.
Secondo il consolidato orientamento della Corte dei conti
(SS.RR, sent. n. 10/QM/2003), ogniqualvolta tale immagine sia offuscata, lesa da gravi comportamenti, si verifica la violazione del diritto personalissimo dell'Ente pubblico “al conseguimento, al mantenimento ed al riconoscimento della propria identità come persona giuridica pubblica”.
La ricostruzione complessiva del danno all’immagine è stata oggetto di rivisitazione da parte delle Sezioni Riunite di questa Corte che, con decisione n. 1/QM/2011, sulla base dei principi affermati dalle Sezioni di Appello, in particolare, nella sentenza della Sezione Terza n. 143/2009, alla luce anche della giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione intervenuta dopo la sentenza delle Sezioni Riunite della Corte dei conti n. 10/QM/2003 (cfr. SS.UU. Cassazione n. 26972 e n. 26975 dell’11.11.2008 e Cass. Civ., sez. III, 04.06.2007, n. 12929), hanno statuito che <
….. il danno all’immagine della Pubblica amministrazione (‘non patrimoniale’), anche se inteso come ‘danno c.d. conseguenza’, è costituito ‘dalla lesione’ all’immagine dell’ente, ‘conseguente’ ai fatti lesivi produttivi della lesione stessa (compimento di reati o altri specifici casi), da non confondersi con ‘le spese necessarie al ripristino’, che costituiscono solo uno dei possibili parametri della quantificazione equitativa del risarcimento>.
Al fine della quantificazione del danno in esame soccorrono i criteri indicati dalle Sezioni Riunite di questa Corte nella sentenza n. 10/QM/2003 e ripresi dalla giurisprudenza contabile successiva, nonché quelli individuati dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, nella recente sentenza n. 15208/2010 ed in particolare:
1) la qualifica apicale nell’ente di appartenenza posseduta dal convenuto al momento del commesso illecito;
2) il notevole disvalore sociale connesso alla gravità del reato unitamente all’entità della pena inflitta;
3) la diffusione della notitia criminis da parte dei mass media ed il rilievo e clamore destato nell’opinione pubblica dalla vicenda.

Un danno siffatto, sul piano dell’elemento oggettivo della condotta materiale dell’illecito amministrativo-contabile che lo provoca, richiede che la condotta stessa sia altamente lesiva del bene-valore che si riflette sull’immagine pubblica così da ingenerare, sul piano dell’elemento sociale del clamore -elemento necessario ai fini della realizzazione della fattispecie dannosa-, una corale disapprovazione ed un diffuso e persistente sentimento di sfiducia della collettività nell’Amministrazione, data la manifesta ed abnorme contrarietà del suo operato in relazione alla violazione dei doveri di servizio, ai fondamentali canoni della legalità, del buon andamento e dell’imparzialità.
Chiaramente, per aversi danno risarcibile, il comportamento illegittimo, deve realizzare una aggressione tale da superare la cd. “soglia minima” della lesione del bene tutelato; in caso contrario si rischierebbe di risarcire la mera violazione dei soli doveri di servizio, non assistita da alcuna deminutio patrimonii (principio ribadito anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione le sentenze gemelle nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11.11.2008) in tal modo trasformando, di fatto, il danno all’immagine in una pena accessoria a quella principale.
La lesione dell’immagine, quindi, deve rilevare come negativo riflesso del comportamento antidoveroso (e doloso) del soggetto incardinato nella struttura della P.A. che deteriora ed offusca l’immagine dell’amministrazione pubblica la quale, per definizione, deve possedere, diffondere e difendere valori di onestà, correttezza, trasparenza e legalità ed affidabilità. Esso deve essere capace di deteriorare il rapporto di fiducia tra la cittadinanza e l’istituzione pubblica a tal punto da realizzare un vero e proprio “danno sociale”.
La lesione dell’immagine e del prestigio dell’ente pubblico, infatti, comporta un pregiudizio al patrimonio pubblico, che è comprensivo anche del diritto dell’ente alla propria identità ed onorabilità e va liquidata in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 del codice civile, tenendo conto delle conseguenze negative che, per dato di comune esperienza, sono riferibili al comportamento lesivo dell’immagine. Di qui la giuridica necessità di determinare l’entità del risarcimento con esclusivo riferimento alla dimensione della lesione (recte: perdita) dell’immagine, quale individuabile in base ai criteri “oggettivi”, “soggettivi” e “sociali” da tempo individuati dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. III^ sent. n. 143/2009, che richiama in proposito Sez. Giur. Reg. Umbria sent. n. 211/R/1995), piuttosto che con riferimento alle somme spese per tale ripristino (Corte dei conti, sez. III App. sent. 01.02.2012, n. 160).
Secondo il costante orientamento di questa Corte, infatti,
il danno all’immagine, in base al principio di immedesimazione organica, di rilievo sociologico ancora prima che giuridico, porta sempre ad identificare l’Amministrazione con il soggetto che per essa ha agito”, così da ricondurre all’Amministrazione medesima tanto gli sviluppi concreti di reale attuazione dei valori di legalità, buon andamento ed imparzialità intrinsecamente connessi all’agire pubblico (ex art. 97 Cost.), quanto i corrispondenti, opposti, disvalori, legati alle forme più gravi di illecito amministrativo contabile, con evidente discredito delle istituzioni pubbliche (Sez. 1^ centr. n. 16/2002; Sez. 3^ centr. 143/2009).
Di particolare interesse la sentenza n. 355/2010 della Corte Costituzionale che ha individuato l’esatto perimetro della tutela risarcitoria accordata dal legislatore alla reputazione delle amministrazioni pubbliche e la valenza giuridica da dare alla norma che la prevede.
L’esposizione dogmatico–normativa-giurisprudenziale per ragioni di completezza va integrata con il richiamo alla novella introdotta dall’art. 1, comma 62, della legge 190, del 06.11.2012 (recante Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella P.A.), in vigore dal 28.11.2012, che ha inserito all’art. 1, della legge 14.01.1994, n. 20, il comma 1-sexies, avente il seguente contenuto: “
Nel giudizio di responsabilità, l’entità del danno all’immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato, si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”. Con tale norma, pertanto, il Legislatore ha pertanto inteso colmare un vuoto normativo prevedendo un parametro di riferimento specifico per la determinazione del “quantum” del danno all’immagine, quale criterio sostanziale di immediata applicazione.
Così delineato il quadro normativo e giurisprudenziale in materia di danno all’immagine pubblica, ritiene il Collegio che, nel caso di specie, non sussistano tutti i presupposti per l’affermazione della responsabilità amministrativa del convenuto per tale peculiare fattispecie di danno erariale.
Secondo comune esperienza, che il Collegio condivide,
la diffusione a mezzo stampa della notizia del comportamento illecito, pur essendo solo uno degli elementi qualificanti la fattispecie di danno, è elemento essenziale per il perfezionamento di quel deterioramento del rapporto di fiducia tra cittadini e istituzione pubblica atto a realizzare, quale conseguenza immediata e diretta, la lesione dell’immagine e del prestigio dell’ente pubblico di cui si chiede il ristoro.
In specie non solo non è stata fornita alcuna prova del clamor fori ma è la stessa Amministrazione Pubblica ad affermare espressamente che <…la vicenda non ha avuto alcuna risonanza sulla stampa locale> (nota della Questura di Verona, Ufficio del Personale, indirizzata alla Procura, del 27.06.2011 versata in atti).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Il termine di decadenza per l’impugnazione della lex specialis di gara decorre dalla pubblicazione della stessa solo nel caso in cui contenga clausole immediatamente escludenti, ma mai nell’ipotesi in cui, per la sua formulazione, dall’applicazione della stessa non possa discendere l’immediata ed automatica esclusione della domanda formulata dal partecipante alla procedura.
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Sussiste l'onere dell'interessato all'immediata impugnazione delle clausole del bando o della lettera di invito sia che prescrivano il possesso di requisiti di ammissione o di partecipazione alla gara la cui carenza determina immediatamente l'effetto escludente, configurandosi il successivo atto di esclusione come meramente dichiarativo e ricognitivo di una lesione già prodotta, sia che impongano oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, assimilabili al possesso dei requisiti soggettivi al cui difetto consegue automaticamente l'esclusione dalla gara.
Per contro il carattere dubbio, equivoco o ambiguo della clausola, nel senso cioè di non rendere immediatamente percepibile l'effetto preclusivo della partecipazione per chi sia privo di un determinato requisito soggettivo richiesto dal bando, ne esclude l'immediata lesività e ne consente l'impugnazione unitamente all'atto di esclusione, applicativo della clausola stessa suscettibile di diverse interpretazioni.

Deve, in proposito, richiamarsi il costante orientamento elaborato dalla giurisprudenza amministrativa in tema di procedure concorsuali pubbliche, in base al quale il termine di decadenza per l’impugnazione della lex specialis di gara decorre dalla pubblicazione della stessa solo nel caso in cui contenga clausole immediatamente escludenti, ma mai nell’ipotesi in cui, per la sua formulazione, dall’applicazione della stessa non possa discendere l’immediata ed automatica esclusione della domanda formulata dal partecipante alla procedura.
E’ stato, invero, affermato che “Sussiste l'onere dell'interessato all'immediata impugnazione delle clausole del bando o della lettera di invito sia che prescrivano il possesso di requisiti di ammissione o di partecipazione alla gara la cui carenza determina immediatamente l'effetto escludente, configurandosi il successivo atto di esclusione come meramente dichiarativo e ricognitivo di una lesione già prodotta, sia che impongano oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, assimilabili al possesso dei requisiti soggettivi al cui difetto consegue automaticamente l'esclusione dalla gara; per contro il carattere dubbio, equivoco o ambiguo della clausola, nel senso cioè di non rendere immediatamente percepibile l'effetto preclusivo della partecipazione per chi sia privo di un determinato requisito soggettivo richiesto dal bando, ne esclude l'immediata lesività e ne consente l'impugnazione unitamente all'atto di esclusione, applicativo della clausola stessa suscettibile di diverse interpretazioni” (Cons. Stato, sez. V, 14.07.2011, n. 4274) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.02.2014 n. 423 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Consolidata giurisprudenza esclude il carattere conformativo di vincoli a verde, servizi e simili, allorché l’attuazione degli stessi può avvenire soltanto ad iniziativa pubblica.
Non appare dubbio il carattere espropriativo del vincolo in questione, attesa non solo l’ammissione fatta dal Comune nel già citato doc. 2, ma anche la consolidata giurisprudenza, che esclude il carattere conformativo di vincoli a verde, servizi e simili, allorché l’attuazione degli stessi può avvenire soltanto ad iniziativa pubblica (così TAR Lombardia, Milano, sez. II, 21.05.2013, n. 1334, con la giurisprudenza, anche del Consiglio di Stato, ivi richiamata) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.02.2014 n. 420 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio ritiene che il potere di applicare misure repressive in materia urbanistica ed edilizia può essere esercitato in ogni tempo, senza necessità, per i relativi provvedimenti, di alcuna specifica motivazione in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre una demolizione.
Il Collegio non ignora l’esistenza di un orientamento difforme secondo il quale invece “il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso” e “il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza” potrebbero ingenerare un affidamento del privato, rispetto al quale sussisterebbe un “onere di congrua motivazione” circa il “pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”; ritiene però che tale orientamento non vada condiviso.
In proposito, il Collegio condivide il rilievo fatto proprio dalla citata decisione C.d.S. 5509/2009, ovvero che di affidamento si può parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente e in modo compiuto reso nota la propria posizione alla p.a., venga indotto da un provvedimento della stessa a ritenere la legittimità del proprio operato, non già nel caso che rileva, in cui si commette un abuso a tutta insaputa della p.a. medesima.
Inoltre, l’abuso edilizio integra un illecito permanente, rappresentato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi; di talché ogni provvedimento repressivo dell’amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, ma interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento.

Il primo motivo, incentrato sul presunto carattere risalente dell’abuso, e sull’altrettanto presunta carenza dell’interesse pubblico a perseguirlo, è infondato per le ragioni già espresse dall’indirizzo giurisprudenziale cui questo Collegio aderisce in merito, citandosi per tutte TAR Brescia sez. I 22.02.2010 n. 860. In tal senso, il Collegio ritiene che il potere di applicare misure repressive in materia urbanistica ed edilizia può essere esercitato in ogni tempo, senza necessità, per i relativi provvedimenti, di alcuna specifica motivazione in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre una demolizione; in senso conforme si sono espresse anche numerose decisioni del C.d.S., ad esempio sez. IV, 15.09.2009 n. 5509, che si cita per tutte.
Il Collegio non ignora l’esistenza di un orientamento difforme, espresso ad esempio da C.d.S. sez. V 04.03.2008 n. 883, secondo il quale invece “il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso” e “il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza” potrebbero ingenerare un affidamento del privato, rispetto al quale sussisterebbe un “onere di congrua motivazione” circa il “pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato”; ritiene però che tale orientamento non vada condiviso.
In proposito, il Collegio condivide il rilievo fatto proprio dalla citata decisione C.d.S. 5509/2009, ovvero che di affidamento si può parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente e in modo compiuto reso nota la propria posizione alla p.a., venga indotto da un provvedimento della stessa a ritenere la legittimità del proprio operato, non già nel caso che rileva, in cui si commette un abuso a tutta insaputa della p.a. medesima. Inoltre, come osservato dalla Sezione nella pure citata sentenza 860/2010, l’abuso edilizio integra un illecito permanente, rappresentato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi; di talché ogni provvedimento repressivo dell’amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, ma interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 07.02.2014 n. 135 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se il comune reprime un abuso edilizio ed il proprietario lo contesta limitandosi alla apodittica asserzione che l'intervento è avvenuto ex ante 1967, e quindi non soggetto ad alcuno titolo edilizio abilitativo, ciò non è sufficiente poiché è sul ricorrente che incombe l'onere di fornire un principio di prova.
Parimenti infondato è il secondo motivo, per cui la costruzione ritenuta abusiva sarebbe in realtà la mera ristrutturazione di un manufatto preesistente al 1967, e quindi non soggetto a titolo alcuno.
Di ciò infatti le ricorrenti –sulle quali incombeva l’onere relativo, così come ritenuto da costante giurisprudenza, per tutte C.d.S. sez. VI 05.08.2013 n. 4075- non hanno fornito neppure un principio di prova, limitandosi alla relativa apodittica asserzione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 07.02.2014 n. 135 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La domanda di accesso è infondata, siccome in contrasto con la previsione dell’articolo 22, comma 4, della legge n. 241del 1990, come sostituito dall’articolo 15 della legge n. 15 del 2005 (in forza del quale “Non sono accessibili le informazioni in possesso di una pubblica amministrazione che non abbiano forma di documento amministrativo, salvo quanto previsto dal decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, in materia di accesso a dati personali da parte della persona cui i dati si riferiscono”), ove abbia a riferimento non già documenti, intesi come forma del contenuto di atti amministrativi già formati (art. 22, comma 1, lettera d), l. n. 241/1990), bensì l’acquisizione di informazioni che la stessa amministrazione dovrebbe appositamente raccogliere, compilare ed esporre in atti e documenti esclusivamente formati allo scopo.
Ancora, è stato affermato che "l'azione per l'accesso agli atti ha ad oggetto la visione ed estrazione di copia di documenti in possesso dell'Amministrazione, mentre non rientra nel suo ambito la pretesa alla formazione di nuovi atti, anche meramente ricognitivi”.

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La peculiarità del rito dell’accesso, che “affida al giudice il potere di ordinare l’esibizione dei documenti…….. dettando, ove occorra, le relative modalità”, rende più stringente l’onere di una indicazione puntuale dei documenti cui si chiede di accedere -anche ove non se ne conoscano gli estremi, ma quali, se di formazione pubblica e, nel caso, a natura endoprocedimentale, avrebbero a dover essere stati formati ai sensi di legge- a che prima l’amministrazione nella sede amministrativa e quindi il giudice in quella processuale siano posti in grado di effettuare le dovute valutazioni in ordine ad ammissibilità e fondatezza della pretesa ed all’ostensibilità (in tutto o in parte) degli atti, oltre che, previamente, all’esistenza di eventuali soggetti controinteressati da ammettere a partecipare al procedimento, ovvero a dover esser stati intimati nel processo.
In ogni caso, ed al di là dei profili formali, il Collegio non può che fare applicazione della risalente e condivisa giurisprudenza secondo cui la “domanda di accesso è infondata, siccome in contrasto con la previsione dell’articolo 22, comma 4, della legge n. 241del 1990, come sostituito dall’articolo 15 della legge n. 15 del 2005 (in forza del quale “Non sono accessibili le informazioni in possesso di una pubblica amministrazione che non abbiano forma di documento amministrativo, salvo quanto previsto dal decreto legislativo 30.06.2003, n. 196, in materia di accesso a dati personali da parte della persona cui i dati si riferiscono”), ove abbia a riferimento non già documenti, intesi come forma del contenuto di atti amministrativi già formati (art. 22, comma 1, lettera d), l. n. 241/1990), bensì l’acquisizione di informazioni che la stessa amministrazione dovrebbe appositamente raccogliere, compilare ed esporre in atti e documenti esclusivamente formati allo scopo” (Tar Campania, sezione quinta, sentenza n. 6801 del 2006), ossia, negli stessi sensi, secondo cui “l'azione per l'accesso agli atti ha ad oggetto la visione ed estrazione di copia di documenti in possesso dell'Amministrazione, mentre non rientra nel suo ambito la pretesa alla formazione di nuovi atti, anche meramente ricognitivi” (Cons. Stato, sezione sesta, 17.01.2008, n. 82, sezione quinta, sentenza 27.05.2011, n. 3190 e 27.09.2004, n. 6326; Tar Campania, questa sesta sezione, n. 3137 del 03.07.2012).
Del resto, osserva ancora il Collegio, alcun dubbio sussiste sulla natura dell’interesse: a che il procedimento si concluda, ed alcun dubbio sussiste sul dato che il rimedio specifico previsto per costringere l’amministrazione ad addivenirvi ben consente, nell’ambito della dialettica processuale, di esser portati a compiuta conoscenza sia dello stato del procedimento che degli atti istruttori già formati, ovvero di quanta documentazione contenuta “nella pratica” e funzionale al soddisfacimento dell’interesse sostanziale che si intende perseguire.
Tanto, nella definitiva precisazione che la peculiarità del rito dell’accesso, che “affida al giudice il potere di ordinare l’esibizione dei documenti…….. dettando, ove occorra, le relative modalità” (cfr., ex multis, Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 3892 del 25.07.2013, n. 3505 del 04.07.2013, n. 5453 del 22.11.2011 e n. 26573 del 02.12.2010), rende più stringente l’onere di una indicazione puntuale dei documenti cui si chiede di accedere -anche ove non se ne conoscano gli estremi, ma quali, se di formazione pubblica e, nel caso, a natura endoprocedimentale, avrebbero a dover essere stati formati ai sensi di legge- a che prima l’amministrazione nella sede amministrativa e quindi il giudice in quella processuale siano posti in grado di effettuare le dovute valutazioni in ordine ad ammissibilità e fondatezza della pretesa ed all’ostensibilità (in tutto o in parte) degli atti, oltre che, previamente, all’esistenza di eventuali soggetti controinteressati da ammettere a partecipare al procedimento, ovvero a dover esser stati intimati nel processo (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 833 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il giudizio sul diritto di accesso non esime da una valutazione circa l'esistenza di una posizione pur sempre differenziata in capo al richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza ed attualità, un interesse conoscitivo.
In altri termini, essere titolare di una situazione giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto, concreto e attuale", essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il soddisfacimento.
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L'ordinamento prevede che l'esibizione dei documenti sia strumentale alla tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la necessità di un collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante impedisce che l'accesso possa essere utilizzato per conseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti della P.A.
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e a partecipare alla formazione di quelli successivi.
Il rapporto di strumentalità sopra evidenziato deve, poi, apparire dalla motivazione enunciata nella richiesta di accesso, che non può quindi ridursi al richiamo a mere e generiche esigenze difensive, ma deve fornire la prova dell'esistenza di un puntuale interesse alla conoscenza della documentazione stessa e della correlazione logico funzionale intercorrente fra la cognizione degli atti e la tutela della posizione giuridica del soggetto che esercita il diritto, permettendo di capire la coerenza di tale interesse con gli scopi alla cui realizzazione il diritto di accesso è preordinato.
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sussiste il diritto dell'organizzazione sindacale ad esercitare il diritto di accesso per la cognizione di documenti che possano coinvolgere sia le prerogative del Sindacato quale istituzione esponenziale di una determinata categoria di lavoratori, sia le posizioni di lavoro di singoli iscritti nel cui interesse e rappresentanza opera l'Associazione.
Rileva, infatti, un duplice profilo di legittimazione che consente di azionare il diritto di accesso da parte delle Organizzazioni Sindacali sia iure proprio, sia a tutela di interessi giuridicamente rilevati della categoria rappresentata, purché tale pretesa non si traduca in un controllo generalizzato sull'attività della P.A., ovvero si riferisca ad ambiti del tutto diversi dal rapporto di lavoro o trovi innanzi a sé posizioni particolarmente tutelate per ragioni di riservatezza.

Vale, anzitutto, richiamare la cornice giuridica di riferimento che, in subiecta materia, consente di perimetrare l’ambito di possibile esplicazione del diritto qui azionato, viepiù nei casi in cui ricorrente è una sigla sindacale.
A tali fini, e secondo un indirizzo già espresso da questa Sezione (cfr. n. 4690 del 21.11.2012), deve preliminarmente evidenziarsi che il giudizio sul diritto di accesso non esime da una valutazione circa l'esistenza di una posizione pur sempre differenziata in capo al richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza ed attualità, un interesse conoscitivo (cfr. da ultimo Cons. St. Ad. Plen. 7/2012).
In altri termini, essere titolare di una situazione giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto, concreto e attuale", essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il soddisfacimento.
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L'ordinamento prevede, infatti, che l'esibizione dei documenti sia strumentale alla tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la necessità di un collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante impedisce che l'accesso possa essere utilizzato per conseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti della P.A.
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e a partecipare alla formazione di quelli successivi (cfr. TAR Roma Lazio sez. II, 01.12.2011, n. 9461).
Il rapporto di strumentalità sopra evidenziato deve, poi, apparire dalla motivazione enunciata nella richiesta di accesso, che non può quindi ridursi al richiamo a mere e generiche esigenze difensive, ma deve fornire la prova dell'esistenza di un puntuale interesse alla conoscenza della documentazione stessa e della correlazione logico funzionale intercorrente fra la cognizione degli atti e la tutela della posizione giuridica del soggetto che esercita il diritto, permettendo di capire la coerenza di tale interesse con gli scopi alla cui realizzazione il diritto di accesso è preordinato.
Orbene, ritiene il collegio che l’istanza di ostensione azionata dalla ricorrente si dispieghi, nei limiti di seguito evidenziati, in perfetta coerenza con i suddetti postulati: ed, invero, è ius receptum in giurisprudenza (si veda, ad esempio C.S. n. 1034/2012 e n. 1351/2009) il principio secondo cui sussiste il diritto dell'organizzazione sindacale ad esercitare il diritto di accesso per la cognizione di documenti che possano coinvolgere sia le prerogative del Sindacato quale istituzione esponenziale di una determinata categoria di lavoratori, sia le posizioni di lavoro di singoli iscritti nel cui interesse e rappresentanza opera l'Associazione. Rileva, infatti, un duplice profilo di legittimazione che consente di azionare il diritto di accesso da parte delle Organizzazioni Sindacali sia iure proprio, sia a tutela di interessi giuridicamente rilevati della categoria rappresentata, purché tale pretesa non si traduca in un controllo generalizzato sull'attività della P.A., ovvero si riferisca ad ambiti del tutto diversi dal rapporto di lavoro o trovi innanzi a sé posizioni particolarmente tutelate per ragioni di riservatezza (si veda, ad esempio: C.S. n. 24/2010 e TAR Trentino - Alto Adige, Trento n. 249/2009) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 826 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di ordine di demolizione di un abuso edilizio, non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

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L'
art. 27 del d.p.r. 380/2001) sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere in zone vincolate e siffatta misura, in ragione dello stesso chiaro valore semantico delle proposizioni letterali all’uopo utilizzate dal legislatore (..”quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate”..), resta applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi.
Del pari, la disposizione di cui all’articolo 27 cit. non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta non trovando la diversa interpretazione accreditata dal ricorrente alcun riscontro nella norma ed essendo contraria alla stessa "ratio legis".
Segnatamente, la diversa opzione ermeneutica, che muove dalla previsione di un vincolo di inedificabilità assoluta, comporta un ingiustificato restringimento dei poteri di vigilanza attribuiti al Comune ponendosi in chiara distonia con la finalità perseguita dal legislatore di attribuire, laddove si tratti di aree meritevoli di una particolare e rafforzata tutela, all'Amministrazione il potere-dovere di ripristinare senza indugio la legalità violata, non operando distinzioni in relazione alla natura assoluta o relativa del vincolo.
D'altro canto, tale interpretazione è confermata anche dal fatto che il comma 2, parte prima, dell'art. 27 cit. si limita a menzionare senza distinzione di sorta il presupposto del "vincolo di inedificabilità", mentre solo nell'ultima parte contiene un espresso riferimento al "vincolo di inedificabilità assoluta" a proposito dei poteri del Soprintendente di procedere alla demolizione.
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L’applicazione della sanzione demolitoria ai sensi dell’art. 27 D.P.R. 380/2001 sarebbe, comunque, doverosa, essendo, peraltro, incontestato che gli interventi edilizi sanzionati non risultano supportati neppure da una D.I.A., così come del tutto sprovvisti della autorizzazione paesistica.
Si osserva, in proposito, in aderenza ad un indirizzo giurisprudenziale più volte affermato da questa Sezione, che l’articolo 27 cit. non distingue tra opere per cui è necessario il permesso di costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la semplice D.I.A. in quanto impone di adottare un provvedimento di demolizione per tutte le opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo paesistico.
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La realizzazione dell’opera in contestazione, in mancanza dei prescritti titoli abilitativi, di per sé stessa, fonda la reazione repressiva dell’organo di vigilanza.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione.
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ anche perché la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabile a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria.
D’altro canto, è ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia: l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso.

Il ricorso è infondato e, pertanto, va respinto.
Giusta quanto anticipato nella premessa in fatto, il presente giudizio verte sulla legittimità dell’ordine di demolizione spedito dal Comune di Bacoli a fronte dell’abusiva realizzazione sul piano di copertura di un preesistente edificio di “un terrazzo di mq. 35,00, di altezza di mt. 3,00, delimitato da parapetto alto mt. 1,00 e completo di pavimentazione con copertura in telaio di scatolari in ferro e tegole rosse. Sul lato est n. 2 vani, di cui uno di mq. 15,00 ed alto mt. 3,00 adibito a wc e vano lavanderia; l’altro vano è di mq. 10,00 alto mt 2,50. Antistante detto vano è stato realizzato un massetto calcestruzzo di mq. 10,00...”.
Nel procedimento delibativo che questo Tribunale è chiamato a svolgere, assume priorità logica l’esame delle censure che investono la legalità estrinseca dell’atto impugnato, vale a dire l’osservanza degli obblighi procedurali, nonché la ricorrenza di quei requisiti di affidabilità formale, la cui esistenza condiziona, in via pregiudiziale, il corretto approccio –in sede di sindacato giurisdizionale- ai profili di contenuto delle determinazioni assunte dall’Amministrazione.
Nella suddetta prospettiva, vanno disattese le doglianze con cui la parte ricorrente lamenta la violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento, la cui cura è imposta all’Autorità procedente dall’art. 7 della legge 241/1990 ovvero, nei procedimenti ad istanza di parte, anche dall’art. 10-bis della medesima legge.
L’infondatezza delle censure in esame discende, invero, come già ripetutamente affermato dalla Sezione (cfr., tra le tante, sentenze n. 1847 del 30.03.2011 e n. 8776 del 25.05.2010) e dal giudice d’appello (cfr. Cons. Stato, sezione quarta, 05.03.2010, n. 1277), dalla ineluttabilità della sanzione repressiva comminata dal Comune di Bacoli, anche a cagione dell’assenza –come di seguito meglio evidenziato- di specifici e rilevanti profili di contestazione in ordine ai presupposti di fatto e di diritto che ne costituiscono il fondamento giustificativo, sicché alcuna alternativa sul piano decisionale si poneva all’Amministrazione procedente.
Dirimente in senso ostativo alle pretese attoree, peraltro, appaiono le previsioni di cui all’art. 21-octies della legge 241/1990, secondo cui “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Alcun pregio hanno, poi, le ulteriori censure con cui parte ricorrente deduce che non sussisterebbero i presupposti di cui all’articolo 27 del d.p.r. 380/2001, in quanto il provvedimento impugnato, ancorché emesso il 12.09.2006, risulta notificato solo il 04.09.2009 ed, inoltre, le opere non erano allo stadio iniziale, ma già da tempo ultimate.
La piana lettura della norma suindicata non evidenzia, infatti, rigide scadenze temporali entro cui esercitare, a pena di perenzione, l’esercizio del potere repressivo qui in rilievo, da intendersi, pertanto, inesauribile siccome connesso alla doverosa e permanente cura dell’interesse pubblico presidiato.
Né può essere condivisa la lettura offerta nell’atto di gravame secondo cui l’applicazione della misura ripristinatoria in argomento potrebbe avere luogo nei soli casi di opere abusive alla stadio iniziale.
Ed invero, la disciplina di settore in esame (id est art. 27 del d.p.r. 380/2001) sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere in zone vincolate e siffatta misura, in ragione dello stesso chiaro valore semantico delle proposizioni letterali all’uopo utilizzate dal legislatore (..”quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate”..), resta applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi.
Del pari, la disposizione di cui all’articolo 27 cit. non vede la sua efficacia limitata alle sole zone di inedificabilità assoluta (Tar Campania, questa sesta sezione, sentenze n. 2076 del 21.04.2010 e n. 1775 del 07.04.2010 e sezione terza, 11.03.2009, n. 1376) non trovando la diversa interpretazione accreditata dal ricorrente alcun riscontro nella norma ed essendo contraria alla stessa "ratio legis".
Segnatamente, la diversa opzione ermeneutica, che muove dalla previsione di un vincolo di inedificabilità assoluta, comporta un ingiustificato restringimento dei poteri di vigilanza attribuiti al Comune ponendosi in chiara distonia con la finalità perseguita dal legislatore di attribuire, laddove si tratti di aree meritevoli di una particolare e rafforzata tutela, all'Amministrazione il potere-dovere di ripristinare senza indugio la legalità violata, non operando distinzioni in relazione alla natura assoluta o relativa del vincolo (cfr. TAR Napoli Campania sez. II, 23.06.2010 n. 15729; TAR Campania Napoli, sez. IV, 12.04.2005, n. 3780).
D'altro canto, tale interpretazione è confermata anche dal fatto che il comma 2, parte prima, dell'art. 27 cit. si limita a menzionare senza distinzione di sorta il presupposto del "vincolo di inedificabilità", mentre solo nell'ultima parte contiene un espresso riferimento al "vincolo di inedificabilità assoluta" a proposito dei poteri del Soprintendente di procedere alla demolizione.
Analoga statuizione reiettiva s’impone rispetto alle doglianze che impingono, mediante argomentazioni generiche, nell’inadeguatezza dell’istruttoria condotta dal Comune di Bacoli ovvero nell’insufficienza del corredo motivazionale dell’atto impugnato.
Sul punto, è sufficiente osservare che alcun dubbio residua sulla completezza delle risultanze istruttorie acquisite dal mentovato Comune attraverso i propri organi, di cui vi è indiretta conferma nella stessa mancanza di una contestazione, in fatto, sulla natura degli abusi accertati.
La puntuale descrizione delle opere abusive sanzionate riflette con assoluta evidenza la rilevanza edilizia dei contestati abusi, fatta palese dalla chiara attitudine dei suddetti interventi a dar vita a manufatti nuovi che, per tipologia e consistenza, ed implicando incrementi di superfici e volumi, generano un significativo impatto sul territorio con conseguente alterazione (anche della proiezione esterna) dell’originario stato dei luoghi.
Giova, infatti, ribadire che le risultanze istruttorie lasciano emergere la realizzazione, da intendersi abusiva in quanto non supportata dal prescritto titolo abilitativo, di “un terrazzo di mq. 35,00, di altezza di mt. 3,00, delimitato da parapetto alto mt. 1,00 e completo di pavimentazione con copertura in telaio di scatolari in ferro e tegole rosse. Sul lato est n. 2 vani, di cui uno di mq. 15,00 ed alto mt. 3,00 adibito a wc e vano lavanderia; l’altro vano è di mq. 10,00 alto mt 2,50. Antistante detto vano è stato realizzato un massetto calcestruzzo di mq. 10,00...”.
In siffatta evenienza, non può essere revocato in dubbio il fatto che l'intervento ricada in zona assoggettata a vicolo paesaggistico, in considerazione -giusta quanto si evince dal preambolo dell’atto impugnato– della sua realizzazione in un'area dichiarata di notevole interesse pubblico con d.m. 15.12.1959 e, pertanto, soggetta alle previsioni di cui al d. l.vo 22.01.2004, n. 42.
In ragione di quanto detto, stante l'evidenziata alterazione dell'aspetto esteriore dei luoghi, l’intervento in questione, per il solo fatto di insistere in zona vincolata, risultava soggetto alla previa acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica (titolo autonomo non conseguibile a sanatoria ex combinato disposto fra art. 146 e successivo art. 167, commi 4 e 5 del medesimo decreto, che esclude sanatorie per interventi non qualificabili come manutentivi o che abbiano determinato la creazione di superfici utili o volumi; Tar Campania, questa sesta sezione, sentenza n. 1973 del 14.04.2010).
Sotto diverso profilo, e cioè dal punto di vista edilizio, la consistenza delle opere realizzate, comportanti aumenti di superfici e di volumi e mutamento della destinazione d’uso, riflettono con assoluta evidenza la sussistenza del contestato abuso che imponeva il previo rilascio (oltre che dell’autorizzazione paesistica anche) del permesso di costruire.
Peraltro, e per mera completezza espositiva, deve rilevarsi che, contrariamente a quanto dedotto nel gravame, non rileva se le opere potessero o meno essere assentite in virtù della presentazione di una mera D.I.A.
Infatti, quand’anche si ritenessero tali le opere qui sanzionate, quod non, va detto che l’applicazione della sanzione demolitoria ai sensi dell’art. 27 D.P.R. 380/2001 sarebbe, comunque, doverosa, essendo, peraltro, incontestato che gli interventi edilizi sanzionati non risultano supportati neppure da una D.I.A., così come del tutto sprovvisti della autorizzazione paesistica. Si osserva, in proposito, in aderenza ad un indirizzo giurisprudenziale più volte affermato da questa Sezione, che l’articolo 27 cit. non distingue tra opere per cui è necessario il permesso di costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la semplice D.I.A. in quanto impone di adottare un provvedimento di demolizione per tutte le opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo paesistico (cfr. Tar Campania, Sez. VI, n. 5516 del 04/12/2013; 5519 del 04.12.2013; Tar Campania, IV Sezione 05.06.2013 n. 2898).
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Sulla scorta delle divisate risultanze istruttorie si rivela immune dalle censure attoree l’ordito motivazionale in cui impinge il provvedimento impugnato, manifestamente idoneo ad evidenziare la consistenza degli abusi in contestazione.
La stessa realizzazione dell’opera in contestazione, in mancanza dei prescritti titoli abilitativi, di per sé stessa, fondava la reazione repressiva dell’organo di vigilanza.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ anche perché la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabile a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria (Tar Campania Napoli, sempre questa sesta sezione, 14.04.2010, n. 1975).
D’altro canto, è ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia (TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5556; TAR Lazio, sez. II-ter, 21.06.1999, n. 1540): l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 825 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di pertinenza in ambito edilizio ha un significato più circoscritto, e si fonda non solo sulla mancanza di autonoma utilizzazione e di autonomo valore del manufatto, ma anche sulle ridotte dimensioni dello stesso, tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio o incidere sul carico urbanistico.
D’altra parte, l’affermata natura pertinenziale delle opere in contestazione nemmeno può essere invocata, con la pretesa automaticità, per elidere il potere repressivo dell’Amministrazione intimata. I beni che hanno civilisticamente natura pertinenziale, invero, non sono necessariamente tali ai fini dell'applicazione delle regole proprie dell'attività edilizia.
In altri termini, la nozione di pertinenza in ambito edilizio ha un significato più circoscritto, e si fonda non solo sulla mancanza di autonoma utilizzazione e di autonomo valore del manufatto, ma anche sulle ridotte dimensioni dello stesso, tali da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio o incidere sul carico urbanistico, caratteristiche queste qui smentite –per le ragioni suddette– dalle risultanze istruttorie e la cui sussistenza deve essere peraltro dimostrata dall'interessato (cfr. Consiglio di Stato sez. V, n. 4997 del 14.10.2013; Cons. Stato, Sez. V, 11.06.2013 n. 3221) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 825 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel vagliare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere deve effettuarsi una valutazione globale delle stesse, atteso che "la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione".
Alcun pregio hanno, poi, le ulteriori censure con cui parte ricorrente, mediante argomentazioni generiche ovvero inconferenti, lamenta l’inadeguatezza dell’istruttoria condotta dal Comune di Serrara Fontana e l’insufficienza del corredo motivazionale dell’atto impugnato.
La puntuale descrizione degli interventi abusivi eseguiti –che hanno portato alla realizzazione di un insieme sistematico di opere- riflette con assoluta evidenza la rilevanza edilizia dei contestati abusi, fatta palese dalla chiara attitudine degli interventi sopra descritti a determinare, nel loro insieme, l’alterazione dell’originario stato dei luoghi, di talché la misura sanzionatoria applicata, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, si rivela del tutto proporzionata alla natura ed alla consistenza degli abusi accertati.
Sul punto deve, anzitutto, rilevarsi che il costrutto giuridico attoreo prende abbrivio da un’erronea premessa metodologica, caratterizzata dall’impropria atomizzazione degli interventi eseguiti, ciascuno dei quali risulta analizzato singolarmente, nonostante la chiara appartenenza ad un medesimo programma edificatorio.
In tal modo, però, è rimasta completamente obliterata quella necessaria visione di insieme che rappresenta una condizione irrinunciabile per la corretta stima dell’impatto delle opere edilizie sul territorio.
Nel vagliare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, come qui accaduto, deve piuttosto effettuarsi una valutazione globale delle stesse, atteso che "la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione" (cfr. in tali sensi, TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.12.2010, n. 26787; Tar Campania, Napoli, sezione sesta, 16.04.2010, n. 1993; 25.02.2010, n. 1155; 09.11.2009, n. 7053; Tar Lombardia, Milano, sezione seconda, 11.03.2010, n. 584)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’articolo 27 dpr 380/2001 non distingue tra opere per cui è necessario il permesso di costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la semplice D.I.A. in quanto impone di adottare un provvedimento di demolizione per tutte le opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo paesistico.
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Deve rilevarsi che l’epoca remota di realizzazione dell’opera abusiva non può determinare, con la pretesa automaticità, l’invalidazione dell’applicata misura ripristinatoria.
L’aspetto temporale assume, invero, una valenza neutra ove la parte interessata non dimostri che l’edificazione sia avvenuta in epoca in cui non era prescritto il necessario titolo abilitativo (come ad esempio per le opere realizzate antecedente al 1967 al di fuori dei centri abitati, con riferimento al profilo urbanistico,nonché anteriormente all’imposizione del vincolo paesaggistica, in relazione all’aspetto paesaggistico).
Vale, infatti, anche in subiecta materia il principio dell'inesauribilità del potere, di talché il comportamento illecito dei privati resta sempre sanzionabile.
Né il fattore tempo in sé può aggravare l’onere di motivazione: l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l'interessato non può dolersi del fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.

Del pari, sotto diverso profilo, l’attitudine delle opere eseguite a determinare un’oggettiva alterazione del pregresso stato dei luoghi è, di per se stessa, idonea a reggere la comminata sanzione della demolizione.
Non rileva, infatti, se le opere potessero o meno essere assentite in virtù della presentazione di una mera D.I.A.
Infatti, quand’anche si ritenessero tali le opere qui sanzionate, va detto che l’applicazione della sanzione demolitoria ai sensi dell’art. 27 D.P.R. 380/2001 sarebbe, comunque, doverosa, essendo, peraltro, incontestato che gli interventi edilizi sanzionati non risultano supportati neppure da una D.I.A., così come del tutto sprovvisti della autorizzazione paesistica. Si osserva, in proposito, in aderenza ad un indirizzo giurisprudenziale più volte affermato da questa Sezione, che l’articolo 27 cit. non distingue tra opere per cui è necessario il permesso di costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la semplice D.I.A. in quanto impone di adottare un provvedimento di demolizione per tutte le opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo paesistico (cfr. Tar Campania, Sez. VI, n. 5516 del 04/12/2013; 5519 del 04.12.2013; Tar Campania, IV Sezione 05.06.2013 n. 2898).
Né assumono rilievo le argomentazioni difensive secondo cui alcune delle opere in contestazione sarebbero risalenti (parapetti, balaustra, pavimentazione del lastrico solare) ovvero risulterebbero realizzate (scala, parapetti) in sostituzione di opere preesistenti e fatte successivamente oggetto di manutenzione straordinaria.
Anche a voler accedere alla ricostruzione offerta dai ricorrenti deve, però, rilevarsi che l’epoca remota di realizzazione dell’opera abusiva non può determinare, con la pretesa automaticità, l’invalidazione dell’applicata misura ripristinatoria.
L’aspetto temporale assume, invero, una valenza neutra ove la parte interessata non dimostri che l’edificazione sia avvenuta in epoca in cui non era prescritto il necessario titolo abilitativo (come ad esempio per le opere realizzate antecedente al 1967 al di fuori dei centri abitati, con riferimento al profilo urbanistico,nonché anteriormente all’imposizione del vincolo paesaggistica, in relazione all’aspetto paesaggistico).
Vale, infatti, anche in subiecta materia il principio dell'inesauribilità del potere, di talché il comportamento illecito dei privati resta sempre sanzionabile (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, 04.05.2012 n. 2592).
Né il fattore tempo in sé può aggravare l’onere di motivazione: l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; non vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l'interessato non può dolersi del fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781; C.d.S., VI, 05.04.2012, n. 2038).
Parimenti deve rilevarsi, quanto alle opere (che si assume) edificate in sostituzione di altre, che anche tali interventi di sostituzione avrebbero dovuto essere preventivamente assentiti. Senza contare che, comunque, non risulta in alcun modo dimostrata la legittima edificazione dell’opera originaria, poi asseritamente sostituita
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli ulteriori interventi abusivi qui in rilievo –che riflettono una chiara valenza innovativa e, pertanto, non possono ritenersi dettati da esigenze di stretta conservazione del manufatto preesistente– ripetono, secondo un indirizzo già espresso dalla Sezione, le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente.
Sicché non può ammettersi "la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive", con conseguente "obbligo del comune di ordinarne la demolizione".
È consolidato, in proposito, l'orientamento della Sezione che vieta qualsivoglia opera accessiva o in prosecuzione di altre per cui sia stato chiesto il condono al di fuori della procedura di cui all'art. 35, co. 13, della L. 47/1985.

Vale, inoltre, aggiungere che "gli ulteriori interventi abusivi qui in rilievo –che riflettono una chiara valenza innovativa e, pertanto, non possono ritenersi dettati da esigenze di stretta conservazione del manufatto preesistente– ripetono, secondo un indirizzo già espresso dalla Sezione, le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente" (cfr. Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione, sentenze 05.05.2010, n. 2811, 10.02.2010, n. 847 e 28.01.2010, n. 423; sezione seconda, 07.11.2008, n. 19372; negli stessi sensi, Cass. penale, sezione terza, 24.10.2008, n. 45070), sicché non può ammettersi "la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive" (Tar Campania, sempre questa sesta sezione, 05.05.2010, n. 2811 cit. e 09.03.2006, n. 2834), con conseguente "obbligo del comune di ordinarne la demolizione".
È consolidato, in proposito, l'orientamento della Sezione (cfr. tra le tante, da ultimo, TAR Napoli Campania sez. VI n. 4037 dell’01.08.2013) che, in uno con la giurisprudenza costante, vieta qualsivoglia opera accessiva o in prosecuzione di altre per cui sia stato chiesto il condono al di fuori della procedura di cui all'art. 35, co. 13, della L. 47/1985 che giammai è stata attivata nel caso di specie
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La disciplina di settore in esame (id est art. 27 del d.p.r. 380/2001) sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere in zone vincolate e siffatta misura, in ragione dello stesso chiaro valore semantico delle proposizioni letterali all’uopo utilizzate dal legislatore (..”quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate”..), resta applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi.
Sulla scorta delle divisate risultanze istruttorie si rivela immune dalle censure attoree l’ordito motivazionale in cui impinge il provvedimento impugnato, manifestamente idoneo ad evidenziare la consistenza degli abusi in contestazione.
La stessa realizzazione dell’opera in contestazione, in mancanza dei prescritti titoli abilitativi, di per se stessa, fondava la reazione repressiva dell’organo di vigilanza.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione.
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ anche perché la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabile a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria.
D’altro canto, è ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia: l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.

Alcun pregio hanno, poi, le ulteriori censure con cui parte ricorrente deduce che non sussisterebbero i presupposti di cui all’articolo 27 del d.p.r. 380/2001, in quanto le opere abusive in contestazione non erano allo stadio iniziale, ma già da tempo ultimate.
Ed invero, la disciplina di settore in esame (id est art. 27 del d.p.r. 380/2001) sanziona con la demolizione la realizzazione senza titolo di nuove opere in zone vincolate e siffatta misura, in ragione dello stesso chiaro valore semantico delle proposizioni letterali all’uopo utilizzate dal legislatore (..”quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate”..), resta applicabile sia che venga accertato l'inizio che l'avvenuta esecuzione di interventi abusivi.
Sulla scorta delle divisate risultanze istruttorie si rivela immune dalle censure attoree l’ordito motivazionale in cui impinge il provvedimento impugnato, manifestamente idoneo ad evidenziare la consistenza degli abusi in contestazione.
La stessa realizzazione dell’opera in contestazione, in mancanza dei prescritti titoli abilitativi, di per se stessa, fondava la reazione repressiva dell’organo di vigilanza.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240).
L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, poi, ‘in re ipsa’ anche perché la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa, fermo comunque che, in presenza dell'operata qualificazione delle opere realizzate, bisognevoli dei prescritti titoli abilitativi e non essendo rilasciabile a posteriori l'autorizzazione paesaggistica, alcuno spazio vi è per far luogo alla sola sanzione pecuniaria (Tar Campania Napoli, sempre questa sesta sezione, 14.04.2010, n. 1975).
D’altro canto, è ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui, una volta accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione ovvero in difformità totale dal titolo abilitativo, non costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia (TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5556; TAR Lazio, sez. II-ter, 21.06.1999, n. 1540): l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Laddove una determinazione amministrativa di segno negativo si fondi su una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse resista alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall'annullamento.
Devono, infatti, ritenersi inammissibili le censure tese a contestare aspetti ulteriori della motivazione i cui eventuali vizi non potrebbero determinare l’annullamento del provvedimento (cfr., ex multis, Consiglio Stato, sez. VI, 29.03.2011, n. 1897, che ribadisce come “laddove una determinazione amministrativa di segno negativo si fondi su una pluralità di ragioni, ciascuna delle quali di per sé idonea a supportarla in modo autonomo, è sufficiente che anche una sola di esse resista alle censure mosse in sede giurisdizionale perché il provvedimento nel suo complesso resti esente dall'annullamento”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il verbale di verifica dello stato dei luoghi da parte della Polizia Municipale ha valore di atto endoprocedimentale, strumentale alle successive determinazioni dell'Ente Locale e ha efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia Municipale, alla quale non è attribuita la competenza all'adozione di atti di amministrazione attiva, all'uopo occorrendo che la competente autorità amministrativa faccia proprio l'esito delle predette attraverso un formale atto di accertamento.
Quanto all’ulteriore mezzo, recante motivi aggiunti e proposto con atto del 17.03.2010, lo stesso, siccome articolato avverso il verbale (rif. 10/LE/09 + 06/09 +05/09 del 22.09.2009) con cui il locale Comando di Polizia Municipale ha accertato l’inadempienza al pregresso ordine di demolizione, va dichiarato inammissibile.
Il verbale di verifica dello stato dei luoghi da parte della Polizia Municipale ha, infatti, valore di atto endoprocedimentale, strumentale alle successive determinazioni dell'Ente Locale e ha efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia Municipale, alla quale non è attribuita la competenza all'adozione di atti di amministrazione attiva, all'uopo occorrendo che la competente autorità amministrativa faccia proprio l'esito delle predette attraverso un formale atto di accertamento (cfr. ex multis TAR Napoli Campania sez. VIII n. 4481 del 30.09.2013)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La questione della concreta operatività dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, in passato assai dibattuta nella giurisprudenza amministrativa, è stata risolta dallo stesso legislatore.
Com’è noto, l'art. 159, comma 2, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, applicabile ratione temporis, stabilisce che "l'amministrazione competente al rilascio dell’autorizzazione dà immediata comunicazione alla soprintendenza delle autorizzazioni rilasciate, trasmettendo la documentazione prodotta dall’interessato nonché le risultanze degli accertamenti eventualmente esperiti. La comunicazione è inviata contestualmente agli interessati, per i quali costituisce avviso di inizio di procedimento, ai sensi e per gli effetti della legge 07.08.1990, n. 241. Nella comunicazione alla soprintendenza l’Autorità competente al rilascio dell’autorizzazione attesta di avere eseguito il contestuale invio agli interessati...".
L’indagine sulla legittimità degli atti impugnati deve, dunque, essere orientata, per quanto concerne la doglianza in esame, alla stregua delle coordinate segnate dalla richiamata disciplina, idonea ad accreditarsi, in ossequio al principio tempus regit actum, quale ineludibile schema di riferimento per il procedimento in esame.
All’interno della descritta cornice regolatoria l'obbligo di comunicazione dell’avviso dell'inizio del procedimento è, dunque, da intendersi assolto nella forma speciale consistente nella comunicazione agli interessati, a cura della stessa autorità preposta alla tutela del vincolo, dell'avvenuta trasmissione alla soprintendenza dell'autorizzazione rilasciata.
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Il provvedimento di annullamento del nulla osta paesaggistico rilasciato dal Comune non ha natura di atto recettizio e, pertanto, il termine perentorio di sessanta giorni, previsto per l'eventuale annullamento, attiene alla sua adozione e non anche alla sua comunicazione.

Tanto premesso, e venendo allo scrutinio delle censure attoree, vanno, anzitutto, disattese le argomentazioni difensive con cui i ricorrenti lamentano la violazione delle garanzie di partecipazione al procedimento.
Al riguardo, mette conto evidenziare che la questione della concreta operatività dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, in passato assai dibattuta nella giurisprudenza amministrativa, è stata risolta dallo stesso legislatore.
Com’è noto, l'art. 159, comma 2, del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, applicabile ratione temporis, stabilisce che "l'amministrazione competente al rilascio dell’autorizzazione dà immediata comunicazione alla soprintendenza delle autorizzazioni rilasciate, trasmettendo la documentazione prodotta dall’interessato nonché le risultanze degli accertamenti eventualmente esperiti. La comunicazione è inviata contestualmente agli interessati, per i quali costituisce avviso di inizio di procedimento, ai sensi e per gli effetti della legge 07.08.1990, n. 241. Nella comunicazione alla soprintendenza l’Autorità competente al rilascio dell’autorizzazione attesta di avere eseguito il contestuale invio agli interessati...".
L’indagine sulla legittimità degli atti impugnati deve, dunque, essere orientata, per quanto concerne la doglianza in esame, alla stregua delle coordinate segnate dalla richiamata disciplina, idonea ad accreditarsi, in ossequio al principio tempus regit actum, quale ineludibile schema di riferimento per il procedimento in esame.
All’interno della descritta cornice regolatoria l'obbligo di comunicazione dell’avviso dell'inizio del procedimento è, dunque, da intendersi assolto nella forma speciale consistente nella comunicazione agli interessati, a cura della stessa autorità preposta alla tutela del vincolo, dell'avvenuta trasmissione alla soprintendenza dell'autorizzazione rilasciata (cfr. cfr. Consiglio di stato, sez. VI, 01.12.2010 , n. 8379; TAR Campania Napoli, sez. VII, 07.09.2010, n. 17333; TAR Campania Salerno, sez. II, 17.01.2011, n. 61; Cons. Stato, sez. VI, 13.02.2009, n. 771; TAR Lazio, Roma, sez. II, 28.03.2007, n. 2723; 23.04.2008, n. 3505; TAR Campania, Salerno, sez. II, 06.11.2008, n. 3702; Napoli, sez. VIII, 08.07.2009, n. 3820; sez. VII, 06.08.2008, n. 9860; 13.10.2009, n. 5407; sez. II, 08.01.2010, n. 19; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 04.08.2008, n. 847; Brescia, sez. I, 01.12.2009, n. 2376; 08.04.2010, n. 1507; TAR Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 22.12.2008, n. 722).
In definitiva, è proprio la puntuale cura degli adempimenti prescritti dal ridetto art. 159 (stimata dallo stesso legislatore come equipollente alla comunicazione ex art. 7 della legge n. 241/1990) a far ritenere pienamente assolti, nel caso in esame, gli obblighi funzionali al rispetto delle cd. garanzie di partecipazione al procedimento: infatti, nello stesso preambolo degli atti impugnati (id est decreti del Soprintendente per i Beni Architettonici e Paesaggistici per Napoli e Provincia, tutti assunti in data 23.06.2009) si dà espressamente atto della spedizione alla parte interessata dell'autorizzazione medio tempore rilasciata, così come la parte dispositiva delle mentovate autorizzazioni comunali recano l’ordine di trasmissione degli atti de quibus anche agli interessati.
In definitiva, può ritenersi pienamente integrato, in ossequio allo speciale modello di riferimento sopra descritto, il contraddittorio procedimentale.
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Occorre, invero, muovere dalla pacifica affermazione giurisprudenziale (cfr. tra le tante Cons. Stato, VI, 10.12.2010, n. 8704; 09.06.2009, n. 3557; TAR Salerno Sez. II 09/02/2010 n. 1391, e tra le meno recenti cfr. Cons. Stato, VI, 17.04.1997, n. 609; 25.09.1995, n. 963) secondo cui il provvedimento di annullamento del nulla osta paesaggistico rilasciato dal Comune non ha natura di atto recettizio e, pertanto, il termine perentorio di sessanta giorni, previsto per l'eventuale annullamento, attiene alla sua adozione e non anche alla sua comunicazione (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 823 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le autorizzazioni comunali che si limitino a rilevare una generica e apodittica integrazione dell'intervento nel contesto paesistico ambientale non assolvono nemmeno in minima parte all'obbligo motivazionale necessario alla legittimità dell'assenso.
E’ ius receptum in giurisprudenza il principio secondo cui il Ministero per i beni e le attività culturali può motivatamente valutare se la gestione del vincolo avviene con un atto legittimo, rispettoso di tutti i principi, e annullare l'autorizzazione che risulti illegittima sotto qualsiasi profilo di eccesso di potere, ma non può sovrapporre le proprie eventuali difformi valutazioni sulla modifica dell'area, se l'autorizzazione non risulti viziata.
Questo limite sussiste, però, soltanto se l'ente che rilascia l'autorizzazione di base abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell'opera. In caso contrario sussiste un vizio di illegittimità per difetto o insufficienza della motivazione e ben possono gli organi ministeriali annullare il provvedimento adottato per vizio di motivazione e indicare le ragioni di merito, sorrette da un puntuale indicazione degli elementi concreti della specifica fattispecie, che concludono per la non compatibilità delle opere edilizie con i valori tutelati.

Ai fini di una compiuta disamina della questione, occorre aver sempre ben presente il sistema dei rapporti tra Autorità delegata e Soprintendenza in materia di gestione del vincolo paesaggistico.
Ai suddetti fini, è necessario prendere abbrivio dai requisiti minimi che l’autorizzazione rilasciata in prima battuta deve necessariamente riflettere per superare il vaglio di legittimità dinanzi all’organo tutorio.
Ed, invero, dalla motivazione dell'autorizzazione si deve poter evincere che essa è immune da profili di eccesso di potere, anche per quanto riguarda l'idoneità dell'istruttoria, l'apprezzamento di tutte le rilevanti circostanze di fatto e la non manifesta irragionevolezza della scelta effettuata.
Di contro, le autorizzazioni comunali, che si limitino a rilevare una generica e apodittica integrazione dell'intervento nel contesto paesistico ambientale, non assolvono nemmeno in minima parte all'obbligo motivazionale necessario alla legittimità dell'assenso (cfr. ex multis Consiglio Stato , sez. VI, 09.12.2010 n. 8645).
E’ ius receptum in giurisprudenza (v. per tutte Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9) il principio secondo cui il Ministero per i beni e le attività culturali può motivatamente valutare se la gestione del vincolo avviene con un atto legittimo, rispettoso di tutti i principi, e annullare l'autorizzazione che risulti illegittima sotto qualsiasi profilo di eccesso di potere, ma non può sovrapporre le proprie eventuali difformi valutazioni sulla modifica dell'area, se l'autorizzazione non risulti viziata.
Questo limite sussiste, però, soltanto se l'ente che rilascia l'autorizzazione di base abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell'opera. In caso contrario sussiste un vizio di illegittimità per difetto o insufficienza della motivazione e ben possono gli organi ministeriali annullare il provvedimento adottato per vizio di motivazione e indicare -anche per evidenziare l'eccesso di potere nell'atto esaminato- le ragioni di merito, sorrette da un puntuale indicazione degli elementi concreti della specifica fattispecie, che concludono per la non compatibilità delle opere edilizie con i valori tutelati (cfr. da ultimo, Consiglio di Stato sez. VI n. 4899 del 04.10.2013, Cons. Stato, VI, 18.01.2012, n. 173; VI, 28.12.2011, n. 6885; VI, 21.09.2011, n. 5292)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 823 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La violazione dell’art. 10-bis della legge generale sul procedimento non produce ex se la invalidità del provvedimento finale, dovendo la disposizione di preavviso di rigetto essere interpretata alla luce dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, per cui occorre valutare il contenuto sostanziale della determinazione conclusiva, allorché questa risulti non incisa dal vizio formale.
In base ad un preciso orientamento giurisprudenziale (Cons. Stato, IV, 04.09.2013, n. 4448), pienamente condivisibile, la violazione dell’art. 10-bis della legge generale sul procedimento non produce ex se la invalidità del provvedimento finale, dovendo la disposizione di preavviso di rigetto essere interpretata alla luce dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, per cui occorre valutare il contenuto sostanziale della determinazione conclusiva, allorché questa risulti non incisa dal vizio formale (in tal senso, ex multis, Cons. Stato Sez. V 10.10.2007 n. 5321).
E poiché il provvedimento in contestazione ha natura vincolata, dovendo l’istanza di sanatoria essere definita unicamente alla stregua delle rigorose diposizioni normative dettate in materia, è evidente che il contenuto del provvedimento adottato dal Comune non avrebbe potuto essere diverso da quello (di diniego) assunto.
La natura dei manufatti abusivi, le loro dimensioni sopra descritte, unitamente alla circostanza che essi ricadono in zona agricola a tutela ai sensi del P.R.G. approvato nel 2002, nonché in area vincolata ai sensi del d.lgs. n. 490/1999 e sottoposta al vincolo ambientale ai sensi del D.M. 12.09.1957, rendono applicabile la disposizione dell’art. 21-octies della legge 241/1990 (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 820 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il casotto in legno, con tettoia a doppia falda sviluppa una superficie utile di mq. 14,44 con altezza al colmo di mt. 2,63, non può qualificarsi alla stregua di pertinenza, sebbene posta al servizio dell’immobile principale, tenendo presente che, ai fini urbanistici, la strumentalità propria della nozione civilistica prescinde dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario.
Non possono ritenersi beni pertinenziali, con conseguente loro assoggettamento al regime concessorio quegli interventi edilizi che, pur legati da un vincolo di servizio al bene principale, tuttavia non sono coessenziali ma ulteriori ad esso poiché occupano e creano aree e volumi diversi, come avviene nel caso di specie con la creazione di una nuova volumetria.

Il casotto, di cui al punto 6 delle premesse dell’atto impugnato, avrebbe, poi, natura pertinenziale e meramente accessoria rispetto al manufatto principale.
La censura deve essere respinta in quanto il casotto in legno, ubicato lungo il viale, con tettoia doppia falda sviluppa una superficie utile di mq. 14,44 con altezza al colmo di mt. 2,63, non può qualificarsi alla stregua di pertinenza, sebbene posta al servizio dell’immobile principale, tenendo presente che, ai fini urbanistici, la strumentalità propria della nozione civilistica prescinde dalla destinazione soggettivamente data dal proprietario; non possono ritenersi beni pertinenziali, con conseguente loro assoggettamento al regime concessorio quegli interventi edilizi che, pur legati da un vincolo di servizio al bene principale, tuttavia non sono coessenziali ma ulteriori ad esso poiché occupano e creano aree e volumi diversi, come avviene nel caso di specie con la creazione di una nuova volumetria
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 816 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio.
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In sede di emanazione di ordinanza di demolizione delle opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente .. e in quanto non vi è alcun obbligo di far luogo ad accertamenti di danni ambientali, ovvero di applicazione di sanzioni pecuniarie alternative.

Va pure respinta la censura di violazione dell’art. 82 della legge 616/1997 e della legge regionale 10/1982, articolata con il quinto motivo di doglianza, con la quale il ricorrente ha censurato la mancata acquisizione del parere della Commissione Edilizia Integrata.
Infatti, come costantemente ribadito in giurisprudenza, “... in sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio” (così, da ultimo, TAR Liguria, Genova, sez. I, 21.09.2011, n. 1393, nello stesso senso vedi pure TAR Campania, Napoli, sez. VI, 05.03.2012, secondo cui “…in sede di emanazione di ordinanza di demolizione delle opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente .. e in quanto non vi è alcun obbligo di far luogo ad accertamenti di danni ambientali, ovvero di applicazione di sanzioni pecuniarie alternative”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 816 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato.

Sotto il primo profilo si osserva come il constante orientamento giurisprudenziali afferma che “… in presenza di un abuso edilizio, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001. Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001 che, in tal caso, obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato” (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 21.11.2013, n. 5226, sez. IV, 06.07.2007, n. 6552) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di demolizione, sufficientemente motivato con la compiuta descrizione dell’abuso, è atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia– e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
Quanto al lamentato difetto di motivazione, poi, deve rilevarsi come il provvedimento di demolizione, sufficientemente motivato con la compiuta descrizione dell’abuso, è atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia– e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati (ex multis TAR Marche, 23.05.2013, n. 372, TAR Piemonte, sez. II, 22.05.2013, n. 620, TAR Campania, Napoli, sez. III, 10.05.2013, n. 2421) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 807 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’adozione del provvedimento ripristinatorio è avvenuta in conformità e non in violazione dell’art. 27 del d.P.R. 380/2001, indifferentemente riferibile a tutti gli interventi realizzati in area sottoposta vincolo in assenza di titolo abilitativo [invero, "la sanzione demolitoria delle opere realizzate senza il richiesto titolo edilizio in zona vincolata è comminata dall'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001, indipendentemente dal se esso sia costituito da un permesso di costruire o da d.i.a. (oggi, s.c.i.a.)”].
Il provvedimento di demolizione, sufficientemente motivato con la compiuta descrizione dell’abuso, è atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia– e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
Il provvedimento di demolizione non richiede una specifica motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico e attuale alla rimozione dell’abuso, non essendo configurabile un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.
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Va respinta la censura di violazione delle garanzie partecipative attesa la natura di atto dovuto dell'ordine di demolizione.

Deve, infatti, osservarsi come:
- l’adozione del provvedimento ripristinatorio è avvenuta in conformità e non in violazione dell’art. 27 del d.P.R. 380/2001, indifferentemente riferibile a tutti gli interventi realizzati in area sottoposta vincolo in assenza di titolo abilitativo (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. IV, 05.06.2013, n. 2898, che rileva come “la sanzione demolitoria delle opere realizzate senza il richiesto titolo edilizio in zona vincolata è comminata dall'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001, indipendentemente dal se esso sia costituito da un permesso di costruire o da d.i.a. (oggi, s.c.i.a.)”);
- il provvedimento di demolizione, sufficientemente motivato con la compiuta descrizione dell’abuso, è atto vincolato -al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia– e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati (ex multis TAR Marche, 23.05.2013, n. 372, TAR Piemonte, sez. II, 22.05.2013, n. 620, TAR Campania, Napoli, sez. III, 10.05.2013, n. 2421);
- il provvedimento di demolizione non richiede una specifica motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico e attuale alla rimozione dell’abuso, non essendo configurabile un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI , 05.08.2013, n. 4075).
Va infine respinta la censura di violazione delle garanzie partecipative, articolata con il quarto motivo di doglianza, attesa la natura di atto dovuto del provvedimento e tenuto altresì conto del fatto che il ricorrente non ha prospettato, neppure in gravame, circostanze idonee a determinare un diverso esito provvedimentale (cfr, ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. III, 15.01.2013, n. 295, TAR Campania, Salerno, sez. II, 28.11.2012, n. 2161) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 806 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanzione pecuniaria va disposta, in via alternativa, “soltanto” nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione e, quindi, “soltanto” nel caso in cui risulti “in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso senza che, pertanto, possano venire in rilievo aspetti relativi all’eccessiva onerosità dell’intervento”.
Infine, “la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi”.
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La vincolatezza del provvedimento comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato); è, infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo.
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La doverosità del provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro carattere doveroso.

Con la seconda censura, parte ricorrente lamenta che non si sarebbe fatta applicazione dell’art. 34 co. 2 D.P.R. 380/2001 allorché stabilisce che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione…»; l’Amministrazione avrebbe quindi dovuto applicare la sanzione pecuniaria in luogo della demolizione.
Il mezzo è infondato per diverse ragioni.
In primo luogo, l’ampliamento realizzato integra una variazione essenziale con conseguente applicabilità dell’art. 33 del D.P.R. 380/2001.
In secondo luogo, anche volendo riferire le censure di parte ricorrente all’analoga disposizione del secondo comma di quest’ultima norma che parimenti esclude la demolizione qualora il ripristino “non sia possibile”, le argomentazioni svolte non possono essere accolte.
Infatti, per gli immobili in area vincolata, l’art. 33, co. 3, D.P.R. 380/2001 prevede pur sempre la rimessione in pristino sia pur «indicando criteri e modalità diretti a ricostituire l'originario organismo edilizio».
Inoltre, l’affermazione sul pregiudizio del preesistente non è supportata da elementi tecnici atti a dimostrare la sussistenza del pregiudizio di cui l’amministrazione si sarebbe dovuta far carico: il che preclude l’ingresso all’accoglimento di tale profilo di denuncia alla stregua del condiviso orientamento giurisprudenziale secondo cui la sanzione pecuniaria va disposta, in via alternativa, “soltanto” nel caso in cui sia “oggettivamente impossibile” procedere alla demolizione e, quindi, “soltanto” nel caso in cui risulti “in maniera inequivoca che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell’edificio nel suo complesso senza che, pertanto, possano venire in rilievo aspetti relativi all’eccessiva onerosità dell’intervento” (cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sezione quinta, sentenze 09.04.2013, n. 1912, 29.11.2012, n. 6071 e 05.09.2011, n. 4982).
Infine, “la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi” (cfr., ex multis, Tar Campania Napoli, questa sesta sezione, 24.07.2012, n. 3538, 18.05.2012, n. 2291, 02.05.2012, n. 2006, 08.04.2011, n. 2039, 15.07.2010, n. 16807 e 14.04.2010, n. 1973; Salerno, sez. II, 13.04.2011, n. 702).
Parimenti infondate sono la terza e la quinta censura con cui si lamentano la carenza istruttoria e motivazionale del provvedimento anche in rapporto all’effettivo interesse pubblico alla demolizione.
Va ribadito, infatti, che la vincolatezza del provvedimento comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato); è, infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VI, n. 9718/2008 e 4037/2013).
Per quanto si è detto, peraltro, neppure può ritenersi sussistente alcun vizio istruttorio, avendo l’amministrazione descritto con precisione l’abuso commesso e qualificato con precisione la fattispecie.
La quarta censura è relativa al mancato rispetto delle garanzie procedimentali di cui alla L. 241/1990 e, in particolare, all’omessa comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990.
Sennonché, come è stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza della sezione, la doverosità del provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro carattere doveroso (cfr., art. 21-octies L. 241/1990 e, in giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, VI sez., n. 3706/2012; Consiglio Stato sez. V, 19.09.2008, n. 4530; TAR Napoli Campania sez. IV, 02.12.2008, n. 20794 e Tar Campania, Napoli, sez. IV, 16.06.2000 n. 2147) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 798 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In presenza di opere edificate senza titolo edilizio, e a maggior ragione in zona vincolata, l’ordinanza di demolizione, sia essa ai sensi dell’art. 31, di cui è stata fatta applicazione nel provvedimento impugnato, che dell’art. 27 D.P.R. 280/2001 (più correttamente applicabile alla fattispecie in esame), è da ritenersi provvedimento rigidamente vincolato.
Ebbene, la doverosità del provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro carattere doveroso.
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La vincolatezza del provvedimento (di demolizione) comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato); è, infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto.

Con la terza censura, si lamenta la violazione delle garanzie procedimentali ai sensi della L. 241/1990 e, in particolare, la mancanza della comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990.
In senso contrario a una positiva delibazione di simili argomentazioni, deve ribadirsi che, come ripetutamente affermato dalla sezione (cfr., da ultimo, sentenza 01.08.2013, n. 4037), in presenza di opere edificate senza titolo edilizio, e a maggior ragione in zona vincolata, l’ordinanza di demolizione, sia essa ai sensi dell’art. 31, di cui è stata fatta applicazione nel provvedimento impugnato, che dell’art. 27 D.P.R. 280/2001 (più correttamente applicabile alla fattispecie in esame), è da ritenersi provvedimento rigidamente vincolato.
Ebbene, la doverosità del provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro carattere doveroso (cfr., art. 21-octies L. 241/1990 e, in giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, VI sez., n. 3706/2012; Consiglio Stato sez. V, 19.09.2008, n. 4530; TAR Napoli Campania sez. IV, 02.12.2008, n. 20794 e Tar Campania, Napoli, sez. IV, 16.06.2000 n. 2147)
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Parimenti infondate sono le ultime tre censure che riguardano profili tutti relativi alla carenza motivazionale del provvedimento; in particolare, si lamenta la mancanza di specifico riferimento alle disposizioni urbanistiche violate e la mancata considerazione del concreto interesse pubblico alla demolizione anche in rapporto all’interesse del privato, sacrificato.
Va ribadito, infatti, che la vincolatezza del provvedimento comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato); è, infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VI, n. 9718/2008 e 4037/2013)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 796 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATA: Ogni competenza del Sindaco, in merito ai provvedimenti ascrivibili alla mera attività di gestione amministrativa in materia edilizia, deve essere ritenuta abrogata in virtù delle disposizioni legislative che hanno inteso separare, anche negli enti locali, la funzione di indirizzo politico da quella, appunto, di gestione amministrativa.
Nel settore dell’edilizia, infatti, prima, l'art. 6, l. n. 127 del 1997, modificando l'art. 51, l. n. 142 del 1990, ha previsto alla lett. f) che spettino alla competenza dei dirigenti «i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie».
Successivamente, la l. n. 191 del 1998 ha, a sua volta, modificato l'art. 6, l. n. 127 del 1997, introducendo la lett. f bis) secondo la quale spettano ai dirigenti «tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale», così espressamente attribuendo alla dirigenza la competenza in materia di applicazione di sanzioni edilizie; a norma dell'art. 51 comma 3, l. 08.06.1990 n. 142 (oggi, d.lgs. 18.08.2000 n. 267), infine, sono di competenza dei dirigenti «tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, che la legge e lo statuto espressamente non riservino agli organi di governo dell'ente».
Peraltro, la stessa norma azionata in questa sede, ossia l’art. 31 del D.P.R. 380/2001, radica la relativa competenza proprio in capo al dirigente.

Infondata è, altresì, la quarta censura relativa all’incompetenza del dirigente che ha emanato l’atto in favore del Sindaco dell’ente.
In proposito, si ribadisce che ogni competenza del Sindaco, in merito ai provvedimenti ascrivibili alla mera attività di gestione amministrativa in materia edilizia, deve essere ritenuta abrogata in virtù delle disposizioni legislative che hanno inteso separare, anche negli enti locali, la funzione di indirizzo politico da quella, appunto, di gestione amministrativa. Nel settore dell’edilizia, infatti, prima, l'art. 6, l. n. 127 del 1997, modificando l'art. 51, l. n. 142 del 1990, ha previsto alla lett. f) che spettino alla competenza dei dirigenti «i provvedimenti di autorizzazione, concessione o analoghi, il cui rilascio presupponga accertamenti e valutazioni, anche di natura discrezionale, nel rispetto di criteri predeterminati dalla legge, dai regolamenti, da atti generali di indirizzo, ivi comprese le autorizzazioni e le concessioni edilizie».
Successivamente, la l. n. 191 del 1998 ha, a sua volta, modificato l'art. 6, l. n. 127 del 1997, introducendo la lett. f bis) secondo la quale spettano ai dirigenti «tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico-ambientale», così espressamente attribuendo alla dirigenza la competenza in materia di applicazione di sanzioni edilizie; a norma dell'art. 51 comma 3, l. 08.06.1990 n. 142 (oggi, d.lgs. 18.08.2000 n. 267), infine, sono di competenza dei dirigenti «tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, che la legge e lo statuto espressamente non riservino agli organi di governo dell'ente» (cfr. TAR Campania Napoli, sez. II, 13.02.2009, n. 802, TAR Campania Napoli, sez. VI, n. 3586/2009).
Peraltro, la stessa norma azionata in questa sede, ossia l’art. 31 del D.P.R. 380/2001, radica la relativa competenza proprio in capo al dirigente
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 796 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio serbato dal Comune sulla domanda di sanatoria ex art. 13, l. 28.02.1985 n. 47, modificato dall'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, è qualificabile come silenzio provvedimentale, con contenuto di rigetto, e non come silenzio inadempimento all'obbligo di provvedere, autonomamente impugnabile.
A fronte di un'istanza di sanatoria, infatti, il silenzio dell'amministrazione costituisce una ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento di rigetto dell'istanza, così determinandosi una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di un provvedimento espresso; ne deriva che tale provvedimento ha valore di diniego vero e proprio ed è impugnabile esclusivamente per il contenuto reiettivo dell'atto e non, quindi, per la violazione dell’obbligo di provvedere espressamente, obbligo che, nel caso di specie, non sussiste.

Va detto, infatti, che il silenzio serbato dal Comune sulla domanda di sanatoria ex art. 13, l. 28.02.1985 n. 47, modificato dall'art. 36, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, è qualificabile come silenzio provvedimentale, con contenuto di rigetto, e non come silenzio inadempimento all'obbligo di provvedere, autonomamente impugnabile (Consiglio Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2691).
Come nota la giurisprudenza copiosa anche di questa sezione, a fronte di un'istanza di sanatoria, infatti, il silenzio dell'amministrazione costituisce una ipotesi di silenzio significativo, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento di rigetto dell'istanza, così determinandosi una situazione del tutto simile a quella che si verificherebbe in caso di un provvedimento espresso; ne deriva che tale provvedimento ha valore di diniego vero e proprio ed è impugnabile esclusivamente per il contenuto reiettivo dell'atto e non, quindi, per la violazione dell’obbligo di provvedere espressamente, obbligo che, nel caso di specie, non sussiste (v. ex multis, la Sent. n. 3555/2012 di questa Sezione)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le tettoie in esame non sono opere né precarie né pertinenziali e, per altro verso, incidono in misura non irrilevante sul contesto paesaggistico.
Infatti, la realizzazione di simili manufatti, infatti, stabilmente ancorati al pavimento e destinati a soddisfare non un'esigenza temporanea e contingente, ma prolungata nel tempo (le tettoie, come dichiarato dalla medesima ricorrente, offrono riparo ai clienti dell’azienda agrituristica), è priva del carattere della precarietà ed amovibilità ed è quindi assoggettata al regime del permesso di costruire, dal momento che comporta una rilevante modifica dell'assetto edilizio preesistente.
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La nozione di "pertinenza urbanistica" è, inoltre, meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e dunque non può consentire la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato principale. In tal caso l'impatto volumetrico proprio, incidendo, come detto, in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio è assoggettabile a permesso di costruire con conseguente applicabilità del regime demolitorio di cui all'art. 7 della legge n. 47/1985 in caso di abusività …. Si deve, quindi, affermare che la realizzazione delle due tettoie costituisca intervento edilizio assentibile mediante permesso di costruire.

Passando al rigetto dell’istanza in relazione alle tettoie, va detto che l’Amministrazione intimata rileva che non sarebbero stati pagati né le oblazioni né il contributo di costruzione come richiesto dall’art. 36, co. 2, D.P.R. 380/2001 («il rilascio del permesso in sanatoria è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall'articolo 16. Nell'ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l'oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso»).
Tale circostanza, non contestata da parte ricorrente, già varrebbe a respingere il motivo di impugnazione, ma è opportuno precisare che, come rilevato nella Sentenza n. 372/2010 -non impugnata- relativa al ricorso proposto dalla medesima ricorrente avverso l’ordinanza di demolizione che aveva attinto le stesse opere qui contemplate, le tettoie in esame non sono opere né precarie né pertinenziali e, per altro verso, incidono in misura non irrilevante sul contesto paesaggistico. Infatti, «la realizzazione di simili manufatti, infatti, stabilmente ancorati al pavimento e destinati a soddisfare non un'esigenza temporanea e contingente, ma prolungata nel tempo (le tettoie, come dichiarato dalla medesima ricorrente, offrono riparo ai clienti dell’azienda agrituristica), è priva del carattere della precarietà ed amovibilità ed è quindi assoggettata al regime del permesso di costruire, dal momento che comporta una rilevante modifica dell'assetto edilizio preesistente (cfr. in un caso analogo, TAR Campania Napoli, sez. III, 09.09.2008, n. 10059)».
«La nozione di "pertinenza urbanistica" è, inoltre, meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e dunque non può consentire la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato principale. In tal caso l'impatto volumetrico proprio, incidendo, come detto, in modo permanente e non precario sull'assetto edilizio del territorio è assoggettabile a permesso di costruire con conseguente applicabilità del regime demolitorio di cui all'art. 7 della legge n. 47/1985 in caso di abusività (ancora, T.A.R. Campania Napoli, sez. II, 29.01.2009, n. 492)…. Si deve, quindi, affermare che la realizzazione delle due tettoie costituisca intervento edilizio assentibile mediante permesso di costruire».
Ebbene, le medesime considerazioni valgono qui ad escludere la compatibilità delle opere con il vincolo paesistico, particolarmente stringente nella zona ove esse insistono, qualificata “zona a protezione integrale” (art. 11 P.T.P.) dove sono consentiti solo limitati interventi volti alla conservazione e al miglioramento del verde, alla prevenzione degli incendi o alla rimozione di barriere architettoniche
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve essere esclusa la natura pertinenziale delle tettoie costruite (abusivamente) poiché, come chiarito dalla costante giurisprudenza anche di questa sezione, la nozione di "pertinenza urbanistica" è meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e dunque non può consentire la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato principale.
Infatti, il carattere pertinenziale in senso urbanistico va riconosciuto alle opere che, per loro natura, risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono.
In tal senso, si è chiarito, con condivisibile orientamento, che gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture analoghe che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono; tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite. Ebbene, nel caso di specie, le tettoie presentano una dimensione incompatibile con la qualificazione come pertinenza integrando una rilevante modifica della sagoma dell’edificio stesso.
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L’art. 27, co. 2, D.P.R. 380/2001 non distingue tra opere per cui è necessario il permesso di costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la semplice D.I.A. in quanto impone di adottare un provvedimento di demolizione per tutte le opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo paesistico.

Il provvedimento impugnato attinge due tettoie poste rispettivamente sul lato nord e sul lato sud del manufatto adibito ad abitazione l’una di mq 7,5 e l’altra di mq 19 e ne ordina la demolizione ai sensi dell’art. 27 d.p.r. 380/2001, essendo state edificate senza titolo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico.
È opportuno trattare per prima la seconda censura con la quale si lamentano plurimi motivi di violazione di legge e di eccesso di potere, ossia che le opere non avrebbero comportano “modifiche o alterazioni dei volumi”, che avrebbero natura pertinenziale e che, pertanto, sarebbero state assentibili con mera D.I.A. senza necessità del previo ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’art. 149 D.lgs. 42/2004. Tali opere, quindi, non sarebbero state sanzionabili con la demolizione ma, al più, con l’applicazione di una sanzione pecuniaria e, inoltre, il provvedimento non si sarebbe potuto limitare a dichiarare l’abusività dell’opera, ma avrebbe dovuto qualificare le opere al fine di definirne il regime autorizzatorio.
Simili argomentazioni non hanno alcun pregio in quanto le opere, per entità ed estensione, costituiscono senza alcun dubbio nuova costruzione integrando un’alterazione dello stato dei luoghi e della sagoma dell’edificio a cui accedono.
Deve, altresì, essere esclusa la natura pertinenziale delle tettoie poiché, come chiarito dalla costante giurisprudenza anche di questa sezione, la nozione di "pertinenza urbanistica" è meno ampia di quella definita dall'art. 817 c.c. e dunque non può consentire la realizzazione di opere di grande consistenza soltanto perché destinate al servizio di un bene qualificato principale. Infatti, il carattere pertinenziale in senso urbanistico va riconosciuto alle opere che, per loro natura, risultino funzionalmente ed esclusivamente inserite al servizio di un manufatto principale, siano prive di autonomo valore di mercato e non valutabili in termini di cubatura (o comunque dotate di volume minimo e trascurabile), in modo da non poter essere utilizzate autonomamente e separatamente dal manufatto cui accedono (Consiglio Stato, sez. IV, 17.05.2010, n. 3127).
In tal senso, si è chiarito, con condivisibile orientamento, che gli interventi consistenti nella installazione di tettoie o di altre strutture analoghe che siano comunque apposte a parti di preesistenti edifici come strutture accessorie di protezione o di riparo di spazi liberi, cioè non compresi entro coperture volumetriche previste in un progetto assentito, possono ritenersi sottratti al regime della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) soltanto ove la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo o di riparo e protezione (anche da agenti atmosferici) dell'immobile cui accedono; tali strutture non possono viceversa ritenersi installabili senza permesso di costruire allorquando le loro dimensioni sono di entità tale da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui vengono inserite. Ebbene, nel caso di specie, le tettoie presentano una dimensione incompatibile con la qualificazione come pertinenza integrando una rilevante modifica della sagoma dell’edificio stesso (TAR Campania Napoli, sez. II, 29.01.2009, n. 492; TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999; v. pure il precedente di questa Sezione, Sent. n. 16446/2010).
Sul punto, non occorre spendere ulteriori argomentazioni in quanto, a ben vedere, non rileva, in questa sede, se le opere potessero o meno essere assentite in virtù della presentazione di una mera D.I.A.. Infatti, quand’anche si ritenessero tali le opere qui sanzionate, va detto che l’applicazione della sanzione demolitoria (ai sensi dell’art. 27 D.P.R. 380/2001) sarebbe, comunque, doverosa, essendo, peraltro, incontestato che non sia stata presentata neppure la D.I.A. e che non sia, conseguentemente, stata ottenuta alcuna autorizzazione paesistica.
Si osserva, comunque, che l’art. 27, co. 2, D.P.R. 380/2001 non distingue tra opere per cui è necessario il permesso di costruire e quelle per cui sarebbe necessaria la semplice D.I.A. in quanto impone di adottare un provvedimento di demolizione per tutte le opere che siano, comunque, costruite senza titolo in aree sottoposte a vincolo paesistico (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 06.02.2014 n. 788 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Se è vero che il potere di soccorso istruttorio non può ledere la par condicio, così da consentire la presentazione, anche oltre il termine previsto dal bando, di documenti o dichiarazioni che avrebbero dovuto essere presentati entro detto termine a pena di esclusione, non può essere inibito alla stazione appaltante di richiedere o alla concorrente di provare, anche con integrazioni documentali, che la propria domanda fosse, sin dal principio e nella realtà effettuale, conforme a quanto richiesto dalla lex specialis; ciò nella prospettiva di non sacrificare l'esigenza della più ampia partecipazione per carenze meramente formali.
Si richiama, al riguardo, il costante principio giurisprudenziale secondo cui, se è vero che il potere di soccorso istruttorio non può ledere la par condicio, così da consentire la presentazione, anche oltre il termine previsto dal bando, di documenti o dichiarazioni che avrebbero dovuto essere presentati entro detto termine a pena di esclusione, non può essere inibito alla stazione appaltante di richiedere o alla concorrente di provare, anche con integrazioni documentali, che la propria domanda fosse, sin dal principio e nella realtà effettuale, conforme a quanto richiesto dalla lex specialis (cfr., ex multis, Cons. St., Sez. III, 28.11.2013, n. 5694); ciò nella prospettiva di non sacrificare l'esigenza della più ampia partecipazione per carenze meramente formali (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 06.02.2014 n. 780 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'indicazione dell'area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive, costituisce elemento essenziale non già dell’ordinanza di demolizione ma del distinto ed eventuale provvedimento con cui l'amministrazione, accertata la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell'ingiunto, irroga la sanzione ulteriore dell’acquisizione al patrimonio comunale.
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L’ordine di demolizione di opere abusive (perché realizzate in assenza del necessario titolo abilitativo) non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi dell’articolo 7 della legge n. 241 del 1990, in considerazione della natura vincolata del potere di repressione degli abusi edilizi.
Per completezza d'argomentazione si osserva che, in ogni caso, ai sensi dell'art. 21-octies della legge n. 241/1990, il provvedimento impugnato, ove pure ritenuto violativo delle norme sul procedimento amministrativo, non sarebbe comunque annullabile, trattandosi di provvedimento vincolato il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato dall’amministrazione.
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L'eventuale omissione della comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento e dell'ufficio in cui poter prendere visione degli atti, non è tale da incidere sulla legittimità del procedimento finale, risolvendosi piuttosto in una mera irregolarità.
In tal caso si considera responsabile del procedimento il funzionario preposto alla competente unità organizzativa.
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L'ordine di demolizione ben può essere adottato nei confronti del proprietario attuale dell'immobile interessato dall'intervento abusivo, anche se non responsabile dell'abuso, giacché tale abuso costituisce illecito permanente e l'ordine di demolizione ha carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la realizzazione dell'abuso stesso, trattandosi di una sanzione di carattere reale.
La condizione di estraneità alla commissione dell'illecito, riguardata in termini di buona fede soggettiva, può assumere rilievo unicamente ai fini dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ferma restando la possibilità dell’attuale proprietario di avvalersi, ricorrendone i presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il suo dante causa.

Per completezza di analisi, il Collegio valuta opportuno anche specificare che, come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, l'indicazione dell'area di sedime, così come di quella necessaria per opere analoghe a quelle abusive, costituisce elemento essenziale non già dell’ordinanza di demolizione ma del distinto ed eventuale provvedimento con cui l'amministrazione, accertata la mancata ottemperanza alla demolizione da parte dell'ingiunto, irroga la sanzione ulteriore dell’acquisizione al patrimonio comunale (cfr., ex multis, TAR Lecce, Puglia, sez. III, 15.12.2011, n. 2172).
Del pari, priva di fondatezza si palesa la deduzione diretta a contestare l’omessa comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio. Per giurisprudenza consolidata (TAR Campania Napoli, sez. II, n. 2458 dell’08.05.2009; sez. IV, n. 9710 del 01.08.2008), l’ordine di demolizione di opere abusive (perché realizzate in assenza del necessario titolo abilitativo) non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi dell’articolo 7 della legge n. 241 del 1990, in considerazione della natura vincolata del potere di repressione degli abusi edilizi. Per completezza d'argomentazione si osserva che, in ogni caso, ai sensi dell'art. 21-octies della legge n. 241/1990, il provvedimento impugnato, ove pure ritenuto violativo delle norme sul procedimento amministrativo, non sarebbe comunque annullabile, trattandosi di provvedimento vincolato il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato dall’amministrazione.
Quanto poi alla mancata indicazione del responsabile del procedimento, essa è surrogata ex lege dagli artt. 4 e 5 della legge n. 241/1990 che individua tale responsabile nel dirigente del Servizio, in assenza di altre indicazioni; difatti, secondo l'orientamento della giurisprudenza, l'eventuale omissione della comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento e dell'ufficio in cui poter prendere visione degli atti, non è tale da incidere sulla legittimità del procedimento finale, risolvendosi piuttosto in una mera irregolarità. In tal caso si considera responsabile del procedimento il funzionario preposto alla competente unità organizzativa (Cons. Stato, sez. VI, 06.05.1999, n. 597; TAR Friuli V.G. 09.12.1996, n. 1241; TAR Sicilia, sez. II, 30.11.1996, n. 1730; TAR Campania, sez. IV, 05.02.2002, n. 691, 18.03.2002, n. 1413, 14.06.2002, n. 3490).
Non meritano un favorevole apprezzamento neanche le deduzioni incentrate sul vizio di eccesso di potere per carenza di istruttoria e inesistenza dei presupposti, emergendo da quanto sopra esposto l’accuratezza degli accertamenti svolti dall’amministrazione.
Con specifico riferimento all’individuazione dell’autore dell’abuso, il Collegio reputa sufficiente rilevare che l'ordine di demolizione ben può essere adottato nei confronti del proprietario attuale dell'immobile interessato dall'intervento abusivo, anche se non responsabile dell'abuso, giacché tale abuso costituisce illecito permanente e l'ordine di demolizione ha carattere ripristinatorio e non prevede l'accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la realizzazione dell'abuso stesso, trattandosi di una sanzione di carattere reale (TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 08.07.2013, n. 502; Cons. St., Sez. VI, 15.10.2013, n. 5011).
La condizione di estraneità alla commissione dell'illecito, riguardata in termini di buona fede soggettiva, può assumere rilievo unicamente ai fini dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale, ferma restando la possibilità dell’attuale proprietario di avvalersi, ricorrendone i presupposti, degli ordinari rimedi civilistici contro il suo dante causa (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 06.02.2014 n. 779 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste alcun obbligo per il Comune di dare comunicazione ai proprietari frontisti o vicini dell'avvio del procedimento diretto al rilascio di concessione edilizia, in quanto gli interessi coinvolti dal provvedimento con cui si consente la trasformazione edilizia del territorio sono di tale varietà ed ampiezza da rendere difficilmente individuabili tutti i soggetti che dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento.
Invero, la comunicazione di avvio del procedimento deve essere inviata ai soggetti nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti, tra i quali non rientrano i proprietari di immobili confinanti con quello oggetto di concessione edilizia, i quali subiscono dal provvedimento in questione soltanto effetti riflessi.
Sulla base di quanto appena detto la ricorrente non rientra tra i soggetti destinatari della comunicazione dell'avvio di un procedimento per il rilascio di un titolo edilizio, perché l'invocata estensione della predetta comunicazione avrebbe comportato un aggravio procedimentale in contrasto con i principi di economicità e di efficienza dell'attività amministrativa.

Non merita adesione anche l’ultimo motivo di ricorso in ordine alla mancata comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 della Legge n. 241/1990 riguardante il rilascio del permesso di costruire.
Secondo un ormai costante orientamento della giurisprudenza amministrativa “non sussiste alcun obbligo per il Comune di dare comunicazione ai proprietari frontisti o vicini dell'avvio del procedimento diretto al rilascio di concessione edilizia, in quanto gli interessi coinvolti dal provvedimento con cui si consente la trasformazione edilizia del territorio sono di tale varietà ed ampiezza da rendere difficilmente individuabili tutti i soggetti che dall'emanazione dell'atto potrebbero ricevere nocumento” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 4847 del 31.07.2009; TAR Toscana, Sez. III, 31.05.2005, n. 2689).
Invero, la comunicazione di avvio del procedimento deve essere inviata ai soggetti nei cui confronti il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti, tra i quali non rientrano i proprietari di immobili confinanti con quello oggetto di concessione edilizia, i quali subiscono dal provvedimento in questione soltanto effetti riflessi.
Sulla base di quanto appena detto la ricorrente non rientra tra i soggetti destinatari della comunicazione dell'avvio di un procedimento per il rilascio di un titolo edilizio, perché l'invocata estensione della predetta comunicazione avrebbe comportato un aggravio procedimentale in contrasto con i principi di economicità e di efficienza dell'attività amministrativa (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VIII, 12.04.2010, n. 1918; TAR Toscana, Sez. III, 31.05.2005, n. 2689 cit.)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 06.02.2014 n. 769 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla gratuità circa la costruzione di una chiesa.
Deve considerarsi “ente istituzionalmente competente” sia un ente pubblico che agisca nell'ambito delle proprie competenze istituzionali, sia un soggetto privato che operi per conto di un ente pubblico, come è nel caso di specie l'ente ecclesiastico, al quale certo non può essere disconosciuto lo svolgimento di una funzione di interesse generale o collettivo.
Tanto è vero che le chiese sono usualmente annoverate tra le opere di urbanizzazione secondaria (cfr. art. 3, comma 2, lett. b), del D.M. n. 1444/1968.
Sicché,
si evince la sussistenza nel caso di specie dei requisiti necessari per l'esonero dal contributo di costruzione, atteso il carattere pubblico dell'opera qualificata dalla legge regionale quale opera necessaria (di urbanizzazione) da ricondurre nell’ambito delle “attrezzature religiose”, realizzata da un soggetto privato in attuazione di strumenti urbanistici come previsto dal combinato disposto dall'art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. 380/2001 e dell'art. 1, comma 1, della Legge Regionale della Campania n. 9 del 05.03.1990.
Sussistono, quindi, entrambe le condizioni per accordare l’esenzione del contributo di costruzione: sia sotto il profilo oggettivo, in quanto il complesso ecclesiastico, quale opera destinata alla fruizione collettiva, soddisfa un interesse generale; sia sotto il profilo soggettivo quale è quello secondo cui le opere devono essere eseguite da un “ente istituzionalmente competente”.

... per l'annullamento del permesso di costruire n. 63/2004 riguardante la realizzazione di un fabbricato destinato a chiesa in zona F – destinata ad attrezzature
...
Con il quarto dei motivi aggiunti si denuncia la presunta illegittimità del permesso di costruire in sanatoria n. 18 del 19.10.2010 sull’assunto del mancato pagamento degli oneri concessori di cui all'art. 16 e seguenti del d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Al fine di valutare la fondatezza della censura occorre richiamare il quadro normativo vigente.
In primo luogo l'art. 17, comma 3, lettera c), del d.P.R. 380/2001 dispone che “il contributo di costruzione non e' dovuto: …c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
La legge Regionale della Campania n. 9 del 05.03.1990, avente ad oggetto la “riserva di standards urbanistici per attrezzature religiose” ha previsto all'art. 1, comma 1, che “i Comuni sono obbligati ad includere negli strumenti urbanistici generali ed attuativi le previsioni necessarie per la realizzazione di attrezzature religiose” chiarendo, altresì, al successivo comma 5 che “le dotazioni minime di aree di cui al presente articolo in ogni caso non possono essere inferiori a mq 5.000”.
Sulla base di quanto riportato si evince la sussistenza nel caso di specie dei requisiti necessari per l'esonero dal contributo di costruzione, atteso il carattere pubblico dell'opera qualificata dalla legge regionale quale opera necessaria (di urbanizzazione) da ricondurre nell’ambito delle “attrezzature religiose”, realizzata da un soggetto privato in attuazione di strumenti urbanistici come previsto dal combinato disposto dall'art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. 380/2001 e dell'art. 1, comma 1, della Legge Regionale della Campania n. 9 del 05.03.1990.
Sussistono, quindi, entrambe le condizioni per accordare l’esenzione del contributo di costruzione: sia sotto il profilo oggettivo, in quanto il complesso ecclesiastico, quale opera destinata alla fruizione collettiva, soddisfa un interesse generale; sia sotto il profilo soggettivo quale è quello secondo cui le opere devono essere eseguite da un “ente istituzionalmente competente”.
Infatti secondo un’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa deve considerarsi “ente istituzionalmente competente” sia un ente pubblico che agisca nell'ambito delle proprie competenze istituzionali, sia un soggetto privato che operi per conto di un ente pubblico (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.09.2008, n. 4296; idem, Sez. IV, 10.05.2005, n. 2226), come è nel caso di specie l'ente ecclesiastico, al quale certo non può essere disconosciuto lo svolgimento di una funzione di interesse generale o collettivo.
Tanto è vero che le chiese sono usualmente annoverate tra le opere di urbanizzazione secondaria (cfr. art. 3, comma 2, lett. b), del D.M. n. 1444/1968.
Ad ogni modo il P.R.G. vigente presso il Comune conferma la caratteristica di opera di urbanizzazione del complesso ecclesiastico, in quanto per l'area interessata prevede la destinazione urbanistica “F4” corrispondente ad “attrezzature collettive — attrezzature religiose”, sicché la realizzazione dell’edificio parrocchiale deve ritenersi operata in attuazione dei vigenti strumenti urbanistici
(TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 06.02.2014 n. 769 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:  L'art. 10-bis l. n. 241 del 1990, nel disciplinare l'istituto del cd. "preavviso di rigetto", ha lo scopo di far conoscere alle amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle motivazioni da esse assunte in base agli esiti dell'istruttoria espletata, quelle ragioni, fattuali e giuridiche, dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale, derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando una possibile riduzione del contenzioso fra le parti.
Tuttavia, l'obbligo di motivazione gravante sulla P.A. a fronte delle osservazioni proposte a seguito del preavviso di rigetto non impone ai fini della legittimità del definitivo diniego dell'istanza dell'interessato, la puntuale e analitica confutazione delle singole argomentazioni svolte dall'interessato, essendo sufficiente la motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno del provvedimento finale.

Quanto al primo motivo di ricorso, va precisato che l'art. 10-bis l. n. 241 del 1990, nel disciplinare l'istituto del cd. "preavviso di rigetto", ha lo scopo di far conoscere alle amministrazioni, in contraddittorio rispetto alle motivazioni da esse assunte in base agli esiti dell'istruttoria espletata, quelle ragioni, fattuali e giuridiche, dell'interessato che potrebbero contribuire a far assumere agli organi competenti una diversa determinazione finale, derivante, appunto, dalla ponderazione di tutti gli interessi in campo e determinando una possibile riduzione del contenzioso fra le parti (cfr., Consiglio di Stato, sez. VI, 06.08.2013, n. 4111).
Tuttavia, l'obbligo di motivazione gravante sulla P.A. a fronte delle osservazioni proposte a seguito del preavviso di rigetto non impone ai fini della legittimità del definitivo diniego dell'istanza dell'interessato, la puntuale e analitica confutazione delle singole argomentazioni svolte dall'interessato, essendo sufficiente la motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno del provvedimento finale (cfr., TAR Sicilia, Palermo sez. I, 11.07.2013, n. 1485).
Nel caso di specie, l’amministrazione ha adeguatamente motivato in ordine alle ragioni che non consentivano il rilascio del parere favorevole all’istanza di installazione dei pareri solari, avendo precisato la sussistenza delle rilevanti alterazioni all’equilibrio percettivo del quadro d’insieme tutelato. La Sopraintendenza non era tenuta a contrastare ogni singolo rilievo formulato dal ricorrente ma, in base ad una valutazione complessiva, sviscerare le motivazioni che non consentivano la realizzazione dell’intervento.
La precisazione che le rilevanti alterazioni all’equilibrio percettivo del quadro d’insieme tutelato non consentono la realizzazione dell’intervento, soddisfano il requisito della sufficiente motivazione e sono capaci di contrastare le affermazioni del ricorrente (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 06.02.2014 n. 395 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il parere della Sopraintendenza è espressione di discrezionalità tecnica, che è soggetta a un sindacato del giudice amministrativo di tipo intrinseco debole (o di attendibilità).
Il giudice non deve limitarsi al rilievo degli indici sintomatici dell’eccesso di potere, ma può ripetere la valutazione tecnica (anche avvalendosi dello strumento della ctu) e verificare se essa sia attendibile. Il g.a. quindi verifica se il criterio tecnico adottato sia sufficiente ed adeguato e se il procedimento applicativo sia stato seguito correttamente. E’ un giudizio che il giudice ripete applicando le stesse regole tecniche dell’amministrazione.
Recentemente il Consiglio di Giustizia Sicilia, in materia paesaggistica, ha chiarito che le valutazioni in tema paesaggistico e ambientale costituiscono espressione di discrezionalità tecnica, in quanto l'accertamento è compiuto applicando regole tecnico -specialistiche che sono caratterizzate da una fisiologica e ineliminabile opinabilità, con la conseguenza che le risultanze della attività suddetta possono essere censurate in sede giurisdizionale soltanto quando risulti la loro palese inattendibilità sotto il profilo tecnico.
Nel caso di specie, la Sopraintendenza ha ritenuto di esprimere parere sfavorevole all’intervento perché, come emerge anche dai rilievi fotografici allegati in atti, la posa di pannelli solari si colloca in un contesto caratterizzato da un tessuto fitto di edifici con copertura a falda o a padiglione, visibili sia dal lago che dalla sponda di fronte e che formano un complesso di immobili aventi caratteristico aspetto e valore estetico tradizionale. L’intervento, quindi, realizza, secondo l’amministrazione, una rilevante alterazione all’equilibrio percettivo del quadro d’insieme tutelato, perché la soluzione proposta determina un’immagine della copertura sostanzialmente differente ed estranea al contesto monumentale e paesistico tutelato.
Tale valutazione tecnico discrezionale è certamente immune da censure, in quanto ragionevole e non affetta da vizi nel procedimento valutativo.

Non risulta, infatti, fondato neanche il secondo motivo di ricorso.
Il parere della Sopraintendenza è espressione di discrezionalità tecnica, che, dalla sentenza del Consiglio di Stato Cons. 601/1999, è soggetta a un sindacato del giudice amministrativo di tipo intrinseco debole (o di attendibilità). Il giudice non deve limitarsi al rilievo degli indici sintomatici dell’eccesso di potere, ma può ripetere la valutazione tecnica (anche avvalendosi dello strumento della ctu) e verificare se essa sia attendibile. Il g.a. quindi verifica se il criterio tecnico adottato sia sufficiente ed adeguato e se il procedimento applicativo sia stato seguito correttamente. E’ un giudizio che il giudice ripete applicando le stesse regole tecniche dell’amministrazione.
Recentemente il Consiglio di Giustizia Sicilia, in materia paesaggistica, ha chiarito che le valutazioni in tema paesaggistico e ambientale costituiscono espressione di discrezionalità tecnica, in quanto l'accertamento è compiuto applicando regole tecnico -specialistiche che sono caratterizzate da una fisiologica e ineliminabile opinabilità, con la conseguenza che le risultanze della attività suddetta possono essere censurate in sede giurisdizionale soltanto quando risulti la loro palese inattendibilità sotto il profilo tecnico (cfr., Cons. Giust. Amm. Sicilia, sez. giurisd., 27.08.2013, n. 737).
Nel caso di specie, la Sopraintendenza ha ritenuto di esprimere parere sfavorevole all’intervento perché, come emerge anche dai rilievi fotografici allegati in atti, la posa di pannelli solari si colloca in un contesto caratterizzato da un tessuto fitto di edifici con copertura a falda o a padiglione, visibili sia dal lago che dalla sponda di fronte e che formano un complesso di immobili aventi caratteristico aspetto e valore estetico tradizionale. L’intervento, quindi, realizza, secondo l’amministrazione, una rilevante alterazione all’equilibrio percettivo del quadro d’insieme tutelato, perché la soluzione proposta determina un’immagine della copertura sostanzialmente differente ed estranea al contesto monumentale e paesistico tutelato.
Tale valutazione tecnico discrezionale è certamente immune da censure, in quanto ragionevole e non affetta da vizi nel procedimento valutativo (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 06.02.2014 n. 395 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il rustico (abusivo) in argomento ha una superficie dichiarata nella domanda di condono di mq. 36,41 e nella tavola progettuale di mq. 46,20 cui devono aggiungersi mq. 14.49 del portico e un’altezza massima di mt. 2,80 e minima di mt. 2,55.
Ne deriva, pertanto, che va condivisa la valutazione dell’amministrazione che ha qualificato l’opera come nuova costruzione e non mera pertinenza dell’edificio residenziale principale.
La nozione urbanistica di pertinenza è, per sua natura, collegata non solo all'esigenza di un oggettivo nesso funzionale e strumentale rispetto alla cosa principale ma, soprattutto, al fatto che comunque deve trattarsi di un'opera di dimensioni modeste e ridotte, altrimenti si rovescerebbe lo stesso nesso di pertinenzialità.

Tanto premesso in punto di fatto, va evidenziato che il ricorrente ha chiesto la sanatoria di un manufatto di rilevanti dimensioni, come emerge dalla documentazione allegata.
In particolare, il rustico in argomento ha una superficie dichiarata nella domanda di condono di mq. 36,41 e nella tavola progettuale di mq. 46,20 cui devono aggiungersi mq. 14.49 del portico e un’altezza massima di mt. 2,80 e minima di mt. 2,55. Ne deriva, pertanto, che va condivisa la valutazione dell’amministrazione che ha qualificato l’opera come nuova costruzione e non mera pertinenza dell’edificio residenziale principale.
La nozione urbanistica di pertinenza è, per sua natura, collegata non solo all'esigenza di un oggettivo nesso funzionale e strumentale rispetto alla cosa principale ma, soprattutto, al fatto che comunque deve trattarsi di un'opera di dimensioni modeste e ridotte, altrimenti si rovescerebbe lo stesso nesso di pertinenzialità (cfr., Consiglio di Stato, sez. IV, 26/03/2013, n. 1709).
Non sussiste neanche il paventato contrasto con l’art. 35 delle NTA del Prg che consente l’ampliamento degli edifici residenziali, a condizione che le opere abbiano “poca incidenza sotto il profilo ambientale e paesistico”.
Nel caso di specie le rilevanti dimensioni del manufatto, che, peraltro, ne permettono un autonomo utilizzo, non consentono certamente di considerarlo una pertinenza e di ritenere la scarsa incidenza delle opere sotto il profilo ambientale e paesaggistico.
Del resto la circostanza che l’abuso sia stato commesso in zone sottoposte a tutela paesistico-ambientale rende applicabile l’art. 7, co. 5, della L 47/1985 che consente all’amministrazione di procedere alla demolizione d’ufficio, senza la valutazione sulla necessità di conservare il bene abusivo (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 06.02.2014 n. 393 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di contributi derivanti dal rilascio di concessione edilizia sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e tale giurisdizione sussiste anche quando attiene alla richiesta, mediante cartella esattoriale, di pagamento del contributo per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni; sebbene, infatti, l'art. 16 della l. 28.01.1977 n. 10 sia stato abrogato dall'art. 136, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, a decorrere dal 30.06.2003, ai sensi dell'art. 3, d.l. 20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l. 01.08.2002, n. 185, le controversie in materia di oneri di urbanizzazione devono ritenersi tuttora attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica e di edilizia ai sensi dell'art. 34 d.lgs. n. 80 del 1998, non avendo tra l'altro detti oneri natura tributaria, bensì natura di corrispettivo di diritto pubblico avente la funzione di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione.
Invero, atteso che le controversie che hanno ad oggetto la legittimità o meno del contributo relativo a concessione edilizia vertono sull'esistenza o sulla misura di una obbligazione direttamente stabilita dalla legge, l'atto con cui l'Amministrazione comunale provvede in merito alla determinazione del contributo concessorio non ha natura autoritativa e la posizione del soggetto nei cui confronti è richiesto il pagamento, è di diritto soggettivo e non di interesse legittimo;ì.
Conseguentemente la giurisdizione del giudice amministrativo in materia ha per oggetto tutte le controversie inerenti all'an e al quantum della pretesa contributiva del comune, (mentre la competenza dell'a.g.o. è limitata alle sole questioni inerenti all'esperibilità del recupero in executivis del credito contributivo); con l'ulteriore precisazione che oggi, dopo l'entrata in vigore dell'art. 7 della L. 21.07.2000, n. 207, tale giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo comprende anche i giudizi avverso l'ordinanza-ingiunzione emessa dal Comune ai sensi dell'art. 2 del r.d. 14.04.1910, n. 639.
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L'Amministrazione non ha l'obbligo, a fronte del ritardato pagamento degli oneri concessori, di escutere la fideiussione, evitando in tal modo di applicare la sanzione.
Infatti la fideiussione che accompagna la rateizzazione del pagamento degli oneri di urbanizzazione non ha la finalità di agevolare l'adempimento del soggetto obbligato al pagamento, bensì costituisce una garanzia personale prestata unicamente nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale non incombe alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore.
Invero, la garanzia sussidiaria serve a scongiurare che il Comune possa irrimediabilmente perdere una entrata di diritto pubblico, ma non alleggerisce affatto la posizione del soggetto tenuto al pagamento, né attenua i doveri di diligenza sullo stesso incombenti, né estingue di per sé l'obbligazione principale.

L’eccezione è infondata.
Va chiarito che in materia di contributi derivanti dal rilascio di concessione edilizia sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e tale giurisdizione sussiste anche quando attiene alla richiesta, mediante cartella esattoriale, di pagamento del contributo per gli oneri di urbanizzazione e conseguenti sanzioni; sebbene, infatti, l'art. 16 della l. 28.01.1977 n. 10 sia stato abrogato dall'art. 136, comma 2, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, a decorrere dal 30.06.2003, ai sensi dell'art. 3, d.l. 20.06.2002, n. 122, conv., con modificazioni, in l. 01.08.2002, n. 185, le controversie in materia di oneri di urbanizzazione devono ritenersi tuttora attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di urbanistica e di edilizia ai sensi dell'art. 34 d.lgs. n. 80 del 1998, non avendo tra l'altro detti oneri natura tributaria, bensì natura di corrispettivo di diritto pubblico avente la funzione di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione; invero, atteso che le controversie che hanno ad oggetto la legittimità o meno del contributo relativo a concessione edilizia vertono sull'esistenza o sulla misura di una obbligazione direttamente stabilita dalla legge, l'atto con cui l'Amministrazione comunale provvede in merito alla determinazione del contributo concessorio non ha natura autoritativa e la posizione del soggetto nei cui confronti è richiesto il pagamento, è di diritto soggettivo e non di interesse legittimo; conseguentemente la giurisdizione del giudice amministrativo in materia ha per oggetto tutte le controversie inerenti all'an e al quantum della pretesa contributiva del comune, (mentre la competenza dell'a.g.o. è limitata alle sole questioni inerenti all'esperibilità del recupero in executivis del credito contributivo); con l'ulteriore precisazione che oggi, dopo l'entrata in vigore dell'art. 7 della L. 21.07.2000, n. 207, tale giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo comprende anche i giudizi avverso l'ordinanza-ingiunzione emessa dal Comune ai sensi dell'art. 2 del r.d. 14.04.1910, n. 639 (cfr., TAR Napoli (Campania) sez. II, 18/11/2008, 19792).
Il presente giudizio ha, quindi, ad oggetto anche diritti soggettivi e si traduce nell’accertamento in concreto della doverosità della corresponsione dei contributi concessori e dell’esatta quantificazione degli stessi.
Ne deriva che non ha alcuna incidenza su tale aspetto l’omessa impugnazione del decreto di ingiunzione di pagamento.
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Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato.
La L. 108/1996 non ha, infatti, abrogato l’art. 3 L. 47/1985, ma si è limitata a definire gli interessi abnormi risultanti da liberi accordi o convenzioni tra privati, non anche quelli definiti dalla legge, come è avvenuto nel caso di specie. Nessuna violazione della norma in parola emerge, anche perché l’amministrazione si è limitata, nella determinazione degli interessi applicati in sede di determinazione delle rate di pagamento, ad applicare gli interessi al tasso legale in vigore al momento del rilascio della concessione edilizia.
Le somme dovute poi ai sensi dell’art. 3 L. 47/1985 non costituiscono, peraltro, interessi, ma sono qualificati espressamente come sanzioni, corrispondenti a percentuali di aumento del contributo concessorio, in relazione ai giorni di ritardo.
La società ricorrente ha, peraltro, dedotto che l’amministrazione, in omaggio ai principi di buona fede e correttezza, avrebbe dovuto prima escutere la polizza fideiussoria e poi emettere il provvedimento sanzionatorio.
L’assunto è infondato, in quanto questo Tar ha già chiarito che l'Amministrazione non ha l'obbligo, a fronte del ritardato pagamento degli oneri concessori, di escutere la fideiussione, evitando in tal modo di applicare la sanzione. Infatti la fideiussione che accompagna la rateizzazione del pagamento degli oneri di urbanizzazione non ha la finalità di agevolare l'adempimento del soggetto obbligato al pagamento, bensì costituisce una garanzia personale prestata unicamente nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale non incombe alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore; invero, la garanzia sussidiaria serve a scongiurare che il Comune possa irrimediabilmente perdere una entrata di diritto pubblico, ma non alleggerisce affatto la posizione del soggetto tenuto al pagamento, né attenua i doveri di diligenza sullo stesso incombenti, né estingue di per sé l'obbligazione principale (cfr., TAR Milano (Lombardia) sez. II, 21/07/2009, n. 4405)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 06.02.2014 n. 389 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: La competenza al diniego o al rilascio del permesso di costruire, anche in sanatoria, e dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi non è più del Sindaco, ma del dirigente ovvero, nei Comuni sprovvisti di personale di qualifica dirigenziale, del responsabile di ufficio o servizio.
Parimenti infondata è la doglianza relativa all’incompetenza del Responsabile del Servizio Edilizia Privata ad emanare il provvedimento impugnato.
Come già chiarito da questo Tar a seguito del mutato quadro normativo derivante dall'art. 51, l. 08.06.1990 n. 142, nel testo modificato dall'art. 6, comma 1, l. 15.05.1997 n. 127, e del successivo art. 45, d.lgs. 31.03.1998 n. 80 -che ha distinto gli atti di gestione, di competenza dei dirigenti, da quelli di indirizzo e di controllo, di pertinenza degli organi politici- la competenza al diniego o al rilascio del permesso di costruire, anche in sanatoria, e dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi non è più del Sindaco, ma del dirigente ovvero, nei Comuni sprovvisti di personale di qualifica dirigenziale, del responsabile di ufficio o servizio (cfr., TAR Torino (Piemonte) sez. I, 13/12/2013, n. 1358)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 06.02.2014 n. 389 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In sede di dichiarazione dei requisiti, la referenza economica è stata dichiarata in forma sintetica, contestualmente sono però stati elencati tutti i servizi svolti. In tal modo la stazione appaltante avrebbe dovuto già in sede di verifica delle offerte, rilevare l’assenza del requisito relativo alla capacità economica, alla luce di quanto dichiarato a riprova della capacità professionale: per tale ragione la stazione appaltante avrebbe dovuto estromettere la società fin dall’inizio, senza giungere alla fase di verifica di cui all’art 48 D.lgs. 163/2006.
La censura non può trovare accoglimento, poiché nessuna disposizione impone alla stazione appaltante di verificare la sussistenza dei requisiti di partecipazione, ovvero la veridicità delle dichiarazioni.
Al contrario il sistema normativo, al fine di garantire la celerità delle operazioni di gara, prevede che la capacità economicO-finanziaria sia dimostrata attraverso la autodichiarazione, demandando poi alla verifica a campione l’effettiva sussistenza dei requisiti e la corrispondenza alle autodichiarazioni.
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L’art. 48 del D.lgs. 136/2006 configura l'incameramento della cauzione provvisoria come una conseguenza del tutto automatica, di carattere sanzionatorio non suscettibile di alcuna valutazione discrezionale, con riguardo ai fatti che determinano la loro applicazione.
Ugualmente anche la segnalazione all’Autorità è un atto che la stazione appaltante ha l’obbligo di adottare, in quanto conseguenza tassativamente prevista per l'ipotesi della mancanza dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa previsti dall'art. 48, d.lgs. n. 163 del 2006, con la precisazione, rispetto a detto atto, che la giurisprudenza ha avuto modo, anche recentemente, di precisare come l’atto effettivamente lesivo non sia l’atto di trasmissione, qualificato come atto prodromico, ma solo l’eventuale provvedimento dell’Autorità.

1) Il presente ricorso è stato proposto avverso gli atti con cui la stazione appaltante ha escluso la società ricorrente, per assenza del requisito di capacità economico-finanziaria, ha disposto l’escussione della cauzione provvisoria e ha segnalato il fatto all’Autorità di vigilanza sui contratti.
Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Il primo motivo attiene al provvedimento di esclusione: sostiene la difesa di Omnia che, in sede di dichiarazione dei requisiti, la referenza economica è stata dichiarata in forma sintetica, contestualmente sono però stati elencati tutti i servizi svolti. In tal modo la stazione appaltante avrebbe dovuto già in sede di verifica delle offerte, rilevare l’assenza del requisito relativo alla capacità economica, alla luce di quanto dichiarato a riprova della capacità professionale: per tale ragione la stazione appaltante avrebbe dovuto estromettere la società fin dall’inizio, senza giungere alla fase di verifica di cui all’art 48 D.lgs. 163/2006.
La censura non può trovare accoglimento, poiché nessuna disposizione impone alla stazione appaltante di verificare la sussistenza dei requisiti di partecipazione, ovvero la veridicità delle dichiarazioni.
Al contrario il sistema normativo, al fine di garantire la celerità delle operazioni di gara, prevede che la capacità economicO-finanziaria sia dimostrata attraverso la autodichiarazione, demandando poi alla verifica a campione l’effettiva sussistenza dei requisiti e la corrispondenza alle autodichiarazioni.
Tra l’altro, come ha osservato la difesa della società Sogemi, i requisiti di capacità economica da provare con il fatturato, erano differenti rispetto ai requisiti di capacità professionale, da provare con l’indicazione dei servizi svolti, per cui anche il controllo “incrociato” non permetteva di verificare l’assenza del requisito di capacità economico finanziaria.
2) Nel secondo motivo parte ricorrente lamenta la violazione dei principi che regolano il procedimento amministrativo, la violazione del secondo considerando introduttivo alla Direttiva CEE 2004/18/CE, nonché degli artt. 2, 20, 27, 41, 42 e 48 D. L.gs. 163/2006, perché è stata applicata una sanzione sproporzionata, proprio considerando che la società Omnia ha reso dichiarazioni veritiere.
Anche questo motivo non è fondato.
Secondo l’interpretazione prevalente, cui anche questa Sezione ritiene di aderire, l’art. 48 del D.lgs. 136/2006 configura l'incameramento della cauzione provvisoria come una conseguenza del tutto automatica, di carattere sanzionatorio non suscettibile di alcuna valutazione discrezionale, con riguardo ai fatti che determinano la loro applicazione.
Ugualmente anche la segnalazione all’Autorità è un atto che la stazione appaltante ha l’obbligo di adottare, in quanto conseguenza tassativamente prevista per l'ipotesi della mancanza dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa previsti dall'art. 48, d.lgs. n. 163 del 2006, con la precisazione, rispetto a detto atto, che la giurisprudenza ha avuto modo, anche recentemente, di precisare come l’atto effettivamente lesivo non sia l’atto di trasmissione, qualificato come atto prodromico, ma solo l’eventuale provvedimento dell’Autorità (ex multis TAR Torino sez. I, 01/06/2012 n. 642).
3) L’orientamento sopra citato, circa la natura dell’art 48 è sufficiente a respingere anche il terzo motivo, in cui parte ricorrente sostiene la tesi della non automaticità dell’applicazione delle sanzioni.
Le stesse argomentazioni valgono per ritenere infondato il motivo successivo, ripetitivo del precedente, in cui parte ricorrente invoca i principi di buona fede e di correttezza, partendo però sempre dall’errata convinzione che la stazione appaltante possa effettuare una valutazione autonoma dei fatti, che invece la norma esclude a priori, configurando le sanzioni come automatiche conseguenze (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 06.02.2014 n. 382 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: E' illegittimo, per vizio di difetto di istruttoria, l'ordine di rimozione della copertura in eternit della chiesa.
La presenza (incontestata) di materiale contenente amianto sul tetto della chiesa costituisce fonte di pericolo per la privata e pubblica incolumità, così da giustificare l’emissione dell’ordinanza contingibile ed urgente: tuttavia, la stessa non sfugge però alla necessità di un’adeguata istruttoria, dalla quale risultino quali specifiche prescrizioni debbano essere osservate, al fine di rimuovere la situazione pregiudizievole.
Nel caso di specie, l’esame del D.M. 06.09.1994 (“Normative e metodologie tecniche di applicazione dell'art. 6, comma 3, e dell'art. 12, comma 2, della legge 27.03.1992, n. 257, relativa alla cessazione dell'impiego dell'amianto”) mostra la necessità di avere riguardo all’effettiva consistenza del materiale, dovendo dipendere da esso la scelta del metodo di bonifica, tra quelli indicati all’art. 6 (rimozione; incapsulamento; confinamento).
Con detta norma tecnica sono dettate le indicazioni per la scelta del metodo di bonifica, precisando espressamente che <<un intervento di rimozione spesso non costituisce la migliore soluzione per ridurre l'esposizione ad amianto. Se viene condotto impropriamente può elevare la concentrazione di fibre aerodisperse, aumentando, invece di ridurre, il rischio di malattie da amianto>>.
A ciò consegue che l’ordinanza impugnata, priva di istruttoria e di motivazione in ordine alla scelta di rimuovere la copertura della chiesa, palesa una inesatta modalità di esercizio del potere, astrattamente idoneo (per quanto detto) ad aggravare il fenomeno anziché risolverlo, allorché sia dimostrato che la rimozione costituiva una cattiva scelta per prevenire il pericolo alla salute pubblica.

... per l’annullamento dell’ordinanza contingibile e urgente n. 230 prot. n. 0020039 del 31/07/2007, notificata il 06/08/2007; di qualsiasi altro atto presupposto, comunque connesso e/o consequenziale, ivi compreso il rapporto e/o la relazione dell’Ufficio di Polizia Municipale del Comune di Grottaglie, redatta a seguito del sopralluogo effettuato in data 06/05/2007.
...
Con l’impugnata ordinanza contingibile ed urgente, sulla scorta del sopralluogo effettuato dal Comando di Polizia Municipale presso la Chiesa Matrice in Piazza Regina Margherita, è stato ingiunto di “provvedere ad horas a mettere in sicurezza l’immobile rimuovendo la copertura in eternit e trasporto della stessa presso una discarica autorizzata”.
...
Il ricorso è meritevole di accoglimento.
Posto che la presenza (incontestata) di materiale contenente amianto sul tetto della Chiesa Madre di Grottaglie costituisce fonte di pericolo per la privata e pubblica incolumità, così da giustificare l’emissione dell’ordinanza contingibile ed urgente, la stessa non sfugge però alla necessità di un’adeguata istruttoria, dalla quale risultino quali specifiche prescrizioni debbano essere osservate, al fine di rimuovere la situazione pregiudizievole.
Nel caso di specie, l’esame del D.M. 06.09.1994 (“Normative e metodologie tecniche di applicazione dell'art. 6, comma 3, e dell'art. 12, comma 2, della legge 27.03.1992, n. 257, relativa alla cessazione dell'impiego dell'amianto”) mostra la necessità di avere riguardo all’effettiva consistenza del materiale, dovendo dipendere da esso la scelta del metodo di bonifica, tra quelli indicati all’art. 6 (rimozione; incapsulamento; confinamento).
Con detta norma tecnica sono dettate le indicazioni per la scelta del metodo di bonifica, precisando espressamente che <<un intervento di rimozione spesso non costituisce la migliore soluzione per ridurre l'esposizione ad amianto. Se viene condotto impropriamente può elevare la concentrazione di fibre aerodisperse, aumentando, invece di ridurre, il rischio di malattie da amianto>>.
A ciò consegue che l’ordinanza impugnata, priva di istruttoria e di motivazione in ordine alla scelta di rimuovere la copertura della chiesa, palesa una inesatta modalità di esercizio del potere, astrattamente idoneo (per quanto detto) ad aggravare il fenomeno anziché risolverlo, allorché sia dimostrato che la rimozione costituiva una cattiva scelta per prevenire il pericolo alla salute pubblica.
Il provvedimento è pertanto illegittimo, per il denunciato vizio di difetto di istruttoria, e va conseguentemente annullato (TAR Puglia-Lecce, I, sentenza 06.02.2014 n. 337 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di denuncia di inizio attività (DIA), come disciplinata dall’art. 22 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sussistono tuttora diversi indirizzi giurisprudenziali, circa la natura giuridica dell’istituto e degli effetti del decorso del termine, che consente al dichiarante di effettuare gli interventi edilizi oggetto di denuncia.
In alcune pronunce, in particolare, si ravvisa in esito alla procedura in questione la formazione di un provvedimento tacito, abilitativo dell’intervento; in altre decisioni si identifica la DIA come atto privato di autocertificazione, che pur non costituendo espressione di potestà pubblicistica resta oggetto di poteri di controllo ed inibitori, anche dopo la scadenza del predetto termine, sempre comunque nel rispetto degli articoli quinquies e nonies della legge n. 241/1990.
E’ riconosciuto dalla giurisprudenza, in ogni caso, l’affidamento del privato, cui sono finalizzati i principi garantistici dell’autotutela, in termini di comunicazione di avvio del procedimento e di motivata enunciazione di eventuali presupposti di inapplicabilità della DIA, anche a prescindere da un vero e proprio annullamento dell’assenso tacito, che si ritenesse in precedenza formato (purché in presenza di corretti requisiti formali dell’istanza: corrispondenza alle opere eseguite ed esibizione di altri atti di assenso eventualmente necessari, a norma dell’art. 23, comma 5, del d.P.R. n. 380/2001).

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Ove ricorrano i principi dell’autotutela il provvedimento sanzionatorio –di norma vincolato– assume connotati discrezionali, connessi all’esigenza di bilanciamento fra gli interessi pubblici e privati coinvolti, nei termini oggi specificati nell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990.
Un affidamento consolidato, in esito a DIA non resa oggetto di tempestiva contestazione, in altre parole, rende la comunicazione di avvio di cui trattasi non mero adempimento formale, ma atto prodromico dell’autotutela, da esercitare comunque con provvedimento motivato e non con mera applicazione della misura sanzionatoria.
Non si vede, pertanto, come detto fondamentale adempimento potesse considerarsi sostituito dalla mera presenza del diretto interessato al sopralluogo, non certo effettuato dall’organo competente a deliberare nei termini sopra specificati.

A diverse conclusioni si deve pervenire, poi, per quanto riguarda la recinzione e lo spargimento di brecciame.
Con riferimento alla recinzione, l’appellante ribadisce che l’intervento sarebbe stato preceduto, nel 2006 e nel 2008, da due denunce di inizio attività, in presenza delle quali le installazioni di cui trattasi non avrebbero potuto ritenersi abusive, con conseguente necessità che l’Amministrazione procedesse –prima di emettere eventuali provvedimenti repressivi– a rimuovere il titolo abilitativo, tacitamente formatosi, in via di autotutela. L’Amministrazione eccepisce, al riguardo, l’inammissibilità di “ius novorum” in appello. Detta eccezione è solo parzialmente condivisibile, in quanto la cesura di omessa comunicazione di avvio del procedimento, già prospettata in primo grado di giudizio (con entrambe le denunce di inizio attività depositate in atti), traeva solo da queste ultime ragione di fondatezza, risultando detta comunicazione non dovuta in presenza dei presupposti per l’emanazione di atti sanzionatori vincolati e dovuta, invece, per l’avvio di procedimenti in via di autotutela.
In materia di denuncia di inizio attività (DIA), come disciplinata dall’art. 22 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in effetti, sussistono tuttora diversi indirizzi giurisprudenziali, circa la natura giuridica dell’istituto e degli effetti del decorso del termine, che consente al dichiarante di effettuare gli interventi edilizi oggetto di denuncia.
In alcune pronunce, in particolare, si ravvisa in esito alla procedura in questione la formazione di un provvedimento tacito, abilitativo dell’intervento (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. VI, 05.04.2007, n. 1550; Cons. St., sez. IV, 12.03.2009, n. 1474 e 25.11.2008, n. 5811; Cons. St., sez. II, 28.05.2010, parere n. 1990); in altre decisioni si identifica la DIA come atto privato di autocertificazione, che pur non costituendo espressione di potestà pubblicistica resta oggetto di poteri di controllo ed inibitori, anche dopo la scadenza del predetto termine, sempre comunque nel rispetto degli articoli quinquies e nonies della legge n. 241/1990 (cfr. in tal senso Cons. St., sez. VI, 09.02.2009, n. 717 e 14.11.2012, n. 5751).
E’ riconosciuto dalla giurisprudenza, in ogni caso, l’affidamento del privato, cui sono finalizzati i principi garantistici dell’autotutela, in termini di comunicazione di avvio del procedimento e di motivata enunciazione di eventuali presupposti di inapplicabilità della DIA, anche a prescindere da un vero e proprio annullamento dell’assenso tacito, che si ritenesse in precedenza formato (purché in presenza di corretti requisiti formali dell’istanza: corrispondenza alle opere eseguite ed esibizione di altri atti di assenso eventualmente necessari, a norma dell’art. 23, comma 5, del d.P.R. n. 380/2001).
Nella situazione in esame, non risultando la sussistenza di vincoli, né comunque l’esigenza di altri preventivi pareri per la presentazione di denuncia di inizio attività, il Collegio ritiene che le caratteristiche delle opere –che appaiono peraltro di consistenza inferiore a quella segnalata nella sentenza in esame– non consentissero di considerare le denunce di inizio attività presentate “tamquam non essent”, con conseguente esigenza di previa comunicazione di avvio del procedimento di autotutela, finalizzato alla rimozione degli effetti autorizzativi, conseguenti al decorso del termine prescritto.
Ove infatti ricorrano i principi dell’autotutela il provvedimento sanzionatorio –di norma vincolato– assume connotati discrezionali, connessi all’esigenza di bilanciamento fra gli interessi pubblici e privati coinvolti, nei termini oggi specificati nell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990. Un affidamento consolidato, in esito a DIA non resa oggetto di tempestiva contestazione, in altre parole, rende la comunicazione di avvio di cui trattasi non mero adempimento formale, ma atto prodromico dell’autotutela, da esercitare comunque con provvedimento motivato e non con mera applicazione della misura sanzionatoria. Non si vede, pertanto, come detto fondamentale adempimento potesse considerarsi sostituito dalla mera presenza del diretto interessato al sopralluogo, non certo effettuato dall’organo competente a deliberare nei termini sopra specificati.
Non possono non rilevare, inoltre, le caratteristiche della recinzione di cui trattasi, oggettivamente diverse –come comprovato tramite perizia di parte e documentazione fotografica– da quelle che nella sentenza appellata avevano fatto dichiarare necessario il permesso di costruire: al posto della “recinzione in cemento armato alta 2 metri e 60 centimetri” è rilevabile, infatti, solo un muretto di altezza variabile fra metri 1,06 a metri 0,83, con sovrastante cancellata di non lieve consistenza, ma comunque distinta dall’opera muraria (con evidente possibilità che l’intervento, effettuato in base a titoli abilitativi taciti diversi, fosse ritenuto in tutto o almeno in parte –in termini da precisare in un provvedimento motivato– assoggettabile a DIA, sufficiente per delimitazioni dei confini non effettuate con opere di consistente entità, come confermato dalla giurisprudenza citata nella stessa sentenza appellata)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.02.2014 n. 532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Spargimento di brecciame e attività edilizia libera.
Può ritenersi rispondente all’attività edilizia libera, di cui all’art. 6 del d.P.R. n. 380/2001, la mera diffusione sul terreno di materiale ghiaioso leggero, inframmezzato alla vegetazione spontanea, facilmente asportabile e rispondente a dichiarate (nonché plausibili) esigenze di drenaggio, in assenza di coltivazioni in corso.

Quanto allo spargimento di brecciame, infine, le caratteristiche finali del terreno –a loro volta comprovate da perizia e documentazione fotografica– appaiono lungi dal configurarne l’integrale pavimentazione (implicante mutamento della destinazione agricola dell’area e soggetta a permesso di costruire), così come non appaiono sussistenti cumuli di materiale, qualificabili come deposito. Può d’altra parte ritenersi rispondente all’attività edilizia libera, di cui all’art. 6 del d.P.R. n. 380/2001, la mera diffusione sul terreno di materiale ghiaioso leggero, inframmezzato alla vegetazione spontanea, facilmente asportabile e rispondente a dichiarate (nonché plausibili) esigenze di drenaggio, in assenza di coltivazioni in corso
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.02.2014 n. 532 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEDall'art. 3 DPR n. 327/2001 consegue che, in linea generale, non possono essere prospettate violazioni delle norme afferenti alla comunicazione degli atti espropriativi e, quindi, violazione del principio di partecipazione al procedimento amministrativo, una volta che l'amministrazione abbia effettivamente disposto le comunicazioni in favore dei proprietari risultanti dai registri catastali, salvo che l'amministrazione non abbia "notizia dell'eventuale diverso proprietario effettivo".
Quanto a tale "notizia" -che, ai sensi dell'art. 3, comma 2, DPR n. 327/2001, ove sussistente, impone all'amministrazione di procedere alla comunicazione non già al proprietario "catastale" (secondo la regola generale) ma a quello "effettivo", essendo quest'ultimo da essa conosciuto- occorre osservare che essa non può essere rappresentata, o essere comunque desunta, da un qualsivoglia atto che, in tempi ed in procedimenti diversi, sia comunque pervenuto alla pubblica amministrazione, ma deve essere correttamente intesa come una notizia recante l'emersione del "vero" proprietario, acquisita dalla pubblica amministrazione nell'ambito della medesima o in diversa procedura espropriativa, o nel corso delle attività a questa propedeutiche.
Occorre, quindi, una conoscenza dell'effettivo proprietario che sia certa (incombendo l'onere della prova della conoscenza su chi eccepisce l'illegittimità delle comunicazioni effettuate al proprietario "catastale"), e non solo astrattamente desumibile dalla presenza di un qualsivoglia atto, prodotto o acquisito in tempi e procedimenti diversi da quello espropriativo, cui l'obbligo di comunicazione degli atti afferisce.

Occorre innanzi tutto ricordare che l'art. 3 DPR n. 327/2001, prevede, per quel che interessa nella presente sede: (comma 2) "Tutti gli atti della procedura espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il decreto di esproprio, sono disposti nei confronti del soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo che l'autorità espropriante non abbia tempestiva notizia dell'eventuale diverso proprietario effettivo. Nel caso in cui abbia avuto notizia della pendenza della procedura espropriativa dopo la comunicazione dell'indennità provvisoria al soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, il proprietario effettivo può, nei trenta giorni successivi, concordare l'indennità ai sensi dell' articolo 45, comma 2." (comma 3) "Colui che risulta proprietario secondo i registri catastali e riceva la notificazione o comunicazione di atti del procedimento espropriativo, ove non sia più proprietario è tenuto di comunicarlo all'amministrazione procedente entro trenta giorni dalla prima notificazione, indicando altresì, ove ne sia a conoscenza, il nuovo proprietario, o comunque fornendo copia degli atti in suo possesso utili a ricostruire le vicende dell'immobile.".
In sensi analoghi (considerando, cioè, il proprietario risultante dai registri catastali) già disponeva anche l'art. 10 l. n. 865/1971.
Dall'art. 3 DPR n. 327/2001 cit., consegue che, in linea generale, non possono essere prospettate violazioni delle norme afferenti alla comunicazione degli atti espropriativi e, quindi, violazione del principio di partecipazione al procedimento amministrativo, una volta che l'amministrazione abbia effettivamente disposto le comunicazioni in favore dei proprietari risultanti dai registri catastali (Cons. Stato, sez. IV, 26.02.2008 n. 677), salvo che l'amministrazione non abbia "notizia dell'eventuale diverso proprietario effettivo".
Quanto a tale "notizia" -che, ai sensi dell'art. 3, comma 2, DPR n. 327/2001, ove sussistente, impone all'amministrazione di procedere alla comunicazione non già al proprietario "catastale" (secondo la regola generale) ma a quello "effettivo", essendo quest'ultimo da essa conosciuto- occorre osservare che essa non può essere rappresentata, o essere comunque desunta, da un qualsivoglia atto che, in tempi ed in procedimenti diversi, sia comunque pervenuto alla pubblica amministrazione, ma deve essere correttamente intesa come una notizia recante l'emersione del "vero" proprietario, acquisita dalla pubblica amministrazione nell'ambito della medesima o in diversa procedura espropriativa, o nel corso delle attività a questa propedeutiche. Occorre, quindi, una conoscenza dell'effettivo proprietario che sia certa (incombendo l'onere della prova della conoscenza su chi eccepisce l'illegittimità delle comunicazioni effettuate al proprietario "catastale"), e non solo astrattamente desumibile dalla presenza di un qualsivoglia atto, prodotto o acquisito in tempi e procedimenti diversi da quello espropriativo, cui l'obbligo di comunicazione degli atti afferisce.
Da quanto ora esposto, consegue che –in carenza di tale prova della conoscenza del proprietario effettivo– bene l’Amministrazione ebbe a comunicare gli avvisi agli intestatari catastali (in termini, ex aliis, Consiglio di Stato sez. IV 16.09.2011 n. 5233) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2014 n. 505 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa mancata impugnazione della delibera di rigetto delle osservazioni al piano regolatore in itinere è irrilevante ai fini della corretta instaurazione del ricorsi proposto avverso la delibera di adozione del Prg, sia per la loro natura di forme di collaborazione alla formazione del piano regolatore sia per il loro assorbimento per effetto dell'intervenuta impugnazione del piano stesso.
Anche di recente costante quanto consolidata giurisprudenza ha affermato che “ai fini della corretta instaurazione del ricorso proposto avverso la deliberazione del Consiglio comunale di adozione del p.r.g., non è necessario che il ricorrente impugni altresì l'atto di rigetto delle osservazioni da lui stesso eventualmente presentate nei confronti del piano regolatore "in itinere", dovendosi queste ultime ritenere assorbite nei motivi di impugnazione.”
Ciò in quanto "le osservazioni del privato in un procedimento di formazione di un P.R.G., ovvero di variante allo stesso, hanno valore di mero apporto collaborativo e non costituiscono in alcun modo un onere per l'interessato, cosicché la mancata partecipazione al predetto procedimento non rappresenta acquiescenza e non determina alcuna preclusione quanto alla futura impugnazione dello strumento urbanistico stesso e/o dei suoi atti applicativi.”.
In passato, si predicava addirittura la inammissibilità di una simile azione impugnatoria: “è inammissibile, potendo le relative doglianze essere fatte valere solo nei confronti della delibera di approvazione del piano di lottizzazione, per costante orientamento giurisprudenziale, l'impugnazione della delibera di reiezione delle osservazioni ad una variante del P.R.G. incidente -tra l'altro- su aree incluse in un piano di lottizzazione”).
Per altro verso, e quanto al secondo profilo, questa Sezione del Consiglio di Stato ha costantemente ribadito il principio per cui “la mera adozione del piano regolatore, non ancora approvato, determina la facoltà, ma non anche l'onere di impugnazione”.

Quanto al secondo profilo, si rammenta che, per costante quanto consolidata giurisprudenza –pienamente condivisa da questo Collegio che non ravvisa alcun motivo per mutare opinione sul punto- ”la mancata impugnazione della delibera di rigetto delle osservazioni al piano regolatore in itinere è irrilevante ai fini della corretta instaurazione del ricorsi proposto avverso la delibera di adozione del Prg, sia per la loro natura di forme di collaborazione alla formazione del piano regolatore sia per il loro assorbimento per effetto dell'intervenuta impugnazione del piano stesso” (ex aliis TAR Lombardia Milano, sez. II, 04.11.2004, n. 5594).
Anche di recente costante quanto consolidata giurisprudenza (Cons. Giust. Amm. Sic. Sent., 19.12.2008, n. 1142) ha affermato che “ai fini della corretta instaurazione del ricorso proposto avverso la deliberazione del Consiglio comunale di adozione del p.r.g., non è necessario che il ricorrente impugni altresì l'atto di rigetto delle osservazioni da lui stesso eventualmente presentate nei confronti del piano regolatore "in itinere", dovendosi queste ultime ritenere assorbite nei motivi di impugnazione.”
Ciò in quanto (si veda ex aliis Cons. Stato Sez. IV, 01.03.2010, n. 1176) “le osservazioni del privato in un procedimento di formazione di un P.R.G., ovvero di variante allo stesso, hanno valore di mero apporto collaborativo e non costituiscono in alcun modo un onere per l'interessato, cosicché la mancata partecipazione al predetto procedimento non rappresenta acquiescenza e non determina alcuna preclusione quanto alla futura impugnazione dello strumento urbanistico stesso e/o dei suoi atti applicativi.”.
In passato, si predicava addirittura la inammissibilità di una simile azione impugnatoria (Cons. Stato Sez. IV, 31.05.2003, n. 3041: “è inammissibile, potendo le relative doglianze essere fatte valere solo nei confronti della delibera di approvazione del piano di lottizzazione, per costante orientamento giurisprudenziale, l'impugnazione della delibera di reiezione delle osservazioni ad una variante del P.R.G. incidente -tra l'altro- su aree incluse in un piano di lottizzazione”).
Per altro verso, e quanto al secondo profilo, questa Sezione del Consiglio di Stato (Sez. IV, 15.02.2013, n. 921) ha costantemente ribadito il principio per cui “la mera adozione del piano regolatore, non ancora approvato, determina la facoltà, ma non anche l'onere di impugnazione” (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2014 n. 496 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIl termine previsto per la conclusione della procedura ablatoria, coincidente con la data di adozione del conclusivo provvedimento che pronuncia l’esproprio assume i connotati della perentorietà di guisa l’inutile decorso del termine de quo comporta la inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità e la illegittimità dell’intera procedura espropriativa per cattivo esercizio del potere ablatorio da parte della P.A..
Questo Consiglio di Stato ha più volte statuito il principio per cui il termine previsto per la conclusione della procedura ablatoria, coincidente con la data di adozione del conclusivo provvedimento che pronuncia l’esproprio assume i connotati della perentorietà di guisa l’inutile decorso del termine de quo comporta la inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità e la illegittimità dell’intera procedura espropriativa per cattivo esercizio del potere ablatorio da parte della P.A. (ex multis, Cons. Stato Sez. Sez. V 18.03.2002 n. 1562; Sez. VI 07/09/2006 n. 5190) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2014 n. 495 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAI vincoli urbanistici non indennizzabili, che sfuggono alla previsione del predetto articolo 2 della L. 19.11.1968, n. 1187, sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, che devono invece essere indennizzati, sono:
a) quelli preordinati all'espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso l'imposizione a titolo particolare su beni determinati di condizioni di inedificabilità assoluta;
b) quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l'esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata a tale esproprio con l'approvazione dei piani urbanistici esecutivi;
c) quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge nell'ambito dell'art. 42 Cost..

Nei termini descritti, tutti i vincoli finalizzati all’esproprio contengono un dato ipotetico: e per questo “nasce” a tutela della posizione del privato e si rende necessaria dell’ordinamento la posizione espressa dalla Corte costituzionale, con la “storica” sentenza 20.05.1999, n. 179 (dichiarativa dell'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 7, n. 2, 3 e 4 e 40 della L. 17.08.1942, n. 1150, e 2, primo comma, della L. 19.11.1968, n. 1187, nella parte in cui consente all'Amministrazione di reiterare i vincoli urbanistici scaduti preordinati all'espropriazione o che comportino l'inedificabilità, senza la previsione di un indennizzo).
Il che ha portato la uniforme giurisprudenza amministrativa ad affermare (ex multis Cons. Stato Sez. V, 13.04.2012, n. 2116) che “i vincoli urbanistici non indennizzabili, che sfuggono alla previsione del predetto articolo 2 della L. 19.11.1968, n. 1187, sono quelli che riguardano intere categorie di beni, quelli di tipo conformativo e i vincoli paesistici, mentre i vincoli urbanistici soggetti alla scadenza quinquennale, che devono invece essere indennizzati, sono: a) quelli preordinati all'espropriazione ovvero aventi carattere sostanzialmente espropriativo, in quanto implicanti uno svuotamento incisivo della proprietà, se non discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore statale o regionale, attraverso l'imposizione a titolo particolare su beni determinati di condizioni di inedificabilità assoluta; b) quelli che superano la durata non irragionevole e non arbitraria ove non si compia l'esproprio o non si avvii la procedura attuativa preordinata a tale esproprio con l'approvazione dei piani urbanistici esecutivi; c) quelli che superano quantitativamente la normale tollerabilità, secondo una concezione della proprietà regolata dalla legge nell'ambito dell'art. 42 Cost..”.
Detta tesi è poi stata positivamente recepita, come è noto, da una disposizione del dPR n. 327/2001 (l’art. 9) in quanto ivi è certamente affermato il principio della decadenza del vincolo preordinato all’esproprio.
La decadenza del vincolo imprime appunto un limite temporale alla “ipotesi” (che riposa nella futura intrapresa della realizzazione dell’area in un tempo contenuto, pena la decadenza del vincolo).
Se così è, di nulla può dolersi l’appellante se il vincolo impresso sia più esteso dell’area interessata dal progetto preliminare: l’Amministrazione decide liberamente la tempistica realizzativa delle opere che si propone di erigere, con il solo rispetto del barrage temporale di decadenza
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2014 n. 493 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIIl difetto di inserimento dell'opera nel programma triennale non rende illegittima la sua realizzazione nel caso in cui sia finanziata attraverso fondi differenti rispetto a quelli contemplati in ambito di redazione del programma stesso, in quanto in base all'art. 14 n. 9, L. n. 109 dell'11.02.1994, sost. dall'art. 4, L. n. 413 del 1998, le opere pubbliche, non inserite nel programma triennale, possono essere realizzate sulla base di un autonomo piano di finanziamento che non utilizzi risorse già previste tra i mezzi finanziari dell'amministrazione al momento della formazione dell'elenco.
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La progettazione in materia di lavori pubblici si articola secondo tre livelli di successivi approfondimenti tecnici, in preliminare, definitiva ed esecutiva.
Il progetto preliminare definisce le caratteristiche qualitative e funzionali dei lavori, il quadro delle esigenze da soddisfare e delle specifiche prestazioni da fornire e consiste in una relazione illustrativa delle ragioni della scelta della soluzione prospettata in base alle valutazioni delle soluzioni possibili.
Il progetto definitivo individua compiutamente i lavori da realizzare, nel rispetto delle esigenze, dei criteri, dei vincoli, degli indirizzi e delle indicazioni stabiliti nel progetto preliminare e contiene tutti gli elementi necessari ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni e approvazioni.
Il progetto esecutivo, redatto in conformità al progetto definitivo, determina in ogni dettaglio i lavori da realizzare e il relativo costo previsto e deve essere sviluppato ad un livello di definizione tale da consentire che ogni elemento sia identificabile in forma, tipologia, qualità, dimensione e prezzo (ex aliis Cons. Stato Sez. VI, 11.11.2013, n. 5365, ma si veda anche Cons. Stato Sez. IV, 21.10.2013, n. 5094 per l’affermazione secondo cui solo nel caso di approvazione di un progetto definitivo o esecutivo è connessa la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera).

Quanto (terza censura) alla affermata carenza di copertura finanziaria la circostanza che l’opera in questione non risultasse inserita nel programma triennale dei lavori pubblici 2009/2011 (d.lgs. n. 163/2006 e d.P.R. n. 554/1999) non è dirimente.
E’ rimasto infatti incontestato che all’atto dell’approvazione del progetto preliminare non era ancora intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
Per altro verso, l’appellante non pare avere inteso l’ulteriore sviluppo motivo del Tar allorché si duole che il primo giudice non avesse verificato la sussistenza o meno del piano finanziario autonomo.
E’ insegnamento consolidato della ante vigente giurisprudenza –di inalterata validità- quello per cui “il difetto di inserimento dell'opera nel programma triennale non rende illegittima la sua realizzazione nel caso in cui sia finanziata attraverso fondi differenti rispetto a quelli contemplati in ambito di redazione del programma stesso, in quanto in base all'art. 14 n. 9, L. n. 109 dell'11.02.1994, sost. dall'art. 4, L. n. 413 del 1998, le opere pubbliche, non inserite nel programma triennale, possono essere realizzate sulla base di un autonomo piano di finanziamento che non utilizzi risorse già previste tra i mezzi finanziari dell'amministrazione al momento della formazione dell'elenco” (TAR Toscana Firenze Sez. III, 16.04.2004, n. 1162 ).
Ciò implica che l’opera, ovviamente ed a fortiori, sia progettabile ma soprattutto che affermazione della doverosità della “ricerca“ del piano finanziario autonomo antecedentemente alla emissione dichiarazione di pubblica utilità costituisca affermazione frutto di un evidente errore: la sentenza è in parte qua immune da censure.
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Il quarto motivo va disatteso (esso sarebbe certamente inammissibile perché in nulla critica la sentenza reiterando la stessa obiezione motivatamente disattesa in primo grado) alla stregua del principio per cui il progetto preliminare "deve consentire l'avvio della procedura espropriativa", ma non prescrive il presupposto dell'attuale conformità urbanistica, mentre tale presupposto deve necessariamente sussistere soltanto al momento dell'approvazione del progetto definitivo, poiché solo tale livello di progettazione costituisce dichiarazione di pubblica utilità dell'opera pubblica o di pubblica utilità.
Detto corollario è armonico alla previsione di cui all’art. 93 D.Lgs. n. 163/2006 (Codice degli appalti) secondo il quale la progettazione in materia di lavori pubblici si articola secondo tre livelli di successivi approfondimenti tecnici, in preliminare, definitiva ed esecutiva.
Il progetto preliminare definisce le caratteristiche qualitative e funzionali dei lavori, il quadro delle esigenze da soddisfare e delle specifiche prestazioni da fornire e consiste in una relazione illustrativa delle ragioni della scelta della soluzione prospettata in base alle valutazioni delle soluzioni possibili. Il progetto definitivo individua compiutamente i lavori da realizzare, nel rispetto delle esigenze, dei criteri, dei vincoli, degli indirizzi e delle indicazioni stabiliti nel progetto preliminare e contiene tutti gli elementi necessari ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni e approvazioni. Il progetto esecutivo, redatto in conformità al progetto definitivo, determina in ogni dettaglio i lavori da realizzare e il relativo costo previsto e deve essere sviluppato ad un livello di definizione tale da consentire che ogni elemento sia identificabile in forma, tipologia, qualità, dimensione e prezzo (ex aliis Cons. Stato Sez. VI, 11.11.2013, n. 5365, ma si veda anche Cons. Stato Sez. IV, 21.10.2013, n. 5094 per l’affermazione secondo cui solo nel caso di approvazione di un progetto definitivo o esecutivo è connessa la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2014 n. 493 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parcheggi interrati per effetto del riporto di terra.
I parcheggi pertinenziali realizzati nel sottosuolo degli immobili e che possono essere costruiti anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti ai sensi dell'art. 9, legge n. 122 del 1989, sono solo quelli costruiti totalmente al di sotto del piano di campagna naturale e non quelli artificialmente interrati per effetto del riporto di terra.
L'art. 9 della L. 24.03.1989, n. 122, non è applicabile nel caso di realizzazione di un garage che non è interrato e che al fine del suo interramento comunque richiede una operazione di sistemazione del soprassuolo per rendere in definitiva interrato ciò che non lo sarebbe mantenendo l'originario andamento del suolo, atteso che la realizzazione di strutture de quibus resta pacificamente ammessa solo in assenza di alterazioni visibili del territorio, argomento valido anche per le autorimesse pertinenziali se ed in quanto sotterranee.
Per costruzione interrata si intende una costruzione che sia totalmente a quota non superiore a quella dell'originario piano di campagna.
Si è condivisibilmente rilevato infatti che “i parcheggi pertinenziali realizzati nel sottosuolo degli immobili e che possono essere costruiti anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti ai sensi dell'art. 9, legge n. 122 del 1989, sono solo quelli costruiti totalmente al di sotto del piano di campagna naturale e non quelli artificialmente interrati per effetto del riporto di terra”. Tra l'altro, “le norme sulle distanze legali fra costruzioni in quanto rivolte ad impedire la formazione di intercapedini dannose non trovano applicazione con riguardo a costruzioni o a parti di costruzioni interrate; realizzate interamente al di sotto del piano di campagna".
Si è detto peraltro, più puntualmente, che "l'art. 9 della L. 24.03.1989, n. 122, non è applicabile nel caso di realizzazione di un garage che non è interrato e che al fine del suo interramento comunque richiede una operazione di sistemazione del soprassuolo per rendere in definitiva interrato ciò che non lo sarebbe mantenendo l'originario andamento del suolo, atteso che la realizzazione di strutture de quibus resta pacificamente ammessa solo in assenza di alterazioni visibili del territorio, argomento valido anche per le autorimesse pertinenziali se ed in quanto sotterranee.”
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Anche in considerazione che l’interramento non è “naturale”, trova applicazione il costante principio per cui “nell'ambito della fascia di rispetto autostradale di 60 metri, prevista dal D.M. 01.04.1968, n. 1404, il vincolo di inedificabilità è assoluto, essendo a tal fine irrilevanti le caratteristiche concrete delle opere abusive realizzate nell'ambito della fascia medesima; il divieto di costruire è infatti in questo caso correlato alla esigenza di assicurare un'area libera utilizzabile dal concessionario dell'autostrada -all'occorrenza- per installarvi cantieri, depositare materiali, per necessità varie e, comunque, per ogni necessità di gestione relativa ad interventi in loco sulla rete autostradale. Il divieto di edificazione nell'ambito della fascia di rispetto autostradale è assoluto e la sua violazione impedisce il conseguimento di una concessione edilizia a seguito di domanda di condono edilizio.”.
Ancora di recente, si è ribadito che (“in relazione alle opere realizzate in zona vincolata, ricadente in fascia di rispetto stradale, si è in presenza di un vincolo di carattere assoluto, che prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata, in quanto il divieto di "edificazione" sancito dall'art. 4, D.M. 01.04.1968 (recante norme in materia di "distanze minime a protezione del nastro stradale da osservarsi nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui all'art. 19, legge 06.08.1967, n. 765"), non può essere inteso restrittivamente, cioè al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità di interesse generale, e, cioè, per esempio, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza di costruzioni.
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Con riguardo ad altro vincolo (di pari assolutezza, però, sì che il principio ivi affermato appare perfettamente traslabile alla fattispecie) la giurisprudenza ha posto in luce che “anche il parcheggio interrato, da realizzare ai sensi dell'art. 9 della L. n. 122/1989, in quanto struttura servente all'uso abitativo e, comunque, posta nell'ambito della fascia di rispetto cimiteriale, rientra tra le costruzioni edilizie del tutto vietate dalla disposizione di cui all'art. 338 del R.D. n. 1265/1934".

Nel merito, così stabilisce l’art. 9 della L. 24.03.1989 n. 122 nel testo ratione temporis vigente e pertanto applicabile alla odierna fattispecie: “1. I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici . Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni. I parcheggi stessi, ove i piani urbani del traffico non siano stati redatti, potranno comunque essere realizzati nel rispetto delle indicazioni di cui al periodo precedente.
2. L'esecuzione delle opere e degli interventi previsti dal comma 1 è soggetta a denuncia di inizio attività .
3. Le deliberazioni che hanno per oggetto le opere e gli interventi di cui al comma 1 sono approvate salvo che si tratti di proprietà non condominiale, dalla assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con la maggioranza prevista dall'articolo 1136, secondo comma, del codice civile. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo comma, e 1121, terzo comma, del codice civile.
4. I comuni, previa determinazione dei criteri di cessione del diritto di superficie e su richiesta dei privati interessati o di imprese di costruzione o di società anche cooperative, possono prevedere, nell'ambito del programma urbano dei parcheggi, la realizzazione di parcheggi da destinare a pertinenza di immobili privati su aree comunali o nel sottosuolo delle stesse . Tale disposizione si applica anche agli interventi in fase di avvio o già avviati. La costituzione del diritto di superficie è subordinata alla stipula di una convenzione nella quale siano previsti:
a) la durata della concessione del diritto di superficie per un periodo non superiore a novanta anni;
b) il dimensionamento dell'opera ed il piano economico-finanziario previsti per la sua realizzazione;
c) i tempi previsti per la progettazione esecutiva, la messa a disposizione delle aree necessarie e la esecuzione dei lavori;
d) i tempi e le modalità per la verifica dello stato di attuazione nonché le sanzioni previste per gli eventuali inadempimenti.
5. I parcheggi realizzati ai sensi del presente articolo non possono essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale. I relativi atti di cessione sono nulli.
6. Le opere e gli interventi di cui ai precedenti commi 1 e 4, nonché gli acquisti di immobili destinati a parcheggi, effettuati da enti o imprese di assicurazione sono equiparati, ai fini della copertura delle riserve tecniche, ad immobili ai sensi degli articoli 32 ed 86 della legge 22.10.1986, n. 742.
“.
La costante giurisprudenza amministrativa ha sempre in proposito riconosciuto che -in ossequio alla ratio legis ivi espressa- si deve riconoscere che trattasi di norma di favore che, però, a propria volta soggiace a taluni limiti.
Per venire immediatamente alla fattispecie per cui è causa, sotto il profilo oggettivo costituisce condiviso approdo giurisprudenziale quello per cui per costruzione interrata si intende una costruzione che sia totalmente a quota non superiore a quella dell'originario piano di campagna.
Si è condivisibilmente rilevato infatti che “i parcheggi pertinenziali realizzati nel sottosuolo degli immobili e che possono essere costruiti anche in deroga agli strumenti urbanistici vigenti ai sensi dell'art. 9, legge n. 122 del 1989, sono solo quelli costruiti totalmente al di sotto del piano di campagna naturale e non quelli artificialmente interrati per effetto del riporto di terra” (cfr. TAR Piemonte, n. 138/1999 Cass. pen. Sez. III, 09.05.2003, n. 26825 App. Perugia, 03.12.2007 nonché Cass. 12489 del 04/12/1995: “le norme sulle distanze legali fra costruzioni in quanto rivolte ad impedire la formazione di intercapedini dannose non trovano applicazione con riguardo a costruzioni o a parti di costruzioni interrate; realizzate interamente al di sotto del piano di campagna").
Si è detto peraltro, più puntualmente, che (TAR Campania Napoli Sez. VII, 06.09.2012, n. 3760) "l'art. 9 della L. 24.03.1989, n. 122, non è applicabile nel caso di realizzazione di un garage che non è interrato e che al fine del suo interramento comunque richiede una operazione di sistemazione del soprassuolo per rendere in definitiva interrato ciò che non lo sarebbe mantenendo l'originario andamento del suolo, atteso che la realizzazione di strutture de quibus resta pacificamente ammessa solo in assenza di alterazioni visibili del territorio, argomento valido anche per le autorimesse pertinenziali se ed in quanto sotterranee.”
Già tale condivisibile approdo consentirebbe di accogliere l’appello, in quanto esso è espressivo di principi diametralmente opposti rispetto al dictum del primo giudice, o comunque da quest’ultimo non adeguatamente valorizzati.
Ma anche sotto l’altro profilo ivi segnalato, il gravame merita accoglimento: anche in considerazione che l’interramento non è “naturale”, trova applicazione il costante principio per cui (TAR Campania Salerno Sez. II, 13.06.2013, n. 1322) “nell'ambito della fascia di rispetto autostradale di 60 metri, prevista dal D.M. 01.04.1968, n. 1404, il vincolo di inedificabilità è assoluto, essendo a tal fine irrilevanti le caratteristiche concrete delle opere abusive realizzate nell'ambito della fascia medesima; il divieto di costruire è infatti in questo caso correlato alla esigenza di assicurare un'area libera utilizzabile dal concessionario dell'autostrada -all'occorrenza- per installarvi cantieri, depositare materiali, per necessità varie e, comunque, per ogni necessità di gestione relativa ad interventi in loco sulla rete autostradale. Il divieto di edificazione nell'ambito della fascia di rispetto autostradale è assoluto e la sua violazione impedisce il conseguimento di una concessione edilizia a seguito di domanda di condono edilizio.”.
Ancora di recente, si è ribadito che (TAR Toscana Firenze Sez. III, 12.03.2013, n. 405 “in relazione alle opere realizzate in zona vincolata, ricadente in fascia di rispetto stradale, si è in presenza di un vincolo di carattere assoluto, che prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata, in quanto il divieto di "edificazione" sancito dall'art. 4, D.M. 01.04.1968 (recante norme in materia di "distanze minime a protezione del nastro stradale da osservarsi nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui all'art. 19, legge 06.08.1967, n. 765"), non può essere inteso restrittivamente, cioè al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità di interesse generale, e, cioè, per esempio, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza di costruzioni.
Con riguardo ad altro vincolo (di pari assolutezza, però, sì che il principio ivi affermato appare perfettamente traslabile alla fattispecie) la giurisprudenza ha posto in luce che (Cons. Stato Sez. V, 14.09.2010, n. 6671) “anche il parcheggio interrato, da realizzare ai sensi dell'art. 9 della L. n. 122/1989, in quanto struttura servente all'uso abitativo e, comunque, posta nell'ambito della fascia di rispetto cimiteriale, rientra tra le costruzioni edilizie del tutto vietate dalla disposizione di cui all'art. 338 del R.D. n. 1265/1934"
(pre-massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.02.2014 n. 485 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Circa le formalità da rispettare per la redazione dei verbali di gara, l’Adunanza Plenaria ha rilevato l’assenza di disposizioni normative di dettaglio ed ha condiviso l’orientamento già seguito da Cons. St., sez. V, 22.02.2011 n. 1094; Cons. St., sez. V, 25.07.2006 n. 4657; Id., sez. IV, 05.10.2005 n. 5360; Id., sez. V, 10.05.2005 n. 2342; Id. sez. V, 20.09.2001 n. 4973.
Invero, la mancata dettagliata indicazione nei verbali di gara delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituisce di per sé motivo di illegittimità delle operazioni di gara, dovendo invece aversi riguardo al fatto che, in concreto, non si sia verificata l’alterazione della documentazione.
Sul punto controverso la Sezione remittente innesta la seconda questione che è posta all’esame dell’Adunanza Plenaria ed investe le modalità di custodia in corso di gara dei plichi contenenti gli atti del procedimento allo scopo di preservarli da indebita manomissione, nonché alle modalità di verbalizzazione.
Con attento e compiuto esame l’ordinanza di remissione pone in rilievo che la giurisprudenza si presenta in prevalenza rigorosa in ordine alle misure da adottare per garantire la conservazione e l’integrità dei plichi contenenti le offerte, in modo che ne sia assicurata la segretezza, e richiede che le cautele adottate siano menzionate ed indicate nel verbale. di gara (Cons. St., sez. VI, 27.07.2011 n. 4487; Cons. St., sez. V, 21.05.2010, n. 3203; id.,12.12.2009 n. 7804). L'integrità dei plichi contenti le offerte costituisce garanzia della segretezza delle stesse e della par condicio di tutti i concorrenti, assicurando il rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità cui deve conformarsi l'azione amministrativa (Cons. St., sez. V, 21.05.2010 n. 3203; Id., 20.03.2008 n. 1219).
Il su riferito orientamento comporta in particolare:
- l’individuazione di un soggetto responsabile della custodia dei plichi o di un consegnatario degli stessi;
- l’insufficienza di verbalizzazioni con generico riferimento ai locali di custodia dei plichi, senza precisare se gli stessi (e in particolare le buste con l’offerta tecnica) siano stati nuovamente risigillati o comunque richiusi in modo adeguato così da evitare qualsivoglia ipotesi di manomissione (Cons. St., sez. V, 21.05.2010 n. 3203);
- l’obbligo della commissione di adottare le cautele idonee a garantire la segretezza degli atti di gara ed a prevenire rischi di manomissioni, indicando nel verbale tali cautele e dando atto a verbale della integrità dei plichi;
- nel verbale deve risultare il nominativo di colui cui siano materialmente consegnati i plichi, che ne assume le conseguenti responsabilità, ovvero –con chiarezza e univocità– deve essere indicato l’ufficio cui sono consegnati e all’interno del quale essi vanno conservati (con individuazione immediata del suo responsabile); in qualsiasi momento, ogni autorità giurisdizionale o amministrativa (a seconda dei casi e delle relative funzioni, anche di vigilanza) dalla lettura dei verbali di consegna deve poter agevolmente accertare quali siano stati i passaggi dei plichi, ove essi siano stati collocati nel corso del tempo, chi abbia posto mano su di essi e ogni altra circostanza attinente alla loro integrità e conservazione.
Le cautele osservate possono reputarsi idonee allo scopo solo se assicurano la conservazione dei plichi in luogo chiuso, non accessibile al pubblico, e con individuazione di un soggetto o ufficio responsabile dell’inaccessibilità del luogo a terzi. Anche se non occorrono formule sacramentali la verbalizzazione è legittima se, oltre ad elencare le cautele adottate, indica, sotto la responsabilità dei verbalizzanti, che le cautele sono state efficaci in quanto i plichi sono integri (Cons. St., sez. VI, 23.06.2011 n. 3803; Cons. St., sez. VI, 30.06.2011 n. 3902; Cons. St., sez. VI, 27.07.2011 n. 4487).
Secondo l’orientamento giurisprudenziale in esame le garanzie a cautela della integrità dei plichi integrerebbero una fattispecie di pericolo, non una fattispecie di danno. Sarebbe sufficiente che dalle risultanze processuali emerga che, per inosservanza di norme precauzionali, la documentazione di gara sia rimasta esposta al rischio di manomissione per ritenere invalide le operazioni di gara, senza che a carico dell’interessato possa configurarsi un onere di provare un concreto evento di danno (Cons. St., sez. V, 21.05.2010 n. 3203). E’sufficiente, quindi, la sola esposizione al rischio di manomissione della documentazione per ritenere invalide le operazioni di gara (Cons. St., sez. V, 16.03.2011 n. 1617).
Un secondo orientamento reputa che la mancata emersione dagli atti di gara dell’osservanza delle su elencate cautele assume solo un ruolo indiziario rispetto alla dimostrazione di elementi che facciano dubitare della c.d. genuinità dei plichi, occorrendo comunque provare che vi sia stata una violazione dell’integrità e segretezza dei plichi.
Si è affermato che la mancata dettagliata indicazione nei verbali di gara delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituisce di per sé motivo di illegittimità delle operazioni di gara, dovendo invece aversi riguardo al fatto che, in concreto, non si sia verificata l’alterazione della documentazione (Cons. St., sez. V, 22.02.2011 n. 1094; Cons. St., sez. V, 25.07.2006 n. 4657; Id., sez. IV, 05.10.2005 n. 5360; Id., sez. V, 10.05.2005 n. 2342; Id. sez. V, 20.09.2001 n. 4973).
Siffatto contesto giurisprudenziale ripudia il più rigoroso orientamento perché espressione di un indirizzo formale, con la conseguenza che la mancata dettagliata indicazione nei verbali di gara delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituisce di per sé motivo di illegittimità del verbale e della complessiva attività posta in essere dalla commissione di gara, laddove il concreto andamento della medesima ovvero ulteriori elementi non inducano a dubitare della corretta conservazione.
2.3. La questione sottoposta all’esame dell’Adunanza concerne gli adempimenti della commissione preposta all’esame delle offerte che devono accompagnare le determinazioni di valutazione delle offerte, ove queste non si esauriscano in un’unica seduta. Detti adempimenti investono le modalità di conservazione e di custodia dei plichi a prevenzione di manomissioni da cui possa derivare l’alterazioni di atti del procedimento quali inizialmente introdotti dai partecipati alla gara.
Si tratta di operazioni materiali che non coinvolgono la volontà negoziale dell’Amministrazione, ma sono finalizzate, come prima accennato, a garantire la genuinità dell’oggetto su cui la commissione è chiamata ad esprimersi.
Sia il codice dei contratti pubblici, approvato con d.lgs. n. 163 del 2006, che il regolamento di attuazione di cui al d.P.R. n. 207 del 2010, non recano prescrizioni di dettaglio in ordine all’espletamento di dette operazioni. Il regolamento contiene un limitato rifermento alle sedute di gara (art. 117) per le quali è, in particolare, prevista la possibilità di sospensione e di aggiornamento a data successiva, con esclusione della fase di apertura delle buste contenenti l’offerta economica.
In assenza, quindi, di specifiche regole procedimentali a livello di disciplina generale –salvo i casi di una più puntuale regolamentazione da parte di atti generali delle singole amministrazioni aggiudicatrici, cui la commissione esaminatrice deve rigorosamente attenersi– non può essere elevato di per sé a vizio del procedimento (nel profilo della violazione di legge) l’omessa indicazione in verbale di operazioni singolarmente prese in considerazioni quali, a titolo di esemplificazione, l’identificazione del soggetto responsabile della custodia dei plichi, ovvero il luogo di custodia dei plichi stessi, nel tempo che separa ogni seduta dalla successiva.
L’attenzione si sposta, quindi, sugli adempimenti complessivamente osservati dalla commissione a salvaguardia della segretezza delle offerte, dell’integrità degli atti di gara e del pericolo di manomissione.
Il veicolo per l’espressione di un giudizio di sufficienza in ordine a dette operazioni -che investe cioè l’assenza di elementi e circostanze che possano viziare, sul piano sintomatico, per eccesso di potere la condotta del collegio giudicante in quanto contraria ai principi trasparenza, buon andamento e parità di trattamento dei concorrenti- è il verbale che deve accompagnare le operazioni di gara.
Il verbale è redatto in via ordinaria per ogni adunanza dell’organo collegiale ed ha funzione ricognitiva e documentale delle operazioni compiute e delle deliberazioni assunte.
L’art. 78 del codice degli appalti elenca, al comma 1, elementi informativi essenziali e minimali da cui deve essere assistito il verbale da redigersi per “ogni contratto”. Essi non prendono, tuttavia, in considerazione le modalità di custodia dei plichi nella fase che intercorre fra una seduta e l’altra. Ancora una volta non si rinviene un puntuale dato normativo cui raccordare il giudizio di sufficienza della verbalizzazione, cui l’ordinanza di remissione raccorda l’effetto invalidane del concorso.
Deve quindi pervenirsi alla conclusione che -fermi di massima sul piano funzionale i principi di sufficienza ed esaustività del verbale- la mancata e pedissequa indicazione in ciascun verbale delle operazioni finalizzate alla custodia dei plichi non può tradursi, con carattere di automatismo, in effetto viziante della procedura concorsuale, in tal modo collegandosi per implicito all’insufficienza della verbalizzazione il pregiudizio alla segretezza ed all’integrità delle offerte. Ciò in anche in ossequio al principio di conservazione dei valori giuridici, il quale porta ad escludere che l’atto deliberativo possa essere viziato per incompletezza dell’atto descrittivo delle operazioni materiali, tecniche ed intellettive ad esso preordinate, salvo i casi in cui puntuali regole dettate dall’amministrazione aggiudicatrice indichino il contenuto essenziale del verbale.
Ogni contestazione del concorrente volta ad ipotizzare una possibile manomissione, o esposizione a manomissione dei plichi, idonea ad introdurre vulnus alla regolarità del procedimento di selezione del contraente non può, quindi, trovare sostegno nel solo dato formale delle indicazioni che si rinvengono nel verbale redatto per ogni adunanza della commissione preposta all’esame delle offerte, ma deve essere suffragata da circostanze ed elementi che, su un piano di effettività e di efficienza causale, abbiano inciso sulla c.d. genuinità dell’offerta, che va preservata in corso di gara. Peraltro per quanto le modalità di conservazione siano state accurate e rigorose (ad es. chiusura in cassaforte o altro) non si potrà mai escludere che vi sia stata una dolosa manipolazione (ad es. ad opera di chi conosceva la combinazione per aprire la cassaforte) e che chi sia interessato a farlo possa darne la prova. Viceversa, il fatto che le modalità di conservazione siano state meno rigorose non autorizza a presumere che la manipolazione vi sia stata, a meno che non vengano prodotte in tal senso prove o quanto meno indizi.
Si ha, quindi, un vizio invalidante qualora sia positivamente provato, o quanto meno vi siano seri indizi, che le carte siano state manipolate negli intervalli fra un’operazione e l’altra. In siffatto contesto l’annotazione a verbale delle modalità di conservazione ha semplicemente l’effetto di precostituire una prova dotata di fede privilegiata (artt. 2699 e 2700 cod. civ.), e quindi di prevenire o rendere più difficili future contestazioni; ma così come tali annotazioni, per quanto accurate, non impediranno mai a chi vi abbia interesse a dare la prova dell’avvenuta manipolazione (passando anche attraverso il procedimento di querela di falso, ove necessario), allo stesso modo la mancanza o l’incompletezza delle stesse annotazioni, ovvero la scarsa (in ipotesi) efficacia delle modalità di custodia, avranno solo l’effetto di rendere meno arduo il compito di chi voglia raggiungere quella prova, o rappresentare quegli indizi.
Applicando i su riferiti principi alla fattispecie di cui si controverte, dalle risultanze delle operazioni compiute dalla commissione giudicatrice non emergono inadempimenti idonei a mettere in gioco la genuinità delle offerte, ove si consideri che tutti i verbali dal numero 1 al 7 recano attestazioni sull’integrità dei plichi e sull’adozione di presidi a salvaguardia del loro deposito e custodia in condizioni di sicurezza. La circostanza che la formula di rito impiegata nei precedenti verbali non sia stata pedissequamente ripetuta nel verbale n. 8 non assurge ad elemento viziante la procedura, la cui regolarità va desunta con approccio complessivo alle operazioni compiute dalla commissione e tenuto conto che il verbale da ultimo menzionato reca la formale attestazione che, in sede di apertura del plico relativo alle offerte tempi (plico C) ed economiche (plico B), “tutte le buste ivi contenute, di ciascuno dei concorrenti, risultano integre e recano la dicitura prescritta dal disciplinare di gara”.
Né possono essere elevati a sintomo di interventi manomissivi dell’integrità dei plichi, con incisione sulla genuinità delle offerte, fatti successivi alla conclusione della gara (nella specie non leggibilità del timbro dell’impresa e della data sui modelli dell’offerta tempi ed economica dell’impresa aggiudicataria in esito ad un primo accesso documentale rispetto alle risultanze di una rinnovata esibizione dei medesimi documenti) che per di più non mettono in discussione gli elementi contenutistici dell’offerta ed, in conseguenza, l’oggetto su cui si è attestato il giudizio valutativo della commissione di gara.
Il motivo va, quindi, respinto (Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 03.02.2014 n. 8 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Il partenariato pubblico–privato, secondo i principi sottostanti le risoluzioni del Parlamento europeo di maggiore interesse in parte qua, recepite dal codice dei contratti, si realizza anche attraverso la formula organizzatoria della concessione di servizi che dà vita ad un partenariato non istituzionale (ovvero senza la creazione di enti ad hoc preposti alla gestione della collaborazione e del servizio).
A sua volta, l’art. 3, co. 12, del codice dei contratti pubblici, definisce la concessione di servizi come «un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo».
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L’housing sociale si è sviluppato alla metà del secolo scorso, nei paesi dell’Europa settentrionale, in conseguenza dell’evoluzione della scienza urbanistica, come tentativo di ampliare, qualificandola, l’offerta degli alloggi in affitto (e in misura minore anche in vendita), mettendo a disposizione nuove unità abitative a favore di quelle persone che, escluse per ragioni di reddito dall’accesso all’edilizia residenziale pubblica, non sono tuttavia in grado di sostenere i costi del libero mercato.
Tale istituto nasce, pertanto, dalla necessità di ripensare gli insediamenti di edilizia sociale sul territorio non solo sotto un profilo quantitativo ma anche sul versante economico-qualitativo: l’housing sociale si presenta, quindi, come una modalità d’intervento nella quale gli aspetti immobiliari vengono studiati in funzione dei contenuti sociali, offrendo una molteplicità di risposte per le diverse tipologie di bisogni, dove il contenuto sociale è prevalentemente rappresentato dall’accesso a una casa dignitosa per coloro che non riescono a sostenere i prezzi di mercato, ma anche da una specifica attenzione alla qualità dell’abitare.
La finalità dell’housing sociale è di migliorare la condizione di queste persone, favorendo la formazione di un contesto abitativo e sociale dignitoso all’interno del quale sia possibile, non solo accedere ad un alloggio adeguato, ma anche a relazioni umane ricche e significative. Data la sostanziale assenza di sovvenzioni pubbliche, l'housing sociale si focalizza su quella fascia di cittadini che sono disagiati in quanto impossibilitati a sostenere un affitto di mercato, ma che non lo sono al punto tale da poter accedere all’edilizia residenziale pubblica, finendo con il rappresentare, nel contempo, una politica volta all'incremento del patrimonio in affitto a prezzi calmierati o controllati.
L’housing sociale si sostanzia in un programma attraverso il quale si progetta di realizzare un insieme di alloggi e servizi, di eseguire azioni e strumenti, tutti rivolti a coloro che non riescono a soddisfare sul mercato il proprio bisogno abitativo, per ragioni economiche o per l’assenza di un’offerta adeguata. Tra le molteplicità di risposte offerte dall’housing sociale vi sono l’affitto calmierato, l’acquisto della casa mediante l’auto-costruzione e le agevolazioni finanziarie, nonché soluzioni integrate per le diverse tipologie di bisogni.
In Italia, il progressivo ritiro della mano pubblica dagli investimenti immobiliari a fini sociali e la bolla speculativa del mercato immobiliare, che ha toccato insieme vendita e locazioni, hanno contribuito non poco ad allargare l’area del disagio, sbarrando o rendendo impervio l’accesso alla casa a vaste categorie di persone (giovani coppie, pensionati, famiglie monoparentali, ecc.).
In questo contesto socio economico si è inserito il legislatore attraverso alcune disposizioni normative che hanno individuato, fra l’altro, i destinatari di tali progetti, ovvero le categorie alle quali possono essere destinati gli alloggi realizzati mediante tale programma: l'art. 11, co. 2, del d.l. 25.06.2008 n. 112 convertito con la legge 06.08.2008 n. 133 –recante la disciplina generale per la realizzazione del c.d. Piano casa al fine di garantire su tutto il territorio nazionale i livelli minimi essenziali di fabbisogno abitativo per il pieno sviluppo della persona umana- ha segnalato le seguenti categorie di destinatari:
a) nuclei familiari a basso reddito, anche monoparentali o monoreddito;
b) giovani coppie a basso reddito;
c) anziani in condizioni sociali o economiche svantaggiate;
d) studenti fuori sede;
e) soggetti sottoposti a procedure esecutive di rilascio;
f) altri soggetti in possesso dei requisiti di cui all’art. 1 della legge 08.02.2007 n. 9 (particolari categorie sociali, soggette a procedure esecutive di rilascio per finita locazione degli immobili adibiti ad uso di abitazioni e residenti nei comuni capoluoghi di provincia, nei comuni con essi confinanti con popolazione superiore a 10.000 abitanti e nei comuni ad alta tensione abitativa);
g) immigrati regolari a basso reddito, residenti da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione.

6. LA NATURA GIURIDICA DELLA PROCEDURA DI GARA DI HOUSING SOCIALE.
6.1. Anticipando le conclusioni tratte dagli argomenti che saranno esposti nel presente § 6, l’Adunanza plenaria ritiene che dall’esame del contenuto degli elementi essenziali del programma di housing sociale intrapreso da Roma Capitale (retro §§ 1.1.–1.3.), emerge che è stata posta in essere una iniziativa di partenariato pubblico–privato per la gestione di un servizio pubblico locale di rilievo economico e a domanda individuale, mediante lo strumento della concessione di servizio pubblico.
Il partenariato pubblico–privato, secondo i principi sottostanti le risoluzioni del Parlamento europeo di maggiore interesse in parte qua (14.01.2004 concernente il libro verde sui servizi di interesse generale, 26.10.2006 concernente i partenariati pubblico–privati e il diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni), recepite dal codice dei contratti (art. 3, co. 15-ter, introdotto dal d.lgs. 11.09.2008, n. 152, c.d. terzo correttivo, e dunque applicabile ratione temporis alla procedura in oggetto), si realizza anche attraverso la formula organizzatoria della concessione di servizi che dà vita ad un partenariato non istituzionale (ovvero senza la creazione di enti ad hoc preposti alla gestione della collaborazione e del servizio).
A sua volta, l’art. 3, co. 12, del codice dei contratti pubblici, definisce la concessione di servizi come «un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo».
6.1.1. L’housing sociale si è sviluppato alla metà del secolo scorso, nei paesi dell’Europa settentrionale, in conseguenza dell’evoluzione della scienza urbanistica, come tentativo di ampliare, qualificandola, l’offerta degli alloggi in affitto (e in misura minore anche in vendita), mettendo a disposizione nuove unità abitative a favore di quelle persone che, escluse per ragioni di reddito dall’accesso all’edilizia residenziale pubblica, non sono tuttavia in grado di sostenere i costi del libero mercato.
Tale istituto nasce, pertanto, dalla necessità di ripensare gli insediamenti di edilizia sociale sul territorio non solo sotto un profilo quantitativo ma anche sul versante economico-qualitativo: l’housing sociale si presenta, quindi, come una modalità d’intervento nella quale gli aspetti immobiliari vengono studiati in funzione dei contenuti sociali, offrendo una molteplicità di risposte per le diverse tipologie di bisogni, dove il contenuto sociale è prevalentemente rappresentato dall’accesso a una casa dignitosa per coloro che non riescono a sostenere i prezzi di mercato, ma anche da una specifica attenzione alla qualità dell’abitare.
La finalità dell’housing sociale è di migliorare la condizione di queste persone, favorendo la formazione di un contesto abitativo e sociale dignitoso all’interno del quale sia possibile, non solo accedere ad un alloggio adeguato, ma anche a relazioni umane ricche e significative. Data la sostanziale assenza di sovvenzioni pubbliche, l'housing sociale si focalizza su quella fascia di cittadini che sono disagiati in quanto impossibilitati a sostenere un affitto di mercato, ma che non lo sono al punto tale da poter accedere all’edilizia residenziale pubblica, finendo con il rappresentare, nel contempo, una politica volta all'incremento del patrimonio in affitto a prezzi calmierati o controllati.
L’housing sociale si sostanzia in un programma attraverso il quale si progetta di realizzare un insieme di alloggi e servizi, di eseguire azioni e strumenti, tutti rivolti a coloro che non riescono a soddisfare sul mercato il proprio bisogno abitativo, per ragioni economiche o per l’assenza di un’offerta adeguata. Tra le molteplicità di risposte offerte dall’housing sociale vi sono l’affitto calmierato, l’acquisto della casa mediante l’auto-costruzione e le agevolazioni finanziarie, nonché soluzioni integrate per le diverse tipologie di bisogni.
In Italia, il progressivo ritiro della mano pubblica dagli investimenti immobiliari a fini sociali e la bolla speculativa del mercato immobiliare, che ha toccato insieme vendita e locazioni, hanno contribuito non poco ad allargare l’area del disagio, sbarrando o rendendo impervio l’accesso alla casa a vaste categorie di persone (giovani coppie, pensionati, famiglie monoparentali, ecc.).
In questo contesto socio economico si è inserito il legislatore attraverso alcune disposizioni normative che hanno individuato, fra l’altro, i destinatari di tali progetti, ovvero le categorie alle quali possono essere destinati gli alloggi realizzati mediante tale programma: l'art. 11, co. 2, del d.l. 25.06.2008 n. 112 convertito con la legge 06.08.2008 n. 133 –recante la disciplina generale per la realizzazione del c.d. Piano casa al fine di garantire su tutto il territorio nazionale i livelli minimi essenziali di fabbisogno abitativo per il pieno sviluppo della persona umana- ha segnalato le seguenti categorie di destinatari:
a) nuclei familiari a basso reddito, anche monoparentali o monoreddito;
b) giovani coppie a basso reddito;
c) anziani in condizioni sociali o economiche svantaggiate;
d) studenti fuori sede;
e) soggetti sottoposti a procedure esecutive di rilascio;
f) altri soggetti in possesso dei requisiti di cui all’art. 1 della legge 08.02.2007 n. 9 (particolari categorie sociali, soggette a procedure esecutive di rilascio per finita locazione degli immobili adibiti ad uso di abitazioni e residenti nei comuni capoluoghi di provincia, nei comuni con essi confinanti con popolazione superiore a 10.000 abitanti e nei comuni ad alta tensione abitativa);
g) immigrati regolari a basso reddito, residenti da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione.
In attuazione della normativa primaria, il d.P.C.M. 16.07.2009 -recante l’approvazione del Piano nazionale di edilizia abitativa c.d. Piano casa– ha previsto espressamente, quale prima linea di intervento, la costituzione di un sistema integrato nazionale e locale di fondi immobiliari per l’acquisizione e la realizzazione di immobili per l’edilizia residenziale ovvero la promozione di strumenti finanziari immobiliari innovativi, con la partecipazione di soggetti pubblici e privati per la valorizzazione e l’incremento dell’offerta abitativa in locazione (art. 1)
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 30.01.2014 n. 7 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La norma sancita dall’art. 37, co. 13, codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12.04.2006, n. 163), che impone ai concorrenti riuniti, già in sede di predisposizione dell’offerta, l’indicazione della corrispondenza fra quota di partecipazione al raggruppamento e quota di esecuzione delle prestazioni (per i contratti di appalto di lavori, servizi e forniture fino al 14.08.2012 e per i soli contratti di appalto di lavori a decorrere dal 15.08.2012) -pur integrando un precetto imperativo capace di imporsi anche nel silenzio della legge di gara come requisito di ammissione dell’offerta a pena di esclusione- non esprime un principio generale desumibile dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea ovvero dalla disciplina dei contratti pubblici di appalto e come tale, a mente dell’art. 30, co. 3, del medesimo codice, non può trovare applicazione ad una selezione per la scelta del concessionario di un pubblico servizio.
7. LA NATURA GIURIDICA E LA PORTATA APPLICATIVA DELLA NORMA SANCITA DALL’ART. 37, CO. 13, CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI.
7.1. L’art. 37, co. 13, cit., nel testo vigente alla data del bando, era il seguente: <<13. I concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento >>.
Successivamente tale disposizione è stata novellata dalla lettera a), del comma 2-bis dell’art. 1 del decreto legge 06.07.2012, n. 95, introdotto dalla legge di conversione 07.08.2012, n. 135 (con decorrenza dal 15.08.2012 data di entrata in vigore della legge di conversione): <<13. Nel caso di lavori, i concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento.>>.
7.2. Prima della novella del 2012, la giurisprudenza amministrativa (cfr. da ultimo Cons. St., sez. V, 29.09.2013, n. 4753; sez. VI, 20.09.2013, n. 4676), per alcuni aspetti corroborata da recenti pronunce dell’Adunanza plenaria (cfr. 13.06.2012, n. 22 e 05.07.2012, n. 26 in tema di appalti di servizi), si era consolidata -sulla scorta di una lettura unitaria della norma sancita dal comma 13 cit. con quella di cui al comma 4 del medesimo articolo 37, secondo cui: <<4. Nel caso di forniture o servizi nell’offerta devono essere specificate le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati>>- nell’affermazione dei seguenti principi, da cui questa Adunanza non intende decampare:
a) corrispondenza sostanziale, già nella fase dell'offerta, tra le quote di partecipazione all’a.t.i. e le quote di esecuzione delle prestazioni, costituendo la relativa dichiarazione requisito di ammissione alla gara, e non contenuto di obbligazione da far valere solo in sede di esecuzione del contratto;
b) funzione dell’obbligo di corrispondenza fra quote di partecipazione ed esecuzione ravvisata nelle seguenti esigenze: I) conoscenza preventiva, da parte della stazione appaltante, del soggetto incaricato di eseguire le prestazioni e della misura percentuale, al fine di rendere più spedita l’esecuzione del rapporto individuando ciascun responsabile; II) agevolare la verifica della competenza dell’esecutore in relazione alla documentazione di gara; III) prevenire la partecipazione alla gara di imprese non qualificate;
c) trattandosi di un precetto imperativo che introduce un requisito di ammissione, quand'anche non esplicitato dalla lex specialis, la eterointegra ai sensi dell’art. 1339 c.c. sicché la sua inosservanza determina l'esclusione dalla gara (sulla non necessità, ai sensi dell’art. 46, co. 1-bis, codice dei contratti pubblici, che la sanzione della esclusione sia espressamente prevista dalla norma di legge allorquando sia certo il carattere imperativo del precetto che impone un determinato adempimento ai partecipanti ad una gara, cfr. Adunanza plenaria 16.10.2013, n. 23; 07.06.2012, n. 21);
d) tale obbligo di dichiarazione in sede di offerta si impone per tutte le tipologie di a.t.i. (costituite, costituende, verticali, orizzontali), per tutte le tipologie di prestazioni (scorporabili o unitarie, principali o secondarie), e per tutti i tipi di appalti (lavori, servizi e forniture), indipendentemente dall’assoggettamento della gara alla disciplina comunitaria;
e) poiché l’obbligo di simmetria tra quota di esecuzione e quota di effettiva partecipazione all’a.t.i. scaturisce e si impone ex lege, è necessaria e sufficiente, in sede di formulazione dell’offerta, la dichiarazione delle quote di partecipazione a cui la legge attribuisce un valore predeterminato che è quello della assunzione dell’impegno da parte delle imprese di eseguire le prestazioni in misura corrispondente.
7.3. All’interno del su riferito indirizzo giurisprudenziale si è sviluppato un filone esegetico che ha divisato un ulteriore necessario parallelismo, in modo congiunto, anche fra quote di partecipazione, requisiti di qualificazione e quote di esecuzione.
Tale impostazione deve essere respinta perché:
a) in contrasto con il tenore testuale delle disposizioni del codice dei contratti pubblici (e segnatamente, i commi 4 e 13 dell’articolo 37), che non consentono di avallare una siffatta opzione interpretativa;
b) in contrasto con la sistematica del codice (e del regolamento attuativo), che disciplina in maniera completa e nella sede propria il regime della qualificazione delle imprese anche riunite in a.t.i., per i lavori, mentre affida alla legge di gara ogni determinazione in materia per gli appalti di servizi e forniture, salvi i limiti sanciti dagli artt. 41–45;
c) si rileva, inoltre, che una siffatta opzione (volta a superare e, di fatto, integrare l’espressa previsione di legge –comma 13 dell’articolo 37– la quale si limita ad imporre il parallelismo fra le quote di partecipazione e quelle esecuzione), determinerebbe in molti casi l’effetto di escludere dalle pubbliche gare raggruppamenti ai cui partecipanti sarebbe ascritto null’altro se non una sorta di eccesso di qualificazione; l'approccio in questione si porrebbe in contrasto con i principi del favor partecipationis e della libertà giuridica di impresa, negando in radice la possibilità per taluni operatori economici (in particolare quelli maggiormente qualificati), di individuare in modo autonomo la configurazione organizzativa ottimale per partecipare alle pubbliche gare.
7.4. Il quadro unitario così faticosamente ricostruito dalla giurisprudenza, ha subito, successivamente alla novella introdotta dal d.l. n. 95 del 2012, una frattura che conduce ad una lettura atomistica delle norme sancite dai più volte richiamati commi 4 e 13 dell’art. 37 codice dei contratti pubblici.
Deve ritenersi, invero, che:
a) giusta il tenore letterale della nuova disposizione e la sua finalità di semplificare gli oneri di dichiarazione incombenti sulle imprese raggruppate che operano nel mercato dei contratti pubblici, l’obbligo di corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione sancito dal più volte menzionato comma 13, sia rimasto circoscritto ai soli appalti di lavori;
b) per gli appalti di servizi e forniture continua a trovare applicazione unicamente la norma sancita dal comma 4 dell’art. 37, che impone alle imprese raggruppate il più modesto obbligo di indicare le parti del servizio o della fornitura facenti capo a ciascuna di esse, senza pretendere anche l’obbligo della corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione, fermo restando, però, che ciascuna impresa deve essere qualificata per la parte di prestazioni che si impegna ad eseguire, nel rispetto delle speciali prescrizioni e modalità contenute nella legge di gara;
c) rimane inteso, in entrambi i casi, che le norme in questione continuano ad esprimere un precetto imperativo da rispettarsi a pena di esclusione e sono dunque capaci di eterointegrare i bandi silenti.
7.5. Una volta ricostruito il compendio delle norme (anche nella loro evoluzione diacronica), e dei principi costitutivi del micro ordinamento di settore, è agevole riscontrare che il dovere di corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione in capo alle imprese raggruppate, sancito dall’art. 37, co. 13, cit., non esprime un principio generale del Trattato e della disciplina dei contratti, segnatamente a tutela del valore della trasparenza, poiché l’esigenza che soddisfa, pur meritevole di apprezzamento per scelta della legge, si esaurisce completamente all’interno della sfera di interessi della stazione appaltante, in funzione di esigenze di semplice correntezza dell’azione amministrativa, rendendo più agevoli i compiti di accertamento e controllo da parte del seggio di gara.
Pertanto, all’esito dello scrutinio rigoroso di indagine basato sull’accertamento della natura dell’interesse presidiato dal precetto e della sua ampiezza applicativa (retro § 6.5.), non si può affermare che la ratio essendi di tale norma sia incentrata, in via immediata e diretta, nella tutela di valori immanenti al sistema dei contratti pubblici.
Anche la novella introdotta dal d.l. n. 95 del 2012, pur non applicabile ratione temporis alla fattispecie per cui è causa, avvalora e rafforza le su esposte conclusioni esegetiche perché dimostra che il legislatore, nel circoscrivere la portata applicativa dell’obbligo di corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione ai soli appalti di lavori, ha mostrato di ritenerlo una precetto vincolante non per l’intero settore dei contratti (comprensivo di forniture e servizi), ma solo per il più ristretto ambito dei lavori pubblici col che facendo venir meno anche il profilo soggettivo (inteso quale comunanza della regola a tutti gli appalti), del principio generale, residuando un precetto che se pure è imperativo rimane confinato ai soli appalti di lavori.
7.6. In conclusione, avuto riguardo alla seconda questione sottoposta all’Adunanza plenaria, deve enunciarsi il seguente principio di diritto: <<la norma sancita dall’art. 37, co. 13, codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12.04.2006, n. 163), che impone ai concorrenti riuniti, già in sede di predisposizione dell’offerta, l’indicazione della corrispondenza fra quota di partecipazione al raggruppamento e quota di esecuzione delle prestazioni (per i contratti di appalto di lavori, servizi e forniture fino al 14.08.2012 e per i soli contratti di appalto di lavori a decorrere dal 15.08.2012) -pur integrando un precetto imperativo capace di imporsi anche nel silenzio della legge di gara come requisito di ammissione dell’offerta a pena di esclusione- non esprime un principio generale desumibile dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea ovvero dalla disciplina dei contratti pubblici di appalto e come tale, a mente dell’art. 30, co. 3, del medesimo codice, non può trovare applicazione ad una selezione per la scelta del concessionario di un pubblico servizio>>
(Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 30.01.2014 n. 7 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Proprietà privata e demanio marittimo.
L’art. 55 cod. nav. prevede un vincolo alla proprietà privata, richiedendo per le opere realizzate «entro una zona di trenta metri dal demanio marittimo o dal ciglio dei terreni elevati sul mare» l’autorizzazione del capo del compartimento.
Ciò, in quanto la facoltà del proprietario di realizzare una nuova opera in quella fascia non può liberamente esplicarsi, ma è subordinata alla valutazione della compatibilità dell’opera medesima con la tutela del demanio marittimo e con la sua utilizzazione secondo la prescritta autorizzazione, è sanzionata penalmente dall’art. 1161 cod. nav., perché rientra nella mancata osservanza dei «vincoli cui è assoggettata la proprietà privata»
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.01.2014 n. 3901 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAL'ordine di rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto al proprietario solo quando ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell'illecito, per avere cioè posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo, dovendosi escludere che la norma citata configuri un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva, con conseguente illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti, ancorché fondati su ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime di esperienza, rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità, ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità soggettiva della condotta.
Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 192, c. 3, del D.Lgs. n. 152/2006, nella parte in cui richiede l’accertamento di una responsabilità, a tiolo di dolo o colpa, a carico del soggetto intimato, che non sarebbe invece stata dimostrata nel caso di specie.
Il motivo è fondato.
Osserva infatti il Collegio che l'ordine di rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto al proprietario solo quando ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell'illecito, per avere cioè posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo, dovendosi escludere che la norma citata configuri un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva, con conseguente illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti, ancorché fondati su ragionevoli presunzioni o su condivisibili massime di esperienza, rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità, ed in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell'Amministrazione procedente, sulla base di un'istruttoria completa e di un'esauriente motivazione, dell'imputabilità soggettiva della condotta (TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 22.11.2013 n. 2378, TAR Lazio, Roma, Sez. II, 17.09.2013 n. 8302, C.S., Sez. V, 25.01.2005 n. 136).
Ritiene il Collegio che, poiché il provvedimento impugnato non contiene alcuna motivazione in merito alla detta imputabilità, il motivo va accolto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 29.01.2014 n. 312 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALIIl Collegio prende atto che, una parte della giurisprudenza afferma che la competenza ad adottare ordinanze di rimozione di rifiuti abbandonati in base all'art. 192, c. 3, D.Lgs. 03.04.2006 n. 152 spetti al dirigente e non al sindaco, in virtù del principio della separazione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni gestionali, di cui all'art. 107, T.U. delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, D.Lgs. 18.8.2000 n. 267.
La giurisprudenza attualmente prevalente, alla quale il Collegio aderisce, ritiene tuttavia la competenza sindacale, e non dirigenziale, in relazione all’ordine di rimozione dei rifiuti, emesso dal ex art. 192 del D.Lgs. 152/2006.
Stabilisce, infatti, il c. 3 di tale articolo che, nelle fattispecie ivi indicate, “il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate.”
Tale norma, che sancisce la competenza sindacale in luogo di quella dirigenziale, viene interpretata, dalla giurisprudenza maggioritaria, quale norma speciale rispetto all’art. 107 del T.U. enti locali, che affida ai dirigenti i compiti relativi alla gestione delle attribuzioni amministrative dell’ente locale, tenuto conto dell’applicazione del tradizionale canone ermeneutico lex posterior specialis derogat anteriori generali, e che lo stesso art. 107, c. 4 cit., ha cura di precisare che “le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all’art. 1, co. 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”, ciò che è avvenuto a seguito dell’entrata in vigore del citato art. 192, c. 3.

Il secondo motivo, con cui si deduce il vizio di incompetenza, è invece infondato.
Il Collegio prende atto che, una parte della giurisprudenza, invocata dalla ricorrente, afferma che la competenza ad adottare ordinanze di rimozione di rifiuti abbandonati in base all'art. 192, c. 3, D.Lgs. 03.04.2006 n. 152 spetti al dirigente e non al sindaco, in virtù del principio della separazione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni gestionali, di cui all'art. 107, T.U. delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, D.Lgs. 18.8.2000 n. 267 (TAR Campania, Napoli, Sez. V, 10.02.2012 n. 730, TAR Sardegna, Sez. II, 04.11.2009 n. 1598).
La giurisprudenza attualmente prevalente, alla quale il Collegio aderisce, ritiene tuttavia la competenza sindacale, e non dirigenziale, in relazione all’ordine di rimozione dei rifiuti, emesso dal ex art. 192 del D.Lgs. 152/2006.
Stabilisce, infatti, il c. 3 di tale articolo che, nelle fattispecie ivi indicate, “il Sindaco dispone con ordinanza le operazioni a tal fine necessarie ed il termine entro cui provvedere, decorso il quale procede all'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed al recupero delle somme anticipate.”
Tale norma, che sancisce la competenza sindacale in luogo di quella dirigenziale, viene interpretata, dalla giurisprudenza maggioritaria, quale norma speciale rispetto all’art. 107 del T.U. enti locali, che affida ai dirigenti i compiti relativi alla gestione delle attribuzioni amministrative dell’ente locale (C.S., Sez. V, 29.08.2012, n. 4635; Sez. V, 12.06.2009, n. 3765; Sez. V, 10.03.2009, n. 1296, TAR Lazio, Sez. II, 01.02.2013 n. 1142; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 17.09.2012 n. 1644; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 09.06.2011, n. 867), tenuto conto dell’applicazione del tradizionale canone ermeneutico lex posterior specialis derogat anteriori generali, e che lo stesso art. 107, c. 4 cit., ha cura di precisare che “le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all’art. 1, co. 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”, ciò che è avvenuto a seguito dell’entrata in vigore del citato art. 192, c. 3
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 29.01.2014 n. 312 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Trasporto illecito di rifiuti pericolosi senza formulario e natura del FIR.
L'art. 39, comma 2-bis d.lgs. 205/2010, come modificato dall'art. 4 d.lgs. 07.07.2011, n. 121, laddove stabilisce l'applicabilità delle sanzioni previste dall'articolo 258 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, «nella formulazione precedente all'entrata in vigore del presente decreto» ha natura di norma interpretativa e non innovativa, con la conseguenza che dette sanzioni sono applicabili ai fatti commessi antecedentemente alla entrata in vigore del d.lgs. 121/2011.
Il formulario di identificazione dei rifiuti (FIR) non ha alcun valore certificativo della natura e composizione del rifiuto trasportato, trattandosi di documento recante una mera attestazione del privato, avente dunque natura prettamente dichiarativa, con la conseguenza che, a differenza di ciò che avviene per la predisposizione di un certificato di analisi di rifiuti contenente false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti medesimi e di uso di certificato falso durante il trasporto, non sono applicabili le sanzioni penali stabilite dall'art. 258 d.lgs. 152/2006 con richiamo all'art. 483 cod. pen.
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2014 n. 3692 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Interventi in parziale difformità dall'autorizzazione paesaggistica.
L'art. 181 d.lgs. 42/2004 sanziona la condotta di chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegua lavori di qualsiasi genere su beni paesaggistici.
La norma in esame non distingue tra parziale o totale difformità, come avviene invece per la disciplina urbanistica, cosicché è idonea a configurare il reato in esame ogni difformità significativa dall’intervento autorizzato e tale da vanificare gli scopi di tutela e controllo che il legislatore ha assicurato agli organi competenti attraverso la preventiva verifica della consistenza delle opere da eseguire
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.01.2014 n. 3655 - tratto da www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Piano di insediamento produttivo.
L’insieme della disciplina del piano di insediamento produttivo consente di riconoscere lo stretto legame esistente fra detto insediamento e le finalità di sostegno all’economia locale che lo sostengono.
E’ in questo contesto che deve essere valutata la previsione circa la individuazione all’interno del P.i.p. di aree destinate a finalità pubbliche, che in qualche modo compensano i proprietari e la popolazione interessata rispetto alla concentrazione di attività produttive in unica zona
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.01.2014 n. 3649 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 4 della L. n. 47/1985 all’epoca vigente (oggi art. 27, comma 3, D.P.R. n. 380/2001), l’ordine di sospensione dei lavori è preordinato all’emanazione dei definitivi provvedimenti sanzionatori conseguenti alla tipologia di abuso contestato.
Ne consegue che, a seguito della notifica di tale atto, il destinatario viene compiutamente edotto sul piano sia formale che sostanziale dell’esistenza del procedimento sanzionatorio, il cui avvio coincide con la sospensione dei lavori intimata, del contenuto del procedimento stesso e dei suoi preannunciati esiti.
La finalità sostanziale di cui all’art. 7 L. n. 241/1990, quindi, può nella specie ritenersi soddisfatta con la comunicazione dell’ordine di sospensione dei lavori effettuata dall’Amministrazione agli interessati, come correttamente ritenuto dal primo giudice.
Nel merito l’appello è infondato.
3. Con una prima censura, l’appellante lamenta l’omessa comunicazione di avvio del procedimento con conseguente privazione del diritto di presentare memorie e documenti.
Contesta, sul punto, la decisione del Tar che ha ritenuto assolto l’obbligo partecipativo con l’emanazione dell’ordine di sospensione dei lavori in precedenza impartito.
3.1. La doglianza non merita condivisione
Ed invero, ai sensi dell’art. 4 della L. n. 47/1985 all’epoca vigente (oggi art. 27, comma 3, D.P.R. n. 380/2001), l’ordine di sospensione dei lavori è preordinato all’emanazione dei definitivi provvedimenti sanzionatori conseguenti alla tipologia di abuso contestato.
Ne consegue che, a seguito della notifica di tale atto, il destinatario viene compiutamente edotto sul piano sia formale che sostanziale dell’esistenza del procedimento sanzionatorio, il cui avvio coincide con la sospensione dei lavori intimata, del contenuto del procedimento stesso e dei suoi preannunciati esiti.
La finalità sostanziale di cui all’art. 7 L. n. 241/1990, quindi, può nella specie ritenersi soddisfatta con la comunicazione dell’ordine di sospensione dei lavori effettuata dall’Amministrazione agli interessati, come correttamente ritenuto dal primo giudice (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.01.2014 n. 408 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tunnel mobile di protezione delle materie prime e delle merci.
Un tunnel mobile di protezione in prolungamento rispetto al corpo di fabbrica, destinato alla protezione delle materie prime e delle merci, di dimensioni consistenti (oltre 300 mq di superficie utile complessiva), utilizzato stabilmente per lo stoccaggio delle merci e dei prodotti finiti, seppur realizzato con materiali e caratteristiche che ne consentono il rapido smontaggio, non può essere ricondotto nel novero degli impianti tecnologici.
L’opera in questione ha una volumetria superiore al 20% del volume del fabbricato principale. Ne consegue che l’intervento edilizio deve essere qualificato come nuova costruzione, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 3, lett. e.6), del DPR n. 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia), con conseguente assoggettamento al regime concessorio e non di certo autorizzatorio.

4. Con un secondo ordine di censure gli appellanti sostengono che il “tunnel retrattile” non avrebbe determinato ampliamento dello stabilimento artigianale, costituendo al contrario semplice impianto tecnologico.
Assumono, altresì, che la sua utilizzazione non si sarebbe potuta definire “stabile”, essendo destinata alla mera protezione dalle intemperie delle materie prime e dei prodotti finiti, per il tempo strettamente necessario al loro avviamento alla produzione (le prime) ed alla spedizione alla clientela (i secondi).
Deducono,quindi, che erroneamente il primo giudice non avrebbe censurato i provvedimenti impugnati, siccome assunti sul presupposto che il manufatto in questione necessitasse di specifica concessione edilizia (oggi permesso a costruire).
4.1. La censura è priva di fondamento.
Ed invero, osserva il Collegio come il manufatto in questione sia di dimensioni oggettivamente consistenti (oltre 300 mq di superficie utile complessiva) e venga stabilmente utilizzato per i bisogni ordinari dell’azienda, quale locale per lo stoccaggio delle merci e dei prodotti finiti.
Ne consegue, all’evidenza, che una siffatta struttura, seppur realizzata con materiali e caratteristiche che (come si è visto) ne consentono il rapido smontaggio e rimontaggio , non può comunque essere ricondotta nel novero dei meri impianti tecnologici, che notoriamente nulla hanno a che vedere con le caratteristiche e funzioni sopra precisate.
5. Con l’ultimo ordine di censure, gli appellanti sostengono la natura pertinenziale delle opere realizzate, nonché l’irrilevanza della destinazione agricola dell’area su cui insistono (posto che alle pertinenze si applicherebbe la medesima disciplina del bene principale), con conseguente assoggettamento delle stesse al regime autorizzatorio (e non concessorio) che non contempla in caso di abusivismo la sanzione demolitoria, ma semplicemente quella pecuniaria.
5.1 La doglianza non ha pregio.
Ed invero, come risulta dalla relazione del Responsabile Servizio Urbanistica del 12.04.2013 (non contraddetta dagli appellanti), le opere in questione hanno una volumetria ampiamente superiore al 20% del volume del fabbricato asseritamente ritenuto “principale”.
Ne consegue che, a prescindere da ogni valutazione in ordine alle caratteristiche del manufatto ed alla destinazione urbanistica dell’area su cui lo stesso insiste, l’intervento edilizio realizzato dagli appellanti deve essere qualificato come “di nuova costruzione”, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 3, lett. e.6), del DPR n. 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia), con conseguente assoggettamento al regime concessorio e non di certo autorizzatorio, come preteso dagli appellanti.
Infatti, il richiamato art. 3 del Testo Unico dell’Edilizia, anche se sopravvenuto nel 2001, ha fissato un limite oggettivo di natura quantitativa per l’individuazione in ambito edilizio degli interventi pertinenziali, che non può non fungere da parametro di riferimento anche per le fattispecie pregresse, avendo sostanzialmente positivizzato i consolidati principi giurisprudenziali da tempo formatisi in materia.
In conclusione le opere in questione rientrano nel regime della concessione edilizia (oggi permesso di costruire) e, come tali, sono state correttamente sanzionate dall’Amministrazione comunale (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.01.2014 n. 408 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUna prima considerazione attiene alla valenza da attribuire alla deliberazione di giunta municipale che abbia individuato, a seguito della delimitazione del centro abitato, i tratti di strade statali, regionali o provinciali che attraversano i centri abitati con popolazione superiore a diecimila abitanti.
E’ indubbio che tale delibera costituisce di per sé titolo per il passaggio di proprietà alla stregua degli altri titoli indicati dalla norma e, quindi, è idoneo presupposto per la consegna delle strade o di tronchi di strade tra gli enti, ove la delimitazione del centro abitato ne comporti la classificazione come strada appartenente ad ente diverso da quello della precedente classificazione.
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Altra questione riguarda il concetto di “centro abitato” ed in particolare se la individuazione e delimitazione del centro abitato, effettuata dalla giunta comunale ai fini del citato art. 4 del Codice della Strada, sia derogabile ove il Comune sia effettivamente articolato in più centri abitati e se il riferimento demografico ai fini del passaggio delle strade tra enti debba essere riferito al “centro abitato” individuato ai fini dell’art. 4 del Codice della Strada o ai centri abitati in cui è articolato il Comune dal punto di vista topografico.
Ritiene il Collegio che la disciplina dettata dal Codice della Strada non consente deroghe e per tutti gli aspetti considerati dalla suddetta disciplina non possa che farsi riferimento al “centro abitato” individuato ai fini dell’art. 4 del Codice della Strada.
L’art. 2, comma 7, del Codice si riferisce a questa accezione di centro abitato, atteso che parla di strade comprese nel centro abitato.
Ne consegue in base alla medesima disposizione di legge, che sono comunali le strade urbane di scorrimento, di quartiere e locali che ricadono all’interno del centro abitato delimitato con popolazione superiore ai diecimila abitanti, mentre sono tratti interni di strade statali, regionali e provinciali quelle che sono delimitate all’interno di un centro abitato con popolazione inferiore ai diecimila abitanti.
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Dalla disciplina citata emerge con certezza che l’elemento demografico non può che essere riferito al “centro abitato” o ai “centri abitati” individuati ai fini dell’art. 4 del Codice della Strada.
Va da sé che l’individuazione del “centro abitato” o dei “centri abitati” nella ratio del Codice della Strada risponde a criteri funzionali all’applicazione delle diverse discipline previste dal codice della strada e dal regolamento all'interno ed all'esterno del centro abitato, con i conseguenziali limiti territoriali di competenza e di responsabilità tra il comune e gli altri enti proprietari di strade.
Non può, quindi, essere determinata da finalità diverse, quale in ipotesi il conseguimento del minore aggravio possibile degli oneri di manutenzione delle strade, né rispondere ad esigenze di natura urbanistica (non coincide infatti con la ripartizione urbanistica di una città in centro storico, zone residenziali, periferia) o coincidere con la ripartizione amministrativa della città in municipi.
Ugualmente è irrilevante che il comune si sviluppi in maniera disordinata, articolandosi in agglomerati di case sparse lungo le arterie principali, atteso che il concetto di centro abitato nella ratio del Codice della Strada risponde solamente a criteri funzionali alla circolazione stradale.
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In conclusione deve ritenersi che la delimitazione del centro abitato o dei centri abitati risponde ai soli criteri fissati dal Codice della strada ed è funzionale solamente alla circolazione; essa tuttavia comporta, sempre e per effetto automatico, il passaggio delle strade ai diversi enti territoriali secondo i criteri su esposti, non assumendo rilevanza l’effettiva articolazione dello sviluppo edilizio in più centri abitati da un punto di vista topografico.

La questione in esame attiene all’interpretazione delle norme del codice della strada e del relativo regolamento in relazione ai c.d. “centri abitati” ed alla classificazione delle strade interne conseguente alla individuazione dei “centri abitati”.
L’art. 3, comma 8, del codice della strada individua il “centro abitato” con riferimento ad un agglomerato di almeno 25 edifici sebbene intervallati da strade, giardini od altro.
L’art. 4, stabilisce la competenza della giunta comunale in ordine alla individuazione e delimitazione del centro abitato secondo i criteri dettati dal codice e dal regolamento: “Ai fini dell’attuazione della disciplina della circolazione stradale, il Comune entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente codice, provvede con delibera della giunta alla delimitazione del centro abitato…La deliberazione…è pubblicata all’Albo Pretorio…; ad essa viene allegata idonea cartografia nella quale sono evidenziati i confini sulle strade di accesso”.
L’art. 4 del Regolamento del Codice della Strada (d.p.r. n. 285 del 1992), ai commi 4 e 5 stabilisce che “I tratti di strade statali, regionali o provinciali, che attraversano i centri abitati con popolazione superiore a diecimila abitanti, individuati a seguito della delimitazione del centro abitato prevista dall’art. 4 del codice, sono classificati quali strade comunali con la stessa deliberazione della giunta municipale con la quale si procede alla delimitazione medesima.
Successivamente all’emanazione dei provvedimenti di classificazione e di declassificazione delle strade previsti dagli articoli 2 e 3, all’emanazione dei decreti di passaggio di proprietà ed alle deliberazioni di cui ai commi precedenti, si provvede alla consegna delle strade o dei tronchi di strade fra gli enti proprietari
”.
Una prima considerazione attiene alla valenza da attribuire alla deliberazione di giunta municipale che abbia individuato, a seguito della delimitazione del centro abitato, i tratti di strade statali, regionali o provinciali che attraversano i centri abitati con popolazione superiore a diecimila abitanti.
E’ indubbio che tale delibera costituisce di per sé titolo per il passaggio di proprietà alla stregua degli altri titoli indicati dalla norma e, quindi, è idoneo presupposto per la consegna delle strade o di tronchi di strade tra gli enti, ove la delimitazione del centro abitato ne comporti la classificazione come strada appartenente ad ente diverso da quello della precedente classificazione.
Altra questione riguarda il concetto di “centro abitato” ed in particolare se la individuazione e delimitazione del centro abitato, effettuata dalla giunta comunale ai fini del citato art. 4 del Codice della Strada, sia derogabile ove il Comune sia effettivamente articolato in più centri abitati e se il riferimento demografico ai fini del passaggio delle strade tra enti debba essere riferito al “centro abitato” individuato ai fini dell’art. 4 del Codice della Strada o ai centri abitati in cui è articolato il Comune dal punto di vista topografico.
Ritiene il Collegio che la disciplina dettata dal Codice della Strada non consente deroghe e per tutti gli aspetti considerati dalla suddetta disciplina non possa che farsi riferimento al “centro abitato” individuato ai fini dell’art. 4 del Codice della Strada.
L’art. 2, comma 7, del Codice si riferisce a questa accezione di centro abitato, atteso che parla di strade comprese nel centro abitato.
Ne consegue in base alla medesima disposizione di legge, che sono comunali le strade urbane di scorrimento, di quartiere e locali che ricadono all’interno del centro abitato delimitato con popolazione superiore ai diecimila abitanti, mentre sono tratti interni di strade statali, regionali e provinciali quelle che sono delimitate all’interno di un centro abitato con popolazione inferiore ai diecimila abitanti.
Tanto è dettagliatamente esposto nel Regolamento del Codice della Strada, che all’art. 5, precisa che “la delimitazione del centro abitato, come definito all'articolo 3, comma 1, punto 8, del codice, è finalizzata ad individuare l'ambito territoriale in cui, per le interrelazioni esistenti tra le strade e l'ambiente circostante, è necessaria da parte dell'utente della strada, una particolare cautela nella guida, e sono imposte particolari norme di comportamento (la delimitazione del centro abitato individua pertanto i limiti territoriali di applicazione delle diverse discipline previste dal codice e dal regolamento all'interno ed all'esterno del centro abitato).
La delimitazione del centro abitato individua altresì, lungo le strade statali, regionali e provinciali, che attraversano i centri medesimi, i tratti di strada che:
a) per i centri con popolazione non superiore a diecimila abitanti costituiscono «i tratti interni»;
b) per i centri con popolazione superiore a diecimila abitanti costituiscono «strade comunali», ed individua, pertanto, i limiti territoriali di competenza e di responsabilità tra il comune e gli altri enti proprietari di strade
”.
Dalla disciplina citata emerge con certezza che l’elemento demografico non può che essere riferito al “centro abitato” o ai “centri abitati” individuati ai fini dell’art. 4 del Codice della Strada.
Va da sé che l’individuazione del “centro abitato” o dei “centri abitati” nella ratio del Codice della Strada risponde a criteri funzionali all’applicazione delle diverse discipline previste dal codice della strada e dal regolamento all'interno ed all'esterno del centro abitato, con i conseguenziali limiti territoriali di competenza e di responsabilità tra il comune e gli altri enti proprietari di strade.
Non può, quindi, essere determinata da finalità diverse, quale in ipotesi il conseguimento del minore aggravio possibile degli oneri di manutenzione delle strade, né rispondere ad esigenze di natura urbanistica (non coincide infatti con la ripartizione urbanistica di una città in centro storico, zone residenziali, periferia) o coincidere con la ripartizione amministrativa della città in municipi.
Ugualmente è irrilevante che il comune si sviluppi in maniera disordinata, articolandosi in agglomerati di case sparse lungo le arterie principali, atteso che il concetto di centro abitato nella ratio del Codice della Strada risponde solamente a criteri funzionali alla circolazione stradale.
Significativo in tal senso è la prescrizione di cui al comma 4 dell’art. 4 del Regolamento del Codice della Strada (“Nel caso in cui l'intervallo tra due contigui insediamenti abitativi, aventi ciascuno le caratteristiche di centro abitato, risulti, anche in relazione all'andamento planoaltimetrico della strada, insufficiente per un duplice cambiamento di comportamento da parte dell'utente della strada, si provvede alla delimitazione di un unico centro abitato, individuando ciascun insediamento abitativo con il segnale di località. Nel caso in cui i due insediamenti ricadano nell'ambito di comuni diversi si provvede a delimitazioni separate, anche se contigue, apponendo sulla stessa sezione stradale il segnale di fine del primo centro abitato e di inizio del successivo centro abitato”).
In conclusione deve ritenersi che la delimitazione del centro abitato o dei centri abitati risponde ai soli criteri fissati dal Codice della strada ed è funzionale solamente alla circolazione; essa tuttavia comporta, sempre e per effetto automatico, il passaggio delle strade ai diversi enti territoriali secondo i criteri su esposti, non assumendo rilevanza l’effettiva articolazione dello sviluppo edilizio in più centri abitati da un punto di vista topografico (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.01.2014 n. 403 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - URBANISTICAIl parere di compatibilità del PGT con il PTCP, di cui alla LR 12/2005, non costituisce una manifestazione della generale potestà di pianificazione riconosciuta dal Testo Unico degli enti locali (D.Lgs. 267/2000), all’organo consiliare, quanto piuttosto una valutazione di carattere tecnico, non riservata pertanto al Consiglio.
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Va ricordato l’indirizzo giurisprudenziale che riconosce alle Amministrazioni ampia discrezionalità in sede di approvazione degli strumenti urbanistici generali, senza contare che le osservazioni dei privati a questi ultimi costituiscono un mero apporto collaborativo.

La giurisprudenza amministrativa, infatti, è ormai giunta alla conclusione che il parere di compatibilità del PGT con il PTCP, di cui alla LR 12/2005, non costituisce una manifestazione della generale potestà di pianificazione riconosciuta dal Testo Unico degli enti locali (D.Lgs. 267/2000), all’organo consiliare, quanto piuttosto una valutazione di carattere tecnico, non riservata pertanto al Consiglio (si vedano, sul punto, le sentenze del TAR Lombardia, sez. II, n. 4303/2009, n. 1221/2010, n. 7512 del 10.12.2010 e n. 7614/2010, costituenti precedenti specifici ai quali si rinvia).
Il precedente di segno opposto di questa Sezione II, citato dalla ricorrente (sentenza n. 5292/2007), risulta ormai superato dalle più recenti decisioni di cui sopra, senza contare che la sentenza n. 5292/2007 è stata annullata senza rinvio dal Consiglio di Stato con sentenza della sezione IV, 28.05.2009, n. 3337.
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Nella controdeduzione all’osservazione n. 14 della società istante, l’Amministrazione ha avuto cura di specificare che l’ambito di trasformazione commerciale “E” è stato individuato sulla base di una precedente proposta di piano attuativo in variante al PRG presentata dalla società stessa (cfr. su tale proposta, il doc. 4 ed il doc. 12 del Comune), mentre non appariva rispondente alle esigenze della collettività la soppressione dell’area a verde, peraltro già non edificabile anche in base al previgente PRG.
Si tratta di motivazioni non illogiche né arbitrarie, che escludono l’illegittimità della decisione di pianificazione del Comune, anche tenendo conto dell’indirizzo giurisprudenziale che riconosce alle Amministrazioni ampia discrezionalità in sede di approvazione degli strumenti urbanistici generali, senza contare che le osservazioni dei privati a questi ultimi costituiscono un mero apporto collaborativo (cfr. fra le tante, la fondamentale sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 10.05.2012, n. 2710, richiamata e confermata dalla successiva sentenza della stessa Sezione IV, 28.11.2012, n. 6040; Consiglio di Stato, sez. IV, 28.12.2012, n. 6703 e 21.12.2012, n. 6656; oltre che, fra le decisioni di primo grado, TAR Toscana, sez. I, 20.11.2013, n. 1593; TAR Lombardia, Milano, sez. II, 04.12.2013, n. 2696, 26.02.2013, n. 532 e 08.02.2012, n. 437; TAR Emilia Romagna, Parma, 29.01.2013, n. 26; TRGA Trentino Alto Adige, Bolzano, 17.07.2012, n. 255)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.01.2014 n. 280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Prescrizione del reato e onere della prova.
In tema di prescrizione sempre restando a carico dell'accusa l'onere della prova della data d’inizio della decorrenza del termine prescrittivo, non basta una mera e diversa affermazione da parte dell'imputato a fare ritenere che il reato si sia realmente estinto per prescrizione e neppure a determinare l'incertezza sulla data d’inizio della decorrenza del relativo termine con la conseguente applicazione del principio "in dubio pro reo", atteso che, in base al principio generale per cui ciascuno deve dare dimostrazione di quanto afferma, grava sull'imputato che voglia giovarsi della causa estintiva, in contrasto o in aggiunta a quanto già risulta in proposito dagli atti di causa, l'onere di allegare gli elementi in suo possesso, dei quali è il solo a potere concretamente disporre, per determinare la data di inizio del decorso del termine di prescrizione, data che in tali ipotesi coincide con quella di esecuzione dell'opera incriminata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.01.2014 n. 3137 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque. Disciplina delle acque meteoriche di dilavamento.
La nuova formulazione dell’art. 74, lett. g), del d.lgs. 152/2006 esclude ogni riferimento qualitativo alla tipologia delle acque, dal momento che è stato eliminato dal dato normativo sia il riferimento alla differenza qualitativa dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, sia l'inciso «intendendosi per tali (acque meteoriche di dilavamento) anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connesse con le attività esercitate nello stabilimento», di talché sembrerebbe non più possibile oggi assimilare, sotto un profilo qualitativo, le due tipologie di acque (reflui industriali e acque meteoriche di dilavamento) né sembrerebbe possibile ritenere che le acque meteoriche di dilavamento (una volta venute a contatto con materiali o sostanze anche inquinanti connesse con l'attività esercitata nello stabilimento) possano essere assimilate ai reflui industriali. Sembrerebbe, cioè, che data la ricordata modifica legislativa, non sarebbe più possibile accomunare le acque meteoriche di dilavamento e le acque reflue industriali.
In ogni caso va anche considerato che l’art. 113 del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, rubricato appunto «Acque meteoriche di dilavamento e acque di prima pioggia», prevede che le Regioni, «ai fini della prevenzione di rischi idraulici ed ambientali», emanino una disciplina delle acque meteoriche che dilavano le superfici e si riversano in differenti corpi recettori
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.01.2014 n. 2867 - tratto da www.lexambiente.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Falso e abuso di ufficio.
In caso di contestazione dei delitti di abuso di ufficio e di falsità in atto pubblico, sussiste il concorso di reati -e non il fenomeno dell'assorbimento del delitto di cui all’art 323 cp nel più grave delitto di falsità in atto pubblico-, in ragione del diverso ambito operativo dei beni giuridici protetti (il primo garantisce l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, il secondo la genuinità degli atti pubblici) e del fatto che la condotta di abuso di ufficio non si esaurisce in quella del delitto di falso, non coincidendo con essa.
In tema di falsità ideologica in atto pubblico, la fattispecie ivi prevista è compatibile con condotte consistenti nella formulazione di giudizi che siano espressione della discrezionalità tecnica, laddove vi siano a monte previsioni normative recanti criteri di valutazione che impongano verifiche di conformità del dato fattuale a parametri predeterminati
(Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 20.01.2014 n. 2245 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Illecito urbanistico come reato proprio e possibilità di concorso.
Il reato previsto dall’art. 44 del D.P.R. 380/2001, pur potendosi definire “proprio”, (anche se non mancano tesi contrarie che attribuiscono a tali reati la veste di illeciti “comuni”) non esclude che soggetti diversi da quelli individuati dall'art. 6 del D.P.R. 380/2001, possano concorrere nella loro consumazione, nella misura in cui apportino, nella realizzazione dell'evento, un proprio contributo causale rilevante e consapevole (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.01.2014 n. 1784 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: I tralicci e le antenne di rilevanti dimensioni necessitano di permesso di costruire.
I tralicci e le antenne di rilevanti dimensioni debbono essere valutate come strutture edilizie soggette a permesso di costruire.
Orbene, nel caso di specie, trattandosi, come emerge dalle schede tecniche in atti, di una struttura di circa 12 metri d’altezza, quest’ultima non può non essere considerata di “rilevanti dimensioni” e, quindi, come tale avrebbe dovuto essere autorizzata tramite permesso di costruire, con la conseguenza che risulta corretta, anche sotto questo profilo, l’impugnata ordinanza di demolizione emessa dal Comune.

Per quanto concerne l’ulteriore censura presentata dall’appellante con la memoria del 14.11.2013 -relativa alla circostanza che la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato escluderebbe la necessità della previa concessione edilizia per interventi analoghi a quello di cui è causa- il Collegio osserva che tale censura risulta inammissibile, in quanto presentata in violazione del primo comma dell’art. 104 c.p.a., a norma del quale “nel giudizio di appello non possono essere prodotte nuove domande […] né nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio”.
Peraltro, anche prescindendo dal suesposto rilievo, il Collegio osserva che detta censura risulta comunque infondata.
La risalente giurisprudenza di questo Consiglio di Stato citata dell’appellante, infatti, è stata superata dai successivi orientamenti giurisprudenziali del medesimo Consiglio, peraltro condivisi dal Collegio, secondo cui “i tralicci e le antenne di rilevanti dimensioni debbono essere valutate come strutture edilizie soggette a permesso di costruire […]” (Cons. di Stato, Sez. VI, 08.10.2008, n. 4910).
Orbene, nel caso di specie, trattandosi -come emerge dalle schede tecniche in atti- di una struttura di circa 12 metri d’altezza, quest’ultima non può non essere considerata di “rilevanti dimensioni” e, quindi, come tale avrebbe dovuto essere autorizzata tramite permesso di costruire, con la conseguenza che risulta corretta, anche sotto questo profilo, l’impugnata ordinanza di demolizione emessa dal Comune di Sarnonico (massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 17.01.2014 n. 225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa concessione edilizia comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione, in quanto ogni attività di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio partecipa agli oneri ad essa relativi. Esso ha natura, quindi, di corrispettivo di diritto pubblico.
La quantificazione dei contributi dovuti dal soggetto in cui favore è rilasciata la concessione è ordinariamente effettuata all'atto del rilascio della concessione medesima, ma il Comune, anche in seguito, ben può effettuare la rideterminazione dell'ammontare del contributo dovuto dal concessionario, in quanto il potere è espressione del generale principio di autotutela che può essere legittimamente esercitato ogni qual volta l'amministrazione si renda conto di essere incorsa, per qualsiasi ragione, in errore nella liquidazione o nel calcolo del contributo.
Ed invero, è stato inoltre ritenuto che, poiché l'eventuale errore nella determinazione dei costi di costruzione e degli oneri di urbanizzazione configura un indebito oggettivo da parte dell'intestatario della concessione, la sola preclusione alla azionabilità del credito effettivamente dovuto è la prescrizione del diritto alla percezione degli oneri nel loro integrale ammontare.

La concessione edilizia comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione, nonché al costo di costruzione, in quanto ogni attività di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio partecipa agli oneri ad essa relativi (cfr., Cons. St., sez. V, 06.05.1997, n. 462). Esso ha natura, quindi, di corrispettivo di diritto pubblico.
La quantificazione dei contributi dovuti dal soggetto in cui favore è rilasciata la concessione è ordinariamente effettuata all'atto del rilascio della concessione medesima, ma il Comune, anche in seguito, ben può effettuare la rideterminazione dell'ammontare del contributo dovuto dal concessionario, in quanto il potere è espressione del generale principio di autotutela (cfr. TAR Veneto, II, 01.02.2011, nn. 181 e 189; Cons. St.,V, 30.09.1998, n. 1144) che può essere legittimamente esercitato ogni qual volta l'amministrazione si renda conto di essere incorsa, per qualsiasi ragione, in errore nella liquidazione o nel calcolo del contributo.
Ed invero, è stato inoltre ritenuto che, poiché l'eventuale errore nella determinazione dei costi di costruzione e degli oneri di urbanizzazione configura un indebito oggettivo da parte dell'intestatario della concessione, la sola preclusione alla azionabilità del credito effettivamente dovuto è la prescrizione del diritto alla percezione degli oneri nel loro integrale ammontare (TAR Lombardia, Milano, sez. II, 06.11.2002, n. 4267) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 17.01.2014 n. 50 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIn primo luogo, è ben noto che l’ente territoriale competente a redigere i piani urbanistici generali compie in tal sede scelte espressione di una discrezionalità molto ampia, sindacabile nella presente sede giurisdizionale di legittimità solo nei casi di errori di fatto o di manifesta illogicità o irrazionalità di quanto deciso.
In secondo luogo, l’ente stesso è tenuto a motivare in modo più approfondito le proprie scelte solo in una serie di casi eccezionali, ovvero allorquando vada a disattendere un affidamento qualificato dei privati, fattispecie ravvisabile allorquando la posizione del privato si sia consolidata in un titolo formale, perfetto ed efficace, ad esempio una convenzione di lottizzazione, o un accordo di diritto privato, già conclusi, ovvero, senza stipula di atti, a fronte di comportamenti assolutamente univoci, come nel classico caso della trasformazione in agricola di un’area limitata, interclusa tra fondi già edificati in modo non abusivo.

Ai fini della decisione, per chiarezza, vanno quindi riassunti i principi generali elaborati dalla giurisprudenza, e condivisi dalla Sezione, in tema di impugnazione di piani urbanistici generali.
In primo luogo, è ben noto che l’ente territoriale competente a redigerli compie in tal sede scelte espressione di una discrezionalità molto ampia, sindacabile nella presente sede giurisdizionale di legittimità solo nei casi di errori di fatto o di manifesta illogicità o irrazionalità di quanto deciso: sul punto per tutte, come più recente, C.d.S. sez. IV 22.03.2012 n. 2952 e, nella giurisprudenza della Sezione, già sez. II 20.11.2009 n. 2248.
In secondo luogo, come affermato in origine da C.d.S. a.p. 22.12.1999 n. 24, l’ente stesso è tenuto a motivare in modo più approfondito le proprie scelte solo in una serie di casi eccezionali, ovvero allorquando vada a disattendere un affidamento qualificato dei privati, fattispecie ravvisabile allorquando la posizione del privato si sia consolidata in un titolo formale, perfetto ed efficace, ad esempio una convenzione di lottizzazione, o un accordo di diritto privato, già conclusi, ovvero, senza stipula di atti, a fronte di comportamenti assolutamente univoci, come nel classico caso, oggetto di C.d.S. sez. IV 01.10.2004 n. 6401, della trasformazione in agricola di un’area limitata, interclusa tra fondi già edificati in modo non abusivo (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 17.01.2014 n. 44 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Inapplicabilità art. 34, comma 2-ter, d.P.R. 380/2001.
Gli interventi eseguiti su immobili ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e regionali sono considerati in totale difformità dal permesso di costruire, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44 d.P.R. n. 380/2001, non può quindi trovare applicazione, nei loro confronti, la speciale ipotesi del comma 2-ter dell’art. 34, d.P.R. n. 380/2001 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.01.2014 n. 1486 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Sequestro preventivo ed attualità del pericolo.
In tema di sequestro preventivo per reati paesaggistici, la sola esistenza di una struttura abusiva integra il requisito dell'attualità del pericolo indipendentemente dall'essere l'edificazione ultimata o meno, in quanto il rischio di offesa al territorio ed all'equilibrio ambientale, a prescindere dall'effettivo danno al paesaggio, perdura in stretta connessione con l'utilizzazione della costruzione ultimata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.01.2014 n. 1484 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il CdS annulla la sentenza del TAR Napoli n. 1099/2013 secondo cui le piscine interrate non possono alterare i valori paesaggistici, perché non suscettibili di verticalizzazione con pregiudizio di visuali e visioni prospettiche.
Il TAR è incorso nella violazione dei principi della separazione dei poteri e della tassatività delle ipotesi di giurisdizione di merito delineate dall’art. 134 cod. proc. amm., da cui esula la fattispecie sub iudice, non solo perché ha sostituito la propria valutazione a quella tecnico-discrezionale rientrante nell’ambito dei poteri dell’amministrazione, ma anche perché ha affermato in modo apodittico che «le piscine interrate non possono alterare i valori paesaggistici, perché non suscettibili di verticalizzazione con pregiudizi di visuali e visioni prospettiche», senza correlativa valutazione della fattispecie concreta, con conseguente manifesta insufficienza motivazionale.
Del resto, per la giurisprudenza di questo Consiglio, hanno una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le opere realizzate sull’area sottoposta a vincolo, anche se non vi è un volume da computare sotto il profilo edilizio (pur se si tratti di volumi tecnici), anche se si tratta di una piscina, poiché le esigenze di tutela dell’area sottoposta a vincolo paesaggistico possono anche esigere l’immodificabilità dello stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore modifica).
Nel caso di specie, la Soprintendenza ha motivatamente rilevato l’esigenza di conservazione delle dune ancora esistenti e oggetto del progetto, con osservazioni puntuali e ragionevoli, mentre la sentenza impugnata ha dato una erronea lettura della normativa di tutela dei beni paesaggistici, che consente (e impone) all’autorità preposta alla tutela del vincolo di valutare non solo l’incidenza delle ‘verticalizzazioni’ su ‘visuali e visioni prospettiche’, ma anche di ogni opera che modifichi i tratti naturalistici dell’area, oltre che di quanto può emergere dall’alto (dal momento che per loro natura le aree sottoposte a vincolo sono oggetto di visione, esame e studio anche dall’alto, quale elemento decisivo per la loro descrizione e per la valutazione della loro maggiore o minore integrità).
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Le caratteristiche della zona, che hanno giustificato l’imposizione del vincolo paesaggistico sul litorale domitio, tra cui la peculiare vegetazione mediterranea connotata da fitte macchie verdeggianti, costituiscono elementi di fatto qualificati normativamente dai provvedimenti impositivi del vincolo, assurgendo a parametri di valutazione della compatibilità paesaggistica dei singoli interventi edilizi e, dunque, ponendosi su un piano diverso dai fatti, principali e/o secondari, costituenti l’oggetto del thema probandum ed, in ipotesi, suscettibili di non contestazione ai sensi della citata disposizione processuale, di cui l’appellata sentenza ha, pertanto, fatto erronea applicazione, confondendo il piano normativo/valutativo con il piano processuale dell’individuazione dei fatti controversi e della distribuzione dell’onere della prova.
Peraltro, la circostanza ripetutamente emergente dalle stesse deduzioni di parte –secondo cui nel corso del tempo atti o comportamenti omissivi hanno portato al degrado, o addirittura alla cancellazione, di ampie aree un tempo caratterizzate dalle dune sabbiose del litorale domitio– rende del tutto ragionevole e legittima la valutazione sulla non assentibilità di opere che ulteriormente riducano la presenza delle dune, e sull’esercizio in un senso rigoroso dei poteri tecnico-discrezionali, volti alla salvaguardia delle relative aree.

... per la riforma della sentenza breve del TAR CAMPANIA - NAPOLI, SEZIONE VII, n. 1099/2013, resa tra le parti e concernente: diniego di permesso di costruire a seguito di parere soprintendentizio negativo.
...
Si osserva che l’appello è fondato.
Dai sopra (sub 1.1.) riportati passaggi motivazionali centrali dell’appellata sentenza emerge in modo palese che il Tar ha travalicato i limiti del sindacato proprio della giurisdizione di legittimità ed è entrato nel merito dell’atto amministrativo, sostituendosi all’Amministrazione preposta alla gestione del vincolo nella valutazione, di natura tecnico-discrezionale, della compatibilità paesaggistica dell’intervento in questione.
L’area de qua ricade in area sottoposta a tutela con d.m. 28.03.1985 (pubblicato nel S.O. alla G.U. n. 98 del 26.04.1985), ai sensi della l. 29.06.1939, n. 1497, in un tratto di arenile di pineta e duna sottoposta a regime di conservazione integrale ai sensi del Piano territoriale paesistico del Litorale Domitio (la cui fascia sabbiosa é caratterizzata dai rilievi della duna con la flora e la fauna mediterranee, tipiche di questo habitat).
Il TAR è incorso nella violazione dei principi della separazione dei poteri e della tassatività delle ipotesi di giurisdizione di merito delineate dall’art. 134 cod. proc. amm., da cui esula la fattispecie sub iudice, non solo perché ha sostituito la propria valutazione a quella tecnico-discrezionale rientrante nell’ambito dei poteri dell’amministrazione, ma anche perché ha affermato in modo apodittico che «le piscine interrate non possono alterare i valori paesaggistici, perché non suscettibili di verticalizzazione con pregiudizi di visuali e visioni prospettiche», senza correlativa valutazione della fattispecie concreta, con conseguente manifesta insufficienza motivazionale.
Del resto, per la giurisprudenza di questo Consiglio, hanno una indubbia rilevanza paesaggistica tutte le opere realizzate sull’area sottoposta a vincolo, anche se non vi è un volume da computare sotto il profilo edilizio (pur se si tratti di volumi tecnici: Sez. VI, 20.06.2012, n. 3578), anche se si tratta di una piscina (Sez. VI, 02.03.2011, n. 1300), poiché le esigenze di tutela dell’area sottoposta a vincolo paesaggistico possono anche esigere l’immodificabilità dello stato dei luoghi (ovvero precludere una ulteriore modifica).
Nel caso di specie, la Soprintendenza ha motivatamente rilevato l’esigenza di conservazione delle dune ancora esistenti e oggetto del progetto, con osservazioni puntuali e ragionevoli, mentre la sentenza impugnata ha dato una erronea lettura della normativa di tutela dei beni paesaggistici, che consente (e impone) all’autorità preposta alla tutela del vincolo di valutare non solo l’incidenza delle ‘verticalizzazioni’ su ‘visuali e visioni prospettiche’, ma anche di ogni opera che modifichi i tratti naturalistici dell’area, oltre che di quanto può emergere dall’alto (dal momento che per loro natura le aree sottoposte a vincolo sono oggetto di visione, esame e studio anche dall’alto, quale elemento decisivo per la loro descrizione e per la valutazione della loro maggiore o minore integrità).
Ne deriva la fondatezza dei motivi d’appello sub 2.a) e 2.b) e, in parte qua, anche del motivo sub 2.c).
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Quanto al secondo profilo di censura dedotto col motivo sub 2.c), è, altresì, fondata la censura della Amministrazione statale, che ha lamentato come il TAR –non correttamente interpretando l’art. 64, comma 2, cod. proc. amm.– ha rilevato che essa, nel corso del procedimento, non avrebbe assolto all’onere di contestare in modo specifico i fatti allegati dalla ricorrente e suffragati dalla relazione tecnica con allegata documentazione fotografica prodotta in giudizio (asseritamente escludenti la stessa presenza e, dunque, la compromissione, nell’area interessata dall’intervento, delle essenze arboree tipiche della macchia mediterranea).
Invero, le caratteristiche della zona, che hanno giustificato l’imposizione del vincolo paesaggistico sul litorale domitio, tra cui la peculiare vegetazione mediterranea connotata da fitte macchie verdeggianti, costituiscono elementi di fatto qualificati normativamente dai provvedimenti impositivi del vincolo, peraltro non impugnati, assurgendo a parametri di valutazione della compatibilità paesaggistica dei singoli interventi edilizi e, dunque, ponendosi su un piano diverso dai fatti, principali e/o secondari, costituenti l’oggetto del thema probandum ed, in ipotesi, suscettibili di non contestazione ai sensi della citata disposizione processuale, di cui l’appellata sentenza ha, pertanto, fatto erronea applicazione, confondendo il piano normativo/valutativo con il piano processuale dell’individuazione dei fatti controversi e della distribuzione dell’onere della prova.
Peraltro, la circostanza ripetutamente emergente dalle stesse deduzioni di parte –secondo cui nel corso del tempo atti o comportamenti omissivi hanno portato al degrado, o addirittura alla cancellazione, di ampie aree un tempo caratterizzate dalle dune sabbiose del litorale domitio– rende del tutto ragionevole e legittima la valutazione sulla non assentibilità di opere che ulteriormente riducano la presenza delle dune, e sull’esercizio in un senso rigoroso dei poteri tecnico-discrezionali, volti alla salvaguardia delle relative aree
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.01.2014 n. 18 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI PUBBLICO IMPIEGOIn costanza di proroga di una graduatoria concorsuale, la decisione di indire un nuovo concorso relativo all’assunzione degli stessi profili di quella graduatoria va congruamente motivata, poiché se non sussiste un diritto soggettivo all’assunzione in capo agli idonei, l’Amministrazione deve tenere conto sul piano ordinamentale che lo scorrimento delle preesistenti graduatorie deve costituire la regola generale, mentre l’indizione del concorso rappresenta un’eccezione.
Per cui è l’indizione che deve essere adeguatamente motivata sul perché si debba seguire un procedimento amministrativo di rilevante complessità ed accompagnato ad oneri di bilancio come un nuovo concorso pubblico, piuttosto che la chiamata di soggetti già scrutinati e dichiarati idonei a quelle determinate funzioni.
Tutto questo potrebbe eventualmente verificarsi in presenza di graduatorie estremamente datate pure in virtù della ricerca di personale dotato di requisiti fondamentalmente diversi da quelli in possesso dei precedenti idonei oppure ancora dal tipo differente di selezione decisa, eventualmente con passaggi più rigorosi, tutti elementi questi assolutamente assenti nel caso di specie in cui i requisiti di partecipazione e prove di esame del vecchio e del nuovo concorso appaiono sostanzialmente conformi, né la scansione temporale tra l’approvazione della precedente graduatoria e l’indizione del nuovo concorso appare oggettivamente giustificare la scelta di quella via procedimentale definita come eccezionale.

- Ritenuto che appare assolutamente corretto il ragionamento seguito dalla sentenza impugnata secondo cui, giusta gli insegnamenti dell’Adunanza plenaria, in costanza di proroga di una graduatoria concorsuale, la decisione di indire un nuovo concorso relativo all’assunzione degli stessi profili di quella graduatoria va congruamente motivata, poiché se non sussiste un diritto soggettivo all’assunzione in capo agli idonei, l’Amministrazione deve tenere conto sul piano ordinamentale che lo scorrimento delle preesistenti graduatorie deve costituire la regola generale, mentre l’indizione del concorso rappresenta un’eccezione; per cui è l’indizione che deve essere adeguatamente motivata sul perché si debba seguire un procedimento amministrativo di rilevante complessità ed accompagnato ad oneri di bilancio come un nuovo concorso pubblico, piuttosto che la chiamata di soggetti già scrutinati e dichiarati idonei a quelle determinate funzioni;
- Ritenuto che tutto questo potrebbe eventualmente verificarsi in presenza di graduatorie estremamente datate pure in virtù della ricerca di personale dotato di requisiti fondamentalmente diversi da quelli in possesso dei precedenti idonei oppure ancora dal tipo differente di selezione decisa, eventualmente con passaggi più rigorosi, tutti elementi questi assolutamente assenti nel caso di specie in cui i requisiti di partecipazione e prove di esame del vecchio e del nuovo concorso appaiono sostanzialmente conformi, né la scansione temporale tra l’approvazione della precedente graduatoria e l’indizione del nuovo concorso appare oggettivamente giustificare la scelta di quella via procedimentale definita come eccezionale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.12.2013 n. 6247 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione e preesistenza opere di urbanizzazione.
Non basta la mera preesistenza di opere di urbanizzazione per escludere la dovutezza della pianificazione attuativa, ma è necessario che le opere esistenti siano sufficienti in un rapporto di proporzionalità fra i bisogni degli abitanti già insediati e da insediare e la quantità e qualità degli impianti urbanizzati già disponibili destinati a soddisfarli.
Deve sussistere cioè, per escludere la lottizzazione, una situazione di completa e razionale urbanizzazione della zona, in presenza di opere urbanizzative primarie e secondarie almeno pari allo standard urbanistico minimo prescritto, tale da rendere del tutto superfluo un piano attuativo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.12.2013 n. 51710 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: La quota di contributo commisurata al costo di costruzione costituisce una prestazione di natura tributaria e paratributaria, collegata alla produzione di ricchezza dei singoli che è generata dallo sfruttamento del territorio.
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Il contributo relativo al costo di costruzione è dovuto anche in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico.
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Il settimo comma, primo periodo, dell'art. 64 della L.R. Lombardia 11.03.2005 n. 12 prevede che: “La realizzazione degli interventi di recupero di cui al presente capo comporta la corresponsione …. del contributo commisurato al costo di costruzione, calcolati sulla volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa abitativa secondo le tariffe approvate e vigenti in ciascun comune per le opere di nuova costruzione”.
In sostanza, la quantificazione degli oneri di urbanizzazione e del contributo riferito al costo di costruzione per il recupero dei sottotetti è agganciata da un lato alla “superficie lorda di pavimento resa abitativa”, e dall’altro alle “tariffe approvate e vigenti” per le opere di nuova costruzione.
In tal senso il TAR ha ragione quanto ha escluso la legittimità di un conteggio che tenga conto della “superficie complessiva”, cioè la superficie utile più quella non residenziale di cui all’art. 2 del D.M. 10.05.1977 n. 10.
Infatti, in applicazione del principio ermeneutico generale della prevalenza della norma speciale sulla norma generale è esatto l’assunto per cui in materia di oneri di urbanizzazione relativi al recupero dei sottotetti, deve farsi esclusivo riferimento al più ristretto ambito spaziale individuato al settimo comma dell'art. 64 della L.R..
Pertanto, in base al vecchio brocardo “ubi lex voluit dixit”, se il legislatore regionale ha prescritto che gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione debbono essere computati con riferimento alla “volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa abitativa”, ha intenzionalmente inteso porre una fattispecie peculiare derogatoria del regime generale di cui agli artt. 44 e 48 della L.R. n. 12/2005.
Tuttavia, al fine del calcolo del costo di costruzione per gli interventi in questione deve dunque escludersi che possano essere conteggiate come fattori di moltiplicazione le superfici non destinate anche indirettamente ai fini residenziali quali i locali di pertinenza del fabbricato ad uso comune quali androni, deposito biciclette e carrozzine, deposito rifiuti, corridoi e disimpegni dei solai delle cantine ed ecc..
Tuttavia il richiamo alle “tariffe vigenti” di cui all’art. 64, co. 7, della detta L.R. implica che per la determinazione del costo di costruzione per le nuove costruzioni -sia pure con riferimento alle sole superfici lorde di pavimento rese abitative- debba farsi diretto rinvio all’art. 48 della L.R. n. 12/2005, ed al d.m. 10.05.1977.
In altre parole, l'interpretazione della preposizione "calcolati sulla volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa abitativa secondo le tariffe approvate vigenti per ciascun Comune per le opere di nuova costruzione" deve essere coerente con il precedente art. 48 ed implica che il calcolo del costo di costruzione dei recuperi edilizi dei sottotetti deve essere computato utilizzando da un lato la volumetria o la superficie s.l.p. resa abitativa e dall’altro le tabelle comunali per le nuove costruzioni di cui all'art. 48 della L.R. n. 12/2005.
Esattamente l’Amministrazione appellante ricorda, in linea di principio, che la quota di contributo commisurata al costo di costruzione costituisce una prestazione di natura tributaria e paratributaria, collegata alla produzione di ricchezza dei singoli che è generata dallo sfruttamento del territorio (cfr. Cons. Stato, sez. V, 21.04.2006 n. 2258; Cons. Stato Sez. V 06.05.1997 n. 462; Cons. Stato Sez. VI 18.01.2012 n. 177). Infatti il contributo relativo al costo di costruzione è dovuto anche in presenza di una trasformazione edilizia che, indipendentemente dall'esecuzione fisica di opere, si rivela produttiva di vantaggi economici ad essa connessi, situazione che si verifica per il mutamento di destinazione o comunque per ogni variazione anche di semplice uso che comporti un passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico (cfr. Consiglio di Stato Sez. IV 14/10/2011 n. 5539).
Nello specifico però, il settimo comma, primo periodo, dell'art. 64 della L.R. Lombardia 11.03.2005 n. 12 prevede che: “La realizzazione degli interventi di recupero di cui al presente capo comporta la corresponsione …. del contributo commisurato al costo di costruzione, calcolati sulla volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa abitativa secondo le tariffe approvate e vigenti in ciascun comune per le opere di nuova costruzione”.
In sostanza, la quantificazione degli oneri di urbanizzazione e del contributo riferito al costo di costruzione per il recupero dei sottotetti è agganciata da un lato alla “superficie lorda di pavimento resa abitativa”, e dall’altro alle “tariffe approvate e vigenti” per le opere di nuova costruzione.
In tal senso il TAR ha ragione quanto ha escluso la legittimità di un conteggio che tenga conto della “superficie complessiva”, cioè la superficie utile più quella non residenziale di cui all’art. 2 del D.M. 10.05.1977 n. 10.
Infatti, in applicazione del principio ermeneutico generale della prevalenza della norma speciale sulla norma generale è esatto l’assunto per cui in materia di oneri di urbanizzazione relativi al recupero dei sottotetti, deve farsi esclusivo riferimento al più ristretto ambito spaziale individuato al settimo comma dell'art. 64 della L.R..
Pertanto, in base al vecchio brocardo “ubi lex voluit dixit”, se il legislatore regionale ha prescritto che gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione debbono essere computati con riferimento alla “volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa abitativa”, ha intenzionalmente inteso porre una fattispecie peculiare derogatoria del regime generale di cui agli artt. 44 e 48 della L.R. n. 12/2005.
La Società, nella memoria del 03.10.2013, esattamente ricorda come tale individuazione è del tutto coerente sia con le finalità generali di recupero di patrimonio edilizio ai fini abitativi, sia con riferimento al fatto che non possano computarsi tutte le superfici non residenziali che spesso non appartengono nemmeno all’esecutore dell’intervento.
Al riguardo, al fine del calcolo del costo di costruzione per gli interventi in questione deve dunque escludersi che possano essere conteggiate come fattori di moltiplicazione le superfici non destinate anche indirettamente ai fini residenziali quali i locali di pertinenza del fabbricato ad uso comune quali androni, deposito biciclette e carrozzine, deposito rifiuti, corridoi e disimpegni dei solai delle cantine ed ecc. (ma al riguardo vedi anche infra).
Tuttavia il richiamo alle “tariffe vigenti” di cui all’art. 64, co. 7, della detta L.R. implica che per la determinazione del costo di costruzione per le nuove costruzioni -sia pure con riferimento alle sole superfici lorde di pavimento rese abitative- debba farsi diretto rinvio all’art. 48 della L.R. n. 12/2005, ed al d.m. 10.05.1977.
In altre parole, l'interpretazione della preposizione "calcolati sulla volumetria o sulla superficie lorda di pavimento resa abitativa secondo le tariffe approvate vigenti per ciascun Comune per le opere di nuova costruzione" deve essere coerente con il precedente art. 48 ed implica che il calcolo del costo di costruzione dei recuperi edilizi dei sottotetti deve essere computato utilizzando da un lato la volumetria o la superficie s.l.p. resa abitativa e dall’altro le tabelle comunali per le nuove costruzioni di cui all'art. 48 della L.R. n. 12/2005.
Solo in relazione a quest’ultimo limitato profilo il primo motivo del Comune può, per tale parte, essere accolto
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.12.2013 n. 6160 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi del comma 6-ter dell'art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241 "Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi", le denuncie di inizio attività "non costituiscono provvedimenti taciti".
Il legislatore ha fatto dunque proprio l’avviso dell'Adunanza plenaria per cui "la denuncia di inizio attività non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge".
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In linea generale, l'efficacia abilitativa alla realizzazione dell'intervento edilizio non è conseguente all'iniziativa del privato ma alla giuridica possibilità di realizzare le opere.
Pertanto l'obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione deve essere agganciato non al tempo della presentazione della denuncia di inizio attività, ma al sorgere della giuridica possibilità di realizzare legittimamente l’intervento e quindi al momento dell’intervenuta efficacia della d.i.a. per decorso del termine o intervenuto accertamento della conformità alla disciplina urbanistica vigente.
La determinazione dell'importo dei contributi dovuti per le opere da realizzarsi è dunque connessa all'effettiva possibilità di effettuare l'intervento edilizio. Ciò, onde evitare l’insorgenza di un obbligo di pagamento anche nel caso in cui, nel termine di trenta giorni l'amministrazione intervenga con l'ordine motivato di blocco dei lavori, è dunque evidente che la determina dei contributi urbanistici deve essere effettuata tenendo conto dei parametri di calcolo in vigore al momento dell’operatività della detta denuncia.
Fino al momento dell'attribuzione di efficacia, secondo momento di realizzazione della fattispecie precettiva, la vicenda procedimentale non è ancora conclusa, ed è quindi ancora possibile, ed anzi doveroso, dare risalto agli eventi esterni sopravvenuti, quale è il mutamento dei parametri di calcolo, (come nel caso di specie), o anche il sopraggiungere di una nuova disciplina urbanistica).

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In conseguenza del principio che precede, quando poi, come nel caso particolare, il privato abbia parcellizzato l’intervento attraverso uno stillicidio di molteplici DIA (nel caso ben cinque) tutte concernenti i medesimi spazi, è evidente che il contributo cui dovrà soggiacere non potrà che essere quello corrispondente all’assetto finale dell’immobile, onde evitare che una sapiente regia nella segmentazione dei lavori finisca per risolversi in un abuso del diritto in danno dell’Amministrazione.
Come la Sezione ha più volte avuto modo di ricordare, ai sensi del comma 6-ter dell'art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241 "Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi" (introdotto con l'articolo 6, co. 1°, lettera c), del D.L. 13.08.2011, n. 138), le denuncie di inizio attività "non costituiscono provvedimenti taciti". Il legislatore ha fatto dunque proprio l’avviso dell'Adunanza plenaria 29.07.2011 n. 15 per cui "la denuncia di inizio attività non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l'intenzione di intraprendere un'attività direttamente ammessa dalla legge".
In linea generale, l'efficacia abilitativa alla realizzazione dell'intervento edilizio non era conseguente all'iniziativa del privato ma alla giuridica possibilità di realizzare le opere.
Pertanto l'obbligo di corrispondere gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione deve essere agganciato non al tempo della presentazione della denuncia di inizio attività, ma al sorgere della giuridica possibilità di realizzare legittimamente l’intervento e quindi al momento dell’intervenuta efficacia della d.i.a. per decorso del termine o intervenuto accertamento della conformità alla disciplina urbanistica vigente.
La determinazione dell'importo dei contributi dovuti per le opere da realizzarsi è dunque connessa all'effettiva possibilità di effettuare l'intervento edilizio. Ciò, onde evitare l’insorgenza di un obbligo di pagamento anche nel caso in cui, nel termine di trenta giorni l'amministrazione intervenga con l'ordine motivato di blocco dei lavori, è dunque evidente che la determina dei contributi urbanistici deve essere effettuata tenendo conto dei parametri di calcolo in vigore al momento dell’operatività della detta denuncia (cfr. Cons. Stato Sez. IV 13.05.2010 n. 2922).
Fino al momento dell'attribuzione di efficacia, secondo momento di realizzazione della fattispecie precettiva, la vicenda procedimentale non è ancora conclusa, ed è quindi ancora possibile, ed anzi doveroso, dare risalto agli eventi esterni sopravvenuti, quale è il mutamento dei parametri di calcolo, (come nel caso di specie), o anche il sopraggiungere di una nuova disciplina urbanistica).
In conseguenza del principio che precede, quando poi, come nel caso particolare, il privato abbia parcellizzato l’intervento attraverso uno stillicidio di molteplici DIA (nel caso ben cinque) tutte concernenti i medesimi spazi, è evidente che il contributo cui dovrà soggiacere non potrà che essere quello corrispondente all’assetto finale dell’immobile, onde evitare che una sapiente regia nella segmentazione dei lavori finisca per risolversi in un abuso del diritto in danno dell’Amministrazione.
Nel caso la terza DIA del 13.12.2005 si era perfezionata successivamente all’entrata in vigore -in data 01.01.2006- della determina dirigenziale n. 295/2005 per cui deve concludersi per la legittimità del computo del costo di costruzione di € 322,05 operato con riferimento alle tariffe in vigore al momento della formazione finale del titolo edilizio.
L’ultima DIA della società ricorrente è stata presentata, completa di tutti gli allegati e dei conteggi degli oneri, in data 21.12.2007 e quindi, allo scadere del termine di trenta giorni di cui al comma 1 dell'art. 23 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380. Pertanto il suo iter formativo si era concluso solo dopo l'intervenuta efficacia della delibera comunale.
Il motivo va dunque respinto
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.12.2013 n. 6160 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Illegittimità concessione edilizia in deroga per realizzazione di ambulatorio medico privato.
Se è pur vero che il titolo è stato richiesto per la realizzazione di un manufatto destinato ad accogliere l’attività di medico di base del Servizio Sanitario Nazionale (in relazione al quale potrebbe essere non implausibile la sussistenza di un interesse pubblico all’assistenza nei confronti dei pazienti), è d’altra parte indubitabile che il vulnus alla disciplina urbanistico–edilizia inflitto con la concessione in deroga non risulta giustificato dalla duratura destinazione (a servizio sanitario) dell’immobile: quest’ultimo, infatti, non solo è (e resta privato) e nella esclusiva disponibilità dell’interessato anche quanto all’uso, non essendo stato apposto alcun vincolo ragionevole durata o di destinazione (di interesse pubblico), ma altresì nulla impedisce che, anche prima della naturale conclusione dell’attività professionale del proprietario, l’immobile possa essere ceduto a terzi e/o concretamente utilizzato per un’attività ovvero per una finalità esclusivamente privata.
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Al riguardo si rammenta la distinzione tra l’ambulatorio, che identifica una struttura aziendale, aperta, spersonalizzata ed organizzata imprenditorialmente in vista dell’affluenza di un pubblico indeterminato, in cui prevale l’aspetto organizzativo su quello professionale, e lo studio medico, connotato dal prevalente apporto professionale mediante esercizio professionale dell’attività sanitaria: solo nei confronti del primo (ambulatorio) è astrattamente ipotizzabile la ricorrenza del presupposto dell’interesse pubblico preminente idoneo a giustificare il rilascio della concessione edilizia in deroga.
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Nel merito l’appello è infondato, il che consente di prescindete dall’esame delle ulteriori eccezioni preliminari, sollevate in primo grado e non esaminate per assorbimento, ma espressamente riproposte in appello.
Come emerge dalla documentazione in atti, non è contestato che il dott. -OMISSIS- presentò in data 23.09.1980 una richiesta di concessione edilizia in deroga per l’ampliamento del fabbricato sito in Asolo, via S. Caterina (in catasto, sez. B, foglio n. IV, mapp. n. 654) ad uso ambulatorio medico.
Con delibera n. 89 del 02.10.1980 il Consiglio comunale di Asolo espresse al riguardo parere favorevole, in ragione della particolare rilevanza sociale e di pubblica utilità dell’iniziativa, incaricando contestualmente il sindaco di richiedere alla Regione Veneto il prescritto nulla–osta ai sensi dell’art. 3 della legge 21.12.1955, n. 1357; in data 14.01.1984 veniva poi effettivamente rilasciato il richiesto titolo edilizio in deroga n. 93/1980 per la realizzazione di un ambulatorio medico, essendo intervenuto in data 08.11.1983 (prot. 1150) anche il nulla – osta dei Beni Ambientali di Treviso.
E’ altresì pacifico, mancando sul punto qualsiasi contestazione tra le parti, che l’immobile, il cui ampliamento ad uso ambulatorio medico è stato consentito con il contestato titolo edilizio, ricadeva nella zona A del Comune di Asolo, all’interno della quale, ai sensi dell’allora vigente piano regolatore (art. 13), gli interventi edilizi erano subordinati all’approvazione di piani particolareggiati, potendo, in difetto degli stessi, essere consentiti, sempre previo apposito titolo concessorio, solo la manutenzione ordinaria e straordinaria; gli interventi sui parametri esterni, purché non interessino spostamenti di aperture e modifiche dei materiali di facciata; risanamenti interni di carattere igienico o distributivo, purché non comportino sostanziali modifiche strutturali e tipologiche; restauri conservativi e demolizioni di corpi di fabbrica interni privi di valore architettonico.
Il successivo art. 27 (ex 29) del piano regolatore prevedeva la possibilità di derogare alle relative previsioni, ove ricorressero “particolari motivi di pubblico interesse, di decoro cittadino e di igiene”.
Per completezza deve aggiungersi che l’art. 80 (rubricato “Deroghe”) dell’allora vigente legge regionale 02.05.1980, n. 40 (“Norme per l’assetto e l’uso del territorio”) stabiliva che “Il piano regolatore può dettare disposizioni che consentano al Sindaco di rilasciare concessioni in deroga alle norme e alle previsioni urbanistiche generali quando riguardino edifici e/o impianti pubblici o di interesse pubblico, purché non abbiano per oggetto la modificazione delle destinazioni di zona. In tali casi il rilascio della concessione deve essere preceduto da deliberazione favorevole del consiglio comunale”.
Benché la predetta legge sia stata sostituita dalla successiva legge regionale 27.06.1985, n. 61 (anch’essa disciplinante l’assetto e l’uso del territorio), l’art. 80 di quest’ultima, pur esso rubricato “Deroghe”, riporta ai primi due commi delle disposizioni del tutto identiche a quelle della precedente legge n. 40 del 1980.
Ciò precisato, la Sezione ritiene che la sentenza impugnata sfugga alle critiche che le sono state appuntate.
Il rilascio della concessione in deroga, sia nelle previsioni del piano regolatore generale che secondo le ricordate disposizioni della legislazione regionale, costituisce una facoltà eccezionale riconosciuta all’amministrazione comunale per il perseguimento di un interesse pubblico preminente, a prescindere dalla circostanza che si tratti di un’attività di edificazione di carattere privato: il solo predetto interesse pubblico consente infatti di disapplicare una norma con riferimento ad una fattispecie concreta che pure presenta tutti gli elementi per essere assoggettata alla disciplina di carattere generale (C.d.S., sez. V, 23.07.2009, n. 4664; 02.04.2006, n. 439).
In ragione della natura eccezionale (del rilascio) della concessione edilizia in deroga i relativi presupposti (in particolare proprio la ricorrenza di un interesse pubblico preminente) devono essere accertati in modo puntuale e rigoroso, così come le norme che la ammettono devono essere interpretate in senso restrittivo (pena lo stravolgimento della sua stessa ratio), come del resto ha sottolineato la giurisprudenza (C.d.S., sez. V, 11.01.2006, n. 46), evidenziando che la concessione in deroga costituisce un provvedimento eccezionale ed a contenuto singolare, assunto cioè per soddisfare specifici interessi pubblici sulla base di valutazioni contingenti e dotate di eccezionalità che giustificano nella situazione concreta l’inosservanza delle disposizioni contenute negli atti di programmazione.
E’ stato anche precisato che per edificio di interesse pubblico, ai fini del rilascio della concessione in droga (nel caso di specie ex art. 16 della legge 06.08.1967, n. 765) deve intendersi ogni manufatto edilizio idoneo per caratteristiche intrinseche o per destinazione funzionale a soddisfare interessi di rilevanza pubblica (C.d.S., sez. IV, 23.05.1988, n. 434).
Applicando tali condivisibili e consolidati principi al caso in esame, non sussistevano i presupposti per il rilascio del titolo edilizio in deroga per la realizzazione dell’immobile in questione, non essendo del resto stata fornita dall’amministrazione una adeguata e convincente valutazione (dell’esistenza) dell’interesse pubblico preminente.
Se è pur vero, infatti, che il titolo è stato richiesto per la realizzazione di un manufatto destinato ad accogliere lo studio del ricorrente, esercente l’attività di medico di base del Servizio Sanitario Nazionale (in relazione al quale potrebbe essere non implausibile la sussistenza di un interesse pubblico all’assistenza nei confronti dei pazienti), è d’altra parte indubitabile che il vulnus alla disciplina urbanistico–edilizia inflitto con la concessione in deroga non risulta giustificato dalla duratura destinazione (a servizio sanitario) dell’immobile: quest’ultimo, infatti, non solo è (e resta privato) e nella esclusiva disponibilità dell’interessato anche quanto all’uso, non essendo stato apposto alcun vincolo ragionevole durata o di destinazione (di interesse pubblico), ma altresì nulla impedisce che, anche prima della naturale conclusione dell’attività professionale del proprietario, l’immobile possa essere ceduto a terzi e/o concretamente utilizzato per un’attività ovvero per una finalità esclusivamente privata.
Al riguardo si rammenta la distinzione (Cass. Civ., sez. II, 19.03.2010, n. 6719) tra l’ambulatorio, che identifica una struttura aziendale, aperta, spersonalizzata ed organizzata imprenditorialmente in vista dell’affluenza di un pubblico indeterminato, in cui prevale l’aspetto organizzativo su quello professionale, e lo studio medico, connotato dal prevalente apporto professionale mediante esercizio professionale dell’attività sanitaria: solo nei confronti del primo (ambulatorio) è astrattamente ipotizzabile la ricorrenza del presupposto dell’interesse pubblico preminente idoneo a giustificare il rilascio della concessione edilizia in deroga
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.12.2013 n. 6136 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva terzo acquirente e giudice dell'esecuzione.
Pur se resta estraneo al procedimento penale per lottizzazione abusiva, l'acquirente degli immobili in cui questa si è concretata non è automaticamente qualificabile come terzo in buona fede rispetto all'attività criminosa, vale a dire non può, sempre automaticamente, rimanere indenne dalla confisca degli immobili stessi.
Infatti, qualora al momento dell'acquisto e nel periodo delle prodromiche trattative si comporti in modo imprudente e negligente, con tale imprudente e negligente condotta l'acquirente si pone in una situazione di inconsapevolezza che apporta un determinante contributo causale all'attività illecita per la quale norma incriminante, contravvenzionale, è sufficiente l’elemento soggettivo della colpa -motivo per cui l'acquirente di immobili o terreni abusivamente lottizzati non può dirsi terzo realmente estraneo al reato di lottizzazione abusiva se non prova di avere agito in buona fede partecipando inconsapevolmente all'operazione illecita dopo aver adempiuto ai doveri di informazione e conoscenza richiesti dall'ordinaria diligenza in relazione al contenuto specifico dell'attività di compravendita immobiliare da lui posta in essere: adempimento la cui valutazione spetta naturalmente al giudice di merito, il quale -trattandosi di soggetto rimasto estraneo al processo per lottizzazione abusiva- non può non essere il giudice dell'esecuzione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.12.2013 n. 51387 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Illegittimità diniego di sanatoria edilizia per difetto di motivazione.
E’ illegittimo il diniego di sanatoria edilizia per difetto di motivazione allorché si fa riferimento sia a caratteristiche dei materiali utilizzati per la realizzazione del manufatto, genericamente definiti “inadeguati”, sia a caratteristiche estetiche delle forme del manufatto, definite “rozze”; per altro verso, si sottolinea la (mera) ubicazione dell’opera che contribuirebbe a renderne intollerabile la presenza.
Ambedue i profili richiamati, tuttavia, non contribuiscono a definire le ragioni ostative alla sanatoria, rappresentando essi, nel primo caso, mere valutazioni non circostanziate da elementi di fatto volti a supportare il giudizio negativo formulato; nel secondo caso, una semplice descrizione di luoghi, in relazione ai quali il concreto contrasto del manufatto non risulta reso evidente
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 18.12.2013 n. 6065 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Imprenditore agricolo oneri concessori e variante da agricola a residenziale.
La mancanza del requisito dell’imprenditore agricolo a titolo principale è sufficiente a ritenere dovuto il contributo concessorio e insussistente il diritto alla esenzione, legato a ipotesi tassative.
Inoltre, va aggiunto che ai fini del mutamento di destinazione d’uso (nella specie, da agricola a residenziale) si ritiene che comporti aumento del carico urbanistico il passaggio tra due categorie funzionalmente autonome, in quanto il mutamento di destinazione d’uso, in sé, nella specie, a differenza di quanto sostiene l’appellata, comporta un maggiore carico urbanistico, al quale si correla la imposizione di pagamento.

Occorre ora esaminare la correttezza del ragionamento del primo giudice, contestato dall’appello, sulla base sia degli accertamenti effettuati sulla natura dell’intervento che sulla base della disciplina normativa sulla dovutezza del contributo.
In fatto, la verificazione ha dato modo di accertare che:
a) l’intervento (che secondo il Comune è consistito nella demolizione e ricostruzione del preesistente edificio ubicato in zona agricola ed individuato come fabbricato rurale di rilevante valore dal Piano regolatore con contestuale cambio di destinazione di uso poiché la nuova costruzione oggetto di sanatoria non avrebbe più destinazione agricola ma residenziale) deve essere qualificato come ristrutturazione edilizia e non come restauro e risanamento conservativo; b) non sussistono elementi univoci nel senso che esso avrebbe comportato mutamenti di destinazione d’uso, anche se le previsioni divisorie interne e le modifiche alle aperture esistenti non pregiudicano tale possibilità; c) non si può ritenere dalla documentazione esistente che sussista il requisito dell’imprenditore agricolo a titolo principale e anzi, deve ritenersi, tale qualifica non sussiste.
La legge invocata 28/01/1977, n. 10 all’articolo 9 prevede (prevedeva perché trattasi di articolo abrogato dall'articolo 136, comma 1, lettera c), del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, a decorrere dal 01.01.2002; tuttavia applicabile ratione temporis, poiché l’intervento è degli anni novanta e il ricorso originario dell’anno 1998) che il contributo di cui al precedente articolo 3 non è dovuto per (lettera a) le opere da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'art. 12, L. 09.05.1975, n. 153.
Si intende quindi (tra tante, si veda Consiglio Stato sez. V, 30.08.2005, n. 4424) che l'esonero dal pagamento degli oneri concessori per gli edifici destinati alla conduzione del fondo e alle esigenze dell'imprenditore agricolo, stabilito dalla lett. a), art. 9, l. n. 10 del 1977, spetta soltanto a tutti i soggetti che esercitino l'attività agricola a titolo principale, tanto persone fisiche che persone giuridiche.
Pertanto, una volta accertata la insussistenza della qualifica di imprenditore agricolo a titolo principale, l’esenzione è del tutto ingiustificata, né si giustifica l’accoglimento motivato sulla base di una asserita disparità di trattamento con situazione, invero del tutto differente, di un altro soggetto, anch’egli proprietario di un edificio unifamiliare (che però ricade in zona diversamente classificata dal PRG), che non sarebbe esonerato da tale obbligazione, a fronte di un intervento edilizio medesimo avente le medesime caratteristiche.
A meno di non incorrere in una interpretazione arbitraria, si deve soltanto accertare, a tal fine –salvo valutare altresì la natura dell’intervento realizzato– se sussiste il requisito della imprenditore agricolo a titolo principale (che è oggetto di una specifica disciplina, ora a seguito della c.d. Legge di orientamento sull’imprenditore agricolo), in quanto solo in tal caso sussiste il diritto (e invero ovviamente la ragione legislativa) alla esenzione del contributo di concessione per le opere da realizzare in zona agricola.
Con riguardo alla effettiva natura dell’intervento, è evidente che non possa essere accolta la tesi della parte appellata, riproposta in memoria, secondo cui si tratterebbe nella specie soltanto di restauro o risanamento conservativo.
Sia sufficiente osservare come in relazione alla natura di ristrutturazione dell’intervento si sono espressi con chiarezza sia la verificazione sia lo stesso primo giudice, che ha accolto il ricorso, come visto, sulla base di diverso iter logico interpretativo. Né, al riguardo, l’appellata ha fornito argomenti in grado di sovvertire le conclusioni del verificatore.
La caratteristica degli interventi di mero restauro è quella di essere effettuati mediante interventi che non comportano l’alterazione delle caratteristiche edilizie dell’immobile da restaurare, rispettando gli elementi formali e strutturali dell’immobile stesso, dovendosi privilegiare la funzione di ripristino della individualità originaria dell’immobile (Cassazione penale, III, 01.09.2009, n. 33536), mentre la ristrutturazione edilizia si caratterizza per essere idonea ad introdurre un quid novi rispetto al precedente assetto dell’edificio.
Nella specie è stato demolito il secondo corpo di fabbrica e parzialmente ricostruito con pareti portanti dal piano terra al piano primo a sostegno del solaio e le opere realizzate sono tali da essere definite variazioni essenziali recanti il mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio; il verificatore aggiunge che non è da escludersi –e anzi tutte le circostanze di fatto portano a ritenerlo probabile- il successivo mutamento di destinazione d’uso da agricolo a residenziale.
La mancanza del requisito dell’imprenditore agricolo a titolo principale è sufficiente a ritenere dovuto il contributo concessorio e insussistente il diritto alla esenzione, legato a ipotesi tassative.
Inoltre, va aggiunto che ai fini del mutamento di destinazione d’uso (nella specie, da agricola a residenziale) si ritiene che comporti aumento del carico urbanistico il passaggio tra due categorie funzionalmente autonome, in quanto il mutamento di destinazione d’uso, in sé, nella specie (per tali considerazioni, si veda di recente tra varie Cons. Stato, V, 30.08.2013, n. 4326) a differenza di quanto sostiene l’appellata, comporta un maggiore carico urbanistico, al quale si correla la imposizione di pagamento
(massima tratta da www.lexambiente.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.12.2013 n. 6005 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Rifiuti da imballaggio.
Rientra nell'attività di illecita gestione, sanzionata dall'art. 256, comma 1, d.lgs. 152/2006, lo smaltimento mediante combustione di rifiuti di imballaggio (nella specie, polistirolo) effettuato in assenza del prescritto titolo abilitativo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.12.2013 n. 48737 - tratto da www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Danno ambientale. Associazioni e legittimazione a costituirsi parte civile.
Le associazioni ambientaliste, sono legittimate a costituirsi parte civile quando perseguano un interesse non caratterizzato da un mero collegamento con quello pubblico, bensì concretizzatosi in una realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo, in quanto in tal caso l’interesse all’ambiente cessa di essere diffuso e diviene soggettivizzato e personificato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.12.2013 n. 47805 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Finalità dell'abbandono e della raccolta.
La volontà che sottende all'abbandono di rifiuti è sostanzialmente diretta a disfarsi ed a disinteressarsi completamente della cosa, mentre quella relativa alla raccolta è diretta a conservare i materiali per poter poi compiere sugli stessi una attività successiva, sia di riutilizzo o di smaltimento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.11.2013 n. 47501 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Acque. Scarico responsabilità e delega.
La responsabilità in tema di superamento dei limiti nello scarico deve essere esclusa quando esiste un soggetto delegato competente.
Il TRIBUNALE di Reggio Emilia, Sez. II civile, con la sentenza 28.11.2013 ha accolto il ricorso n. 8382/2008 del Condominio Corte Gonzaga e di Cristina Denti contro il Comune di Reggio Emilia per l’annullamento dell’ordinanza del Comune di Reggio Emilia n. 20864 del 30.09.2008 con la quale veniva ingiunto il pagamento di una sanzione amministrativa per la violazione dell’art. 101, comma 2°, del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i. a causa del cattivo funzionamento del proprio “impianto biologico a fanghi di attivi di trattamento di reflui”, verificato dall’A.R.P.A. Emilia-Romagna (verbale n. 45/2007).
Il Condominio Corte Gonzaga faceva invano presente fin dalla contestazione l’aver incaricato una Ditta specializzata e adeguatamente dotata di professionalità e mezzi per il mantenimento in efficienza dell’impianto di depurazione condominiale.
Il Giudice civile reggiano ha accolto le tesi difensive.
Infatti, è innanzitutto presente il carattere dell’imprevedibilità: “la ditta incaricata ha rilevato che la concentrazione abnorme sarebbe determinata da un accumulo di sostanza organica nell’impianto a seguito di un intasamento del pozzetto di ingresso la cui liberazione ha determinato un afflusso eccessivo di fluidi e una conseguente ed inevitabile maggiore difficoltà del depuratore di smaltimento; da un punto di vista tecnico, non sarebbe stato possibile l’inserimento di batteri prima che fosse stata ripristinato un corretto rapporto tra ossigeno e materiale, dal momento che essi avrebbero potuto attivarsi solo in ambiente aerobico” (tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Differenze tra la nozione di deposito e quella di abbandono.
La nozione di deposito di rifiuti anche solo temporaneo implica, a differenza di quella dell’abbandono, ed in virtù della sua finalizzazione ad una gestione degli stessi, una attività connotata necessariamente da un controllo a che la collocazione avvenga inizialmente e poi permanga, nell'arco temporale richiesto, secondo le modalità di legge, non è sostenibile che, una volta collocato il materiale (su area che già non sia interessata da oggetti di provenienza diversa) sia possibile disinteressarsi della sorte del medesimo.
Se, del resto, il deposito prelude per legge all'avviamento del materiale alle operazioni di recupero e di smaltimento, è necessario che il requisito del raggruppamento per categorie omogenee sussista inizialmente e permanga sino a che detto smaltimento non intervenga, restando a carico di chi il deposito effettui curare che detto requisito venga costantemente rispettato, senza per questo addossare al “depositante” inadempienze altrui.
Una diversa conclusione finirebbe d’altra parte per dar luogo ad una indebita assimilazione della figura del “deposito” a quella dell’"abbandono"
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.11.2013 n. 46711 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Materiale bituminoso.
Il materiale bituminoso, come ogni prodotto proveniente da scavo o demolizione, può essere considerato sottoprodotto ai sensi dell’art. 183, lett. qq), del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 soltanto in ipotesi di totale riutilizzazione nel rispetto delle condizioni fissate dal successivo art. 184-bis al comma 1, anche in relazione all’art. 185, in particolare lett. b) e c), della medesima legge (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.11.2013 n. 46243 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Ambiente in genere. Getto pericoloso di cose e concorso con reati ambientali.
In linea di principio, il reato di getto pericoloso di cose può concorrere con i reati di gestione non autorizzata di rifiuti (art. 256, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152) e di scarico di reflui industriali senza autorizzazione (art. 137, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152), purché si accerti la potenziale offensività del rifiuto o del refluo ed il getto avvenga in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato di comune o altrui uso (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.11.2013 n. 46237 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Terre e rocce da scavo e decreto legge 69/2013.
La disciplina specifica in tema di terre e rocce da scavo esclude la rilevanza penale delle condotte esclusivamente in presenza di condizioni di fatto e di procedure che assicurino la qualità minima e la integrale destinazione dei materiali in conformità dei limiti fissati; conclusione, questa, certamente corretta anche dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 02.12.2010, n. 205 e del relativo decreto ministeriale.
Né, sul punto, risultano rilevanti le successive modifiche normative che hanno ad oggetto le rocce e terre da scavo: anche secondo gli artt. 41 e 41-bis del d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito in legge 09.08.2013, n. 98, la legittimità del trattamento e del reimpiego di tali materiali è subordinata a condizioni di fatto e a garanzie e certificazioni
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.11.2013 n. 46227 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Gestione illecita ed omessa vigilanza del titolare di impresa.
Il reato di illecita gestione di rifiuti è ascrivibile anche al titolare dell'impresa sotto il profilo dell'omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta vietata (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.11.2013 n. 45932 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Il reato di gestione non autorizzata non necessita di continuità o stabilità della condotta.
Il reato di cui all'art. 256, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, riguardante, in via ordinaria e sull'intero territorio nazionale, l'attività di gestione di rifiuti non autorizzata, contempla segnatamente la condotta di chiunque effettui, tra le altre, una "attività di trasporto": ebbene, con riguardo a tale fattispecie, plasmata, nelle sue componenti, in maniera, assolutamente uguale a quella impiegata dalla norma "speciale" ex lege n. 210 del 2008, la giurisprudenza non ha mai dubitato del fatto che per la integrazione della stessa, avente natura di reato istantaneo e solo eventualmente abituale, in quanto perfezionantesi nel momento in cui si realizza la singola condotta tipica, sia sufficiente un unico trasporto, da ciò discendendo, evidentemente, la non necessità di requisiti di continuatività e stabilità di sorta (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.11.2013 n. 45306 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni Ambientali. Autorizzazione paesaggistica e permesso di costruire in sanatoria.
Se è vero che tra l'autorizzazione paesaggistica e quella edilizia in sanatoria esiste una piena autonomia di guisa che è ben possibile il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria anche in assenza di un nulla osta paesaggistico, è altrettanto vero che un eventuale parere favorevole da parte dell'Autorità amministrativa deputata alla tutela del paesaggio non debba necessariamente influire positivamente sulla procedura di rilascio del permesso di costruire nel senso che trattandosi di tutela di interessi diversi, una costruzione che sia compatibile con l'ambiente paesaggistico può tuttavia confliggere con l'interesse urbanistico-edilizio e viceversa.
Occorre, quindi, che da parte dell'Autorità Amministrativa competente alla tutela paesistica intervenga il rilascio della preventiva autorizzazione paesaggistica (non essendo sufficiente che sia lo stesso Comune a poter rilasciare una autorizzazione del genere), senza che possa rilevare il rilascio di un semplice parere, oltretutto sottoposto a prescrizioni nella specie pacificamente non osservate
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.11.2013 n. 44647 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: La riconducibilità di un intervento alle ipotesi di attività “libere”, come tali irrilevanti sotto il profilo strettamente edilizio, non implica automaticamente che il medesimo intervento sia irrilevante sotto il profilo paesaggistico, per cui la valutazione, anche nell’ipotesi della sanatoria, deve essere effettuata pregiudizialmente in termini di compatibilità col vincolo.
... per l'annullamento
del provvedimento comunale 04.04.2013 n. 1920 di diniego permesso di costruire in sanatoria, del provvedimento 04.04.2013 n. 1921 di ripristino dello stato dei luoghi e del parere negativo reso nell'ambito del procedimento di sanatoria da parte dell'Ufficio periferico BB.AA. di Verona prot. 901 dell'11.01.2013; nonché con i motivi aggiunti depositati il 13.09.2013;
per l'annullamento del provvedimento del Ministero BB.AA. 20.06.2013 con il quale è stata confermata l'inammissibilità dell'istanza di sanatoria presentata ex art. 167 D. L.vo 42/2004 sul presupposto che l'intervento di cui trattasi abbia determinato un aumento della superficie utile.
...
- Premesso che parte ricorrente ha presentato istanza di sanatoria per un intervento realizzato in ambito soggetto a vincolo paesaggistico, onde regolarizzarlo sia sotto il profilo edilizio sia sotto il profilo paesaggistico, in applicazione della speciale deroga prevista dall’art. 167, comma 4, del D.lgs. n. 42/2004;
- che l’istanza è stata respinta sulla base del parere sfavorevole espresso dalla Soprintendenza per i BB.AA. di Verona, come da parere richiamato nel provvedimento comunale, parimenti impugnato;
- premesso che la riconducibilità di un intervento alle ipotesi di attività “libere”, come tali irrilevanti sotto il profilo strettamente edilizio, non implica automaticamente che il medesimo intervento sia irrilevante sotto il profilo paesaggistico, per cui la valutazione, anche nell’ipotesi della sanatoria, deve essere effettuata pregiudizialmente in termini di compatibilità col vincolo;
- atteso che la richiesta di sanatoria è stata presentata, nel caso di specie, ritenendo che l’intervento, effettuato in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica, potesse essere ricondotto all’ipotesi disciplinata dal quarto comma dell’art. 167 del D.lgs. 42/2004, che eccezionalmente, nei casi ivi indicati, ammette che l’autorizzazione possa essere rilasciata a sanatoria, laddove sussista la compatibilità col vincolo;
- osservato che -diversamente da quanto affermato in ricorso e considerato il dato di fatto, come documentato da parte resistente– l’intervento de quo non appare riconducibile alle ipotesi di cui all’art. 149 del D.lgs. 42/2004, in particolare a quelle indicate alla lettera b), ossia ad interventi inerenti l’attività agro-silvo-pastorale, in quanto per caratteristiche e dimensioni trattasi di un intervento che esorbita dalla indicazione normativa, che è riferita ai soli movimenti di terra strettamente pertinenti all’attività agricola e alle pratiche agro-silvo-pastorali;
- che invero per essere esentati dall’autorizzazione deve trattarsi di interventi che non comportano alterazioni permanenti dello stato dei luoghi e non influiscono sull’assetto idrogeologico del territorio;
- che inoltre, come correttamente rilevato dalla difesa resistente, lo stesso D.P.R. n. 139/2010, nell’assoggettare interventi di tombinatura -di minori dimensioni (4 ml) rispetto a quelle realizzate nel caso di specie (70 ml)- alla procedura semplificata per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, conferma che detta tipologia di interventi necessita dell’autorizzazione (eventualmente anche secondo la procedura semplificata), laddove realizzati in ambiti tutelati (circostanza, quest’ultima, mai messa in discussione da parte istante);
- vista la successiva nota della Soprintendenza, oggetto dei motivi aggiunti, con la quale è stata focalizzata l’attenzione sulla sola non riconducibilità dell’ipotesi de qua agli interventi suscettibili di sanatoria paesaggistica, circostanza di per sé preclusiva di ogni ulteriore accertamento e ponderazione circa la compatibilità dell’intervento realizzato in ambito tutelato in assenza della preventiva autorizzazione paesaggistica;
- che quindi è risultata prevalente ed assorbente ogni ulteriore valutazione l’inammissibilità della richiesta di sanatoria per contrasto con le previsioni eccezionali di cui all’art. 167 D.lgs. n. 42/2004;
- che per effetto del mancato conseguimento dell’autorizzazione paesaggistica risulta atto dovuto il rigetto della sanatoria edilizia, con conseguente ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi;
- per detti motivi il ricorso va respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 10.10.2013 n. 1153 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: La partecipazione dell’interessato al sopralluogo disposto per accertare lo stato dei luoghi non esime l’amministrazione dal comunicare i motivi che ostano all’accoglimento dell’istanza: l’ispezione è attività ricognitiva dello stato dei luoghi e consiste in attività materiali di osservazione, di descrizione, di misurazione dei luoghi mentre il preavviso ex art. 10-bis consiste nella comunicazione dell’ipotesi decisionale cui l’organo procedente è approdato in via provvisoria dopo aver sussunto e vagliato i fatti materiale rilevati in sede istruttoria nella previsione di legge.
Né, nel caso di specie, può opporsi che la decisione fosse vincolata, poiché in realtà proprio la necessità di accertare le reali dimensioni della tettoia imponeva di ammettere al contraddittorio procedimentale il destinatario degli effetti del provvedimento di diniego, al fine di consentirgli di produrre documenti o memorie sul punto, come poi accaduto, del resto, in sede giudiziale.

Carattere dirimente ed assorbente riveste il primo motivo di censura con il quale il ricorrente ha contestato la violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, stante la mancata comunicazione del preavviso di rigetto.
Il Comune intimato ne eccepisce la superfluità per avere il ricorrente partecipato al sopralluogo preventivamente disposto e, in ogni caso, per la natura sostanzialmente vincolata del diniego ai sensi dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990.
In senso contrario deve osservarsi che la partecipazione dell’interessato al sopralluogo disposto per accertare lo stato dei luoghi non esime l’amministrazione dal comunicare i motivi che ostano all’accoglimento dell’istanza: l’ispezione è attività ricognitiva dello stato dei luoghi e consiste in attività materiali di osservazione, di descrizione, di misurazione dei luoghi mentre il preavviso ex art. 10-bis consiste nella comunicazione dell’ipotesi decisionale cui l’organo procedente è approdato in via provvisoria dopo aver sussunto e vagliato i fatti materiale rilevati in sede istruttoria nella previsione di legge.
Né, nel caso di specie, può opporsi che la decisione fosse vincolata, poiché in realtà proprio la necessità di accertare le reali dimensioni della tettoia imponeva di ammettere al contraddittorio procedimentale il destinatario degli effetti del provvedimento di diniego, al fine di consentirgli di produrre documenti o memorie sul punto, come poi accaduto, del resto, in sede giudiziale.
Il motivo di censura è, pertanto, fondato ed il diniego dev’essere annullato (TAR Molise, sentenza 20.03.2013 n. 225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza pressoché costante anche di questa sezione, le piscine interrate non possono alterare i valori paesaggistici, perché non suscettibili di verticalizzazione con pregiudizio di visuali e visioni prospettiche.
... per l'annullamento del provvedimento del Comune di Cellole n. 9771/2012 con cui si ordina la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, nonché del verbale della conferenza di servizi in data 05.06.2012 e del parere ivi espresso dalla soprintendenza statale ai beni paesaggistici di Caserta.
...
Premesso che:
a) la ricorrente è comproprietaria di un albergo denominato “Hotel La Baia”, sito nella località balneare di Baia Domitia, nel Comune di Cellole. È altresì titolare di due concessioni demaniali relative all’arenile antistante alla suddetta struttura alberghiera. Su una di queste due aree chiedeva l’autorizzazione per la realizzazione di una piscina prefabbricata di facile rimozione. Si riuniva la conferenza di servizi all’interno della quale la Soprintendenza statale preposta alla tutela del paesaggio esprimeva parere negativo “considerato che l’intervento proposto è ubicato in zona di rilevante interesse paesaggistico per l’assenza di modifiche antropiche sostanziali dei caratteri naturali caratterizzati dall’ecosistema, composta dalla macchia mediterranea che preserva l’equilibrio vegetazionale tra le varie essenze … e considerato che, pertanto, l’attuazione della trasformazione proposta comporterebbe la cancellazione dei tratti distintivi del paesaggio protetto”. A seguito di detto parere la conferenza di servizi si esprimeva negativamente. Di conseguenza il Comune di Cellole comunicava il rigetto dell’istanza;
b) i provvedimenti sopra indicati venivano impugnati, prima con ricorso originario e poi con motivi aggiunti, per le ragioni di seguito sintetizzate: 1) omesso preavviso di rigetto; 2) difetto di motivazione, anche in considerazione del favor normativo per la realizzazione di piscine all’interno di strutture alberghiere previsto dalla legge regionale n. 10 del 2012; 3) eccesso di potere sotto il profilo della erroneità dei presupposti, dato che non vi sarebbe alterazione alcuna della macchia mediterranea; 4) violazione dell’art. 146 del decreto legislativo n. 42 del 2004, atteso che le strutture di cui si discute (piscine) non comporterebbero alterazione alcuna dei valori paesaggistici.
c) si costituivano in giudizio le amministrazioni statali intimate per chiedere il rigetto del gravame;
d) alla camera di consiglio del 24.01.2013, avvisate le parti circa la possibilità di adottare sentenza in forma semplificata, la causa veniva infine trattenuta in decisione.
Considerato che, in disparte ogni considerazioni circa la fondatezza delle censure indicati ai numeri 1) e 2), si appalesa senz’altro fondato il motivo sub 4) atteso che, per giurisprudenza pressoché costante anche di questa sezione, le piscine interrate non possono alterare i valori paesaggistici, perché non suscettibili di verticalizzazione con pregiudizio di visuali e visioni prospettiche (cfr. TAR Campania Napoli, Sez. VII, 20.03.2009, n. 1552; Sez. VII, 29.06.2010, n. 16423; sez. VI, 06.11.2008; n. 19288).
Considerato altresì, in ordine alla compromissione delle essenze arboree tipiche della macchia mediterranea (motivo sub 3), che secondo quanto sufficientemente dimostrato in giudizio dalla parte ricorrente (anche mediante produzione di materiale fotografico nonché di apposita relazione tecnica) l’eventuale realizzazione della struttura in questione non comporterebbe la compromissione dei suddetti valori ambientali, senza che sul punto la difesa dell’amministrazione statale abbia opposto specifiche contestazioni, con ogni conseguenza in merito all’applicazione dell’art. 64, comma 2, c.p.a.
Ritenuto in conclusione che il ricorso, assorbita ogni altra censura, è fondato e deve essere accolto, con ogni conseguenza in ordine all’annullamento degli atti in epigrafe indicati e in relazione al regime delle spese, le quali vanno poste a carico della sola amministrazione dei beni culturali, data l’efficienza causale della propria posizione in relazione al resto dei provvedimenti gravati (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 25.02.2013 n. 1099 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAEliminato il duplice riferimento terminologico, il legislatore del 2001 ha optato per l’onnicomprensivo termine di “certificato di agibilità” attestante l’idoneità abitativa di qualsiasi edificio.
Secondo la nuova formulazione, l’ambito di operatività del certificato di agibilità risulta più esteso rispetto al passato, essendo richiesto non solo per i nuovi organismi edilizi, ma anche per gli interventi eseguiti sugli stessi che possiedano l’attitudine a modificare le condizioni igieniche e sanitarie preesistenti.
Ai fini dell’accertamento dell’agibilità di un edificio ciò che rileva non è tanto la qualificazione giuridica dell’intervento (ristrutturazione, restauro o risanamento conservativo, oppure manutenzione straordinaria o realizzazione di sole opere interne), quanto piuttosto la qualità e l’entità dell’intervento, nonché i suoi riflessi sulla condizione di salubrità della costruzione o di sue parti.
Il certificato di agibilità è dunque necessario per tutti gli organismi edilizi destinati a un utilizzo che comporti la permanenza dell'uomo che può risolversi sia nel soggiorno prolungato, com'è per le abitazioni, sia nella semplice frequentazione, com’è per l'immobile destinato a un'attività produttiva, che deve comunque essere di durata tale da richiedere la presenza di condizioni minime di igiene e salubrità.
In base a quanto previsto dagli artt. 24 e 25 del D.P.R. n. 380 del 2001, il certificato di abitabilità delle costruzioni costituisce un'attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente.
Ne deriva la legittimità, in via generale, dello svolgimento da parte degli organi comunali competenti di ogni indagine utile al fine di effettuare una consapevole valutazione sulla sussistenza delle surriferite condizioni, soprattutto quando in un edificio siano state realizzate modifiche strutturali, che implicano anche un cambiamento dell'uso degli spazi.
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Tenuto conto che la disciplina suesposta (DPR 380/2001) ) presenta una ipotesi di silenzio-assenso nell’ipotesi di istanza di agibilità presentata agli Uffici competenti e rispetto alla quale gli stessi non hanno adottato alcun provvedimento espresso, occorre pur tuttavia verificare se l’ordinamento ha previsto casi in cui vi siano criticità riferibili alla acquisibilità implicita –per effetto del silenzio– della dichiarazione di agibilità.
Sul punto vale la pena rammentare che:
a) in caso di istanza di condono edilizio, il rilascio del c.d. certificato di agibilità può avvenire in deroga soltanto alle norme di tipo secondario e/o regolamentare, ma non anche in deroga alle disposizioni normative di fonte primaria e/o di legge, soprattutto se attinenti alla materia dell'igiene pubblica e dell'inquinamento del suolo, in quanto diversamente, in caso di adesione ad una possibile interpretazione di tipo estensivo delle norme in materia di condono edilizio, l'art. 35, comma 14, della legge 28.02.1985 n. 47 (come le altre norme analoghe ad essa succedute nel tempo in materia di condoni edilizi) sarebbe palesemente incostituzionale per contrasto con il fondamentale principio della tutela della salute ex art. 32 Cost., inteso non solo come diritto alla salute del singolo individuo, ma anche come diritto dell'intera collettività alla salubrità dell'ambiente;
b) il suesposto orientamento si pone perfettamente in linea con quello espresso dalla Corte Costituzionale la quale ha avuto modo di precisare, per un verso, che il certificato di abitabilità non deve necessariamente autorizzare in maniera uniforme tutto l'edificio o parte di esso, dovendo essere distinti gli usi abitativi o di semplice agibilità, quando alcuni locali siano utilizzabili solo come accessori o come locali non destinabili a usi abitativi stabili o come depositi o con altri usi non abitativi, quando non siano strutturalmente idonei sotto il profilo igienico-sanitario per una abitabilità piena, ancorché oggetto di concessione edilizia in sanatoria nonché, per altro verso, la circostanza che le norme sul condono edilizio prevedano, a seguito della concessione in sanatoria, il rilascio del certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, purché non sussista contrasto con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni, "non riguarda i requisiti richiesti da disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità (...) a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all'art. 221 T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui all'art. 4 del D.P.R. n. 425 del 1994), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica (...) Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari";
c) se è dunque vero che, in base a quanto previsto dagli art. 24 e 25, del n. 380 del 2001, il certificato di agibilità delle costruzioni costituisce un'attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente, appare altrettanto legittimo che una valutazione sulla sussistenza di dette condizioni, sia richiesta a fronte di modifiche strutturali che implicano anche un cambiamento dell'uso degli spazi e che dunque il Comune non perda, neppure per l’ipotesi di rilascio implicito del certificato ovvero per effetto di condono, il potere-dovere di verificare la sussistenza effettiva di dette condizioni di salubrità e di intervenire laddove siano riscontrate carenze.

Va sottolineato preliminarmente che il provvedimento qui impugnato si sostanzia in un ordine di sgombero di taluni appartamenti del fabbricato sito in Roma, Via Gradoli n. ... e tutti collocati ai piani scantinati S1 e S2 del palazzo, perché, all’esito di numerosi sopralluoghi, se ne è manifestata la inabitabilità sia per carenza del requisito relativo alle superfici minime che di quelli igienico-sanitari, concretandosi quindi un pericolo per la salute pubblica il permanente loro utilizzo a fini abitativi.
Al di là dei profili in fatto che caratterizzano la presente controversia, sotto il profilo giuridico va evidenziato che:
   A) l’art. 4 del D.P.R. 22.04.1994 n. 425 ebbe a prevedere che per utilizzare un edificio fosse necessario ottenere il certificato di agibilità il cui rilascio da parte del sindaco era condizionato alla presentazione di una serie di documenti idonei ad attestare la sussistenza di determinati standards minimi di salubrità. Nel contempo l’art. 5 di detto testo normativo abrogava l’art. 221, primo comma, del regio decreto 27.07.1934 n. 1265 relativamente alla disciplina del procedimento per il rilascio del certificato.
L’intervento normativo in esame ha modificato in termini sostanziali l’istituto dell’agibilità, mutando la denominazione dell’atto da “autorizzazione” amministrativa a “certificato”, semplificando il procedimento di rilascio, e, soprattutto, estendendo l’ambito di valutazione ad interessi diversi e ulteriori rispetto a quelli connaturati alla tutela di carattere meramente sanitario; in altri termini, al concetto di agibilità si è andato sostituendo quello di “vivibilità” della costruzione, che inerisce ad una condizione dell’abitare complessivamente rispettosa della dignità dell’individuo;
   B) successivamente gli articoli da 24 a 26 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380 hanno fissato la disciplina attualmente vigente. Anzitutto –per come è ricordato nella relazione illustrativa che ha accompagnato il predetto decreto presidenziale– il legislatore ha provveduto a ricondurre ad unità i termini di agibilità e abitabilità spesso utilizzati indifferentemente nella normativa precedente. Inizialmente nel linguaggio normativo il termine “licenza di abitabilità” era stato utilizzato in relazione agli immobili ad uso abitativo, mentre il termine “licenza di agibilità” relativamente a quelli non residenziali, quali opifici, uffici, esercizi pubblici e commerciali. In un secondo tempo, il legislatore aveva operato una diversa classificazione, riconducendo all’agibilità la disciplina generale della stabilità e della sicurezza dell’immobile e all’abitabilità la disciplina speciale dei requisiti dell’immobile rispetto a specifiche destinazioni d’uso.
In effetti, alcune disposizioni normative e, soprattutto, una certa prassi giurisprudenziale, avevano indotto a pensare che all’interno del nostro ordinamento esistessero due diversi tipi di certificazioni. In realtà, le due espressioni, se pur diversamente utilizzate, erano di fatto omogenee e non richiedevano procedimenti amministrativi diversi. Dimostrativo ne è il fatto che il corredo documentale dell’istanza, come pure le indagini tecniche preliminari al rilascio del certificato, non cambiavano a seconda del tipo di unità immobiliare da certificare, fatta salva, ovviamente, l’esigenza di valutare la presenza di requisiti igienico-sanitari diversi in ragione dell’uso previsto.
Eliminato il duplice riferimento terminologico, il legislatore del 2001 ha optato per l’onnicomprensivo termine di “certificato di agibilità” attestante l’idoneità abitativa di qualsiasi edificio. Secondo la nuova formulazione, l’ambito di operatività del certificato di agibilità risulta più esteso rispetto al passato, essendo richiesto non solo per i nuovi organismi edilizi, ma anche per gli interventi eseguiti sugli stessi che possiedano l’attitudine a modificare le condizioni igieniche e sanitarie preesistenti. Ai fini dell’accertamento dell’agibilità di un edificio ciò che rileva non è tanto la qualificazione giuridica dell’intervento (ristrutturazione, restauro o risanamento conservativo, oppure manutenzione straordinaria o realizzazione di sole opere interne), quanto piuttosto la qualità e l’entità dell’intervento, nonché i suoi riflessi sulla condizione di salubrità della costruzione o di sue parti.
Il certificato di agibilità è dunque necessario per tutti gli organismi edilizi destinati a un utilizzo che comporti la permanenza dell'uomo che può risolversi sia nel soggiorno prolungato, com'è per le abitazioni, sia nella semplice frequentazione, com’è per l'immobile destinato a un'attività produttiva, che deve comunque essere di durata tale da richiedere la presenza di condizioni minime di igiene e salubrità;
   C) in base a quanto previsto dagli artt. 24 e 25 del D.P.R. n. 380 del 2001, il certificato di abitabilità delle costruzioni costituisce un'attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente.
Ne deriva la legittimità, in via generale, dello svolgimento da parte degli organi comunali competenti di ogni indagine utile al fine di effettuare una consapevole valutazione sulla sussistenza delle surriferite condizioni, soprattutto quando in un edificio (per come è avvenuto nel caso in esame) siano state realizzate modifiche strutturali (cfr., in argomento, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 16.03.2011 n. 740), che implicano anche un cambiamento dell'uso degli spazi (si veda sul punto la relazione prodotta in data 26.10.2010 con allegazione di documenti dall’amministrazione del Condominio dello stabile in questione);
   D) l'art. 25, commi 3-5, del D.P.R. n. 380 del 2001 prevede un procedimento di rilascio del certificato di agibilità, articolato sui seguenti principi fondamentali:
1) il procedimento deve essere concluso nel termine di 30 giorni dalla ricezione della domanda di rilascio del certificato di agibilità o di 60 giorni, nel caso in cui il ricorrente si sia avvalso della possibilità di sostituire con autocertificazione il parere dell'A.S.L. previsto dall'art. 5, 3° comma, lett. a), del D.P.R. n. 380 del 2001;
2) il decorso del termine per la definizione del procedimento, importa la formazione del silenzio-assenso sull'istanza di rilascio del certificato di agibilità;
3) il termine del procedimento può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro quindici giorni dalla domanda, esclusivamente per la richiesta di documentazione integrativa, che non sia già nella disponibilità dell'amministrazione o che non possa essere acquisita autonomamente; in tal caso, il termine per la conclusione del procedimento ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa;
4) il rilascio del certificato di agibilità non impedisce l'esercizio del potere di dichiarazione di inagibilità di un edificio o di parte di esso ai sensi dell'articolo 222 del regio decreto 27.07.1934, n. 1265 (art. 26 D.P.R. n. 380 del 2001).
Fermo quanto sopra e tenuto conto che la disciplina suesposta presenta una ipotesi di silenzio-assenso nell’ipotesi di istanza di agibilità presentata agli Uffici competenti e rispetto alla quale gli stessi non hanno adottato alcun provvedimento espresso, occorre pur tuttavia verificare se l’ordinamento ha previsto casi in cui vi siano criticità riferibili alla acquisibilità implicita –per effetto del silenzio– della dichiarazione di agibilità.
Sul punto vale la pena rammentare che:
   a) in caso di istanza di condono edilizio, il rilascio del c.d. certificato di agibilità può avvenire in deroga soltanto alle norme di tipo secondario e/o regolamentare, ma non anche in deroga alle disposizioni normative di fonte primaria e/o di legge, soprattutto se attinenti alla materia dell'igiene pubblica e dell'inquinamento del suolo, in quanto diversamente, in caso di adesione ad una possibile interpretazione di tipo estensivo delle norme in materia di condono edilizio, l'art. 35, comma 14, della legge 28.02.1985 n. 47 (come le altre norme analoghe ad essa succedute nel tempo in materia di condoni edilizi) sarebbe palesemente incostituzionale per contrasto con il fondamentale principio della tutela della salute ex art. 32 Cost., inteso non solo come diritto alla salute del singolo individuo, ma anche come diritto dell'intera collettività alla salubrità dell'ambiente (sul punto cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15.04.2004 n. 2140 e 13.04.1999 n. 414 nonché TAR Sardegna 29.10.2002 n. 1422);
   b) il suesposto orientamento si pone perfettamente in linea con quello espresso dalla Corte Costituzionale la quale, con sentenza n. 256 del 18.06.1996, ha avuto modo di precisare, per un verso, che il certificato di abitabilità non deve necessariamente autorizzare in maniera uniforme tutto l'edificio o parte di esso, dovendo essere distinti gli usi abitativi o di semplice agibilità, quando alcuni locali siano utilizzabili solo come accessori o come locali non destinabili a usi abitativi stabili o come depositi o con altri usi non abitativi, quando non siano strutturalmente idonei sotto il profilo igienico-sanitario per una abitabilità piena, ancorché oggetto di concessione edilizia in sanatoria nonché, per altro verso, la circostanza che le norme sul condono edilizio prevedano, a seguito della concessione in sanatoria, il rilascio del certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, purché non sussista contrasto con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica e di prevenzione degli incendi e degli infortuni, "non riguarda i requisiti richiesti da disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità (...) a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all'art. 221 T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui all'art. 4 del D.P.R. n. 425 del 1994), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica (...) Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l'abitabilità degli edifici, con l'unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari" (così, testualmente, la sentenza della Corte costituzionale n. 256 del 1996 citata);
   c) se è dunque vero che, in base a quanto previsto dagli art. 24 e 25, del n. 380 del 2001, il certificato di agibilità delle costruzioni costituisce un'attestazione da parte dei competenti uffici tecnici comunali in ordine alla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico degli edifici e degli impianti tecnologici in essi installati, alla stregua della normativa vigente, appare altrettanto legittimo che una valutazione sulla sussistenza di dette condizioni, sia richiesta a fronte di modifiche strutturali che implicano anche un cambiamento dell'uso degli spazi e che dunque il Comune non perda, neppure per l’ipotesi di rilascio implicito del certificato ovvero per effetto di condono, il potere-dovere di verificare la sussistenza effettiva di dette condizioni di salubrità e di intervenire laddove siano riscontrate carenze (cfr. sul punto TAR Veneto, Sez. III, 02.01.2009 n. 6 nonché TAR Basilicata, Sez. I, 29.11.2008 n. 916).
Nel caso di specie il Comune, con l’ordinanza qui principalmente impugnata, ha evidenziato, all’esito di alcuni sopralluoghi, importanti deficienze igienico-sanitarie negli appartamenti per i quali è qui controversia, confermate dalle verificazioni disposte da questo Tribunale e gli esiti delle consulenza di parte affidate da alcuni degli odierni ricorrenti a tecnici di fiducia non si manifestano idonei a superare le conclusioni confermative alle quali sono pervenute le indagini di verificazione disposte con profili di evidente sintonia rispetto alle valutazioni operate dagli uffici comunali nel corso dell’istruttoria che ha condotto all’adozione della qui avversata ordinanza sindacale di sgombero.
I verificatori hanno infatti significativamente affermato che tutti i locali esaminati presentano superfici finestrate inidonee ed aree calpestabili inferiori ai 28 metri quadrati, valore minimo per un monolocale. Alcuni immobili presentano evidenti inconvenienti igienico-sanitari che li rendono inidonei all’uso abitativo.
In altri termini, seppure con alcune peculiarità e caratteristiche diverse per taluni dei monolocali, l’esito delle disposte verificazioni costituisce conferma della inadeguatezza, sotto il profilo igienico-sanitario, dei locali in questione ad essere abitati, rafforzando i risultati dell’istruttoria svolta in vista della adozione dell’ordinanza sindacale di sgombero.
L’indagine, va precisato, è stata svolta accuratamente dall’Azienda USL RM/C, che in contraddittorio con le parti coinvolte ha concluso i propri rilievi affermando con nettezza e senza escludere alcun immobile da siffatto esito che “si esprime parere igienico-sanitario contrario all’uso di tali locali come abitazioni” (così, testualmente, nella relazione depositata l’08.10.2009).
Ciò posto, in via di fatto, le censure dedotte dal ricorrente con l’atto introduttivo e con quello recante motivi aggiunti non si presentano idonee a scalfire la dimostrazione, acquisita nel corso del processo, del corretto percorso seguito dagli uffici comunali per giungere all’adozione dell’ordinanza di sgombero, avvalorato dagli esiti delle disposte verificazioni; ne deriva la reiezione del ricorso, tenuto conto che per la natura di provvedimento d’urgenza propria dell’atto impugnato non vi era ragione per comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241 e che la contestata nullità della notifica appare superata dalla intervenuta impugnazione tempestiva dell’atto pregiudizievole, che ha consentito al proprietario di poter tutelare tempestivamente ed adeguatamente le proprie ragioni dinanzi all’Autorità giudiziaria (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 10.01.2012 n. 181 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sanzione di cui all’art. 167 del codice dei beni culturali, avente carattere alternativo rispetto alle misure di tipo ripristinatorio, rientra nella potestà amministrativa demandata all’Amministrazione a tutela indiretta di interessi pubblici, con la conseguenza che la controversia rivolta a contestare la validità e l’efficacia del provvedimento applicativo di detta sanzione rientra nella cognizione del giudice amministrativo, in quanto si ricollega a posizioni di interesse legittimo.
Deve essere preliminarmente disattesa l’eccezione di difetto di giurisdizione dell’adito giudice amministrativo sull’impugnativa delle ordinanze di ingiunzione di pagamento dell’indennità pecuniaria di cui all’art. 167 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42, svolta dall’Amministrazione regionale nel presupposto che l’indennità in questione ha natura sanzionatoria (alternativa alla demolizione delle opere abusive), con conseguente cognizione del giudice ordinario ai sensi degli artt. 22 e seguenti della legge n. 689 del 1981.
Ed invero, anche a prescindere dalla, invero dubbia, riconducibilità della sanzione impugnata alla materia dell’urbanistica (pur intesa in senso lato, concernente tutti gli aspetti dell’uso del territorio: così Cass., Sez. Un., 12.03.2008, n. 6525), con conseguente giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi, in precedenza, dell’art. 34 del d.lgs. 31.03.1998, n. 80, ed, attualmente, dell’art. 133, comma 1, lett. f, del cod. proc. amm. (di cui al d.lgs. 02.07.2010, n. 104), la giurisdizione amministrativa va postulata nella considerazione che la sanzione pecuniaria è espressione del potere autoritativo dell’Amministrazione.
Più precisamente, la sanzione di cui all’art. 167 del codice dei beni culturali, avente carattere alternativo rispetto alle misure di tipo ripristinatorio, rientra nella potestà amministrativa demandata all’Amministrazione a tutela indiretta di interessi pubblici, con la conseguenza che la controversia rivolta a contestare la validità e l’efficacia del provvedimento applicativo di detta sanzione rientra nella cognizione del giudice amministrativo, in quanto si ricollega a posizioni di interesse legittimo (così Cons. Stato, Sez. IV, 11.04.2007, n. 1585)
(TAR Umbria, sentenza 31.03.2011 n. 97 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di paesaggio è configurabile la potestà legislativa esclusiva dello Stato, desumibile dall’art. 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, in quanto il paesaggio, pur non espressamente nominato dalla norma, deve intendersi ricompreso nella locuzione “beni culturali”, in quanto componente del patrimonio culturale, secondo la chiara formulazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Tuttavia, la tutela del paesaggio è inevitabilmente collegata con i profili attinenti al “governo del territorio” ed alla necessità di una sua “valorizzazione”, materie, queste, entrambe rientranti nella legislazione concorrente, secondo quanto sancito dall’art. 117, comma 3, della Costituzione; il che implica la necessità del coinvolgimento di più livelli di governo.
Anche per questi motivi la giurisprudenza costituzionale ha, in più occasioni, evidenziato che il paesaggio costituisce, più che una materia, un valore costituzionale “trasversale”, con implicazione in più materie, ed intrecciato inestricabilmente con altri interessi e competenze regionali concorrenti.
La difficoltà di enucleare la “tutela del paesaggio” come una sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata ha, da sempre, posto in luce la necessità dell’osservanza del principio di leale cooperazione tra Stato e Regione in tale ambito.
A conferma di quanto osservato, va sottolineato come lo stesso art. 118 della Costituzione, al terzo comma, stabilisce che la legge statale disciplina forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali, esprimendo un chiaro favor costituzionale per la collaborazione tra Stato e Regioni nell’amministrazione dei beni culturali e del paesaggio.
Il codice dei beni culturali ha dato attuazione all’art. 118, comma 3, della Costituzione, configurando varie forme di collaborazione in senso lato; più precisamente, può dirsi che il codice ha ampliato, sotto più profili, la potestà legislativa ed amministrativa delle Regioni a statuto ordinario.
Il riferimento è anzitutto all’art. 4 del d.lgs. n. 42 del 2004, che, nell’attribuire allo Stato (e, per esso, al Mi.B.A.C.) le funzioni in materia di tutela del patrimonio culturale, aggiunge che lo stesso le esercita direttamente o ne può conferire l’esercizio alle Regioni tramite forme di intesa e coordinamento, ed al successivo art. 5, che, al primo comma, sancisce la regola della cooperazione delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali in materia di tutela del patrimonio culturale, mentre al sesto comma, ancora più esplicitamente, afferma che «le funzioni amministrative di tutela dei beni paesaggistici sono esercitate dallo Stato e dalle regioni secondo le disposizioni di cui alla Parte terza del presente codice, in modo che sia sempre assicurato un livello di governo unitario ed adeguato alle diverse finalità perseguite».
Passando poi alla Parte terza del codice, che concerne specificamente i beni paesaggistici, la collaborazione tra Stato e Regioni, oltre che negli artt. 131 e 133, per quanto attiene allo specifico ambito oggettivo della presente controversia, è apertis verbis enunciata dall’art. 146, comma 6, in tema di autorizzazione paesaggistica, il quale dispone che «la regione esercita la funzione autorizzatoria in materia di paesaggio avvalendosi di propri uffici dotati di adeguate competenze tecnico scientifiche e idonee risorse strumentali. Può tuttavia delegarne l’esercizio, per i rispettivi territori, a province, a forme associative e di cooperazione fra enti locali come definite dalle vigenti disposizioni sull’ordinamento degli enti locali, ovvero a comuni, purché gli enti destinatari della delega dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia».
L’art. 146, comma 6, attribuisce dunque alla Regione la funzione autorizzatoria, consentendo alla stessa anche di delegarne l’esercizio agli enti locali, ed in specie ai Comuni, pur garantendo una forte condivisione delle scelte da parte dell’Amministrazione statale, cui compete, in sede procedimentale, mediante il competente Soprintendente, esprimere un parere obbligatorio, ad oggi anche vincolante, espressivo proprio del potere di cogestione del vincolo, ed esteso anche al merito.

La tematica implicata dal presente ricorso, pur nella sua complessità, può essere, ad avviso del Collegio, ricostruita nei termini che seguono.
In materia di paesaggio è configurabile effettivamente la potestà legislativa esclusiva dello Stato, desumibile dall’art. 117, comma 2, lett. s), della Costituzione, in quanto il paesaggio, pur non espressamente nominato dalla norma, deve intendersi ricompreso nella locuzione “beni culturali”, in quanto componente del patrimonio culturale, secondo la chiara formulazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 42 del 2004.
Da ciò non possono però trarsi le conseguenze giuridiche prospettate da parte ricorrente almeno per un doppio ordine di considerazioni.
La prima consiste nel fatto che la tutela del paesaggio è inevitabilmente collegata con i profili attinenti al “governo del territorio” ed alla necessità di una sua “valorizzazione”, materie, queste, entrambe rientranti nella legislazione concorrente, secondo quanto sancito dall’art. 117, comma 3, della Costituzione; il che implica la necessità del coinvolgimento di più livelli di governo.
Anche per questi motivi la giurisprudenza costituzionale ha, in più occasioni, evidenziato che il paesaggio costituisce, più che una materia, un valore costituzionale “trasversale”, con implicazione in più materie, ed intrecciato inestricabilmente con altri interessi e competenze regionali concorrenti (in termini Corte cost., 26.07.2002, n. 407; 22.07.2004, n. 259).
La difficoltà di enucleare la “tutela del paesaggio” come una sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata ha, da sempre, posto in luce la necessità dell’osservanza del principio di leale cooperazione tra Stato e Regione in tale ambito (Corte cost, 27.06.1986, n. 151; 18.10.1996, n. 341; 08.05.1998, n. 157; 25.10.2000, n. 437).
A conferma di quanto osservato, e passando così al secondo ordine di considerazioni, va sottolineato come lo stesso art. 118 della Costituzione, al terzo comma, stabilisce che la legge statale disciplina forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali, esprimendo un chiaro favor costituzionale per la collaborazione tra Stato e Regioni nell’amministrazione dei beni culturali e del paesaggio.
Il codice dei beni culturali ha dato attuazione all’art. 118, comma 3, della Costituzione, configurando varie forme di collaborazione in senso lato; più precisamente, può dirsi che il codice ha ampliato, sotto più profili, la potestà legislativa ed amministrativa delle Regioni a statuto ordinario.
Il riferimento è anzitutto all’art. 4 del d.lgs. n. 42 del 2004, che, nell’attribuire allo Stato (e, per esso, al Mi.B.A.C.) le funzioni in materia di tutela del patrimonio culturale, aggiunge che lo stesso le esercita direttamente o ne può conferire l’esercizio alle Regioni tramite forme di intesa e coordinamento, ed al successivo art. 5, che, al primo comma, sancisce la regola della cooperazione delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali in materia di tutela del patrimonio culturale, mentre al sesto comma, ancora più esplicitamente, afferma che «le funzioni amministrative di tutela dei beni paesaggistici sono esercitate dallo Stato e dalle regioni secondo le disposizioni di cui alla Parte terza del presente codice, in modo che sia sempre assicurato un livello di governo unitario ed adeguato alle diverse finalità perseguite».
Passando poi alla Parte terza del codice, che concerne specificamente i beni paesaggistici, la collaborazione tra Stato e Regioni, oltre che negli artt. 131 e 133, per quanto attiene allo specifico ambito oggettivo della presente controversia, è apertis verbis enunciata dall’art. 146, comma 6, in tema di autorizzazione paesaggistica, il quale dispone che «la regione esercita la funzione autorizzatoria in materia di paesaggio avvalendosi di propri uffici dotati di adeguate competenze tecnico scientifiche e idonee risorse strumentali. Può tuttavia delegarne l’esercizio, per i rispettivi territori, a province, a forme associative e di cooperazione fra enti locali come definite dalle vigenti disposizioni sull’ordinamento degli enti locali, ovvero a comuni, purché gli enti destinatari della delega dispongano di strutture in grado di assicurare un adeguato livello di competenze tecnico-scientifiche nonché di garantire la differenziazione tra attività di tutela paesaggistica ed esercizio di funzioni amministrative in materia urbanistico-edilizia».
L’art. 146, comma 6, attribuisce dunque alla Regione la funzione autorizzatoria, consentendo alla stessa anche di delegarne l’esercizio agli enti locali, ed in specie ai Comuni, pur garantendo una forte condivisione delle scelte da parte dell’Amministrazione statale, cui compete, in sede procedimentale, mediante il competente Soprintendente, esprimere un parere obbligatorio, ad oggi anche vincolante, espressivo proprio del potere di cogestione del vincolo, ed esteso anche al merito.
Anche nella disciplina transitoria, di cui all’art. 159 del codice, era configurabile il potere di cogestione, in quanto l’autorizzazione rilasciata dalla Regione o dall’Amministrazione subdelegata andava subito comunicata alla Soprintendenza, che poteva esercitare, entro sessanta giorni, il potere di annullamento per vizi di (sola) legittimità.
Ne discende un contesto ordinamentale in cui la legge ordinaria (quale è il codice dei beni culturali), in continuità con il passato (quanto meno a fare tempo dall’art. 82 del d.P.R. n. 616 del 1977) ha attribuito alle Regioni la funzione autorizzatoria in materia di uso del bene paesaggistico (che è “bene ad uso controllato”), con facoltà di delega anche ai Comuni, enucleando un sistema che, alla luce di quanto si è cercato prima di evidenziare, non risulta in contrasto con le norme costituzionali.
Tale sistema è stato recepito, in Umbria, da ultimo, senza difformità dal paradigma della legge statale, dalla l.r. n. 11 del 2005, di cui in questa sede si censura, in particolare, l’art. 37, che conferisce le funzioni ai Comuni.
La sostanziale “tenuta” del sistema legittima, per quanto ora rileva, il Comune di Assisi ad adottare le sanzioni pecuniarie previste dall’art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, inflitte con i provvedimenti oggetto del presente gravame.
Occorre aggiungere che il ricorrente contesta in via di principio, e cioè in astratto, la delega all’Amministrazione comunale, senza dedurre profili di inadeguatezza in concreto in tale affidamento delle funzioni di gestione dei vincoli paesaggistici, aspetto che, ove effettivamente configurabile, avrebbe imposto una diversa attenzione, alla luce dei principi (sanciti dall’art. 118 della Costituzione) che informano l’esercizio delle funzioni amministrative, e cioè la sussidiarietà (nella declinazione verticale), la differenziazione e l’adeguatezza
(TAR Umbria, sentenza 31.03.2011 n. 97 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa domanda di risarcimento del danno non sostenuta dalle allegazioni necessarie all'accertamento della responsabilità dell'Amministrazione va per ciò stesso disattesa. Grava, infatti, sul danneggiato l'onere di provare, ai sensi dell'art. 2697 c.c., tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno per fatto illecito, danno, nesso causale e colpa.
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In sede di giudizio avente ad oggetto la richiesta di condanna dell'Amministrazione al risarcimento dei danni il privato danneggiato, ancorché onerato, in particolare, della dimostrazione della colpa dell'Amministrazione, può offrire al giudice anche elementi solo indiziari, quali la gravità della violazione, il carattere vincolato dell'azione amministrativa, l'univocità della normativa di riferimento e il proprio apporto partecipativo al procedimento.
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Nel rispetto del principio generale sancito dall'art. 2697 c.c., secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda, ai fini del risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo il ricorrente deve inoltre fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, non potendosi invocare in proposito il c.d. principio acquisitivo, perché tale principio attiene allo svolgimento dell'istruttoria e non all'allegazione dei fatti.
L'importanza dell'assolvimento dell'onere allegatorio è fondamentale, perché, se è vero che il diritto entra nel processo attraverso le prove, queste ultime devono però avere ad oggetto fatti circostanziati. Infatti, anche se può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subìto e della sua entità, è comunque ineludibile l'obbligo, a monte, di allegare circostanze di fatto precise.
E quando il soggetto onerato della allegazione e prova dei fatti non vi abbia adempiuto non può neppure darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma presuppone l'impossibilità di provare l'ammontare preciso del pregiudizio subìto.

L’insegnamento giurisprudenziale in materia è per contro chiaro sul principio che la domanda di risarcimento del danno non sostenuta dalle allegazioni necessarie all'accertamento della responsabilità dell'Amministrazione vada per ciò stesso disattesa. Grava, infatti, sul danneggiato l'onere di provare, ai sensi dell'art. 2697 c.c., tutti gli elementi costitutivi della domanda di risarcimento del danno per fatto illecito, danno, nesso causale e colpa (C.d.S., V, 25.01.2002, n. 416).
È quindi inammissibile e comunque infondata la domanda risarcitoria formulata -come la presente- in maniera del tutto generica, senza alcuna allegazione dei fatti costitutivi (C.d.S., V, 06.04.2009, n. 2143, e 13.06.2008, n. 2967).
In sede di giudizio avente ad oggetto la richiesta di condanna dell'Amministrazione al risarcimento dei danni il privato danneggiato, ancorché onerato, in particolare, della dimostrazione della colpa dell'Amministrazione, può offrire al giudice anche elementi solo indiziari, quali la gravità della violazione, il carattere vincolato dell'azione amministrativa, l'univocità della normativa di riferimento e il proprio apporto partecipativo al procedimento (C.d.S., IV, 18.07.2008, n. 3615). Ma nemmeno sotto questo profilo gli oneri incombenti sulla parte attrice sono stati a suo tempo adempiuti.
Nel rispetto del principio generale sancito dall'art. 2697 c.c., secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda, ai fini del risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo il ricorrente deve inoltre fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, non potendosi invocare in proposito il c.d. principio acquisitivo, perché tale principio attiene allo svolgimento dell'istruttoria e non all'allegazione dei fatti. L'importanza dell'assolvimento dell'onere allegatorio è fondamentale, perché, se è vero che il diritto entra nel processo attraverso le prove, queste ultime devono però avere ad oggetto fatti circostanziati. Infatti, anche se può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subìto e della sua entità, è comunque ineludibile l'obbligo, a monte, di allegare circostanze di fatto precise (Sez. V, 13.06.2008, n. 2967). E quando il soggetto onerato della allegazione e prova dei fatti non vi abbia adempiuto non può neppure darsi ingresso alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma presuppone l'impossibilità di provare l'ammontare preciso del pregiudizio subìto (Sez. V, 13.06.2008, n. 2967; 16.02.2009, n. 842, e 06.04.2009, n. 2143) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 04.03.2011 n. 1408 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordinamento giuridico affida la tutela del paesaggio ai poteri di due livelli istituzionali -lo Stato e la Regione (o Ente da questa delegato)- per cui entrambi sono titolari di una funzione di amministrazione attiva nell'ambito di un procedimento unitario a struttura complessa.
In particolare è stato evidenziato che l'annullamento dell'autorizzazione costituisce non già la manifestazione di un potere di controllo, bensì l'espressione di un'attività di cogestione dell'interesse pubblico paesaggistico, posta ad estrema difesa di un vincolo intimamente connesso ad un valore costituzionale primario.
La giurisprudenza amministrativa altresì ritiene che il potere esercitato in materia di autorizzazione in sanatoria possa essere parimenti definito in termini di "cogestione dei valori paesistici", poiché contempla l'intervento di entrambi i soggetti pubblici, investiti di una concorrente competenza orientata alla salvaguardia del bene ambiente.

È noto che l'ordinamento giuridico affida la tutela del paesaggio ai poteri di due livelli istituzionali -lo Stato e la Regione (o Ente da questa delegato)- per cui entrambi sono titolari di una funzione di amministrazione attiva nell'ambito di un procedimento unitario a struttura complessa.
In particolare è stato evidenziato che l'annullamento dell'autorizzazione costituisce non già la manifestazione di un potere di controllo, bensì l'espressione di un'attività di cogestione dell'interesse pubblico paesaggistico, posta ad estrema difesa di un vincolo intimamente connesso ad un valore costituzionale primario (sentenze Sezione 12/03/2009 n. 623; 28/05/2004 n. 599; Consiglio di Stato, sez. VI - 20/01/2003 n. 204).
La giurisprudenza amministrativa altresì ritiene che il potere esercitato in materia di autorizzazione in sanatoria possa essere parimenti definito in termini di "cogestione dei valori paesistici", poiché contempla l'intervento di entrambi i soggetti pubblici, investiti di una concorrente competenza orientata alla salvaguardia del bene ambiente.
In particolare, deve essere sottolineato che il D.Lgs. 42/2004 (cd. Codice Urbani) ha totalmente ridisegnato, all'art. 146, il procedimento per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, eliminando, nel sistema a regime, il potere della Soprintendenza di annullare l'autorizzazione paesaggistica già emessa dal Comune e prevedendo l'intervento della medesima Soprintendenza in sede endoprocedimentale, con facoltà di formulare un parere che risulta espressione di un potere decisorio complesso facente capo a due apparati distinti: si anticipa quindi -già in sede procedimentale- l'apporto partecipativo dell'autorità statale (Consiglio di Stato, sez. VI - 25/02/2008 n. 653).
La citata norma inoltre prevede che non possano più essere rilasciate autorizzazione paesaggistiche "in sanatoria", ossia successive alla realizzazione, anche parziale, degli interventi. A temperamento di tale previsione, il D.Lgs. 157/2006 ha inserito, all'art. 167, la possibilità di sanare ex post gli interventi abusivi, nel caso di lavori realizzati in assenza o difformità dall'autorizzazione paesaggistica che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati.
Orbene, nel caso di specie, come già emerso in sede di decisione cautelare e nel successivo provvedimento comunale di sanatoria, deve osservarsi come l’intervento in questione -risolvendosi nella mera apposizione di serrande a chiusura di spazi condominali già adibiti a garage con esclusione di interventi in muratura che danno luogo a nuovi organismi edilizi- non abbia inciso sui volumi e sulla superficie utile, né abbia modificato la destinazione del manufatto, trattandosi di semplice trasformazione di garage collettivi in box (intervento che, operato senza alterazione di volumi, superfici e caratteristiche strutturali e di uso dell'edificio configura un'ipotesi di ristrutturazione edilizia significativamente annoverata in passato dalla giurisprudenza amministrativa tra i casi di concessione gratuita ai sensi dell'art. 9, lett. b), l. 28.01.1977 n. 10. Cfr. Consiglio Stato, sez. V, 16.09.1994, n. 997).
Poiché il provvedimento della Sovrintendenza impugnato è motivato esclusivamente con la violazione dell'art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, nel presupposto dell’assoluta insanabilità ai fini paesaggistici ex post di qualunque manufatto, lo stesso provvedimento è illegittimo per le considerazioni prima esposte e deve essere quindi annullato, fatte salve le ulteriori determinazioni amministrative da adottare al riguardo (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 11.01.2011 n. 53 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 03.02.2014

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Ma a Roma, nelle stanze del potere centrale, "ci sono" o "ci fanno" ??
A proposito dell'incentivo alla progettazione interna:
RI-BUTTIAMO L'OKKIO NELL'ORTICELLO ALTRUI...

     Con l'AGGIORNAMENTO AL 05.07.2013 avevamo dato risalto al fatto che sulla GURI fosse stato pubblicato il DM dell'Interno circa la disciplina dell'incentivo alla progettazione interna del personale del "Dipartimento dei vigili del fuoco, del soccorso pubblico e della difesa civile" e con il quale si riconosce l'incentivo alla progettazione riguardante anche la manutenzione straordinaria e ordinaria quanto la Corte dei Conti, a più riprese, ha statuito che non spetta in tali casi.
     Ebbene, pochi giorni fa anche il MIBAC ha pubblicato sulla GURI il decreto col quale disciplina l'erogazione dell'incentivo alla progettazione interna di cui al D.Lgs. 163/2006 che è il seguente:

INCENTIVO PROGETTAZIONE: G.U. 30.01.2014 n. 24 "Regolamento recante norme per la ripartizione dell’incentivo di cui all’articolo 92, commi 5 e 6, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163" (Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del turismo, decreto 11.10.2013 n. 161).

e, guarda caso, l'art. 2, comma 3, prevede una disposizione tal quale a quella del Ministero dell'Interno sopra menzionato che, per comodità di lettura, riproponiamo a seguire. "3. Gli incentivi di cui al comma 1 sono riconosciuti soltanto quando i relativi progetti siano stati formalmente approvati e posti a base di gara e riguardino lavori pubblici di competenza dell'Amministrazione quali attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione, restauro e manutenzione straordinaria e ordinaria, comprese le eventuali progettazioni connesse a campagne diagnostiche e le redazioni di perizie di variante e suppletive nei casi previsti dall'articolo 132, comma 1 del codice, ad eccezione della lettera e).".

QUINDI ??

     Ogni commento è superfluo, poiché quello che c'era da dire l'abbiamo già detto nell'occasione dell'AGGIORNAMENTO AL 05.07.2013. Tuttavia, tutto ciò fa letteralmente inkazzare chi scrive (qui) e tutte quelle Amministrazioni Pubbliche per si comportano per bene, giorno dopo giorno con estrema fatica, rispettando la legge ed adeguandosi, nell'operato quotidiano, alle varie statuizioni che provengono dalla giurisprudenza amministrativa, contabile e penale nell'interpretare la norma.
     E l'inkazzatura non è tanto perché il MIBAC ha proposto un testo regolamentare (in parte) non conforme alla legge quanto, piuttosto, perché tale regolamento illegittimo (in parte) ha avuto il visto di registrazione da parte della Corte dei Conti !!!
     Allora, è proprio il caso di dire (e di farsene una ragione) che

in Italia la legge NON è uguale per tutti.

03.02.2014 - LA SEGRETERIA PTPL

IN EVIDENZA

INCENTIVO PROGETTAZIONE: E' stato chiesto al Presidente della Corte dei Conti che la Sezione delle Autonomie intervenga a mettere la parola "fine" sulla controversa questione dell'incentivo in materia di atti di pianificazione.
Ritiene la Sezione di sottoporre alla valutazione del Presidente della Corte dei conti l’opportunità di rimettere alla Sezione delle Autonomie della Corte la seguente questione di massima: “Se l’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006 debba essere interpretato nel senso che il diritto all’incentivo per la redazione di un atto di pianificazione sussiste solo nel caso in cui l’atto di pianificazione è collegato alla realizzazione di opere pubbliche ovvero nel senso che il suddetto diritto sussiste anche nel caso di redazione di atti di pianificazione generale (quali la redazione di un piano urbanistico generale o attuativo ovvero di una variante) ancorché non puntualmente connessi ad un’opera pubblica”.
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Il Sindaco del Comune di Genova ha formulato una richiesta di parere in ordine alla corretta interpretazione dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. 12.04.2006, n. 163, che prevede la corresponsione di incentivi a favore del personale dipendente dell’amministrazione aggiudicatrice che abbia partecipato alla redazione di un atto di pianificazione.
Il Comune chiede, in particolare, se la norma debba essere interpretata nel senso che il diritto all’incentivo per la redazione di un atto di pianificazione sussiste solo nel caso in cui l’atto di pianificazione è collegato alla realizzazione di opere pubbliche ovvero nel senso che il suddetto diritto sussiste anche nel caso di redazione di atti di pianificazione generale (quali la redazione di un piano urbanistico generale o attuativo ovvero di una variante) ancorché non puntualmente connessi ad un’opera pubblica.
Nel formulare la richiesta di parere, il Comune rappresenta che il quesito muove dalla circostanza che in ordine al significato dell’espressione “atto di pianificazione, comunque denominato” sussistono opinioni contrastanti tra le diverse Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti. Secondo alcune Sezioni (Sez. contr. Campania n. 141 del 2013, Sez. contr. Piemonte n. 290 del 2012, Sez. contr. Lombardia n. 452 del 2012, Sez. contr. Puglia n. 1 del 2012, Sez. contr. Toscana n. 213 del 2011), i corrispettivi previsti a favore dei dipendenti per la partecipazione alla redazione di atti di pianificazione devono essere collegati al compimento di opere pubbliche, mentre secondo altre Sezioni (Sezioni riunite per la Regione Siciliana in sede consultiva n. 2 del 2013, Sez. contr. Veneto n. 337 del 2011,) sarebbe ammissibile la corresponsione dell’incentivo correlato all’attività di pianificazione anche senza uno stretto collegamento tra pianificazione e progettazione di opere pubbliche.
In linea con l’indirizzo più restrittivo, l’Ente richiama anche l’orientamento dell’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici (deliberazione 21.11.2012, AG 22/12), secondo cui deve in ogni caso sussistere un nesso, sia pure in via mediata, tra pianificazione urbanistica e realizzazione dei opere pubbliche.
...
Nel merito, occorre richiamare il comma 6 dell’art. 92 del d.lgs. n. 163 del 2006, secondo cui “il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.
Sulla portata applicativa della norma si sono più volte pronunciate, in sede consultiva, diverse Sezioni regionali di controllo della Corte dei conti (Sez. contr. Campania
parere 10.04.2013 n. 141, Sez. contr. Piemonte parere 30.08.2012 n. 290, Sez. contr. Lombardia parere 24.10.2012 n. 452, Sez. contr. Puglia parere 16.01.2012 n. 1, Sez. contr. Toscana parere 18.10.2011 n. 213), tra cui anche questa Sezione con il parere 21.12.2012 n. 109 e più recentemente con il parere 11.11.2013 n. 80, seguendo un indirizzo interpretativo restrittivo in linea peraltro con quanto affermato anche dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici nel citato parere sulla normativa 21.11.2012 - rif. AG-22/12.
E’ stato al riguardo affermato che l’analisi delle fattispecie non può prescindere dalla collocazione sistematica della norma nel Codice dei contratti e più specificatamente nella Sezione I del Capo IV dedicata alla progettazione interna ed esterna relativa a lavori pubblici.
Sicché, come precisato da questa Sezione nei citati parere n. 109 del 2012 e n. 80 del 2013,
gli atti di pianificazione indicati dall’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006 non possono che riferirsi ed essere collegati alla realizzazione di lavori pubblici, con la conseguenza che i corrispettivi previsti a favore dei dipendenti che materialmente redigono atti di pianificazione devono essere collegati al compimento di opere pubbliche. La partecipazione alla redazione di un piano urbanistico generale, se non collegata alla realizzazione di singole opere pubbliche, rientra, infatti, nell’espletamento di un’attività riconducibile ad una funzione istituzionale, rispetto alla quale il dipendente che abbia materialmente redatto l’atto svolge un’attività lavorativa ordinaria che è da ricomprendersi nei compiti e doveri d’ufficio (art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2011) e come tale non suscettibile della liquidazione dell’incentivo di cui all’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006.
Non pertinente, per una diversa interpretazione della norma, è il precedente delle Sezioni riunite per la Regione Siciliana in sede consultiva.
Nel citato parere 03.01.2013 n. 2, le Sezioni riunite per la Regione Siciliana, nel precisare che “per «atto di pianificazione comunque denominato» vada inteso qualsiasi elaborato complesso, previsto dalla legislazione statale o regionale, composto da parte grafica/cartografica, da testi illustrativi e da testi normativi (es., norme tecniche di attuazione), finalizzato a programmare, definire e regolare, in tutto o in parte, il corretto assetto del territorio comunale, coerentemente con le prescrizioni normative e con la pianificazione territoriale degli altri livelli di governo”, affermano, infatti, richiamando il consolidato orientamento restrittivo, che “l’attività di pianificazione debba essere contestualizzata nell’ambito dei lavori pubblici, in un rapporto di necessaria strumentalità con l’attività di progettazione di opere pubbliche”, mentre il precedente della Sezione regionale di controllo per il Veneto (parere 26.07.2011 n. 337), richiamato nella richiesta di parere all’odierno esame, è riferito essenzialmente ad altre questioni desumibili dal comma 6 dell’art. 92 del d.lgs. n. 163 del 2006 e cioè alla possibilità che l’incentivo possa essere riconosciuto a tutti i soggetti che hanno partecipato alla redazione dell’atto sul presupposto del carattere multidisciplinare dell’attività di pianificazione.
Il Collegio, pur ritenendo di poter aderire al consolidato indirizzo interpretativo restrittivo enunciato, in sede consultiva, dalle diverse Sezioni regionali di controllo e ribadito da ultimo anche da questa Sezione, evidenzia, tuttavia, che, successivamente alla formulazione della richiesta di parere in esame, è nuovamente intervenuta sulla questione la Sezione regionale di controllo per il Veneto (parere 03.12.2013 n. 380 e parere 03.12.2013 n. 381), la quale ha affermato, andando in contrario avviso al consolidato orientamento giurisprudenziale, che “l’attribuzione di tale incentivo prescinde dal collegamento con la progettazione di una opera pubblica e il rinvio al comma 5 concernerebbe solo le modalità, da stabilirsi con regolamento, di erogazione”.
Ciò sul presupposto, ad avviso della Sezione Veneta, di una interpretazione letterale e sistematica della norma, sulla base della quale da un lato “il rinvio da essa operato non concerne l’an, ovverosia l’ambito (che per i motivi sopradescritti non è riferibile alla necessaria progettazione dell’opera pubblica, bensì alla pianificazione urbanistica), ma solamente il quomodo (ovverosia, secondo l’esplicito tenore testuale della norma, le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5) della incentivazione”, mentre dall’altro la “previsione di una diversa commisurazione del compenso rispetto a quanto previsto in tema di progettazione di opere pubbliche” costituirebbe elemento per non ritenere necessario uno stretto collegamento tra attività di pianificazione e attività di progettazione.
Ritiene, pertanto, la Sezione –alla luce del contrasto interpretativo sopra evidenziato– di sottoporre alla valutazione del Presidente della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174, convertito nella legge 07.12.2012, n. 213, l’opportunità di rimettere alla Sezione delle Autonomie della Corte la seguente questione di massima: “Se l’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163 del 2006 debba essere interpretato nel senso che il diritto all’incentivo per la redazione di un atto di pianificazione sussiste solo nel caso in cui l’atto di pianificazione è collegato alla realizzazione di opere pubbliche ovvero nel senso che il suddetto diritto sussiste anche nel caso di redazione di atti di pianificazione generale (quali la redazione di un piano urbanistico generale o attuativo ovvero di una variante) ancorché non puntualmente connessi ad un’opera pubblica”.
P.Q.M.
la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Liguria ritiene di sottoporre al Presidente della Corte dei conti la valutazione, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto-legge 10.10.2012, n. 174, convertito nella legge 07.12.2012, n. 213, in ordine alla opportunità di rimettere alla Sezione delle Autonomie della Corte dei conti questione di massima concernente i quesiti formulati dal Comune di Genova (Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 21.01.2014 n. 6).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 6 del 03.02.2014:
L.R. 30.01.2014 n. 2 - Istituzione del comune di Sant’Omobono Terme, mediante la fusione dei comuni di Sant’Omobono Terme e Valsecca, in provincia di Bergamo
L.R. 30.01.2014 n. 3 - Istituzione del comune di Val Brembilla, mediante la fusione dei comuni di Brembilla e Gerosa, in provincia di Bergamo
●  L.R. 30.01.2014 n. 4 - Istituzione del comune di Bellagio, mediante la fusione dei comuni di Bellagio e Civenna, in provincia di Como
●  L.R. 30.01.2014 n. 5 - Istituzione del comune di Colverde, mediante la fusione dei comuni di Drezzo, Gironico e Parè, in provincia di Como
●  L.R. 30.01.2014 n. 6 - Istituzione del comune di Verderio, mediante la fusione dei comuni di Verderio Inferiore e Verderio Superiore, in provincia di Lecco
●  L.R. 30.01.2014 n. 7 - Istituzione del comune di Cornale e Bastida, mediante la fusione dei comuni di Cornale e Bastida de’ Dossi, in provincia di Pavia
●  L.R. 30.01.2014 n. 8 - Istituzione del comune di Maccagno con Pino e Veddasca, mediante la fusione dei comuni di Maccagno, Pino sulla sponda del Lago Maggiore e Veddasca, in provincia di Varese
●  L.R. 30.01.2014 n. 9 - Istituzione del comune di Borgo Virgilio, mediante la fusione dei comuni di Virgilio e Borgoforte, in provincia di Mantova
●  L.R. 30.01.2014 n. 10 - Istituzione del comune di Tremezzina, mediante la fusione dei comuni di Lenno, Ossuccio, Tremezzo e Mezzegra, in provincia di Como.

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 del 03.02.2014, "Patto di integrità in materia di contratti pubblici regionali" (deliberazione 30.01.2014 n. 1299).

ATTI AMMINISTRATIVI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 del 03.02.2014, "Approvazione delle «Linee guida per l’acquisizione d’ufficio dei dati oggetto di autocertificazione e per l’esecuzione dei controlli sulle dichiarazioni (art. 35, comma 2, l.r. 01.02.2012, n. 1 in materia di procedimento amministrativo)»" (deliberazione G.R. 30.01.2014 n. 1298).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze di concerto con il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali 13.03.2013. Rilascio del documento unico di regolarità contributiva in presenza di certificazione dei crediti ai sensi dell’art. 13-bis, comma 5, del decreto legge 07.05.2012, n. 52 convertito, con modificazioni, dalla legge 06.07.2012, n. 94 (INPS, circolare 30.01.2014 n. 16 - link a www.inps.it).
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Il documento unico di regolarità contributiva può essere rilasciato in presenza di certificazione dei crediti certi, liquidi ed esigibili, vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni, emessa tramite la “Piattaforma per la Certificazione dei Crediti”.
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Con la Circolare 30/01/2014, n. 16, l'INPS fornisce indicazioni in merito all'applicazione della disciplina per il rilascio del DURC in presenza di certificazione di crediti certi, liquidi ed esigibili, vantati nei confronti delle P.A. -emessa tramite la «Piattaforma per la Certificazione dei Crediti» (PCC)- a seguito della realizzazione, da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze, all’interno della citata Piattaforma, della funzione di «Gestione Richieste DURC», riservata ai soggetti titolari dei crediti, e di quella di «Verifica la capienza per l’emissione del DURC», rivolta agli Enti tenuti al rilascio del DURC.
Si ricorda che nel quadro del sistema vigente in materia di DURC, il Documento rilasciato ai sensi dell’art. 13-bis, comma 5, del D.L. 52/2012, che prevede per l'appunto l'emissione del DURC in presenza di crediti certi, liquidi ed esigibili, viene a costituire pertanto una tipologia specifica attraverso la quale il legislatore ha inteso far sì che le imprese creditrici nei confronti delle pubbliche amministrazioni, nell’ambito dei limiti delineati dalla norma, ottengano un DURC per poter continuare ad operare sul mercato, in particolare in quello della contrattualistica pubblica, pur in presenza di debiti previdenziali e/o assicurativi.
Rinviando integralmente a quanto chiarito in materia dalla Circolare del Ministero del Lavoro 40/2013, la Circolare 16/2014 in commento fornisce le opportune indicazioni in ordine all’applicazione della disciplina a seguito della realizzazione delle due citate nuove funzioni nella «Piattaforma per la Certificazione dei Crediti» (PCC) (commento tratto da www.legislazionetecnica.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: P. Giampietro e A. Scialò, Il sottoprodotto, Il fresato d’asfalto e la “normale pratica” (nota a Consiglio di Stato, n. 4151/2013) (31.01.2014 - tratto da www.ambientediritto.it).

APPALTI: A. Giardetti, Discrezionalità delle stazioni appaltanti sulla sussistenza di cause di esclusione dalla gara pubblica (29.01.2014 - link a www.diritto.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: A. Casesa, Concorso pubblico e mobilità volontaria (29.01.2014 - link a www.diritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: I. Pagano, Il provvedimento finale non può essere basato su ragioni nuove o diverse rispetto a quelle esplicitate nell’avviso ex art. 10-bis L. n. 241/1990 (24.01.2014 - link a www.diritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: S. Rocchina, Mobbing ed onere della prova (Cass. Civ. n. 172/2014) (22.01.2014 - link a www.diritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: C. Cataldi, La Corte Costituzionale dice ancora una volta no all’esercizio della professione forense del dipendente pubblico anche solo part-time (22.01.2014 - link a www.diritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: I. Pagano, La disciplina del silenzio assenso non si applica al provvedimento di concessione di suolo pubblico (20.01.2014 - link a www.diritto.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: Termine di validità della certificazione unica di regolarità contributiva.
Domanda
Dopo l'entrata in vigore della Legge n. 98/2013 il termine di 120 giorni per la validità del DURC è estendibile sia agli appalti pubblici (committente ente pubblico e appalto a ditta privata), sia agli altri casi (committente privato e appalto a ditta privata)?
Risposta
Il documento unico di regolarità contributiva (c.d. DURC) è il certificato che attesta contestualmente la regolarità di un operatore economico per quanto concerne i versamenti dovuti agli Istituti previdenziali nonché, per i lavori dell'edilizia, alle Casse edili.
Il possesso di tale documento permette di fruire dei benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale, nonché dei benefici e delle sovvenzioni previsti dalla disciplina comunitaria. Inoltre, nell'ambito delle procedure di appalto di opere, servizi e forniture pubbliche, nelle ipotesi di gestione di servizi ed attività in convenzione o concessione con l'ente pubblico e nei lavori privati dell'edilizia, il DURC è requisito essenziale per l'affidamento dell'appalto o per il rilascio della concessione e la stipula della convenzione, oltre che per lo svolgimento dei lavori privati edili, rappresentando, quindi, la condizione preliminare per la stessa operatività dell'impresa.
Prevista originariamente solo nei settori degli appalti pubblici e dell'edilizia privata, la certificazione unica di regolarità contributiva è stata poi estesa alle imprese di tutti i settori per accedere ai benefici e alle sovvenzioni comunitarie, fino all'intervento dell'art. 1, c. 1175, della legge n. 296/2006 (finanziaria 2007) che ha ampliato sensibilmente il campo di applicazione del DURC, stabilendo che, a decorrere dal 01.07.2007, il possesso del documento diviene obbligatorio per tutti i settori di attività ai fini del riconoscimento dei benefici normativi e contributivi previsti dalla normativa in materia di lavoro e legislazione sociale, fermi restando gli altri obblighi di legge ed il rispetto degli accordi e contratti collettivi nazionali nonché di quelli regionali, territoriali o aziendali, se sottoscritti.
Con specifico riferimento al quesito posto si precisa che il DURC rilasciato per i contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, ha validità di 120 giorni dalla data del rilascio. Inoltre, secondo quanto disposto dall'art. 31, cc. 8-ter e 8-sexies, D.L. n. 69/2013 così come convertito nella legge n. 98/2013, le disposizioni in materia di validità del DURC si applicano anche ai lavori edili commissionati da soggetti privati (27.01.2014 - tratto da www.ipsoa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il committente è responsabile della corretta gestione dei rifiuti prodotti dalla ditta esecutrice?
Domanda
Tre anni fa ho commissionato la realizzazione di un fabbricato: oggi, dopo essere stato rinviato a giudizio per gestione abusiva di rifiuti (prodotti e gestiti dalla ditta esecutrice), il Tribunale mi ha condannato, insieme a quest'ultima e al direttore dei lavori, per aver abbandonato o depositato in modo incontrollato sul suolo rifiuti speciali non pericolosi derivanti da opere di demolizione e costruzione. Il committente è comunque responsabile della corretta gestione dei rifiuti prodotti e gestiti dalla ditta esecutrice?
Risposta
La qualità di committente, ma anche quella di direttore dei lavori, non determina alcun obbligo di legge di intervenire nella gestione dei rifiuti prodotti dalla ditta appaltatrice, o di garantire che la stessa venga effettuata correttamente.
In materia di gestione dei rifiuti, tali figure non possono essere ritenute responsabili a titolo di concorso con l’appaltatore per la raccolta e lo smaltimento abusivi dei rifiuti non pericolosi connessi all’attività edificatoria.
I doveri di controllo imposti al committente e al direttore dei lavori riguardano esclusivamente la conformità della costruzione alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano, al permesso di costruire e all’osservanza delle altre prescrizioni contenute nel TUE.
Dai principî generali che regolano i compiti del direttore dei lavori o i rapporti fra la ditta appaltante e quella appaltatrice derivano obblighi di intervenire per il rispetto da parte della ditta esecutrice dei lavori della normativa in materia di rifiuti: di conseguenza, salva l’ipotesi di un diretto concorso nella commissione del reato, non può ravvisarsi alcuna responsabilità a carico di tali soggetti, per non essere intervenuti al fine di impedire violazioni della normativa in materia di gestione dei rifiuti da parte della ditta appaltatrice.
Risponde, invece, del reato di abusiva gestione dei rifiuti l’appaltatore di lavori edili: infatti grava su di lui l’obbligo di garanzia in relazione all’interesse tutelato ed al corretto espletamento delle operazioni di raccolta e smaltimento dei rifiuti connessi all’attività edificatoria (17.01.2014 - tratto da www.ipsoa.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO PROGETTAZIONE: 1) per le attività inerenti la redazione del Piano Generale del Traffico Urbano e la redazione del Nuovo Piano Strategico delle Aree verdi, non si ritiene ammissibile l'erogazione dell'incentivo ex art. 92 d.lgs. 12.04.2006 n. 163 e s.m.i..
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2) l’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria su beni dell’ente locale, ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria un’attività progettuale richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163/2006. La verifica del ricorrere di tali presupposti è rimessa, nei singoli casi, alla stazione appaltante;
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3) con riferimento alla realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo, l’Amministrazione non può corrispondere a favore del responsabile del procedimento l’incentivo per la progettazione, poiché, nella fattispecie prospettata, ogni onere di progettazione e costruzione delle opere è posto a carico del soggetto attuatore dell’intervento;
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4) la circostanza che l’Amministrazione non proceda nell’anno in corso con l'approvazione dei progetti redatti dai dipendenti, sebbene questi presentino caratteristiche e contenuti aderenti alle previsioni di cui agli atti programmatori, alle necessità manifestate, nonché alle norme di legge vigenti, non fa venir meno la diretta corrispondenza, di natura sinallagmatica, tra incentivo ed attività svolte dai dipendenti a suo tempo incaricati.
L’erogazione in discorso rimane comunque sospensivamente condizionata quantomeno all’approvazione da parte dell’Amministrazione del progetto esecutivo, che deve essere necessariamente finanziato;
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5) l’incentivo si ritiene erogabile qualora nel corso dell'esecuzione di un'opera pubblica o lavoro si renda necessario redigere, da parte del personale dipendente dall’Ente, una perizia di variante e suppletiva con incremento dell'importo dei lavori affidati, rientrante negli ambiti consentiti dalla norma vigente, con esclusione delle varianti determinate da errori di progettazione, con la specificazione che l’entità dell’incentivo stesso deve essere correlata all’importo della perizia di variante.

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Il Sindaco del Comune di Grugliasco (TO) pone alla Sezione una serie di quesiti in merito alla corretta erogazione dell'incentivo ex art. 92 d.lgs. 12.04.2006 n. 163 e s.m.i. ai propri dipendenti.
Nello specifico, espone quanto segue.
Quesito n° 1: Il comune di Grugliasco, nel corso del 2012 ha dato avvio alle procedure inerenti la redazione del Piano Generale del Traffico Urbano e, ad inizio 2013, la redazione del Nuovo Piano Strategico delle Aree verdi con contestuale incarico agli Uffici interni del Settore Lavori Pubblici affinché procedessero alla redazione degli atti di pianificazione.
L'affidamento dell'incarico di redazione degli atti di pianificazione agli Uffici interni della struttura comunale è stato fatto, oltre che in un contesto di valorizzazione delle professionalità interne e di razionalizzazione delle spese, in presenza di professionalità competenti nonché dei pareri espressi dall'AVCP (10.05.2010 e 21.11.2012) e del parere espresso dalla Sezione Regionale della Corte dei Conti Veneto n° 37 del 26.07.2011.
Come previsto dall'art. 36 comma 4 del Nuovo Codice della Strada, il Piano Generale del Traffico Urbano, nell'attuale programmazione dell'Ente, si sostanzia nella pianificazione delle opere viarie da realizzarsi a medio e lungo periodo, per gestire la mobilità cittadina anche alla luce delle politiche di espansione della Città: insediamento del nuovo Polo Scientifico Universitario, Realizzazione di nuovi insediamenti abitativi.
Analogamente, il Piano Strategico delle Aree Verdi Comunali assume significato esclusivamente nella programmazione e pianificazione delle opere di riqualificazione degli spazi verdi comunali, gestite nel breve/medio periodo al fine di ottimizzare e razionalizzare le risorse finanziarie di volta in volta disponibili.
L'incentivo ex art. 92, comma 6, del D.Lgs. 163/2006, inerente la redazione del Piano è stato computato per ogni componente degli Uffici incaricati, sulla base dei compiti pianificatori assegnati ed delle elaborazioni progettuali in fase di completamento e/o redazione.
L'erogazione effettiva è stata attualmente sospesa in attesa di chiarimenti, sebbene si ritenga che entrambe le pianificazioni possano rientrare fra le fattispecie incentivabili anche a fronte di alcuni pareri espressi da altre Sezioni regionali di Controllo.
Ciò premesso, il Sindaco del Comune di Grugliasco chiede se per le attività di pianificazione di cui al suddetto quesito sia corretta l'erogazione dell'incentivo ex art. 92 d.lgs. 12.04.2006 no 163 e s.m.i.;
Quesito n° 2: Dopo aver richiamato quanto disposto dell'art. 105 del D.P.R. 05.10.2010 n° 207 (Lavori di manutenzione) e aver messo in evidenza che per le attività di cui al comma 1 di tale articolo assumono rilevante importanza il coordinamento sicurezza in fase di progettazione e di esecuzione, nonché la direzione lavori e la contabilità, mentre per le attività di cui al comma 2 è comunque previsto almeno un livello di progettazione, oltre che il coordinamento sicurezza e la direzione lavori e contabilità, il Sindaco del Comune di Grugliasco chiede se sia riconoscibile ed erogabile l'incentivo per le descritte fattispecie di lavori di manutenzione.
Quesito n° 3: Si chiede se, con riferimento alla realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo, progettate ed eseguite direttamente da parte del soggetto attuatore, l'incentivo in questione sia erogabile al Responsabile di Procedimento.
Quesito n° 4: Per ragioni legate all'effettiva disponibilità finanziaria in corso d'anno o per ragioni di opportunità, l’Amministrazione potrebbe non procedere con l'approvazione dei progetti redatti dai dipendenti, sebbene questi presentino caratteristiche e contenuti aderenti alle previsioni di cui agli atti programmatori, alle necessità manifestate, nonché alle norme di legge vigenti.
Il Sindaco del Comune di Grugliasco chiede, pertanto, se in tali casi sia erogabile l'incentivo riferito al livello di progettazione effettivamente redatto dai dipendenti a suo tempo incaricati.
Quesito n° 5: Nel corso dell'esecuzione di un'opera pubblica o lavoro può essere necessario redigere una perizia di variante e suppletiva, non determinata da errori di progettazione, con il conseguente incremento dell'importo dei lavori affidati.
La responsabilità dei Progettisti, del Coordinatore per la sicurezza, del Direttore Lavori risultano di fatto incrementate perché riferite all'importo dei lavori così come risultante in seguito alla redazione della perizia di variante e suppletiva.
A fronte di ciò, il Sindaco del Comune di Grugliasco chiede se siano proporzionalmente incrementabili le somme per incentivi ex art. 92, commi 5 e 6, del D.Lgs. 12.04.2006 n° 163 e s.m.i..
...
Per offrire una soluzione all’articolata richiesta di parere pervenuta alla Sezione dal Sindaco del Comune di Grugliasco, è opportuno richiamare gli approdi ermeneutici sinora raggiunti in merito alla corretta applicazione dell’istituto del cd. “incentivo alla progettazione”, come previsto dalla disciplina di settore, contenuta nel d.lgs. n. 163/2006 e s.m.i. e nel suo Regolamento di esecuzione e attuazione, D.P.R. 05.10.2010 n° 207.
In particolare, la questione in esame concerne la corretta interpretazione dell’articolo 92, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 163/2006, argomento su cui, già da tempo, si è formata una consolidata giurisprudenza da parte dalle varie Sezioni regionali di Controllo della Corte dei conti.
Fra le numerose pronunce in sede consultiva, in questa sede può richiamarsi quanto affermato nelle precedenti pronunce della Corte dei conti sui due commi citati dell’art. 92 Cod. Contr. Pubblici (cfr., fra le altre, Sezione Autonomie
delibera 13.11.2009 n. 16/2009, Sezione Veneto parere 26.07.2011 n. 337, Sezione Lombardia parere 06.03.2012 n. 57 e parere 30.05.2012 n. 259; inoltre, parere 30.08.2012 n. 290 di questa Sezione) e, in particolare, nella deliberazione della Sezione Lombardia parere 06.03.2013 n. 72, che di seguito si ripercorre e a cui può farsi riferimento per l’analisi dei profili generali: “Il menzionato comma 5 (incentivi per l’affidamento di lavori di manutenzione ordinaria/straordinaria) prevede che “una somma non superiore al due per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, (…), è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo del due per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente preposto alla struttura competente, previo accertamento positivo delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti (…); le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, costituiscono economie”.
La norma va letta nel complessivo contesto delle modalità d’affidamento degli incarichi tecnico professionali, previste dalla legislazione in materia di contratti pubblici. Quest’ultima (si rinvia agli artt. 10, 84, 90, 112, 120 e 130 del d.lgs. 163/2006) è informata da un principio generale, già codificato dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, in base al quale
i predetti incarichi possono essere conferiti a soggetti esterni al plesso amministrativo solo se non si disponga di professionalità adeguate nel proprio organico e tale carenza non sia altrimenti risolvibile con strumenti flessibili di gestione delle risorse umane. Tale presupposto mira a preservare le finanze pubbliche oltre che a valorizzare il personale interno alle amministrazioni.
Pertanto,
nelle ipotesi ordinarie in cui gli incarichi tecnici sono espletati da personale interno, ai fini della loro remunerazione, occorre far riferimento alle regole generali previste per il pubblico impiego, il cui sistema retributivo è conformato da due principi cardine, quello di definizione contrattuale delle componenti economiche e quello di onnicomprensività della retribuzione (cfr. artt. 2, 24, 40 e 45 del d.lgs. n. 165/2001, nonché Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Puglia, sentenze nn. 464, 475 e 487 del 2010). Secondo questi ultimi nulla è dovuto, oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che ha svolto una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio, anche se di particolare complessità.
Il c.d. “incentivo alla progettazione”, previsto dal Codice dei contratti pubblici, costituisce uno di quei casi nei quali il legislatore, derogando al principio per cui il trattamento economico è fissato dai contratti collettivi, attribuisce un compenso ulteriore e speciale, rinviando ai regolamenti dell’amministrazione aggiudicatrice, previa contrattazione decentrata, i criteri e le modalità di ripartizione.
L’art. 92, comma 5, del d.lgs. 163/2006 deroga ai principi di onnicomprensività e determinazione contrattuale della retribuzione del dipendente pubblico e, come tale, costituisce un’eccezione che si presta a stretta interpretazione e per la quale sussiste il divieto di analogia posto dall’art. 12 delle diposizioni preliminari al codice civile (in tal senso Sezione Campania,
parere 07.05.2008 n. 7/2008, Sezione Umbria, parere 09.07.2013 n. 119, Sezione Marche, parere 04.10.2013 n. 67).
Come evincibile dalla lettera del comma, la legge pone alcuni limiti per l’attribuzione del predetto incentivo, rimettendone la disciplina concreta (“criteri e modalità”) ad un regolamento interno assunto previa contrattazione decentrata.
I punti fermi che il regolamento interno deve rispettare (sull’impossibilità da parte del regolamento di derogare a quanto previsto dalla legge o di attribuire compensi non previsti, si rimanda al
parere 30.05.2012 n. 259 della Sezione Lombardia) paiono essere i seguenti:
- erogazione ai soli dipendenti espletanti gli incarichi tassativamente indicati dalla norma (responsabile del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, e loro collaboratori), riferiti all’aggiudicazione ed esecuzione “di un’opera o un lavoro” (non, pertanto, per un appalto di fornitura di beni o di servizi);
- ammontare complessivo non superiore al due per cento dell’importo a base di gara. Di conseguenza la somma concretamente prevista dal regolamento interno può essere stabilita in misura percentuale inferiore;
- ancoramento del fondo incentivante alla base di gara (non all’importo oggetto del contratto, né a quello risultante dallo stato finale dei lavori). Si deduce che non appare ammissibile la previsione e l’erogazione di alcun compenso nel caso in cui l’iter dell’opera o del lavoro non sia giunto, quantomeno, alla fase della pubblicazione del bando o della spedizione delle lettere d’invito (cfr., per esempio, l’art. 2 comma 3 del DM Infrastrutture n. 84 del 17/03/2008). Quanto detto non esclude che, in sede di regolamento interno, al fine di ancorare l’erogazione dell’incentivo a più stringenti presupposti, l’amministrazione possa prevedere la corresponsione solo subordinatamente all’aggiudicazione dell’opera;
- puntuale ripartizione del fondo incentivante tra gli incarichi attribuibili (responsabile del procedimento, progettista, direttore dei lavori, collaudatori, nonché loro collaboratori), secondo percentuali rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione, da mantenere, tuttavia, entro i binari della logicità, congruenza e ragionevolezza (cfr. Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, Deliberazioni n. 315 del 13/12/2007, n. 70 del 22/06/2005, n. 97 del 19/05/2004);
- devoluzione in economia delle quote del fondo incentivante corrispondenti a prestazioni non svolte dai dipendenti, ma affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione. Obbligo che impone di prevedere analiticamente nel regolamento interno, e graduare, le percentuali spettanti per ogni incarico espletabile dal personale, in maniera tale da permettere, nel caso in cui alcune prestazioni siano affidate a professionisti esterni, la predetta devoluzione (si rinvia alle Deliberazioni dell’Autorità di vigilanza n. 315 del 13/12/2007, n. 35 del 08/04/2009, n. 18 del 07/05/2008 e n. 150 del 02/05/2001).
Pertanto, l’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria/straordinaria su beni dell’ente locale ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria attività di progettazione.
Esulano, dunque, tutti quei lavori manutentivi per la cui realizzazione non è necessaria l’attività progettuale richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163/2006.
Al contrario, l’incentivo si ritiene erogabile qualora nel corso dell'esecuzione di un'opera pubblica o lavoro si renda necessario redigere, da parte del personale dipendente dall’Ente, una perizia di variante e suppletiva con incremento dell'importo dei lavori affidati, rientrante negli ambiti consentiti dalla norma vigente, con esclusione delle varianti determinate da errori di progettazione, con la specificazione che l’incentivo stesso deve essere correlato all’importo della perizia di variante.
Inoltre, come è stato messo in luce dal
parere 13.11.2012 n. 293 della Sezione regionale di Controllo per la Toscana, “l’art. 90 del D.lgs. n. 163/2006 sia alla rubrica che al c. 1, fa riferimento esclusivamente ai lavori pubblici, e l’art. 92, c. 1, presuppone l’attività di progettazione nelle varie fasi come finalizzata alla costruzione dell’opera pubblica progettata. A fortiori, lo stesso comma 6 dell’art. 92 prevede che l’incentivo alla progettazione venga ripartito tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto e, dunque, è di palmare evidenza come il riferimento normativo e la conseguente voluntas legis sia ascrivibile solo alla materia dei lavori pubblici, presupponendosi una procedura ad evidenza pubblica finalizzata alla realizzazione di un’opera di pubblico interesse”.
Pertanto, così come l’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per la redazione di varianti allo strumento urbanistico generale, non sarà neppure riconoscibile per la redazione del Piano Generale del Traffico Urbano e per la redazione del Piano Strategico delle Aree verdi.
Sul corretto significato da attribuire alla locuzione “atto di pianificazione” inserita nel testo dell’art. 92, comma 6, del d.lgs. n. 163/2006, la Sezione richiama il proprio orientamento espresso nel precedente
parere 30.08.2012 n. 290, a tenore del quale, l’atto di pianificazione, comunque denominato, deve necessariamente riferirsi alla progettazione di opere pubbliche e non ad un mero atto di pianificazione territoriale redatto dal personale tecnico abilitato dipendente dell’amministrazione.
Stante la sedes materiae della norma sugli incentivi alla progettazione (Codice degli appalti), nonché la ratio della disposizione (contenere i costi connessi alla progettazione delle opere pubbliche valorizzando le professionalità interne alla pubblica amministrazione), “la norma àncora chiaramente il riconoscimento del diritto ad ottenere il compenso incentivante alla circostanza che la redazione dell’atto di pianificazione, riferita ad opere pubbliche e non ad atti di pianificazione del territorio, sia avvenuta all’interno dell’Ente. Qualora sia avvenuta all’esterno non è idonea a far sorgere il diritto di alcun compenso in capo ai dipendenti degli Uffici tecnici dell’Ente” (in termini, Sezione contr. Piemonte deliberazione cit.; cfr. altresì Sezione contr. Lombardia,
parere 30.05.2012 n. 259; parere 06.03.2012 n. 57; Sezione contr. Puglia, parere 16.01.2012 n. 1; Sezione contr. Toscana, parere 18.10.2011 n. 213).
Pertanto, ciò che rileva ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante non è tanto il nomen juris attribuito all’atto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico intimamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero a quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale (piano regolatore o variante generale) che costituisce, al contrario, diretta espressione dell’attività istituzionale dell’ente per la quale al dipendente è già corrisposta la retribuzione ordinariamente spettante.
Al riguardo, viene in rilevo anche l'ipotesi in cui le opere di urbanizzazione previste da un piano di lottizzazione siano eseguite direttamente dal privato a scomputo, totale o parziale, del contributo degli oneri di urbanizzazione. La realizzazione delle opere di urbanizzazione a scomputo oneri prevede la redazione ed approvazione, da parte del soggetto attuatore, di progetti redatti in conformità ai tre livelli di progettazione, le attività di direzione lavori e contabilità, sotto il diretto controllo del Responsabile del procedimento nominato dall'Amministrazione. I lavori in discorso sono previsti dall’art. 32, lettera g), del Codice dei contratti pubblici e ai soggetti privati ivi indicati, titolari di permesso di costruire, non si applica l’art. 92 del Codice stesso, relativo agli incentivi in trattazione.
Pertanto, l’Amministrazione non potrà corrispondere a favore del responsabile del procedimento l’incentivo per la progettazione, essendo nella fattispecie ogni onere posto a carico dell’attuatore dell’intervento.
Infine, per il caso in cui sia stato eseguito un livello di progettazione effettivamente redatto dai dipendenti a suo tempo incaricati e l’Amministrazione non proceda successivamente all’approvazione del progetto, per “indisponibilità finanziaria in corso d'anno o per ragioni di opportunità”, occorre innanzitutto rammentare che sin dal momento della designazione del responsabile unico del procedimento l’Ente deve procedere all’assunzione di un regolare impegno di spesa per la realizzazione del progetto.
Tale puntualizzazione si rende necessaria in quanto la fattispecie portata ad esempio nel quesito potrebbe costituire sintomo di carenze programmatorie nella gestione dell’Ente o, nella peggiore ipotesi, potrebbe ricadere nella risalente prassi di dotare gli enti locali di un c.d. "parco progetti", conforme al piano triennale dello opere pubbliche, ma con il pagamento dell'onorario ai tecnici condizionato all'ottenimento del finanziamento per il progetto non posto in gara. In merito, si richiama l’attenzione dell’ente sugli eventuali profili di responsabilità correlati a tale prassi, più volte censurata dalla giurisprudenza contabile (ex plurimis, Corte dei conti - Sez. I Giur. App., n. 906/2013).
I principi in discorso, evidenziati anche dall’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici nella deliberazione n. 125 del 09.05.2007, in relazione agli affidamenti di progettazioni esterne, possono essere richiamati per il caso degli incentivi per le progettazioni interne: “non è possibile -a pena di nullità- affidare incarichi di progettazione subordinando la corresponsione dei compensi professionali, relativi allo svolgimento della progettazione e delle attività tecnico-amministrative ad esse connesse, ai finanziamenti dell'opera (cfr. determinazione dell'Autorità n. 18/2001). La progettazione di un'opera pubblica non può, infatti, costituire un'attività fine a se stessa, svincolata dalla esecuzione dei lavori, con la conseguenza che non si può affidare un incarico di progettazione senza che l'opera sia stata non solo programmata ma sia stata anche indicata l'effettiva reperibilità delle somme necessarie per realizzarla. In simili casi, peraltro, le stazioni appaltanti devono provvedere con fondi propri alla corresponsione dei compensi professionali, correlando il pagamento del corrispettivo alle fasi dello sviluppo della progettazione e non alla fase esecutiva dei lavori” (delib. AVCP cit.).
Tanto premesso, nell’ipotesi prospettata soccorre quanto affermato dalla Sezione delle Autonomie della Corte dei conti nella
deliberazione 08.05.2009 n. 7/2009/QMIG: “l’incentivo per la progettazione ha la finalità di accrescere l’efficienza e l’efficacia degli uffici tecnici preposti a tale ramo d’amministrazione ed (…) è direttamente funzionalizzato al risultato, ossia all’effettivo adempimento del concreto compito affidato ai vari soggetti potenziali beneficiari della ripartizione della somma.
In tale direzione conduce la constatazione della diretta correlazione, (art. 13 L. 144/1999) per ogni singola opera o lavoro tra somme da ripartire, importo dell’appalto e stanziamenti relativi, superando l’originaria previsione della costituzione di un fondo interno alimentato con le su descritte modalità e commisurato al costo preventivato dell’opera, che poteva anche far configurare una modulabilità degli stanziamenti in funzione di esigenze di compatibilità della spesa per incentivi con le mutevoli necessità di bilancio e, di conseguenza, l’eventualità di restrizioni. L’aver, invece, legato la provvista delle risorse ad ogni singola opera con riferimento all’importo a base di gara e aver previsto la ripartizione delle somme così determinata per ogni singola opera, evidenzia il chiaro intento di stabilire una diretta corrispondenza di natura sinallagmatica tra incentivo ed attività compensate.
Ed invero la Suprema Corte ha ritenuto che il diritto all’incentivo di cui si sta trattando, costituisce un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva (Cass. Sez. Lav., sent. n. 13384 del 19.07.2004) che inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va individuato l’obbligo per l’Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere concreta l’erogazione del compenso. (…)
”.
L’erogazione in discorso rimane comunque sospensivamente condizionata quantomeno all’approvazione da parte dell’Amministrazione del progetto esecutivo, che deve essere necessariamente finanziato.
In conclusione, possono fornirsi le seguenti indicazioni relative ai singoli quesiti:
1) per le attività inerenti la redazione del Piano Generale del Traffico Urbano e la redazione del Nuovo Piano Strategico delle Aree verdi, non si ritiene ammissibile l'erogazione dell'incentivo ex art. 92 d.lgs. 12.04.2006 n. 163 e s.m.i.;
2) l’incentivo alla progettazione non può venire riconosciuto per qualunque lavoro di manutenzione ordinaria su beni dell’ente locale, ma solo per lavori di realizzazione di un’opera pubblica alla cui base vi sia una necessaria un’attività progettuale richiamata negli articoli 90, 91 e 92 del d.lgs. n. 163/2006. La verifica del ricorrere di tali presupposti è rimessa, nei singoli casi, alla stazione appaltante;
3) con riferimento alla realizzazione di opere di urbanizzazione a scomputo, l’Amministrazione non potrà corrispondere a favore del responsabile del procedimento l’incentivo per la progettazione, poiché, nella fattispecie prospettata, ogni onere di progettazione e costruzione delle opere è posto a carico del soggetto attuatore dell’intervento;
4) la circostanza che l’Amministrazione non proceda nell’anno in corso con l'approvazione dei progetti redatti dai dipendenti, sebbene questi presentino caratteristiche e contenuti aderenti alle previsioni di cui agli atti programmatori, alle necessità manifestate, nonché alle norme di legge vigenti, non fa venir meno la diretta corrispondenza, di natura sinallagmatica, tra incentivo ed attività svolte dai dipendenti a suo tempo incaricati. L’erogazione in discorso rimane comunque sospensivamente condizionata quantomeno all’approvazione da parte dell’Amministrazione del progetto esecutivo, che deve essere necessariamente finanziato;
5) l’incentivo si ritiene erogabile qualora nel corso dell'esecuzione di un'opera pubblica o lavoro si renda necessario redigere, da parte del personale dipendente dall’Ente, una perizia di variante e suppletiva con incremento dell'importo dei lavori affidati, rientrante negli ambiti consentiti dalla norma vigente, con esclusione delle varianti determinate da errori di progettazione, con la specificazione che l’entità dell’incentivo stesso deve essere correlata all’importo della perizia di variante
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 16.01.2014 n. 8).

INCARICHI PROFESSIONALI: MONITORAGGIO DEGLI ATTI DI SPESA RELATIVI A COLLABORAZIONI, CONSULENZE, STUDI E RICERCHE, RELAZIONI PUBBLICHE, CONVEGNI, MOSTRE, PUBBLICITA’ E RAPPRESENTANZA, POSTI IN ESSERE NELL’ESERCIZIO FINANZIARIO 2010 DAGLI ENTI PUBBLICI AVENTI SEDE NELL’EMILIA-ROMAGNA (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, deliberazione 15.01.2014 n. 2).
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Di particolare interesse sono gli argomenti trattati di seguito indicati:
2.3.1 I vincoli sostanziali al conferimento degli incarichi professionali o di collaborazione
2.3.2 La nuova disciplina degli incarichi professionali esterni affidati a dipendenti pubblici
2.3.3 I vincoli finanziari al conferimento degli incarichi professionali o di collaborazione
...
2.3.5 I vincoli finanziari alle spese relative a relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza
...
2.4 Gli obblighi di pubblicità preventiva e successiva
...
2.4.1 La pubblicità preventiva
2.4.2 La pubblicità successiva
...
2.5 Gli orientamenti giurisprudenziali in materia di incarichi di studio e di consulenza

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:  Il danno erariale desumibile da procedure di verticalizzazioni (da D1 a D3) non conformi alla normativa e al contratto.
La procedura disposta per attuare la progressione verticale in argomento è avvenuta in violazione dell’art. 4 CCNL Enti Locali del 31.03.1999 che prevede, ove ricorrano posti vacanti all’interno della dotazione organica, procedure selettive.
La progressione (“verticale” ai sensi dell’art. 4 CCNL Enti Locali 31.03.1999) infatti è avvenuta nel mancato rispetto dei presupposti normativi ed ha consentito la “liberazione”, all’interno del Fondo di produttività, di risorse destinate a remunerare anche altri istituti, a beneficio di altri dipendenti comunali e di alcuni degli stessi riqualificati cui veniva riconosciuta, oltre al superiore inquadramento giuridico, un’ulteriore fascia economica.

Il passaggio di qualifica è avvenuto, inoltre, in mancanza di una effettiva procedura selettiva, come prescritto, invece, dal richiamato art. 4 del CCNL Enti locali 31.03.1999 e dalle norme che regolano la materia dell’accesso al pubblico impiego, per garantire anche l’accesso ai concorrenti esterni.
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Da quanto sopra esposto consegue ad avviso del Collegio la responsabilità degli Amministratori e del Segretario comunale per la vicenda in esame, ricorrendo tutti i presupposti per una affermazione di responsabilità: il danno, il rapporto di servizio, il nesso causale, la colpa grave.
In particolare, per quanto attiene al Sindaco ed ai componenti della Giunta, il carattere gravemente colposo del loro comportamento emerge in maniera evidente dalla stessa sequenza degli atti adottati, diretti inequivocabilmente a liberare somme dal fondo di produttività, ponendole a carico del bilancio, con conseguente maggior onere complessivo per l’Ente.
Anche il comportamento del Segretario comunale è parimenti connotato da grave colpevolezza, in quanto, presente, tra l’altro, alla seduta dell’11.04.2006 nella quale è stata adottata la più volte richiamata deliberazione di Giunta n. 56, non risulta in alcun modo aver fatto rilevare le illegittimità della decisione in corso di adozione, ed il suo conseguente carattere dannoso, come invece sarebbe stato suo dovere, nell’ambito del rapporto di collaborazione con l’Organo politico i cui contenuti sono delineati dalla consolidata giurisprudenza della Corte dei conti.
Quanto alla sig.ra R.R., il Collegio rileva che
non solo nella sua qualità di Responsabile dell’Area amministrativa ed AA.GG. ha espresso il parere di regolarità tecnica in ordine alla predetta delibera 56 del 2006 ed ha adottato successivamente la determinazione 17.05.2006 n. 36, con cui è stata eseguita la delibera stessa, ma in precedenza in quanto componente della delegazione trattante di parte pubblica a più riprese aveva esaminato la questione della trasformazione in inquadramento giuridico dell’inquadramento economico D3. Anche nei suoi confronti, pertanto, il Collegio ritiene sussistente quella colpa grave che costituisce presupposto per l’affermazione della responsabilità.
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Come già esposto in narrativa nel 2009 la Giunta Comunale pro-tempore del Comune di San Vittore Olona ha disposto una serie di controlli e verifiche su deliberazioni assunte dai precedenti amministratori, in materia di personale, in particolare sulla delibera di giunta n. 56/2006 avente ad oggetto “Progetto di valorizzazione risorse umane”, riguardo alla quale nella relazione predisposta dalla Segretaria comunale sono poste in evidenza diverse illegittimità da cui derivano effetti dannosi.
Con riferimento a tale relazione, i profili censurati dall’Inquirente riguardano sostanzialmente il passaggio dalla categoria D1 alla categoria D3, che viene a configurare una progressione verticale, e il passaggio alla superiore posizione giuridica in assenza dei relativi posti in organico e di una vera e propria procedura selettiva.
L’importo del danno è stato quantificato in €. 121.924,03 complessivi da addebitare per il 70% del danno contestato in parti uguali ai componenti della Giunta e cioè €. 14.224,48 ciascuno a B., M., V., R., G. e T..
Il 15% del danno pari a €. 18.288,60, è stato addebitato alla signora R., e un ulteriore 10% pari a €. 12.192,403 ai componenti del Nucleo di valutazione signori B. ed A. (la parte addebitata a CONTE non risulta perseguibile per l’intervenuta scomparsa del medesimo). Il restante 5% dell’importo contestato pari a €. 6.096,20, infine a M..
Il Collegio osserva che la procedura disposta per attuare la progressione verticale in argomento è avvenuta in violazione dell’art. 4 CCNL Enti Locali del 31.03.1999 che prevede, ove ricorrano posti vacanti all’interno della dotazione organica, procedure selettive.
La progressione (“verticale” ai sensi dell’art. 4 CCNL Enti Locali 31.03.1999) infatti è avvenuta nel mancato rispetto dei presupposti normativi ed ha consentito la “liberazione”, all’interno del Fondo di produttività, di risorse destinate a remunerare anche altri istituti, a beneficio di altri dipendenti comunali e di alcuni degli stessi riqualificati cui veniva riconosciuta, oltre al superiore inquadramento giuridico, un’ulteriore fascia economica.
Nel caso in esame la modifica della pianta organica, con la previsione dei n. 6 nuovi posti di D3 giuridico, è avvenuta, infatti, solo con delibera giuntale n. 129 del 05.09.2006, approvata successivamente alla delibera n. 56 dell’11.04.2006, ed alla convalida della riqualificazione del Nucleo di valutazione dell’11.05.2006, nonché alla determina dirigenziale n. 16 del 17.05.2006.
Con la delibera n. 56/2006, la Giunta comunale non ha provveduto a modificare l’assetto della pianta organica dell’ente delineata dalla delibera 209/2000 ma si è limitata a disporre la soppressione, con effetti differiti al termine della procedura di riqualificazione, dei posti vacanti (che, come evidenziato dalla tabella allegata alla stessa delibera, erano quelli di categoria C). Si condivide sul punto quanto rappresentato dalla Procura regionale che non corrisponde al vero, pertanto, quanto affermato nelle proprie deduzioni dai convenuti circa la previsione delle nuove posizioni funzionali già con la delibera n. 56/2006 .
L’art. 5, comma 7, del D.C.P.M. 15.02.2006, con riguardo ai limiti concernenti la rideterminazione della dotazione organica e le assunzioni a tempo indeterminato, prevedeva, poi, che i Comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti (come San Vittore Olona) potessero procedere a nuove assunzioni nel limite del 25% delle cessazioni dal servizio verificatesi nel triennio 2004-2006 (esclusa la mobilità). Per prevedere in pianta organica i posti di cui si discute almeno 24 dipendenti avrebbero dovuto cessare dal servizio.
Il passaggio di qualifica è avvenuto, inoltre, in mancanza di una effettiva procedura selettiva, come prescritto, invece, dal richiamato art. 4 del CCNL Enti locali 31.03.1999 e dalle norme che regolano la materia dell’accesso al pubblico impiego, per garantire anche l’accesso ai concorrenti esterni.
Come evidenziato dall’Inquirente dopo che la delibera giuntale n. 56/2006, riconfermando la volontà espressa dall’Amministrazione in sede di contrattazione decentrata di riconoscimento dell’inquadramento giuridico D3 ai dipendenti già collocati in posizione economica D3 (vedasi, in particolare, i verbali del 17.10.2005 e del 03.11.2005), ha disposto la “riclassificazione” dei posti interessati in cat. D3 giuridico, la relativa copertura è avvenuta sulla base della “convalida” ad opera del Nucleo di valutazione, quale risulta dalla sintetica nota 11.05.2006, comunque in violazione di quanto previsto dall’art. 28 Regolamento degli uffici e dei servizi del Comune per la formazione della Commissione esaminatrice.
La progressione giuridica è stata riconosciuta a far data dal 01.01.2006, nonostante la delibera giuntale n. 56 sia datata 11.04.2006 e l’atto di “convalida” (a firma della responsabile dell’Area Amministrativa Affari Generali, sig. R., partecipante alla procedura) sia intervenuto solo il 17.05.2006.
Gli Amministratori in più occasioni hanno ribadito l’assenza di danno e l’utilità conseguita.
Come si evince da tutti gli atti di causa ed in particolare dalla denuncia della Segretaria M.N. e dalla delibera n. 109/2010 il danno all’Ente invece sussiste ed è pari alla differenza tra il compenso spettante alla Cat. D1 e quella spettante alla Cat. D3 giuridica, legato alle maggiori somme indebitamente erogate ai dipendenti sotto forma di salario accessorio e degli oneri riflessi –CPDEL IRAP INAIL INADEL- attinte al Fondo di produttività di cui si è già detto, depurato dai costi ad esso afferenti in relazione ai compensi dei dipendenti promossi (per un costo complessivo, dal 2006 al 2010, di € 121.924,03).
Il Collegio rileva inoltre che, quanto all’utilità conseguita in seguito alla valorizzazione del personale suddetto, solo in sede di audizione personale, come risulta dal relativo verbale, il sindaco B. si è soffermato specificamente su questo aspetto della valorizzazione del personale, limitandosi a rappresentare che tale progetto “ha permesso di recuperare la disponibilità del personale a svolgere, i compiti assegnati dall’Amministrazione e l’ultimazione della fase preliminare all’introduzione del controllo di gestione” senza fornire alcuna prova di questa aumentata produttività; quando invece risulta che gli impiegati promossi hanno continuato a svolgere esattamente le stesse mansioni che svolgevano in precedenza senza aggravio di funzioni e responsabilità.
Da quanto sopra esposto consegue ad avviso del Collegio la responsabilità degli Amministratori e del Segretario comunale per la vicenda in esame, ricorrendo tutti i presupposti per una affermazione di responsabilità: il danno, il rapporto di servizio, il nesso causale, la colpa grave.
In particolare, per quanto attiene al Sindaco B. ed ai componenti della Giunta M., V., R., G. e T., il carattere gravemente colposo del loro comportamento emerge in maniera evidente dalla stessa sequenza degli atti adottati, diretti inequivocabilmente –come emerge dalla nota-denunzia del Comune 23.12.2009 n. 13675 e meglio da quelle successive 16.06.2011 n. 6191 e 24.06.2011 n. 4910– a liberare somme dal fondo di produttività, ponendole a carico del bilancio, con conseguente maggior onere complessivo per l’Ente, ciò che del resto risulta anche dagli atti indicati dalla Procura regionale nell’atto di citazione (cfr. pagg. 4 e 5).
Anche il comportamento del Segretario comunale M. è parimenti connotato da grave colpevolezza, in quanto, presente, tra l’altro, alla seduta dell’11.04.2006 nella quale è stata adottata la più volte richiamata deliberazione di Giunta n. 56, non risulta in alcun modo aver fatto rilevare le illegittimità della decisione in corso di adozione, ed il suo conseguente carattere dannoso, come invece sarebbe stato suo dovere, nell’ambito del rapporto di collaborazione con l’Organo politico i cui contenuti sono delineati dalla consolidata giurisprudenza della Corte dei conti.
Quanto alla sig.ra R.R., il Collegio rileva che –come posto in rilievo nell’atto di citazione– non solo nella sua qualità di Responsabile dell’Area amministrativa ed AA.GG. ha espresso il parere di regolarità tecnica in ordine alla predetta delibera 56 del 2006 ed ha adottato successivamente la determinazione 17.05.2006 n. 36, con cui è stata eseguita la delibera stessa, ma in precedenza in quanto componente della delegazione trattante di parte pubblica a più riprese aveva esaminato la questione della trasformazione in inquadramento giuridico dell’inquadramento economico D3. Anche nei suoi confronti, pertanto, il Collegio ritiene sussistente quella colpa grave che costituisce presupposto per l’affermazione della responsabilità (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 21.01.2014 n. 9).

APPALTI SERVIZI: Opere e servizi pubblici o di pubblico interesse - Contratti di partenariato pubblico privato - Spesa di indebitamento e spesa di investimento - Criteri Eurostat - Rischi concretamente assunti dalle parti - Sussistenza e contabilizzazione.
Nel contratto di partenariato pubblico privato almeno due dei tre rischi indicati dall’Eurostat devono essere “effettivamente” assunti dal privato.
Con la decisione in rassegna un sindaco pugliese ha chiesto alla Corte dei conti un parere avente a oggetto la possibilità di affidare, previa una regolare gara, l’intero servizio d’illuminazione pubblica e la relativa manutenzione della rete a un soggetto privato a fronte del pagamento di un canone annuale che il comune dovrebbe versare per dieci anni all’aggiudicatario e come debba essere contabilizzata tale operazione.
In base a quanto prospettato dall’amministrazione locale, risulterebbero a carico del vincitore della gara i costi immediati di ammodernamento degli impianti e tutte le spese per la manutenzione e l’erogazione del servizio di energia elettrica.
Il progetto esposto dall’ente locale potrebbe configurare a parere della Corte un’ipotesi di partenariato pubblico privato (“publicprivate partnership” od anche “Ppp”) riconducibile all’art. 3, comma 15-ter, del Dlgs n. 163/2006. In base a tale norma, alle operazioni di partenariato pubblico privato si applicano i contenuti delle decisioni Eurostat.
L’art. 14, comma 1, lett. c), del Dpr n. 207/2010 (Regolamento di esecuzione e attuazione del codice dei contratti pubblici) in ordine al ricorso ai Ppp prevede un apposito studio di fattibilità composto da una relazione illustrativa del progetto.
Il legislatore è intervenuto più volte nel corso degli ultimi anni sulle fattispecie contrattuali ascrivibili ai Ppp, sia per la possibilità di integrare le competenze del settore pubblico con quello privato, sia in considerazione delle ridotte risorse finanziarie a disposizione delle stazioni appaltanti.
Ai fini della riconduzione di una determinata operazione nell’alveo dei Ppp risulta necessario strutturare il contratto in modo tale che i rischi vengano allocati alla parte che sia meglio in grado di controllarli (cfr. Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, determinazione n. 4, del 22.05.2013).
Ai fini di tale esame occorre fare riferimento ai criteri contenuti nelle decisioni Eurostat e in particolare alla decisione “Treatment of publicprivate partnership” dell’11.02.2004, con la quale sono state fornite indicazioni specifiche per il trattamento nei conti economici nazionali per i Ppp.
Secondo la decisione dell’Eurostat
tali tipologie di partenariato devono essere caratterizzate da un rapporto contrattuale di lungo periodo tra pubblico e privato, avente a oggetto la costruzione di una nuova infrastruttura o la ristrutturazione di una già esistente. L’opera deve riguardare i settori in cui la pubblica amministrazione possiede un forte interesse pubblico, ovvero deve essere l’acquirente principale dei servizi. I beni oggetto di tali operazioni non devono essere registrati nei conti delle pubbliche amministrazioni ai fini del calcolo dell’indebitamento netto e del debito soltanto se vi è un sostanziale trasferimento di rischio dalla parte pubblica a quella privata, ovvero circostanza che si ha nel caso in cui il soggetto privato assuma il rischio di costruzione e almeno uno dei due rischi di disponibilità o di domanda.
Il rischio di disponibilità attiene alla fase operativa ed è connesso a una scadente o insufficiente gestione dell’opera pubblica a seguito della quale la qualità e/o quantità del servizio reso risultano inferiori ai livelli previsti nell’accordo contrattuale. Pertanto, affinché il rischio sia effettivamente trasferito sul privato è necessario che i pagamenti pubblici siano correlati all’effettivo ottenimento del servizio reso e la possibilità per il soggetto pubblico di ridurre i propri pagamenti nel caso in cui i parametri stabiliti ex ante non siano effettivamente raggiunti. La previsione di pagamenti costanti indipendentemente dal volume e dalla qualità dei servizi erogati implica, viceversa, un’assunzione di rischio di disponibilità da parte del soggetto pubblico.
Il rischio di domanda invece deve essere considerato come quello connesso alla variabilità della stessa, non dipendente dalla qualità del servizio prestato. Il rischio si considera assunto dal privato qualora i pagamenti pubblici siano correlati all’effettiva quantità domandata dall’utenza per un dato servizio, mentre è assunto dal soggetto pubblico nel caso di pagamenti garantiti anche per prestazioni non erogate. Tale è peraltro il rischio tipico delle “opere calde”, ovvero le opere o i servizi pubblici capaci di produrre flussi di cassa derivanti dal pagamento da parte di altri utenti di un canone o di una tariffa legati alla gestione economica della stessa opera.

La nuova versione del SEC ’95, pubblicata dall’Eurostat nell’ottobre del 2012, individua le differenti forme di finanziamento pubblico. Fra le stesse, qualora il costo del capitale è prevalentemente coperto dalla pubblica amministrazione (in misura superiore al 50 per cento) la maggioranza dei rischi è assunto dalla pubblica amministrazione e l’asset deve essere contabilizzato “on balance”.
Anche le garanzie, ove assicurino l’integrale copertura del debito o un rendimento certo del capitale investito dal privato e unitamente al contributo pubblico superino il 50 per cento del costo dell’opera, determinano la contabilizzazione dell’asset “on balance”, così come anche qualora si concordi un prezzo che l’amministrazione dovrà pagare alla scadenza del contratto superiore al valore di mercato, o inferiore perché la stessa ha già pagato ex ante per l’acquisizione.
Il trattamento contabile delle forme pure di Ppp consente quindi di non considerarle (almeno astrattamente) quali forme di indebitamento, anche se l’ampio margine lasciato all’autonomia negoziale può rendere difficoltoso profilare una ripartizione di rischi coerente con lo schema delineato nella decisione Eurostat e, pertanto, il corretto inquadramento di ciascuna di tali operazioni deve scaturire da una valutazione delle singole fattispecie (cfr. Corte dei conti, sez. riunite, deliberazione n. 6/2013 del 23 maggio, con cui è stato approvato il Rapporto 2013 sul coordinamento della finanza pubblica).
Tra le diverse forme di Ppp deve essere ricompreso anche l’appalto di servizi con finanziamento tramite terzi (Ftt) definito dall’art. 2, comma 1, lett. m), del Dlgs n. 115/2008, recante l’attuazione della direttiva 2006/32/Ce relativa all’efficienza degli usi finali dell’energia e i servizi energetici. La nozione di indebitamento può essere ricavata dalla legislazione vigente all’art. 3, comma 17, della legge n. 350/2003. La nozione di investimento è invece data dal successivo diciottesimo comma.
La Corte costituzionale ha precisato altresì che la nozione di spesa di investimento non può essere determinata a priori, e in modo assolutamente univoco, sulla base della sola disposizione costituzionale ma essa va desunta dai principi della scienza economica e dalle regole di contabilità.
Le definizioni di spesa di investimento e di indebitamento offerte dal legislatore derivano da scelte di politica economica e finanziaria effettuate in stretta correlazione con i vincoli di carattere sovrannazionale, cui anche l’Italia è assoggettata in forza dei Trattati europei e dei criteri politico-economici e tecnici adottati dall’Unione europea.
Poiché la normativa in materia di Ppp non prevede uno schema rigido e ben definito, secondo anche l’orientamento già espresso dalla stessa sezione della Corte dei conti con la delibera n. 66 del 31 maggio 2012,  il corretto inquadramento dell’operazione di Ppp, anche ai fini contabili di ciascuna operazione, non può che scaturire da un’attenta valutazione, caso per caso, delle singole fattispecie.
Gli enti pertanto nella redazione del capitolato prestazionale del bando di gara e delle conseguenti clausole contrattuali dovranno ben valutare le categorie di rischio onde fissare in maniera certa, trasparente e conforme ai criteri elaborati in sede europea la distribuzione dei rischi e dei rendimenti sottostanti il contratto di partenariato pubblico privato.
Secondo la decisione Eurostat, affinché l’operazione possa essere considerata “off balance” rispetto ai tre rischi di costruzione, di domanda e di disponibilità, almeno due (normalmente quelli di costruzione e di domanda negli interventi relativi alla realizzazione di opere pubbliche) devono pienamente sussistere a carico del privato in senso sostanziale e non solo formale.
Diversamente, l’operazione non ha realmente la natura di partenariato con utilizzo di risorse private ma, di fatto, rientra nella piena disponibilità e rischio dell’ente pubblico.
In assenza di tali condizioni quindi, l’operazione contrattuale non può essere considerata un Ppp e, dovendo essere inserita nel calcolo del disavanzo e del debito nazionale, analogamente deve essere qualificata come operazione di indebitamento dell’ente territoriale.
Ove non sussistano i requisiti sopra indicati, l’assunzione dell’obbligo del pagamento di un canone rientra quindi, a pieno titolo, nella nozione di indebitamento (cfr., sez. riunite, delib. n. 49/CONTR/2011 del 16.09.2011).
Qualora pertanto lo schema contrattuale possegga solo il nomen o gli aspetti meramente formali di un Ppp ma integri di fatto una vera e propria forma di finanziamento, il canone versato dall’ente locale dovrà essere allocato al titolo III, tra le spese per rimborso prestiti, per la quota afferente le opere di manutenzione straordinaria, mentre dovranno essere allocate al titolo I, tra la spesa corrente, le restanti quote del canone inerenti alla spesa per i consumi di energia elettrica e per manutenzione ordinaria.
L’ente dovrà altresì tenere conto del fatto che i contratti di servizi o gli altri aspetti posti in essere dalle regioni e dagli altri enti locali che si configurano elusivi del Patto di stabilità interno sono nulli (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 31.10.2013 n. 161 - commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 1/2014).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Enti locali - Limiti alle transazioni degli enti pubblici - Disponibilità dei diritti oggetto della transazione - Discrezionalità amministrativa - Necessità di reciproche concessioni ai fini della sussistenza di una transazione - Potere sanzionatorio e misure afflittive.
È escluso che possano concludersi accordi transattivi con la parte privata destinataria degli interventi sanzionatori dell’amministrazione.
La Corte dei conti, sez. reg. controllo per il Piemonte, ha avuto modo di evidenziare i limiti a cui gli enti pubblici devono attenersi qualora decidano di fare ricorso a una transazione nei rapporti con i privati.
La Corte ha preliminarmente respinto la richiesta di parere con la quale veniva richiesto da parte di un comune piemontese se poteva ritenersi legittima una transazione avente a oggetto la rinuncia parziale del credito vantato dall’ente nei confronti di un privato, derivante dall’applicazione di una sanzione per un abuso edilizio, ex art. 34, comma 2, Dpr n. 380/2001.
Invero, in base ai principi consolidati e più volte espressi dalla Corte dei conti, la richiesta di parere non può essere rivolta a ottenere indicazioni specifiche per l’attività gestionale concreta. Diversamente, l’attività consultiva si risolverebbe di fatto in una sorta di coamministrazione.
Tuttavia, pur dichiarando la richiesta di parere inammissibile la Corte piemontese, in un’ottica collaborativa, ha comunque evidenziato i limiti a cui gli enti pubblici devono attenersi ove decidano di effettuare una transazione. Partendo dalla premessa che, di norma, anche gli enti pubblici possono transigere le controversie delle quali siano parte, ex art. 1965 c.c., sono stati posti in luce i seguenti principi:
I) qualora una parte della transazione sia un ente pubblico, quest’ultimo oltre ai limiti previsti per ogni soggetto dell’ordinamento giuridico (legittimazione soggettiva e disponibilità dell’oggetto), soggiace anche agli specifici limiti derivanti dal diritto pubblico e, pertanto, i negozi giuridici conclusi con i privati non possono condizionare l’esercizio del potere della pubblica amministrazione sia rispetto all’interesse dell’intera comunità che alla tutela delle posizioni soggettive dei terzi, secondo il principio di imparzialità che deve caratterizzare l’azione amministrativa;
II) la scelta se proseguire un giudizio o addivenire a una transazione (e la concreta delimitazione del relativo oggetto) spetta all’amministrazione nell’ambito dello svolgimento della ordinaria attività amministrativa e, quale scelta discrezionale, non è soggetta al sindacato giurisdizionale, salvo i limiti della rispondenza della scelta ai criteri di razionalità, congruità, e prudente apprezzamento ai quali deve ispirarsi l’azione della pubblica amministrazione. Tra gli elementi che l’ente deve considerare alla base di tale scelta risulta di primaria importanza (ma non essenziale) la convenienza economica della transazione, in relazione all’incertezza del giudizio, ovvero in riferimento alla natura delle pretese, alla chiarezza della situazione normativa ed agli eventuali orientamenti giurisprudenziali;
III) ai fini dell’ammissibilità della transazione è necessaria l’esistenza di una controversia giuridica (e non di un mero conflitto economico) che sussiste quando vengano a contrapporsi pretese configgenti di cui non sia possibile a priori stabilire quale delle stesse sia giuridicamente fondata;
IV) la transazione è valida solo se ha a oggetto diritti disponibili ex art. 1966, comma 2, c.c., ovvero quando le parti hanno il potere di estinguere il diritto in forma negoziale. Diversamente, la stessa deve considerarsi nulla.

In riferimento allo specifico caso esposto dal comune piemontese, secondo la Corte il potere sanzionatorio dell’amministrazione e le misure afflittive che ne sono l’espressione, possono farsi rientrare nel novero delle potestà e dei diritti indisponibili, in relazione ai quali è escluso che possano concludersi accordi transattivi con la parte privata destinataria degli interventi sanzionatori (Cfr. sez. controllo Lombardia, parere n. 1116 del 18.12.2009) (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 26.09.2013 n. 344 - commento tratto da Diritto e Pratica Amministrativa n. 11-12/2013).

GIURISPRUDENZA

APPALTILa responsabilità precontrattuale prescinde dall’eventuale illegittimità del provvedimento amministrativo di autotutela che formalizza la volontà dell’Amministrazione di annullare o revocare gli atti di gara. La responsabilità precontrattuale non discende infatti dalla violazione delle norme di diritto pubblico che disciplinano l’agire autoritativo della pubblica amministrazione e dalla cui violazione discende l’illegittimità dell’atto.
Essa, al contrario, deriva dalla violazione delle regole comuni (in particolare del principio generale di buona fede in senso oggettivo dell’art. 1337 Cod. civ..) che trattano del “comportamento” precontrattuale, ponendo in capo alla pubblica amministrazione doveri di correttezza e di buona fede analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel corso delle trattative precontrattuali.
Invero, nello svolgimento della sua attività di ricerca del contraente l’Amministrazione è tenuta non soltanto a rispettare le norme dettate nell’interesse pubblico (la cui violazione implica l’annullamento del provvedimento ed una eventuale responsabilità da attività provvedimentale illegittima), ma anche le norme generali sulla correttezza di cui all’art. 1337 Cod. civ. prescritte dal diritto comune (la violazione delle quali fa nascere appunto la responsabilità precontrattuale).

Il Collegio condivide, a tale riguardo, il principio giurisprudenziale secondo il quale “la responsabilità precontrattuale prescinde dall’eventuale illegittimità del provvedimento amministrativo di autotutela che formalizza la volontà dell’Amministrazione di annullare o revocare gli atti di gara. La responsabilità precontrattuale non discende infatti dalla violazione delle norme di diritto pubblico che disciplinano l’agire autoritativo della pubblica amministrazione e dalla cui violazione discende l’illegittimità dell’atto. Essa, al contrario, deriva dalla violazione delle regole comuni (in particolare del principio generale di buona fede in senso oggettivo dell’art. 1337 Cod. civ..) che trattano del “comportamento” precontrattuale, ponendo in capo alla pubblica amministrazione doveri di correttezza e di buona fede analoghi a quelli che gravano su un comune soggetto nel corso delle trattative precontrattuali. Invero, nello svolgimento della sua attività di ricerca del contraente l’Amministrazione è tenuta non soltanto a rispettare le norme dettate nell’interesse pubblico (la cui violazione implica l’annullamento del provvedimento ed una eventuale responsabilità da attività provvedimentale illegittima), ma anche le norme generali sulla correttezza di cui all’art. 1337 Cod. civ. prescritte dal diritto comune (la violazione delle quali fa nascere appunto la responsabilità precontrattuale)” (cfr., in questi termini, Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 01.02.2013, n. 633, e Cons. Stato, Ad. Plen., 05.09.2005, n. 6) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 31.01.2014 n. 361 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I regolamenti edilizi comunali possono stabilire distanze tra edifici o dal confine, maggiori (e non minori) da quelle stabilite dal codice civile.
In tema di distanze legali fra edifici, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come la mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di "costruzione" le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. "aggettanti") che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
D'altra parte, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica.
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2. - La censura, nella sua duplice articolazione, risulta in parte inammissibile, in parte priva di fondamento.
2.1. - Deve, anzitutto, osservarsi, quanto al primo quesito, che esso risulta del tutto inconferente -e la relativa doglianza, di conseguenza, inammissibile- non trattandosi, nella specie, di porre in discussione in via generale l'applicabilità della normativa di cui al Regolamento Edilizio, ma, come esattamente rilevato nel controricorso, ove, appunto, viene sollevata eccezione di inammissibilità, di determinare il criterio applicativo dell'art. 873 cod. civ. alla luce dell'art. 101 del predetto Regolamento.
2.2. - La norma citata esclude l'obbligo di rispetto delle distanze per gli aggetti senza sovrastanti corpi chiusi, cioè, evidentemente, aggetti aventi funzione esclusivamente ornamentale.
Al riguardo, questa Corte ha chiarito che in tema di distanze legali fra edifici, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di rifinitura od accessoria di limitata entità, come la mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di "costruzione" le parti dell'edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. "aggettanti") che, seppure non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato.
D'altra parte, agli effetti di cui all'art. 873 cod. civ., la nozione di costruzione, che è stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell'art. 873 cod. civ. è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica (v. Cass., sent. n. 1556 del 2005).
Nella specie, la Corte di merito ha escluso, attraverso una indagine di fatto, che la terrazza costituisca un aggetto sottratto alla disciplina in materia di distanze, rilevando che essa è costituita da un piano di calpestio, da un parapetto in muratura e da una stabile copertura sovrastante, che concorrevano alla creazione di un volume, e che, quindi, essendo posta ad una distanza dal confine inferiore ai cinque metri, come rilevato in sede di c.t.u., è soggetta al rispetto delle distanze. Ne deriva la infondatezza della censura sotto il profilo dell'art. 873 cod.civ.
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 30.01.2014 n. 2094 - link a www.avvocatocassazionista.it).

EDILIZIA PRIVATAPer giurisprudenza costante, in considerazione della natura vincolata del potere di repressione degli abusi edilizi, l’omessa comunicazione di avvio del procedimento non invalida l’ordinanza di demolizione.
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La creazione di un deposito di materiali inerti in area agricola integra un abusivo mutamento della destinazione del terreno, comportando una trasformazione permanente del suolo inedificato, assoggettata a concessione edilizia

A questi fini va affermata l’infondatezza del ricorso per le seguenti ragioni:
- per giurisprudenza costante, in considerazione della natura vincolata del potere di repressione degli abusi edilizi, l’omessa comunicazione di avvio del procedimento non invalida l’ordinanza di demolizione (Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2008 , n. 4659; TAR Puglia Lecce, sez. III, 20.09.2008, n. 2651);
- la creazione di un deposito di materiali inerti in area agricola integra un abusivo mutamento della destinazione del terreno, comportando una trasformazione permanente del suolo inedificato, assoggettata a concessione edilizia (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.01.2014 n. 303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa mancata impugnazione del diniego di accesso nel termine di decadenza, anche in ipotesi di silenzio-rigetto della relativa istanza, non consente la reiterazione dell'istanza di ostensione e la conseguente impugnazione del diniego meramente confermativo del precedente.
L'eccezione di inammissibilità del ricorso è fondata.
Con l'istanza del 01.08.2013, il ricorrente ha reiterato la richiesta di accesso agli elaborati grafici relativi ad alcune pratiche edilizie intestate ad Augusta s.p.a. già formulata con le precedenti istanze del 22.11.2012, del 09.01.2013, del 12.03.2013 e del 21.05.2013, riscontrate dall’amministrazione, rispettivamente, con provvedimenti del 02.01.2012, del 16.01.2013, del 09.04.2013 e del 30.05.2013.
Come chiarito dalla giurisprudenza, la mancata impugnazione del diniego di accesso nel termine di decadenza, anche in ipotesi di silenzio-rigetto della relativa istanza, non consente la reiterazione dell'istanza di ostensione e la conseguente impugnazione del diniego meramente confermativo del precedente (Consiglio di Stato, Ad. Pl., n. 6 del 2006; Consiglio di Stato, sez. 4^, n. 3403 del 2011) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.01.2014 n. 300 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte urbanistiche compiute dall’autorità amministrativa costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che esse risultino inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, esse risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate.
Sicché, ritiene il Collegio che l’allocazione di un parcheggio su un’area prospiciente una via non particolarmente trafficata non costituisca, a differenza di quanto sostenuto dai ricorrenti, scelta palesemente irrazionale. Pertanto, non è condivisibile la doglianza che lamenta l’irrazionalità della localizzazione effettuata dal PGT.

Per costante giurisprudenza, le scelte urbanistiche compiute dall’autorità amministrativa costituiscono valutazioni di merito sottratte al sindacato giurisdizionale di legittimità, salvo che esse risultino inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, esse risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 25.11.2013 n. 5589).
Ritiene il Collegio che l’allocazione di un parcheggio su un’area prospiciente una via non particolarmente trafficata non costituisca, a differenza di quanto sostenuto dai ricorrenti, scelta palesemente irrazionale. Pertanto non è condivisibile la doglianza che lamenta l’irrazionalità della localizzazione effettuata dal PGT (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.01.2014 n. 292 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Campeggio, ‘casa mobile’ ancorabile al suolo se per un periodo provvisorio.
In un campeggio la struttura mobile agganciata al suolo deve ritenersi abusiva soltanto quando l’aggancio non è temporaneo.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.01.2014 n. 3572, annullando un’ordinanza del tribunale di Lucca che disponeva il sequestro preventivo di case mobili perché allacciate alle reti idriche, elettriche e fognarie.
La norma
Spiega la Corte che ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera e), n. 5), del Dpr n. 380 del 2001, <<il reato di costruzione edilizia abusiva è configurabile anche nell’ipotesi di installazione di case mobili aventi una destinazione duratura per soddisfare esigenze abitative>>.
L’assenza di fumus
Tuttavia <<l’ordinanza impugnata -si legge nella sentenza- non dà conto delle modalità di ancoraggio delle case mobili al suolo, omettendo, in particolare, di specificare se tale ancoraggio abbia carattere temporaneo>>. E questa è <<un’omissione decisiva ai fini della sussistenza del fumus del reato>>, perché la temporaneità dell’ancoraggio è espressamente ritenuta determinante dalla legge regionale della Toscana n. 42 del 2000.
In particolare, l’articolo 29, comma 2, prevede che <<è consentita, in non più del 40% delle piazzole di un campeggio … l’installazione di strutture temporaneamente ancorate al suolo per l’intero periodo di permanenza del campeggio nell’area autorizzata>>.
L’allacciamento alla rete non prova l’abusivismo
Mentre il fatto che le case mobili siano allacciate alle reti dei servizi non è di per sé sufficiente a ritenere configurabile il fumus dei reati contestati, <<perché tale allacciamento ben potrebbe avere anch’esso carattere temporaneo>>
(tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com).

EDILIZIA PRIVATA: Quanto all’ordine di demolizione conseguente –e contestuale- al rigetto dell’istanza di condono, secondo consolidata impostazione i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dal suddetto avviso, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime.
È poi stato precisato che la violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce un motivo idoneo a determinare l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato", sicché sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento impugnato.

Eguale sorte tocca al secondo mezzo, con cui i ricorrenti denunciano l’omessa comunicazione di avvio del procedimento.
Al riguardo si deve evidenziare, innanzitutto, che tale comunicazione on era necessaria in relazione alla natura del procedimento di condono, che inizia ad istanza di parte.
Peraltro, gli interessati hanno potuto interloquire con l’Amministrazione a seguito del preavviso di diniego loro indirizzato ai sensi dell’art. 10-bis L. 241/1990, cui essi hanno contro dedotto con nota del 16.06.2010, di cui dà atto, non smentito, l’atto impugnato.
Quanto all’ordine di demolizione conseguente –e contestuale- al rigetto dell’istanza di condono, secondo consolidata impostazione i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dal suddetto avviso, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime (Cons. Stato, sez. IV, 30.03.2000, n. 1814; TAR Campania, sez. IV, 28.03.2001, n. 1404, 14.06.2002, n. 3499, 12.02.2003, n. 797).
È poi stato precisato che la violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce un motivo idoneo a determinare l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato", sicché sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241 del 1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento impugnato (Consiglio di stato, sez. IV, 15.05.2009, n. 3029) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 24.01.2014 n. 629 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di legittimazione all'impugnazione di permesso di costruire si ritiene necessaria e sufficiente, come posizione legittimante, la vicinitas, ossia la dimostrazione di uno stabile collegamento materiale con la zona coinvolta da un intervento edilizio in capo al proprietario confinante.
Preliminarmente, va respinta l’eccezione –opposta dalla contro interessata– di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse: i ricorrenti sono soggetti che risiedono nelle immediate vicinanze del parcheggio da costruire, e pertanto sono senz’altro legittimati ad impugnare il permesso di costruire medesimo.
Come ritenuto da costante giurisprudenza, “In materia di legittimazione all'impugnazione di permesso di costruire si ritiene necessaria e sufficiente, come posizione legittimante, la vicinitas, ossia la dimostrazione di uno stabile collegamento materiale con la zona coinvolta da un intervento edilizio in capo al proprietario confinante” (CdS, sez. IV, n. 3543/2013, tra le tante) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 24.01.2014 n. 628 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il provvedimento amministrativo ha natura confermativa quando, senza acquisizione di nuovi elementi di fatto e senza alcuna nuova valutazione, tiene ferme le statuizioni in precedenza adottate; viceversa, se viene condotta un'ulteriore istruttoria, anche per la sola verifica dei fatti o con un nuovo apprezzamento di essi, il mantenimento dell'assetto degli interessi già disposto ha carattere di nuovo provvedimento, poiché esprime un diverso esercizio del medesimo potere.
E’ dunque necessario, affinché possa escludersi che un atto sia meramente confermativo del precedente, che la sua formulazione sia preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco ed un nuovo esame degli elementi di fatto e diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dar luogo ad un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dar vita ad un provvedimento diverso dal precedente e, quindi, suscettibile di autonoma impugnazione.

In limine, si rammenta che il provvedimento amministrativo ha natura confermativa quando, senza acquisizione di nuovi elementi di fatto e senza alcuna nuova valutazione, tiene ferme le statuizioni in precedenza adottate; viceversa, se viene condotta un'ulteriore istruttoria, anche per la sola verifica dei fatti o con un nuovo apprezzamento di essi, il mantenimento dell'assetto degli interessi già disposto ha carattere di nuovo provvedimento, poiché esprime un diverso esercizio del medesimo potere.
E’ dunque necessario, affinché possa escludersi che un atto sia meramente confermativo del precedente, che la sua formulazione sia preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco ed un nuovo esame degli elementi di fatto e diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dar luogo ad un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dar vita ad un provvedimento diverso dal precedente e, quindi, suscettibile di autonoma impugnazione (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 29.12.2009 n. 8853) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 24.01.2014 n. 617 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una veranda, chiusa sui lati, costituisce una trasformazione urbanistico-edilizia del preesistente manufatto idonea a creare nuovo volume e perciò richiede il preventivo rilascio del permesso di costruire.
Il Tribunale osserva, in contrario, che l’assenza del duplice titolo, edilizio e paesistico, necessario per l’edificazione in area vincolata, come, appunto, è l’area interessata dall’intervento edilizio de quo (cfr. motivazione dell’atto impugnato ove si richiama il d.m. 15.12.1959 in G.U. 06.05.1960 n. 110, che ha dichiarato l’area di notevole interesse pubblico, e il d.lgs. 22.01.2004 n. 42) costituisce presupposto bastevole a reggere, sul piano motivazionale, l’atto impugnato: l’intervento edilizio in contestazione ha, infatti, determinato una immutatio loci in un territorio protetto, non consentita –si ribadisce- senza il concorso del titolo autorizzativo edilizio e di quello paesistico.
In particolare, per quanto attiene alla tipologia edilizia in esame, riconducibile ad un volume verandato sul terrazzo di copertura di un preesistente edificio, è costante l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “la realizzazione di una veranda, chiusa sui lati, costituisce una trasformazione urbanistico-edilizia del preesistente manufatto idonea a creare nuovo volume e perciò richiede il preventivo rilascio del permesso di costruire” (ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 22.08.2013, n. 4132; si vedano anche TAR Campania, Napoli, sez. VI, nn. 1228/2012, 5223/2013, 5535/2013)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2014 n. 611 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per costante orientamento:
- in primo luogo, l'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutte le attività urbanistico-edilizie del territorio, ivi comprese quelle riguardanti immobili sottoposti a vincolo storico-artistico;
- in secondo luogo, «presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi»;
- in terzo luogo, gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario;
- in ultimo, l’avvenuta presentazione, in data successiva all’ordinanza di demolizione, dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001, quest’ultima non determina l’effetto sospensivo del procedimento sanzionatorio, previsto espressamente dal legislatore solo in caso di presentazione della domanda di sanatoria edilizia straordinaria (cd. condono, ex art. 44 l. 47/1985, norma richiamata dalla l. n. 724/1994 e l. n. 32672003), e non dispiega alcuna rilevanza ai fini dello scrutinio di legittimità del provvedimento demolitorio.

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Alla stregua del proprio costante orientamento, il Tribunale osserva:
- in primo luogo, che l'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutte le attività urbanistico-edilizie del territorio, ivi comprese quelle riguardanti immobili sottoposti a vincolo storico-artistico;
- in secondo luogo, che «presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi» (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.09.2012 n. 3951);
- in terzo luogo, che neppure è fondata la censura inerente l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento: gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario (cfr. ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 23.02.2011 n. 1048);
- in ultimo, in relazione all’avvenuta presentazione il 30.06.2009, in data successiva all’ordinanza di demolizione, dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001, che quest’ultima non determina l’effetto sospensivo del procedimento sanzionatorio, previsto espressamente dal legislatore solo in caso di presentazione della domanda di sanatoria edilizia straordinaria (cd. condono, ex art. 44 l. 47/1985, norma richiamata dalla l. n. 724/1994 e l. n. 32672003), e non dispiega alcuna rilevanza ai fini dello scrutinio di legittimità del provvedimento demolitorio, ciò non senza evidenziare altresì che, allo stato degli atti, sull’istanza in parola dovrebbe essersi formato il silenzio rigetto di cui all’art. 13 l. 47/1985 (ora art. 36 D.P.R. n. 380/2001) e non risulta esservi stata la relativa impugnazione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2014 n. 611 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto espresso o tacito, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario tanto che l’eventuale impugnazione proposta avverso quest’ultimo atto diverrebbe improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse perché l’interesse del responsabile dell’abuso edilizio si sposta, dall’annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato e divenuto inefficace, all’annullamento dell’eventuale provvedimento di rigetto della domanda di sanatoria e degli eventuali ulteriori provvedimenti sanzionatori, che dovranno essere comunque adottati anche a seguito della formazione del silenzio rigetto.
... per l'annullamento del provvedimento del 09.07.2013 prot. n. 8513 avente ad oggetto: accertamento inottemperanza all'ordinanza n. 18/2012 relativa al ripristino dello stato dei luoghi adottata ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 - acquisizione delle opere e dell'area pertinenziale sita in Amorosi alla via Fontanelle;
...
Considerato che il ricorso è fondato per le ragioni di seguito illustrate:
- ai sensi dell’art. 74 cod. proc. amm. il punto di diritto risolutivo del giudizio attiene alla insussistenza dei presupposti di legge affinché l’intimata amministrazione locale potesse legittimamente procedere all’acquisizione gratuita dell’opera abusiva ai sensi dell’art. 31 terzo comma del D.P.R. 380/2001 che, come noto, consistono nella mancata esecuzione di una ordinanza di demolizione valida ed efficace, oltre che al decorso del termine di 90 giorni per la relativa esecuzione;
- ciò in quanto, nella fattispecie in scrutinio, la presentazione ad opera del ricorrente della domanda di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 relativamente alle opere abusive determina la sopravvenuta inefficacia dell’ordinanza demolitoria: ne consegue altresì che, sotto il profilo processuale, non rileva l’omessa impugnazione dell’atto sanzionatorio il quale, siccome inefficace, si appalesa inidoneo a reggere la sequela procedimentale che è culminata nell’adozione del gravato provvedimento acquisitivo;
- formatosi il provvedimento tacito di diniego conseguente al decorso del termine di 60 giorni di cui al terzo comma dell’art. 36 in assenza di statuizione espressa dell’amministrazione, quest’ultima avrebbe dovuto rieditare il procedimento sanzionatorio ed adottare una nuova ingiunzione demolitoria assegnando al privato un nuovo termine per adempiere;
- difatti, secondo condivisibile orientamento giurisprudenziale da cui la Sezione non ritiene di discostarsi (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 02.10.2006 n. 8424; Sez. VI, 12 novembre 2008 n. 5646; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 23 febbraio 2011 n. 1041 e 22 marzo 2011 n. 1622; Sez. VII, 8 marzo 2012 n. 1202; 20 novembre 2007, n. 14442; Sez. IV 2 ottobre 2006, n. 8424 e 26 luglio 2007 n. 7071; Sez. III, 30 aprile 2009 n. 2252) il riesame dell’abusività dell’opera provocato dall’istanza di sanatoria ex art. 36 D.P.R. 380/2001 determina la necessaria formazione di un nuovo provvedimento, di accoglimento o di rigetto espresso o tacito, che vale comunque a rendere inefficace il provvedimento sanzionatorio originario tanto che l’eventuale impugnazione proposta avverso quest’ultimo atto (che nel caso specifico non è stata proposta) diverrebbe improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse perché l’interesse del responsabile dell’abuso edilizio si sposta, dall’annullamento del provvedimento sanzionatorio già adottato e divenuto inefficace, all’annullamento dell’eventuale provvedimento di rigetto della domanda di sanatoria e degli eventuali ulteriori provvedimenti sanzionatori, che dovranno essere comunque adottati anche a seguito della formazione del silenzio rigetto.
Le considerazioni svolte conducono, con assorbimento delle ulteriori doglianze, all’accoglimento del gravame con conseguente annullamento del provvedimento impugnato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 24.01.2014 n. 608 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini paesistici il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini della tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume.
La nozione di volume rilevante ai fini paesaggistici non distingue, infatti, secondo l’indirizzo interpretativo richiamato, tra volumi esterni e volumi interrati, essendo anche questi ultimi idonei a determinare una modificazione del territorio e dell'assetto edilizio esistente, posto che lo stesso volume che a fini edilizi, per le sue caratteristiche, potrebbe non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili, ad esempio perché ritenuto volume tecnico, ai fini paesaggistici può assumere una diversa rilevanza, laddove si ritenga che determini una possibile alterazione dello stato dei luoghi salvaguardato dalle apposite norme di tutela, le quali, al preordinato fine di conservare la sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali, ben possono vietare anche la realizzazione di un volume edilizio tecnico od interrato, quand'anche irrilevanti secondo le norme che regolano l'attività edilizia.
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Quanto alla lamentata disparità di trattamento di trattamento rispetto ad altri interventi edilizi analoghi assentiti dall’Amministrazione, il Tribunale rileva che la valutazione del rilievo paesistico dell’opera va condotta dall’autorità tutoria caso per caso, in considerazione della consistenza e dell’ubicazione del singolo intervento da assentire (cfr. in tal senso Cons. Stato n. 3557/2009: “non può tradursi in vizio di legittimità del provvedimento di annullamento di un'autorizzazione paesistica, la presenza, nell'area interessata dall'intervento edilizio, di altre costruzioni asseritamene omogenee a quella da assentire, sia perché ogni manufatto è diverso per consistenza, ubicazione, periodo di realizzazione, sia perché un pregresso comportamento illegittimo dell'amministrazione non può valere a sanare un'ulteriore illegittimità”).

... per l'annullamento del decreto della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per Napoli e Provincia del 16.04.2009, spedito per la notifica in data 27.04.2009, con il quale è stato disposto l'annullamento del provvedimento del Dirigente del Settore VI Urbanistica ed Edilizia Privata del Comune di Capri n. 12 del 18.02.2009;
...
Il Tribunale osserva in contrario, richiamandosi all’orientamento giurisprudenziale prevalente, che, ai fini paesistici il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini della tutela del paesaggio, preclude qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume.
La nozione di volume rilevante ai fini paesaggistici non distingue, infatti, secondo l’indirizzo interpretativo richiamato, tra volumi esterni e volumi interrati, essendo anche questi ultimi idonei a determinare una modificazione del territorio e dell'assetto edilizio esistente, posto che lo stesso volume che a fini edilizi, per le sue caratteristiche, potrebbe non essere considerato rilevante e non essere oggetto di computo fra le volumetrie assentibili, ad esempio perché ritenuto volume tecnico, ai fini paesaggistici può assumere una diversa rilevanza, laddove si ritenga che determini una possibile alterazione dello stato dei luoghi salvaguardato dalle apposite norme di tutela, le quali, al preordinato fine di conservare la sostanziale integrità di determinati ambiti territoriali, ben possono vietare anche la realizzazione di un volume edilizio tecnico od interrato, quand'anche irrilevanti secondo le norme che regolano l'attività edilizia (in tal senso cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 21.12.2012, n. 5336; Id., VI, 23.10.2012, n. 4202; Id, IV, 29.05.2012 n.2529; cfr. anche Cons. St., sez. IV, 28.03.2011 n. 1879; Tar Campania, Salerno, sez. I, 11.10.2011 n. 1642).
Quanto, poi, alla lamentata disparità di trattamento di trattamento rispetto ad altri interventi edilizi analoghi assentiti dall’Amministrazione, il Tribunale rileva che la valutazione del rilievo paesistico dell’opera va condotta dall’autorità tutoria caso per caso, in considerazione della consistenza e dell’ubicazione del singolo intervento da assentire (cfr. in tal senso Cons. Stato, sez. VI, 09.06.2009 n. 3557: “non può tradursi in vizio di legittimità del provvedimento di annullamento di un'autorizzazione paesistica, la presenza, nell'area interessata dall'intervento edilizio, di altre costruzioni asseritamene omogenee a quella da assentire, sia perché ogni manufatto è diverso per consistenza, ubicazione, periodo di realizzazione, sia perché un pregresso comportamento illegittimo dell'amministrazione non può valere a sanare un'ulteriore illegittimità”) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2014 n. 607 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo favore della disposizione oggi contenuta nell'art. 34 comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo (con la precisazione che l'applicazione della sanzione pecuniaria è innescata da un'istanza presentata a tal fine dall'interessato e non già da una verifica tecnica di cui la parte pubblica non può venire ragionevolmente gravata, essendo proprio la parte privata, autrice dell'opera e del progetto, ad essere a conoscenza di come esso è stato eseguito e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito di demolizione, in pregiudizio della parte conforme).
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Alla stregua del proprio consolidato orientamento dal quale non vi è motivo di discostarsi, va ribadito:
- in primo luogo, che «l'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutte le attività urbanistico-edilizie del territorio, ivi comprese quelle riguardanti immobili sottoposti a vincolo storico-artistico
»;
- in secondo luogo, che «presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi»;
- in terzo luogo, che gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario;
Infine, in relazione all’omessa considerazione dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001, va osservato che quest’ultima non determina l’effetto sospensivo del procedimento sanzionatorio, previsto espressamente dal legislatore esclusivamente in caso di presentazione della domanda di condono (art. 44 l. 47/1985, norma richiamata dalla l. n. 724/1994 e l. n. 32672003), e non dispiega alcuna rilevanza ai fini dello scrutinio di legittimità del provvedimento demolitorio, ciò non senza evidenziare altresì che, allo stato degli atti, sull’istanza in parola dovrebbe essersi formato il silenzio rigetto di cui all’art. 13 l. 47/1985 (ora art. 36 D.P.R. n. 380/2001) e non risulta esservi stata la relativa impugnazione.

E' noto -e costituisce jus receptum nella giurisprudenza amministrativa- che la mera constatazione di opere edilizie poste in essere in difetto del prescritto atto autorizzativo costituisce presupposto sufficiente per l’emanazione del provvedimento sanzionatorio il quale, nel caso di specie, versandosi in ipotesi di nuovi volumi e superfici in area territoriale vincolata, non avrebbe potuto che essere –diversamente da quanto opinato dalla difesa di parte ricorrente che invoca l’irrogazione della sanzione pecuniaria– che l’ordine di demolizione e/o di riduzione in pristino.
In tal senso è, del resto, univocamente orientata la giurisprudenza di questo Tribunale: “il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione a suo favore della disposizione oggi contenuta nell'art. 34 comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001 se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo (con la precisazione che l'applicazione della sanzione pecuniaria è innescata da un'istanza presentata a tal fine dall'interessato e non già da una verifica tecnica di cui la parte pubblica non può venire ragionevolmente gravata, essendo proprio la parte privata, autrice dell'opera e del progetto, ad essere a conoscenza di come esso è stato eseguito e di quali danni potrebbero prodursi, a seguito di demolizione, in pregiudizio della parte conforme)” (TAR Campania, Napoli, sez. II, 22.11.2013, n.5317).
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Alla stregua del proprio consolidato orientamento dal quale non vi è motivo di discostarsi, va ribadito:
- in primo luogo, che «l'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001 riconosce all'Amministrazione Comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutte le attività urbanistico-edilizie del territorio, ivi comprese quelle riguardanti immobili sottoposti a vincolo storico-artistico
»;
- in secondo luogo, che «presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l'accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi» (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VI, 26.09.2012 n. 3951);
- in terzo luogo, neppure è fondata la censura inerente l’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento: gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata (essendo dovuti a cagione dell’insussistenza del titolo per l’avvenuta trasformazione del territorio), con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario (cfr. ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 23.02.2011 n. 1048);
- in quarto luogo, va evidenziato che nessun rilievo può assumere, nello scrutinio di legittimità dell’atto impugnato, il mancato richiamo alla memoria presentata in data anteriore (22.05.2006) all’emanazione della sanzione demolitoria (27.07.2006), attesa la non concludenza degli argomenti rispetto alla imperiosa necessità di reprimere la situazione antigiuridica determinatasi a seguito dell’intervento abusivo posto in essere da parte ricorrente (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 17.12.2007 n.16283).
Infine, in relazione all’omessa considerazione dell’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 D.P.R. n. 380/2001, presentata in data 21.07.2006, va osservato che quest’ultima non determina l’effetto sospensivo del procedimento sanzionatorio, previsto espressamente dal legislatore esclusivamente in caso di presentazione della domanda di condono (art. 44 l. 47/1985, norma richiamata dalla l. n. 724/1994 e l. n. 32672003), e non dispiega alcuna rilevanza ai fini dello scrutinio di legittimità del provvedimento demolitorio, ciò non senza evidenziare altresì che, allo stato degli atti, sull’istanza in parola dovrebbe essersi formato il silenzio rigetto di cui all’art. 13 l. 47/1985 (ora art. 36 D.P.R. n. 380/2001) e non risulta esservi stata la relativa impugnazione
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 24.01.2014 n. 606 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il decorso del tempo, oltre a produrre effetti che l’ordinamento riconosce e consacra dando vita a istituti ampiamente disciplinati in ogni settore del diritto, ivi compreso l’ordinamento amministrativo dello Stato, determina l’esigenza di rafforzare l’impalcatura motivazionale di un provvedimento di natura repressiva perché esige l’efficace rappresentazione del rinnovato interesse dell’amministrazione procedente a rimuovere situazione antigiuridiche.
Nel caso in esame l’ordine demolitorio è intervenuto a notevole distanza di tempo dalla costruzione del fabbricato (circa 50 anni), quindi in una situazione di consolidato affidamento del privato sulla legittimità del proprio operato, e si regge esclusivamente sul richiamo al carattere abusivo del manufatto senza che l’amministrazione abbia dato compiutamente conto delle ragioni di pubblico interesse che depongono per il ripristino dello stato dei luoghi nonché per il sacrificio della posizione giuridica soggettiva e dell’affidamento del deducente.

... per l'annullamento dell’ordinanza di demolizione n. 34 del 01.07.2013 emessa dal Comune di San Prisco.
...
Considerato che il gravame è fondato per le ragioni di seguito illustrate:
- ha pregio la censura che attiene alla violazione dell’art. 21-nonies della L. 07.08.1990 n. 241 e del principio del legittimo affidamento, avendo l’amministrazione proceduto ad intimare la demolizione del manufatto eseguito prima del 1967 (come indicato nel provvedimento demolitorio) senza tenere conto del notevole lasso di tempo trascorso dalla sua realizzazione;
- in proposito, si rammenta che il decorso del tempo, oltre a produrre effetti che l’ordinamento riconosce e consacra dando vita a istituti ampiamente disciplinati in ogni settore del diritto, ivi compreso l’ordinamento amministrativo dello Stato, determina l’esigenza di rafforzare l’impalcatura motivazionale di un provvedimento di natura repressiva perché esige l’efficace rappresentazione del rinnovato interesse dell’amministrazione procedente a rimuovere situazione antigiuridiche;
- nel caso in esame l’ordine demolitorio è intervenuto a notevole distanza di tempo dalla costruzione del fabbricato (circa 50 anni), quindi in una situazione di consolidato affidamento del privato sulla legittimità del proprio operato, e si regge esclusivamente sul richiamo al carattere abusivo del manufatto senza che l’amministrazione abbia dato compiutamente conto delle ragioni di pubblico interesse che depongono per il ripristino dello stato dei luoghi nonché per il sacrificio della posizione giuridica soggettiva e dell’affidamento del deducente;
- coglie altresì nel segno il profilo di illegittimità di eccesso di potere per contraddittorietà dell’azione amministrativa, dal momento che lo stesso Comune ha in passato rilasciato titoli abilitativi concernenti il medesimo stabile di cui, con l’atto impugnato, viene contestata l’abusiva realizzazione (concessione n. 33 del 22.09.1988 e n. 9 del 28.02.1990 per modifica di destinazione d’uso; concessione n. 8 del 18.02.2000 per lavori di ristrutturazione di un locale deposito, cambio di destinazione d’uso e costruzione di un sottotetto sovrastante).
Conclusivamente, ribadite le svolte considerazioni e con assorbimento degli ulteriori motivi di diritto, il ricorso deve essere accolto con conseguente annullamento del provvedimento impugnato e condanna del Comune al pagamento delle spese processuali nella misura indicata in dispositivo (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 24.01.2014 n. 603 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’organo statale “non esprime un giudizio di merito sovrapponendo il proprio giudizio di compatibilità paesaggistica a quello dell’amministrazione competente nel caso in cui rilevi che l’Autorità amministrativa che ha emesso il nulla osta od il parere non abbia esternato alcuna congrua motivazione dalla quale evincere le ragioni che la inducevano a concludere per la compatibilità dei manufatti realizzati con il vincolo paesaggistico”, e, soprattutto, “ben può disporre l’annullamento ove indichi la disposizione normativa che si frappone in via assoluta, diretta ed immediata, alla realizzazione dell’intervento e che, quindi, è stata violata”.
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La prevalente e condivisa giurisprudenza ha avuto modo di negare l’applicabilità dell’art. 10-bis calendato al procedimento statale di verifica della legittimità dell'autorizzazione paesaggistica comunale, dal momento che la relativa comunicazione deve avere ad oggetto “i motivi che ostano all'accoglimento della domanda”, laddove la funzione del potere di cui costituisce (costituiva ratione temporis, vigente il regime transitorio di cui all’art. 159 del T.U. del 2004, nel cui ambito si è esaurita la vicenda qui data) espressione il decreto di annullamento di un'autorizzazione paesaggistica, siccome riconducibile alla tipologia dei procedimenti di secondo grado, non è (era) quella di verificare la sussistenza dei presupposti legittimanti il rilascio del provvedimento favorevole, ma quella di scrutinare la legittimità dell'autorizzazione rilasciata dall'amministrazione comunale e di adottare, al suo esito, un provvedimento vincolato entro un termine di decadenza, nel mentre “la disposizione di cui all'art. 10-bis l. 241 del 1990 è applicabile a procedimento ad istanza di parte in cui l'esercizio del potere non è sottoposto a termini di decadenza“.
In definitiva, “la legge prevede il preavviso solo nei procedimenti ad istanza di parte e non trova applicazione per la sequenza di secondo grado di cui qui trattasi che è avviata d'ufficio e che, pur configurando un secondo tratto di un'unica vicenda amministrativa di cogestione del vincolo, segue la cesura procedimentale del già avvenuto rilascio del provvedimento di base che conclude la fase ad istanza di parte”.

Il secondo mezzo di impugnazione va respinto facendosi applicazione del condiviso principio giurisprudenziale secondo cui l’organo statale “non esprime un giudizio di merito sovrapponendo il proprio giudizio di compatibilità paesaggistica a quello dell’amministrazione competente nel caso in cui rilevi che l’Autorità amministrativa che ha emesso il nulla osta od il parere non abbia esternato alcuna congrua motivazione dalla quale evincere le ragioni che la inducevano a concludere per la compatibilità dei manufatti realizzati con il vincolo paesaggistico”, e, soprattutto, che “ben può disporre l’annullamento ove indichi la disposizione normativa che si frappone in via assoluta, diretta ed immediata, alla realizzazione dell’intervento e che, quindi, è stata violata” (cfr., ex multis, Cons. Stato, sezione quarta, sentenze 04.05.2011, n. 2664, sezione sesta, 08.06.2010, n. 3643; Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione, sentenze n. 4202 del 23.10.2012, n. 330 del 24.01.2012, n. 28 del 10.01.2012, n. 3190 del 16.06.2011, n. 1341 del 08.03.2011, sezione quarta, 22.11.2010, n. 25589, sezione settima, 19.02.2009, n. 978 e 06.08.2008, n. 9860).
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Respinto deve essere infine il terzo ed ultimo mezzo da vagliare, volto a denunciare la violazione dell’art. 10-bis della l. 241 del 1990.
Ed invero, la prevalente e condivisa giurisprudenza ha avuto modo di negare l’applicabilità dell’art. 10-bis calendato al procedimento statale di verifica della legittimità dell'autorizzazione paesaggistica comunale, dal momento che la relativa comunicazione deve avere ad oggetto “i motivi che ostano all'accoglimento della domanda”, laddove la funzione del potere di cui costituisce (costituiva ratione temporis, vigente il regime transitorio di cui all’art. 159 del T.U. del 2004, nel cui ambito si è esaurita la vicenda qui data) espressione il decreto di annullamento di un'autorizzazione paesaggistica, siccome riconducibile alla tipologia dei procedimenti di secondo grado, non è (era) quella di verificare la sussistenza dei presupposti legittimanti il rilascio del provvedimento favorevole, ma quella di scrutinare la legittimità dell'autorizzazione rilasciata dall'amministrazione comunale (Cons. Stato, sez. sesta, 13.05.2010, n. 2949 e 07.04.2010, n. 1971; Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione, 23.10.2012, n. 4202, sezione quarta, 22.11.2010, n. 25589, sez. settima, 14.01.2011, n. 132 e 26.02.2010, n. 1169; Salerno, sez. seconda, 08.07.2010, n. 10165) e di adottare, al suo esito, un provvedimento vincolato entro un termine di decadenza, nel mentre “la disposizione di cui all'art. 10-bis l. 241 del 1990 è applicabile a procedimento ad istanza di parte in cui l'esercizio del potere non è sottoposto a termini di decadenza“ (così, sempre nelle fattispecie di cui anche qui trattasi, Cons. Stato, sez. sesta, 06.07.2010, n. 4307 e Tar Campania, Napoli, questa sesta sezione, 23.10.2012, n. 4202, cit.).
In definitiva, “la legge prevede il preavviso solo nei procedimenti ad istanza di parte e non trova applicazione per la sequenza di secondo grado di cui qui trattasi che è avviata d'ufficio e che, pur configurando un secondo tratto di un'unica vicenda amministrativa di cogestione del vincolo, segue la cesura procedimentale del già avvenuto rilascio del provvedimento di base che conclude la fase ad istanza di parte” (così ancora, ex multis, fra le ultime, Cons. Stato sezione sesta, 20.12.2011, n. 6725 e 21.09.2011, n. 5293; Tar Campania, questa sesta sezione, n. 2943 del 21.06.2012; Tar Puglia, Lecce, sezione prima, 14.12.2011, n. 2082; Tar Campania, Salerno, seconda sezione, 08.07.2010, n. 10165).
Né A diversa conclusione potrebbe pervenirsi facendosi leva sulla previsione dell’art. 146, comma 8, del d.l.vo 42 del 2004, come modificato dall’art. 4, comma 16, lettera e, numero 5, del d. l. 13.05.2011, integrato dalla relativa legge di conversione, ovvero sull’avvenuta introduzione ex lege dell’obbligo per le Soprintendenze di comunicare il preavviso di provvedimento negativo.
Al riguardo è sufficiente osservare come detta previsione, oltre che sopravvenuta ai fatti di causa in quanto introdotta nell’ordinamento dall’art. 4, comma 16, n. 15, della legge 12.07.2011, n. 106, recante la conversione in legge del d.l. 13.05.2011, n. 70, afferisca al procedimento a regime, ben diverso da quello transitorio previgente di cui all’art. 159 del Codice, sotto il quale, come ripetuto, ricade la fattispecie qui data che vede(va) invece la presenza delle due fasi (di rilascio dell’autorizzazione e di controllo) ed è (detta previsione) tesa “a render più agile l’iter procedimentale dettato dall’art. 146 in commento, eliminando il passaggio intermedio a cura della diversa amministrazione (sia pur) co-decidente: non avente ragion d’essere soprattutto in presenza della (perdurante) natura vincolante del parere soprintendizio” (cfr., amplius sul punto, Tar Campania, questa sesta sezione, sentenza n. 1770 del 18.04.2012).
A ciò aggiungendosi che, come fin qui fatto palese, all’accoglimento della denuncia si sarebbe comunque frapposta la concreta situazione in cui qui si verte che, stante l’assenza di margini di discrezionalità, avrebbe in ogni caso imposto di fare applicazione dell’art. 21-octies della stessa legge 241 del 1990 (cfr., da ultimo, in situazione assimilabile a quella qui data, Cons. Stato, sezione sesta, sentenza 17.09.2012, n. 4925)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2014 n. 596 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Al di là del nomen iuris contenuto nel provvedimento, si controverte di un annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies della L. 241/1990 (e non di una revoca disposta ai sensi dell’art. 21-quinquies) giacché, come si è visto, esso si fonda sulla erronea rappresentazione grafica del locale deposito e sul conseguente vizio di legittimità procedimentale che ne è derivato.
La giurisprudenza amministrativa ha enucleato i principi che governano l'esercizio del potere di auto-annullamento dei titoli edilizi confluiti nell'art. 21-nonies della L. 241/1990.
Con specifico riferimento all’interesse pubblico, si è osservato che l'ambito della motivazione esigibile va calibrato in rapporto al vizio che inficia il titolo abilitativo dovendosi tenere conto, tra l’altro, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono (ambiente, paesaggio, salute, sicurezza, beni storici e culturali) che quasi sempre sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti dei privati e della eventuale negligenza o della malafede del privato che ha indotto in errore l'amministrazione o ha approfittato di un suo errore, ad esempio rappresentando in modo erroneo la situazione di fatto in base alla quale è stato rilasciato il titolo o sono stati individuati i legittimati attivi.

Con la terza ed ultima censura parte ricorrente svolge due articolate doglianze che attengono, rispettivamente, all’omessa specificazione dell’interesse pubblico dell’atto di autotutela e all’eccesso di potere per irragionevolezza dell’azione amministrativa.
Quanto al primo rilievo occorre previamente precisare che, al di là del nomen iuris contenuto nel provvedimento, si controverte di un annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies della L. 241/1990 (e non di una revoca disposta ai sensi dell’art. 21-quinquies) giacché, come si è visto, esso si fonda sulla erronea rappresentazione grafica del locale deposito e sul conseguente vizio di legittimità procedimentale che ne è derivato.
La giurisprudenza amministrativa ha enucleato i principi che governano l'esercizio del potere di auto-annullamento dei titoli edilizi confluiti nell'art. 21-nonies della L. 241/1990 (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.11.2010 n. 8291, 21.12.2009 n. 8529, Sez. V, 06.12.2007 n. 6252; 12.11.2003 n. 7218; 24.09.2003 n. 5445; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 06.06.2012 n. 2668).
Con specifico riferimento all’interesse pubblico, si è osservato che l'ambito della motivazione esigibile va calibrato in rapporto al vizio che inficia il titolo abilitativo dovendosi tenere conto, tra l’altro, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono (ambiente, paesaggio, salute, sicurezza, beni storici e culturali) che quasi sempre sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti dei privati e della eventuale negligenza o della malafede del privato che ha indotto in errore l'amministrazione o ha approfittato di un suo errore, ad esempio rappresentando in modo erroneo la situazione di fatto in base alla quale è stato rilasciato il titolo o sono stati individuati i legittimati attivi.
Nel caso in esame tali principi consentono di derubricare il vizio che attiene all’omessa specificazione dell’interesse pubblico atteso che, come si è visto, l’amministrazione è stata indotta in errore circa la precisa collocazione del manufatto ed in ordine alla posizione legittimante del richiedente.
E’ viceversa fondata la censura di eccesso di potere per irragionevolezza.
Invero, si è visto che il profilo di illegittimità procedimentale che ha condotto all’adozione dell’atto di autotutela attiene esclusivamente alla errata rappresentazione grafica del locale deposito posto a quota arenile.
Trattandosi di un vizio che riguardava un singolo manufatto erroneamente sanato, l’atto di autotutela avrebbe dovuto riguardare esclusivamente quest’ultimo, tanto più che -nella fattispecie in scrutinio- si controverte di un permesso di costruire in sanatoria che ha oggetto diverse opere (chiosco con locale bar, infermeria, foresteria, servizi, area coperta esterna destinata in parte a pic-nic e giochi, zona destinata a parcheggi e muro frangivento) sui quali il Comune di Castel Volturno non ha avanzato alcun rilievo.
Tale soluzione si impone in base ai principi di economicità dell’azione amministrativa e dell’“utile per inutile non vitiatur” giacché non appare ragionevole l’annullamento in autotutela in toto di un titolo edilizio per un motivo di illegittimità che riguarda solo uno degli interventi edilizi sanati (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 24.01.2014 n. 595 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il giudizio sul diritto di accesso non esime da una valutazione circa l'esistenza di una posizione pur sempre differenziata in capo al richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza ed attualità, un interesse conoscitivo.
In altri termini, essere titolare di una situazione giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto, concreto e attuale", essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il soddisfacimento.
L'ordinamento prevede, infatti, che l'esibizione dei documenti sia strumentale alla tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la necessità di un collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante impedisce che l'accesso possa essere utilizzato per conseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti della P.A.
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e a partecipare alla formazione di quelli successivi.

Tanto premesso, rileva il Collegio che il giudizio sul diritto di accesso non esime da una valutazione circa l'esistenza di una posizione pur sempre differenziata in capo al richiedente, cui deve correlarsi, in termini di concretezza ed attualità, un interesse conoscitivo (cfr. da ultimo Cons. St. Ad. Plen. 7/2012).
In altri termini, essere titolare di una situazione giuridicamente tutelata non è condizione sufficiente perché l'interesse rivendicato possa considerarsi "diretto, concreto e attuale", essendo anche necessario che la documentazione cui si chiede di accedere sia collegata a quella posizione sostanziale, impedendone o ostacolandone il soddisfacimento.
L'ordinamento prevede, infatti, che l'esibizione dei documenti sia strumentale alla tutela di un interesse concreto e meritevole di tutela e la necessità di un collegamento specifico e concreto con un interesse rilevante impedisce che l'accesso possa essere utilizzato per conseguire improprie finalità di controllo generalizzato sulla legittimità degli atti della P.A.
Segnatamente, la legittimazione all'accesso ai documenti amministrativi deve ritenersi consentita a chiunque possa dimostrare che il provvedimento o gli atti endoprocedimentali abbiano dispiegato o siano idonei a dispiegare effetti diretti o indiretti anche nei suoi confronti; pertanto, il diritto di accesso può essere esercitato anche indipendentemente dall'esistenza di una lesione della posizione giuridica del richiedente, essendo invece sufficiente un interesse personale e concreto, serio e non emulativo, a conoscere gli atti già posti in essere e a partecipare alla formazione di quelli successivi (cfr. TAR Roma Lazio sez. II, 01.12.2011, n. 9461) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2014 n. 594 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La natura del provvedimento di demolizione comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato); è, infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto.
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione né costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia: l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria.

Va, a tal riguardo, ribadito che la natura del provvedimento di demolizione comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato); è, infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VI n. 9718 del 04.08.2008 e n. 3588 dell’11.07.2013).
In altri termini, nel modello legale di riferimento non vi è spazio per apprezzamenti discrezionali, atteso che l’esercizio del potere repressivo mediante applicazione della misura ripristinatoria costituisce atto dovuto, per il quale è "in re ipsa" l’interesse pubblico alla sua rimozione (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 26.08.2010, n. 17240) né costituisce onere del Comune verificare la sanabilità delle opere in sede di vigilanza sull'attività edilizia (TAR Campania, Sez. IV, 24.09.2002, n. 5556; TAR Lazio, sez. II-ter, 21.06.999, n. 1540): l’atto può ritenersi sufficientemente motivato per effetto della stessa descrizione dell’abuso accertato, presupposto giustificativo necessario e sufficiente a fondare la spedizione della misura sanzionatoria (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2014 n. 591 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il vincolo di inedificabilità connesso alla presenza di testimonianze archeologiche non è astrattamente qualificabile come assoluto, riguardando soltanto le costruzioni che, in qualsiasi modo, snaturano o, comunque, danneggiano i reperti fissi al suolo o affioranti, non potendo trovare applicazione per tutte quelle altre costruzioni che non determinano sul fatto pregiudizio e che, con la debita approvazione ex art. 18 l. n. 1089 del 1939, gli aventi diritto sull'immobile sono in grado di eseguire, a meno che non debba ritenersi che, in concreto, l'interesse archeologico non rimanga circoscritto ad alcuni resti presenti nell'area, ma si correli al luogo nel suo complesso, quale sede di una pluralità di reperti tale da testimoniare uno specifico assetto storico di insediamento.
Giova, inoltre, aggiungere che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, anche in tale ultima evenienza (di un’estensione del vincolo all’intero territorio con conseguente inedificabilità assoluta dell’area), trovano applicazione i principi di cui alla l. n. 47 del 1985, cui fa rinvio l'art. 39 l. n. 724 del 1994, secondo cui i vincoli di inedificabilità assoluta risultano preclusivi del condono, se apposti prima dell'esecuzione delle opere, fermo restando che -dovendo la funzione amministrativa essere esercitata secondo la normativa vigente alla data del relativo esercizio- detti vincoli sono comunque rilevanti, ma come vincoli a carattere relativo, richiedenti apposita e concreta valutazione, da parte dell'Autorità preposta, circa la compatibilità dell'opera realizzata con i valori tutelati.

Deve, anzitutto, rilevarsi che il vincolo di inedificabilità connesso alla presenza di testimonianze archeologiche non è astrattamente qualificabile come assoluto, riguardando soltanto le costruzioni che, in qualsiasi modo, snaturano o, comunque, danneggiano i reperti fissi al suolo o affioranti, non potendo trovare applicazione per tutte quelle altre costruzioni che non determinano sul fatto pregiudizio e che, con la debita approvazione ex art. 18 l. n. 1089 del 1939, gli aventi diritto sull'immobile sono in grado di eseguire, a meno che non debba ritenersi che, in concreto, l'interesse archeologico non rimanga circoscritto ad alcuni resti presenti nell'area, ma si correli al luogo nel suo complesso, quale sede di una pluralità di reperti tale da testimoniare uno specifico assetto storico di insediamento (cfr. Cassazione civile sez. I, 29.05.2003 n. 8593; TAR Napoli Campania sez. II, 08.05.2009, n. 2466)
Giova, inoltre, aggiungere che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. ex plurimis, Cons. Stato, VI, 05.04.2012, n. 2018; 09.03.2011, n. 1476; 07.01.2008, n. 22), anche in tale ultima evenienza (di un’estensione del vincolo all’intero territorio con conseguente inedificabilità assoluta dell’area), trovano applicazione i principi di cui alla l. n. 47 del 1985, cui fa rinvio l'art. 39 l. n. 724 del 1994, secondo cui i vincoli di inedificabilità assoluta risultano preclusivi del condono, se apposti prima dell'esecuzione delle opere, fermo restando che -dovendo la funzione amministrativa essere esercitata secondo la normativa vigente alla data del relativo esercizio- detti vincoli sono comunque rilevanti, ma come vincoli a carattere relativo, richiedenti apposita e concreta valutazione, da parte dell'Autorità preposta, circa la compatibilità dell'opera realizzata con i valori tutelati (cfr. artt. 32 e 33 l. n. 47 del 1985 e, per il principio, Cons. Stato, VI, 09.03.2011, n. 1476; VI, 07.01.2008, n. 22; 05.12.2007, n. 6177, 02.11.2007, n. 5669; V, 04.11.1997, n. 1228) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2014 n. 585 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va esclusa la condivisibilità dell’assunto circa la non assoggettabilità a permesso di costruire della tettoia oggetto di demolizione quale mera struttura asseritamente precaria di natura pertinenziale, aperta su tutti i lati, non autonomamente utilizzabile e destinata a servizio dell’immobile principale.
La realizzazione di una tettoia, ancorché avente natura pertinenziale, è configurabile quale intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3 comma 1 lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, nella misura in cui realizza "l'inserimento di nuovi elementi ed impianti" ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.p.r. laddove comporti, come nella specie, una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui inerisce, come evincibile dalle riproduzioni fotografiche in atti.
In materia edilizia la nozione di pertinenza è più ristretta di quella civilistica, ed è riferibile solo a manufatti di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono, cosa non ravvisabile nella specie in presenza di una tettoia della superficie di m.q. 4,00 x 7,60 come dichiarato in ricorso, e rilevabile dai grafici in atti.
La nozione di pertinenza, ai fini edilizi, va definita sotto un duplice profilo ossia in relazione alla necessità ed oggettività del rapporto pertinenziale, ed alla consistenza dell'opera, che non deve essere tale da alterare in modo significativo l'assetto del territorio.
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Ai fini del rilascio del permesso di costruire, la nozione di costruzione si configura comunque in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi. Ciò a prescindere dal fatto che detta trasformazione e/o alterazione avvenga mediante realizzazione di opere murarie, ben potendo trattarsi di opere realizzate in legno, metallo, in laminati di plastica, o altro materiale, che attuino un'evidente trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e che riguardino opere preordinate a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo funzionale.
In sostanza, per la individuazione di un’opera quale pertinenza rilevano non soltanto gli elementi strutturali (composizione dei materiali, smontabilità o meno del manufatto) ma anche i profili funzionali, sicché non può, attribuirsi il carattere pertinenziale ai fini edilizi ad interventi solo in quanto destinati a servizio del bene principale, specie qualora si tratti di opere di natura non precaria ma dotate di una destinazione permanente e durevole nel tempo.
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Rispetto alle tettoie la giurisprudenza ne ha ammesso la libera edificabilità solo qualora la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo, riparo o protezione, anche da agenti atmosferici, quando non presentino carattere di autonoma utilizzabilità, e possano ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della loro accessorietà, nell'edificio principale o nella parte dello stesso cui accedono.

Il ricorso è infondato e va respinto come di seguito argomentato.
In primo luogo va esclusa la condivisibilità dell’assunto circa la non assoggettabilità a permesso di costruire della tettoia oggetto di demolizione quale mera struttura asseritamente precaria di natura pertinenziale, aperta su tutti i lati, non autonomamente utilizzabile e destinata a servizio dell’immobile principale. La realizzazione di una tettoia, ancorché avente natura pertinenziale, è configurabile quale intervento di ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3 comma 1 lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001, nella misura in cui realizza "l'inserimento di nuovi elementi ed impianti" ed è quindi subordinata al regime del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), dello stesso d.p.r. laddove comporti, come nella specie, una modifica della sagoma o del prospetto del fabbricato cui inerisce, come evincibile dalle riproduzioni fotografiche in atti. In materia edilizia la nozione di pertinenza è più ristretta di quella civilistica, ed è riferibile solo a manufatti di dimensioni modeste e ridotte rispetto alla cosa cui ineriscono, cosa non ravvisabile nella specie in presenza di una tettoia della superficie di m.q. 4,00 x 7,60 come dichiarato in ricorso, e rilevabile dai grafici in atti. La nozione di pertinenza, ai fini edilizi, va definita sotto un duplice profilo ossia in relazione alla necessità ed oggettività del rapporto pertinenziale, ed alla consistenza dell'opera, che non deve essere tale da alterare in modo significativo l'assetto del territorio (cfr. Consiglio di stato, sez. IV, 07.07.2008, n. 3379).
Ai fini del rilascio del permesso di costruire, la nozione di costruzione si configura comunque in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi. Ciò a prescindere dal fatto che detta trasformazione e/o alterazione avvenga mediante realizzazione di opere murarie, ben potendo trattarsi di opere realizzate in legno, metallo, in laminati di plastica, o altro materiale, che attuino un'evidente trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio e che riguardino opere preordinate a soddisfare esigenze non precarie sotto il profilo funzionale (cfr. ex multis CdS, Sez. IV, n. 2705/2008 in tal senso anche Consiglio Stato, sez. V, 13.06.2006, n. 3490).
In sostanza, per la individuazione di un’opera quale pertinenza rilevano non soltanto gli elementi strutturali (composizione dei materiali, smontabilità o meno del manufatto) ma anche i profili funzionali (cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater, n. 11679 del 23.11.2007), sicché non può, attribuirsi il carattere pertinenziale ai fini edilizi ad interventi solo in quanto destinati a servizio del bene principale, specie qualora si tratti di opere di natura non precaria ma dotate di una destinazione permanente e durevole nel tempo.
Rispetto alle tettoie la giurisprudenza ne ha ammesso la libera edificabilità solo qualora la loro conformazione e le loro ridotte dimensioni rendano evidente e riconoscibile la loro finalità di arredo, riparo o protezione, anche da agenti atmosferici, quando non presentino carattere di autonoma utilizzabilità, e possano ritenersi assorbite, ovvero ricomprese in ragione della loro accessorietà, nell'edificio principale o nella parte dello stesso cui accedono (TAR Campania, Napoli, sezione III, 25.07.2011 n. 3947).
Diversamente la tettoia-pensilina oggetto di contestazione, come evincibile anche dalle riproduzioni fotografiche in atti, non è di ridotte dimensioni né presenta una funzione meramente accessoria rispetto alla destinazione commerciale dell’immobile cui accede, essendo costituita da una copertura in pannelli coibentati di oltre 44 m.q. , fissata per una lunghezza di quattro metri alla parete, e quindi di natura stabile e non precaria, priva perciò di quelle caratteristiche sopra descritte che ne consentirebbero l’edificazione in assenza di permesso di costruire (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 24.01.2014 n. 562 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In ordine alla richiesta di risarcimento del danno, si osserva che la domanda, non solo non risulta sostenuta dalle necessarie allegazioni in ordine al danno subito e all'accertamento della responsabilità dell'amministrazione, ma è stata proposta in modo generico e, quindi, va respinta.
Sul punto la giurisprudenza prevalente si è andata orientando nel senso dell’attenuazione dell’onere probatorio del privato.
In particolare, sotto il profilo della colpa, si è affermato che il privato danneggiato, ai fini di ottenere il risarcimento dei danni derivanti da lesione di interessi legittimi, ancorché onerato della dimostrazione della "colpa" dell’amministrazione, risulta agevolato dalla possibilità di offrire al giudice elementi indiziari –acquisibili, sia pure con i connotati normativamente previsti, con maggior facilità delle prove dirette- quali la gravità della violazione, qui valorizzata quale presunzione semplice di colpa e non come criterio di valutazione assoluto, il carattere vincolato dell’azione amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di riferimento ed il proprio apporto partecipativo al procedimento. Così che, acquisiti gli indici rivelatori della colpa, spetta poi all’amministrazione l’allegazione degli elementi, pure indiziari, ascrivibili allo schema dell’errore scusabile e, in definitiva, al giudice, così come, in sostanza, voluto dalla Cassazione con la sentenza n. 500/1999, apprezzarne e valutarne liberamente l’idoneità ad attestare o ad escludere la colpevolezza dell’amministrazione.
Tale attenuazione dell’onere probatorio non esclude, tuttavia, la necessità che le pretese risarcitorie presuppongano l’indicazione degli elementi che possano indurre il giudice a valutare in termini di responsabilità la condotta della pubblica amministrazione. Allegazione che nel caso di specie non è dato riscontrare con conseguente impossibilità di accogliere la domanda risarcitoria.

In ordine alla richiesta di risarcimento del danno, si osserva che la domanda, non solo non risulta sostenuta dalle necessarie allegazioni in ordine al danno subito e all'accertamento della responsabilità dell'amministrazione, ma è stata proposta in modo generico e, quindi, va respinta.
Sul punto la giurisprudenza prevalente si è andata orientando nel senso dell’attenuazione dell’onere probatorio del privato. In particolare, sotto il profilo della colpa, si è affermato (Consiglio di Stato, Sez. V, 10.01.2005, n. 32) che il privato danneggiato, ai fini di ottenere il risarcimento dei danni derivanti da lesione di interessi legittimi, ancorché onerato della dimostrazione della "colpa" dell’amministrazione, risulta agevolato dalla possibilità di offrire al giudice elementi indiziari –acquisibili, sia pure con i connotati normativamente previsti, con maggior facilità delle prove dirette- quali la gravità della violazione, qui valorizzata quale presunzione semplice di colpa e non come criterio di valutazione assoluto, il carattere vincolato dell’azione amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di riferimento ed il proprio apporto partecipativo al procedimento. Così che, acquisiti gli indici rivelatori della colpa, spetta poi all’amministrazione l’allegazione degli elementi, pure indiziari, ascrivibili allo schema dell’errore scusabile e, in definitiva, al giudice, così come, in sostanza, voluto dalla Cassazione con la sentenza n. 500/1999, apprezzarne e valutarne liberamente l’idoneità ad attestare o ad escludere la colpevolezza dell’amministrazione.
Tale attenuazione dell’onere probatorio non esclude, tuttavia, la necessità che le pretese risarcitorie presuppongano l’indicazione degli elementi che possano indurre il giudice a valutare in termini di responsabilità la condotta della pubblica amministrazione. Allegazione che nel caso di specie non è dato riscontrare con conseguente impossibilità di accogliere la domanda risarcitoria (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 24.01.2014 n. 561 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un’eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell’impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi.
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Presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l’accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
Quanto alla mancata indicazione dell’estensione dell’area da confiscare, costante giurisprudenza amministrativa, da cui il collegio non ha motivo di discostarsi, ritiene che non costituisca un vizio di legittimità dell’ordinanza di demolizione in quanto, fermi gli effetti acquisitivi operanti direttamente ex lege, siffatta specificazione ben può essere operata nella successiva sede dell’(eventuale) accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire, come da art. 31, comma 4, del d.P.R. 380 del 2001 che riproduce i contenuti dell’art. 7 della l. 47 del 1985.

Quanto all’asserita impossibilità tecnica di demolire il manufatto abusivamente realizzato, in disparte la considerazione che tale impossibilità non risulta in alcun modo dimotrata, essa –secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza anche di questa sezione- non incide sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio.
Infatti, “la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un’eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell’impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi” (cfr., tra le molte, TAR Campania, Napoli, questa sesta sezione 08.04.2011, n. 2039 e 15.07.2010 , n. 16807; n. 1973 del 14.04.2010; Salerno, sez. II, 13.04.2011, n. 702).
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In ordine al dedotto difetto di motivazione, peraltro non ravvisabile dalla piana lettura del provvedimento in questione, và rilevato che, come costantemente affermato dalla giurisprudenza di questo Tribunale, che questo Collegio condivide, “…presupposto per l'adozione dell'ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l’accertamento dell'abuso, e non necessita di una particolare motivazione in ordine all'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso stesso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell'assetto urbanistico violato, e alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi” (fra molte, TAR Campania Napoli, sez. VII, 08.04.2011, n. 1999).
Quanto alla mancata indicazione dell’estensione dell’area da confiscare, costante giurisprudenza amministrativa, da cui il collegio non ha motivo di discostarsi, ritiene che non costituisca un vizio di legittimità dell’ordinanza di demolizione in quanto, fermi gli effetti acquisitivi operanti direttamente ex lege, siffatta specificazione ben può essere operata nella successiva sede dell’(eventuale) accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire, come da art. 31, comma 4, del d.P.R. 380 del 2001 che riproduce i contenuti dell’art. 7 della l. 47 del 1985 (cfr. Tar Campania, questa sesta sezione, sentenza n. 3194 del 16.06.2011; 11.05.2011, n. 2624; Tar Lazio, Roma, sez. I, 07.03.2011, n. 2031; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 09.12. 2010, n. 2809)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2014 n. 542 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti repressivo-ripristinatori perdono la propria efficacia in conseguenza della presentazione di un’istanza di sanatoria.
Ed invero, il riesame dell’abusività degli interventi eseguiti, provocato dalla domanda di accertamento di conformità, comporta la formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a superare la precedente ingiunzione a demolire, per modo che, anche nell’ipotesi di rigetto dell’istanza, l’amministrazione comunale è obbligata ad adottare ex novo la misura sanzionatoria, con l’assegnazione in tal caso di un ulteriore termine per adempiere.
Pertanto, essendo stata avanzata, nella specie, successivamente all’emissione dell’ordinanza di demolizione ed alla proposizione del ricorso introduttivo e dei relativi motivi aggiunti, domanda di sanatoria degli abusi edilizi contestati, è da considerarsi venuto meno, in capo alla ricorrente, l’interesse –anche quanto alle opere non spontaneamente rimosse– ad ottenere l’annullamento giurisdizionale degli impugnati provvedimenti repressivo-ripristinatori, resi ormai irreversibilmente inefficaci e ineseguibili.
Come sopra accennato, il rigetto delle rassegnate istanze di accertamento di conformità non esime, comunque, l’amministrazione comunale dall’obbligo di riattivare il procedimento sanzionatorio sulla base dell’acclarata insanabilità del manufatto, oltre che, prima ancora, di valutarne il permanere dei presupposti alla luce della parziale ottemperanza alle ingiunzioni di demolizione n. 6 del 23.02.2012 e n. 40 del 14.09.2012 e del connesso mutamento dello stato dei luoghi, concentrandosi, al momento, l’interesse ex art. 100 cod. proc. civ. dell’istante sulla contestazione del diniego (tacitamente) oppostole.

In proposito, il Collegio ritiene di dover aderire al consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui i provvedimenti repressivo-ripristinatori perdono la propria efficacia in conseguenza della presentazione di un’istanza di sanatoria (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. VI, 05.03.2008, n. 1108; sez. VII, 21.03.2008, n. 1472; 07.05.2008, n. 3501; sez. IV, 13.05.2008, n. 4257; 29.05.2008, n. 5176 e n. 5183; sez. VII, 05.06.2008, n. 5243; sez. IV, 26.07.2007, n. 7071; 15.09.2008, n. 10133; sez. III, 01.10.2008, n. 12315; 07.11.2008, n. 19352; sez. VII, 04.12.2008, n. 20973; 03.03.2009, n. 1211; TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 31.01.2007, n. 259; 05.03.2007, n. 723; 26.06.2007, n. 1704; Catania, sez. I, 18.12.2007, n. 1990; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 21.02.2009, n. 258; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 30.10.2008, n. 2721; TAR Lazio, Roma, sez. I, 18.07.2008, n. 6954; sez. II, 15.09.2008, n. 8306; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 21.07.2010, n. 3200).
Ed invero, il riesame dell’abusività degli interventi eseguiti, provocato dalla domanda di accertamento di conformità, comporta la formazione di un nuovo provvedimento, esplicito o implicito, di accoglimento o di rigetto, che vale comunque a superare la precedente ingiunzione a demolire, per modo che, anche nell’ipotesi di rigetto dell’istanza, l’amministrazione comunale è obbligata ad adottare ex novo la misura sanzionatoria, con l’assegnazione in tal caso di un ulteriore termine per adempiere.
Pertanto, essendo stata avanzata, nella specie, successivamente all’emissione dell’ordinanza di demolizione ed alla proposizione del ricorso introduttivo e dei relativi motivi aggiunti, domanda di sanatoria degli abusi edilizi contestati, è da considerarsi venuto meno, in capo alla ricorrente, l’interesse –anche quanto alle opere non spontaneamente rimosse– ad ottenere l’annullamento giurisdizionale degli impugnati provvedimenti repressivo-ripristinatori, resi ormai irreversibilmente inefficaci e ineseguibili.
Come sopra accennato, il rigetto delle rassegnate istanze di accertamento di conformità non esime, comunque, l’amministrazione comunale dall’obbligo di riattivare il procedimento sanzionatorio sulla base dell’acclarata insanabilità del manufatto, oltre che, prima ancora, di valutarne il permanere dei presupposti alla luce della parziale ottemperanza alle ingiunzioni di demolizione n. 6 del 23.02.2012 e n. 40 del 14.09.2012 e del connesso mutamento dello stato dei luoghi, concentrandosi, al momento, l’interesse ex art. 100 cod. proc. civ. dell’istante sulla contestazione del diniego (tacitamente) oppostole (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 12.11.2008, n. 5646; 07.05.2009, n. 2833; TAR Puglia, Lecce, sez. I, 04.06.2008, n. 1649; 06.05.2009, n. 907; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 09.01.2008, n. 37; sez. IV, 07.02.2008, n. 628; sez. VI, 05.03.2008, n. 1121; 18.03.2008, n. 1399; sez. VII, 07.05.2008, n. 3501; sez. IV, 13.05.2008, n. 4257; 29.05.2008, n. 5176 e n. 5183; sez. VII, 05.06.2008, n. 5243; Salerno, sez. II, 16.06.2008, n. 1940; Napoli, sez. IV, 15.09.2008, n. 10133; sez. VI, 16.09.2008, n. 10220; sez. III, 01.10.2008, n. 12315; sez. VI, 22.10.2008, n. 17688; 06.11.2008, n. 19285; sez. IV, 07.11.2008, n. 19352; sez. VII, 03.03.2009, n. 1211; Salerno, sez. II, 09.04.2009, n. 1408; Napoli, sez. VI, 22.04.2009, n. 2097; sez. III, 29.04.2009, n. 2220; 30.04.2009, n. 2252; sez. VII, 05.06.2009, n. 3105; sez. III, 08.06.2009, n. 3150; 18.06.2009, n. 3354; sez. VII, 09.07.2009, n. 3829; sez. IV, 03.08.2009, n. 4628; sez. III, 11.09.2009, n. 4918; sez. IV, 19.10.2010, n. 20262; sez. VII, 10.03.2011, n. 1401; TAR Lazio, Roma, sez. I, 02.12.2010, n. 35024; sez. II, 05.09.2008, n. 8089; 03.07.2009, n. 6453; 07.09.2010, n. 32129; 13.10.2010, n. 32799; 13.12.2010, n. 36294; 22.12.2010, n. 38234; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 13.05.2008, n. 1454; 09.04.2009, n. 605; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 30.10.2008, n. 2721; TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 07.11.2008, n. 1482) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 24.01.2014 n. 541 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Soprintendenza non può annullare il parere del Comune per ragioni di merito, dovendo limitarsi al solo scrutinio di legittimità, in quanto il potere di annullamento dell'Amministrazione non comporta un riesame complessivo, non potendo la Soprintendenza sovrapporre o sostituire il proprio apprezzamento di merito alle valutazioni discrezionali compiute in sede di rilascio del nulla osta da parte dell'ente locale.
Il riesame dell'Amministrazione è infatti meramente estrinseco ed è diretto all'accertamento dell'assenza di vizi di legittimità comprendenti quello di eccesso di potere nelle diverse forme sintomatiche.
In altre parole, l'Amministrazione non può rinnovare il giudizio tecnico discrezionale sulla compatibilità paesaggistico-ambientale dell'intervento, che appartiene in via esclusiva all'autorità preposta alla tutela del vincolo.

Come infatti costantemente rilevato in giurisprudenza, “... la Soprintendenza non può annullare il parere del Comune per ragioni di merito, dovendo limitarsi al solo scrutinio di legittimità, in quanto il potere di annullamento dell'Amministrazione non comporta un riesame complessivo, non potendo la Soprintendenza sovrapporre o sostituire il proprio apprezzamento di merito alle valutazioni discrezionali compiute in sede di rilascio del nulla osta da parte dell'ente locale. Il riesame dell'Amministrazione è infatti meramente estrinseco ed è diretto all'accertamento dell'assenza di vizi di legittimità comprendenti quello di eccesso di potere nelle diverse forme sintomatiche. In altre parole, l'Amministrazione non può rinnovare il giudizio tecnico discrezionale sulla compatibilità paesaggistico-ambientale dell'intervento, che appartiene in via esclusiva all'autorità preposta alla tutela del vincolo” (così TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.10.2012, n. 8248, nello stesso senso TAR Campania, Salerno, sez. II, 26.11.2012, n. 2131, TAR Campania, Napoli, sez. VI , 10/01/2012, 14).
Né il mero riferimento che la Soprintendenza fa alla funzione dell’autorizzazione di cui all’art. 146 del decreto legislativo n. 42/2004 e la correlativa conclusione secondo cui l’atto del comune attuerebbe una inammissibile deroga al vincolo stesso, sono idonei a ricondurre l’effetto di annullamento disposto ad un difetto di motivazione del provvedimento dell’ente locale, essendo l’affermazione sostanzialmente tautologica e priva di riferimenti, ancorché sintetici, a riscontrabili carenze dell’atto annullato (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2014 n. 522 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi di ristrutturazione o di manutenzione postulano «necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare -ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura-, onde la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesistico-ambientali vigenti al momento della riedificazione»
In proposito, va ribadito che gli interventi di ristrutturazione o di manutenzione postulano «necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare -ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura-, onde la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesistico-ambientali vigenti al momento della riedificazione» (TAR Campania, questa sezione, Sent. n. 03588/2013 e 7049/2009; si vedano anche Consiglio di Stato, sez. IV, 13.10.2010, n. 7476 e Cassazione penale sez. III, 21.10.2008 n. 42521)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2014 n. 514 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’atto di autotutela appare doveroso e vincolato nella misura in cui si prende atto della mancanza della prescritta autorizzazione paesaggistica con conseguente inefficacia della D.I.A..
Va anzi detto, e sul punto non incidono le ricorrenti modifiche della normativa, che il mancato ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica ha impedito persino il perfezionamento della D.I.A. in oggetto con ulteriore conferma della doverosità dell’atto di cui si discute da cui, anzi, il Comune avrebbe potuto prescindere limitandosi a esercitare il proprio potere sanzionatorio.
La descritta doverosità dell’atto rende irrilevante la mancata partecipazione del ricorrente al procedimento per l’applicazione dell’ art. 21-octies L. 241/1990 (co. 2: «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato»).

La terza censura è relativa alla mancata comunicazione di avvio del procedimento volto all’adozione del presente atto di autotutela.
Sul punto, valgano due ordini di considerazioni.
In primo luogo, il ricorrente era stato messo in condizione di interloquire sulle circostanze poste alla base del provvedimento, in quanto con nota n. 195 del 07.01.2009, il Comune gli aveva richiesto di attivare la procedura per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica intimandogli, nel contempo, di sospendere i lavori.
In secondo luogo, l’atto di autotutela appare doveroso e vincolato nella misura in cui si prende atto della mancanza della prescritta autorizzazione paesaggistica con conseguente inefficacia della D.I.A.. Va anzi detto, e sul punto non incidono le ricorrenti modifiche della normativa, che il mancato ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica ha impedito persino il perfezionamento della D.I.A. in oggetto con ulteriore conferma della doverosità dell’atto di cui si discute da cui, anzi, il Comune avrebbe potuto prescindere limitandosi a esercitare il proprio potere sanzionatorio (sul punto, v. Consiglio di Stato sez. VI 05/04/2007 n. 1550; Cassazione penale sez. III 21/01/2010 n. 9255; TAR Napoli sez. VI 10/01/2011 n. 35; Cassazione penale sez. III 21/01/2010 n. 8739).
La descritta doverosità dell’atto rende irrilevante la mancata partecipazione del ricorrente al procedimento per l’applicazione dell’ art. 21-octies L. 241/1990 (co. 2: «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato»)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2014 n. 514 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La vincolatezza del provvedimento di demolizione comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato); è, infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto.
La descritta vincolatezza del provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro carattere doveroso.
La mancata indicazione del responsabile del procedimento non integra alcuna ragione di illegittimità del provvedimento costituendo una mera irregolarità a cui la stessa L. 241/1990 pone rimedio radicando la relativa responsabilità in capo al dirigente.

È infondata anche la terza censura con cui si lamenta la insufficienza della motivazione circa le ragioni che avrebbero giustificato la demolizione.
Va ribadito, in proposito, che la vincolatezza del provvedimento di demolizione comporta che sia superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, sull’effettivo danno all’ambiente o al paesaggio (o, ancora, sulla proporzionalità in relazione al sacrificio imposto al privato); è, infatti, sufficiente evidenziare la violazione del regime vincolistico e l’avvenuta costruzione in assenza del titolo abilitativo, ciò che nel caso di specie è avvenuto (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VI n. 9718 del 04.08.2008 e n. 3588 dell’11.07.2013).
Infine in merito alla quarta censura, relativa al mancato rispetto delle cd. garanzie procedimentali di cui alla L. 241/1990 e, in particolare, all’omesso avviso di avvio del procedimento, va ribadito che la descritta vincolatezza del provvedimento rende recessivo l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990; tale obbligo, infatti, non si applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro carattere doveroso (cfr., art. 21-octies L. 241/1990 e, in giurisprudenza, ex multis, TAR Campania, VI sez., n. 3706/2012; Consiglio Stato sez. V, 19.09.2008, n. 4530; TAR Napoli Campania sez. IV, 02.12.2008, n. 20794 e Tar Campania, Napoli, sez. IV, 16.06.2000 n. 2147).
Va aggiunto che la mancata indicazione del responsabile del procedimento, pure lamentata da parte ricorrente, non integra alcuna ragione di illegittimità del provvedimento costituendo una mera irregolarità a cui la stessa L. 241/1990 pone rimedio radicando la relativa responsabilità in capo al dirigente (art. 5, co. 2, L. 241/1990) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 24.01.2014 n. 512 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Qualora gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e nulla aggiungano sulla possibilità di costruire in aderenza od in appoggio, la preclusione di dette facoltà non consente l'operatività del principio della prevenzione e non è quindi consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza, con la conseguenza che la distanza dal confine prescritta dallo strumento urbanistico è assoluta.
Peraltro, la circostanza che le minori distanze rilevate dal confine si riferirebbero a balconi incassati (cioè chiusi su tre lati), in ogni caso non sarebbe rilevante ai fini in esame, giacché anche i balconi di apprezzabile profondità ed ampiezza rientrano tra i corpi di fabbrica computabili nelle distanze tra costruzioni (cfr. C.d.S. n. 7731/2010, nel senso che ai fini del computo delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura).

Infatti, la scheda urbanistica di cui alle NTA del PRG per la zona Ba, sottozona 20, in cui ricadono i manufatti in questione prevede un distacco minimo dai confini di 10 metri senza null’altro aggiungere (cfr. allegato 4.a alla relazione di verificazione), sicché, come correttamente rileva parte ricorrente, nel caso di specie deve trovare applicazione il principio per il quale, qualora gli strumenti urbanistici stabiliscano determinate distanze dal confine e nulla aggiungano sulla possibilità di costruire in aderenza od in appoggio, la preclusione di dette facoltà non consente l'operatività del principio della prevenzione e non è quindi consentito al preveniente costruire sul confine, ponendo il vicino, che intenda a sua volta edificare, nell'alternativa di chiedere la comunione del muro e di costruire in aderenza (cfr. C.d.S., sez. V, 27.04.2012, n. 2458; Cass. Civ., sez. II, 09.04.2010, n. 8465), con la conseguenza che la distanza dal confine prescritta dallo strumento urbanistico è assoluta.
Peraltro, la circostanza che le minori distanze rilevate dal confine si riferirebbero a balconi incassati (cioè chiusi su tre lati), come rimarca parte controinteressata, in ogni caso non sarebbe rilevante ai fini in esame, giacché anche i balconi di apprezzabile profondità ed ampiezza rientrano tra i corpi di fabbrica computabili nelle distanze tra costruzioni (cfr. C.d.S., sez. IV, 02.11.2010, n. 7731, nel senso che ai fini del computo delle distanze assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi, anche accessori, qualunque ne sia la funzione, aventi i caratteri della solidità, della stabilità e della immobilizzazione, salvo che non si tratti di sporti e di aggetti di modeste dimensioni con funzione meramente decorativa e di rifinitura); mentre è privo di ogni specificazione e riscontro l’ultimo assunto difensivo, per il quale si verterebbe nella specie di volumi tecnici, il che esime di soffermarsi sul punto (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 24.01.2014 n. 506 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI E AMBIENTALI - PARCHI E RISERVE - DIRITTO URBANISTICO - Interventi edilizi eseguiti su immobili - Area vincolata - Totale difformità dal permesso - Delitto paesaggistico - Configurabilità - Artt. 32, 34, c. 2-ter e art. 44, lett. C), d.P.R. n. 380/2001 - Artt. 136, 142, lett. F), art. 167, cc. 4 e 5, e 181, c. 1-bis, d.Lgs. n. 42/2004.
Gli interventi eseguiti su immobili ricadenti sui parchi o in aree protette nazionali e regionali (ipotesi contestata agli indagati: artt. 136 e 142, lett. f), d.lgs. n. 42/2004), sono considerati in totale difformità dal permesso, ai sensi e per gli effetti degli articoli 31 e 44 d.P.R. n. 380/2001, non trovando applicazione nemmeno la speciale ipotesi del comma 2-ter dell'art. 34, d.P.R. n.380/2001.
Conseguentemente, il positivo accertamento di compatibilità paesaggistica dell'abuso edilizio eseguito in zona vincolata non esclude la punibilità del delitto paesaggistico previsto dall'art. 181, comma 1-bis, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (Cass. Sez. 3, n. 7216 del 17/11/2010 - dep. 25/02/2011, Zolesio e altro).
BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Area vincolata - Interventi edilizi eseguiti su immobili - Reati urbanistici - Concessione in sanatoria – Effetti - Autorizzazione paesaggistica in sanatoria - Esclusione -Autonomia della valutazione dell'A.G. penale - Artt. 32, 34, c.2-ter e art. 44, lett. C), d.P.R. n. 380/2001 - Artt. 136, 142, lett. F), 167, cc. 4 e 5, e 181, c. 1-bis, d.Lgs. n. 42/2004.
In materia urbanistica, permane l'autonomia della valutazione dell'A.G. penale da quella amministrativa in materia, posto che, da un lato, il giudice penale deve accertare la conformità dell'atto agli strumenti urbanistici, in ossequio alla previsione degli artt. 36 e 44 del d.P.R. n. 380/2001, per i quali la concessione in sanatoria estingue i reati urbanistici solo se le opere risultano conformi agli strumenti urbanistici, senza ricorrere all'istituto della disapplicazione del provvedimento ex art. 5 della legge 20.03.1865 n. 2248, all. E (Sez. 3, n. 18764 del 26/02/2003 - dep. 18/04/2003, Demori, Rv. 224731) e, dall'altro, che ai fini della configurabilità dei fatti-reato previsti dalle disposizioni di settore, è necessaria la valutazione sulla legittimità degli atti amministrativi autorizzatori, ovviamente non estesa ai profili di discrezionalità, allorché tali atti costituiscano il presupposto o elementi costitutivi o integrativi del reato, atteso che una attività formalmente assentita non può svolgersi in contrasto con la disciplina di settore e con conseguente lesione del bene protetto finale).
Nella specie, l'accoglimento della richiesta difensiva, atteso che non potendosi rilasciare l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria per l'incremento volumetrico, non poteva nemmeno essere rilasciato il permesso di costruire in sanatoria (link a www.ambientediritto.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.01.2014 n. 1486).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Realizzazione di interventi edilizi - Sequestro preventivo per reati paesaggistici - Requisito dell'attualità del pericolo - Art. 181 c.1 bis, D. Lgs. n. 42/2004 - Art. 44, d.P.R. n. 380/2001 - Art. 321 c.p.p..
Con riferimento all'art. 181 D.Lgs. n. 42/2004, in tema di sequestro preventivo per reati paesaggistici, la sola esistenza di una struttura abusiva integra il requisito dell'attualità del pericolo indipendentemente dall'essere l'edificazione ultimata o meno, in quanto il rischio di offesa al territorio ed all'equilibrio ambientale, a prescindere dall'effettivo danno al paesaggio, perdura in stretta connessione con l'utilizzazione della costruzione ultimata (Cass. Sez. 3, n. 24539 del 20/03/2013 - dep. 05/06/2013, Chiantone).
BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Realizzazione di interventi edilizi - Condotte inidonee a compromettere i valori del paesaggio - Attualità del pericolo anche in astratto – Effetti - Art. 181, c. 1-bis, D.Lgs. n. 42/2004 - Art. 44, d.P.R. n. 380/2001 - Art. 321 c.p.p..
Il reato di pericolo previsto dall'art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 è integrato anche dalla realizzazione di interventi edilizi non determinanti aggravio del carico urbanistico, essendo assoggettabile ad autorizzazione ogni intervento modificativo, con esclusione delle condotte che si palesino inidonee, anche in astratto, a compromettere i valori del paesaggio.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Sequestro ipotesi criminosa già perfezionatasi - Requisiti della concretezza e dell'attualità - Art. 181, c. 1-bis, D. Lgs. n. 42/2004 - Art. 44, d.P.R. n. 380/2001 - Art. 321 c.p.p..
Il sequestro è consentito anche nel caso di ipotesi criminosa già perfezionatasi, purché il pericolo della libera disponibilità della cosa stessa -che va accertato dal giudice con adeguata motivazione- presenti i requisiti della concretezza e dell'attualità e le conseguenze del reato, ulteriori rispetto alla sua consumazione, abbiano connotazione di antigiuridicità, consistano nel volontario aggravarsi o protrarsi dell'offesa al bene protetto che sia in rapporto di stretta connessione con la condotta penalmente illecita e possano essere definitivamente rimosse con l'accertamento irrevocabile del reato (Cass. Sez. U., n. 12878 del 29/01/2003 - dep. 20/03/2003, P.M. in proc. Innocenti) (massima tratta da www.ambientediritto.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.01.2014 n. 1484 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Conservazione di una specifica coltura tipica del territorio – Valenza paesaggistica – Piano urbanistico – Violazione della normativa regionale a tutela delle colture specializzate – Censura proposta da un’associazione ambientalista – Ammissibilità.
Una particolare vocazione agricola di un’area può obiettivamente concorrere alla relativa valutazione paesaggistica, nel senso cioè che la conservazione di una specifica coltura, tipica di un determinato territorio, costituisce parte essenziale ed integrante del “paesaggio” esistente, connotandone sempre più le dimensioni storiche, sociali ed economiche; la tutela del paesaggio inoltre rientra certamente nel concetto, trasversale e di notevole latitudine, di ambiente: ne deriva l’ammissibilità della censura, proposta da un’associazione ambientalista avverso gli atti di pianificazione urbanistica comunale, relativa alla violazione dell’art. 2 della l.r. Sicilia n. 71/1978, a tutela delle colture specializzate.
BENI CULTURALI E AMBIENTALI – Conservazione di una specifica coltura tipica del territorio – Concetto di coltura specializzata – Sicilia – Coltivazione di agrumi – Specifiche caratteristiche quali-quantitative.
Il concetto di coltura specializzata varia da territorio a territorio e, con riguardo alla Sicilia, la destinazione di un suolo a coltivazione di agrumi –attesa la vasta diffusione in tutta l’isola di siffatta coltura– non è di per sé un indice sufficiente di detta specializzazione.
Con ciò non si intende affermare che in Sicilia un agrumeto non possa mai considerarsi coltura specializzata a norma dell’art. 2 della l.r. Sicilia n. 71/1978, ma indubbiamente, per riconoscere tale qualificazione, è necessario che la coltura in questione presenti peculiari caratteristiche quali-quantitative (ad esempio, relative a un raro genere di agrume o alla presenza di particolari opere infrastrutturali ed irrigue) che la rendano meritevole di specifica attenzione (massima tratta da www.ambientediritto.it - C.G.A.R.S., sentenza 15.01.2014 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Variante ad un piano urbanistico non direttamente connessa alla gestione del sito – Effettuazione di una preventiva valutazione di incidenza.
L’effettuazione di una preventiva valutazione di incidenza è indispensabile anche nelle ipotesi in cui l’autorità nazionale competente intenda approvare una variante di un piano urbanistico sebbene non direttamente connessa e necessaria alla gestione del sito, ma che possa comunque avere incidenze significative su tale sito, singolarmente o congiuntamente ad altri piani e progetti.
Valutazione di incidenza – Piani urbanistici e varianti a contenuto generale posti all’esterno di un sito della Rete Natura 2000.
La valutazione di incidenza deve essere svolta anche con riferimento a piani urbanistici (e le loro varianti) a contenuto generale e non solo a quelli attuativi di singoli interventi; essa riguarda anche piani posti all’esterno di un sito della Rete Natura 2000.
Valutazione di incidenza – Probabilità di un’incidenza significativa.
La valutazione di incidenza deve essere effettuata ogniqualvolta vi sia la probabilità di un’incidenza significativa e può essere omessa soltanto quando vi sia la certezza di un’assenza di incidenze; le amministrazioni nazionali devono comunque motivare sul punto dell’assenza di incidenze; la verifica preliminare delle probabilità di incidenze va valutata alla stregua di quanto disposto dalla direttiva 85/337/CEE e dalla direttiva 97/11/CE, che ha modificato la prima.
Valutazione di incidenza – Distanza dell’area oggetto dell’intervento dai siti della Reta Natura 2000 – Esclusione della probabilità di qualunque incidenza significativa – Inconfigurabilità.
La considerazione della mera distanza dell’area oggetto dell’intervento dai limitrofi siti della Rete Natura 2000 non è un elemento di per sé sufficiente ad escludere la probabilità di qualunque incidenza significativa dell’intervento pianificato sui predetti siti.
AREE PROTETTE – Valutazione di incidenza – Effettuazione caso per caso.
La valutazione di incidenza deve esser fatta, caso per caso, in relazione alle caratteristiche della specifica area interessata dagli interventi.
Variante ad un piano urbanistico - Valutazione di incidenza – Mancanza – Successiva effettuazione sui piani attuativi della variante – Effetto sanante – Esclusione.
Il vizio della mancanza della valutazione di incidenza non è sanabile attraverso l’effettuazione della valutazione sui futuri ed eventuali piani attuativi della variante al piano urbanistico, giacché una considerazione del genere si pone in diretto contrasto con la disciplina europea.
Valutazione di incidenza – Art. 5 del D.P.R. n. 357/1997 – Orientamento eurounitario –Distinzione tra piano e intervento - Inconfigurabilità.
L’art. 5 del D.P.R. n. 357/1997 va interpretato con un orientamento eurounitario: ciò significa che detta norma deve essere interpretata in modo che il precetto da essa ricavabile si presenti coerente con il dettato dell’art. 6, par. 3, della Direttiva 92/43/CEE del 21.05.1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche, recepita nell’ordinamento nazionale dal ridetto decreto.
Il predetto par. 3 dell’art. 6 della Direttiva -con riferimento alle ipotesi di non diretta connessione e però di possibile incidenza significativa- non reca alcuna distinzione terminologica tra “piano” e “intervento”, ma usa soltanto la locuzione “piani o progetto” nella quale certamente rientra anche la variante di un piano urbanistico (e, dunque, per scongiurare ogni incompatibilità tra la disciplina interna e quella sovranazionale si deve concludere nel senso che nel generico concetto nazionale di “intervento” siano da ricondursi anche i piani) (massima tratta da www.ambientediritto.it - C.G.A.R.S., sentenza 15.01.2014 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROGETTUALI: Il riconoscimento di un debito da parte di un ente locale, pur facendo salvo l’impegno di spesa in precedenza assunto senza copertura contabile, non comporta la sanatoria del contratto eventualmente nullo o comunque invalido, come quello privo della forma scritta “ad substantiam”; il riconoscimento di debito, infatti, non può costituire esso stesso fonte di obbligazione.
Con il terzo motivo, come detto, il ricorrente sostiene che dovevano essere ritenute fondate la sua domanda proposta ex art. 1988 c.c. e quella di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c., sviluppa argomenti per sostenere la fondatezza di tali domande; assume che, essendo stato posto a fondamento del credito non un titolo, ma il semplice riconoscimento di debito, il giudice di appello non avrebbe potuto rilevare di ufficio la nullità del contratto dal quale il riconoscimento traeva origine.
Il motivo, con riferimento alla domanda di ingiustificato arricchimento, resta assorbito dalla rilevata inammissibilità della domanda per tardività.
Con riferimento alla domanda fondata sul riconoscimento di debito se ne rileva la manifesta infondatezza perché, come riconosciuto dalla costante giurisprudenza di questa Corte (Cass. 11021/2005; Cass. 9412/2011; Cass. 1423/2013), il riconoscimento di debito non costituisce una autonoma causa obligandi e quindi non può produrre effetti ove, come nella specie, il credito non possa sorgere per la nullità del contratto; il relativo accertamento, pertanto non può dirsi estraneo al thema decidendum sottoposto al giudice del merito con la domanda di adempimento contrattuale (pur facilitata dall’inversione dell’onere probatorio per il riconoscimento titolato del debito) e il giudice ha correttamente rilevato di ufficio la nullità, per la mancanza della forma scritta richiesta ad substantiam per i contratti della p.a., del contratto dal quale scaturiva il debito pur riconosciuto dal Comune, secondo la tesi del ricorrente, contestata invece dal Comune che aveva attribuito alla delibera il significato di una mera attestazione di disponibilità delle risorse.
Va ulteriormente rilevato che con il giudizio di opposizione era stata contestata la fondatezza nel merito della pretesa azionata così che anche sotto questo profilo, l’accertamento della causa debendi era stato sottoposto al giudice (
Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 10.01.2014 n. 405 - link a http://renatodisa.com).

EDILIZIA PRIVATA: Compravendita immobiliare. Difetti di costruzione dell'immobile: la S.C. ''sposta'' i termini per la denuncia.
Il termine di un anno per la denunzia dei gravi difetti di costruzione dell'immobile non coincide con la manifestazione esteriore bensì col momento in cui il danneggiato acquisisce un apprezzabile grado di conoscenza non solo dell'entità, ma soprattutto delle cause tecniche, al fine di individuare le responsabilità.
La sentenza impugnata ha dedotto la gravità dei difetti sulla scorta della ctu, definendoli difetti strutturali la cui eliminazione dovrebbe comportare la demolizione e ricostruzione dei solai, intervento costoso e disagevole.
La scoperta del vizio deve effettuarsi con riguardo tanto alla gravità dei vizi quanto al collegamento causale di essi con l'attività espletata.
La conoscenza completa, idonea a determinare il decorso del termine, dovrà ritenersi conseguita solo all'atto di acquisizione di idonei accertamenti tecnici.
Per giurisprudenza costante, ne deriva che il termine di un anno per la denunzia non coincide con la manifestazione esteriore bensì col momento in cui il danneggiato acquisisce un apprezzabile grado di conoscenza non solo dell'entità, ma soprattutto delle cause tecniche, al fine di individuare le responsabilità.
Il risarcimento del danno può essere addossato in via solidale sia all'azienda esecutrice dei lavori sia al professionista col ruolo di direttore degli stessi lavori quando si tratti di individuare il responsabile nel quadro di un rapporto oggettivamente unico (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.12.2013 n. 28202 - commento tratto da www.ispoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla demolizione di opera abusiva realizzata sul demanio marittimo.
Appare prima facie destituita di fondamento l’eccezione dedotta dalla difesa comunale in ordine ad un presunto difetto di giurisdizione del giudice adito, in quanto la domanda sarebbe diretta ad ottenere l’accertamento della proprietà privata dell’area e conseguentemente apparterrebbe alla giurisdizione ordinaria.
La prospettazione proposta appare invero ardita, oltre che smentita da consolidata giurisprudenza.
Oggetto del contendere è la legittimità di un ordine di rimozione di opere reputate abusive ed asseritamente realizzate su demanio marittimo; la causa petendi consiste pertanto nella legittimità di un provvedimento amministrativo, reputato lesivo della sfera giuridica del titolare dei beni in capo al quale, rispetto all’esercizio del predetto potere, sussiste un interesse legittimo oppositivo. La contestazione in merito alla natura dell’area assume all’evidenza carattere incidentale rispetto alla questione principale della legittimità o meno dell’ordine posto in essere dalla p.a..
Così rettamente ricostruito l’oggetto del contendere, assume rilievo dirimente il noto principio a mente del quale va riconosciuta la giurisdizione del giudice amministrativo per le ipotesi in cui non venga in contestazione principale l'appartenenza dell'area; in altri termini, in tutte le ipotesi in cui la controversia risulti incentrata sul contestato esercizio del potere e/o sulla violazione delle norme che disciplinano il procedimento amministrativo e non direttamente sulla stessa situazione proprietaria ben può il giudice amministrativo conoscere in via incidentale di questioni inerenti diritti soggettivi.
Peraltro, nel caso de quo, oltre a mancare qualsiasi domanda di accertamento, la contestazione riguarda in via diretta lo scorretto esercizio del potere, in specie sotto i tradizionali profili della violazione di norme e di figure sintomatiche di eccesso di potere, specie per difetto di motivazione ed istruttoria sui presupposti del potere, tra cui la natura dell’area demaniale la cui contestazione avviene invero proprio in merito alla carenza degli accertamenti istruttori e della conseguente esplicazione motivazionale delle ragioni poste a sostegno del provvedimento lesivo.
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E' illegittimo l'ordine di sgombero di un'area che si ritiene appartenere al demanio marittimo ove non preceduto dall'effettuazione dello speciale procedimento di delimitazione previsto dall'art. 32 Cod. Nav., che assume carattere indispensabile nel caso in cui ricorra un'oggettiva incertezza, da superare mediante un formale contraddittorio sull'esatta posizione dei confini, non assumendo alcuna rilevanza in proposito il richiamo effettuato alla determinazione catastale, la quale non può essere equiparata alla determinazione ex art. 32 Cod. Nav., ed in ogni caso non è sufficiente di per sé ad attribuire natura demaniale ad un'area.

... per l'annullamento decreto 12 del 10.07.2012 recante ingiunzione di rimozione opere abusive realizzate su sedime demaniale marittimo.
...
Con il gravame introduttivo del giudizio l’odierna parte ricorrente, quale proprietaria dell’immobile interessato e titolare dell’azienda ivi operante, impugnava il provvedimento di cui in epigrafe, avente ad oggetto ordine di rimozione di opere abusive asseritamente realizzate su demanio marittimo. Nel ricostruire in fatto e nei documenti la vicenda, avverso l’atto impugnato parte ricorrente muoveva le seguenti censure:
- violazione degli artt. 822 c.c. e 28 cod. nav., eccesso di potere per travisamento, errore di presupposto e difetto di istruttoria, in quanto l’area non appartiene al demanio marittimo essendo sul punto insufficiente la prova fornita con le risultanze catastali;
- analoghi vizi sotto altro profilo, dovendo in caso di dubbio comunque procedere preliminarmente, rispetto all’ordine di rimozione, alla demarcazione ex art. 32 cod. nav.;
- violazione dell’art. 3 l. 241/1990 per difetto di motivazione, anche a fronte degli esiti negativi per la p.a. del processo penale in cui è stata reputata indimostrata la natura demaniale dell’area de qua.
L’amministrazione intimata si costituiva in giudizio e, replicando punto per punto, chiedeva la declaratoria di inammissibilità per difetto di giurisdizione ed il rigetto del gravame.
Con ordinanza n. 345/2012 veniva accolta la domanda di misura cautelare e quindi sospesa l’esecuzione del provvedimento, nonché fissata udienza di discussione del merito per il giorno 10.10.2013, all’esito della quale la causa passava in decisione.
Preliminarmente, appare prima facie destituita di fondamento l’eccezione dedotta dalla difesa comunale in ordine ad un presunto difetto di giurisdizione del giudice adito, in quanto la domanda sarebbe diretta ad ottenere l’accertamento della proprietà privata dell’area e conseguentemente apparterrebbe alla giurisdizione ordinaria.
La prospettazione proposta appare invero ardita, oltre che smentita da consolidata giurisprudenza. Oggetto del contendere è la legittimità di un ordine di rimozione di opere reputate abusive ed asseritamente realizzate su demanio marittimo; la causa petendi consiste pertanto nella legittimità di un provvedimento amministrativo, reputato lesivo della sfera giuridica del titolare dei beni in capo al quale, rispetto all’esercizio del predetto potere, sussiste un interesse legittimo oppositivo. La contestazione in merito alla natura dell’area assume all’evidenza carattere incidentale rispetto alla questione principale della legittimità o meno dell’ordine posto in essere dalla p.a..
Così rettamente ricostruito l’oggetto del contendere, assume rilievo dirimente il noto principio a mente del quale va riconosciuta la giurisdizione del giudice amministrativo per le ipotesi in cui non venga in contestazione principale l'appartenenza dell'area; in altri termini, in tutte le ipotesi in cui la controversia risulti incentrata sul contestato esercizio del potere e/o sulla violazione delle norme che disciplinano il procedimento amministrativo e non direttamente sulla stessa situazione proprietaria ben può il giudice amministrativo conoscere in via incidentale di questioni inerenti diritti soggettivi (cfr. ora art. 8 cod. proc. amm.; per un caso analogo cfr. ad es. Cass. civ. sez. unite n. 27181 del 28.12.2007 e Tar Calabria n. 398/2010).
Peraltro, nel caso de quo, oltre a mancare qualsiasi domanda di accertamento, la contestazione riguarda in via diretta lo scorretto esercizio del potere, in specie sotto i tradizionali profili della violazione di norme e di figure sintomatiche di eccesso di potere, specie per difetto di motivazione ed istruttoria sui presupposti del potere, tra cui la natura dell’area demaniale la cui contestazione avviene invero proprio in merito alla carenza degli accertamenti istruttori e della conseguente esplicazione motivazionale delle ragioni poste a sostegno del provvedimento lesivo.
Nel merito il ricorso appare prima facie fondato, alla luce delle medesime considerazioni già evidenziate in sede cautelare con conseguente applicabilità dell’art. 74 cod. proc. amm., sotto l’assorbente profilo del difetto di istruttoria e di motivazione in ordine ai presupposti del potere esercitato.
Infatti, se per un verso, come già riconosciuto (cfr. docc. nn. 11 ss. di parte ricorrente) dal giudice penale (e neppure minimamente valutato in sede amministrativa), la p.a. ha fondato l’esercizio del potere su di un elemento presupposto non adeguatamente dimostrato, per un altro e connesso verso nessuna autonoma ed adeguata attività istruttoria risulta essere stata svolta prima dell’emanazione del provvedimento, neppure dopo le puntuali e contrarie considerazioni svolte dal giudice penale ovvero in contestazione delle osservazioni formulate dalla parte interessata.
Invero, il provvedimento impugnato appare gravemente carente nei termini dedotti, in quanto pur prendendo atto dell’esito negativo del versante penale, ha automaticamente ed inspiegabilmente svoltato sul versante amministrativo senza spendere alcuna parola ulteriore in merito alle ragioni che hanno spinto a perseguire la parallela strada in totale spregio di quanto emerso, fra l’altro, in sede penale.
In tale contesto di gravi carenze istruttorie e motivazionali, va altresì richiamato, anche a fini di indicazione circa la corretta strada da percorrere per l’esercizio del potere in questione, il condiviso e consolidato orientamento a mente del quale è illegittimo l'ordine di sgombero di un'area che si ritiene appartenere al demanio marittimo ove non preceduto dall'effettuazione dello speciale procedimento di delimitazione previsto dall'art. 32 Cod. Nav., che assume carattere indispensabile nel caso in cui ricorra un'oggettiva incertezza, da superare mediante un formale contraddittorio sull'esatta posizione dei confini, non assumendo alcuna rilevanza in proposito il richiamo effettuato alla determinazione catastale, la quale non può essere equiparata alla determinazione ex art. 32 Cod. Nav., ed in ogni caso non è sufficiente di per sé ad attribuire natura demaniale ad un'area (cfr. ex multis Tar Calabria n. 398/2010, Tar Lazio n. 13654/2010 e Consiglio Stato, sez. VI, 21.09.2006, n. 5567).
Nel caso di specie, oltre ad emergere una palese situazione di incertezza, anche a fronte degli esiti dei pregressi tentativi in sede penale, la p.a. non ha svolto alcun accertamento autonomo, né in termini di delimitazione né altrimenti.
Alla luce delle considerazioni che precedono, all’accoglimento del gravame consegue l’annullamento dell’atto impugnato (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.10.2013 n. 1255 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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